CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: FEBBRAIO 2020

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: FEBBRAIO 2020

FEBBRAIO è il mese che la CHIESA DEDICA alla SANTISSIMA TRINITA’

All’inizio di questo mese è bene rinnovare l’atto di fede Cattolico – autentico e solo – recitando il Credo Atanasiano, le cui affermazioni, tenute e tenacemente professate contro tutte le insidie della falsa chiesa dell’uomo vaticano-secondista e della gnosi modernista, protestante, massonica, pagana, atea, comunisto-liberista, noachide-mondialista, permettono la salvezza dell’anima per giungere all’eterna felicità. 

 IL CREDO Atanasiano

 (Canticum Quicumque * Symbolum Athanasium)

“Quicúmque vult salvus esse, * ante ómnia opus est, ut téneat cathólicam fidem: Quam nisi quisque íntegram inviolatámque serváverit, * absque dúbio in ætérnum períbit. Fides autem cathólica hæc est: * ut unum Deum in Trinitáte, et Trinitátem in unitáte venerémur. Neque confundéntes persónas, * neque substántiam separántes. Alia est enim persóna Patris, ália Fílii, * ália Spíritus Sancti: Sed Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti una est divínitas, * æquális glória, coætérna majéstas. Qualis Pater, talis Fílius, * talis Spíritus Sanctus. Increátus Pater, increátus Fílius, * increátus Spíritus Sanctus. Imménsus Pater, imménsus Fílius, * imménsus Spíritus Sanctus. Ætérnus Pater, ætérnus Fílius, * ætérnus Spíritus Sanctus. Et tamen non tres ætérni, * sed unus ætérnus. Sicut non tres increáti, nec tres imménsi, * sed unus increátus, et unus imménsus. Simíliter omnípotens Pater, omnípotens Fílius, * omnípotens Spíritus Sanctus. Et tamen non tres omnipoténtes, * sed unus omnípotens. Ita Deus Pater, Deus Fílius, * Deus Spíritus Sanctus. Ut tamen non tres Dii, * sed unus est Deus. Ita Dóminus Pater, Dóminus Fílius, * Dóminus Spíritus Sanctus. Et tamen non tres Dómini, * sed unus est Dóminus. Quia, sicut singillátim unamquámque persónam Deum ac Dóminum confitéri christiána veritáte compéllimur: * ita tres Deos aut Dóminos dícere cathólica religióne prohibémur. Pater a nullo est factus: * nec creátus, nec génitus. Fílius a Patre solo est: * non factus, nec creátus, sed génitus. Spíritus Sanctus a Patre et Fílio: * non factus, nec creátus, nec génitus, sed procédens. Unus ergo Pater, non tres Patres: unus Fílius, non tres Fílii: * unus Spíritus Sanctus, non tres Spíritus Sancti. Et in hac Trinitáte nihil prius aut postérius, nihil majus aut minus: * sed totæ tres persónæ coætérnæ sibi sunt et coæquáles. Ita ut per ómnia, sicut jam supra dictum est, * et únitas in Trinitáte, et Trínitas in unitáte veneránda sit. Qui vult ergo salvus esse, * ita de Trinitáte séntiat. Sed necessárium est ad ætérnam salútem, * ut Incarnatiónem quoque Dómini nostri Jesu Christi fidéliter credat. Est ergo fides recta ut credámus et confiteámur, * quia Dóminus noster Jesus Christus, Dei Fílius, Deus et homo est. Deus est ex substántia Patris ante sǽcula génitus: * et homo est ex substántia matris in sǽculo natus. Perféctus Deus, perféctus homo: * ex ánima rationáli et humána carne subsístens. Æquális Patri secúndum divinitátem: * minor Patre secúndum humanitátem. Qui licet Deus sit et homo, * non duo tamen, sed unus est Christus. Unus autem non conversióne divinitátis in carnem, * sed assumptióne humanitátis in Deum. Unus omníno, non confusióne substántiæ, * sed unitáte persónæ. Nam sicut ánima rationális et caro unus est homo: * ita Deus et homo unus est Christus. Qui passus est pro salúte nostra: descéndit ad ínferos: * tértia die resurréxit a mórtuis. Ascéndit ad cælos, sedet ad déxteram Dei Patris omnipoténtis: * inde ventúrus est judicáre vivos et mórtuos. Ad cujus advéntum omnes hómines resúrgere habent cum corpóribus suis; * et redditúri sunt de factis própriis ratiónem. Et qui bona egérunt, ibunt in vitam ætérnam: * qui vero mala, in ignem ætérnum. Hæc est fides cathólica, * quam nisi quisque fidéliter firmitérque credíderit, salvus esse non póterit.”

L’adorazione della Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, con il mistero dell’Incarnazione e la Redenzione di Gesù-Cristo, costituiscono il fondamento della vera fede insegnata dalla Maestra dei popoli, la Chiesa di Cristo, Sposa verità unica ed infallibile, via di salvezza, fuori dalla quale c’è dannazione eterna.  … O uomini, intendetelo quanto questo dogma vi nobiliti. Creati a similitudine dell’augusta Trinità, voi dovete formarvi sul di lei modello, ed è questo un dover sacro per voi. Voi adorate una Trinità il cui carattere essenziale è la santità, e non vi ha santità sì eminente, alla quale voi non possiate giungere per la grazia dello Spirito santificatore, amore sostanziale del Padre e del Figlio. Per adorare degnamente l’augusta Trinità voi dovete dunque, per quanto è possibile a deboli creature umane, esser santi al pari di lei. Dio è santo in se stesso, vale a dire che non è in lui né peccato, né ombra di peccato; siate santi in voi stessi. Dio è santo nelle sue creature: vale a dire che a tutto imprime il suggello della propria santità, né tollera in veruna il male o il peccato, che perseguita con zelo immanchevole, a vicenda severo e dolce, sempre però in modo paterno. Noi dunque dobbiamo essere santi nelle opere nostre e santi nelle persone altrui evitando cioè di scandalizzare i nostri fratelli, sforzandoci pel contrario a preservarli o liberarli dal peccato. Siate santi, Egli dice, perché Io sono santo. E altrove: Siate perfetti come il Padre celeste è perfetto; fate del bene a tutti, come ne fa a tutti Egli stesso, facendo che il sole splenda sopra i buoni e i malvagi, e facendo che la pioggia cada sul campo del giusto, come su quello del peccatore. Modello di santità, cioè dei nostri doveri – verso Dio, L’augusta Trinità è anche il modello della nostra carità, cioè dei nostri doveri verso i nostri fratelli. Noi dobbiamo amarci gli uni gli altri come si amano le tre Persone divine. Gesù Cristo medesimo ce lo comanda, e questa mirabile unione fu lo scopo degli ultimi voti che ei rivolse al Padre suo, dopo l’istituzione della santa Eucarestia. Egli chiede che siamo uno tra noi, come Egli stesso è uno col Padre suo. A questa santa unione, frutto della grazia, ei vuole che sia riconosciuto suo Padre che lo ha inviato sopra la terra, e che si distinguono quelli che gli appartengono. Siano essi uno, Egli prega, affinché il mondo sappia che Tu mi hai inviato. Si conoscerà che voi siete miei discepoli, se vi amate gli uni gli altri. « Che cosa domandate da noi, o divino Maestro, esclama sant’Agostino, se non che siamo perfettamente uniti di cuore e di volontà? Voi volete che diveniamo per grazia e per imitazione ciò che le tre Persone divine sono per la necessità dell’esser loro, e che come tutto è comune tra esse, così la carità del Cristianesimo ci spogli di ogni interesse personale ». – Come esprimere l’efficacia onnipotente di questo mistero? In virtù di esso, in mezzo alla società pagana, società di odio e di egoismo, si videro i primi Cristiani con gli occhi fissi sopra questo divino esemplare non formare che un cuore ed un’anima, e si udirono i pagani stupefatti esclamare: « Vedete come i Cristiani si amano, come son pronti a morire gli uni per gli altri! » Se scorre tuttavia qualche goccia di sangue cristiano per le nostre vene, imitiamo gli avi nostri, siamo uniti per mezzo della carità, abbiamo una medesima fede, uno stesso Battesimo, un medesimo Padre. I nostri cuori, le nostre sostanze siano comuni per la carità: e in tal guisa la santa società, che abbiamo con Dio e in Dio con i nostri fratelli, si perfezionerà su la terra fino a che venga a consumarsi in cielo. – Noi troviamo nella santa Trinità anche il modello dei nostri doveri verso noi stessi. Tutti questi doveri hanno per scopo di ristabilire fra noi l’ordine distrutto dal peccato con sottomettere la carne allo spirito e lo spirito a Dio; in altri termini, di far rivivere in noi l’armonia e la santità che caratterizzano le tre auguste persone, e ciascuno di noi deve dire a sé  stesso: Io sono l’immagine di un Dio tre volte santo! Chi dunque sarà più nobile di me! Qual rispetto debbo io aver per me stesso! Qual timore di sfigurare in me o in altri questa immagine augusta! Qual premura a ripararla, a perfezionarla ognor più! Sì, questa sola parola, io sono l’immagine di Dio, ha inspirato maggiori virtù, impedito maggiori delitti, che non tutte le pompose massime dei filosofi.

3

Te Deum Patrem ingenitum, te Filium unigenitum, te Spiritum Sanctum Paraclitum, sanctam et individuam Trinitatem, toto corde et ore confitemur, laudamus atque benedicimus. (ex Missali Rom.).

Indulgentia quingentorum dierum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotìdie per integrum mensem precatiuncula devote reperita fuerit

(S. C. Ind., 2 iul. 1816; S. Pæn. Ap., 28 sept. 1936).

12

a) O sanctissima Trinitas, adoro te habitantem per gratiam tuam in anima mea.

b) Osanctissima Trinitas, habitans per gratiam tuam in anima mea, facut magis ac magis amem te.

c) O sanctissima Trinitas, habitans per gratiam tuam in anima mea, magis magisque sanctifica me.

d) Mane mecum, Domine, sis verum meum gaudium.

Indulgentia trecentorum dierum prò singulis iaculatoriis precibus etiam separatim (S. Pæn. Ap., 26 apr. 1921 et 23 oct. 1928).

16

a) Sanctus Deus, Sanctus fortis, Sanctus immortalis, miserere nobis.

b) Tibi laus, tibi gloria, tibi gratiarum actio in sæcula sempiterna, o beata Trinitas (ex Missali Rom.).

Indulgentia quingentorum dierum prò singulis invocationibus etiam separatim.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotìdie per integrum mensem alterutra prex iaculatoria devote recitata fuerit (Breve Ap., 13 febr. 1924; S. Pæn. Ap., 9 dec. 1932).

40

In te credo, in te spero, te amo, te adoro,

beata Trinitas unus Deus, miserere mei nunc et

in hora mortis meæ et salva me.

Indulgentia trecentorum dierum (S. Pæn. Ap., 2 iun.)

43

CREDO IN DEUM,

Patrem omnipotentem, Creatorem cœli et terræ. Et in Iesum Christum, Filium eius unicum, Dominum nostrum: qui conceptus est de Spiritu Sancto, natus ex Maria Virgine, passus sub Pontio Pilato, crucifixus, mortuus et sepultus; descendit ad inferos; tertia die resurrexit a mortuis ; ascendit ad cœlos; sedet ad dexteram Dei Patris omnipotentis; inde venturus est iudicare vivos et mortuos. Credo in Spiritum Sanctum, sanctam Ecclesiam catholicam, Sanctorum communionem, remissionem peccatorum, carnis resurrectionem, vitam æternam, Amen.

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotìdie per integrum mensem praefatum Apostolorum Symbolum pia mente recitatum fuerit (S. Pæn. Ap., 12 apr. 1940).

ACTUS ADORATIONIS ET GRATIARUM ACTIO PROPTER BENEFICIA, QUÆ HUMANO GENERI EX DIVINI VERBI INCARNATIONE ORIUNTUR.

45

Santissima Trinità, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, eccoci prostrati alla vostra divina presenza. Noi ci umiliamo profondamente e vi domandiamo perdono delle nostre colpe.

I . Vi adoriamo, o Padre onnipotente, e con tutta l’effusione del cuore vi ringraziamo di averci dato il vostro divin Figliuolo Gesù per nostro Redentore, che si è lasciato con noi nell’augustissima Eucaristia sino alla consumazione dei secoli, rivelandoci le meraviglie della carità del suo Cuore in questo mistero di fede e di amore.

Gloria Patri.

II. O divin Verbo, amabile Gesù Redentore nostro, noi vi adoriamo, e con tutta l’effusione del cuore vi ringraziamo di aver preso umana carne e di esservi fatto, per la nostra redenzione, sacerdote e vittima del sacrificio della Croce: sacrificio che, per eccesso di carità del vostro Cuore adorabile, Voi rinnovate sui nostri altari ad ogni istante. 0 sommo Sacerdote, o divina Vittima, concedeteci di onorare il vostro santo sacrificio nell’augustissima Eucaristia con gli omaggi di Maria santissima e di tutta la vostra Chiesa trionfante, purgante e militante. Noi ci offriamo tutti a voi; e nella vostra infinita bontà e misericordia accettate la nostra offerta, unitela alla vostra e benediteci.

Gloria Patri.

III. O divino Spirito Paraclito, noi vi adoriamo, e con tutta l’effusione del cuore vi ringraziamo di avere con tanto amore per noi operato l’ineffabile beneficio dell’Incarnazione del divin Verbo, beneficio che nell’augustissima Eucaristia  si estende e amplifica continuamente. Deh! per questo adorabile mistero della carità del sacro Cuore di Gesù, concedete a noi ed a tutti i peccatori la vostra santa grazia. Diffondete i vostri santi doni sopra di noi e sopra tutte le anime redente, ma in modo speciale sopra il Capo visibile della Chiesa, il Sommo Pontefice Romano [Gregorio XVIII], sopra tutti i Cardinali, i Vescovi e Pastori delle anime, sopra i sacerdoti e tutti gli altri ministri del santuario. Così sia.

Gloria Patri.

Indulgentia trium annorum (S. C. Indulg. 22 mart. 1905; S. Pæn. Ap., 9 dee. 1932).

Queste sono le feste del mese di:

FEBBRAIO 2020

1 Febbraio S. Ignatii Episcopi et Martyris  –  Duplex

                 1° Sabato

2 Febbraio Dominica IV Post Epiphaniam    Semiduplex Dominica minor

                  In Purificatione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. Classis

                  Festa dell’Arciconfraternita del Cuore Immacolato di Maria

3 Febbraio S. Blasii Episcopi  –  Feria

4 Febbraio S. Andreæ Corsini Episcopi et Confessoris    Duplex

5 Febbraio S. Agathæ Virginis et Martyris –  Duplex

6 Febbraio S. Titi Episc. et Confessoris  –  Duplex

7 Febbraio S. Romualdi Abbatis    Duplex

                  1° Venerdì

8 Febbraio S. Joannis de Matha Confessoris – Duplex

9 Febbraio Dominica in Septuagesima    Semiduplex II. classis

S. Cyrilli Episc. Alexandrini Confessoris Ecclesiæ Doctoris    Duplex

10 Febbraio S. Scholasticæ Virginis  –  Duplex

11 Febbraio In Apparitione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex majus

12 Febbraio Ss. Septem Fundat. Ord. Servorum B. M. V.    Duplex

14 Febbraio S. Valentini  –  Feria

15 Febbraio SS. Faustini et Jovitæ  –  Feria

16 Febbraio Dominica in Sexagesima  –  Semiduplex II. classis

18 Febbraio S. Simeonis Faustini Episcopi et Martyris    Feria

22 Febbraio In Cathedra S. Petri Ap. –   Duplex II. classis

23 Febbraio Dominica in Quinquagesima    Semiduplex II. classis

S. Petri Damiani    Duplex

25 Febbraio S. Matthiæ Apostoli  – Duplex II. classis

26 Febbraio Feria IV Cinerum  –  Semiduplex

28 Febbraio S. Gabrielis a Virgine Perdolente Confessoris    Duplex

SALMI BIBLICI: “DEUS ULTIONUM DOMINUS” (XCIII)

SALMO 93: “Deus ultionum Dominus”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR

13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 93

Psalmus ipsi David, quarta sabbati.

 [1]  Deus ultionum Dominus;

Deus ultionum libere egit.

[2] Exaltare, qui judicas terram, redde retributionem superbis.

[3] Usquequo peccatores, Domine, usquequo peccatores gloriabuntur?

[4] effabuntur et loquentur iniquitatem, loquentur omnes qui operantur injustitiam?

[5] Populum tuum, Domine, humiliaverunt; et hæreditatem tuam vexaverunt.

[6] Viduam et advenam interfecerunt, et pupillos occiderunt.

[7] Et dixerunt: Non videbit Dominus, nec intelliget Deus Jacob.

[8] Intelligite, insipientes in populo; et stulti, aliquando sapite.

[9] Qui plantavit aurem non audiet? aut qui finxit oculum non considerat?

[10] Qui corripit gentes non arguet, qui docet hominem scientiam?

[11] Dominus scit cogitationes hominum, quoniam vanae sunt.

[12] Beatus homo quem tu erudieris, Domine, et de lege tua docueris eum;

[13] ut mitiges ei a diebus malis, donec fodiatur peccatori fovea.

[14] Quia non repellet Dominus plebem suam, et hæreditatem suam non derelinquet:

[15] Quoadusque justitia convertatur in judicium, et qui juxta illam omnes qui recto sunt corde.

[16] Quis consurget mihi adversus malignantes? aut quis stabit mecum adversus operantes iniquitatem?

[17] Nisi quia Dominus adjuvit me, paulo minus habitasset in inferno anima mea.

[18] Si dicebam: Motus est pes meus, misericordia tua, Domine, adjuvabat me.

[19] Secundum multitudinem dolorum meorum in corde meo, consolationes tuæ lætificaverunt animam meam.

[20] Numquid adhæret tibi sedes iniquitatis, qui fingis laborem in præcepto?

[21] Captabunt in animam justi, et sanguinem innocentem condemnabunt.

[22] Et factus est mihi Dominus in refugium, et Deus meus in adjutorium spei meæ.

[23] Et reddet illis iniquitatem ipsorum, et in malitia eorum disperdet eos; disperdet illos Dominus Deus noster.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

Salmo da recitarsi pel mercoledì. Argomento è la Provvidenza di Dio, che non lascia di punire in fine i malvagi e rimunerare i buoni.

Salmo dello stesso David per il quarto giorno della settimana.

1. Il Signore è il Dio delle vendette: il Dio delle vendette opera liberamente.

2. Dà a conoscere come glorioso sei tu, o Giudice della terra: rendi la loro retribuzione a’ superbi.

3. Fino a quando, o Signore, fino a quando i peccatori anderanno fastosi?

4. Apriranno la bocca, e parleranno iniquamente; parleranno con arroganza tutti quelli che operano l’ingiustizia?

5. Signore, eglino hanno umiliato il tuo popolo, e hanno malmenata la tua eredità.

6. Hanno ucciso la vedova e lo straniero, e messi a morte i pupilli.

7. E hanno detto: Il Signore non vedrà, e non ne saprà altro il Dio di Giacobbe.

8. Intendete, o i più stupidi del popolo; o voi, stolti, imparate una volta.

9. Colui che piantò l’orecchia, non udirà? e quei che lavorò l’occhio, sarà senza vista?

10. Non vi condannerà forse colui che castiga le genti? che all’uomo insegna la scienza?

11. Il Signore conosce i pensieri degli uomini, e come son vani.

12. Beato l’uomo, cui tu avrai istruito, o Signore, e cui avrai tu insegnata la tua legge,

13. Per rendere a lui men duri i giorni cattivi, fino a tanto che sia scavata la fossa del peccatore.

14. Imperocché il Signore non rigetterà il popol suo, e non lascerà in abbandono la sua eredità.

15. Fino a tanto che la giustizia venga a far giudizio e (fino a tanto) che staran presso a lei tutti quelli che sono di cuore retto. (1)

16. Chi si alzerà per me contro i maligni o chi starà dalla parte mia contro di quelli che operano l’iniquità?

17. Se non che il Signore mi ha aiutato quasi quasi avrei avuto per mia stanza il sepolcro.

18. Se io diceva a te: Il mio piede vacilla e la tua misericordia, o Signore, veniva in mio soccorso.

19. A proporzione dei molti dolori, che prova il cuor mio le tue consolazioni letificarono l’anima mia.

20. Ha forse il tribunale d’iniquità qualche cosa di comune con te, che ci prepari travaglio nei tuoi comandamenti? (2)

21. Anderanno a caccia del giusto, e non danneranno il sangue innocente.

22. Ma il Signore è stato mio rifugio, e il mio Dio il sostegno di mia speranza.

23. Ed ei renderà ad essi la loro iniquità, e per la loro malizia gli sperderà; li manderà in perdizione il Signore Dio nostro.

(1) Finché la giustizia si volge in giudizio, fino a che il diritto sia riconosciuto come retto nel giudizio, finché il giudizio torni alla giustizia, da cui non avrebbe dovuto mai allontanarsi.

(2) Sarete voi come un giudice iniquo, voi che avete dato dei precetti difficili e che non avete disposto di osservare?

Sommario analitico (3)

(3) Questo salmo, come il Salmo LXXXI, contiene delle minacce contro i giudici iniqui che abusano del loro potere. Tra le opinioni supposte circa l’epoca alla quale far risalire la composizione di questo salmo, due sembrano le più verosimili. Una lo riporta ai tempi in cui Isaia e Michea fulminavano di anatemi contro i giudici iniqui ed avidi dei beni altrui (Is. X, Mich. III, VII), e secondo questa opinione questi giudici iniqui erano Israeliti. – L’altra opinione pone la composizione di questo salmo ai tempi delle incursioni degli Assiri nella Terra Santa ed è contro di questi che il salmista dirigerà i suoi lamenti (P. Emman, Essai sur les Psalmes.)..

Il Profeta parlando qui a nome del popolo cristiano, della Chiesa di Gesù-Cristo perseguitata, dopo aver posto in cima a questo salmo due grandi attributi di Dio, la potenza nell’esercitare le sue vendette e la libertà di esercitarla (1):

I. Prega Iddio Onnipotente di esercitare la sua giusta vendetta

1° Contro gli orgogliosi che si vantano ed applaudono i loro crimini (2-4);

2° Contro gli oppressori dei giusti, delle vedove, degli stranieri e degli orfani (5,6).

II. – Egli combatte l’empietà di coloro che negano la divina provvidenza (7):

1° Li accusa di follia (8);

2° Li persuade dell’errore con un ragionamento tratto dai doni che il Creatore ha fatto alla sua creatura e che deve possedere in un grado infinitamente superiore (9, 10);

3° Egli li accusa di vanità (11).

III. – Proclama felici i giusti, perché

1° Essi hanno Dio per dottore, – a) che li istruisce con la sua legge (12), – b) li preserva dalla rovina riservata ai peccatori (13), – c) non li rigetta lontano da sé (14), – d) li riunisce ai santi che saranno presso di Lui nel giorno del giudizio finale (15);

2° essi hanno Dio come difensore: – a) Egli si leva per essi contro i malvagi (16); – b) tende loro la mano perché non cadano nell’inferno (17); – c) la sua misericordia li sostiene  quando i loro piedi vacillano (18);

3° Essi hanno Dio per consolatore: a) Egli proporziona la grandezza delle consolazioni all’estensione ed alla moltitudine dei precetti (20); b) compensa la pena attaccata all’osservazione dei precetti (20).

4° Essi hanno Dio come sostegno:- a) necessario contro i malvagi che cospirano contro la loro vita (21); – b) potente, per servire loro da rifugio ed appoggio (22); – c) giusto, per far ricadere sui malvagi la pena delle loro iniquità (23). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-6.

ff. 1-6. – Ricordiamoci innanzitutto di questa verità, spesso ripetuta, che la Scrittura, attribuendo sovente a Dio la gelosia, la collera, il furore e la vendetta, parla agli uomini un linguaggio umano, per accondiscendere alla debolezza dei loro pensieri ed elevarli più facilmente alla maestà dell’Essere supremo. – Che cos’è il Dio delle vendette? Il Dio dei castighi. Voi mormorate senza dubbio perché Egli non punisce i malvagi. Non mormorate se non volete essere nel numero di coloro che Egli punirà. Un uomo ha commesso un furto; voi mormorate contro Dio, perché colui che vi ha derubato non muore. Esaminate se voi stessi non commettete furto. E nel caso in cui voi non ne commettiate, cercate di ricordare se ne abbiate mai commesso. Se ora siete il giorno, ripassate il tempo in cui eravate notte; se ora siete rafforzati nel cielo, ripassate il tempo in cui abitavate la terra. Forse troverete che nel passato siete stato colpevole di furto, e che un altro si irritasse del fatto che siete stato lasciato in vita malgrado il vostro latrocinio, e che la morte non vi cogliesse. Ma nello stesso momento dei vostri crimini, Dio vi ha lasciato in vita affinché poteste rinunciare ai crimini, e riguardate come dopo aver traversato il ponte della misericordia di Dio, non vogliate rivoltarlo dopo di voi. Ignorate dunque che mille altri devono passare là dove siete passato voi stesso? E potreste voi mormorare oggi, se colui che ha mormorato contro di voi fosse stato esaudito? E tuttavia ora voi desiderate che Dio punisca i malvagi; voi vorreste vedere morire questo ladro e mormorate contro Dio perché questo ladro non sia morto…  pesate sulla bilancia dell’equità un ladro ed un bestemmiatore. Voi dite ora di non essere un ladro, e sia; ma mormorando contro Dio, siete un blasfemo. Il ladro sorveglia il sonno di un uomo per rubargli qualcosa; e voi, voi osate dire Dio dorme e non vede ciò che l’uomo fa! Voi volete dunque che quest’uomo corregga la sua mano: cominciate a correggere la vostra lingua; voi volete che Egli corregga il suo cuore colpevole verso un uomo, cominciate a correggere il vostro cuore colpevole verso Dio, per timore che questa punizione di Dio che voi invocate, non cada dapprima su di voi quando Dio verrà. (S. Agost.). – Perché Egli verrà, verrà certamente e giudicherà coloro che avranno perseverato nella loro malvagità, che saranno stati ingrati verso la sua misericordia che li ha prevenuti ed ingrati verso la sua pazienza, che avranno ammassato contro se stessi un tesoro di collera per il giorno della collera e della manifestazione del giusto giudizio di Dio, quando renderà a ciascuno secondo le sue opere (Rom. II, 46) – (S. Agost.). – Il Dio delle vendette ha agito con libertà, ed in effetti non ha risparmiato nessuno nei suoi  discorsi; perché il Signore era allora nella debolezza della carne, ma anche nella forza della parola. Egli non ha fatto eccezione di persone nei confronti dei primi tra i Giudei. Cosa non ha detto contro di loro?  Cosa non ha detto loro in faccia? Egli non temeva nessuno nei suoi discorsi perché meritavano di essere risparmiati nei suoi giudizi; perché se si fossero rifiutati di ricevere il rimedio della sua parola, avrebbero ricevuto la sua sentenza di giudice. Perché? Perché Egli è il Dio delle vendette. Egli non li risparmiava nei suoi discordi, perché meritassero di essere risparmiati nel suo giudizio. Perché il profeta ha detto: « Il Dio delle vendette ha agito con fermezza; » e non ha risparmiato nessuno nelle sue parole. E Colui che non ha risparmiato alcuno nei suoi discorsi, nel momento di soffrire la sua Passione, risparmierà alcuno nel suo arresto, al momento di giudicare? Colui che non ha temuto nessuno nella sua umiltà, potrà temere qualcuno nella sua gloria? La fermezza dei suoi primi atti vi dice come Egli agirà alla fine del mondo (S. Agost.). – « La vendetta è mia, e sono Io che la farò, dice il Signore. » (Rom. XII, 19). – Dio, nell’esercizio della sua giustizia, agisce liberamente: « Io mi vendicherò, e qual è l’uomo che mi resisterà? » (Isai. XLVII, 3) – Per la ragione stessa che la vendetta gli appartiene, Dio agirà liberamente e sovranamente, cioè in Dio; in Dio senza considerazioni, o piuttosto al di sopra di ogni considerazione; in Dio che, nell’ultimo giudizio che renderà agli uomini, non avrà né condizioni da distinguere, né nessuno verso cui aver riguardi, perché Egli verrà per vendicare gli abusi che avranno fatto gli uomini delle loro condizioni, e per punire le attitudini criminali che hanno avuto per le loro persone (Bourd. Jugem. De Dieu.) –  È un avvertimento dato a coloro che giudicano la terra, il levarsi al di sopra di coloro che si giudicano elevati sopra gli altri per la loro dignità o la loro potenza. – Non è con l’impazienza che il giusto debba domandare a Dio di far brillare la sua potenza contro coloro che lo opprimono, ma con un sincero amore della giustizia e per chiudere la bocca a coloro che, vedendo i peccatori glorificarsi con insolenza, potrebbero dubitare della Provvidenza di Dio. – Altra ragione c’è per domandare a Dio che arresti l’insolenza dei peccatori, affinché l’impunità non li renda ancor più criminali. Effetti funesti di questa impunità nei crimini sono: umiliare tutti coloro che possono elevarsi al di sopra degli altri: affliggere gli innocenti, opprimere i deboli o per interesse, o per la crudele soddisfazione di far loro del male. (Dug.). « Elevatevi, voi che giudicate la terra, rendete agli orgogliosi quello che hanno meritato. » Cosa significano queste parole? È la predizione di un profeta e non l’ordine di un audace. E non è in effetti se non perché il Profeta ha detto: « Elevatevi, voi che giudicate la terra, », che il Cristo, obbedendo al Profeta, è resuscitato per venire in cielo; ma è perché il Cristo voleva farlo che il Profeta l’ha predetto … « Rendete agli orgogliosi ciò che essi hanno meritato. » Qual sono gli orgogliosi? Coloro che non contenti di fare il male, vogliono pure difendere i loro peccati … Chi è orgoglioso? Colui che si rifiuta di far penitenza con la confessione dei suoi peccati alfine di poter ottenere la sua guarigione con l’umiltà. Chi è orgoglioso? Colui che pretende di attribuirsi il poco di bene che trova in lui e che ne rifiuta il merito alla misericordia di Dio. Chi è orgoglioso? Colui che, pur attribuendo a Dio le sue bone opere, insulta coloro che non ne fanno abbastanza e si eleva al di sopra di essi. (S. Agost.). – Ma quando renderà a ciascuno la pena che ha meritato? Nell’attesa i malvagi trionfano, i malvagi si danno all’allegria, i malvagi bestemmiano e fanno tutto ciò che è male. Ne siete colpiti? Cercate il malvagio con amore e non riprendetelo con orgoglio. Ne siete colpito? Il salmista compatisce la vostra pena, e cerca con voi, non per ignoranza, ma cerca con voi ciò che sa, per farvi trovare in lui ciò che voi non sapete. Così, colui che vuol consolare qualcuno non può sollevarlo dal suo abbattimento che a condizione di partecipare al suo dolore. Egli piange dapprima con lui e lo consola con parole di consolazione … ma in questo salmo, lo Spirito di Dio, benché sappia ogni cosa, cerca con voi e pronuncia in qualche modo le vostre parole: « … Fino a quando i peccatori si glorieranno,  risponderanno e terranno il linguaggio dell’iniquità? Fino a quando coloro che commettono l’ingiustizia ne sosterranno la lingua? » – Contro chi parlano se non contro Dio, coloro che dicono: A cosa ci serve vivere così? Perché i malvagi conservano la vita, questi uomini immaginano che Dio non sappia quel che facciano … « Fino a quando risponderanno ed avranno un linguaggio iniquo? » Il profeta menziona qui tutte le loro cattive opere. Che significa: essi risponderanno e parleranno con linguaggio di iniquità? Essi avranno sempre qualche cosa da rispondere in opposizione ai giusti. Un giusto viene a loro e dice: non commettete l’iniquità. Perché? Per paura che ne moriate. Ma io ho già commesso l’iniquità, eppure non sono morto. Un altro al contrario non ha fatto che opere di giustizia; perché Dio lo ha punito severamente? Perché egli soffre? Ecco la risposta dei malvagi. Essi hanno sempre una risposta pronta; e siccome Dio li risparmia, essi trovano in questa pazienza di Dio degli argomenti di risposta. Dio li risparmia per un motivo: essi rispondono su di un altro punto, sulla vita che viene loro lasciata. L’Apostolo dice perché Dio li risparmia, ed egli spiega così le cause della pazienza divina: « … Pensate voi dunque, voi che agite così, che sfuggirete al giudizio di Dio e disprezzate dunque le ricchezze della sua bontà e della sua longanimità? Ignorate che la pazienza di Dio ha per scopo di condurvi alla penitenza? Ma voi, per la durezza del vostro cuore, per l’impenitenza del vostro cuore, ammassate contro di voi un tesoro di collera per il giorno della collera e della manifestazione del giusto giudizio di Dio che renderà a ciascuno secondo le sue opere (Rom. II, 3, 6.). Cosi dunque Dio estende la sua longanimità e voi estendete la vostra iniquità; Dio avrà un tesoro di misericordia eterna per coloro che non avranno disprezzato la sua misericordia, il vostro tesoro sarà un tesoro di collera, e ciò a cui vi esponete giorno dopo giorno, lo troverete in un sol colpo; voi ammassate pezzo su pezzo, ma troverete un mucchio enorme. Non vi rassicurate sulla poca gravità dei vostri peccati di ogni giorno, perché queste sono piccole gocce che formano i fiumi. (S. Agost.). Vedete qui la concatenazione del male: colui che ha un linguaggio colpevole è come necessariamente indotto a fare del male; perché la bocca parla dell’abbondanza del cuore, ed una coscienza corrotta si spande in discorsi criminali (S. Girol.).

II. 7 – 11

ff. 7-11. – È il linguaggio degli atei e degli empi di professione, ma è pure il linguaggio nelle loro opere diversi Cristiani, che provano così bene che non sono convinti che Dio penetri il fondo dei cuori con la sua luce e che ci sia una conoscenza esatta di tutte le loro azioni e di tutti i loro pensieri. – Questi atei, questi empi difficilmente tornano indietro. Poiché essi sono tanto più insensati perché credendosi saggi – ed anche perché trattano gli altri con estremo disprezzo – è raro e quasi impossibile che possano divenire veramente saggi. – « Come, colui che ha formato l’orecchio non ascolta? E colui che ha fatto gli occhi è cieco? » L’orecchio che Dio ha formato nell’uomo non intende, e l’occhio non vede che ad una certa distanza; occorre che l’oggetto sia loro presente; ma Dio, posto a qualunque distanza, intende molto distintamente tutto ciò che si dice fin nel fondo del cuore; Egli vede chiaramente tutto ciò che accade nei luoghi più reconditi, o piuttosto, è presente dappertutto (Dug.). –  Perché non pensate che Egli è tutta la vista, tutto l’udito, tutta l’intelligenza, che i vostri pensieri gli parlano, che il vostro cuore gli scopre tutto, che la vostra coscienza è la sua sorvegliante ed il suo testimone contro voi stessi? E tuttavia sotto questi occhi così vivi, sotto questi sguardi così penetranti, voi vi rallegrate senza inquietudine del piacere di essere nascosto; voi vi abbandonate alla gioia e vivete riposati tra le vostre delizie criminose, senza pensare che Colui che ve le proibisce e vi ha lasciato tante volte impunito, verrà qualche giorno inopinatamente a turbare i vostri piaceri in modo terribile per i rigori del suo giudizio, quando meno lo aspettate. – Colui che insegna e punisce le nazioni, non le riprenderebbe? (Bossuet, “Serm., p. le I Dim. de l’Av., I^ p). È ciò che Do fa ora: Egli insegna alle nazioni; ecco perché ha inviato la sua parola per mezzo degli Angeli e dei Patriarchi, i suoi servi, una folla di araldi che precedono il Giudice in arrivo. Egli ha inviato il Verbo stesso, suo Figlio, ha inviato i servi di suo Figlio e suo Figlio stesso nei suoi servitori. Nell’intero universo è predicata la parola di Dio. Qual è il luogo ove non si dica agli uomini: rinunziate alle vostre antiche iniquità, e tornate sulla retta via? Dio vi risparmia affinché vi correggiate; Egli non vi ha punito ieri affinché oggi viviate nel bene. Egli insegna alle nazioni, non le riprenderà mai? Egli non intenderà dunque al suo tribunale coloro ai quali insegna? Non giudicherà forse coloro ai quali ha insegnato dapprima la sua parola e nei quali ha sparso la sua semenza? Se frequentate una scuola, riceverete senza mai rendere? Voi ricevete dal maestro quanto vi danno i suoi insegnamenti; il maestro vi confida ciò che vi insegna, e credete che egli non esigerà quando sarà venuto per voi il momento di renderglielo?  Forse credete che, venuto questo momento, non abbiate da temere il colpo? Noi dunque riceviamo ora, e più tardi saremo condotti davanti al Padrone per pagargli tutti i nostri debiti passati, cioè per rendergli conto di tutte le cose di cui noi ora prendiamo l’anticipo. E che, colui che insegna le nazioni non le riprenderà forse, Lui che da la scienza all’uomo? Colui che vi fa sapere, non saprebbe Egli stesso, che è Colui che dà la scienza all’uomo? (S. Agost.). – Tutti i pensieri e tutta la scienza dell’uomo che Dio non dà, non sono che vanità. La scienza che non entra nel cuore, queste luci che non vengono che dallo spirito, non ispirano che vani pensieri, non fanno che gonfiare e servono piuttosto a farci condannare che salvare. – Lasciamo dunque i nostri pensieri poiché sono vani, e prendiamo i pensieri di Dio, poiché essi sono la saggezza medesima. (S. Agost.).

