LO SCUDO DELLA FEDE (106)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XVI.

La fabbrica del volto umano dimostra Dio.

I. Se nel regno della ragione, la mano, come abbiamo veduto, è il primo ministro dell’anima, converrà dire, che il volto sia quasi il trono, ove questa, assisa, renda visibile a tutti la sua maestà. Noi, a restringerci sempre più, non contempleremo del volto, se non che la sua semplice superficie, e per dir così, la facciata. E perché quelle cinque parti che da Vitruvio (L . 1. c. 2) vengono ricercate in ogni ben inteso edifizio si possono comodamente ridurre a due, all’utile e al vago, queste due sole contempleremo anche noi nella fabbrica augusta del volto umano.

I.

II. E per incominciare dal vago. Quella bellezza che, quantunque si glori di dominare i cuori, come padrona, pure più veramente li violenta, quasi tiranna, rendendosi talora schiavi gli stessi re, anzi obbligandoli ad amare insin le catene di cui gli stringe, quella bellezza, dico, dove ha mai la sua sede, fuorché nel volto? Il sommo che l’antichità potesse o stimare o scrivere della divina eloquenza del suo Platone, fu l’affermare, che non sarebbe riuscito levare dal suo dire una parolina, e sostituirne un’altra, senza guastarla. Ma chi è uso a contemplare le operazioni della natura, saprà ben tosto conoscere, quanto più si adatti un tal vanto al lavoro stupendo del corpo umano, e singolarissimamente della sua faccia, in cui qualunque variazione di sito, di materia, di mole, di atteggiamento, benché lievissimo, pervertirebbe ad un tratto la simmetria di quel tutto che vien composto per altro da poche parti, ma tanto ben congegnate insieme e commesse, che sol mirato nella sua superficie rapisce i cuori; e li rapisce a tal segno che non sia sola la Grecia a mettersi tutta in arme per un bel viso. In ogni banda v’ha pur troppo dell’Elene idolatrate, per cui se non si guerreggia e si sparge sangue da’ popoli di lei cupidi, si guerreggia e si sparge sangue da’ privati di lei rivali; e si riduce a gloria l’offrire per quelle in vittima le ricchezze, la riputazione, la vita. Che vale, che il volto donnesco sia fior del campo, oggi pomposo, domani squallido? Questa pompa medesima fuggitiva comparisce pur su quell’atto agli amatori di lei tanto riguardevole, che se ella fosse un amaranto immortale, non pare che potrebbe stimarsi più dalla fantasia de’ mortali, poco meno che estatici in contemplarla.

III. Tornando all’intendimento: chi non crederebbe, che per lavorare un bello di tanto pregio non convenisse formare tutte le facce ad un’aria, e stamparle tutte con un’impronta medesima, disegnata a tal fine? E pure considerate una moltitudine assisa in un anfiteatro a qualche spettacolo: la scorgerete ad un’ora, in qualsisia di quei volti, simile a sé, in qualsisia differente. Una varietà sì mirabile potrà però essere un gruppo di tante larve schiccherate in sogno dal caso? Sappiamo, che questa è l’eccellenza più rara di un dipintor valoroso: l’avere tal dovizia di belle idee nella mente, che gli escano dal pennello delineate tutte in sembianze diverse. E vorremo poi riconoscere per casuale abbattimento di sconsigliata fortuna tutto quel bello insieme e quel vario di cui ammiriamo una sì piccola parte, qual pregio spesso non conceduto ad artefici, ancora grandi, sicché quei medesimi, i quali si stupiscano tanto di Michel Agnolo, quasi di un miracolo d’arte, perché non trovano nelle sue fatture due volti di un’istessa invenzione, possano poi persuadersi, che i lineamenti sì vari, con cui si forma giornalmente l’innumerabile stuolo dei visi umani, sian opera di un mentecatto, che ciecamente ne abbia divisato il conio, e più ciecamente lo vada mettendo in opera?

IV. Aggiungasi a tutto ciò la necessità che v’era di sì fatta dissimiglianza, e così ancora fluiscasi di capire, che ella non fu casuale, ma fu voluta studiosissimamente dalla divina sapienza, amica in tutto di unire al vago anche l’utile, come si fa nelle fabbriche ben condotte.

V. Per un verso parrebbe, che la natura avesse a volere, che tutti coloro i quali sono interiormente uniformi nella sostanza, non fosser poi esteriormente difformi negli accidenti: di maniera che, come poco sono diversi all’aspetto leone da leone, lupo da lupo, e orso da orso (Vid. Less. de prov. n. 108), così poco un uomo fosse diverso dall’altro, e massimamente da quei, di cui tanta parte egli reca nelle sue vene, col sangue stesso, e con gli spiriti stessi, come fa de’ progenitori. Ma fate pure ragione, che così accada: qual luogo avrebbe più tra noi la giustizia, la pudicizia, la pace, la fedeltà, che è la base di tutto il commercio umano? Il reo si spaccerebbe per innocente, l’assassino per custode, l’adultero per consorte, il bugiardo per veritiere; e la vita umana, priva di corrispondenza scambievole, e piena all’incontro di sospetti, di ombre, di ostilità, si ridurrebbe per minor malo alle selve, e piangerebbe tutto lo stato civile seppellito in un caos di confusione impossibile a ordinarsi.