III. – 12-23.

ff. 12-15. – Felici coloro ai quali Dio apre non solo l’orecchio del corpo per parlargli esteriormente, non solo l’orecchio dello spirito, per dargli la conoscenza, ma pure l’orecchio del cuore per ispirargli l’amore. – Dio è dottore dei giusti, li istruisce: – 1° come un padre: « Il Signore vostro Dio vi ha istruito come un padre insegna al figlio suo, affinché osserviate i comandamenti del Signore vostro Dio, e camminiate nelle sue vie e lo temiate; (Deut. VIII, 5, 6); – 2° come guida nella via che Egli ordina di seguire: « Io sono il Signore tuo Dio che ti insegna ciò che è buono e ti dirige nella via che percorri; » (Isai. XLVIII, 17); – 3° come il maestro degli atleti che si preparano al combattimento. « la sua unzione tutto vi insegna; » (I Giov. II, 27); – 4° come nostro Salvatore. « la grazia di Dio nostro Salvatore si è rivelata a tutti gli uomini, per insegnarci a rinunciare all’empietà, ai desideri del secolo, ed a vivere nel secolo con temperanza, con giustizia e con pietà. » (Tit. II, 11, 12). – Tale è uno dei mirabili effetti della divina dottrina, addolcire l’amarezza che prova il giusto vedendo e soffrendo le persecuzioni degli empi. Nessun riposo è più dolce durante i cattivi giorni di questa vita, nessun fondamento più solido in sicurezza dell’ultimo giorno, che è propriamente il cattivo giorno dei peccatori, che la conoscenza pratica dell’amore della legge di Dio. – Per quanto tempo sarà necessaria questa consolazione? Fino a quando sarà scavata questa fossa nella quale gli empi saranno precipitati. Allora tutti i mali saranno rivoltati dal lato dei malvagi, i giusti non avranno più bisogno di consolazione, perché non avranno più pene. La prosperità del peccatore è una fossa che si scava da sé sotto i suoi piedi. Più è elevato nel mondo, più questa fossa è profonda. (Bellarm., Dug.). Dio, per effetto della sua giustizia recondita, risparmia una uomo che sa peccatore ed empio, e per questo fatto che Dio lo risparmia, la sua impunità lo gonfia ancor più d’orgoglio. Egli si crede elevato ben in alto e cade, cade a motivo di questa impunità che gli ha fatto credere di essere grande; egli considera la sua felicità come un’elevazione, e Dio invece la chiama “fossa”. Una fossa precipita nell’abisso, lungi dall’elevare al cielo; ecco perché i peccatori orgogliosi, che credono di salire verso il cielo, non fanno che affossarsi sotto terra. Al contrario gli umili, che sembrano abbassarsi fino a terra, si elevano al cielo (S. Agost.). – « Perché il Signore non respingerà il suo popolo. » Egli lo esercita e non lo respinge. Che dice in effetti la Scrittura in un altro luogo? « … perché il Signore corregge colui che Egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio. (Ebr. XII, 6). » Egli lo riceve dopo averlo punito, e voi dite che lo respinge? Noi vediamo gli uomini agire nello stesso modo verso i loro figli: talvolta li lasciano vivere a modo loro, i figli di cui essi disperano, ma puniscono coloro nei quali hanno buone speranze; quanto a coloro, al contrario, dei quali non sperano di domare i vizi, li lasciano vivere secondo la loro volontà. Ma il padre rigetta dalla sua eredità il figlio che lascia vivere secondo la propria fantasia, mentre castiga il figlio al quale riserva la sua eredità. Così, quando Dio flagella suo figlio, che corre a sottomettersi alla mano del Padre che lo colpisce, punendolo come Padre, gli insegna a meritare la sua eredità. Egli non rigetta la successione del figlio che castiga, ma lo punisce perché sia degno di raccoglierla (S. Agost.). – Questo stato di cose – dice il Profeta – durerà fino al giorno in cui la giustizia che si era mostrata molto più come una potenza passiva che come una potenza attiva, si formulerà nel Giudizio supremo (Bellarm.) – La stessa verità che è uscita dalla bocca di Gesù-Cristo, ci giudicherà nell’ultimo giorno. C’è conformità tra l’uno e l’altro stato: così come l’avrà pronunziata, così apparirà per pronunciare la nostra sentenza; questo sarà il precetto che diventerà una sentenza. Là essa sembra apparire come in un pulpito per insegnarci; là, come in un tribunale per giudicarci; ma essa sarà la stessa nell’uno e l’altro caso. Ma come è nell’uno e l’altro caso, tale deve essere nella nostra vita; perché chiunque non sia d’accordo con la regola, essa li respinge e li condanna; chiunque viene a scontrarsi con questa rettitudine inflessibile, bisogna che essa li rompa e li distrugga. (Bossuet, I° Serm. P. le D. de la Pass.). – Applicatevi ora a possedere la giustizia, poiché non potete ancora possedere il giudizio. Occorre che dapprima possediate la giustizia; ma la vostra giustizia sarà cambiata essa stessa in giudizio. Questa giustizia, gli Apostoli l’hanno posseduta e l’hanno portata gli ingiusti. Ma cosa ha detto loro il Signore: « voi sarete seduti su dodici troni e giudicherete le dodici tribù di Israele (Matth. XIX, 28). » – La loro giustizia sarà dunque cambiata in giudizio. In effetti, chiunque sia giusto quaggiù non lo è che per meglio sopportare i suoi mali con pazienza: che sopporti dunque il tempo della sua passione e verrà in giorno in cui eserciterà il giudizio. Ma perché parlare dei servi di Dio? Il Signore stesso, che è il Giudice di tutti i viventi e di tutti i morti, ha voluto essere giudicato per primo, per giudicare poi, « fino a che la giustizia sia cambiata in giudizio; ora, coloro che la possiedono hanno il cuore retto. »  Chi sono coloro « che hanno il cuore retto? » Coloro che vogliono ciò che Dio vuole. Ora Dio risparmia i peccatori, e voi volete che Dio perda da ora i peccatori? Il vostro cuore non è retto, la vostra anima è depravata, dal momento che voi volete una cosa e Dio un’altra. Dio vuole risparmiare i malvagi e voi non volete sopportare i peccatori? Come ho già detto, voi volete una cosa e Dio un’altra: prendete il vostro cuore e raddrizzatelo verso Dio. Astenetevi dunque dal voler curvare la volontà di Dio sulla  vostra, ma correggete la vostra volontà secondo quella di Dio. La volontà di Dio è come una regola: se avete, io suppongo, piegato una regola, ove trovare di che raddrizzarvi? Quanto alla divina volontà, essa resta nella sua integrità, è una regola immutabile. Intanto che la regola sia intatta, voi avete di che applicarvi per raddrizzare ciò che in voi non è retto, ma cosa vogliono gli uomini? È poco che la loro volontà sia tortuosa, essi vogliono addirittura piegare la volontà di Dio secondo i desideri del loro cuore, e fare che Dio agisca secondo la loro volontà, mentre essi stessi devono agire unicamente secondo la volontà di Dio (S. Agost.). 

ff. 16, 17. – Questi due versetti, avvicinati l’uno all’altro, racchiudono un grande e triste insegnamento: essi dipingono molto bene quel che succede continuamente in questo mondo, quando si tratta di lottare contro i malvagi, di resistere agli operatori d’iniquità. Una voce coraggiosa si eleva: un uomo giusto e fermo si mette davanti per sostenere questa lotta, per organizzare quella resistenza; egli fa appello agli uomini di cuore che sa che amano la verità e vogliono il trionfo del buon diritto. Sforzi vani! Qualche voce appena risponde alla sua voce: egli resta solo o quasi per sostenere il combattimento del Signore; e se il Signore non viene Egli stesso in suo soccorso, soccomberebbe certamente all’ingiustizia trionfante (Rendu). – Sant’Agostino ringraziava Dio di avergli perdonato i peccati che aveva commesso, e di averlo preservato dai peccati che non aveva commesso. Io attribuisco alla vostra grazia – diceva confessando la propria miseria ai piedi del Signore – di non aver commesso tutto il male he io potevo fare. Non c’è Santo in cielo che non possa dire, come il Profeta: « Se il Signore non mi avesse protetto, io sarei diventato ben presto preda dell’inferno. » La debolezza dell’uomo, senza l’appoggio di Dio, è estrema; la corruzione dell’uomo, senza il rimedio della grazia di Dio, è un male incurabile. Cosa troviamo fuori da Dio? Gli altri uomini e noi stessi. Se riposiamo sugli uomini, cadiamo con essi; se ci appoggiamo a noi stessi, acceleriamo da noi stessi la nostra caduta. Ed allora – diceva ancora con tanta saggezza Sant’Agostino –  se voi mettete la vostra speranza negli uomini, vi umiliate in maniera indegna; se lo ponete in voi stessi, vi elevate temerariamente; l’una e l’altra è cosa ugualmente perniciosa. Colui che si abbassa come schiavo si arrampicherà sempre, e colui che si leva come temerario farà una caduta deplorevole (Berthier.) – Dio non vi lascia tempo ad altre cose terribili in fondo alla nostra anima. L’accesso di qualche tentazione straordinaria, il risveglio fortuito di qualche passione  per lungo tempo dormiente, o infine un raggio di luce soprannaturale emanata da Dio, è sufficiente per rivelare ai nostri sguardi delle cavità sconosciute che rivelano nuovi elementi di peccato, è rende evidente il fatto che noi portiamo in noi immense riserve di peccato sconosciuto. Le sagge disposizioni di una Provvidenza piena di misericordia, e l’impero della grazia che ci sostiene, possono solo impedire che divengano dei fatti compiuti. Oh! Come ci affrettiamo a cercare un riparo sotto il mantello di Dio, come ci attacchiamo ai suoi piedi quando, per la prima volta, penetriamo in questi misteri! Quale mirabile, felice sproporzione tra il male che noi facciamo ed il male che siamo capaci di fare, che qualche volta siamo stati pure talvolta sul punto di commettere! … Se un imperatore pagano ringraziava Dio tutti i giorni per le tentazioni che allontanava da lui, quanto non dobbiamo noi ringraziarlo per i peccati che non abbiamo commesso?  (FABER, Progrès de l’ame dans la vie spir., c. XX.) – Il Profeta spiega in cosa consista questo soccorso di Dio che ha preservato la sua anima dal cadere nell’inferno. Se riconoscessi la mia infermità e me ne umiliassi, ben presto la vostra misericordia verrebbe in mio soccorso, illuminando la mia intelligenza, purificando il mio cuore, fortificando la mia volontà. (Bellarm.)

ff. 18. – Notate con Sant’Agostino queste parole, « … quando io ho detto », o « … se io dicessi »; poiché c’è una infinità di uomini i cui piedi vacillano nella via della salvezza; ma essi non lo dicono, non confessano la loro debolezza, non riconoscono il pericolo che li minaccia. Dio conosce i nostri mali, ma – dice il santo Dottore – Egli vuole che ne facciamo confessione: ama questa confessione, ama l’umiltà che accompagna questa confessione. Noi siamo scossi: è proprio dell’uomo. Dio ci appoggia: è il carattere di Dio. San Pietro cammina sulle acque, la paura lo prende, egli implora il soccorso di Gesù-Cristo, Gesù-Cristo gli tende la mano. La nostra forza dipende quindi solo da Dio, ma Dio esige da noi la persuasione della nostra debolezza. Una umile preghiera è la strada che conduce alla sua misericordia. (Berthier).

ff. 19-23. – È un paradosso sconosciuto a tutti coloro che non ne hanno fatta mai l’esperienza, che stando il corpo nel dolore, l’anima possa essere piena di consolazione e di gioia! San Paolo ne è un testimone fedele quando scriveva con santo trasporto: « Io sono pieno di consolazione e ricolmo di gioia in mezzo a tutte le mie tribolazioni, e nella misura che le sofferenze di Gesù-Cristo abbondano in noi, le nostre consolazioni abbondano pure mediante Gesù-Cristo. (II Cor. I, 5). –  La grandezza delle ricompense è in proporzione alla grandezza delle tribolazioni; tante ferite, tante corone; io non ho versato che una lacrima, non ho meritato che una consolazione; io ne ho versato dieci, sarò consolato dieci volte (S. Girol.). – Si, in questa valle dei nostri mali, che Davide chiama eloquentemente una valle di lacrime, in questo torrente di Cedron, dove il Salvatore del mondo è passato come noi, e dove noi ogni giorno beviamo l’acqua triste e turbolenta della nostra vita, la felicità non è una sconosciuta, neanche un’assente. Essa ha attraversato con l’uomo, quando l’uomo cadde, la soglia perduta dell’Eden, e dopo sessanta secoli, bandita come noi, essa erra con noi nel mondo, compagna sacra dei nostri infortuni e concittadina del nostro esilio. Ad essa non è permesso mostrarsi costantemente né interamente alla nostra vista, ma non le è impedito scegliere un’ora e donarcela. Un giorno o l’altro essa batte alla nostra porta, si siede al focolare deserto o pieno e con uno dei suoi sguardi, gettato sul nostro cuore, ne tira fuori questa lacrima unica ove noi leggiamo ciò che essa sia. Lacrime di madri che ritrovano i loro figli dopo assenze e disavventure! Lacrime del viaggiatore che saluta al mattino le coste della patria per tanto tempo perduta! Lacrime degli eroi tra la vittoria e la morte! Lacrime del giusto tra i brividi della coscienza! Lacrime di Agostino che parla di Dio a sua madre sulle creste delle onde che lo riportano a Cartagine! Quante non ne racconteremo, e quante altre ne ignoriamo, perché il cuore dell’uomo sì profondo per la miseria, lo è altrimenti pure per la felicità. La miseria gli viene da un accidente, la felicità dalla sua natura e dalla predestinazione: « Prendete forse posto sulla sedia dell’iniquità voi che avete messo per noi travaglio nei precetti? » Il profeta vuol dire: Alcun ingiusto prende parte nella vostra sede e mai Voi avrete una sede di iniquità. Egli rende poi conto del motivo per il quale giudica così: «Voi che avete messo travaglio nei precetti. » Io comprendo – egli dice – che voi non prenderete mai parte alla sede dell’iniquità perché Voi non ci avete risparmiato. Ecco perché non risparmiando Dio i suoi fedeli allo scopo di istruirli, il profeta ha detto: « Voi componete per noi il dolore nell’insegnamento » … Voi formate – egli dice – un insegnamento con il dolore, vale a dire: voi ci procurate dolore nell’insegnarci. Come il dolore può essere un insegnamento per voi? Quando siete punito da Colui che è morto per voi, che non vi ha promesso la felicità in questa vita, che non può ingannarci e che non vi dà quaggiù tutto ciò che voi cercate. Cosa vi darà? E dove ve lo darà? Quanto sarà grande ciò che vi donerà Colui che non vi dà nulla quaggiù che vi istruisce e del dolore ne fa un insegnamento? Quaggiù il lavoro è la vostra lotta, ma vi è ugualmente permesso il riposo. Fate attenzione che soffrirete quaggiù, ma riflettete al riposo che è promesso. Se poteste farvene un’idea, voi vedreste che il vostro lavoro non è la compensazione di questo riposo … Non siate pigri nel lavoro un solo istante, e voi vi rallegrerete per tutta l’eternità. Dio vi donerà la vita eterna, pensate che al prezzo di quel lavoro voi dovete comprarlo. Ciò che Io ho – vi dice Dio – è da vendere, compratelo. Che cos’è che occorre comprare? Il mio riposo è da vendere, compratelo con la forza del lavoro. – Il santo Profeta dà immediatamente un memorabile esempio di volontà rigorosa del Padre celeste, alla quale bisogna sottomettersi: i malvagi cospireranno contro la vita del giusto, e condanneranno il sangue innocente. Questa sottomissione è in se stessa molto difficile, ma innanzitutto i malvagi non avranno potere se non quello che Dio loro concede. È dunque la volontà di Dio e non quella dei malvagi che occorre vedere nelle afflizioni con cui essi ci infliggono; per questo essendo stato il Giusto per eccellenza perseguitato e condannato, coloro che vogliono partecipare alla sua gloria devono stimarsi felici di partecipare alla sue sofferenze (Rendu) – « Ma il Signore è diventato il mio rifugio. » Voi non avreste mai cercato questo asilo se non avreste avvertito il pericolo, e vi siete trovati nel pericolo alfine di ricorrere a questo asilo. Ecco come Dio ci invia le sofferenze per istruirci: Egli permette che i malvagi ci perseguitino, e queste persecuzioni ci fanno cercare un asilo in Lui. Mentre noi gioiamo delle prosperità mondane, noi non pensiamo a questo asilo; perché chi si ricorda di Dio gustando le soddisfazioni della vita presente? Bisogna che svaniscano le speranze del secolo, perché rivivano le speranze di Dio. Bisogna quindi provare delle disgrazie, per dire come il Profeta: « Dio è divenuto il mio asilo, Dio è diventato l’appoggio della mia speranza. » Non c’è che la speranza mentre siamo sulla terra. Noi speriamo, non gioiamo. Ma non tralasciamo di sperare, perché abbiamo un garante che non ci inganna; già Egli ci consola, stempera i mali che proviamo; mette, in una parola, un sostegno alla nostra speranza (S. Agost., Berthier). – « Egli farà ricadere su di essi la loro iniquità. » Giusta e ordinaria Provvidenza di Dio, è quella di punire i malvagi da se stessi e far ricadere su di loro la propria malizia. – « Egli li farà perire con la loro malizia. » Non è senza ragione che il Profeta dice: « per la loro malizia. » Mi ci viene del bene dal loro intervento, e tuttavia il Profeta parla della loro malizia e non del bene che essi procurano. Certamente è con il male che essi fanno che Dio ci prova e ci colpisca. A quale scopo Dio ci colpisce? In vista del regno dei cieli. Agendo così, Dio ci istruisce perché possiamo meritare la sua eredità eterna; e spesso ce la fa acquisire mediante i malvagi, per mezzo dei quali esercita e rende perfetta la nostra carità, che Egli vuole che noi estendiamo fin anche ai nemici (S. Agost.).

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (2)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (2)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) -P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov. Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900. E. THOMAS, V. G.

PRIMA PARTE

DELLA PRESENZA COMUNE ED ORDINARIA DI DIO IN OGNI CREATURA.

CAPITOLO II

Quanto questa presenza sia intima, profonda, universale.

Suoi diversi gradi.

I.

Quanto intima, profonda, profonda, universale sia questa presenza, è ciò che è difficile da concepire, ed ancor più difficile da esprimere. Noi conosciamo solo direttamente e immediatamente le cause create; e per quanto efficace possa essere la loro azione, esse non raggiungono mai l’intero essere. La causa creata modifica, trasforma il soggetto su cui si svolge la sua attività, operatur transmutando opera trasmutando, non crea; e di conseguenza, lascia sempre sotto di sé, nella profondità intima dell’essere, qualcosa che non dà, che non produce, e di conseguenza ove essa non è. Lo scultore, ad esempio, può estrarre da un blocco informe di legno o di marmo un capolavoro che sarà ammirato non solo dai contemporanei, ma anche dai posteri più remoti; ma per quanto potente, per quanto inventivo, per quanto creativo possa essere il suo genio, quando si tratta di realizzare esternamente l’ideale che ha concepito nel segreto della sua mente, ha bisogno di una sostanza materiale sulla quale il suo bulino possa essere utilizzato, una sostanza che egli prende ma non produce. La nostra stessa anima, così intimamente unita al nostro corpo, in qualità di forma sostanziale, che gli comunica l’essere, la vita, la sensazione, l’azione, e costituisce con essa un’unica sostanza, la nostra anima suppone tuttavia la materia che essa informa e che non viene da essa. –  La causalità divina non conosce queste barriere, essa è universale e si estende a tutto; sostanze, facoltà, abitudini, operazioni, tutto ciò che vi è di reale e positivo proviene da essa, tutto è opera sua, tutto, tutto, tranne il male e il peccato. Senza di essa, nulla può arrivare all’esistenza, nulla può esservi mantenuto, portans omnia verbo virtutis suæ (Hebr,, I, 3); senza la sua influenza attuale e immediata, nessun agente creato potrebbe agire: omnia opéra nostra operatus es nobis (Domine) Is., XXVI, 12; i nostri voleri più liberi non possono sottrarsi alla sua onnipotente azione: Deus est qui operatur in vobis et velle et perficere pro bonavoluntate (Philip. II, 13). Quindi, Dio, come prima causa, è presente ovunque, al centro, nel raggio e sulla circonferenza di ogni essere. Qualunque sia la natura dell’effetto prodotto e l’ordine al quale appartenga; sia che si tratti di un essere inanimato o di uno vivente, di un’anima da creare, preservare o giustificare, un dono naturale o soprannaturale da conferire, una facoltà di mettere in atto; in breve, non appena si trovi da una parte qualsiasi un effetto della causalità divina, Dio stesso vi si trova come agente. Quia nihil operari potest ubi non est…… necesse est, ut ubicumque est aliquis effectus Dei, ibi sit et ipse Deus effector1. . (S. Th., Contra Gent., 1. IV, c. XXI)  –  Questa modalità di presenza comune a tutti gli esseri, sostanzialmente la stessa ovunque, comprende tuttavia molti gradi, a seconda del numero e dell’eccellenza degli effetti prodotti, ovvero della maggiore o minore misura in cui ogni creatura partecipi alla perfezione divina. Così, come causa efficiente, Dio è presente in modo più perfetto, completo, pieno, nel mondo degli spiriti, piuttosto che in quello dei corpi, negli Angeli che negli uomini, nelle creature ragionevoli o viventi piuttosto che negli esseri non intelligenti o senza vita, nei giusti piuttosto che nei peccatori. Questo è ciò che Papa San Gregorio Magno insegna molto chiaramente: « Dio – dice – è dappertutto, ed intero dappertutto, perché Egli è in contatto con tutte le cose, anche se ha contatti diversi per cose diverse. Con le creature insensibili, ha contatti che danno l’essere senza vita; con gli animali, ha contatti che danno l’essere, la vita e la sensazione senza l’intelligenza; con la natura umana o angelica, ha contatti attraverso i quali dà sia l’essere, che la vita, la sensazione e l’intelligenza; con la natura umana o angelica, ha contatti attraverso i quali dà l’essere, la vita, la sensazione e l’intelligenza allo stesso tempo; e sebbene sia sempre simile a se stesso, tocca cose diverse in modo diverso » (S. Greg. M., In Ezech., 1.1, homil. VIII, n. 16.). – San Fulgenzio diceva dal suo canto: « Dio non è ugualmente presente in tutte le cose; perché se è dappertutto con la sua potenza, non è dappertutto con la sua grazia ». (S. Fulgent., Ad Trasim., 1. II, c. VIII.) E san Bernardo: « Dio, che è ovunque intero anche nella sua semplice sostanza, è tuttavia presente alle creature ragionevoli diversamente dalle altre; Egli è presente anche tanto nei buoni che nei cattivi, per la sua efficacia. Così, Egli è nelle creature non intelligenti in modo tale che esse non riescono ad afferrarlo. Gli esseri ragionevoli, al contrario, possono raggiungerlo attraverso la conoscenza, ma solo i buoni possono possederlo anche attraverso l’amore. È quindi solo nei buoni che Egli si trova nel modo da stare con essi con l’accordo delle volontà »  (S. Bern., homil. III, super Evang. Missus est). – Per comprendere il senso e la portata di queste parole, è necessario ricordare una bella dottrina mutuata dall’Angelo della Scuola dai Padri greci, in particolare da San Dionigi, che l’aveva tratta dagli scritti di Platone. Secondo la dottrina platonica, in accordo su questo punto con gli insegnamenti di fede, ogni essere creato è una partecipazione dell’essere divino, ogni perfezione crea una partecipazione alla perfezione infinita….. Così la nostra natura è una partecipazione della perfezione divina: Propria natura uniuscujusque consista secundum quod per aliquem modum divinam perfectionem partecipat  (Summa Theol, I, q. XIV, a. 6); la luce della nostra intelligenza, una partecipazione dell’intelligenza increata » (Ipsum lumen naturale rationis participatio quædam est divini luminis. » (S. Th., Summa Theol., I, q. XII, a. II, ad 3); la nostra vita, una partecipazione della vita di Dio. Insomma, tutto ciò che è buono, perfetto, positivo, che ha l’essere, in una parola, in qualunque creatura, tutto questo è una partecipazione dell’essere e bontà di Dio”. -Non dobbiamo concepire questa comunicazione che Dio fa di se stesso alle creature, come una divisione dell’essenza divina, come un frutto condiviso, i cui frammenti siano distribuiti; no, l’essenza divina mantiene la sua unità e la sua pienezza. Non bisogna al più immaginarlo come una vera e propria emanazione, un flusso, un’effusione della sostanza divina, come quando più flussi fluiscono da un’unica fonte, o quando un corpo caldo irradia intorno a sé ed impregna con il suo calore le cose che lo circondano; perché la bontà divina si diffonda all’esterno producendo esseri che gli somigliano, ma senza che prendano nulla dalla sostanza divina, nihil de substantiel ejus egreditur (S. Th. “Comment, in lib. de divinis Nom.”, c. II, lect. 6); è solo la sua somiglianza che passa nelle creature, così come il sigillo, lascia il suo segno nella cera, senza comunicargli nulla della sua sostanza.  – Questa partecipazione delle creature alla bontà divina non consiste quindi in una certa comunità dell’essere e della perfezione, questo sarebbe panteismo. Le creature hanno un proprio essere, una loro bontà, che è loro intrinseca, e che è la causa formale che le costituisce ciò che esse sono: ed esse non si riferiscono a Dio che come causa estrinseca: all’idea secondo la quale sono state create, alla causa efficiente che le ha prodotte, al fine al quale devono tendere. (S. Th.: Summa Theol, I, q. vi, a. 4). Non a caso i Padri, e san Tommaso al loro seguito, chiamano le creature degli “esseri per partecipazione”, entia per participationem, e le loro perfezioni, delle perfezioni partecipate. Servendosi di queste espressioni, essi avevano un duplice scopo: in primo luogo, segnare chiaramente la profonda differenza tra il Creatore e la creatura, o meglio l’abisso che li separa; in secondo luogo, suggerire che ogni essere creato dipende essenzialmente da Dio come sua causa esemplare ed efficiente. Infatti, chi dice “essere partecipato”, dice un essere finito, limitato, definito; perché partecipare a qualcosa, ad esempio ad un’eredità, è prenderne la propria parte e non possederla interamente; dice anche un essere preso in prestito, un essere contingente, ricevuto da altri, ed essenzialmente dipendente da una causa che gli è estrinseca; poiché dal momento che non è l’essere in se stesso in tutta la sua pienezza, l’oceano dell’essere; bensì una semplice ruscello o un rigagnolo di essere, ciò che possiede dell’essere non gli appartiene in virtù della sua stessa essenza, ma gli viene dall’esterno, poiché ogni ruscello presuppone una fonte che lo generi (S. Th., Contra Gent., 1. II, ch. xv.). Quindi, quando chiamiamo le creature degli esseri per partecipazione, vogliamo significare due cose: il primo è che le creature non possiedono l’essere in tutta la sua pienezza, ma che ne hanno solo una parte, una dose più o meno grande, ma essenzialmente finita e limitata; Il secondo è che questo essere limitato e vincolato non appartiene essenzialmente a loro, in virtù della loro stessa natura, ma è stato loro comunicato da una causa estrinseca, che non è altro che Dio; proprio come un ferro incandescente possiede il calore e la lucentezza del fuoco solo per azione di un agente esterno, e non in virtù della sua natura, ed è riscaldato solo per partecipazione. L’Essere divino, al contrario, non è un essere preso in prestito, un essere ricevuto da altri; Dio non lo deriva da nessuno, ma lo ha in virtù della sua stessa natura; Egli è quindi l’Essere che esiste da se stesso, Ens per se, l’Essere per essenza, Ens per essentiam, in contrapposizione all’essere contingente e dipendente da altri, Ens ab alio, ens per participationem. Così Egli è l’Essere per eccellenza, l’Essere stesso che sussiste da se stesso, ipsum esse per se subsistent, quindi l’Essere infinito, la pienezza dell’Essere, ipsa plenitudo essendi. Se Egli è la pienezza dell’Essere, nulla può esistere al di fuori di esso, che non derivi da Esso come dalla sua fonte e non è in Esso in modo sovraeminente; e tutto ciò che esiste fuori di Esso non è che l’essere semplicemente detto, ipsum esse simpliciter, cioè sono degli esseri, delle partecipazioni e delle imitazioni dell’Essere, entia per participationem  (S. Th., Contra Gent., 1. II,  C. XV.). Ciò che diciamo dell’Essere deve applicarsi anche a tutte le altre perfezioni. Tutto ciò che Dio è, lo è per sé stesso, per sua essenza, e quindi senza misura; così, non solo è intelligente, saggio, buono, amorevole, potente, ma è anche l’intelligenza e la saggezza stessa, la bontà, l’amore, la potenza infinita, la fonte di ogni intelligenza e di ogni bontà. La creatura, al contrario, può anche essere intelligente, saggia, buona, potente, ma non è l’intelligenza stessa, né la saggezza, né l’amore; queste perfezioni non ne costituiscono l’essenza, ma sono semplicemente o delle facoltà, o delle proprietà, o delle operazioni distinte dall’essenza e limitate rispetto ad essa; in una parola, sono delle perfezioni partecipate.

III.

Dopo le spiegazioni che abbiamo appena dato, sarà facile cogliere il pensiero del nostro Dottore angelico quando dichiara che Dio è in tutte le cose come la causa è negli effetti che partecipano alla sua bontà. Ciò significa che Dio sia presente alle creature come causa efficiente, innanzitutto con la sua operazione: perché ogni agente deve essere in contatto con il soggetto su cui agisce in modo immediato; in seguito con i suoi doni, che costituiscono il termine di questa operazione, cioè con le perfezioni create, finite, contingenti che Egli comunica agli esseri di questo mondo, e che sono altrettante imitazioni lontane, copie imperfette, partecipazioni analogiche dell’essenza divina. – In effetti, è caratteristica della causa efficiente il comunicare ai suoi effetti, in misura maggiore o minore, la perfezione che possiede, e di essere così in essi non solo con il contatto della sua virtù, nel momento stesso in cui opera e finché dura la sua operazione, ma anche per la sua similitudine; poiché è nella natura stessa dell’agente di produrre all’esterno qualcosa che gli assomigli, essendo la perfezione dell’effetto solo una riproduzione, una partecipazione, una somiglianza di quella della causa (S. Th., Contra Gent., 1. 1, c. XXIX). – Ora Dio è la causa universale di tutto ciò che esiste, perché tutti gli esseri di questo mondo sono gli effetti della sua potenza. Essi tutti devono quindi possedere in essi qualcosa di Dio, non una porzione della sua sostanza, bensì una somiglianza ed una partecipazione della sua bontà a mo’ di vestigio o per modalità di immagine. Deus est in omnibus, sed in quibusdam per participationem suæ bonitatis, ut in lapide et in aliis hujusmodi; e talia non sunt Deus, sed habent in se aliquid Dei, non ejus substantiam, sed similitudinem ejus bonitatis (S. Th., In Epist. ad Coloss., c. II, lect. 2). E poiché gli effetti dell’attività divina sono molto diversi nelle varie creature, poiché i doni divini sono distribuiti in modo molto disuguale, sia nell’ordine della natura che in quello della grazia, il risultato è che gli esseri che partecipano in modo più eminente ai benefici del Creatore sono così più vicini a Dio, più uniti a Dio, più ricchi di Dio. – Da parte sua, Dio, in qualità di agente, esiste in modo più perfetto nelle creature che ricevono dalla sua munificenza maggiori liberalità; poiché, essendo presente direttamente e immediatamente attraverso la sua operazione, Egli è di conseguenza più strettamente unito agli esseri in cui opera cose più grandi. Tanto alicui naturæ perjectius unitur (Deus) quanto in ea magis suam virtutem exercet (S. Th., Opusc. 6 (alias 3) ad cantorem Antioch., c. VI). Se la sua sostanza sì semplice, sì una, sì indivisibile, che non conosce né divisione né frazione, non può essere trovata da qualche parte senza che vi sia interamente, lo stesso non si può dire della sua onnipotente operazione e della sua virtù, che, libera di esercitarsi all’esterno nella misura in cui lo ritiene opportuno, ha di fatto con le varie creature, contatti infinitamente diversificati. La nostra anima ci fornisce un termine di paragone su questo punto. Presente nella sua interezza con la sua sostanza a tutto il corpo e a ciascuna delle sue parti che essa anima e vivifica, essa è per la sua virtù più specialmente, più pienamente, più perfettamente unita alla testa, dove si trovano tutti i sensi, che al resto del corpo. E questo è comprensibile. Dotato, com’è, di molteplici facoltà, essa ha bisogno, per esercitare le sue funzioni, di vari organi che non si incontrano affatto  in tutto il corpo e si trovano riuniti solo nella testa. Si può quindi dire in tutta verità che, presente interamente con la sua sostanza in tutto il corpo ed in ciascuna delle sue parti, essa è, per la sua virtù, principalmente ed eccellentemente nel cervello. Da qui le parole di San Bernardo: Anima cum in toto sit corpore, ottimo tamen e singularius est in capite, in quo sunt omnes sensus (S. Bern., serm, in Ps. Qui habitat). Ora comprendiamo come, nonostante la sua perfetta semplicità, Dio possa essere più qui che là; e come la sua presenza, come causa efficace, anche se formalmente e specificatamente ovunque la stessa, possa, se la consideriamo nella sua estensione, variare quasi all’infinito, nella misura in cui l’attività divina venga esercitata; così che, più completa, più eccellente, più perfetta, è là dove i termini di questa attività sono essi stessi più numerosi e più elevati; questa presenza diminuisce e diminuisce sempre di più, man mano che gli effetti della potenza divina si allontanino sempre più dalla perfezione della loro causa. Per questo si dice di alcuni esseri che siano vicini a Dio, mentre altri ne sono lontani, non certo per un riavvicinamento materiale e locale, ma per similitudine o dissomiglianza di natura o di grazia (S. Th., Samma Theol., I, q. VIII, a. I, ad 3.). Così, mentre gli Angeli, questi specchi puri della Divinità, mundissima Divinitatis specula, come li chiama San Dionigi, in qualche modo abitano nel vestibolo della Santissima Trinità perché, essendo le più perfette delle creature, sono quasi vicine a Dio, gli esseri materiali, al contrario, sono relegati agli ultimi confini della creazione, e si trovano più lontani da Dio per dissomiglianza di natura. – L’uomo si trova in mezzo a queste due classi di esseri; meno unito a Dio degli spiriti puri, ai quali è inferiore per sua natura, è incomparabilmente più vicino a Lui delle creature non intelligenti, incapaci di elevarsi al loro Autore attraverso la conoscenza e l’amore; si dice anche che l’uomo è stato fatto ad immagine e somiglianza di Dio, Faciamus hominem ad imaginera e similitudinem nostram (Gen. I, 26), mentre gli animali, le piante e gli esseri inorganici non offrono più che una vestigia della Divinità. Ma è ancora al di sotto del mondo materiale che deve essere posto il peccatore, a causa della sua dissomiglianza morale con Dio « Ab eo (Deo) longe esse dicuntur, qui peccando dissimillimi facti sunt. » (S. Aug. 1. De præsentia Dei, c. V, n. 17.); ed è solo di questi che la Scrittura parla, quando dice che Dio è lontano dagli empi, Longe est Dominus ab impiis (Prov. XV, 29). Anche sant’Agostino, parlando della sua vita peccaminosa, diceva: “Ero allora lontano nella regione della dissomiglianza: « Longe eram in regione dissimilitudinis ». (S. Aug., Conf., 1. VII, c. X.  “La lingua cristiana ha reso familiari questo tipo di espressioni. Intendiamo parlare di qualcuno che ha a lungo trascurato i suoi doveri religiosi e che langue nel peccato: si dice che vive lontano da Dio; se viene a mostrare delle disposizioni migliori: si dice che si sta avvicinando a Dio. E queste espressioni sono piene di precisione; perché, secondo il pensiero di San Prospero, non è attraversando le distanze che ci si avvicini o ci si allontani da Dio, ma è per la somiglianza, o per la dissomiglianza a Lui. Non locorum intervallis acceditur ad Deum, vel receditur ab eo; sed similitudo facit proximum, dissimilitudo longinquum (S. Prosp., Sentent. 123).

IV.

Perciò, sebbene Dio sia dappertutto, e interamente dappertutto, non è ugualmente dappertutto; ci sono alcuni luoghi dove risiede in modo così particolare tanto da poter essere chiamati la dimora di Dio. E se vi chiedete quali siano questi luoghi privilegiati, san Giovanni Damasceno vi risponde: Sono quelli dove l’operazione divina è più manifesta: Dicitur locus Dei, ubi ejus manifesta fit operatio. (S. Joan. Damasc., De fide orthod., 1. I, c. XVI.). È così, che il luogo dove un tempo Jehowah si degnò di manifestarsi a Giacobbe con visioni singolari, viene chiamato “la casa di Dio e la porta del cielo”. Dalle meraviglie fatte per lui, dalla scala misteriosa che vide nel suo sogno (Gen., XXVIII, 17), dalle magnifiche promesse fattegli dal Dio dei suoi padri, il Patriarca riconobbe la particolare presenza della Divinità in mezzo al deserto, e gridò con un santo entusiasmo intrecciato con timore: « Il Signore è veramente in questo luogo, ed io non lo sapevo: Vere Dominus è in loco isto, et ego nesciebam » (Gen., XXVIII, 16). Sotto l’antica legge, Dio abitava in modo particolare nel tabernacolo costruito da Mosè, e più tardi nel tempio di Gerusalemme, dove la sua presenza si manifestò sotto forma di una misteriosa nuvola. – Come non riconoscere anche una particolare presenza della Divinità, anche solo come causa efficace, nei profeti, ai quali lo Spirito Santo rivelava il futuro, negli Apostoli e negli autori ispirati, che illuminava con la sua luce? Nei Santi, che ricevono più abbondantemente i benefici della grazia? Nella Chiesa, che Egli assiste per preservarla dal terrore, santificarla e difenderla dai suoi nemici? Ovunque, in una parola, dove la sua operazione si fa sentire di più e dove diffonde i suoi doni con più abbondanza, sia nell’ordine della natura che in quello della grazia? – E perché è nei cieli che l’azione di Dio appare più chiaramente e si esercita in un modo più splendido; perché è là che la munificenza divina non conosce più confini; Dio, secondo il pensiero di san Bernardo, vi si trova in modo così speciale che, comparativamente parlando, non è quasi più altrove; per questo diciamo nell’orazione  dominicale: Padre nostro che siete nei cieli (S. Bern., in Ps. Qui habitat, serm. I, n. 4.). – Cosa ci resta da concludere da tutto ciò che precede se non che Dio è in ogni essere ed in ogni luogo, non come il liquore è nel vaso che lo contiene, perché Dio non può essere contenuto dalle creature, ma è piuttosto Egli che le contiene conservandole (S. Th., Summ. Theol., I, q. VIII, a. I, ad a.); non come elemento costitutivo, come l’anima è nell’uomo (S. Th., Summa Theol, I, q. VIII, a. I.), e questo sarebbe panteismo; ma come causa, poiché l’agente è presente sul soggetto sul quale esercita l’azione immediata? È dappertutto, non direttamente e immediatamente con la sua sostanza, benché non sia assente da nessuna parte, ma per la sua operazione ed il contatto della sua virtù; perché da un lato la sostanza divina, essendo assoluta, non porta con sé né relazioni né rapporti con gli esseri del tempo; e dall’altro, essendo perfettamente semplice e priva di parti, non richiede di essere dispiegata nello spazio. Ma poiché nell’operazione di Dio, la virtù operativa e la sostanza non sono realmente distinte, bisogna riconoscere che dove c’è un effetto immediato della causalità divina, là Dio stesso è realmente e sostanzialmente presente (S. Th., Contra Gent., 1. IV, c. XXI). E poiché non c’è assolutamente nessuna creatura in cui Dio non eserciti la sua attività per preservarne l’essere e muoverla alle sue operazioni, ne consegue che Dio è ovunque, non solo con la sua azione o potenza, ma anche con la sua essenza.  Quando poi la Scrittura, parlando della Divinità, ce la rappresenta che riempie il cielo e la terra: Numquid non cœlum et terram ego impleo? Dicit Dominus (Ger. XXIII, 24), non dobbiamo prendere queste espressioni alla lettera, non più degli altri antropomorfismi di cui il testo sacro abbonda, e comprendere l’immensità divina per modo di estensione, come un oceano senza rive che contiene nel suo seno tutto ciò che esiste e trabocca da ogni parte del mondo creato; spetta agli esegeti e ai teologi dare, in tali circostanze, il vero significato recondito in una forma di linguaggio che lo Spirito Santo ha voluto usare per mettere se stesso alla portata di tutti. Così fece san Tommaso per il testo che stiamo esaminando: « Dio – egli dice – riempie tutti i luoghi, non nel modo di un corpo che si dice riempia ogni spazio bandendo ogni altra sostanza materiale, ma dando e mantenendo l’essere alle cose che riempiono lo spazio e là si trovano » (S. Th., Samma Theol., I, q. VIII, a. a.). E poiché l’essere e le altre perfezioni sono comunicate alle creature in gradi che variano notevolmente, dal granello di sabbia al serafino che occupa la sommità delle gerarchie angeliche, la presenza di Dio, come causa efficiente, coinvolge anche molti gradi, a seconda di quanto ogni creatura partecipi alla perfezione divina. Questo è ciò che san Tommaso ha voluto dare ad intendere con le seguenti parole, ora comprensibili a tutti: « Est unus communis modus quo Deus est in omnibus rébus per essentiam, præsentiam et potentiam, sicut causa in effectibus participantibus bonitatem ipsius » (S. Th., Somma Theol., I, q XLIII, a. 3).

https://www.exsurgatdeus.org/2020/02/04/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-3/

29 GENNAIO: SAN FRANCESCO DI SALES

29 GENNAIO: SAN FRANCESCO DI SALES

[A. CARMAGNOLA: STELLE FULGIDE – S. E. I. Torino, 1904

Omnibus omnia factus sum, ut omnes facerem salvos.

(1 Cor. IX, 21).

I.

Non vi ha certamente alcuno di sano intelletto, che non vegga la diversità immensa che passa fra l e conquiste fatte dai più celebri condottieri di eserciti e quelle fatte da Gesù Cristo. I più celebri condottieri di eserciti, quali ad esempio un Alessandro Magno, un Annibale, un Scipione, un Cesare, un Napoleone I conquistarono i corpi e la materia, Gesù Cristo conquistò i cuori e lo spirito; i più celebri condottieri di eserciti conquistarono tutto al più alcune nazioni, Gesù Cristo conquistò tutto il genere umano; i più celebri condottieri di eserciti nelle loro conquiste più che altro ingenerarono il terrore e l’odio. Gesù Cristo nelle conquiste sue ingenerò il conforto e l’amore. Ma una differenza anche più marcata tra le conquiste dei più celebri condottieri di eserciti e quelle di Gesù Cristo sta nei mezzi, di cui i primi ed il secondo si valsero. Perciocché mentre i primi per conquistare i popoli ricorsero alle armi, alla forza, alla violenza, il secondo non ricorse ad altro che alla parola dall’amore. Sì, Gesù Cristo venuto al mondo per illuminare coloro che giacevano nelle tenebre e nell’ombra di morte, predicò la sua celeste dottrina e persuase gli uomini ad accettarla e seguirla per mezzo di quella carità, con cui abbracciò nel cuor suo gli uomini d’ogni età e condizione, e piccoli e grandi, e giovani e vecchi, e ricchi e poveri, e dotti e ignoranti, e sani e infermi, e giusti e peccatori, e amici e nemici, per mezzo di quella carità, con cui si fece tutto a tutti e per tutti sacrificò la sua vita. Così, così Gesù Cristo ottenne in retaggio tutte le genti in conformità alla parola rivoltagli dal suo Padre Celeste: Et dabo tibi gentes hæreditatem tuam (Ps. II, 8). Ma i mezzi, di cui Gesù Cristo si valse egli per guadagnare le anime, volle pure che fossero i mezzi, di cui si avessero a valere mai sempre gli apostoli suoi, i suoi Vescovi, i suoi sacerdoti, i suoi missionari, i continuatori insomma dell’opera sua. « Andate, egli disse loro, in sostanza, andate, predicate il Vangelo a tutte le creature, insegnando a tutti quello che io ho insegnato a voi, e per rendere efficace la vostra predicazione siate a mia somiglianza pieni di carità adattandovi ai bisogni di tutti per tutti fare salvi; che anzi usate a tal fine il fior fiore della carità, cioè la dolcezza, la mansuetudine, l’umiltà imparando da me che sono mite ed umile di cuore ». E chi vi ha tra i veri Apostoli di Gesù Cristo, che a continuare quaggiù le sue grandi conquiste non abbia seguito questi suoi santi precetti? – Ma fra le schiere dei valorosi conquistatori di anime e fedeli esecutori delle norme a tal fine prescritte da Gesù Cristo, uno ve ne ha che oggi di preferenza attira a sé i nostri sguardi, e che anzi nell’esecuzione di tali norme sembra levarsi singolarissimo tra gli altri, il Santo cioè, che noi celebriamo come nostro Patrono, S. Francesco di Sales. Ed invero quella Chiesa, che nella infinita varietà delle orazioni da lei composte per interporre presso Dio la mediazione della infinita varietà de’ suoi santi ha saputo così mirabilmente innestare a ciascuna di esse le virtù caratteristiche ed i meriti speciali di ciascuno dei santi suoi, di qual tenore interpone ella la mediazione di Francesco di Sales. O Dio, ella prega, che alla salute delle anime il beato Francesco Confessore tuo e Pontefice hai voluto fatto tutto a tutti, ne concedi propizio, che per fasi della dolcezza della tua carità, indirizzandoci i suoi ammonimenti e suffragandoci i suoi meriti, impegniamo i gaudii eterni » . Così pertanto la Chiesa medesima ci mette in vista il singolare aspetto del nostro Santo e ce lo mostra a somiglianza e ad imitazione di Gesù Cristo grande conquistatore di anime per mezzo di quella dolce e soave carica da Gesù Cristo usata. Di modo che Francesco di Sales, come un altro dei più grandi conquistatori di anime, S. Paolo, può dire a tutta ragione: Omnibus omnia factus sum, ut omnes  facerem salvos. Per la qual cosa io penso che non potrei meglio compiere oggi il mio ufficio di recitare le lodi del nostro santo Padrone che seguendo le traccE, che la Chiesa istessa ci ha date nella stupenda orazione composta in suo onore. – Ma tu, o dolcissimo Francesco, mentre io ti andrò lodando, spargi qualche po’ della dolcezza del cuor tuo sulle mie labbra, affinché meno aspramente io possa soddisfare il soavissimo compito.

II

La missione di conquista, che S. Francesco di Sales doveva compiere, non poteva esser meglio indicata che da quel sogno al tutto meraviglioso» che ebbe Carlo Augusto di Sales. quando ancor giovane era suo compagno di studio. Gli sembrò, come egli stesso narrava al Santo, di essere sulla cima del Moncenisio, di ritorno dall’Italia, con la faccia rivolta verso settentrione. Quand’ecco vide uscire dal lago di Ginevra un’idra a più teste ed avvicinarsi a grandi passi verso il monte con orribili fischi. E già aveva sormontate le più erte rupi, allorché tutto ad un tratto fattosele incontro Francesco armato di una spada a due tagli l’arrestò nel suo cammino ed infertele molte e gravissime ferite la forzò a ritornare addietro e a rintanarsi colà, donde era uscita. – Ed in vero Francesco per conquistare le anime a Dio doveva assalire e combattere l’idra infernale dell’eresia di Calvino, che nella diocesi di Ginevra aveva invaso massimamente il Chiablese e gli toccava perciò valerci di una spada a due tagli, cioè della divina parola resa efficace dal sicuro possesso della scienza e dall’uso costante di una dolce carità. Ed ecco Francesco fin dagli anni giovanili attendere seriamente a far acquisto dell’una e dell’altra. Sia pur dunque che nel castello di Sales, dove aperse gli occhi alla luce del giorno, dalla sua virtuosa madre, insieme col leggere e lo scrivere, possa apprendere per tempo le verità di nostra santa Religione, e non superficialmente, come ai più dei figlioletti accade, ma con sodezza e profondità; sia pure che a La Roche e ad Annecy egli impari la lingua latina e le umane lettere per guisa da superare costantemente i suoi condiscepoli e riportare mai sempre nello studio i principali premi: ciò è troppo poco per poter vincere gli intelletti schiavi dell’errore e domare le ritrose volontà. A far tesoro perciò di una scienza più profonda e a radunare nella sua mente le più vaste e più utili cognizioni eccolo per volere del genitore e per disposizione di Dio recarsi a Parigi, ed ivi appresa anzi tutto la retorica applicarsi in seguito all’apprendimento della soda filosofia e della sacra teologia, e addentrarsi quanto più gli era possibile nei loro intimi penetrali, e dappoi immergersi nello studio della lingua ebraica, perché gli torni più facile capire a fondo il senso delle sante scritture. Eccolo, dopo essersi arricchito di gran sapere a Parigi, portarsi a Padova e sotto la disciplina del celebre Pancirolo profittare per tal guisa nella scienza del diritto canonico e civile da conseguirne la laurea col pubblico plauso dei professori e condiscepoli. Eccolo sotto la guida del buon padre della Compagnia di Gesù, Possevino, innamorarsi sempre più delle scienze sacre e sempre più internarsi nello studio della Divina Scrittura e della Sacra Teologia, valendosi perciò della Somma teologica di S. Tommaso, delle opere di S. Bonaventura e delle Controversie del Cardinal Bellarmino; eccolo da questi studi passare alla lettura dei Santi Padri e percorrere poco alla volta S. Giovanni Grisostomo, S. Agostino, S. Girolamo, S. Bernardo e più ancora S. Cipriano, il cui stile armonioso tanto si confà all’indole sua, e impinguarsi di quei forti pensieri e di quei dolci affetti, per cui la sua parola quanto prima riporterà i più splendidi e salutari trionfi in mezzo ai popoli. Tant’è, Francesco, benché ancor giovane secolare già ha intesa la voce di Dio, che lo chiama al sacerdozio e all’apostolato, ed egli sa troppo bene che le labbra del sacerdote devono custodire la scienza, e che dalla bocca di lui i popoli si faranno a ricercare la interpretazione della divina legge: Labia sacerdotis custodient scientiam, et legem requirent ex ore eius(Mal. II, 7); ed è perciò che con tanto ardore eifa acquisto della vera scienza.Dopo di che non c’è da far meraviglia che più tardi, passati già varii anni dopo i suoi studi,prendendo in Roma l’esame di Vescovo alla presenza del Sommo Pontefice, di otto Cardinali, diventi fra Vescovi e generali d’ordini religiosi, ed una gran moltitudine di altri illustri personaggi, e rispondendo a ben trentacinque sottilissime questioni,desse nondimeno sì chiare e sì sode risposte da destare in tutti la più alta ammirazione e da indurre il Pontefice a scendere dal trono, ad avvicinarsi a lui e ad abbracciarlo, dicendogli le parole della Sapienza: Bevi, figliuol mio. dell’acqua della tua cisterna e della viva sorgente de’ tuoi pozzi. Le tue acque scorrano al di fuori e diventino pubbliche fontane, ove tutti possano dissetarsi: Bibe, fili mi, aquam de cisterna tua et fluenta puteì tui; deriventur fontes tui foras, et in plateis aquas tuas divide(Prov. 1, l5, 16).

III.

Ma se la scienza è dote indispensabile a chi vuol essere apostolo e conquistatore di anime, non è né la prima né la sola: più di tutto importa la santità della vita, quella santità che altro non è alla fin fine che un grande e vero amore a Gesù Cristo, congiunto ad una grande e vera carità verso i prossimi. Or farà difetto a Francesco questa dote? Tutt’altro; questa sarà la precipua. Miratelo: ancor tenero angioletto trova il suo maggior piacere nell’essere condotto in chiesa e nello starvi in tale atteggiamento da ispirare a quei che lo guardano gran divozione; non balbettando ancora che a stento alcune parole staccate, è inteso a dire con grande meraviglia di tutti: « Il buon Dio e la mamma mi amano molto! »; fatto più grandicello raduna intorno a sé i fanciulli del vicinato, apprende loro le orazioni e le verità della fede, e conducendoli alla chiesa parrocchiale fa lor compiere il giro del battistero cantando il simbolo apostolico e poi li dirige verso il Santissimo Sacramento per adorarlo; giovane studente ponendo la pietà per base di tutto, si consacra alla cara madre Maria. si dà a frequentare i Sacramenti, a leggere buoni libri, ad ascoltare con assiduità la parola di Dio, a meditarla ben anche da se stesso, a vivere insomma interamente in Dio, con Dio, e per Iddio, prescrivendosi un regolamento di vita tutto proprio di un’anima provetta nella santità. Miratelo in seguito: già divenuto sacerdote e poi Vescovo con la più amabile divozione celebra ogni dì la santa Messa, recita il suo breviario, passa le ore intere a contemplare il nome di Gesù ed a ripetere: Viva l’Amor mio! Viva l’amor mio! Con la massima frequenza visita il Santissimo Sacramento dell’altare e con affetto di serafino il porta in processione e sempre riposa sul cuore amoroso del suo Diletto. Ma dove più rifulge la fiamma del suo amore si è nella condotta che tenne e nei sentimenti che ebbe, quando Iddio, essendo egli ancor giovane studente a Parigi, lo provò nel crogiuolo della tribolazione, permettendo che il nemico dell’uman genere gli desse la più gagliarda delle tentazioni. « È inutile, prese a dirgli il re delle tenebre, è inutile tutto il bene che tu vai facendo; perocché la tua perdizione con irreparabile decreto è già scritta nel libro di Dio ». E questa voce d’inferno risuonando del continuo al suo orecchio e su di essa fermando egli la sua riflessione; in mezzo alla più crudele ambascia che l’andava struggendo : « Eh già, ripeteva a se stesso, come pretendi tu, malvagio quale sei, di essere nel picciolo numero dei predestinati?… Ma dunque, o Signore, io dovrò un giorno andar lontano da voi? Oh amore! Oh carità! oh bellezza, alla quale ho consacrato tutti gli affetti miei, non avrò dunque a godere le vostre delizie? e dovrò rinunziare ad amarvi? e insieme con quella dei dannati dovrò unire la mia voce per bestemmiarvi e maledirvi? Ah! se questo avrà a succedere, che io non abbia un dì a vedervi, deh! date almeno questo sollievo al mio affanno: stabilite che io non abbia a bestemmiarvi e maledirvi mai ». Così gemeva il misero giovane per circa due mesi; ma alla fine, prima ancora che la Vergine lo liberasse poi del tutto da questo travaglio, che conchiuse egli con Dio? Udite e meravigliate, che ben ve n’ha ragione. « Se adunque, o Signore, egli disse, io non potrò più amarvi nell’altra vita, fate almeno ch’io metta a profitto per amarvi tutti gli istanti della mia breve dimora quaggiù, anzi concedetemi di guadagnarvi degli altri amanti più avventurati di me ». Oh preghiera del più grande eroe! Oh amor di Dio il più puro, il più ardente, il piò disinteressato! E non basta tutto questo per far conoscere di qual tempra fosse il cuore di Francesco? Ed ora qual meraviglia che egli fosse puro come un angelo, e che consacrato a Dio per man di Maria il fiore della verginale purezza lo mantenesse mai sempre illibato, anche in mezzo a gravi pericoli, cui scellerati compagni specialmente a Padova lo esposero! Qual meraviglia ch’egli fosse sì mortificato da sopportare con gioia ogni sorta di disagio e da andar ripetendo: Io non mi trovo mai a star così bene, come quando sto un poco male! Beati i crocifissi! Gettiamoci in mezzo alle spine delle difficoltà, lasciamoci passare il cuore dalla lancia delle persecuzioni, mangiamo l’assenzio, beviamo il fiele, poiché così piace al nostro benigno Salvatore? Qual meraviglia che egli fosse tanto e sì schiettamente umile, tanto e sì risolutamente staccato dai beni della terra, tanto e sì appassionatamente conforme al volere di Dio, tanto e si veramente buono?

IV.

Ma è tempo ornai che fornito di sì grandi doti egli si accinga di proposito alla grande impresa della salvezza delle anime, nel sacerdozio dapprima e nell’episcopato dappoi. Rinunzi adunque il padre suo di tentare più oltre ad espugnare il cuor del figlio perché si arrenda a unirsi in maritaggio con nobile e gentile donzella. Il valoroso Carlo Emanuele I di Savoia non faccia altre insistenze perché Francesco si adatti ad essere innalzato alla dignità senatoria; egli ha risoluto di entrar nella casa dei Signore e volendo essere ministro di lui e non altro non può patire d’essere intricato in negozi secolareschi. Eccolo pertanto arrivato alla meta sospirata: eccolo ornai nel campo delle sue conquiste. E qui spingiamoci senz’altro a contemplarlo nelle sue fatiche apostoliche. Sventurato Chiablese! da settant’anni ha rigettata la fede cattolica e geme miserabile schiavo dell’eresia calvinistica. L’augusto Duca Sabaudo, avendolo ridotto di nuovo sotto alla sua signoria, non vede il momento che la vera Religione torni a regnare fra quella gente, ben persuaso che non sarà fedele al suo principe, se continuerà a vivere ribelle alla Chiesa. Anche il Vescovo di Ginevra Monsignor Graniero arde di vivissima brama di tentare tare ogni mezzo per convertire quella regione, ma chi sarà mai quello tra i suoi sacerdoti, cui basti l’animo di recarsi colà, di imprendervi gravose fatiche, di sottostare a mille rischi e pericoli? Chi! Ah! se alla proposta ch’ei rivolge colle lagrime agli occhi ai preti della sua diocesi, a tal fine raccolti presso di sé, non v’ha alcuno che si faccia generosamente innanzi a dirgli: Eccomi, son qua io; vi sarà Francesco. Il quale benedetto dal suo Vescovo con grande effusione di affetto va, e se all’esterno non porta seco che il breviario, la corona e la sacra bibbia, dentro al cuore porta una tale carità, uno zelo così ardente della gloria di Dio e della salvezza delle anime, che non tarderà a far delle grandi conquiste. – Ah! è vero, arrivato al castello delle Allinghe, girando di là lo sguardo sul circostante paese discoprirà rovesciati a terra i sacri templi e i campanili, rovinati i monasteri, spezzate le croci, atterrato ogni segno dell’antica fede, giacche l’eresia a guisa di turbine furente ha ivi distrutto o profanato ogni memoria di nostra Religione. È vero, pur recandosi difilato a Tonone, nido principale degli eretici, cominciando ivi a predicar la parola, di Dio, da principio, si vedrà da tutti fuggito e posto in ludibrio. È vero, ogni sera sarà costretto ad uscire di quella città e compiere quattro miglia di aspro cammino per ricondursi alla fortezza delle Allinghe, e talora dovrà aprirsi la strada tra le nevi, e tal’altra strisciarsi carpone sopra una trave incrostata di ghiaccio per trapassare la Duranza, e qua smarrendo la via e respinto da ogni abituro serenare la notte sotto un cielo gelato, e là recarsi a gran ventura se può scampar dalla morte, a cui è ricerco, riparandosi dentro un forno ancor tiepido. È vero per un anno intero, pur andando e tornando ogni dì a Tonone, non ritrarrà alcun frutto dalla sua missione, e quei sconsigliati continueranno a fuggirlo: ma no, non verrà meno la carità che in fiamma il cuor di Francesco, quella carità che tutto sopporta, che tutto sostiene, che tutto spera, quella carità che induce l’apostolo a gridare: Impendam et superimpendar prò animabus vestris(2 Cor. XII, 15); mi sacrificherò e tornerò a sacrificarmi per le vostre anime, quella carità che lo sprona a farsi tutto a tutti per far tutti salvi: Omnibus omnia factus, ut omnes faceret salvos; e questa carità alfine trionfa. – O Chiesa di Ginevra, solleva la testa e indossa di bel nuovo le vesti della giocondità! E non odi suonar l’ora bramata della conversione de’ tuoi popoli? E non vedi i villaggi, le borgate, le città ritornare gaudenti alla fede di Cristo? E non scorgi rialzarsi i templi, ripiantarsi le croci, risorgere il culto della Religione Cattolica? Sì,i protervi si sono ammolliti. i duri si sono spezzati, i riottosi si son dati per vinti. Essi si son fermati alfine ad udire la parola di Francesco e questa parola li ha conquistati. Fremano pure di rabbia impotente i demoni, ma esultino di nuova gioia gli Angeli del cielo, che son ben settantadue mila gli eretici che Francesco ha convertiti. Oli trionfo! oh vittoria! oh conquista! E qual vanto maggiore potrà levare di sé un santo del cielo? Sì, al certo un gran numero di apostoli porranno render gloria a Dio per avergli guadagnate intere nazioni traendole dal paganesimo al Vangelo, ma rendergli gloria per avere convertiti un numero sì grande di eretici fra tutti i santi della Chiesa di Gesù Cristo finora solo Francesco di Sales il potrà, fattosi tutto anche agli eretici per fare salvi anch’essi: omnibus omnia factus, ut omnes faceret salvos.

V.

Ed ora stupiremo ancora se avendo riportati sì grandi successi nei paesi infetti dell’eresia, altri non inferiori ne riporti nei paesi cattolici, e a Digione, e a Grenoble, e a Lione, e a Parigi, dove con tanta insistenza lo si chiama per intendere la sua parola, e dove non solo da gente di umile condizione, ma da magistrati ed uffiziali, da prelati e religiosi, da re e da regine viene, ascoltato con grandissimo frutto? Stupiremo ancora se egli avendo ricercato con tanto ardore quelli che erano lontani dalla fede di Cristo, con lo stesso ardore siasi studiato di mantenere fermi nella stessa quei che già la possedevano, e se riconoscendo che a tutti era debitore non solo ai sapienti, ma eziandio agli ignoranti, sapientibus et insipientibus debitor sum (Rom. I, 14), andasse talora tra la gente ruvida e incolta, su nei paesi più alpestri, tra i poveri montanari per parlar loro di Dio, per innamorarli della vita cristiana, trascinandosi carpone di balza in balza, segnando il cammino di orme sanguigne, e non restando né per inclemenza di cielo, né per larghezza e rapidità di fiumi, né per profondi burroni, né per rigidezza di gelo? Stupiremo ancora che i poverelli, i mendici, gli infermi, gli storpi formassero la sua vera famiglia e non solo invadessero le sue stanze vescovili, ma fossero da lui stesso cercati nei loro abituri e largamente soccorsi? Stupiremo ancora che, a somiglianza del Divin Redentore, cui stavano tanto a cuore i fanciulli, anch’egli li amasse per tal modo da trattenersi affettuosamente con loro per infondere nelle loro tenere animucce l’amor di Dio e l’orrore al peccato, e discendere mai sempre, ogni domenica che potesse, nella sua cattedrale per far loro il catechismo? Stupiremo che le anime peccatrici fossero per tal guisa la sua passione da ricercarle con la massima sollecitudine, da accoglierle al suo seno pentite con la più viva gioia e affetto? e che però in gran numero traessero esse medesime a lui dai paesi più lontani, spinte dalla fama della sua grande carità? Stupiremo infine che le anime buone di ogni età, d’ogni sesso, d’ogni condizione, e giovani donzelle e sagge spose, e dame venerande e illustri cavalieri, e magistrati insigni e valorosi militari, e pii sacerdoti e sante religiose ricorressero tutti a lui per averlo a guida e moderatore della loro coscienza? e per virtù dei suoi ammaestramenti camminassero spediti nella via della perfezione? O Santa Francesca di Chantal come potrei io tacer qui il tuo venerato nome? E non sei tu che sotto la scorta di Francesco di Sales per i vari stati della vita salisti ben presto ai più alti gradi della santità? Non sei tu che ti prestasti nelle mani di lui docile strumento alla fondazione di quel sacro ordine della Visitazione, dove tante anime elette avrebbero trovato un nido di pace e di pietà, e di dove sarebbe uscita un dì l’innamorata e l’apostola del Sacro Cuore di Gesù, la beata Margherita Alacoque? O Francesca, tu sola basteresti a rendere immortale il Santo di Sales. Perché tu sola basti a mostrare di qual guisa ei sapesse coltivare e santificare le anime. Tant’è: Omnibus omnia factus, ut omues faceret salvos.

VI.

Ma chi può contener lo zelo di un cuore tutto infiammato d’amore per Dio e per gli nomini?’Chi può segnargli e misurargli i mezzi per glorificare l’uno e salvare gli altri? Non pago adunque di mettere a profitto la sua parola il nostro caro Francesco dia pur mano alla penna e a somiglianza di quel dottore del Vangelo, che cava fuori dal suo tesoro cose nuove e antiche, qui profert de thesauro suo nova et verterà (S. Matth. X III, 52) in un modo mirabilmente nuovo esponga alle anime di buona volontà l’arte antica appresaci dallo stesso Gesù Cristo di amare Iddio. E così egli fa. Ed ecco venir alla luce quell’amabile Filotea, che raffigurando quell’angelo, che guida il piccolo Tobia nel pericoloso cammino di questa vita, segna le vie più facili per andare a Dio e mostra a tutta prova quanto sia soave il giogo di Lui e leggiero il peso della sua legge. Ed ecco uscir fuori quel Teotimo, in cui il Santo, dipingendo senza avvedersene tutto il suo cuore, a guisa di ardente Serafino infonde il sacro fuoco, di cui egli ardeva come i beati spiriti del cielo, nel cuore dei più bramosi della santità e della perfezione. Ed ecco quelle Lettere, nelle quali ad ogni ordine di persone comunicando la soavità de’ suoi sentimenti, or discioglie i dubbii più forti, or disgombra le nebbie più fitte, or acqueta le più strane inquietudini, ora versa dolce balsamo nelle più gravi ferite, ora conforta e sostiene ogni più misera debolezza. Ecco quello stendardo della Croce e quelle Controversie, che prima scritte in tante copie a mano e sparse tra gli eretici gli servirono come di poderoso strumento ad operare la loro conversione, e nelle quali anche le più ardue ed intricate questioni sono sciolte con una chiarezza incantevole e con la forma più amabile. Ecco quegli scritti d’ogni maniera, e dogmatici, e polemici, e morali, e ascetici, e pastorali, e disciplinari, che lo fecero proclamare dai Cardinali Du Perron e di Berulle il teologo più valente del suo tempo, che dalla Sorbona gli meritarono l’onore di essere messo a pari degli Ambrogi, degli Agostini e dei Gregorii; che costrinsero un Giacomo I, re scismatico d’Inghilterra a riconoscere lo spirito di Dio, da cui era animato l’autore e gli strapparono l’asserzione di non aver letto mai nulla di simile, che infine dalla Chiesa Cattolica, sotto il Pontificato di Pio IX, il fecero incoronare dell’aureola di Dottore. Ecco insomma avverarsi alla lettera le parole del libro dei Proverbi rivoltegli da Clemente VIII: « Va, o figliuolo, e bevi l’acqua della tua cisterna e della viva sorgente del tuo pozzo: siano diffuse al di fuori le tue fonti e nelle piazze dividi le tue acque ». Ecco Francesco anche per mezzo degli scritti farsi tutto a tutti per far tutti salvi, e non solo i suoi contemporanei, ma eziandio centinaia e migliaia di anime, che sarebbero in seguito comparse sulla faccia della terra: Omnibus omnia factvs, ut omnes faceret salvos. Ed oh! Dio volesse che tanti Cristiani dei nostri dì, e massime tanti giovani e tante donzelle, anziché correre avventatamente a pascere la mente e il cuore del pestifero veleno (che trovasi a larga mano cosparso in tanti romanzi osceni, in tante opere empie ed immorali, dessero mano volonterosi ai soavissimi libri di Francesco di Sales, oltreché gusterebbero il dolce, di cui sono ripieni, nutrirebbero altresì la loro anima di cibo vitale e imparerebbero a rendersi buoni davvero e cari a Dio e agli uomini.

VII.

Ma quale fu alla fin fine il gran segreto, con cui Francesco, sia con la parola, sia con gli scritti, riuscì a trascinare dietro di sé i cuori e a guadagnarli alla santità? Non altro massimamente che quella virtù, la quale sovra le altre rese il suo nome tanto caro e glorioso al mondo, quella virtù che costituisce il fior fiore della carità, la virtù della dolcezza. È di questa virtù, che a costo di sforzi meravigliosi egli fece particolare acquisto. A forza di esami di coscienza, continuati ventidue anni, a forza di continuo vegliare su di sé e di combattere le sue inclinazioni, a forza, come egli scherzevolmente diceva, di pigliare la sua iracondia per il collo, di frenarla e cacciarsela sotto i piedi? ottenne tanta signoria di se stesso, che a ragione fu detto come Mosè l’uomo più dolce e mansueto che vivesse ai suoi dì, il santo che meglio ritraesse la mitezza di nostro Signor Gesù Cristo. Ed è questa dolcezza che a piene mani trasfuse nei suoi scritti, è di questa dolcezza che si valse per domare gli animi inferociti degli eretici e conquistarli alla fede, tanto da far dire al dottissimo Cardinale Du Perron che confutarli lo potea ancor esso, ma convertirli era merito soltanto di Francesco; è con questa dolcezza che riuscì persino a trionfare del mal animo, dei suoi nemici. Sembrerebbe possibile? La sua grande bontà è spina negli occhi dei tristi, e v’ha chi insolentemente lo ingiuria, e lo pone in caricatura, e si reca dappoi quasi ogni notte a far strepiti sotto le finestre del suo palazzo e a scagliare sassi nelle invetriate; v’ha chi gli lancia contro invettive e vituperi, e scende a villani fatti contro la sua autorità, e finisce per attentare alla sua vita sparandogli contro un’arma da fuoco. Ma egli che fa? Non solo perdona e prega il Signore pe’ suoi offensori, ma stende loro le braccia per serrarseli al seno e interporre la sua mediazione presso al Principe per scamparli dalla meritata pena, e protesta che quando pure gli avessero cavato un occhio, li avrebbe amorevolmente guardati con l’altro. E non basta, che quando una scellerata cortigiana lo dice autore d’una lettera infame, e per tre anni interi facendo inorridire Annecy fa pur gemere il santo sotto il peso della più orrenda calunnia, tutt’altro che venir meno alla sua dolcezza, non pensando neppur a scolparsi ei va dicendo con tutta calma: « Sa ben il Signore, di qual riputazione io abbisogni; io non ne voglio altra se non quella che mi dà; io dormo sicuro nella sua divina Provvidenza. E indotta al fine la miserabile al cospetto della morte a confessar la calunnia, tutt’altro che menarne festa e tripudio, piange la sua dipartita, ordina per lei pubblici suffragi e si duole di non aver potuto trovarsi al letto delle sue agonie per dirle a viva voce la parola del perdono. Ah! dica pure la Chantal, che ne ha ben ragione: « Io credo sia impossibile esprimere parole la dolcezza squisita, che Dio diffuse nell’anima di Francesco. E Vincenzo de Paoli esclami pure fuori di sé per meraviglia: « O Dio, se Monsignor di Ginevra è così buono, quanto più sarete buono voi! ». Or comprendo, o fratelli, perché il grande e venerato nostro Padre D. Bosco abbia voluto Francesco di Sales a patrono e modello de’ suoi figli. Se noi assecondando le sue mire, avremo nel cuor nostro qualche po’ di quella dolce carità che ebbe nel cuor suo Francesco, e che sì mirabilmente ricopiò in se stesso l’amato nostro Padre, anche noi a lor somiglianza diventeremo grandi conquistatori di anime. Ora comprendo perché la Chiesa prega oggi Iddio che, avendo voluto Francesco fatto tutto a tutti alla salute delle anime, ne conceda propizio che, perfusi della dolcezza della sua carità, indirizzandoci gli ammaestramenti di lui e suffragandoci i suoi meriti, conseguiamo i gaudi eterni. Se i popoli cristiani, oggidì massimamente, smettendo l’ira di parte, da cui son dominati, e la lotta fraterna con cui si travagliano, si appiglieranno in quella vece allo spirito della dolce carità di Francesco di Sales, tranquilli e felici incederanno alla meta gloriosa, cui Dio li ha destinati, e saranno veramente quei popoli avventurati, tra i quali regna Iddio e la sua benedizione. Almeno noi, o dilettissimi, che professiamo amore e divozione speciale all’amabilissimo santo, almeno noi siamo risoluti di camminare sulle sue orme gloriose, di seguire i suoi belli ammaestramenti e di imitare i suoi ammirabili esempi. E se egli il dì degli Innocenti dell’anno 1622 nella città di Lione dopo cinquantacinque anni di vita spesa interamente ad amare Iddio e a salvar delle anime, morì tutto sorridente e sereno, anche noi in quel dì, cui piacerà al Signore, ci addormenteremo in soavissima pace. Ma tu, o gran Santo, dall’alto de’ cieli ascolta l’invito, che il tuo gran devoto e imitatore D. Bosco a te d’accanto ti va oggi facendo: Leva in circuitu, oculos tuos et vide(Is. LX): gira intorno lo sguardo e vedi. Vedi questa grande famiglia di sacerdoti, di chierici e di laici, che da D. Bosco fondata, sparsa ornai sino agli estremi confini della terra, va suscitando anche nei pampas della Patagonia, fra gli scogli delle Malvine e nelle foreste del Brasile dei nuovi figli. Vedi queste schiere senza numero di caste e generose donzelle, che da D. Bosco accolte sotto il manto tutelare della Vergine Ausiliatrice van compiendo pel mondo prodigi di carità e di abnegazione. Vedi questo esercito sterminato di baldi garzoni e di pie giovanette, che dallo spirito di D. Bosco animati spiegano all’aure il vessillo della virtù e della religione di fronte ad un mondo corrotto e miscredente: vedi. Questi tutti per volere di D.Bosco sono figli tuoi; questi tutti, anche dalle più lontane parti del mondo, sono raccolti nel tuo nome: Omnes isti congregati sunt, venermt tibi; filli tui de longe venient et filiæ tuæ de latere surgent. Come figli tuoi riguardali adunque, li benedici e li proteggi, sì che quel nome, che da te si hanno, sia nome benedetto sempre attraverso i secoli, sia nome che sempre esprima al vivo colui, che al par di te si fa’ tutto a tutti per far tutti salvi: omnibus omnia factus, ut omnes faceret salvos.