VI. A tutti questi sconcerti si oppose la natura, con dare a ciascuno un volto sì proprio che come nell’alfabeto ad una semplice vista si distinguon tutte le lettere senza abbaglio, così ad una semplice occhiata si discernano ancora tutte le facce, contrassegnate di modo con l’aria loro, che la propria dell’una non sia dell’altra: onde il trovare due volti simili affatto, riesca quel miracolo tanto rado nelle storie, e però finto sì spesso ancor su le scene, per modo di più piacevole scioglimento.

VII. All’incontro, perché una tale diversità di sembianti poco montava al vivere solitario che fanno i bruti, poco fu in loro parimente curata dalla natura, sempre magnifica nel beneficare i suoi parti, ma non profusa; sì che il distinguere in una greggia vestita di una medesima lana un agnelletto dall’altro, è opera fra’ pastori di avvedimento più che volgare.

VIII. Una provvidenza pertanto sì proporzionata al bisogno, sì universale, e sì stabile, in tutte le generazioni, in tutte le genti, come può riferirsi ad un fortuito accoppiamento di particelle unite alla cieca; mentre un accoppiamento, qual saria questo, sì vago, sì utile, e pur sì impremeditato, non potrebbe essere né si frequente ad intervenire, né sì fedele a persistere? Nihil est ordine perfectum, quod possit sine moderatore consistere, dice Lattanzio (L. 1. c. 10): e però, essendo quell’ordine, che veggiamo nella presente costituzione delle facce, così aggiustato, non si può non rifondere in qualche sovrumano regolatore, da cui provenga.

IX. Quindi noi possiamo discorrere in questa guisa. Se la semplice superficie del volto umano è da se sola uno specchio bastevolissimo a rappresentarci la divinità, così provvida in voler vario l’aspetto di qualunque uomo e così vigoroso nell’ottenerlo, senza veruna alterazione però, né di sito, né di simmetria, né di numero in quelle parti uniformi che lo compongono: chi ci saprà dunque dire, quale specchio per una mente ben purgata saranno quel mondo di meraviglie che si racchiude nell’interno edifizio del volto stesso, dove son poste le officine de’ sensi, costituiti tutti dalla natura nel capo quasi nella parte più nobile, e per dir così, nella reggia del corpo umano? Io mi sono in vero proposto la brevità: con tutto ciò accade a me, come a coloro, che passeggiando lungo le spiagge del mare, non san tenersi, in vederlo posato e placido, di non salire anch’essi in qualche barchetta a costeggiarne lievemente le rive che sì lo invitano. Troppo mi peserebbe non dare almen di passaggio uno sguardo all’ orecchia ed all’occhio, due sensi per altro i più benemeriti delle scienze.

II.

X. L’orecchia, altra è interiore, altra esteriore. L’esteriore non fu fabbricata dalla natura né d’osso, né di pura carne, ma di una cartilagine foderata, come tutte l’altre membra, di pelle. Non fu ella formata d’osso, perché sì dura poteva infrangersi, massimamente nel posarvisi su quando l’uomo giace. E poi qual incomodo non avrebbe ella arrecato al dormir di lui? Né fu parimente formata di pura carne, perché non avrebbe potuto ritener sempre la sua giusta figura, quale si ricercava, e per la bellezza del volto, e per la bontà dell’udito, dove ogni alterazione è di grave sconcio (Honor. Fabr. de hom. 1. 2. prop. 57. Andr. Lauren. hist. anatom. 1. 11).

XI. In mezzo ell’ha un piccolo foro, il cui uso men nobile è il ripurgare il cerebro dalla bile. E pure questo medesimo fu grand’arte, perché quell’umore amaro ed appiccaticcio che colà piove, vaglia a trattenere ogni piccolo animaletto, che per quel foro s’insinui dentro l’orecchia, o vaglia a scacciarlo.

XII. Tortuosa, oltre a questo, è la via di entrarvi: e ciò perché l’aria, commossa da qualche suono troppo impetuoso, non offenda l’orecchia interna, percotendola tutta di primo colpo. E si termina detta via a quel che chiamano timpano dell’udito, che è una membrana gentilissima ed asciuttissima, soda e tesa a un circolo d’osso, come appunto la pelle sta sul tamburo. E gentilissima, affinché sia sensibile ad ogni piccola vibrazione di aria che porti suono. E asciuttissima, affinché sia sonora: altrimenti come sarebbe sonora, essendo umidiccia? Ed è soda e tesa, affinché si risenta a qualunque tremore, ma non s’infranga.