Per meglio illustrare la figura del Santo protettore di tutti gli scrittori cattolici e di coloro che promuovono il culto cattolico a mezzo stampa o simili – quindi Santo protettore del nostro blog – invitiamo alla lettura della Lettera Enciclica di S. S. PIO XI su S. Francesco di Sales: Rerum omnium pertubationem.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/08/25/unenciclica-al-giorno-toglie-gli-usurpanti-apostati-di-torno-s-s-pio-xi-rerum-omnium-pertubationem/

SALMI BIBLICI: “DOMINUS REGNAVIT, DECOREM INDUTUS EST”(XCII)

SALMO 92: “Dominus regnavit, decorem indutus est”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS -LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 92

Laus cantici ipsi David, in die ante sabbatum, quando fundata est terra.

 [1] Dominus regnavit, decorem indutus est:

indutus est Dominus fortitudinem, et præcinxit se. Etenim firmavit orbem terrae, qui non commovebitur.

[2] Parata sedes tua ex tunc; a sæculo tu es.

[3] Elevaverunt flumina, Domine, elevaverunt flumina vocem suam, elevaverunt flumina fluctus suos,

[4] a vocibus aquarum multarum. Mirabiles elationes maris; mirabilis in altis Dominus.

[5] Testimonia tua credibilia facta sunt nimis; domum tuam decet sanctitudo, Domine, in longitudinem dierum.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XCII

Il titolo non si legge nei codici ebraici. Fu aggiunto dai LXX, forse per dire che il Salmo aveasi a cantare nella feria sesta, il giorno avanti il sabbato, perché in quel di fu abitata la terra dall’uomo, che Dio in quel dì creò; e in quel dì fu riparata e stabilita la terra per la morte di Cristo. Argomento è il regno di Cristo per creazione e redenzione.

Lauda, ovver cantico dello stesso David pel giorno che precede il sabbato, quando la terra fu fondata.

1. Il Signore ha preso possesso del regno, si è ammantato di splendore, si è ammantato di fortezza, e ne ha cinti i suoi fianchi. Perocché egli diede fermo stato alla terra, la quale non sarà smossa.

2. Fin d’allora fu preparato, o Dio, il tuo trono; tu sei ab eterno.

3. I fiumi hanno alzata, o Signore, hanno alzata i fiumi la loro voce. I fiumi hanno alzati i loro flutti sopra lo strepito delle molte acque.

4. Mirabil cosa l’elevazione del mare: più mirabile il Signore nell’alto.

5. Le tue parole sono oltremodo degne di fede; alla casa tua si conviene, o Signore, la santità per la lunghezza dei secoli

1° Sommario analitico

Davide, contemplando l’ammirevole spettacolo della creazione, considera ed ammira Dio:

I – Come il Re del cielo rivestito di gloria e di forza (1);

II – Come il Creatore della terra: 1° che Egli ha rafforzato fin dall’inizio; 2° e costituito come base del suo trono (2).

III. – Come il Sovrano Padrone delle acque:

1° dei fiumi che elevano le loro onde rumorose (3);

2° del mare le cui sollevazioni dimostrano la mirabile potenza di Dio (4).

IV. – Come Legislatore degli uomini,

1° dei quali inclina l’intelligenza nel credere ai misteri;

2° dei quali orna il cuore di giustizia e santità (5).

2° Sommario analitico

Il Re-Profeta considera Gesù-Cristo nella sua resurrezione e lo proclama:

I. – Mirabile in se stesso:

1° a causa della gloria del suo corpo resuscitato;

2° della sua immortalità, della sua agilità, della sua sottigliezza (1).

II. – Potente nella sua Chiesa:

1° che Egli fonda in modo incrollabile;

2° di cui fa la sede del suo impero per l’eternità (2).

III. – Ammirabile nei suoi Apostoli:

1° come i fiumi, essi elevano la voce e le loro onde rumorose (3);

2° essi riempiono il popolo come il mare con l’abbondanza delle acque celesti (4).

IV. – Amabile ed attraente per i fedeli:

1° Egli rivela loro dei misteri degnissimi di credenza;

2° comanda loro una santità ragionevole e di tutta giustizia (5).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1, 2.

ff. 1, 2. – « Il Signore ha regnato, si è rivestito di gloria; il Signore si è rivestito di forza, si è cinto i fianchi. » Noi vediamo che Egli si è rivestito di due cose, di gloria e di forza. Ma a quale scopo? Per fondare la terra. Ecco in effetti ciò che segue: « perché Egli ha stabilito il pianeta terra, che non sarà distrutto. » Come lo ha stabilito? Rivestendosi di gloria. E non essendo sufficiente il rivestirsi di gloria si riveste anche di forza. Perché dunque la gloria, e perché la forza? Quando nostro Signore è venuto nella carne tra coloro ai quali predicava il Vangelo del regno, piaceva agli uni e dispiaceva agli altri. Gli uni dicevano: è un uomo dabbene; gli altri dicevano: no, ma seduce la folla (Giov. VII, 12). Gli uni dicevano bene di Lui; gli atri lo calunniavano, lo deridevano, erano mordaci, gli profondevano oltraggi; dunque per coloro ai quali piaceva, « … Egli si è rivestito di gloria », per coloro ai quali dispiaceva, « … Egli si è rivestito di forza. »  Imitate così Nostro Signore, alfine di diventare come il suo vestito; siate la sua gloria nei riguardi di coloro ai quali piacciono le vostre buone opere; siate forti contro coloro che vi calunniano … « mostriamoci ministri di Dio – dice l’Apostolo – con le armi della giustizia, a destra ed a sinistra. » Vedete dove si trova la gloria e dove si trova la forza: « nella gloria e nell’ignominia. Brillante nella gloria, forte nell’ignominia. Presso gli uni, Egli predicava con gloria; presso gli altri, trovava disprezzo ed ignominia. Egli portava la gloria a coloro ai quali piaceva, e la forza contro coloro ai quali dispiaceva. (S. Agost.). – « Egli ha stabilito il vasto pianeta terra, di modo che non sarà mai distrutto. » Per questo pianeta terra si può intendere, in un diverso senso, molto legittimo, questa terra che noi calpestiamo con i piedi, oppure la Chiesa di Gesù-Cristo o l’uomo giusto. – Il grande Apostolo parlando di Gesù-Cristo, dice: « … è per Lui che tutto è stato creato nel cielo e sulla terra, le cose visibili e le invisibili, i Troni, le Dominazioni, i Principati, le Potenze, tutto è stato creato per mezzo di Lui e per Lui. Egli è prima di tutto, e tutte le cose sussistono in Lui. » (Coloss. I, 16, 17). – La Chiesa è una terra immutabile, raffermata per sempre con le mani del Signore: è questo regno che non è soggetto a cambiamenti (Hebr. XII, 28); è questa città costruita come un quadrato, allo stesso modo lunga e larga, come quella che ha visto l’Apostolo san Giovanni (Apoc. XXI, 10); è la casa costruita sulla pietra contro la quale le porte dell’inferno non prevarranno mai; è la colonna ed il sostegno della verità (I Tim. II, 15); è questo solido fondamento di Dio che sussiste e resta indistruttibile (II Tim. II, 19). La Chiesa di Gesù Cristo è rafforzata dalla grazia, dalla fede, dai miracoli, i Sacramenti e tutti gli altri doni che le prodiga il Salvatore. Questo pianeta terra, rafforzata dalla mano di Dio, è anche l’uomo giusto. – C’è un pianeta terra che non sarà distrutto. C’è un pianeta  terra che sarà distrutto; perché i buoni che sono chiusi nella fede sono il pianeta terra, perché non si dice che essi siano a parte; ed i malvagi che non restano chiusi nella fede quando soffrono qualche tribolazione, sono anch’essi il pianeta terra. C’è dunque un corpo terrestre mobile, ed un corpo terrestre immobile. (S. Agost.). – Il regno di Dio, è regno di tutti i secoli, come dice il Salmista; tuttavia, secondo la nostra maniera di concepire, questo regno non è cominciato per noi se non alla creazione. – Regno di Gesù Cristo dopo la sua resurrezione, quando il suo corpo fu rivestito di gloria, di maestà, di forza, e ricevette ogni potere nel cielo e sulla terra. – Non c’è parola in questo versetto che un’anima fedele non debba meditare con attenzione. Dio è il re di questo universo; è a Lui che tutte le creature devono l’onore, l’obbedienza e l’omaggio per ciò che esse sono e posseggono. Dio è rivestito di gloria e di forza. « Dio si è preparato (con la creazione): la parola del testo e delle versioni danno l’idea di qualcuno che si è cinto le reni, come per essere pronto ad agire con prontezza ed efficacia. »  È una figura che rappresenta il decreto di Dio, la volontà che ha avuto di creare questo universo. Quando ha formato questo decreto? Quando ha avuto questa volontà? Fin dall’eternità, senza dubbio, perché tutto è eterno in Dio. Ma l’esecuzione non ha luogo che nei tempi, vale a dire quando Dio ha creato il mondo, il tempo è cominciato, ed col tempo tutto l’universo, « Dio ha stabilito la terra, essa non sarà distrutta. » Queste parole indicano la conservazione che è tanto l’opera del Signore così come la creazione. Il mondo creato non ha forza in sé per perseverare nello stato in cui Dio lo ha messo dall’inizio. Perché se esiste in un istante, non ne consegue che debba esistere nell’istante seguente. Così è Dio che crea questo universo in tutti gli istanti: Creazione differente da quella che ha estratto l’universo dal nulla, ma che ne ha la medesima forza; è per questo che la conservazione è chiamata a giusto titolo, una creazione continua. Cosa c’è dunque di vero in questa parola dell’Apostolo: « Noi viviamo in Lui, noi abbiamo i nostri movimenti in Lui, noi siamo in Lui! » (Berthier). – Trono di Dio, indipendente dai luoghi e dai tempi, trono stabilito fin dall’eternità, senza alcun rapporto con le sue creature; trono stabilito in fondo ai nostri cuori, per regnarvi sovranamente. (Dug.). – Qual è il trono di Dio? Dove è il trono di Dio? Nei suoi Santi. Volete essere il trono di Dio? Preparate nei vostri cuori un luogo ove prenderà posto. Cos’è il trono di Dio se non il luogo ove Egli abita? Ove abita Dio se non nel suo tempio? Qual è il suo tempio? È compreso tra mura? No! Questo mondo sarebbe per caso il tempio di Dio, perché è così vasto, e sembrerebbe degno di contenere Dio? Il mondo non saprebbe contenere Colui dal quale è stato fatto. Ma dove è contenuto Dio? In un’anima in pace, in un’anima giusta; è essa che porta Dio. Che cosa ammirevole! Certo Dio è grande; per i forti è pesante; per i deboli è leggero. Chi sono coloro che ho chiamato forti? I superbi che non sanno se non presumere delle loro forze; perché la debolezza che nasce dall’umiltà è la più grande delle forze. Ascoltate l’Apostolo: « … è quando sono debole che io sono forte. » (I Cor. XII, 10). Èlà che io vi ho segnalato che non c’è un istante che il Signore fosse cinto di forza, quando ha insegnato l’umiltà ai suoi discepoli. Ecco dunque qual è il trono di Dio del quale parla chiaramente un Profeta in altro luogo: « Su chi riposerà il mio spirito? », cioè dove riposerà lo Spirito di Dio se non sul trono di Dio? Ascoltate la descrizione che fa di questo trono: forse vi aspettate di sentir parlare di un palazzo di marmo, con corti spaziose, con tetti elevati e brillanti; ascoltate qual è il trono che Dio si prepara: « su chi riposerà il mio spirito? Sull’uomo umile e  che trama ascoltando la mia parola. »  Se siete umile e tranquillo, Dio abiterà in voi. Dio è elevato; Egli non abiterà in voi se pretendete di essere elevato. Forse pensate che bisogna essere elevato perché Dio abiti in voi? No: siate umile e tranquillo, tremate ascoltando le sue parole ed Egli abiterà in voi. Egli non teme di abitare una casa che trema, perché Egli la rafferma (S. Agost.). 

II. – 3, 4.

ff. 3, 4. – La creazione e l’ordine della natura danno almeno a tutti la sensazione dell’infinito, se non lo rivelano. La ragione e la coscienza non hanno che da fecondare e sviluppare come un germe questa prima impressione, per arrivare alla conoscenza di Dio. Ciascuno ha il suo posto speciale in questo e sempre splendido spettacolo della natura, e ciascuno ha la sua scena prediletta. Per gli uni sono le fresche armonie del mattino ed i raggi nascenti dell’aurora; per gli altri i bagliori del sole che tramonta e l’incendio delle nuvole infiammate di riflessi all’orizzonte; a questi altri le varietà affascinanti delle stagioni, i paesaggi, le montagne, i frutti, i fiori; per quelli la contemplazione dei mondi stellati, l’accordo delle sfere luminose pressate come grani di sabbia nel deserto, negli innumerevoli spazi del firmamento; per altri infine, il mare con i suo vaghi muggii, con le mille voci sublimi dei suoi venti e delle vaste masse d’acqua di cui sono ricolmi, di cui parla il Profeta. Che il mare sia bello, o mio Dio! Ma il Signore è ancora più mirabile nei cieli (Claude, Psaumes.). – Tutti gli uomini apostolici, da quando hanno ricevuto la pienezza dello Spirito, sono diventati dei fiumi dai quali è scaturita l’acqua della parola, ed è ad essi che si applica questo passaggio del Salmista. « … I fiumi, Signore, hanno levato la voce. »  Come dunque hanno parlato e perché è detto che abbiano alzato la voce? È che dapprima, prima che lo Spirito fosse in loro, essi tacevano. Pietro non era ancora un fiume quando, interrogato da una serva, negava il suo divino Maestro e diceva: « … io non lo conosco. » Egli taceva, egli mentiva, non alzava la sua voce, non era un fiume. Ma ecco che lo Spirito Santo è disceso sugli Apostoli. I Giudei intimano loro l’ordine di presentarsi al tribunale, e li diffidano dall’insegnare nel nome di Gesù-Cristo, e Pietro e Giovanni rispondono: « … se è giusto davanti a Dio obbedire a voi piuttosto che a Dio, giudicatelo da voi stessi: non ci è possibile non dire ciò che abbiamo ascoltato e visto. » (Act. IV, 20). « I fiumi hanno alzato la loro voce. » (S. Agost.). –  Sollevazione generale dei popoli che si opposero in un primo tempo allo stabilirsi del regno di Gesù-Cristo. – Potenza di Gesù-Cristo, che impedisce che le onde furiose si elevino al di sopra della sua Chiesa: Egli ha imbrigliato il furore del mare e calmato con una sola parola i suoi flutti agitati. (Ps. LXXXVIII, 10).

III. – 5.

ff. 5. – Il Profeta risponde all’obiezione che gli si sarebbe potuto fare nel primo senso che applica questo Salmo alla creazione del mondo, cioè come abbia potuto conoscere la maniera in cui questa creazione abbia avuto luogo. Egli ci da come motivo di credibilità la rivelazione fatta a Mosè, e confermata da una serie di miracoli che provano la veridicità della testimonianza di Mosè. Queste parole sono ancora più vere, se possibili, quando le si applicano alla Redenzione; perché le verità rivelate da Gesù-Cristo agli Apostoli sono state confermate da una moltitudine di altre testimonianze che rendono la fede cristiana incontestabile, al punto che possiamo dire a Dio: Signore, se noi siamo ingannati, l’errore viene da Voi, perché le verità che ci avete proposte a credere sono state confermate da tanti e sì grandi prodigi che solo Voi potete esserne l’Autore (Ricc. De San Vittore). – Senza dubbio le fede non basa unicamente la sua certezza suprema sulla solidità dei motivi che l’appoggiano. Non è invano che la grazia che l’ispira è una luce che illumina la comprensione, una forza soprannaturale che inclina la volontà sotto la parola di Gesù-Cristo; ma né questa luce, né questa forza agiscono sul nostro spirito senza essere aiutati dai suoi lumi naturali, e senza appoggiarsi sui principi primari che sono come il fondo della nostra ragione e la costituiscono. Dio, per onorare questa natura, ha voluto che la fede fosse una credenza sovranamente ragionevole nei suoi motivi, e persuasiva naturalmente nel suo principio; e per questo Egli l’ha fondata, come parla San Paolo, sugli sforzi sensibili e dimostrativi del suo spirito e della sua potenza. Così, quando vi si guarda con attenzione e sincerità, l’anima, sotto l’impressione di questa evidenza e dell’impressione nella quale si trova alla vista del gran rispetto con cui è piaciuto a Dio di governare la sua natura, esclama come il profeta: « … Le vostre testimonianze, Signore, sono diventate troppo evidentemente credibili, cioè che Dio ha dato alle testimonianze ed ai fatti sui quali riposa la sua Religione una così eccessiva evidenza di credibilità, che bisognerebbe rinunciare alla ragione stessa per misconoscerla, e che il più semplice impiego del buon senso è sufficiente d’ordinario come condizione per una fede ragionevole. È questa doppia azione della grazia e dei motivi di credibilità che comunica alla vita cristiana il carattere di tutta una fermezza alla fede, indistruttibile e pratica, che gli è propria. »  (Mgr GINOUILHAC, Sur l’affaiblissement de la foi.) – Santità che deve essere l’ornamento della casa di Dio, che è la Chiesa. Noi entriamo nella Chiesa con il Battesimo, che ci rende santi e irreprensibili agli occhi di Dio; ma si tratta poi di conservare questa grazia per tutta la durata dei nostri giorni, cioè fino al momento della nostra unione con Dio, o di recuperarla con la Penitenza, se dovessimo avere avuto la sventura di perderla (Berthier). 

L’INABITAZIONE DELO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (1)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (I)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) -P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

Al nostro caro figlio, Barthélemy Froget, dell’Ordine di San Domenici, a Poitiers.

LEONE XIII, PAPA.

Caro figlio, salute e benedizione Apostolica.

La pietà dei Cattolici, si compiace di offrirCi frequentemente i frutti del loro talento e della loro scienza. Di questi lavori, i più graditi sono per Noi quelli che mettono in luce i Nostri stessi insegnamenti. Così il libro di cui Ci avete recentemente fatto omaggio, merita un favore particolare.

   Voi vi esponete, secondo le dottrine del Dottore Angelico, in un trattato ricco e luminoso, l’ammirevole inabitazione dello Spirito Santo nelle anime giuste. Questo punto della fede cattolica sì capitale e sì consolante, lo abbiamo Noi stesso costantemente raccomandato nella nostra Enciclica Divinum illud munus, allo zelo di coloro che, seguendo il dovere della loro carica, si dedicano alla cura ed alla salute eterna delle anime. Interessa sovranamente in effetti, dissipare nel popolo cristiano l’ignoranza di queste alte verità, e di conseguenza occorre che tutti si applichino a conoscere, ad amare ed a implorare il dono di Dio Altissimo, dal quale provengono tanti preziosi benefici. Il vostro libro ha già largamente contribuito a raggiungere questo scopo, Noi ve ne felicitiamo e ci compiacciamo nello sperare che questo bene continuerà sempre di più, cosa che vivamente Noi desideriamo. E lodando la vostra perfetta sottomissione alla nostra Autorità, ed i vostri sentimenti di figlio devotissimo verso la Nostra Persona, vi accordiamo con tutta l’affetto del Nostro cuore, la benedizione apostolica, in segno della Nostra paterna benevolenza e come pegno di grazie divine.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 20 febbraio dell’anno 1901, ventiquattresimo del nostro Pontificato.

LEONE XIII, PAPA.

PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

Se c’è una verità preziosa da conoscere  e dolce da contemplare, una verità che offre un interesse più che straordinario, contenente in qualche modo il midollo del Cristianesimo, una verità frequentemente ricordata nei libri santi e nondimeno lasciata per così dire completamente nell’ombra dal pulpito contemporaneo, anche quando l’oratore si rivolge a questa élite di anime che chiede se non di penetrare sempre più nel mistero del regno di Cristo, è sicuramente il dogma sì pio, sì consolante, sì confortante della presenza e dell’inabitazione dello Spirito Santo nelle anime giuste. Questa bella dottrina tanto amata dai Padri, sì spesso trattata da essi, sia nelle loro esortazioni ai fedeli sotto forma di omelie, sia nelle loro controversie con gli eretici avversari della divinità del Verbo o dello Spirito Santo, fu piamente raccolta dalla teologia del Medio Evo, in particolare dal più grande tra essi, il principe della scolastica, l’angelico Dottore San Tommaso d’Aquino, che se ne è, per così dire, appropriato e l’ha come marcato del suo sigillo, formulandola con tutta la precisione del linguaggio teologico. – La si ritrova più tardi esposta con amore ed una emozione che si avverte sotto le freddezze della lettera, dai principali rappresentanti della scienza sacra, i Gonet, i Giovanni di San Tommaso, i Suarez, i teologi di Salamanca; essa forma, nelle loro opere, come un’oasi piena di freschezza che interrompe piacevolmente l’aridità e la secchezza delle discussioni teologiche. Petau e Thomassin l’ornarono dei tesori della loro erudizione, riproducendone qualcuno dei più bei passaggi dei santi Padri, e lungi dall’essere invecchiata ai giorni nostri, è stata al contrario rimessa in onore da qualche celebrità contemporanea; gli eminentissimi Cardinali Franzelin e Mazzella nei loro sapienti trattati, mgr. Gay nelle sue conferenze notevoli su « La Vita e le virtù cristiane », ed altri ancora l’hanno affrontata con incontestabile talento e diverse fortune. – Da dove viene che essa è ancora così poco conosciuta, e quindi poco apprezzata, anche dagli uomini del santuario? Si sa bene, senza dubbio, almeno vagamente, per avere inteso dire senza altre spiegazioni, o aver letto nel santo Vangelo che lo Spirito Santo, o piuttosto la Santa Trinità intera, abita nelle anime che hanno la felicità di essere nello stato di grazia e di possedere la carità; ma in cosa consiste questa inabitazione? Come si distingue dall’onnipresenza divina? Cosa apporta di speciale a colui che ne è gratificato? Quali ne sono i risultati e gli effetti? Ecco ciò che si ignora e ciò che importa estremamente conoscere; perché senza questo, simile ad un astro perduto ai confini del mondo e che non invia a noi che una luce debole ed indistinta, la nozione che si possiede di questo punto della Dottrina Cattolica è troppo vaga, troppo confusa, per colpire ed impressionare fortemente le anime, producendovi questi frutti salutari di gioia e di consolazione che è chiamata a portare. – Sarebbe dunque una questione inabbordabile per le intelligenze ordinarie? È un libro sigillato, di cui qualche raro privilegiato possiede il segreto di rompere i sigilli e decifrare i caratteri? Ma no; noi speriamo bene, con la grazia di Dio, di mettere questa dottrina alla portata di tutti i nostri lettori; si dirà che si tratti di una teoria molto bella, è vero, ma senza influenza pratica nella condotta della vita? Non è così; questo studio, in apparenza speculativo, è fecondo di pratici insegnamenti, ed offre a coloro che non temono di intraprenderlo, non solo delle gioie vive e pure, ma ancora dei motivi potenti di santificazione. – Il nostro disegno, scrivendo queste pagine, è quello di mettere alla portata delle anime di buona volontà e degli spiriti anche poco abituati alle speculazioni teologiche, ma avidi di verità e gelosi di lasciare il terra-terra delle discussioni quotidiane, una dottrina contenente il nostro più alto titolo di gloria e di nobiltà. Ma i nostri sforzi di portare, in questo studio, tutta la chiarezza che comportano delle materie sì elevate, prendono come guida il maestro incomparabile di cui l’illustre Pontefice Leone XIII non cessa di raccomandare gli insegnamenti, e di cui noi siamo fieri di dirci un umile discepolo: San Tommaso d’Aquino, che ha proiettato su questa questione, come su tante altre, le luci del suo genio. Non è che egli abbia trattato con questa abbondanza di dettagli e questa ampiezza di sviluppi che si poteva desiderare; egli si è piuttosto contentato di porre i principi e di condensare il suo pensiero in una di queste formule brevi ma ricche di sostanza che si incontrano in ogni pagina della Summa teologica. Da questo stile fermo, limpido, elevato, che lo caratterizza, egli ha espresso in poche parole tutto ciò che occorreva dire per essere compreso dagli spiriti iniziati alla terminologia scolastica, lasciando ad altri che ne hanno l’agio, il gusto e la facilità, la cura di sminuzzare la sua dottrina e di metterla, per mezzo di sviluppi appropriati, alla portata di tutte le intelligenze. È lo scopo che noi ci siamo proposto. – Il nostro compito consisterà dunque nel mettere in rilievo il pensiero del santo Dottore, e nel tradurre in un linguaggio intellegibile per tutti, queste formule sapienti sì chiare per gli iniziati, ma che non offrono al comune lettore che un enigma spesso indecifrabile. Noi trarremo ugualmente dalla santa Scrittura e dai Padri della Chiesa un certo numero di testimonianze che avranno il doppio vantaggio di chiarire i nostri insegnamenti corroborandoli, e mostrare su quali fondamenti solidi essi poggiano.

PRIMA PARTE

DELLA PRESENZA COMUNE ED ORDINARIA DI DIO IN OGNI CREATURA.

CAPITOLO PRIMO

Della presenza di Dio in tutte le cose

IN QUALITÀ DI AGENTE O DI CAUSA EFFICIENTE

Prima di affrontare il problema interessante ma arduo dell’abitazione dello Spirito Santo nelle anime giuste, e dell’unione misteriosa che ne è la conseguenza, prima di stabilire il fatto di una presenza nello stesso tempo sostanziale e speciale delle Persone divine nelle anime santificate dalla grazia e trasformate da essa in un tempio vivente, ove dimora e si compiace l’augusta e adorabile Trinità, ci sembra utile, finanche necessario, in una certa misura, esporre preliminarmente il modo ordinario e comune secondo il quale Dio è in tutte le cose. Come in effetti avventurarsi ragionevolmente a parlare di una presenza della Divinità speciale ai giusti, se non si comincia con l’esporre chiaramente in cosa consista una presenza ordinaria in ognuna delle creature? – Per essere nello stato di stabilire solidamente un giudizio serio su questi due modi di presenza e di ben discernere l’uno dall’altro, importa conoscere i loro rispettivi caratteri, sapere ciò che essi abbiano in comune e ciò che li differenzi, e per questo occorre analizzarli, compararli, determinare la loro natura. Procedendo differentemente, dissertando in maniera più o meno sapiente dell’inabitazione di Dio mediante la grazia senza avere innanzitutto ben stabilito e convenientemente spiegato la sua inesistenza nel mondo della natura, ci si esporrebbe al grave inconveniente di non dare che delle nozioni incomplete, e lasciare nello spirito del lettore delle deplorevoli oscurità. Noi non ci attarderemo tuttavia a provare lungamente il fatto dell’onnipresenza divina, sulla quale tutti i Cattolici sono d’accordo, riservandoci di studiare più da vicino la maniera di intenderla alfine di ricavarne il vero concetto dell’immensità divina e di preparare le vie all’intelligenza della presenza speciale di Dio nei giusti.

I.

Che Dio sia dappertutto, in cielo, sulla terra, in tutte le cose ed in tutti i luoghi; che sia intimamente presente a ciascuna delle sue creature, è dogma di fede, nel contempo una verità razionale conosciuta da tutti, non solo da pensatori, filosofi o teologi, ma persino dal bambino la cui intelligenza cominci appena a schiarirsi; è una delle prima lezioni che riceve sulle ginocchia della madre, uno dei primi insegnamenti che cadono dalle labbra di un educatore credente. – Questa dottrina che il più umile dei Cristiani conosce fin dall’aurora della sua vita mortale e che ripete senza comprenderne la portata, né sospettarne la profondità, l’Apostolo San Paolo l’insegnò già davanti al più illustre uditorio che fosse al mondo. In effetti, non era ad una folla di ignoranti, ma ai rappresentanti in qualche modo ufficiali della scienza umana, ai membri dell’Aeropago, a cui si indirizzava, quando, a proposito dell’esistenza di Dio in seno agli esseri creati, egli diceva: « Dio non è lontano da voi, perché noi viviamo, ci muoviamo, esistiamo in Lui: quanvis non longe sit ab unoquoque nostrum: in ipso enim vivimus, et movemur et sumus (Act. XVII, 27-28) ». – Il Salmista aveva insegnato – egli pure – o piuttosto cantato da molti secoli questa onnipresenza divina:  « Signore – aveva detto – Voi conoscete tutto, l’avvenire più lontano come il passato più profondo; Voi mi avete formato ed avete posto la vostra mano su di me. La scienza che avete di me è ammirabile ed io sono incapace di apprenderla. Come sottrarmi al vostro sguardo? Se salgo il cielo, Voi là siete; se scendo negli inferi anche là vi trovo. Se apro la mie ali, fin dal mattino, per fuggire verso le estremità del mare, la vostra mano mi conduce, la vostra destra mi sostiene. Io ho detto: forse le tenebre mi nasconderanno e la notte avvolgerà i miei piaceri. Ma le tenebre non hanno oscurità davanti a Voi, e la notte ha il chiarore del giorno per Voi (Ps CXXXVIII, 5-12) ». E per meglio convincerci dell’impossibilità in cui ci troviamo di sottrarci al suo sguardo, Dio, riproducendo l’infermità del nostro linguaggio alfine di mettersi più completamente alla nostra portata, ci dice per bocca del Profeta: « Colui che si nasconde, spera di sottrarsi ai miei occhi? Non riempio forse il cielo e la terra ? Numquid non cælumet terram ego impleo? (Ger. XXIII, 24) ». – Sarebbe superfluo mostrare altre testimonianze  per stabilire una verità che è universalmente ammessa da chiunque riconosca l’esistenza di un Essere infinito, Autore di tutte le cose. Si vorrà bene, tuttavia, permetterci di riprodurre qui, a causa della sua importanza, la prova filosofica dell’onnipresenza divina, data da San Tommaso.  Dio – egli dice – è in ogni cosa, non come parte della loro essenza o come un elemento accidentale, ma come l’agente è presente al soggetto sul quale opera. Egli è in effetti, di tutta necessità, che la causa efficiente sia unita al soggetto sulla quale essa esercita un’azione immediata, e che entra in contatto con esso se non con la sua sostanza, almeno con la sua virtù attiva e le sue energie, « Deus est in omnibus rebus … sicut agens adest ei in quod agit. Oportet enim omne agens conjungi ei in quod immediate agit, et sua virtute illud contingere (Summ theol. I, q. VIII, a, I) ». Così è che il sole, benché situato ad una distanza enorme dal nostro pianeta, lo raggiunga non di meno con la sua virtù; come in effetti, sarebbe in grado di illuminare e riscaldare se i suoi raggi non pervenissero ad essa? Ora, Dio opera in ogni creatura, non solo con l’intermediario delle cause seconde, ma ancora in maniera diretta ed immediata, producendovi da se stesso, e conservandovi parimenti, ciò che vi è di più intimo e profondo, l’essere. Perché, come l’effetto proprio del fuoco è di bruciare, così l’effetto proprio di Dio, che è l’Essere per essenza, è produrre l’essere delle creature. Dunque Dio è in tutte le cose, intimamente presente in qualità di causa efficiente. « Unde oportet quod Deus sit in omnibus rebus et intime (Ibid. a. 1) ». Dio non è quindi come un volgare operaio, un pittore, ad esempio, o uno scultore, che rimane fuori dalla sua opera e non la tocca spesso in maniera immediate, ma con l’intermediazione di uno strumento e che, presente alla sua opera nel momento in cui la produce, può in seguito ritirarsi senza comprometterne l’esistenza. Dio è nel più intimo delle sue opere e se, dopo aver dato l’essere ad una creatura, ritirasse la sua mano e cessasse di sostenerla, ricadrebbe immediatamente nel niente da cui essa è uscita. – Se ora domandaste all’angelico Dottore come Dio, sostanza immateriale, inestesa ed indivisibile, possa trovarsi in tutti i luoghi, in fondo a ciascuno degli esseri che occupano i nostri spazi materiali, egli vi risponderà, riportando dalle cose di quaggiù un paragone già impiegato dai Padri, che vi sono tre maniere: per potenza, per presenza e per essenza. Egli è dappertutto con la sua potenza, perché tutto è sottomesso al suo sovrano impero, non meno di un re della terra che, benché confinato in fondo ad un palazzo, è reputato presente in tutte le parti del suo Stato, ove si fa sentire la sua autorità. Egli è dappertutto con la sua presenza perché Egli conosce tutto, vede tutto e nulla, per quanto possa essere nascosta, sfugge al suo sguardo; allo stesso modo degli oggetti che sono sotto i nostri occhi, benché leggermente distanti dalla nostra persona, sono detti essere in nostra presenza. Egli è dappertutto con la sua essenza, cioè realmente e sostanzialmente presente a ciascuna delle cose create, come un monarca è presente con la sua sostanza al trono sul quale è assiso. (S. Theol. I, q. VIII, a. 3). E la ragione di questa presenza sostanziale, è che non c’è alcuna creatura che possa sfuggire all’azione divina che la conserva all’esistenza e la muove alle sue operazioni; e siccome in Dio la sostanza e l’azione non sono realmente distinte, ne risulta che Egli è presente dappertutto ove operi, cioè in tutte le cose ed in tutti i luoghi. « Deus dicitur esse in omnibus per essentiam … quia substantia sua adest omnibus ut causa essendi  (S. Th. I, q. VIII, ad. 1) » – Nel suo Commentario sul primo libro delle Sentenze di Pietro Lombardo, San Tommaso spiega questo triplice modo di presenza in una materia un po’ differente che, nell’escludere queella che stiamo per dare, ha il vantaggio di fare meglio mostrare il pensiero del santo Dottore relativamente alla presenza sostanziale di Dio in qualità di causa efficiente. Ecco le sue parole: « Dio è nelle cose create con la sua presenza, in tanto che vi operi, perché bisogna che l’operario sia presente in qualche modo alla sua opera; e perché l’operazione divina non si separi dalla virtù attiva da dove essa emana, bisogna dire che Dio è in tutte le cose per potenza; infine, come la virtù o la potenza di Dio è identica alla sua essenza, ne risulta che Dio è nelle cose con la sua essenza (S. Thomas, I, I, Sent. Dist. XXXVII, q. I a. 2). Queste parole di San Tommaso sono significative, e meritano che vi ci soffermiamo.