XIII. Nella superficie esteriore di questo timpano v’è un nervettino tirato come una corda e nell’interiore tre ossetti, chiamati stapede, incudine, e maglio, dalla figura che hanno e insieme dall’uso: il quale è, che il timpano mosso da quel tremore che in propagarsi nell’aria produce il suono, comunichi un tal tremore a quegli ossicelli, e per essi lo renda sensibile ai nervi quivi attaccati, e per i nervi al cerebro.

XIV. Quindi è, che di tali ossicelli fu con mistero il numero parimente e la qualità. La qualità, perché se non fossero stati ossi, ma nervi; o lenti, non avrebbono riportato il suono a ragione; o tesi, l’avrebbono con le loro ondazioni raddoppiato a un tratto e confuso. Il numero, perché se non erano più ossi, ma uno, questo per la sua lunghezza e sottilità si saria di leggieri potuto rompere. Che però fra mille osservazioni stupende che di vantaggio potrebbero da noi farsi in si bella fabbrica, basti questa, ed è, che essendo nei bambinelli di latte, poc’anzi nati, tutte le ossa tenere e tutte le membrane tenere e molli; quella membrana, e quegli ossetti che servono all’udito, son per contrario non meno duri ed asciutti che negli adulti, altrimenti tutti nascerebbero sordi. E non basta quest’arte sola a farvi conoscere il magistero divino della natura, che a tutto pensa con tanta minutezza, e a tutto provvede? Saremmo bene insensati se fossimo ancora noi di quei miserabili che studiando già tanto di opere naturali, sì poco ne conobbero l’architetto: Operibus attendentes,non cognoverunt quis esset artifex. (Sap. XIII).

III.

XV. Passiamo ora all’occhio, sole, per dir così, di quel cielo che spandesi in su la fronte: ma sole doppio, perché quand’uno per disgrazia si ecclissi, supplisca l’altro (Hon. Fabr. 1.2. de hom. prop. 39. Andr. Lauren. hist. anatom. 1. n. 11). Se il sole fu già chiamato visibile figliuolo del Dio invisibile, noi più aggiustatamente chiamerem l’occhio visibile ritratto dell’animo non visibile: dacché tra i sensi niun’altro più da vicino ci rappresenta la mente, di quel che faccia la vista, per l’oggetto che ella ha, fra tutte le qualità corporee nobilissimo, qual è la luce; per la moltitudine delle verità che ci scopre, poco meno che innumerabili; e per la certezza con la quale ce ne assicura: onde poté da Galeno chiamarsi l’occhio una particella divina, e credersi che in grazia di lui fosse dalla natura formato il cerebro.

XVI. Ora, come ammirabile è l’occhio nella sua operazione, così non è meno ancora nell’opificio. Sono due, come anzi accennai, ma sì che pendano da un istesso principio: ond’è che gli oggetti, benché mirati a due occhi, non appariscono due, ma appariscono unici, quali sono. La figura loro è rotonda, figura che aggiunge sempre una maggiore capacità, maggiore agilità, maggior robustezza. (Àristot. probìem. sect. 31. n. 11). Sono collocati in luogo sublime e concavo, perché doveano rimaner muniti per ogni lato, con la durezza degli ossi che li circondano, e con la propria lor guardia delle palpebre; ciò che mirabile mente tornava ancora in acconcio a conservare e a corroborar quegli spiriti con cui si forma la vista.

XVII. Che direm poi della simpatia stupendissima, per cui ambo si muovono sempre insieme, ed or s’abbassano a terra, or s’alzano al cielo, ora si volgono da qualunque banda lor piace, ma sempre uniformemente? Senza questa uniformità, la qual proviene dall’esser ambo gli occhi ligati, come già si diceva, a un principio stesso, il vedere sarebbe un perpetuo travedere; gli occhi sarebbero testimoni sempre discordi; gli oggetti apparirebbero  quando moltiplicati, e quando manchevoli; e più beato sarebbe l’avere un occhio solo, quale i poeti lo finsero ne’ Ciclopi, che averne due. La loro sostanza non ha in sé punto di carne (che è la ragione, per cui, benché sempre esposti al rigor dell’aria, non sentano freddo alcuno), ma è d’un’acqua pingue, qual conveniva che fosse affin di ricevere le immagini tramandate in lei dagli oggetti. (Aristot. problém. sect. 31. n. 7 et n. 23).