II.

Quando certi teologi, estranei alla scuola tomistica, vogliono spiegare l’onnipresenza divina, essi dicono che Dio è dappertutto con la sua essenza, perché la sostanza divina, essendo infinita, riempie il cielo e la terra. Per essi l’immensità è una proprietà in virtù della quale l’essenza divina è, per così dire, espansa all’infinito in tutte le specie esistenti o possibili; l’onnipresenza è la diffusione attuale dell’Essere divino compenetrante, senza mescolarsi ad essi, in tutti gli esseri e tutti i luoghi reali (Hurter, S. J., Theol. Dogm. Comp., de Deo uno.). – Si potrebbe dunque, secondo questa opinione, comparare l’immensità divina ad un mare senza rive e senza limiti, capace di contenere moltitudini innumerevoli di esseri di ogni natura e di ogni dimensione, in mezzo al quale si troverebbe immersa, nel tempo, una spugna che le acque penetrano debordanti da ogni parte: immagine di questo mondo che l’immensità di Dio penetra e deborda da ogni parte; con questa differenza, tuttavia, che Dio è tutto intero nel mondo e tutto intero in ciascuna delle sue parti, mentre ogni porzione dell’elemento liquido occupa uno spazio distinto. – Sant’Agostino si era formato nella sua giovinezza un concetto simile  dell’immensità divina. « O mio Dio, o vita dell’anima mia – dice nelle Confessioni – io vi credevo grande di una grandezza espansa in spazi infiniti, e penetrante la massa intera del mondo in modo tale che vi estendiate ancora da tutte le parti al di là di questo universo, senza avere né limiti né argini; e che la terra, il cielo, ogni cosa creata, essendo piena di Voi, terminasse in Voi, che non abbiate termine da alcuna parte. Perché come questa aria grossolana che circonda il mondo che noi abitiamo non saprebbe impedire alla luce del sole di aprirsi un passaggio attraverso la sua sostanza, non distruggendola o dividendola, ma penetrandola dolcemente e riempendola tutta intera delle sue luminosità; così io mi figuravo che Voi passaste non solo attraverso le sostanze dell’aria e dell’acqua, ma ancora che, penetrando la terra nella sua massa e fin nelle parti più piccole, dappertutto invisibile e presente, Voi governaste, mediante questa unione segreta e questa influenza tanto interiore che esteriore, tutte le cose che avete creato. – Essendo tali le mie congetture, perché non mi era possibile immaginare altra cosa; ma ero in un errore completo, nam falsum erat; perché se fosse così, una parte più grande della terra, conterrebbe una più grande parte del vostro Essere, una più piccola, ne conterrebbe una minore, e tutte le cose riempite di Voi, in modo tale che il corpo di un elefante conterrebbe una parte più grande della vostra sostanza rispetto al corpo di un passerotto, perché esso è più grande ed occupa uno spazio più esteso; ed anche in proporzione in tutte le parti del mondo, le une ne avrebbero di più e le altre meno, secondo le loro dimensioni diverse. Ora, non è affatto così: ma Signore, Voi non avete ancora illuminato le mie tenebre. » (S. Aug. Conf. L. VII, c. 1). Tornando più avanti sullo stesso soggetto, il santo Dottore aggiunge: « Il mio spirito si rappresentava l’universo e tutto ciò che è visibile nella sua estensione: la terra, il mare, l’aria, gli astri, le piante, gli animali; nello stesso tempo tutto ciò che sfugge ai nostri sguardi: il firmamento, gli Angeli, tutte le sostanze spirituali, che la mia immaginazione poneva in certi spazi, come se fossero stati dei corpi. Da questa universalità degli esseri che avete creato, io me ne facevo una gran massa … ma finita e limitata da ogni parte. E Voi, Signore, io vi consideravo come avvolgente ogni parte e penetrante questa massa, ma Voi siete infinito in ogni senso: come si potrebbe rappresentare un mare infinito nella sua estensione, e racchiudente in se stesso una spugna di prodigiosa grandezza, ma che finita nondimeno nelle sue dimensioni, sarebbe tutta penetrata dalle acque di questo mare immenso. È così che io vi consideravo nella vostra essenza infinita, che riempie da ogni parte questa massa finita, assemblaggio di tutte le vostre creature » (S. Aug. Conf. l. VII, c. V). – Più tardi, divenuto Vescovo di Ippona, e meglio istruito in queste cose, Agostino si esprimeva in altro modo: « Quando si dice che Dio è dappertutto, bisogna allontanare dal nostro spirito ogni pensiero grossolano, e liberarci dall’impressione dei sensi per non figurarci Dio sparso dappertutto a mo’ di una grandezza dislocata nello spazio, come è quella della terra, dell’acqua, dell’aria e della luce; perché tutte le cose di questa specie sono meno in una delle loro parti che nel tutto. Bisogna piuttosto concepire la grandezza di Dio come si rappresenta una grande saggezza in un uomo, fosse anche di piccola taglia. » (S. Aug. Lib. De Præsen. Dei, 187, c. IV, n. 11). Questo tipo di diffusione ed espansione dell’Essere divino, così disapprovata da Sant’Agostino, e segnalata come una concezione grossolana e carnale che bisogna evitare, carnali resistendum est cogitationi, ne quasi spatiosa magnitudine opinetur Deum per cuncta diffundi, rassomiglia singolarmente all’idea che ci danno dell’immensità divina coloro che ci rappresentano Dio presente dappertutto, perché la sua sostanza, essendo infinita ed illimitata, ed occupando attualmente tutti i luoghi reali o immaginari, si trova per se stessa in una relazione di presenza, o piuttosto di intima penetrazione con tutto ciò che esiste nello spazio. – Essi non cadono – è vero – nell’errore del figlio di S. Monica, immaginandosi che uno spazio più esteso dovesse contenere una parte è più grande della sostanza divina; perché essi sanno ed insegnano che uno spirito, essendo invisibile ed esente da parti non è più localizzato a mo’ dei corpi dei quali una parte è a destra e l’altra a sinistra, ma che possa occupare uno spazio determinato ad essere per intero nel tutto, e tutto intero in ciascuna parte; nondimeno sul fondo della questione e sulla maniera di concepire l’ubiquità divina ci sembrano parteggiare le idee della giovinezza che Agostino doveva riformare più tardi in seguito a meditazioni più approfondite. – Ben più spirituale, e pertanto più conforme alla natura di Dio, ci appare la visione dell’immensità data da San Tommaso. Invece di ammettere, con coloro che condividono l’opinione che qui combattiamo, una sorta di diffusione della sostanza divina, a tal segno che Dio sarebbe ancora sostanzialmente presente alle creature seminate nello spazio, quando anche, per assurdo, Egli non esercitasse su di esse alcuna azione (Suarez, Metaph., disput. XXX, sect. VIII, n. 52), il Dottore angelico insegna al contrario che la ragione formale della presenza di Dio nelle cose create non è altro che la sua operazione, di modo tale che il fondamento dell’immensità, è l’onnipotenza. –  Per essa stessa la sostanza divina non è determinata ad occupare alcun luogo, né grande né piccolo; essa non richiede per esplicarsi di alcuno spazio; essa non implica nessuna relazione di prossimità o di allontanamento con gli esseri viventi nello spazio; se di fatto essa entra in rapporto ed in contatto con esse, è per la sua virtù e la sua operazione; se essa è intimamente presente a tutto ciò che esiste, è perché essa produce e mantiene l’essere di tutte le cose. Non determinatur (Deus) ad locum, vel magnum vel parvum, EX NECESSITATE SUÆ ESSENTIÆ, quasi oportet cum esse in aliquo loco, quum ipse fuerit ab æterno anteomnem locum; sed IMMENSITATE SUÆ VIRTUTIS ATTINGIT OMNIA QUÆ SUNT IN LOCO, QUAM SIT UNIVERSALIS CAUSA ESSENDI. Sic igitur ipse totus est ubicumque est, quia per simplicem suam virtutem universa attingit  (S. Thom. l, III, Contra gent. C. LXVIII). Se dunque Dio, può essere in tutti i luoghi, o in altri termini, se è immenso, è a giudizio dell’Angelo della Scuola, perché, possedendo una potenza infinita, è capace di operare, e pertanto di rendersi presente, in uno spazio senza termini né limiti, anche in uno spazio infinito, se una tale estensione fosse possibile. Si sit antiqua res incorporea habens virtutem infinitam, oportet quod sit ubique (S. Thom. L. III, Contra Gent. C. LXVIII, n. 2) – Et hoc proprie convenit Deo; quia quotcumque locu ponentur, etiamsi ponerentur infinita …, oportet in omnibus esse Deum, quia nihil potest esse nisi per ipsum (S. Theol. I, q. VIII, a. 4). Se Esso è di fatto in ogni luogo ed in tutte le creature, non esiste alcun spazio reale, alcun essere creato sul quale Egli non eserciti una azione diretta ed immediata, e col quale non sia in contatto con la sua virtù, e conseguentemente con la sua sostanza. Dei proprium est ubique esse; quia cum sit universale agens, ejus virtus attingit omnia entia, unde est in omnibus rebus (Summa Theol. I, q. CXII, a. 1).

III.

Questa onnipresenza di Dio, frequentemente chiamata dai teologi presenza di immensità, è stata designata da San Tommaso sotto altro vocabolo: egli l’ha chiamata presenza per modo di causa efficiente, per modum causæ agentis (Summa Theol., I, q. VIII, a. 3): espressione caratteristica e profonda che ha il doppio vantaggio di eliminare ogni idea di diffusione ed espansione della natura divina, e di indicare nel contempo che l’operazione divina è il vero fondamento dei rapporti esistenti tra Dio e la creatura. Del resto, servendosi di questa locuzione, San Tommaso non ha innovato né espresso una opinione puramente personale, ma si è mostrato qui, come sempre, l’eco fedele della Tradizione. – In effetti, dopo essersi ripreso dal suo errore relativo all’immensità divina, Sant’Agostino spiegava all’illustre corrispondente al quale indirizzava il suo libro “Sulla presenza di Dio”, che Dio è dappertutto non a modo di un corpo che si estende nello spazio, ma come sostanza creatrice, governante senza pena e conservando senza fatica questo mondo che ha creato (S. Aug. lib. De præsentia Dei, seu Epist. ad Dardan. 187, c. IV, n. 14). Egli diceva ancora che Dio è nel mondo come la causa efficiente del mondo, erat in mundo, quomodo per quem mundus factus est: come l’operaio è presente alla sua opera per reggerla, quomodo artifex regens quod fecit (S. Aug. in Evang. Joan. Tract. 2 n. 10). Se riempie il cielo e la terra, è per la presenza e l’esercizio della sua potenza, e non per la necessità della sua natura: impies cœlum et terram præsente potentia, non indigente natura (S. Aug. De civit. Dei, l. I, VII, c. XXX). San Tommaso sembra manifestamente essersi ispirato a questi diversi passaggi, quando dice: « Non bisogna credere che Dio sia dappertutto dividendosi nello spazio, di tal sorta che una parte della sostanza sia qui, ed un’altra altrove, ma Egli è tutto intero dappertutto, perché essendo assolutamente semplice, non ha parti. Non è tuttavia semplice a mo’ di un punto che termina una linea e che per questo occupi una situazione determinata e non possa essere che in un luogo indivisibile come stante assolutamente all’esterno da ogni genere di continuo: così non è affatto determinato, dalla necessità della propria natura, ad occupare un luogo qualunque, grande o piccolo, come se dovesse necessariamente essere localizzato in qualche parte, Egli che esisteva dall’eternità, quando non c’era ancora alcun luogo; ma grazie all’infinità della sua potenza, raggiunge tutto ciò che è nel luogo, essendo la causa universale dell’essere. Dunque, Egli è tutto intero dappertutto ove si trovi, perché tutto raggiunge con la sua virtù, che è molto semplice. Egli pertanto non è mischiato alle cose … ma è in tutte le sue opere a modo di causa efficiente. » (S. Tom.: Contra Gent., l, III, c. LXVIII). – San Fulgenzio, discepolo di Sant’Agostino, non parla altrimenti dal suo maestro. « Con la sua sostanza e la sua potenza – egli dice – è dappertutto, tutto intero dappertutto, riempie tutto non della sua massa, ma  della sua potenza: totus totum complens virtute, non mole …» (S. Fulg. Ad Trasim., c. XI). San Gregorio di Nissa giunge al punto di dire che è per una sorta di abuso che diciamo di una sostanza spirituale che essa è in un luogo, a causa dell’operazione che esercita sulle cose localizzate, prendendo così il luogo dell’operazione e della relazione che ne risulta. Quando dovremmo dire: essa opera qui o là, noi diciamo invece: essa è là. (S. Greg. Nyss., De Anima). Che la presenza sostanziale di Dio  nelle cose create sia fondata sulla sua operazione, è ciò che risulta manifestamente, ci sembra, da tutte queste testimonianze e da una moltitudine di altre simili che sarebbe facile riportare. Si è cercato nondimeno di confermare queste autorità e si è detto: senza dubbio l’operazione immediata di Dio in tutte le cose prova che Egli sia dappertutto, così come le parole di una persona che si sente conversare in un appartamento vicino, è la prova della sua presenza, non essendone però la ragione. Questo si potrebbe tradurre così: Questa persona è qui, poiché io la sento; essa non è qui perché io la sento; infatti potrebbe essere qui anche senza che io l’ascoltassi, se restasse in silenzio. Così è di Dio. Egli è dappertutto, poiché Egli opera in tutte le cose, ma non vi è perché vi opera; quand’anche Egli, per assurdo non agisse nelle creature, Egli nondimeno sarebbe interamente presente, essendo la sua sostanza infinita necessariamente non distante da tutto ciò che esiste nello spazio. – Questo ragionamento sarebbe esaustivo se Dio fosse nello spazio a modo di corpo. Un corpo è presente nel luogo e lo occupa, non con la sua azione, neanche direttamente con la sua sostanza, ma per le sue dimensioni, per il contatto delle sue parti del corpo che lo circonda e lo contiene; e come ciò che dà ad un corpo delle parti e delle dimensioni, che permette loro di mettersi in contatto con un altro corpo e di occupare uno spazio più o meno considerevole, è la quantità, è, propriamente parlando, nel luogo per la sua quantità: per quantitatem dimensivam, come si esprime la Scuola. – Tutt’altra è la ragione della presenza di uno spirito nel luogo; sostanza semplice ed esente da parti, non occupa di per se stesso alcun luogo, né grande né piccolo, e non richiede di alcuno spazio per estendersi. Tuttavia, se si vuole mettere in relazione con il luogo o le cose che vi sono contenute, esso lo può, esercitandovi la sua attività, applicandovi la sua energia; da qui questa proposizione che ha, per così dire, il valore di un assioma tra gli scolastici: gli spiriti sono nel luogo per contactum virtutis S. Tho.,Contra Gent., l. III, c. LXVIII). – E come l’attività di un essere è proporzionato alla natura che ne è il principio, la sfera d’azione degli spiriti è più o meno vasta, seconda che essi occupino un grado più o meno elevato nella scala degli esseri. Così un Arcangelo può occupare uno spazio corporeo più considerevole rispetto ad un Angelo, perché la sua virtù, la sua potenza attiva, essendo più grande, è nel contempo nello stato di esercitarsi su di una più larga scala, come un fuoco più intenso irradia più lontano. Ma siccome questo spirito creato e finito e limitato nella perfezione della sua potenza, non può che occupare un luogo determinato, finito, limitato; Colui solo è capace di essere dappertutto, di occupare tutti i dati spazi, per quanto estesi li si supponga, di cui la potenza infinita non avendo né limiti né argini, può esercitarsi in ogni luogo e su tutti gli esseri che li occupano qualunque sia la moltitudine e la grandezza (S. Th., Summa Theol., q. LII, a. 2). Di conseguenza, ciò che la qualità è ai corpi, cioè una proprietà distinta dalla loro sostanza estesa nello spazio, la potenza attiva lo è agli spiriti, che essa mette in contatto con il luogo e le cose che vi sono localizzate. Di là queste parole di San Tommaso. Incorporatia non sunt in loco per contactum quantitatis dimensivæ, sicut corpora, sed per contactum virtutis (Summa Theol., I, q. VIII, a. 2 ad. 1). Se Dio non agisse in noi, non sarebbe in noi. – Così, quando si chiede se l’ubiquità è una proprietà che conviene a Dio da tutta l’eternità, utrum esse ubique conveniat Deo ab æterno, in luogo di rispondere come certi teologi che Dio non è – è vero – presente da tutta l’eternità nelle cose che non esistevano ancora, ma che la sua sostanza si trova pertanto realmente ed eternamente negli spazi che devono occupare, nel susseguirsi dei tempi, tutti gli esseri creati, San Tommaso risponde: « la presenza della Divinità in tutti i luoghi comporta una relazione di Dio con le creature fondata su di un’operazione che è il principio della sua inesistenza nelle cose. Ora, ogni relazione fondata su di un’operazione che passi negli esseri creati, non può essere attribuita a Dio che temporalmente, perché questo tipo di relazioni, essendo attuali, suppongono l’esistenza di due termini. Allo stesso modo dunque che non si possa dire che Dio operi da tutta l’eternità nelle creature, così non si può a maggior ragione affermare la sua eterna presenza in esse, perché questo suppone la sua operazione. » (S. Th. Sent. L. I. dist. XXXVII, q. II, a. 3). – E se interrogate i santi Padri per domandar loro ove fosse Dio prima della creazione del mondo, in luogo di rispondere che Egli era negli spazi incommensurabili che occupa attualmente l’universo e che avrebbe potuto occupare migliaia di mondi più vasti del nostro, essi vi diranno per organo di San Bernardo: « Non è il caso di cercare ancora dove Egli fosse: nulla c’era all’infuori di Lui, Egli era dunque in Se stesso ». (S. Bern. De consider., l. V, cap. VI). Così, secondo il giudizio di San Tommaso e dei Padri della Chiesa, l’operazione divina formalmente immanente, poiché non esce e non è neanche distinta dal principio da cui emana, ma producente al di fuori degli effetti creati, e chiamato per questo virtualmente transitivo virtualiter transiens, ecco la ragione formale, il vero fondamento, il perché definitivo della presenza di Dio nelle creature.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/01/30/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-2/

SALMI BIBLICI: “BONUM EST CONFITERI DOMINO” (XCI)

SALMO 91: Bonum est confiteri Domino

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 91

Psalmus cantici, in die sabbati.

     [1] Bonum est confiteri Domino,

et psallere nomini tuo, Altissime.

[2] Ad annuntiandum mane misericordiam tuam, et veritatem tuam per noctem;

[3] in decachordo, psalterio, cum cantico, in cithara.

[4] Quia delectasti me, Domine, in factura tua; et in operibus manuum tuarum exsultabo.

[5] Quam magnificata sunt opera tua, Domine! nimis profundae factae sunt cogitationes tuae.

[6] Vir insipiens non cognoscet, et stultus non intelliget haec.

[7] Cum exorti fuerint peccatores sicut fœnum, et apparuerint omnes qui operantur iniquitatem, ut intereant in sæculum sæculi;

[8] tu autem Altissimus in æternum, Domine.

[9] Quoniam ecce inimici tui, Domine, quoniam ecce inimici tui peribunt; et dispergentur omnes qui operantur iniquitatem.

[10] Et exaltabitur sicut unicornis cornu meum, et senectus mea in misericordia uberi.

[11] Et despexit oculus meus inimicos meos, et in insurgentibus in me malignantibus audiet auris mea.

[12] Justus ut palma florebit; sicut cedrus Libani multiplicabitur.

[13] Plantati in domo Domini, in atriis domus Dei nostri florebunt.

[14] Adhuc multiplicabuntur in senecta uberi, et bene patientes erunt:

[15] ut annuntient quoniam rectus Dominus Deus noster, et non est iniquitas in eo.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XCI.

Salmo da cantare in sabbato (in festa), ad ammaestramento del popolo nelle opere di Dio, la creazione ed il governo del mondo.

Salmo, ovver cantico pel giorno di sabbato.

1. Buona cosa ell’è il dar gloria al Signore, e cantar inni al tuo nome, o Altissimo.

2. Per celebrare al mattino la tua misericordia e la tua verità nella notte;

3. Cantando sopra il saltero a dieci corde e sopra la cetra.

4. Perocché tu mi hai letificato, o Signore, colle cose fatte da te, e nelle opere delle tue mani io esulto.

5. Quanto sono magnifiche, o Signore, le opere tue! grandemente profondi sono i tuoi consigli.

6. L’uomo insensato non gl’intenderà, e lo stolto non capirà tali cose.

7. Allorché i peccatori saran venuti su come l’erba, ed avran fatta la loro comparsa tutti quelli che operano l’iniquità,

8. Essi periranno per tutti i secoli; ma tu, o Signore, tu sei eternamente l’Altissimo.

9. Imperocché ecco che i nemici tuoi, o Signore, ecco che i nemici tuoi periranno, e saranno spersi tutti quelli che operano l’iniquità.

10. E la mia forza sarà esaltata, come quella dell’unicorno; e la mia vecchiezza per la copiosa misericordia.

11. E il mio occhio guarderà con disprezzo i miei nemici, e le mie orecchie udiranno novella intorno a coloro che si levan su e malignano contro di me.

12. Fiorirà il giusto come la palma; s’innalzerà qual cedro del Libano.

13. Allorché son piantati nella casa del Signore, fioriranno nell’atrio della casa del nostro Dio.

14. Ringioveniranno di nuovo in pingue vecchiezza, e saranno ben forti per annunziare,

15. Come il Signore Dio nostro ègiusto, e non è in lui la minima iniquità.

Sommario analitico

In questo salmo, composto per essere cantato nel giorno del sabbat, Davide è in contemplazione davanti all’opera della Creazione, del governo della provvidenza divina (1).

I.- Dichiara che è giusto e buono lodare Dio:

1° con il cuore,

2° con la bocca, – a) per annunciare al mattino la misericordia di Dio, – b) o la sua verità nella notte (1, 2);

3° con il concorso degli strumenti (3).

II. – Egli motiva la dichiarazione che sta per fare, è a causa:

1° dell’opera della creazione; – a) è uno spettacolo meraviglioso e che riempie di gioia l’anima di coloro che  lo considerano con attenzione (4); – b) resta impenetrabile invece per coloro che lo considerano senza intelligenza (5, 6);

2° del governo dell’universo e della Provvidenza divina, che si manifesta – a) nella sorte riservata ai malvagi dopo la loro prosperità passeggera; – b) nel regno eterno di Dio e del suo Cristo, e nel suo trionfo sui suoi nemici (9); – c) nella protezione segnalata che Dio accorda a coloro che Gli sono fedeli: 1) Dio li solleva durante la loro vita, 2) li ricolma di beni fino alla loro estrema vecchiaia (10); 3) alla morte essi disprezzano i loro nemici (11); 4) essi fioriscono come palma e si moltiplicano come il cedro(12); 5) la ragione di questo splendore, di questa fecondità, è che essi sono piantati nella casa del Signore, e si moltiplicheranno in una vecchiaia feconda, per annunziare la giustizia e la sanità di Dio (13, 15). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. 1-3.

ff- 1-3. – Prendete consiglio dagli uomini ed essi vi diranno come sia bene fare la corte ai grandi della terra, il lusingarli, cantare le loro lodi, elevare monumenti alla gloria del loro nome. Consigli frivoli e quasi sempre perniciosi. Il Profeta vede come un’unica occupazione sia veramente lodevole e necessaria, se non quella di rendere omaggio al Signore, celebrare il suo santo Nome; e non abbiamo la temerarietà – dice S. Agostino – di mescolare il nostro amor proprio, la nostra vanità, nel culto che rendiamo a Dio. Ci è stato detto che i nostri nomi sarebbero scritti nel cielo e nel libro della vita, ma a condizioni che non cerchiamo se non la gloria del Nome di Dio. Che sia santificato il vostro Nome, è la preghiera che ci viene raccomandata, e quale Nome può essere paragonato al Nome di Dio? (Berthier). – È molto giusto, utile, piacevole e glorioso lodare il Signore: questo è giustissimo perché questa lode gli è dovuta; è cosa molto utile perché per noi è la fonte di gran merito e mediante essa, di gran ricompensa; piacevolissima, perché nulla è più dolce che lodare ciò che si ama; molto gloriosa perché è le medesima funzione degli Angeli (Bellarm.). – « È buono confessare al Signore. » Ma cosa confessare al Signore? Nell’uno o nell’altro caso, confessate al Signore: se avete peccato, ché siete voi che l’avete fatto; se avete compiuto qualche bene, è Lui che lo ha fatto. Allora canterete sul salterio, in Nome del Dio Altissimo, cercando la sua gloria e non la vostra, il suo Nome e non il vostro. Se cercate il Nome di Dio, Egli cercherà il vostro; ma se voi cancellate il Nome di Dio, Egli cancellerà il vostro. (S. Agost.). – Il giorno e la notte sono egualmente capaci di far risuonare le lodi di Dio, le lodi della sua bontà e le lodi della sua verità. Anche Davide ci dice in un altro salmo, il XXXIII, che egli benedice il Signore in ogni tempo, che la sua lode è sempre sulla sua bocca. Tuttavia sembra che la luce che al mattino viene a rivelare all’uomo le innumerevoli meraviglie della creazione, ovvero il giorno, sia per eccellenza il tempo favorevole all’espressione dei sentimenti di ammirazione e di riconoscenza che eccita la vista di tanti benefici, dovuti unicamente alla bontà divina; mentre la notte, anch’essa sì ricca di tante meravigliose opere del Creatore, ne vela una gran parte, e che avvolge in un vasto silenzio le città e le campagne, le montagne ed i mari, sia maggiormente destinata ai gravi pensieri, alle meditazioni seriose, ai sentimenti di venerazione e di timore, a tutto ciò che ispira, in una parola, l’idea della verità, che nello stesso tempo è l’idea della giustizia. (Rendu). – Cosa significa ancora che bisogna annunziare la misericordia di Dio al mattino e la verità di Dio durante la notte? Il mattino rappresenta la felicità di cui possiamo gioire; la notte rappresenta la tristezza che ci causa il dolore. Cosa dunque ha espresso il Profeta in queste poche parole? Quando siete nella felicità, rallegratevi in Dio, perché questo stato felice è opera della sua misericordia. Ma – direte – se io mi rallegro in Dio quando sono nella felicità, perché questo stato felice è opera della sua misericordia, cosa farò quando sarò nella tristezza e nell’afflizione? La felicità mi viene dalla sua misericordia, l’infelicità mi verrebbe dal suo rigore? No: ma nella felicità, lodate la sua misericordia, e nell’infelicità, lodate la sua verità; se Egli punisce i vostri peccati, non per questo è ingiusto. Daniele era di notte che pregava, perché Gerusalemme era prigioniera, in potere dei nemici. Allora i Santi erano caricati di mille mali; allora Daniele stesso fu gettato nella fossa dei leoni; allora i tre giovani furono precipitati nella fornace. Era notte, e durante questa notte, Daniele glorificava il Signore: diceva nella sua preghiera: « noi abbiamo peccato, abbiamo agito da empi, abbiamo commesso l’iniquità; a Voi la gloria Signore, a noi la confusione. » (Dan. VI, 5-7). Egli annunciava la verità durante la notte. Che significa annunziare la verità durante la notte? Non accusare Dio del male che si soffre, ma attribuirlo ai vostri peccati ed all’emenda che Egli vuol promuovere in voi. Se voi annunciate la sua misericordia al mattino e la sua verità durante la notte, voi lodate Dio in ogni tempo, confessate Dio in tutti i tempi e celebrate il suo Nome sul salterio (S. Agost.). – Questi strumenti musicali che si toccavano con le mani, ed il canto che vi si univa, ci insegnano che bisogna lodare Dio con la bocca e con le opere. Se pronunciate soltanto le parole, cantate un cantico senza l’accompagnamento sulla cetra; se agite solo senza aggiungere le buone parole, non fate che suonare la sola arpa. Bisogna dunque ben fare e ben dire, se volete canta sull’arpa.    

II. — 4-15.

ff. 4, 5. – Davide non dice: la vista delle vostre creature mi ha riempito di gioia; ma Voi mi avete riempio di gioia alla vista delle vostre creature, perché non bisogna fermarsi alla gioia che danno le creature; è il Creatore che bisogna vedere in esse, è Lui che ci fa gioire: 1° perché è nascosto sotto le creature come sotto un velo; 2° perché non cessa di agire in tutte le creature; 3° perché è infinitamente più bello, più perfetto di tutti gli esseri che Egli ha creato. – Si ama nell’intendere Davide darsi a queste crisi di gioia alla vista delle bellezze della natura, e possiamo giustamente concluderne che lo studio delle scienze naturali sia ben lungi dall’essere contrario alla Religione. Queste scienze sono belle, quando se ne sa penetrare lo spirito; esse sono nocive quando le si prendono alla leggera. Un po’ di scienza allontana dallo spirito di Dio, molta scienza ve lo riconduce. Bisogna lavorare molto per stimare la materia, per comprendere ciò che essa abbia di bello, di regolarità matematiche, di obbedienza assoluta alle leggi; e poi bisogna lavorare ancora per comprendere quanto essa sia comunque poca cosa. –  Davide si eleva dalla contemplazione delle creature, fino al Creatore stesso, e in esse ama il Creatore. Innamorato di questa bellezza immortale, egli prende ad amarlo e a rallegrarsi in Dio. – È Dio stesso che deve riempirci di gioia manifestandoci le opere delle sua mani. Se le bellezze sensibili sparse nelle opere del Creatore fissano i nostri pensieri, se è in esse che noi concentriamo i nostri sentimenti, esse ci incantano, ci seducono e diventano per noi una rete in cui i piedi degli insensati sono presi. (Sap. XIV, 11). – Sant’Agostino ammirava le opera di Dio, ma aggiungeva: « Che cosa sono al vostro confronto, Signore? Alla vostra presenza, ogni bellezza, ogni bontà si eclissa. – E a cosa devono condurre le alte scienze. O filosofi dei giorni nostri, di qualunque livello voi siate, o osservatori degli astri, contemplatori della natura inferiore ed attaccati a ciò che si chiama fisica, o occupati nelle scienze astratte che si chiamano matematiche, in cui la verità sembra presiedere più che nelle altre, io non voglio dire che non abbiate oggetti degni dei vostri pensieri; perché di verità in verità, voi potete giungere fino a Dio, che è Verità delle verità, sorgente di verità, la Verità stessa, in cui sussistono le verità che voi definite eterne, verità eterne ed immutabili, che non possono non essere verità, e che tutti coloro che aprono gli occhi in esse, e non di meno al di sopra di esse, poiché esse regolano i loro ragionamenti come quelli degli altri e presiedono alle conoscenze di tutto ciò che vede ed intende, sia uomini, sia Angeli. È questa verità che dovete cercare nelle vostre scienze. Coltivate dunque queste scienze, ma non lasciatevene assorbire; non presumete e non crediate di essere qualcosa più degli altri, perché conoscete le proprietà e le ragioni delle grandezze e delle infimità, il vostro cibo di spiriti curiosi e deboli che dopo tutto non porta a nulla, che esiste ma non ha nulla di solido che, per quanto si abbia l’amore della verità e l’abitudine di conoscerla negli oggetti certi, fa cercare la vera ed utile certezza in Dio solo (Bossuet, Elév. XVII, S. m., E.). – Quanto magnifiche sono le vostre opere, Signore! I vostri pensieri sono di una profondità infinita. In verità non c’è un mare sì profondo che non sia questo pensiero di Dio, di lasciare i malvagi nella prosperità ed i buoni nella sofferenza; non c’è acqua sì profonda, così alta; è in questa altezza, in questa profondità che ogni incredulo fa naufragio. Volete uscire da questo abisso? Non lasciate la Croce del Cristo e non sarete sommerso; tenetevi attaccati al Cristo. Cosa significa ciò che dico: tenetevi attaccati al Cristo? È tale lo scopo della sofferenza che ha voluto sopportare sulla terra. Soffrite dunque e sopportate le afflizioni del mondo, per meritare questo fino che avete visto realizzato nel Cristo, e non lasciatevi scuotere dall’esempio di coloro che fanno il male e sono floridi in questo mondo. « I vostri pensieri sono di una profondità infinita. » Qual è il pensiero di Dio? Al presente, lascia cadere le redini, ma le serrerà più tardi. Non condividete la gioia del pesce che trionfa della preda che ha afferrato: il pescatore non ha ancora tirato l’amo, ma l’amo è già nella gola del pesce. Il tempo che vi sembra lungo, in realtà è breve; ogni cosa passa presto, che cos’è la più lunga vita dell’uomo in confronto all’eternità di Dio? Volete avere longanimità? Considerate l’eternità di Dio; altrimenti voi considerate i pochi giorni che vi rimangono, e voi vorreste che in questi pochi giorni si compiano tutte le cose. Ma quali cose dunque? Che tutti gli empi siano condannati e tutti i buoni coronati. Voi volete dunque vederli tutti compiuti nel breve spazio della vostra vita? Dio li compie alla loro ora. Perché risentirvene o annoiarvene? Dio è eterno; Egli differisce, mostra longanimità. Ma voi dite: è perché io non duro che un momento, perché io manco di longanimità. È in vostro potere l’essere come Dio: unite il vostro cuore all’eternità di Dio e sarete eterno come Lui. (S. Agost.).

ff. 6-9. – Chi sono questi insensati? Coloro dei quali san Paolo ha detto: « Avendo conosciuto Dio, essi non l’hanno glorificato come Dio, non gli hanno reso grazie, ma sono svaniti nei loro pensieri ed il loro cuore insensato è stato oscurato. Questi uomini, che si dicono saggi, son divenuti folli; » (Rom. I, 21, 22); ed ancora: « l’uomo animale non comprende le cose che sono dello Spirito di Dio: esse gli sembrano una follia, non può comprenderle, perché se ne giudica bene solo con lo Spirito. » (1 Cor. II, 14). – Quali sono le cose che lo stolto non comprenderà e che l’insensato non conoscerà? « Quando i peccatori si saranno elevati come il fieno … » Che vuol dire: « come il fieno? » Esso è verde fino all’estate, ma venuto l’inverno, si secca. Vedete il fiore del fieno. C’è cosa che passa più in fretta? C’è nulla di più fresco? Nulla di più verde, non vi compiacete della sua freschezza, ma temete la maniera in cui dissecca. (S. Agost.). – La saggezza divina appare soprattutto in ciò che si lascia elevare ed apparire un momento come malvagio per perderlo per sempre, mentre essa lascia disseccare un momento il giusto alla radice per farlo rifiorire nell’eternità. – I peccatori non periscono allo stesso modo in cui sono fioriti: essi fioriscono in mezzo ai falsi beni, periscono in mezzo ai veri tormenti. (S. Agost.., sul Ps. LIII). – Voi avete visto degli imperatori, avete visto dei prefetti, delle armate, avete visto vittorie, trionfi, tutto questo è passato ieri e non esiste oggi (S. Girol. Su questo Ps.). – Il salmista non vuol dire che Dio li fa nascere e li colma di beni perché  siano riprovati, egli espone solo il fatto, mostra qual sia il termine della loro grandezza passeggera… – « Ma Voi, Signore, Voi siete l’Altissimo per l’eternità. » Voi attendete dall’alto, nella calma della vostra eternità che il tempo degli ingiusti passi e venga il tempo dei giusti … Dio è pieno di longanimità e di pazienza; Egli soffre tutte le iniquità che vede commettere dai malvagi. Perché? Perché Egli è eterno e vede ciò che è a loro riservato. Volete ancor voi avere pazienza e longanimità? Unitevi all’eternità di Dio, attendete con Lui ciò che è sotto di voi. – L’accecamento e la stupidità della maggior parte degli uomini, in rapporto a Dio ed alle sue opere temporali o spirituali, non impedisce affatto che essi riescano in questo mondo. Essi crescono con la rapidità dell’erba, si coprono di fiori, producono frutti abbondanti, prosperano, si elevano, salgono sui pinnacoli; poi, tutto ad un colpo, cadono e periscono per l’eternità. (Rendu). – In opposizione ai malvagi, che gioiscono per qualche istante di prosperità e che sono poi precipitati in un abisso di miserie senza fine e senza limiti, il salmista fa apparire Dio con i suoi attributi più incomunicabili, Potenza al di sopra di ogni altra potenza, una esistenza eterna. Ora si spiega perfettamente sia l’intera sconfitta dei suoi nemici sia il trionfo dei giusti. Nel numero di questi giusti coronati di gloria, figurano coloro ai quali Dio ha fatto la grazia di servirli dai loro più giovani anni, e che Egli ricompensa in questo mondo, accordando loro una verde e florida vecchiaia. Favore, del resto, che è un bene minore per essi, di cui ritarda il ritorno nella patria celeste, che per la loro famiglia di cui sono il modello, per la società di cui sono l’ornamento e l’edificazione (Rendu).

ff. 10-15. – Ecco l’opposizione della sorte dell’uomo giusto nei confronti di quella degli empi. La forza del giusto non sarà simile a quella dell’erba disseccata che passerà rapidamente, ma a quella di questo corno elevato e potente che i liocorni portano sulla loro fronte, e la sua vecchiaia si rinnoverà con l’abbondante misericordia di Dio; questa forza, che nello stesso tempo è una potenza, una gloria ed una felicità, non sarà solamente grande, energica, ma ancora durevole e persevererà fino alla sua estrema vecchiaia, che sarà sempre attiva e feconda (Bellarm.). – Non bisogna credere che il Profeta, parlando della vecchiaia, supponga anche la morte, secondo il fatto che l’uomo non invecchia nella carne che per morire. La vecchiaia della Chiesa sarà bianca a causa della purezza delle sue azioni, ma non subirà la corruzione della morte. Tale è la testa di un vegliardo, tali saranno le nostre opere. Voi vedete come la sua testa diventi bianca e calva, man mano che la vecchiaia si avanzi. In un uomo vecchio nel suo tempo naturale, cercherete vanamente sulla sua testa un capello nero, non lo troverete; ugualmente, se la nostra vita è stata nel giusto, e cercando il nero del peccato, non lo si trova, la nostra vecchiaia sarà una vera giovinezza, una vecchiaia sempre verde. Il Profeta ci ha parlato del fieno dei peccatori, ecco ora la vecchiaia dei giusti: « la mia vecchiaia sarà colma di abbondante misericordia. » (S. Agost.). – Non c’è che colui che disprezza il suo nemico e che non ha nulla da temere nel guardarlo in viso, considerarlo; se lo teme fugge alla sua presenza (Bellarm.). – « Egli ha gettato un occhio di disprezzo sui miei nemici. » Chi sono coloro che egli chiama i suoi nemici? Tutti coloro che commettono l’iniquità. Non notate forse che il vostro amico è un uomo di iniquità? Che si prospetta un affare e voi lo disapprovate. Da come vi elevate contro la sua ingiustizia, voi vedrete che, nel lusingarvi, sarà vostro nemico; ma voi non avete ancora sondato il suo cuore, non per farlo divenire ciò che non era, ma per forzarlo a mostrare ciò che era. – « Ed io ho gettato un occhio di disprezzo sui miei nemici, e il mio orecchio ascolterà ciò che sarà detto al soggetto di coloro che vogliono nuocermi. » Quando questo? Nella mia vecchiaia. Cosa vuol dire: nella mia vecchiaia? Nell’ultimo giorno! E cosa ascolterà il nostro orecchio? Posti alla destra del Cristo, noi ascolteremo ciò che sarà detto a coloro che saranno posti alla sua sinistra: « Andate nel fuoco eterno che è stato preparato per il demonio e per i suoi angeli. » (Matt. XXV, 11). Il giusto non ha da temere l’ascolto di queste terribili parole. È detto in un altro Salmo: « … la memoria del giusto sarà eterna; egli non temerà di dovere intendere la parola cattiva. » (Ps. CX, 7) – (S Agost.). – « Il giusto fiorirà come una palma, si moltiplicherà come i cedri del Libano. » Bisogna comprendere questa moltiplicazione del giusto, come una crescita; è il senso del testi. Si sa che il cedro si eleva a grande altezza, che la palma porta dei fiori molto belli e frutti in abbondanza. Il profeta sceglie questi alberi come termini di paragone, per dare l’idea più esatta dell’uomo giusto. Si è detto qui sopra che gli empi sono come l’erba dei campi, che appare e appassisce molto presto. Egli oppone qui la bellezza, la fecondità del giusto che compara ai due alberi più rinomati della Giudea: le palme ed i cedri cominciano ad emettere delle radici profonde nel seno della terra, ed i giusti entrano nell’abisso del loro niente prima di produrre dei frutti degni di immortalità. Le loro radici, dice San Agostino, sembrano come quella della palma e del cedro, aggrovigliate, irregolari, disseminate di nodi, perché nel procedere della virtù, le prime sono più difficili; ma l’umiltà e la pazienza superano tutti gli ostacoli, e da lì esce il tronco magnifico che si leva fino al cielo. L’ardore del sole fa appassire il fiore dei campi; ma i grandi alberi del Libano resistono ai fuochi voraci dell’estate, come al gelo dell’inverno, e quando la collera divina si infiammerà come una fornace, nel giorno delle vendette, il giusto non sarà raggiunto dall’incendio che consumerà gli empi; Questo avverrà al contrario nei riguardi del servitore fedele. Il giudizio di Dio verrà, conclude S. Agostino, per divorare i peccatori e per coprire i giusti di un nuovo splendore (Berthier) – I Padri rimarcano nel cedro delle eccellenti qualità: innanzitutto, la sua altezza maestosa che domina le montagne; poi il profumo che diffonde; infine questa proprietà che possiede di essere meno soggetto alla corruzione. Il giusto che, con la speranza, si porta incessantemente verso i beni eterni, somiglia al cedro che si eleva maestoso sulla montagna; come esso esala dei profumi, se con le sue pere e le sue virtù, spande in ogni luogo il buon odore di Gesù-Cristo; come lui, infine, sfugge alla corruzione perché, fermamente fissato in Dio da un solido amore, non si lascia corrompere da alcuna affezione terrena. (Mgr. DE LA Bouillerie, Symbolismo, 417). – La ragione per la quale i giusti saranno come le palme ed i cedri del Libano, è che non saranno piantati nelle foreste o nelle montagne deserte, ma nella casa di Dio, uniti a Dio con le radici della vera fede, portando i frutti dei buoni costumi, fondati sulla carità, ornati di fiori di purezza (Bellarm.). – Poiché il giusto è piantato nella casa di Dio, le sue foglie, i suoi fiori, e i suoi frutti vi crescono e sono dedicati al servizio di sua Maestà. « Esso è come l’albero piantato lungo corsi d’acqua, che produce il suo frutto a suo tempo; anche le sue foglie non cadranno; tutto ciò che fa, prospererà. » (Ps. I, 2). Non solo i frutti della carità ed i fiori delle opere che produce, ma pure le foglie delle virtù morali e naturali traggono una speciale prosperità dall’amore del cuore che le produce (S. Franc. De Sales, T. de l’am.de Dieu, I, XI, c, I). – L’uomo giusto che è invecchiato nei santi esercizi della pietà raccoglie, sul ritorno dell’età tutti i frutti della sua fedeltà. Egli è più istruito che mai circa le verità divine e sulle vie divine, dice S. Girolamo:  « Ætate fit doctior, usu tritior, processu lempore sapientior, et veterum studiorum dulcissimos fructus metit (Epist. 2 ad Nep.); egli ne parla con tutta l’autorità che dà una lunga esperienza. Più si avvicina al termine, più i suoi sentimenti si sviluppano, più i suoi meriti si moltiplicano … oh! Se la giovinezza andasse a riposare all’ombra di questa palma carica di fiori e frutti; se si mettesse al riparo dalle bufere del mondo sotto questo cedro magnifico che porta la sua testa verso il cielo e le cui radici si approfondano fin nelle viscere della terra; se essa ascoltasse gli insegnamenti di questa vecchiaia pieno di forza e di vigore per annunciare a tutti i popoli l’equità della condotta di Dio, con i suoi discorsi, la sua pazienza e con l’umile sottomissione ai decreti divini. Questa pazienza, necessaria soprattutto ai predicatori, ai dottori, ai superiori. « La dottrina di un uomo si riconosce dalla sua pazienza. » (Prov. XIX, 11). « … Annunziate la parola, insistete in ogni occasione, opportuna e non opportuna; ammonite, rimproverate, esortate, minacciate con ogni magnanimità e ogni sorta di istruzione. » (II Tim. IV, 2). « Essi saranno pieni di vigore e di pazienza per annunziare che il Signore nostro Dio è pieno di equità, e che in Lui non c’è ingiustizia. » Come non c’è ingiustizia in Lui? Ecco un uomo che non conosce che il male; ebbene, egli gode di una buona salute, ha figli, la sua casa è piena di ricchezze, è coperto di gloria, ricolmo di onori, progetta vendette per i suoi nemici e commette anche ogni sorta di cattive azioni. Ed eccone un altro che conduce onestamente i suoi affari, che non prende i beni altrui, che non fa del male a nessuno, e soffre nelle prigioni e nelle catene, sospira e muore nell’indigenza. Com’è allora in Dio non c’è ingiustizia? Conservate la pace e comprenderete perché vi turbate, e nella vostra camera segreta vi aprirete alla luce da voi stessi. Il Dio eterno vuole illuminarvi con i suoi raggi, non oscuratelo con le nubi del vostro agitarvi. Conservate la vostra pace dento di voi ed ascoltate cosa ho da dirvi: Dio è eterno, risparmia attualmente i malvagi per portarli al pentimento, punisce i buoni per insegnar loro la via del regno dei cieli; « … Non c’è ingiustizia in Lui, » non temete nulla. Ma fino a qual punto non ho sofferto? È evidente, io ho peccato, lo confesso, non pretendo d’essere giusto; ecco ciò che dice il maggior numero di gente. Se vedete un uomo nell’infelicità, nelle sofferenze, entrate da lui per consolarlo, ed egli vi dice: io ho peccato, lo confesso; io ho volpa, lo riconosco; ma io ho peccato come costui? Io so quale peccato ha commesso, io so quali colpe ha fatto: per quanto mi riguarda io ne ho senza dubbio, lo riconosco davanti a Dio, ma quanto esse sono minori delle sue? Ed io invece non ho da soffrire come lui! Non vi turbate conservate la vostra pace così da sapere che « il Signore è retto e che in Lui non c’è ingiustizia. » (S. Agost.).   

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI (CON CAZZUOLA E GREMBIULINO) DI TORNO: S. S. PIO X – “UNE FOIS ENCORE”

« … L’illusione infatti non è più possibile: si è dichiarata la guerra a tutto ciò che è soprannaturale, perché dietro al soprannaturale si trova Dio, e ciò che si vuol cancellare dal cuore e dall’anima dell’uomo è appunto Dio…» Questo è uno dei passaggi chiave della nuova lettera enciclica che il Santo Padre Pio X, nel corso del suo difficile Pontificato, indirizza al popolo francese, scosso da eventi drammatici voluti dalle sette ivi operanti, come chiaramente indicato in un successivo passaggio: « … Le dichiarazioni, mille volte fatte e ripetute nella stampa, nei congressi, nelle conventicole massoniche, nel seno stesso del parlamento, lo provano tanto, quanto gli attacchi che vennero progressivamente e metodicamente rivolti contro di lei. » Per farsi ben intendere, il Sommo Pontefice utilizza addirittura la lingua d’oltralpe e difende con grande vigore i diritti della Chiesa francese vilmente calpestati da leggi inique emanate da governi “fantoccio” diretti dalle logge dei “figli della vedova”, tentacoli velenosi della piovra di “quelli che odiano Dio, la sua unica vera Chiesa, tutti gli uomini ed in particolare i Cristiani”. Questa oppressione poi doveva manifestarsi in tutta Europa, nell’America latina, ed ovunque vi fosse una società cristianamente organizzata. Oggi sembra che questa lotta sia attenuata, ma è una fallace impressione, poiché la setta infernale, la sinagoga di satana dei grembiulini, si è stabilmente infiltrata nei sacri palazzi dell’urbe e dell’orbe, ed indisturbata conduce singoli e popoli interi al fuoco eterno senza colpo (apparentemente) ferire, anzi – guidando pure tutta la stampa mondiale, ad essa totalmente asservita – finge ottimismo, buonismo e filantropia in cui c’è tolleranza per ogni genere di errore, laico, gnostico o pseudoreligioso che sia, ma preclude assolutamente al pensiero ed alla dottrina cristiana. Però, grazie a Dio, la Chiesa Cattolica (non quella a-Cattolica del Va’-t’inganno), resiste pur nelle moderne catacombe e negli spazi strettissimi, angusti ed asfissianti di un culto sotterraneo, in attesa della manifestazione improvvisa e potente del Re del mondo, il Creatore dei cieli e della terra, che con il soffio della sua bocca (v. II Tess.), brucerà il demonio anticristo insediato nel luogo santo della Sede Apostolica, e dei suoi dannati (anzitempo) adepti. E allora niente più illusioni, ci avverte S. Pio X, siamo in un combattimento tremendo, essenzialmente spirituale, in cui il vincitore sarà chi, sostenuto dal Creatore di tutte le cose visibili ed invisibili, con la sua grazia, resisterà alla “civile” barbarie ed alla feroce persecuzione ideologica e dottrinale, quella che forse non conduce alla gloriosa morte fisica del martirio dei primi secoli della Chiesa, patita sotto gli imperatori romani, ma peggio ancora, pur se invisibile all’occhio di carne, alla sicura morte eterna dell’anima. Facciamo nostro il grido accorato del Sommo Pontefice e preghiamo affinché il Signore, per intercessione della Beata Vergine nostra Madre e Madre di Dio, abbrevi questi giorni funesto e decisivi per la salvezza di miliardi di anime, e con una sovrabbondanza di grazia ci conduca alla vita eterna, nel Regno di cui ci ha costituito suoi coeredi. 

S. S. PIO X

“UNE FOIS ENCORE”

I gravi avvenimenti che incalzano nel vostro nobile paese ci portano a rivolgere, ancora una volta, la parola alla Chiesa di Francia per sostenerla nelle sue prove e consolarla nel suo dolore. È infatti allorquando i figli sono in angoscia che il cuore del padre deve più che mai volgersi verso di loro. È per questo che, quando Noi vi vediamo soffrire, dal fondo del paterno animo l’effusione della tenerezza deve sgorgar più copiosa e venire a voi più feconda di conforto e più soave. – Queste afflizioni, venerabili fratelli e figli dilettissimi, hanno al presente un’eco dolorosa in tutta la Chiesa Cattolica: ma Noi le  sentiamo in una maniera ancora più viva e vi compatiamo con una tenerezza, che, aumentando con le vostre prove, sembra accrescersi di giorno in giorno. A queste crudeli amarezze il Signore ha unito, è vero, una consolazione che non potrebbe essere più preziosa per il Nostro cuore. Essa Ci venne dal vostro incrollabile attaccamento alla Chiesa, dalla vostra fedeltà indefettibile a questa Sede Apostolica e dall’unione forte e profonda che regna tramezzo a voi. Di questa fedeltà e di questa unione Noi già da prima eravamo sicuri, e poiché troppo bene conosciamo la nobiltà e generosità del cuore francese, per avere a concepire il timore che, nell’ardore della battaglia, potesse la disunione insinuarsi nelle vostre file. Non per questo però meno grande è la gioia che Noi proviamo, nel vedere lo spettacolo magnifico che voi date presentemente encomiandovene al cospetto di tutta la Chiesa, benediciamo dal fondo del cuore il Padre delle misericordie, Aurore  di ogni bene. Il far ricorso a questo Dio infinitamente buono è tanto più necessario in quanto la lotta, lungi dall’acquetarsi, si inasprisce ognora più e va senza tregua estendendosi. Non è più soltanto la fede cristiana che si vuole ad ogni costo sradicata dall’intimo dei cuori, è addirittura ogni credenza che, sollevando l’uomo ad disopra degli orizzonti di questo mondo, lo porta soprannaturalmente a fissare lo stanco suo guardo verso il cielo. L’illusione infatti non è più possibile. si è dichiarata la guerra a tutto ciò che è soprannaturale, perché dietro al soprannaturale si trova Dio, e ciò che si vuol cancellare dal cuore e dall’anima dell’uomo è appunto Dio. Questa lotta sarà accanita e senza tregua da parte di coloro che la muovono. A misura che essa si andrà svolgendo, è possibile ed anche probabile che vi aspettino prove più dure di quelle che avete conosciute finora. La saggezza dunque impone a ciascuno di voi di prepararvisi. Voi lo farete schiettamente, virilmente  e con fiducia, sicuri che, qualunque sia la violenza della battaglia, la vittoria rimarrà infine nelle vostre mani. Pegno di questa vittoria sarà la vostra unione: unione prima tra voi, unione poi con questa Sede Apostolica. Questa duplice unione vi renderà invincibili, e contro di essa tutti gli sforzi si infrangeranno. I vostri nemici del resto non si sono risparmiati a questo riguardo. Fin dal primo momento e con una grande sicurezza di vedute,  essi hanno scelto il loro obiettivo: in primo luogo, separarvi da Noi e dalla cattedra di Pietro, poi seminare la divisione in mezzo a voi – Da allora in poi non hanno affatto cambiato tattica; a questa sono ritornati costantemente e con tutti ì mezzi; gli uni con formule avviluppate e piene di destrezza, gli altri con brutalità e con cinismo. Promesse ingannatrici, premi ignominiosi offerti allo scisma, minacce e violenze, tutto è stato messo in gioco ed adoperato. Ma la vostra illuminata fedeltà ha  sventato tutti questi tentativi. Pensando allora che il miglior mezzo per separarvi da Noi, era il togliervi ogni fiducia nella Sede Apostolica, essi non hanno esitato a gettare dall’alto della tribuna e nella stampa il discredito sui Nostri atti, misconoscendo e talvolta calunniando perfino le Nostre intenzioni. La Chiesa, si è detto, cerca di suscitare in Francia la guerra religiosa e affretta con tutti i suoi voti la persecuzione violenta. – Strana davvero siffatta accusa. Fondata da Colui che venne al mondo per pacificarlo e per riconciliare l’uomo con Dio, messaggera di pace su questa terra, la Chiesa non potrebbe volere la guerra religiosa se non ripudiando la sua sublime missione e rinnegandola al cospetto di tutti. – Essa al contrario rimane e rimarrà sempre fedele a questa missione di paziente dolcezza e di amore. D’altra parte il mondo intero oggi sa, né può su ciò cadere in inganno, che, se la pace delle coscienza è in Francia spezzata, ciò non è per iniziativa della Chiesa, ma per quella dei suoi nemici. Gli spiriti imparziali, anche quando non condividono la nostra fede, riconoscono tuttavia che, se nella patria vostra diletta si combatte sul terreno religioso, non è già perché la Chiesa sia stata la prima ad ingaggiare la lotta, ma perché a lei stessa è stata dichiarata la guerra. Questa guerra, da venticinque anni in modo particolare, essa non fa che subirla. Ecco la verità. Le dichiarazioni, mille volte fatte e ripetute nella stampa, nei congressi, nei conventi massonici, nel seno stesso del parlamento, lo provano tanto, quanto gli attacchi che vennero progressivamente e metodicamente rivolti contro di lei. Questi sono fatti innegabili e contro i quali non potrà mai prevalere alcun argomento. La Chiesa dunque non vuole la guerra, la guerra religiosa meno ancora delle altre, e affermare il contrario significa lanciare contro di essa calunnia e un oltraggio. Né certo essa brama la persecuzione violenta. Questa persecuzione essa ben la conosce per averla sofferta in tutti i tempi e sotto tutti i cieli. Parecchi secoli per lei trascorsi nel sangue, le danno dunque il diritto di dire con una santa fierezza che essa non la teme punto, e che quante volte ciò sarà necessario, saprà bene affrontarla. Ma la persecuzione per se stessa è il male, perché è l’ingiustizia e impedisce all’uomo di adorare liberamente Dio. La Chiesa dunque non può desiderarla, in vista del bene che sempre, nella sua infinita sapienza, ne trae la Provvidenza. – Inoltre, la persecuzione non è soltanto il male, essa è altresì il dolore, ed è questa un’altra ragione per la quale non la desidererà giammai, per compassione verso i suoi figli, la Chiesa, che è la migliore delle madri. – Del resto, questa persecuzione, alla quale le si rimprovera di voler spingere altri e che si dichiara di essere fermamente decisi di rifiutarle, le viene poi inflitta realmente. Non vennero, forse, anche di recente, espulsi Vescovi dai loro vescovadi, e perfino i più venerandi fra essi e per età e per virtù; scacciati i seminaristi dai seminari maggiori e minori; non si è cominciato a bandirei curati dalle loro canoniche? Tutto il mondo cattolico ha veduto questo spettacolo con tristezza, e non ha esitato affatto nel dare a tali violenze il nome che ad esse si conveniva. – Per ciò che riguarda i beni ecclesiastici, che Ci si accusa di essere abbandonati, importa notare che questi beni erano per una parte il patrimonio dei poveri, e il patrimonio, più sacro ancora, dei defunti. Non era dunque lecito per la Chiesa né abbandonarli, né consegnarli; essa non poteva che lasciarseli strappare con la violenza. Nessuno del resto crederà che essa abbia abbandonato deliberatamente, se non sotto la pressione di ragioni più imperiose, ciò che le era stato così affidato, e che le era così necessario per l’esercizio del culto, per la conservazione degli edifici sacri, per la formazione dei suoi chierici e per il sostentamento dei suoi ministri. – È perché fu posta perfidamente di fronte alla scelta fra la rovina materiale e un’offesa consentita alla sua costituzione, la quale è di origine divina, che essa ha rifiutato, anche a costo della povertà, di lasciare attentare in lei all’opera di Dio. Le sono stati dunque tolti i suoi beni, non è essa che li ha abbandonati. Da ciò segue, che dichiarare i beni ecclesiastici vacanti ad un’epoca determinata, se a quest’epoca la Chiesa non ha creato nel suo grembo un organismo nuovo; sottoporre questa creazione a condizioni in manifesta opposizione con la divina costituzione di questa Chiesa, ponendola così nella necessità di respingerle; attribuire poi questi beni a terzi, come se fossero divenuti beni senza padrone, e infine affermare che con l’agire in siffatto modo non si spoglia la Chiesa, ma si dispone soltanto di beni da lei abbandonati, non è già soltanto un ragionare da sofisti, ma un aggiungere la derisione alla più crudele delle spogliazioni. – Spogliazione innegabile, del resto, e che si cercherebbe invano di inorpellare, affermando che non esisteva alcuna persona morale a cui questi beni potessero venire attribuiti; giacché lo stato è padrone di conferire la personalità civile a chiunque il pubblico bene esige sia conferita, agli Istituti Cattolici come agli altri, e, in ogni caso, gli sarebbe stato facile non sottoporre la formazione delle associazioni cultuali a condizioni che fossero in opposizione diretta con la divina costituzione della Chiesa, alla quale si riteneva dovessero servire. – Ora, è questo precisamente quel che si è fatto relativamente alla associazioni cultuali. La legge le ha organizzate in modo tale che le sue disposizioni a questo riguardo vanno direttamente ad opporsi ai diritti, che, derivando dalla sua costituzione, sono essenziali alla Chiesa, specialmente in ciò che tocca la gerarchia ecclesiastica, base inviolabile data all’opera sua dallo stesso divin Maestro. Di più, la legge conferisce a queste associazioni attribuzioni che sono di esclusiva competenza dell’Autorità Ecclesiastica, sia per ciò che concerne l’esercizio del culto, sia per quel che riguarda il possesso e l’amministrazione dei beni. Infine, non solamente queste associazioni cultuali vengono sottratte alla giurisdizione ecclesiastica, ma sono fatte giudicabili dall’autorità civile. Ecco perché Noi, nelle precedenti Nostre encicliche, siamo stati tratti a condannare queste associazioni cultuali, malgrado i sacrifici materiali che questa condanna implicava. – Siamo stati accusati altresì di partito preso e di incoerenza. Si è detto che Ci rifiutavamo di approvare in Francia ciò che era stato approvato in Germania. Ma questo rimprovero manca tanto di fondamento quanto di giustizia. Giacché, sebbene la legge germanica fosse condannabile in parecchi punti, ed essa non sia stata che tollerata per evitare mali maggiori, purtuttavia le situazioni sono del tutto differenti, e quella legge riconosce espressamente la Gerarchia Cattolica, ciò che non fa punto la legge francese. – Quanto alla dichiarazione annuale, richiesta per l’esercizio del culto, essa non offriva tutta la sicurezza legale che si aveva diritto di desiderare. Pur nullameno – sebbene come principio le riunioni dei fedeli nelle chiese non abbiano alcuno degli elementi costitutivi propri delle pubbliche riunioni, e, come fatto, sia odioso il volerle assimilare a queste, – per evitare mali maggiori, la Chiesa avrebbe potuto essere tratta a tollerare questa dichiarazione. Ma con lo stabilire che « il curato o l’officiante non sarebbe più nella sua chiesa «che un occupante senza titolo giuridico, che non avrebbe diritto per fare alcun atto d’amministrazione », si è imposta ai ministri del culto, nell’esercizio stesso del loro ministero, una situazione talmente umiliante e vaga, che con simili condizioni la dichiarazione non poteva più venire accettata. – Resta la legge recentemente votata dalle due camere. – Dal punto di vista dei beni ecclesiastici, questa legge è una legge dispogliazione, una legge di confisca, e per essa si è consumata la spogliazione della Chiesa. Sebbene il suo divin Fondatore sia nato povero in una mangiatoia e sia morto povero sopra una croce,sebbene essa stessa abbia conosciuto dalla sua culla la povertà, i beni che essa aveva in sua mano le appartenevano come una proprietà di cui nessuno aveva diritto di spogliarla. Questa proprietà, indiscutibile sotto tutti i punti di vista, era stata altresì ufficialmente sancita dallo stato, ed esso per conseguenza non poteva violarla. – Dal punto di vista dell’esercizio del culto,  questa legge ha organizzato l’anarchia: ciò che per essa infatti si instaura anzitutto, è l’incertezza e l’arbitrio. Incertezza se gli edifici del culto, sempre suscettibili di essere tolti alla loro destinazione, saranno o no, nel frattempo, a disposizione del clero e dei fedeli; incertezza se saranno o no conservati loro e per quale lasso di tempo; l’arbitrio amministrativo chiamato a regolare le condizioni del godimento, reso eminentemente precario; tante situazioni diverse per il culto in Francia, quanti sono in essa i comuni, in ciascuna parrocchia il prete posto a discrezione dell’autorità municipale, e, per conseguenza, il conflitto virtualmente organizzato da un capo all’altro del paese. Al contrario, obbligo di far fronte a tutti gli oneri, anche i più gravosi, e, al tempo stesso, limitazione draconiana per ciò che concerne le risorse destinate a provvedervi. – Così, nata da ieri, questa legge ha già sollevato innumerevoli e aspre critiche da parte di uomini appartenenti indistintamente a tutti i partiti politici e a tutte le opinioni religiose, e soltanto queste critiche basterebbero per giudicarla. – È facile riconoscere, per ciò che Noi vi abbiamo ricordato, venerabili fratelli e figli dilettissimi, come questa legge aggravi la legge di separazione, e perciò Noi non possiamo che riprovarla. – Il testo inesatto e ambiguo di alcuni fra gli articoli di questa legge pone in una nuova luce lo scopo voluto dai nostri nemici. Essi vogliono distruggere la Chiesa, scristianizzare la Francia, come Noi già vi dicemmo, ma senza che il popolo se avveda troppo e possa, per così dire, farvi attenzione. Se la lo impresa fosse veramente popolare, com’essi pretendono, non sarebbero perplessi a proseguirla a visiera alzata, e ad assumerne altamente tutta la responsabilità. Ma da questa responsabilità, lungi dall’assumerla, essi si schermiscono, la respingono, e, per meglio riuscirvi, la rigettano sulla Chiesa, vittima loro. È questa la più luminosa di tutte le prove, che la loro opera nefasta non risponde affatto ai voti del paese. – È vano, del resto, che dopo aver posto Noi nella crudele necessità di respingere le leggi fatte da loro – vedendo i mali che hanno attirato sopra la patria e sentendo l’universale riprovazione montare come una lenta marea verso di loro – cerchino di fuorviare la pubblica opinione e di far ricadere la responsabilità di questi mali sopra di Noi. Il loro tentativo non riuscirà. – Quanto a Noi, abbiamo adempiuto il Nostro dovere, come avrebbe fatto qualunque altro Vescovo di Roma. L’alto Ufficio, a cui è piaciuto al Cielo investirci, malgrado la Nostra indegnità, come del resto la stessa fede di Cristo, fede che voi professate con Noi, Ci dettava la Nostra condotta. Non avremmo potuto agire altrimenti, senza calpestare la Nostra coscienza, senza mancare al giuramento che Noi abbiamo prestato nel salire sulla Cattedra di Pietro, e senza violare la Gerarchia Cattolica, base data alla Chiesa da nostro Signore Gesù Cristo. Attendiamo, per conseguenza, senza timore il verdetto della storia. Essa dirà che, fissi immutabilmente gli occhi alla difesa dei diritti superiori di Dio, Noi non abbiamo affatto voluto umiliare il potere civile né combattere una forma di governo, ma tutelare l’opera intangibile del nostro Signore e Maestro, Gesù Cristo.  – Essa dirà che Noi vi abbiamo difeso, figli dilettissimi, con tutta la forza dell’immensa Nostra tenerezza; che ciò che Noi reclamato e reclamiamo per la Chiesa, di cui la Chiesa di Francia è la figlia primogenita e una parte integrante, è il rispetto della sua Gerarchia, l’inviolabilità dei suoi beni e la libertà che, se si fosse fatta ragione alla Nostra domanda, la pace religiosa non sarebbe stata turbata in Francia, e che il giorno in cui la si ascolterà, questa pace così desiderabile rinascerà. – Essa dirà infine che se, anticipatamente sicuri della vostra magnanima generosità, Noi non abbiamo esitato a dirvi che l’ora del sacrificio era suonata, è per ricordare al mondo, nel nome del Padrone di tutte le cose, che l’uomo deve nutrire quaggiù preoccupazioni più alte che quella per le contingenze caduche di questa vita, e che la gioia suprema, l’inviolabile gioia dell’anima  su questa terra, è il dovere soprannaturalmente compiuto a qualunque costo, e, per ciò stesso, Dio onorato, e amato malgrado tutto, – Confidando che la Vergine Immacolata, figlia del Padre, Madre del Verbo, sposa dello Spirito Santo, vi otterrà dalla santissima ed adorabile Trinità giorni migliori, come presagio della calma che seguirà la tempesta, ne abbiamo ferma speranza, Noi dal fondo dell’anima accordiamo la Nostra apostolica benedizione a voi, venerabili fratelli, come pure al vostro clero e a tuto intero il popolo francese.

Roma, presso San Pietro, il giorno dell’Epifania, 6 gennaio quarto del Nostro pontificato.

PIO PP. X

DOMENICA III DOPO L’EPIFANIA (2020)

DOMENICA III DOPO L’EPIFANIA

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le Domeniche III, IV, V, e VI dopo l’Epifania hanno il medesimo Introito, Graduale, Offertorio e Communio, che ci manifestano che Gesù è Dio, che opera prodigi, e che bisogna adorarlo. La Chiesa continua, infatti, in questo tempo dopo l’Epifania, a dichiarare la divinità di Cristo e quindi la sua regalità su tutti gli uomini. E il Re dei Giudei, è il Re dei Gentili. Così la Chiesa sceglie in San Matteo un Vangelo nel quale Gesù opera un doppio miracolo per provare agli uni e agli altri d’essere veramente il Figlio di Dio. – Il primo miracolo è per un lebbroso, il secondo per un centurione. Il lebbroso appartiene al popolo di Dio, e deve sottostare alla legge di Mosè. Il centurione, invece, non è della razza d’Israele, a testimonianza del Salvatore. Una parola di Gesù purifica il lebbroso, e la sua guarigione sarà constatata ufficialmente dal Sacerdote, perché sia loro testimonianza della divinità di Gesù (Vang.). Quanto al centurione, questi attesta con le sue parole umili e confidenti che la Chiesa mette ogni giorno sulle nostre labbra alla Messa, che Cristo è Dio. Lo dichiara anche con la sua argomentazione tratta dalla carica che egli ricopre: Gesù non ha che da dare un ordine, perché la malattia gli obbedisca. E la sua fede ottiene il grande miracolo che implora. Tutti i popoli prenderanno dunque parte al banchetto celeste nel quale la divinità sarà il cibo delle loro anime. E come nella sala di un festino tutto è luce e calore, le pene dell’inferno, castigo a quelli che avranno negato la divinità di Cristo, sono figurate con il freddo e la notte che regnano al di fuori, da queste « tenebre esteriori » che sono in contrasto con lo splendore della sala delle nozze. Alla fine del discorso sulla montagna « che riempi gli uomini d’ammirazione » S. Matteo pone i due miracoli dei quali ci parla il Vangelo. Essi stanno dunque a confermare che veramente « dalla bocca di un Dio viene questa dottrina che aveva già suscitato l’ammirazione » nella Sinagoga di Nazaret (Com.). –Facciamo atti di fede nella divinità di Gesù, e, per entrare nel suo regno, accumuliamo, con la nostra carità, sul capo di quelli die ci odiano dei carboni di fuoco (Ep.), cioè sentimenti di confusione che loro verranno dalla nostra magnanimità, che non daranno ad essi riposo finché non avranno espiato i loro torti. Cosi realizzeremo in noi il mistero dell’Epifania che è il mistero della regalità di Gesù su tutti gli uomini. Uniti dalla fede in Cristo, devono quindi tutti amarsi come fratelli. « La grazia della fede in Gesù opera la carità » dice S. Agostino (2° Notturno).

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCVI: 7-8
Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae.
[Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]
Ps XCVI: 1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.
[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae. [Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, infirmitatem nostram propítius réspice: atque, ad protegéndum nos, déxteram tuæ majestátis exténde.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, volgi pietoso lo sguardo alla nostra debolezza, e a nostra protezione stendi il braccio della tua potenza].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII: 16-21
Fratres: Nolíte esse prudéntes apud vosmetípsos: nulli malum pro malo reddéntes: providéntes bona non tantum coram Deo, sed étiam coram ómnibus homínibus. Si fíeri potest, quod ex vobis est, cum ómnibus homínibus pacem habéntes: Non vosmetípsos defendéntes, caríssimi, sed date locum iræ. Scriptum est enim: Mihi vindícta: ego retríbuam, dicit Dóminus. Sed si esuríerit inimícus tuus, ciba illum: si sitit, potum da illi: hoc enim fáciens, carbónes ignis cóngeres super caput ejus. Noli vinci a malo, sed vince in bono malum.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

IL BUON ESEMPIO

“Fratelli: Non vogliate essere sapienti ai vostri propri occhi: non rendete a nessuno male per male. Procurate di fare il bene non solo dinanzi a Dio, ma anche dinanzi a tutti gli uomini. Se è possibile, per quanto dipende da voi, siate in pace con tutti gli uomini. Non fatevi giustizia da voi stessi, o carissimi, ma rimettetevi all’ira divina, poiché sta scritto: A me la vendetta; ripagherò io », dice il Signore. Anzi, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; perché, così facendo, radunerai sul suo capo carboni ardenti. Non lasciarti vincere dal male; al contrario vinci il male con il bene”. (Romani XII, 16-21).

L’Epistola di quest’oggi è tolta dalla lettera ai Romani. L’Apostolo, premesso che non dobbiamo stimar tanto noi stessi da credere di non aver bisogno dell’insegnamento degli altri, ci invita a tenere una condotta tale che sia di edificazione al prossimo. Soprattutto dobbiamo avere lo spirito di mansuetudine e di tolleranza. Così facendo, dei nostri nemici ci faremo degli amici, guadagnandoli a Dio. Il brano riportato ci suggerisce di parlare del buon esempio che è una scuola:

1. A cui tutti possono apprendere,

2. Che tutti possono fare,

3. Che riesce molto efficace.

1.

Procurate di fare il bene non solo dinanzi a Dio, ma anche dinanzi a tutti gli uomini.