XVIII. E, se vogliamo calar più al particolare, questa sostanza medesima è composta di tre umori, dell’acqueo, del vitreo, e del cristallino, che è il centro dell’occhio ed è più stimabile di qualunque diamante. A questo servono gli altri due umori, o per difenderlo come fa l’acqueo, o per nutrirlo come fa il vitreo, che di più gli forma l’incastro, come l’anello d’oro lo formerebbe ad una splendida perla.

XIX. Ma perché un aggregato di particelle sì molli non poteva mantener lungamente la sua figura senza contrarre qualche piccola ruga che impedirebbe totalmente la vista; ecco la provvidenza della natura accorse a vestire ciascun umore con le sue pellicelle delicatissime, divisate con sì bell’arte, che le trasparenti, come la cornea, cingano l’occhio per ogni parte; e le opache, o gli dipingano il fondo nero, come fa la retina; o si aprali dinanzi all’umor cristallino in una piccola finestrella, come fa l’uvea; la quale, ora più di la luce, ed ora minore, come richiedesi a veder bene ogni oggetto. Finalmente queste sfere lavorate con un magistero sì fino, son date a volgere a sei coppie di muscoli, dei quali quattro son retti, due sono obliqui, affine di muovere gli occhi velocissimamente a qualunque lato, e far che si meritino di agguagliar le sfere celesti nella celerità quegli orbicelli terreni, che, come vivi, le avanzano senza pari nella bellezza. E quando mai, ad un improvviso rivolgersi, quelle sfere ci fan vedere tanta varietà di accidenti nel mondo grande, quanta nel piccolo ce ne fanno gli occhi vedere ad un sol variamento di guardatura, con cui ci dimostrano l’uomo da allegro mesto, da adirato placato, da ardito pavido, da superbo umiliato, da distratto attento, da dispettoso amorevole? Sono tante quelle mutazioni di scena che un mero guardo sa fare nel volto umano ad ogni momento, che niuno le può sapere, se non sa quanti sieno ancora gli affetti che posson ivi comparire a tenervi contrarie parti, quando meno sono aspettati.

XX. Questo è l’occhio, o per dir meglio, questo è un abbozzo di quell’inarrivabile maestria, che dà tanto da studiare alla notomia per un verso, ed alla prospettiva per l’altro, nel contemplare che fanno l’istituzione e l’ingegno di sì grand’opera. Ma frattanto chi può rammemorarsi di questo poco, senza esclamare ad un tempo: o Dio incomprensibile! Un velo certamente è la natura, che vi ricuopre; ma un velo trasparentissimo, che lascia uscire da ogni banda di voi mille e mille raggi a ferirci la mente indocile: che però siete incomprensibile sì, ma non incognoscibile a noi mortali, qual vi può calunniare chi a voi non pensi. Non meritano di avere in capo quegli occhi che da voi riceverono gli ateisti, se in qualunque uomo non riconoscono ad un tratto la provvidenza, solo che lo mirino in viso. Or che avverrebbe, se potessero i miseri penetrar quell’abisso di meraviglie, che internamente compongono il nostro corpo, e lo rendono albergo degno di un padrone sì eccelso, qual è l’anima ragionevole: e molto più quell’abisso di meraviglie che contiene in se l’istessa anima ragionevole, con le sue potenze, co’ suoi abiti, co’ suoi atti, con le sue specie, o fantastiche, o intellettive, che sempre acquista? Converrebbe allora, che lo stupore trapassasse in orrore giacche di manco non era pago Agostino, neppure nella contemplazione di un piccol seme, quando considerandone l’ampiezza della virtù, nella tenuità della mole, esclamò sbalordito, che inorridivasi: Horror est consideranti (Tract. 8. in Io.).

XXI. Non accade più dunque che l’empietà si affatichi con forza grande a scancellare dalla sua mente la cognizione di Dio. Fatica invano. L’artefice onnipotente ha stampato sì profondamente il suo Nome, non come Fidia già nello scudo della sua famosa Minerva, ma in qualsivoglia parte di noi medesimi, che se l’uomo non si distrugge di mano propria, non può arrivare a radere da sé la memoria del suo Fattore. Piuttosto dunque, abbandonata un’impresa che è sì disutile e si dannosa, si rivolga egli con miglior consiglio verso chi gli die quanto gode, e per rendergli omaggio si studi con più facilità e con più frutto d’imprimere le divine fattezze ne’ suoi costumi. Gli alberi anche fitti in terra altamente, seguono con la maggior parte de’ loro rami il sole da quella banda dove ne provano i raggi più vigorosi. E noi, insensati più d’una pianta, priva, se non di vita, almeno di senso, non verremo una volta a riconoscer quell’Essere primitivo che ci fu Padre, mentre frattanto anche a forza pendiamo verso di lui con quel peso di tutti noi, che per istinto innato ed incontrastabile a lui ci spinge?

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.