Con queste parole l’Apostolo ci insegna « ad aver davanti agli occhi i beni futuri, affinché si facciano quelle cose, le quali, compiute che siano, non possano venir riprese, ma, anzi, venir lodate e da Dio e dagli uomini», (Ambrosiaster, in h. 1). Le nostre opere devono essere lodate dagli uomini, non perché vi trovi pascolo la nostra vanagloria; ma perché il prossimo ne resti edificato, e ne renda gloria a Dio. Se le nostre opere saranno incensurabili presso Dio e presso gli uomini, noi compiremo un vero apostolato, tanto più sapiente, quanto più è spoglio d’ogni apparato della scienza e della coltura. – L’insegnamento che viene dal buon esempio può essere compreso da tutti. A questa scuola possono imparare grandi e piccoli, senza limiti di età, senza condizione di studi precedentemente fatti. Non attestati, non prove subite, non raccomandazioni. Nonostante l’istruzione obbligatoria, vediamo che i maestri non possono far entrare il loro ragionamento in teste di capacità limitata. Ci sono quelli, che ogni anno passano normalmente da una classe all’altra: ci sono quelli che avanzano un po’ zoppicando, un anno si, un anno no. Ci sono pure quelli che rimangono al medesimo posto per una buona fila d’anni. Tutte le cognizioni e tutta l’abilità del maestro non possono trovare la via per arrivare all’intelligenza di certi scolari. L’insegnamento del buon esempio è facilmente inteso anche da costoro. È  una scuola a cui possono apprendere qualche cosa anche coloro che tengono cattedra agli altri. Negli studi, ogni nuova cognizione che s’acquista ci persuade che siamo dei veri ignoranti; perché ci fa constatare che quello che abbiamo imparato è ben poco di fronte a quello, che ogni giorno ci rimane da imparare. Così, l’esempio buono che viene dagli altri ci insegna che qualche cosa manca sempre alla nostra perfezione. Oggi scopriamo nel prossimo una virtù che manca a noi, domani impariamo a far meglio ciò che credevamo di compiere con esattezza.

2.

Se è possibile, per quanto dipende da voi, siate in pace con tutti gli uomini.

S. Paolo viene a parlare dell’esercizio della carità tra i Cristiani, e inculca subito la pace. Noi non dobbiamo porre, da parte nostra, nessun ostacolo alla pace. Anzi, se c’è un ostacolo, dobbiamo mettere ogni impegno per toglierlo. Ma delle volte può darsi che, con tutto il nostro sforzo, non si possa avere la pace per colpa di chi non vuol assolutamente saperne di vivere in pace con noi. Delle volte, con tutta la nostra buona volontà di pace, ci sentiamo fermati da un dovere. Dovremmo acconsentire a delle ingiustizie, approvare una condotta riprovevole, ecc. È impossibile stringere una pace a queste condizioni. Perciò l’Apostolo dice: se è possibile. Se non sempre è possibile essere in pace col nostro prossimo, è sempre possibile amarlo, dimostragli il nostro amore con la preghiera e soprattutto col buon esempio. È ciò che S. Ignazio raccomandava caldamente agli Efesi. « Pregate incessantemente anche per gli altri. Poiché c’è speranza che anch’essi si pentano, e giungano a Dio. Ammaestrateli, almeno, coi vostri esempi » (S. Ignazio M. Ad Ephes. 10, 1). Tutti possiamo ammaestrare il nostro prossimo, almeno con gli esempi. Non si richiede un’alta condizione sociale. Un operaio, una persona di servizio, un garzone di bottega, un contadino possono dare, in fatto di vita cristiana, insegnamenti altissimi. Nella loro vita cercano di ricopiare gli esempi di Gesù Cristo: possono quindi dire con la loro condotta «Siate miei imitatori come io di Cristo». (I Cor. IV, 10). Non si richiede una coltura speciale. La storia della Chiesa ci addita fari luminosi di santità in persone digiune affatto di lettere. Neppure c’è da darsi attorno per dei preparativi speciali. Non fa bisogno di diramare inviti, d’affiggere manifesti, di scegliere l’ora e il tempo più propizio, di inchinarsi a Tizio e a Caio per avere un locale adatto. Qualunque persona, che ti si presenti o che incontri inaspettatamente, o semplicemente ti veda, può essere ammaestrata dal tuo esempio. Gli oratori di cartello fanno le loro prediche nelle solennità, nelle ricorrenze speciali. Ma, se tu vuoi, ogni ora, ogni giorno, ogni momento puoi fare la tua predica. Senza muovere un passo, senza incomodare nessuno puoi esercitare l’opera tua in casa, nei campi, nella bottega, nello stabilimento, nell’ufficio, in strada, in treno. Puoi essere un maestro, senza salire in cattedra; un predicatore senza salire sul pulpito, un apostolo senza traversare i mari. Basta che tu viva da buon Cristiano, poiché chi ben vive, ben predica.E dal momento che è possibile a tutti, è anche obbligatorio per tutti. Se siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre, dobbiamo tutti essere interessati a controbilanciare il male, che reca offesa al nostro Padre, e che è così diffuso nel mondo. E il modo migliore di controbilanciare il male è sempre il buon esempio, che edifica ove il cattivo esempio distrugge. «Ciascuno di voi — ammonisce l’Apostolo — si renda grato al prossimo nel bene per edificazione». (Rom. XV, 2).

3.

Se il tuo amico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere: perché, così facendo, radunerai sul suo capo carboni ardenti. Cioè, il tuo nemico sarà scosso dalla tua beneficenza inaspettata e nel suo cuore si accenderà il fuoco della riconoscenza e della carità. Secondo S. Agostino sono pure dei carboni ardenti quelli che con il loro esempio, ci spingono a mutar vita. «Chi ieri era ubriacone, oggi è sobrio; chi ieri era adultero, oggi è casto; chi ieri era ladro, oggi è benefico. Tutti questi sono dei carboni ardenti» (En. in Ps. CXXXIX, 14).Difatti, i buoni esempi accendono i cuori, e li spingono, sotto l’impulso della grazia, a propositi efficaci. La parola è una fiaccola che illumina la mente, l’esempio è una forza che scuote la volontà. Un capitano che con parole sonanti invita i suoi soldati a uscire dalla trincea per attaccare una posizione, ben difficilmente scuoterà l’animo dei suoi uomini Se si avanza egli coraggiosamente pel primo, sarà seguito. I genitori, i superiori, gli insegnanti, non saranno mai educatori se alla parola non aggiungono l’esempio. Le loro norme non faranno forte impressione, se non sono accompagnate dai fatti. Tutte le loro osservazioni, invece d’essere un fuoco che suscita, sono una doccia che raffredda.« Niente — dice il Crisostomo è più freddo di un dottore che ragiona solamente con la parole» (in Act. Hom. 1, 2). Son buone le ammonizioni, gli avvisi, ma gli esempi sono più efficaci. Ben dire val molto, ben fare passa tutto. «E’ cosa buona l’insegnare, se chi parla fa ciò che insegna» (S. Ignazio M. ad Ephes. 15, 1). Perciò S. Paolo nell’indicare a Tito quello che deve insegnare aggiunge: «In ogni cosa mostrati modello di buone opere» (Tit. II, 7).Gli abitanti di Janaguchi, uno dei luoghi evangelizzati dal Zaverio, rimasti molti anni senza Sacerdoti e senza ministero ecclesiastico, così si esprimono in una loro supplica al Visitatore e Vice provinciale dei Gesuiti:« Noi siamo le primizie dei Cristiani del Giappone… Da venticinque anni viviamo sotto un re tirannico, e questo piccolo gregge di Cristiani, stretto tutt’intorno dal paganesimo, è senza Sacramenti, senza Messa, senza l’aiuto dei Padri e dei Fratelli, che ci mancano da lunghi anni. Al loro posto Dio ci aveva lasciato due Cristiani di forte fede e di grande virtù, la cui dottrina e il cui esempio ci hanno sostenuti finora. Per completare la nostra disgrazia sono morti entrambi nello spazio di un mese. Perciò, umilmente e con le lagrime preghiamo Vossignoria Reverendissima di ricordarsi del nostro abbandono, affinché non vadano perdute questo anime, che sono costatetanto al Redentore del mondo » (Scmurhammer, Janaguchi, in Die Katholiscen Missionem, 1927, p. 365.). Due semplici Cristiani, che. con l’esempio aggiunto alla parola, sostengono per lunghi anni, in paese pagano, sotto un governo tirannico, una Cristianità insidiata, rimasta senza sacerdoti e senza l’esercizio del culto divino, ci dicono, più di qualunque lungo trattato, quale sia l’efficacia del buon esempio.Davanti al buon esempio, si piega la testa che non si è mai piegata davanti ai ragionamenti, alle discussioni, alle dispute. Davanti al buon esempio si tiene alta la fronte con perseveranza in faccia a difficoltà e ostacoli d’ogni genere. Volesse il cielo, che nel giorno del rendiconto potessimo avere al nostro attivo qualche anima convertita o resa costante dal nostro esempio.

Graduale

Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.
[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua
[V. Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps XCVI: 1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ. Allelúja.
[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt VIII: 1-13
In illo témpore: Cum descendísset Jesus de monte, secútæ sunt eum turbæ multæ: et ecce, leprósus véniens adorábat eum, dicens: Dómine, si vis, potes me mundáre. Et exténdens Jesus manum, tétigit eum, dicens: Volo. Mundáre. Et conféstim mundáta est lepra ejus. Et ait illi Jesus: Vide, némini díxeris: sed vade, osténde te sacerdóti, et offer munus, quod præcépit Móyses, in testimónium illis.
Cum autem introísset Caphárnaum, accéssit ad eum centúrio, rogans eum et dicens: Dómine, puer meus jacet in domo paralýticus, et male torquetur. Et ait illi Jesus: Ego véniam, et curábo eum. Et respóndens centúrio, ait: Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur puer meus. Nam et ego homo sum sub potestáte constitútus, habens sub me mílites, et dico huic: Vade, et vadit; et alii: Veni, et venit; et servo meo: Fac hoc, et facit. Audiens autem Jesus, mirátus est, et sequéntibus se dixit: Amen, dico vobis, non inveni tantam fidem in Israël. Dico autem vobis, quod multi ab Oriénte et Occidénte vénient, et recúmbent cum Abraham et Isaac et Jacob in regno coelórum: fílii autem regni ejiciéntur in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Et dixit Jesus centurióni: Vade et, sicut credidísti, fiat tibi. Et sanátus est puer in illa hora.

OMELIA II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE VIII.

 “In quel tempo, sceso che fu Gesù dal monte, lo seguirono molte turbe. Quand’ecco un lebbroso accostatosegli lo adorava, dicendo: Signore, se vuoi, puoi mondarmi. E Gesù, stesa la mano, lo toccò, dicendo: Lo voglio; sii mondato. E fu subito fu mondato dalla sua lebbra. E Gesù gli disse: Guardati di dirlo a nessuno; ma va a mostrarti al sacerdote, e offerisci il dono prescritto da Mose in testimonianza per essi. Ed entrato che fu in Capharnaum, andò a trovarlo un centurione, raccomandandosegli, e dicendo: Signore, il mio servo giace in letto malato di paralisi nella mia casa, ed è malamente tormentato. E Gesù gli disse: Io verrò, e lo guarirò. Ma il centurione rispondendo, disse: Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; ma di’ solamente una parola, e il mio servo sarà guarito. Imperocché io sono un uomo subordinato ad altri, e ho sotto di me dei soldati: e dico ad uno: Va ed egli va; e all’altro: Vieni, ed egli viene; e al mio servitore: Fa la tal cosa, ed ei la fa. Gesù, udite queste parole, ne restò ammirato, e disse a coloro che lo seguivano : In verità, in verità vi dico, che non ho trovato fede sì grande in Israele. E Io vi dico, che molti verranno dall’oriente e dall’occidente, e sederanno con Abramo, e Isacco, e Giacobbe uel regno de’ cieli: ma i figliuoli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori: ivi sarà pianto e stridore di denti. Allora Gesù disse al centurione: Va, e ti sia fatto conforme hai creduto. E nello stesso momento il servo fu guarito”. (Matt. VIII, 1-13).

Spesse volte il divin Redentore per istruire gli Apostoli e le moltitudini andava ad assidersi sopra una delle colline, che costeggiano il bel Lago di Genezaret. Ivi gli Apostoli e le turbe si aggruppavano dintorno a Lui, ed egli alla frescura dell’ombra degli alberi, tra l’incanto della natura feconda e profumata, innalzava le menti ed i cuori de’ suoi uditori insino a Colui che fa sorgere il suo sole sopra i buoni e sopra i cattivi. Uno di questi discorsi è rimasto celebre sopra ogni altro, perché in esso Gesù Cristo diede i principali precetti della morale cristiana, e si chiama per eccellenza: Il discorso del monte. Fra le tante altre cose dette in tale discorso, Gesù Cristo aveva pure raccomandato di chiedere a Dio tutte le grazie, che ci abbisognano, assicurando l’efficacia della preghiera. « Chiedete, aveva detto, e otterrete; cercate e troverete, picchiate e vi sarà aperto » (Matth. VII, 7). Or bene, terminato che ebbe questo discorso, e sceso che fu dal monte, ecco che gli si presentò subito l’occasione di confermare con due stupendi fatti la verità di quel che aveva detto. E sono questi due fatti, che il Vangelo di questa domenica propone alla nostra considerazione.

1. Essendo adunque Gesù disceso dal monte, seguito da tutta quella turba, che con grande attenzione e meraviglia aveva ascoltato il suo sermone, ecco farglisi incontro un uomo tutto coperto di lebbra, il quale si avvicina, si prostra innanzi a Gesù Cristo, e colla più intera fiducia gli dice: Signore, se voi volete, potete mondarmi: Domine, si vis, potes me mundare. Gesù stende la mano, lo tocca e gli dice: Lo voglio; sii mondato: Volo mundare. E nello stesso istante la lebbra che lordava il corpo di quell’infelice scomparve, ei fu miracolosamente guarito: Confestim mundata est lepra ejus ». Immaginate la gioia, da cui fu invaso quel povero uomo così repentinamente guarito da una malattia tanto schifosa, e che lo segregava dal consorzio degli uomini. Egli adunque fuori di sé per la contentezza, pieno di gratitudine pel divin Redentore, già stava per ripetere ed esaltare a gran voce il Nome di chi lo aveva sanato. Ma Gesù, volendo darci esempio di umiltà e farci conoscere quanto davvero fuggisse le lodi degli uomini, disse al lebbroso: Guardati di dirlo a nessuno; ma vanne, mostrati al sacerdote: ostende te sacerdoti; ed offerisci il dono prescritto da Mosè in testimonianza per essi. Così ordinò Gesù a questo lebbroso, mostrando grande rispetto per le leggi, secondo le quali apparteneva ai soli sacerdoti il giudicare se un lebbroso era purificato dalla sua sozzura, o se ne era tuttora infetto. E quelli, che essi dichiaravano guariti e sanati da ogni corruzione, liberi in avvenire di mescolarsi colla società degli uomini, dovevano presentare un’offerta, se ricchi, di due agnelli, una pecora, tre misure di farina ed una di olio, se poveri di un agnello, due tortore o due colombi, ed una misura di farina ed una d’olio. – Ora, o miei cari, in questo primo fatto del Santo Vangelo d’oggi, Gesù Cristo ci adombra meravigliosamente la grande guarigione dal peccato, che opera in noi il Sacramento della Penitenza. Voi non ignorate come la lebbra sia del peccato una esatta figura. La lebbra cominciava ad avvizzire una parte del corpo, quindi stendeva a poco a poco i crudeli suoi guasti, e finiva di corrompere tutta la massa del sangue. Parimente il peccato, penetrando la sostanza dell’anima, non ne vizia subito tutte le facoltà; da principio lascia ancora sussistere un certo qual desiderio del bene, ragione per cui l’anima, rea di colpa mortale, prova tosto dei cocenti rimorsi. Ma se ella resiste a questi vivi rimproveri della coscienza, ricadrà nel peccato con piacere, ne contrarrà l’abitudine, e si sentirà quasi irresistibilmente trascinata a commetterlo con una spaventevole frequenza. In questo stato la vergognosa lebbra del peccato infetterà tutto il suo essere, la sua intelligenza, la sua immaginazione, la sua memoria, il suo cuore, la sua volontà, per cui non curando più, né Dio, né anima, né eternità, non penserà più ad altro che a contentare le sue immonde brame. Inoltre come la malattia della lebbra costringeva coloro che ne erano affetti a vivere separati dal consorzio umano, così la lebbra del peccato produce in coloro, che ne sono divenuti schiavi, la più deplorevole separazione, perciocché a cagione di questa lebbra restano separati da Dio, che non può risiedere in un cuore soggetto alla colpa; restano separati dall’amicizia degli Angeli, che non possono soffrire la vicinanza del peccatore; restano separati dalla Comunione dei Santi, i cui meriti non possono essere loro partecipati se non in un modo assai imperfetto. Ora, o miei cari, poiché chi si è ricoperto della lebbra del peccato è caduto in tanta miseria, non potrà più, quando efficacemente il voglia, uscire da questo stato infelice e guarire interamente dal suo male? Sì, senza alcun dubbio, per mezzo del sacramento della misericordia, per mezzo della Penitenza, nella quale è bensì Gesù Cristo con la sua grazia quegli, che opera in noi la grande guarigione dalla colpa e ci ridona la sanità dell’anima, ma a patto però che noi pratichiamo la legge da Lui stesso stabilita di presentarci al suo Sacerdote e di mostrargli la nostra coscienza, confessando tutte le colpe mortali, che si ebbe la disgrazia di commettere, senza nulla mascherare, senza nulla diminuire, senza nulla tacere volontariamente, e di offrire dinnanzi a lui quel sacrifizio, che Davide chiama sacrifizio dello spirito tribolato, del cuore contrito ed umiliato. Or ecco la ragione principale, per cui molti nel Sacramento della Penitenza non guariscono dai loro peccati, si macchiano anzi di nuove gravissime colpe: non praticano in esso le leggi da Gesù Cristo stabilite; tacciono volontariamente dei peccati gravi, non sentono dei medesimi un vero dolore. Ed oh Dio volesse che fosse scarso il numero di questi infelici! Ma purtroppo l’Inferno, come ebbe a veder S. Teresa, va tuttodì riempiendosi di anime innumerevoli, che vi precipitano per le confessioni malfatte. Quasi tutti i Cristiani, che si dannano, si può dire che vanno dannati per questo. Difatti, quasi tutti prima di morire hanno la grazia di confessarsi. Ma molti, avvezzi a confessarsi male in vita, si confessano male anche in morte, e così la confessione in quegli estremi momenti non è per i miseri che un passaporto per l’Inferno. Questo ci deve incutere un salutare timore, ed impegnarci a star ben in guardia, onde non succeda anche a noi una sì tremenda sciagura; epperò quando andiamo a confessarci preghiamo ferventemente il Signore, la Madonna, i nostri Angeli Custodi, specialmente perché ci diano tutta la forza necessaria per procedere col nostro confessore con tutta la sincerità ed apertura di cuore, svelandogli tutte le nostre piaghe, anche più segrete e vergognose. Usiamo poi il massimo impegno per concepire un vivo dolore e fermo proponimento, che non sia solo di semplice apparenza, ricordandoci che con Dio non si scherza e che Egli non si contenta delle belle parole, ma guarda il cuore. Allora possiamo ben avere la morale certezza che nelle nostre confessioni saremo anche noi mondati dalla lebbra del peccato.

2. Il Vangelo d’oggi ci fa poscia conoscere un’altra guarigione miracolosamente operata dal nostro divin Salvatore. Nell’entrar che faceva in Cafarnao, gli si accostò un centurione. Al pari del lebbroso diresse una prece a Colui, che da padrone comandava alle malattie ed alla morte. Ma non è per sé, che il centurione implora la bontà di Gesù Cristo: Signore, dice egli, ho in mia casa un servo che patisce assai; la malattia gli toglie l’uso delle membra: Puer meus iacet in domo paralitìcus, et male torquetur. Gesù Cristo risponde a quel padrone così compassionevole: verrò in vostra casa, e guarirò quel paralitico: Ego veniam et curabo eum. – Al pensiero che riceverà in sua casa quel visitatore divino, il centurione è confuso. Egli non ha domandato un tale onore; non merita questo incomparabile favore. Signore, esclama, io non son degno che voi entriate nella mia abitazione, ma proferite soltanto una parola, e il mio servo sarà guarito, imperciocché io che sono costituito in dignità, io che ho dei soldati sotto i miei ordini, non ho che a pronunziare una parola per essere all’istante obbedito; dico all’uno: Va’, ed egli va; dico ad un’altro: Vieni, e viene; dico al mio servo: Fa’ questo, e lo fa. Ora, voi comandate a tutta la natura con autorità assai maggiore ch’io non comandi ai miei soldati. Potevasi mai riconoscere e confessare più energicamente la Divinità di Gesù Cristo? Potevasi avere in Lui una fede più viva, più umile, più ferma? Lo stesso Salvatore si mostra ammirato all’udire questa professione di fede: Audiens autem Jesus, miratus est. E volgendosi a coloro che lo seguivano, disse: In verità, ve lo dichiaro, non ho trovato fede sì grande in Israele. E quindi ricompensando tanta fede, voltosi al centurione disse: Va, e sia fatto conforme hai creduto. E nello stesso momento il servo fu guarito. Or questo ammirabile esempio del centurione è quello, che noi dobbiamo fedelmente seguire allora che, più fortunati di lui non solo possiamo accostarci a Gesù per domandargli delle grazie, ma possiamo riceverlo dentro ai nostri cuori nella Santa Comunione. Sì, o miei cari, per ricevere Gesù nella S. Comunione è grandemente necessaria una fede, che sia viva come quella del centurione. Essendo la fede il primo movimento dell’anima verso Dio, è necessaria sommamente in tutti i misteri divini; ma è più che mai necessaria in questo, che per sua propria eccellenza s’intitola: Mistero di fede; imperocché Iddio non si è mai altrove tanto nascosto, quanto in questo. Nel mondo si nasconde Egli in vero ai sensi, i quali non vedono se non la superfice delle cose, ma si manifesta agli occhi della ragione, la quale mira Dio nelle creature, come nello specchio si mira il sole. Ma questo non può dirsi dell’Eucaristia, perché quivi, oltre al nascondersi ai sensi, si nasconde alla medesima ragione naturale, che da sé sola non può trapassar quei veli, per cui la divinità si rimane celata nell’umanità del Salvatore, e l’umanità si rimane nascosta sotto la sembianza del pane. Ravvivate dunque la fede, o miei cari, prima di accostarvi alla sacra mensa, onde possiate cibarvi con profitto di quelle carni santissime. Sforzatevi di concepire un’alta stima della maestà di quel Dio, che avete ad alloggiare nel vostro cuore, onde possiate riceverlo con gran rispetto e venerazione. Abbiate fede che ricevete quel Dio cosi grande, che, se guarda la terra la fa tremare, se tocca i monti li scioglie in nembi di fumo, e se chiama le stelle, queste, senza frapporre alcuna dimora, gli si presentano tutte luminose davanti, pronte ad eseguire ogni suo cenno… Abbiate fede che ricevete quel Dio così potente, che comanda alle onde del mare, che raffrena la furia dei venti e che domina tutta la natura… Abbiate fede che ricevete quel Dio così sublime, che abita una luce inaccessibile, ed innanzi a cui gli Angeli stessi se ne stanno col capo velato in contrassegno di gran rispetto all’infinita sua maestà… Abbiate fede che ricevete quel Dio, che né gli ampi spazi della terra, né gli abissi profondi del mare, né gli augusti tabernacoli del cielo possono contenere… Abbiate fede che ricevete il Dio d’ogni bontà e di ogni consolazione. Ma questa fede non sia solamente speculativa, bensì pratica, cioè tale che facendovi riconoscere la grandezza di Dio e la miseria vostra, vi induca al sentimento di una profonda umiltà e a dire di tutto cuore col Centurione e colla Chiesa, che si serve appunto delle sue parole: Signore, io non son degno che voi entriate in questa mia vilissima abitazione. S. Girolamo, gran dottore della Chiesa, essendo moribondo chiese il santo Viatico. Avvicinandosi alla sua stanza la santissima Eucaristia, egli si fece deporre sulla nuda terra, e poi raccolti quei pochi spiriti, che gli erano rimasti in quegli estremi, si alzò ginocchioni sul pavimento, e chinandosi profondamente e percuotendosi il petto, ricevé le carni sacratissime del divin Redentore. S. Guglielmo arcivescovo, dell’Ordine Cistercense, stando vicino a morire, domandò con grande istanza la santissima Eucaristia; e benché si trovasse sì estenuato di forze che non poteva volgersi da un fianco all’altro, anzi neppure ingoiare una stilla d’acqua, pure all’arrivo di Gesù Sacramentato balzò improvvisamente dal letto con stupore dei circostanti, ed a guisa di una fiamma languente, che in un lampo di luce subito si ravviva, andò incontro al suo Signore; più volte s’inginocchiò, più volte si chinò profondamente per adorarlo; e tra questi atti di viva fede e di umilissima riverenza lo ricevette. Riflettete infine che la fede per ricevere Gesù Cristo nella santissima Eucaristia, oltre ad essere umile, deve essere, come fu ancora la fede del Centurione, una fede ferma, sicché escluda ogni ombra di esitazione sopra sì gran mistero. Credete alla realtà di chi andate a ricevere con maggior fermezza, che se vedeste cogli occhi propri, e toccaste colle vostre stesse mani quelle carni gloriose. Quest’era la fede che aveva verso questo divinissimo Sacramento S. Luigi re di Francia. Celebrandosi Messa nella cappella reale, accadde, che nell’elevazione dell’ostia consacrata, apparve sugli occhi di tutto il popolo, ivi radunato, Gesù Cristo in forma di splendido e vago bambinello. Fu pregato il sacerdote a non ritirare le mani finché fosse avvisato il re del prodigioso avvenimento, onde avesse anch’egli la consolazione di trovarsi presente ad un sì giocondo spettacolo; e subito corsero i cortigiani alle stanze di lui per renderlo consapevole. Il santo re rispose loro così: Vada pure a mirare tali prodigi chi non crede trovarsi presente Gesù Cristo nell’ostia sacra, che io credo più che se lo vedessi cogli occhi miei; né volle partire dal suo gabinetto. Abbiate anche voi una simil fede, e non dubitate che come il Centurione ebbe per essa guarito il suo caro servo, così ancor voi dalla Santa Comunione ricaverete ammirabili effetti di santità.

3. Ma il Divin Redentore non contento di aver celebrata la fede del Centurione, volle ancora istituire un confronto tra i gentili, ai quali il Centurione apparteneva, così arrendevoli a credergli, e gli Ebrei così ostinati nel negargli fede. Epperò soggiunse: Ed io vi dico che verranno molti dall’Oriente e dall’Occidente, e sederanno nel regno con Àbramo, Isacco e Giacobbe, ma i figliuoli del regno verranno rigettati nelle tenebre esteriori; ivi sarà pianto e stridor di denti. Così adunque Gesù annunziava ai suoi Apostoli la vocazione dei gentili, e la punizione degli Ebrei ostinati. I Pagani dovevano un giorno credere alla Divinità di Gesù Cristo, come il centurione, e così meritare d’entrar nel regno de’ cieli. Molti Giudei all’opposto avrebbero ricusato di riconoscer il Messia nel re pacifico, dolce ed umile di cuore, ch’era venuto a chiamare tutti gli uomini alla cognizione del vero Dio e che dapprima aveva voluto aprire la via della salute ai figliuoli d’Israele, e ne sarebbero stati gravissimamente puniti. E qui, o miei cari, conviene riflettere come le terribili parole di Gesù Cristo si avverino purtroppo anche per molti Cristiani ai tempi nostri, i quali sembrano per tal modo prendere il posto dei Giudei. Di fatti dall’oriente all’occidente gli Apostoli di Gesù Cristo, i valorosi missionari a forza di tanti stenti, di tanti rischi, di tante pene vanno spargendo la luce del Vangelo in mezzo alle nazioni ed ai popoli più barbari e selvaggi. Eppure alla loro predicazione quegli uomini, che sembravano più indomabili, più sfrenati e più feroci delle fiere, col diventar Cristiani si sono cambiati e si cambiano tuttora in uomini celesti, in angeli terreni. Basta leggere gli annali della propagazione della fede, le relazioni dei missionari per conoscere la vivezza di fede, la purezza di vita, l’ardore di pietà, da cui quei nuovi Cristiani sono animati. E intanto mentre in quei lontani paesi avvengono questi mirabili mutamenti e si vive così cristianamente, che succede nei nostri? Ciò che succedeva fra i Giudei ai tempi di Gesù Cristo. Ormai l’indifferenza pratica per le cose di Dio, la sollecitudine continua di acquistare i beni temporali, la dimenticanza di quelli eterni, la smania degli onori, il furore dei godimenti sensibili, ha strappato da moltissimi giovani e Cristiani persino le tracce del Cristianesimo. Molti sono arrivati al punto da non curare più né culto di Dio, né Messa, né digiuni, né sacramenti, né pratiche di pietà, né divozione, né nulla che riguardi i doveri Cristiani. E così, mentre i selvaggi lontani abbracciando la fede e vivendo conforme alla stessa si guadagnano il regno di Dio, molti Cristiani di qui, dove pure avrebbero tante comodità per farsi santi, si preparano da se stessi quella terribile sentenza, per cui un giorno saranno gettati nelle tenebre esteriori, dove è pianto e stridore di denti. – Or bene, o miei cari, non ci sarà tra di noi alcuno che si trovi già nel numero di questi sventurati Cristiani, o che al meno loro si accosti? Esaminiamoci bene, e mentre siamo in tempo, con una vita tutta conforme alla fede, che Dio ci ha data, assicuriamoci un posto tra coloro che un giorno siederanno con Abramo, con Isacco, con Giacobbe, con tutti i santi nel regno dei cieli.

ALTRA OMELIA

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra i doveri reciproci dei padroni e dei servi

“Domine, puer meus iacet in domo paralyticus et male torquetur”.

Matth. VIII.

Ammiriamo, fratelli miei, la pietosa carità di quel centurione, di cui fa menzione l’odierno vangelo. Ha in sua casa un servo travagliato da paralisi, che lo mette fuori di stato di rendergli i suoi servigi: invece di licenziarlo come fanno oggi giorno assai padroni, che si disfanno di un servo che la malattia rende loro inutile, presso di sé lo ritiene; e siccome a nulla hanno servito i rimedi tutti che ha impiegati per guarirlo, informato del sommo potere di Gesù Cristo sulle malattie dei corpi a lui s’indirizza con la confidenza ispirata da una viva fede. Signore, gli dice, io ho un servo in mia casa crudelmente tormentato da paralisi: Domine, puer meus ec. Notiamo di passaggio la gran fede di quest’uomo: non chiede a Gesù Cristo di venire in sua casa, per guarire il suo servo, persuaso che la sua possanza non è annessa alla sua presenza, che ben può dal luogo ove è operare il miracolo: gli dice anzi di non venirvi; perché si riconosce indegno di riceverlo. Perciò la sua preghiera ebbe tutto l’effetto che ne attendeva: Gesù Cristo risanò il servo del centurione e fece elogi alla fede di quello straniero, dicendo che non avevane ritrovata una sì grande in Israello: Non inveni tantum fidem in Israel. Ma se la fede del centurione fu degna di elogio, la carità pel suo servo non ne merita meno, e ci fornisce nella sua persona il modello di un buon padrone. Si può dire ancora che il servo per cui egli s’interessa presso di Gesù Cristo meritato aveva con la sua fedeltà e con i suoi servizi una tale benevolenza dalla parte del suo padrone. E perciò, fratelli miei, nel disegno che ho d’istruire i padroni e i servi dei loro doveri reciproci a riguardo gli uni degli altri, ho creduto dover a loro proporre questi esempi del Vangelo per animarli ad adempiere le loro obbligazioni, ciascuno nel suo stato. Quali sono adunque i doveri dei padroni verso i servi? Ciò farà il primo punto. Quali sono i doveri dei servi verso i padroni? Ciò farà il secondo.

I . Punto. Bisogna che i padroni contratto abbiano di grandi obbligazioni verso i loro servi, poiché l’Apostolo s. Paolo non ha difficoltà alcuna di dire che chi non ha cura dei suoi, e particolarmente de domestici, ha rinnegata la fede ed è peggior di un infedele. Si quis suorum, et maxime domesticorum, curam non habet, fidem negavit et est infideli deterior (1 Tim. V). Quali sono dunque questi doveri dei padroni verso i loro servi? Adempier debbono a loro riguardo i doveri di giustizia, i doveri di carità, i doveri di pietà: doveri di giustizia per dar loro il dovuto alimento e salario; doveri di carità per soccorrerli nei loro bisogni e sopportarne i difetti; doveri di pietà per condurli a servir Dio ed aver cura della salute della loro anima. Tale è, padroni e padrone; l’estensione dei vostri obblighi: per compierli Iddio vi ha rivestiti della sua autorità e vi ha stabiliti capi delle vostre famiglie. Che obbligati siano i padroni per giustizia ad alimentare e pagare i loro servi, è una massima universalmente ricevuta anche nel mondo profano. Infatti, se i servi che si pongono al servizio di un padrone contraggono un obbligo stretto di servirlo in coscienza, il padrone scambievolmente si obbliga per lo stesso contratto ad alimentarli e pagar loro un conveniente stipendio. – I servi sacrificano per lo servigio del padrone la loro libertà, il loro riposo, la loro sanità, il loro tempo, i loro lavori: non è egli giusto che i padroni li nutriscono e li ricompensino a proporzione del servigio che ne ricevono? Ricusar dunque loro l’alimento o il salario non solo è peccare contro la carità, ma eziandio contro la giustizia, la quale non obbliga meno alla restituzione i padroni che fan qualche torto su questo punto ai loro servi, che se s’impadronissero dalla roba altrui. Di qual peccato non si rendono dunque colpevoli quei padroni duri e crudeli che negano gli alimenti ai loro servi o li nutriscono male, e cui rincresce vederli mangiare quel poco pane che loro danno; nel mentre che d’altra parte li opprimono di fatiche, non dando loro riposo alcuno né giorno né notte; e li trattano con più durezza che non farebbero con vili animali? Quale ingiustizia dal canto di quelli che non pagano ai loro servi gli stipendi convenuti, che ritengono la mercede degli operai che hanno per essi lavorato! E questo un peccato che domanda vendetta in cielo, dice lo Spirito Santo, siccome il sangue di Abele la domandava contro la crudeltà di Caino che assassinato lo aveva: Ecce merces operariorum, qui messuerunt regiones vestras, clamat in aures Dei (Jac. V). Non si trovano, è vero, comunemente padroni che ricusino assolutamente gli stipendi ai servi: convengono che è giusto di pagarli. Ma quanti ve n’ha che li fanno languire, ritardando loro la mercede con queste ingiuste dilazioni portando loro un pregiudizio considerabile, e privandoli di certi profitti che pur farebbero se fossero a tempo pagati! Riconoscete, padroni e padrone, l’indegnità della vostra condotta ed arrossite della vostra crudeltà; voi trascurate di pagare a quella povera gente ciò che per tanti titoli le dovete, mentre nulla ricusate a voi medesimi e fate servire ai vostri piaceri, ai vostri interessi un denaro che loro per diritto appartiene. Quanti vi ha ancora padroni ingiusti che ritengono ai servi una parte dello stipendio sotto il falso pretesto che non hanno ben servito, o con la scusa di qualche danno che loro imputano senza ragione, facendosi di tal guisa giudici in causa propria, senza volere ascoltare giustificazione alcuna dalla parte di quei meschini! Quanti che li licenziano prima del tempo per qualche legger mancamento od anche senza averselo meritato! Il che è un’ingiustizia tanto più grande, quanto che, dopo aver profittato dell’opera loro durante una stagione gravosa, li rimandano sovente in un tempo in cui trovar non possono da guadagnarsi il vitto; eccettuato per altro il caso in cui convenuto si fosse di non mantenerli che un certo tempo. È altresì un ingiustizia non voler pagar un servo, perché si parte prima del tempo fissato dall’uso o dall’accordo; fuorché se ne risentisse un danno che non si possa in altro modo riparare: poiché dev’egli essere pagato a proporzione del tempo che ha servito; il che deve anche intendersi nella circostanza che il suo partire vi cagionasse qualche danno, se egli ha giusti motivi di lasciarvi, perché obbligato non si è di servirvi a suo pregiudizio, massime con pregiudizio della salute dell’anima sua. Che però nei differenti casi di giustizia che accader possono tra i padroni e servi consultar conviene un direttore savio ed illuminato. Veniamo ora ai doveri di carità che i padroni esercitar debbono verso i loro servi. Questa carità li obbliga a sopportarli nelle loro debolezze, trattarli con bontà e dolcezza. Ed invero, se siamo obbligati a soccorrere il mendico, da cui non abbiamo ricevuto servigio alcuno, con quanto più forte ragione prestar ci dobbiamo alle miserie di un povero servo che ha sacrificata la sua sanità al nostro servigio, ed ha per noi sofferto fatiche e travagli che l’hanno logorato! Non è forse giusto, e la gratitudine non ci obbliga a dargli i soccorsi che non si ricusano neppur agli animali che ci appartengono? Se dunque questi servi ridotti sono ad uno stato di povertà, o di malattia, non dovete voi porger loro una mano caritatevole per cavarneli? Tanto più quando questo servo ha perduta la sua sanità, o perché rifiutati gli avete i necessari alimenti o perché l’avete aggravato di soverchie fatiche; allora non la carità soltanto, ma la giustizia ancora vi obbliga in tal caso a dargli soccorso. – Io so che la maggior parte dei padroni sono molto caritatevoli per soccorrere un servo nella sua malattia: ma quanto è raro che la carità non si raffreddi quando il male dura un qualche tempo! Cercasi ben tosto di disfarsene, come di un peso insopportabile, di una persona divenuta inutile. Ma quanto diversamente operereste, fratelli miei, se la vostra carità rassomigliasse a quella del Centurione del Vangelo, che teneva in propria casa il suo servo, benché paralitico: iacet in domo mea paralyticus! Quanto diversamente operereste, se riguardaste il servo come una persona di cui Dio vi ha confidata la cura, e se consideraste le grandi ricompense che Dio promette ad una carità la quale non ha altri limiti che il potere di colui che la fa! Questa carità vi obbliga ancora a sopportare i vostri servi nei loro difetti, a trattarli con bontà e dolcezza. Convien confessarlo, fratelli miei, è molto da compatire la condizione dei padroni con certi servi; gli uni sono lenti e poltroni e fanno a stento quanto loro si comanda; gli altri sono pronti e violenti e montano in collera per una parola che loro si dica; questi non hanno attenzione alcuna pei vostri interessi, quelli nessuna inclinazione per lo servizio di Dio. I più vi mancano di rispetto o vi lacerano con le loro maldicenze; ben pochi v’ha che vi servano con affetto e da cui non abbiate qualche sgarbatezza, qualche maniera spiacevole a sopportare. Ma che partito prendere? Congedarli quando lo meritano, la prudenza l’insegna, e la religione anche lo comanda in certe occasioni, come dirollo in appresso: ma cangiar sempre servitori egli è un cadere in inconvenienti talvolta maggiori di quelli che vogliamo evitare. È dunque necessaria la carità per sopportare i difetti, le imperfezioni di quelle persone da cui attender non dovete l’educazione tutta che potreste aver voi. Voi che siete spirituali, dice s. Paolo, che siete ragionevoli, date loro avvertimenti con spirito di dolcezza, considerando voi medesimi nelle loro infermità, in cui potete voi come essi cadere; sopportate con pazienza e con umiltà quei che non potete schivare, e con ciò adempirete la legge di Gesù Cristo: et sic adimplebitis legem Cliristi (Gal. VI). Voi corregger potete i vostri servi, siete anzi in ciò obbligati; ma guardatevi bene dal servirvi di quelle parole dure ed ingiuriose di cui si servono certi padroni che trattano i loro servi come schiavi, cui essi credono troppo felici di essere al loro servigio, che vorrebbero umiliarli sotto di sé come vermi della terra; che, non parlando mai loro se non con isdegno ed in un modo fiero ed orgoglioso, li caricano di maledizioni, d’imprecazioni; che su di essi affettano un imperio tirannico, di cui fan loro sentir il rigore coi cattivi trattamenti; che sfogano anche sovente (dirollo?) con furore sopra i poveri servi la stizza che loro cagiona una disgrazia, il cattivo esito di un affare, una perdita che han fatta nel giuoco o altrimenti, come se i loro servi ne fossero la cagione. Bisogna poi meravigliarsi se questi padroni sono sì mal serviti, sì spesso screditati, e se tener non possano alcun servo? Ricordatevi, padroni e padrone, che quantunque elevati voi siate per la vostra condizione al di sopra dei vostri servi, essi sono vostri fratelli Cristiani, hanno lo stesso Dio per padre, la stessa Chiesa per madre, lo stesso cielo per retaggio. Voi dunque dovete amarli, sopportarne i difetti., perdonar loro i mancamenti di fragilità. Il vostro grado vi dà diritto di comandar loro con autorità, ma non già d’insultarli con orgoglio. Voi non dovete addomesticarvi con essi, ma neppur dovete disprezzarli. Amateli come vostri figliuoli, date loro segni di una carità benefica: vi troverete il vostro proprio vantaggio, perché ne sarete meglio serviti. Ma voi dovete operare per un motivo ancora più nobile e più eccellente; Iddio medesimo deve essere il vostro fine, e se voi la amate per Dio, li impegnerete a servirlo, procurerete loro il più grande di tutti i beni, la salute dell’anima; ecco il dovere della pietà cristiana che devo ancora spiegarvi. No, non è solamente per esser serviti dai vostri servi che Dio vi ha data su di essi l’autorità, voi dovete inoltre valervi di quest’autorità per obbligarli a servir Dio, il primo di tutti i padroni. Impiegar voi dovete le vostre cure tutte per procurare la salute della loro anima poiché se si perdono per colpa vostra, voi ne risponderete avanti a Dio; è l’Apostolo s. Paolo che lo insegna, allorché, ammaestrando gli inferiori dei loro obblighi verso i superiori, raccomanda loro di ubbidirli come persone che vegliar devono su di essi e render conto a Dio delle loro anime: Obedite præpositis vestris; ipsi enim pervigìlant, quasi rationem prò animabus vestris reddituri (Heb. XIII). Ora come debbono i padroni adoperarsi alla salute dei loro servi? di quali mezzi debbono a ciò valersi? Questi mezzi sono l’istruzione, la correzione ed il buon esempio. Voi dovete, padroni e padrone, considerare i servi quali vostri figliuoli; è un’opera stessa istruire così quelli come questi. Voi potete, dice s. Agostino, dare miglior pane materiale a questi che a quelli; ma dar dovete agli uni e agli altri lo stesso pane spirituale, che è l’istruzione; dovete riguardarvi come gli Apostoli e i pastori delle vostre case, per fare ivi render a Dio il culto ed il servigio a Lui dovuti. Ora come mai i vostri servi sapranno servir Dio, se non sono istruiti? Convien dunque loro, insegnare il modo di pregarlo ed obbligarli a ciò fare mattina e sera, bisogna altresì istruirli dei misteri della nostra santa Religione; e se voi capaci non siete di far loro queste istruzioni, mandarli a quelle che si fanno in chiesa o da persone che possan loro farle. È una carità tanto più grande istruire i poveri servi quanto che la maggior parte vive in una grande ignoranza anche dei primi elementi della nostra santa Religione. Sono talvolta figliuoli abbandonati dai loro padri e madri sin dalla loro tenera età, che hanno errato da un luogo all’altro, senza trovar alcuno che prendesse cura di loro. Oh quanto ben impiegati sono i momenti che si spendono nell’istruirli! Molti ve ne avanzano che impiegare almen potreste in un’opera si buona, principalmente nelle stagioni in cui non si lavora, la sera insegnar loro il catechismo o farlo da essi recitare, è un’opera di misericordia molto più grata a Dio che dare del pane ad un povero che ve lo chieda alla porta. Sono questi altrettanti poveri di spirito che vi domandano e che hanno bisogno del pane della parola. Distribuite loro dunque questo pane celeste per nutrirli nella loro fame, per dissipar le tenebre dell’ignoranza in cui sono involti. Ma non vi contentate delle istruzioni che loro farete: voi far dovete in guisa che assistano alla Messa, massime i giorni di festa, agli uffizi, alle prediche, al catechismo, che frequentino i Sacramenti nelle feste solenni, e principalmente che non manchino al precetto pasquale. Perciocché se qualcheduno ne avete sì poco di religioso che non voglia ad un tal obbligo soddisfare, voi non dovete tenerlo. Io intendo, dovete loro dire, non avere che buoni Cristiani al mio servigio, non gente senza Religione, gente viziosa e dissoluta; e perciò unir conviene la correzione all’istruzione per reprimere i loro disordini allorché ve vengono osservati. Non tollerate loro dunque alcuna parola disonesta, alcuna canzone profana, alcuna bestemmia, alcuna mormorazione: vegliate affinché non frequentino cattive compagnie, non abbiano alcuna confidenza peccaminosa né tra essi né con persone estranee, non si trattengano ad ore indebite per involarsi alla vostra vigilanza: vegliate principalmente affinché non vi sia tra i vostri servi e i vostri figliuoli alcuna di quelle amicizie, di quelle compiacenze e di quelle familiarità che degenerano spesse volte in libertinaggio: una troppo grande confidenza tra i figliuoli e i servi è ordinariamente lo scoglio fatale dell’innocenza degli uni e degli altri. Un lupo in un ovile non fa tanto danno, come un cattivo servo in una casa: la ragione è evidente; i figliuoli sono più sovente coi servi che coi loro genitori; non si mettono in soggezione alla loro presenza ed hanno con essi più familiarità; onde ne viene che un servo dissoluto, impudico, bestemmiatore, collerico comunica ordinariamente i suoi vizi ai figliuoli. Perciò convien ben guardarsi dal ricevere al suo servizio certi servi vagabondi, i quali errando, da un luogo all’altro, v’hanno appreso tutto ciò che era di cattivo e di contagioso, e quindi lo comunicano dappertutto dove si trovano. Informatevi dunque, padri e madri, donde vengono cotali servi, dalle persone che hanno servito, affine di non ricevere di quelli che siano bestemmiatori, disonesti, rapaci, dissoluti. Che se malgrado le vostre più esatte ricerche ingannati vi siete, o se questi servi si pervertiscono in casa vostra, se si lasciano uscir di bocca parole libere; in breve, se non si diportano come debbono, convien riprenderli severamente, minacciar loro di cacciarli, se non si correggono; e se malgrado le vostre correzioni, e le vostre minacce persistono nei cattivi abiti, bisogna licenziarli, e chiuder loro l’entrata delle vostre case, dicendo ad essi che non volete al vostro servizio cattivi Cristiani. Ed è tanto più importante per voi avere servi savi e virtuosi, quanto che trarranno su di voi le benedizioni del Signore, come Labano diceva a Giacobbe: Conosco che Dio benedice la mia casa dappoi che tu sei meco. Questi buoni servi guideranno i vostri figliuoli alla virtù col buon esempio: laddove i cattivi servi, oltre lo scandalo che daranno ai vostri figliuoli, trarranno su di voi la maledizione del Signore. Nulla dunque risparmiate, padroni e padrone, per aver buoni servi o per render buoni quelli che avete. Impiegate a questo effetto non solamente l’istruzione, la correzione, ma più ancora il buon esempio; mentre questa è la voce la più forte per persuadere la virtù. Fate voi i primi ciò che volete facciano i vostri servi, cioè vivete da buoni Cristiani, ed essi faranno volentieri quanto comanderete per la loro salute. Come mai persuaderete loro l’assiduità all’orazione, ai divini uffizi, l’uso frequente dei Sacramenti, se voi medesimi trascurate questi pii esercizi? Come li correggerete dei loro vizi, essendo voi medesimi viziosi e forse più ancora di essi? Risponderanno alle vostre riprensioni ciò che dicesi comunemente: medico, comincia dal guarire te medesimo, medice, cura te ipsum. Laddove, se voi sostenete le vostre correzioni col buon esempio, esse diverranno loro profittevoli, e voi ne farete dei santi e virtuosi servi. Da questi principi, su cui abbiamo stabilito la cura, che i padroni prendere devono della salute dei propri servi, qual funesta conseguenza ne viene contro quelli che non si mettono in pena della loro salute più che se non avessero anima. Purché siano ben serviti, non s’informano se i servi loro servono Dio: che dico? non li distolgono fors’anche dal servizio di Dio, non lasciando loro neppure il tempo di far orazione, di ascoltare una Messa, di frequentare i Sacramenti, d’assistere ad una predica, ad un’istruzione, dove si lamentano sempre che vi siano di troppo trattenuti? Non si trovano anche di quei padroni senza Religione che impiegano i propri servi in opere servili nei giorni di festa, senza lasciar loro alcun tempo per adempiere ai doveri di Cristiano? Sappiate, o padroni e padrone, metter limiti al vostro potere: il tempo dei vostri servi è vostro, è vero, ma Dio, che è il primo padrone, esser deve servito pel primo. Quanti altri padroni indolenti sopra la salute dei propri servi, che non li correggono dei loro difetti? Si affliggeranno, si adireranno contro un servo che abbia mancato di puntualità a servirli o a mensa o in qualche altro bisogno, che abbia trascurato un uccello od altro animale favorito, o che sia caduto nella minima incongruità, e non diranno pur una parola sulle loro frequenti cadute nel peccato, sulle loro bestemmie, sulle loro dissolutezze, sulla loro infedeltà nel servizio di Dio. Tollereranno, perdoneranno tutto ad un servo, quantunque vizioso, perché, dicono essi, è necessario, accorto, cortese; non sarà forse altresì perché è l’oggetto di una passione peccaminosa? Ma qual più funesta conseguenza ancora qui si presenta contro quei padroni che non solo trascurano la salute dei loro servi, ma li precipitano nell’abisso di una dannazione eterna, dando loro cattivi consigli, impegnandoli in occasioni di peccato, rendendoli complici dei propri disordini, servendosi dell’autorità che hanno su di essi per fare ingiustizie al prossimo, per mantenere una pratica, un intrigo, o anche rendendo quei poveri servi vittima delle loro passioni peccaminose, cui li fanno soccombere con preghiere, con sollecitazioni, con minacce, (dirollo?) con violenza e cattivi trattamenti! Ah! poveri genitori, che credete mettere i vostri figliuoli in luogo di sicurezza, confidarli a padroni virtuosi, sarebbe meglio tenerveli in casa che abbandonarli in tal modo al furore di lupi rapaci. Quanto a voi, padroni scellerati, che invece di contribuire alla salute dei vostri servi, li strascinate nel precipizio, qual conto non renderete a Dio delle anime loro ch’egli vi ha affidate per salvarle? Come? vi dirà il Signore, voi avete prese tutte le precauzioni per farvi ben servire dai vostri servi, e nessuna cura preso vi siete per farmi rendere da essi il culto che mi era dovuto? Al contrario voi allontanati li avete dal mio servigio per impegnarli nelle vie dell’iniquità coi vostri perniciosi esempi, con le vostre sollecitazioni peccaminose: rendetemi conto di queste anime da voi perdute.

Pratiche. Temete, padroni e padrone, procurate di risparmiarvi sì terribili rimproveri; giacché la vostra salute dipende in qualche modo da quella dai vostri servi, impiegatevi tutte le vostre cure. Non vi contentate di provveder ai bisogni del corpo con l’alimento e col salario che date loro; non vi contentate di soccorrerli nelle loro necessità, di sopportarli nei loro difetti; ma provvedete ancora ai loro bisogni spirituali con l’istruzione, con la correzione, con il buon esempio; abbiate cura che facciano la loro preghiera mattina e sera, fatela lor fare con voi in comune: questa preghiera sia seguita dalla lettura spirituale: è bene le feste e le domeniche di leggere o far loro leggere un articolo del catechismo: abbiate cura che assistano agli uffizi, alle istruzioni, che frequentino i Sacramenti, le adunanze di pietà; riprendeteli dei loro difetti; non tollerate le loro libertà o conversazioni pericolose; in una parola, fate in guisa che si diportino da buoni Cristiani. Salvando i vostri servi, salverete voi medesimi, ed avrete per ricompensa la gloria eterna. Veniamo ora ai doveri dei servi verso i loro padroni.

II. Punto. Tre qualità sono necessarie ad un buon servo: il rispetto, l’ubbidienza e la fedeltà. La ragione ne è evidente. I padroni rappresentano nella loro famiglia la persona di Dio, ne tengono le veci, convien dunque che siano rispettati dai loro servi. I padroni non prendono servi né li alimentano né danno loro stipendi che a patto d’esserne serviti; è dunque necessario che questi servi facciano la volontà dei padroni e li ubbidiscano in tutto ciò che loro comandano. Finalmente i padroni affidano le loro case e i loro beni ai servi: bisogna dunque che questi siano fedelissimi. Tali sono, o servi, gli obblighi del vostro stato; istruitevene per adempierli. Voi dovete rispettar i vostri padroni perché tengono le veci di Dio, che loro ha dato autorità sopra di voi. É l’Apostolo s. Paolo che ve lo dice, avvisandovi di riguardare piuttosto Dio vostri padroni che gli uomini: Sicut Domino, et non hominibus (Eph. VI). Benché poveri, benché viziosi siano i vostri padroni, bastivi sapere che rappresentano la Persona di Dio, che la loro condizione li innalza al di sopra di voi e che la vostra vi mette in uno stato di dipendenza dalla loro autorità per render loro ogni vostro rispetto; se voi gliene mancate, a Dio stesso mancate, di cui tengono le veci. – Lungi dunque quei servi fieri ed orgogliosi, i quali sotto il pretesto che i loro servigi siano grandemente necessari in una casa, trattano i propri padroni non solamente come se fossero loro uguali, ma come loro inferiori, giungendo talvolta a tal segno d’insolenza di disprezzarli, beffarsi, dei loro difetti, dir loro delle ingiurie: lungi quei servi superbi, i quali credendosi più perfetti dei loro padroni, soffrir non possono d’esser dai medesimi ripresi dei propri difetti, si beffano di quanto loro si dice, far non vogliono se non ciò che loro piace, rispondono con baldanza ad un padrone, ad una padrona che li avvertono dei toro doveri, che essi sanno benissimo quel che han a fare, che ciascuno deve pensare a sé. Quante volte non li avete intesi farvi queste repliche temerarie, che son un effetto della loro superbia, indocilità e irreligione? – Che diremo altresì di quelle serve altere e sfrontate, le quali prevalendosi dei lunghi servigi che renduti hanno in una casa o della rea condiscendenza dei padroni che ne fanno l’oggetto delle loro passioni, trattano una padrona con l’ultimo disprezzo, la opprimono d’ingiurie, o non possono né vederla né soffrirla? Ah! non meritano forse di essere trattate con più di rigore che l’insolente Agar serva di Abramo, che si burlava di Sara sua padrona, e che per questo motivo fu vergognosamente cacciata, costretta di andar in un bosco col suo figliuolo Ismaele, dove provò i rigori di una trista sorte, della fame, della sete e della più dura indigenza? Sarebbe questa la minima pena che meriterebbero queste serve orgogliose: felici ancora, se dopo aver imitato Agar nella sua condotta, l’imitassero nella sua penitenza, riconoscendo, come ella l’autorità delle loro padrone, rendendo loro il dovuto rispetto e correggendosi dei propri difetti. Apprendete, o servi, chiunque voi siate, per quanto abili, per quanto utili e necessari esser vi crediate in una casa, che voi siete sempre in uno stato di dipendenza e conseguentemente che dovete sempre rispettare i vostri padroni come Dio medesimo, che dovete loro dare in ogni occasione sia nelle vostre parole, sia nella vostra condotta, segni della vostra venerazione. Ma voi dovete principalmente dimostrare questo rispetto con una intera e perfetta ubbidienza in quel che comandano, purché i loro ordini non siano contrari alla legge di Dio. È sempre l’Apostolo s. Paolo che v’istruisce. Servi, dice egli, obbedite ai vostri padroni secondo la carne, di qualsivoglia qualità e condizione siano; fossero ben anche pagani, voi siete obbligati ubbidir loro: Servi obedite Dominis carnalibus (Eph. V). Ma come dovete ubbidire? Imparatelo dal medesimo Apostolo. Ubbidite loro con timore e con semplicità di cuore, come a Gesù Cristo, non servendoli solamente quando hanno gli occhi sopra di voi, come se non pensaste che a piacere agli uomini, non ad oculum servientes, quasi hominibus placentes (Eph. VI); ma fate di buon cuore, come i servi di Gesù Cristo, quanto Dio da voi richiede, serviteli con affetto, non considerando gli uomini, ma il Signore, che renderà a ciascuno la ricompensa di tutto il bene che avrà fatto. E sempre la dottrina del grande Apostolo; il quale abbassandosi a dare istruzioni alle persone del vostro stato, non l’ha già riguardato come incompatibile con la salute; al contrario lo reputa come uno stato in cui potete santificarvi, purché ne adempiate i doveri, cioè siate rispettosi, sommessi, ubbidienti ai vostri padroni, e di una ubbidienza pronta, volontaria, disinteressata, puntuale, poiché se non ubbidite che brontolando, mormorando, per forza, se non obbedite che per mire d’interesse, senza alcun riflesso a Dio, la vostra ubbidienza non gli è gradita, essa perde avanti a Lui tutto il suo merito.Ah! poveri servi, apprendete quivi il segreto di santificarvi e di diventar anche gran santi, benché non facciate gran cose. Il vostro stato è penoso, umiliante, ne convengo; costa molto l’ubbidire a padroni che operano talvolta per bizzarria e per capriccio, che sebben superiori, non sono ragionevoli; costa molto il sopportare non meritati rimproveri, far delle cose contro la propria inclinazione, in una parola, soggettare la sua all’altrui volontà: ma in questo appunto voi provate molte occasioni di meritar il cielo e di meritarlo a meno costo e in una maniera più sicura che in uno stato più alto. Voi siete primieramente nella vostra sfera meno esposti ad offender Dio, non avendo tutti gli scogli delle tentazioni che si trovano nella condizione di quelli che dominano sopra gli altri; voi non correte rischio di perdere la vostra anima pel cattivo uso dei beni, poiché avete appena il necessario; né di perdere la vostra innocenza pei piaceri, poiché non provate spesso che rigori e croci. Si tratta dunque per la vostra salute di soffrire per amor di Dio le pene annesse al vostro stato, di fare la volontà dei vostri padroni come quella di Dio. voi siete molto più sicuri di fare la volontà di Dio ubbidendo che comandando; non si comanda sempre secondo l’ordine di Dio; ma quando si ubbidisce, purché non sia in cose contrarie alla buona salute, si fa sempre quel che Dio vuole, perciocché se i vostri padroni fossero scellerati per comandarvi cose vietate, voi non dovete loro ubbidire, come se vi comandassero l’ingiustizia, la vendetta, se vi sollecitassero a qualche azione indegna di un Cristiano. Allora conviene dir loro, che avete un Padrone cui dovete prima che ad essi ubbidire: che amate meglio incorrere la disgrazia degli uomini che quella del vostro Dio; e che, per piacere agli uomini, cessar non volete di esser servi di Gesù Cristo: Si hominibus placerem, Christi servus non essem (Gal. 1). Oltre il rispetto e l’ubbidienza, debbono i servi ai loro padroni ancor la fedeltà. É questa una delle più belle qualità di un servo; poiché lo Spirito Santo ci assicura che quando si trovi un servo fedele, bisogna riguardarlo come un fratello, come un altro sé stesso. Ora questa fedeltà rinchiude molte cose : 1.° deve un servo dimostrare la sua fedeltà nella ritenutezza a favellare; vale a dire, rapportar non deve ciò che accade nella casa del suo padrone, per non rivelare i suoi difetti, né quelli dei figliuoli, né farecattivi rapporti che sono la cagione ordinaria dei contrasti, delle inimicizie coi congiunti e coi vicini. L’uomo non ha nemico più crudele che i suoi servi, allora quando sono sì indiscreti da tradire i segreti del padrone, dire quanto si passa in una casa. Felice il servo che ha posto un freno alla sua lingua e che sa osservar il silenzio! Egli è stimato da Dio e dagli uomini. Vi sono nondimeno certe occasioni in cui è opportuno ed anche necessario che un servo parli dei disordini che accadono in una famiglia. Ma a chi? A quelli che devono rimediarvi. Allorché, per esempio, i figliuoli prendono cattiva piega, frequentano cattive compagnie, e i padri e le madri l’ignorano, è bene informarli; come altresì dei disordini che accadono tra gli altri servi: ma usar conviene molta prudenza in queste occasioni; bisogna essere sicurissimi dei fatti, e guardarsi dall’operar per passione, per prevenzione, per gelosia; il che è cosa ordinaria nei servi; l’uno, per farsi ragione, dirà che l’altro fa contro di lui falsi rapporti, procurerà di menomarlo nella stima del suo padrone, il che cagiona talvolta grave pregiudizio. Dare devono ancora prova della loro fedeltà con la sobrietà, non appagando la propria golosità con vivande di cui i padroni non hanno loro permesso l’uso: questa fedeltà li obbliga ad invigilare alla conservazione dei beni dei loro padroni, ed avvertirli quando si fa loro danno: esser devono diligenti per nulla perdere di quanto spetta ai loro padroni, ed esatti a non disporne contro la loro volontà e senza il loro consenso. Finalmente deve la loro fedeltà risplendere principalmente dell’amministrazione dei beni a loro dati, sì che niente ritengano per sé sotto pretesto dell’industria che hanno avuta nel farli vendere, di un buon mercato che avranno fatto, oppure sotto pretesto di compensazione del salario che sufficiente non credono e proporzionato al loro servire. Quando un servo ha scapito, chieder può qualche cosa di più o provvedersi di una condizione migliore, ma non già farsi da se stesso giustizia. Finalmente i servi devono esser fedeli nel loro lavorio, e lo stesso dir bisogna di tutti gli operai che sono al servizio di un padrone: vale a dire, impiegar devono nel lavoro il tempo che la ragione ed il salario richiedono, lavorare con ugual fedeltà in assenza del padrone come in sua presenza. Imperciocché se un servo o un operaio perde un tempo considerabile in frivoli trattenimenti, in conversazioni inutili, e non si occupa come deve; se un artefice non fa un lavoro della natura e qualità di che è convenuto col padrone, gli uni e gli altri non possono in coscienza farsi pagare, come se avessero ben lavorato; e se lo fanno, obbligati sono alla restituzione a proporzione del tempo perduto e del difetto del lavoro: il che esser deve dalla prudenza regolato.

Pratiche. Finisco, fratelli miei, esortandovi con l’Spostolo s. Paolo a diportarvi in un modo degno di Dio nello stato a cui vi ha chiamati. Avete voi servi cui comandare? Riguardateli come vostri fratelli e non come schiavi; date loro tutti gli aiuti che la giustizia e la carità da voi richiedono, sia alimentandoli, pagando loro lo stipendio, sia soccorrendoli nei loro bisogni e nelle loro malattie e sopportando con pazienza i loro difetti: rendete loro il giogo che portano soave e leggiero con una bontà compassionevole: abbiate cura principalmente della salute della loro anima, che Dio vi ha confidata: istruiteli, correggeteli e date loro buon esempio. Siete voi servi? servite fedelmente i vostri padroni; abbiate per essi il rispetto, l’ubbidienza, la fedeltà che Dio da voi domanda, è questo il mezzo di santificarvi nel vostro stato. Evvi un Padrone che voi servir dovete a preferenza di tutti; di modo che, se i padroni della terra vi domandano qualche cosa che incompatibile sia col servizio del Padrone del cielo, la volontà di Dio sia l’unica vostra regola. Se vi sollecitano a qualche azione vietata dalla legge del vostro Dio, dite come il casto Giuseppe: Come potrò io essere infedele al mio Signore? Quomodo possum peccare in Dominum meum (Gen. XXXIX)? Se nella condizione in cui siete compier non potete i doveri di Cristiano; se questa condizione è per voi occasione di peccato e di dannazione, sebbene sia altronde per Voi vantaggiosa, foste anche nel caso di farvi la più brillante fortuna, bisogna lasciarla e sacrificar tutto alla vostra salute; la vostra anima esser vi deve più cara di tutto il restante. È meglio esser povero e miserabile in questo mondo per esser eternamente felice in cielo, che esser felice sopra la terra per esser eternamente riprovato nell’inferno. Voi poi che non siete nello stato dei padroni né dei servi ricordatevi che avete un gran padrone a servire un Dio da glorificare un inferno da evitare, un paradiso da guadagnare. Io vel desidero. Così sia.

 Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps CXVII: 16;17
Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini.
[La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quǽsumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Quest’ostia, o Signore, Te ne preghiamo, ci mondi dai nostri delitti e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Luc IV: 22
Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei.
[Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

 Postcommunio

Orémus.
Quos tantis, Dómine, largíris uti mystériis: quǽsumus; ut efféctibus nos eórum veráciter aptáre dignéris.
[O Signore, che ci concedi di partecipare a tanto mistero, dégnati, Te ne preghiamo, di renderci atti a riceverne realmente gli effetti.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (95)

-Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (6)

CAPO VI.

Si prova che il mondo né fu lavoro del caso, né poteva essere.

I. Le fiere, quanto sono più stolide a dar nei lacci, tanto sono più salde a volerli rompere dappoiché vi sono incappate. Ma che? con ciò non fanno altro che strignerli di vantaggio, e non se ne avveggono. Mirate se non è ciò quel che avviene degli ateisti. Danno in falsità strabocchevoli, e per uscirne, sempre poi s’intrigano più: stretti però da maggiori difficoltà, perché vorrebbero scuotere le minori. – Veggendo essi dunque, non potersi da loro senza stoltizia negar che il mondo sia fatto; sia fatto, dicono, ma chi però ci necessita a riconoscere altro fabbro che il caso? Con ciò si salva, che non abbia l’esser dal nulla. Con ciò si salva, che non abbia l’esser da sé. E con ciò salvasi, che né anche abbia l’essere da alcun Dio; mentre il caso è bastevole a fare il tutto.

I.

II. Ed ecco (chi ‘l crederebbe)? ecco che vago di mantenere il credito a questo cieco esce fino in campo un Democrito, tanto pazzo, che rideva sempre, e solo in ciò savio, se arrivava anche a ridere di se stesso. Io non mi dolgo tanto di lui, quanto di chi gli die titolo di filosofo, mentre non si meritava né anche quel di poeta, fingendo egli non pure l’inveriosimile ad essere intervenuto, ma fino l’impossibile a intervenire. Si divisava costui, che prima di questo mondo sino ab eterno, non vi fosse altro, che un infinito popolo di corpicciuoli volanti, ma sì piccini, che a schierare mille di loro potrebbe facilmente servir di piazza la minuta punta di un ago. Questo numero senza numero di corpuzzi, quanto impercettibili nella mole, tanto impareggiabili nella forza, aggirandosi casualmente, or qua, or là, per immensi spazi dopo un corso d’infinite combinazioni spropositate, finalmente abbatteronsi a dar nel segno: perché concorrendo accidentalmente a congiungersi in modo bello, formarono questa fabbrica sì stupenda, chiamata mondo. Ed eccovi i materiali di tanta

macchina, gli atomi; eccovi i lavoranti, il moto; eccovi l’ingegnere , il caso. Parve ridicoloso ad un Aristotile ( L . 2 . phys. c. 6. et 9) l’affaticarsi in mostrare che il mondo non fu operazione fortuita, ma intesa dalla natura, cioè da un’arte sommamente avveduta ne’ suoi lavori: onde sarebbe più spediente trattar Democrito come lo trattarono i suoi cittadini, i quali invece di mettersi a rifiutare con le risposte de’ saggi queste sciocchezze di lui, diedero anzi a curar lui stesso ad Ippocrate con l’elleboro, come si curano i matti. Nondimeno, perché le larve trovano spesso più passionati amatori, di quelli che ne ritrovi la verità, mi farò lecito, a vostro preservamento, di avvilir la ragione fino a tal uso di riprovare i deliri.

II.

III. Ditemi dunque, se voi date loro adito nel cuor vostro: chi fè questi corpuscoli, chi gli schiuse, e sotto qual macina si stritolò questa farina volatile, di cui sono impastate tutte le cose? Si fecero forse gli atomi da se stessi? Se così è, operarono dunque prima che fossero e comunicarono l’essere a se medesimi innanzi di possederlo. Furono prodotti da qualche cagione estrinseca? Ma da quale? Converrà pure confessare una volta, malgrado vostro, questo fattore sovrano, cioè questo fattore, che non sia fatto: e converrà prostrarsi al trono di lui, dopo di avere follemente tentato di atterrarlo con queste baliste di nebbia (L’atomo, quale lo intende il fisico, non gode di una vera e reale esistenza in natura, essendoché egli ammette la divisibilità della materia all’infinito, epperò l’atomo, essendo indivisibile (come suona l’etimologia stessa del vocabolo, ma oggi abbiamo pure le particelle subatomiche, i protoni, i neutroni, gli elettroni, i muoni, leptoni, i quanta etc. etc. … che guazzabuglio!) non è materia. Come adunque potranno gli atomi aver dato origine ai corpi della natura, secondo le pretese di Democrito e dei materialisti?).

IV. No, ripiglia Democrito, timoroso che voi qui vi diate per vinto; sono increati questi atomi, sono eterni, ed hanno da se medesimi tutto l’essere. Adunque a questi minimi corpicciuoli, che appena sono, competerà, per sentenza degli ateisti, il più bel fregio che inghirlandi la fronte di un Dio regnante, che è il non conoscere cagione alcuna di sé, e il dovere solamente a sé la sua essenza, la sua esistenza; cosa, che, come abbiamo veduto, non può competere neppure all’istesso universo. – Questo sarebbe annullare un Dio per introdurre, lui per dir, tanti Dei, quanti sono quei corpuzzi di cui si forma la macchina mondiale. Senzaché, quale occupazione ebbero mai questi atomi sì felici per tutta l’eternità? Sono iti sempre vagando? Dunque avranno fatte altre volte in questo gran teatro altre congiunzioni, altre comparse, altre scene ammirabilissime, ed avranno intrecciandosi fatti nascere verisimilmente altri mondi, poscia iti in fumo. Hanno dunque sempre posato a guisa di languidi? Ma chi die’ loro pertanto la prima mossa? qual tamburo, qual tromba risvegliò quell’esercito addormentato? quale fu il sergente che lo ripartì a schiere a schiere? e quale il capitano che il precedette in così belle ordinanze? L’esperienza dimostraci che i corpi

non viventi non sono capaci di produrre da sé fuor che un moto solo: dalla circonferenza al centro, se sono gravi, e dal centro alla circonferenza, se hanno qualche principio di leggerezza (Bella osservazione contro la generazione spontanea.). Qual motore adunque fu quello che loro impresse quei movimenti sì vari, senza cui non poteva risultare tanta diversità di manifatture? dacché, non differendo gli atomi l’un dall’altro, senonché nella figura, non possono avere in sé quelle inclinazioni sì opposte che vi vorrebbero ad accozzarsi in sì differenti miscugli. Basilio imperadore di Oriente, avendo in una battaglia disfatti i Bulgari, usò con quindicimila di loro prigioni di guerra questa insolita crudeltà di cavarne a ciascuno gli occhi. Ma che? a tanta crudeltà mescolò questa lieve misericordia, di lasciare ad ogni cento di loro uno con un sol occhio, che servisse agli altri di guida nel ricondursi alla patria (Tursell. Epit.). Non così al certo Democrito e i suoi seguaci. Questi, molto più crudi, ad un esercito innumerabile di atomi per sé ciechi, non assegnano neppure una guida sola veggente, che gl’indirizzi, ma vogliono che a tante falangi immense di ciechi faccia la scorta nei viaggi un più cieco di tutti loro; la faccia il caso. Ecco però che vuol dire essere ateista! Vuol dire, non credere una verità sommamente bella, per credere infinite menzogne ridicolose. E voi prezzerete una sì misera libertà, quale han questi, dal vincolo della fede? Veramente sono essi liberi, non vel niego: ma liberi, come resta un vascello in mare, quando scosse le gomene, con cui l’ancora il tenea fermo, non altro può conseguire fra le tempeste, che rompere al primo scoglio. Veggiamo però se la ragione fosse bastante a rimetterli in miglior senno.

III.

V. Ma prima di ogni altra cosa, conviene che tra noi stabiliscasi unitamente ciò che sia caso, perché da ciò si vedrà se mai sia stato possibile che egli fosse l’ingegnere dell’universo. Caso non è altro che una cagione accidentale di qualche effetto, il quale avviene di rado; e quando avviene, è sempre fuori di ciò che dall’operante intendevasi, o antivedevasi (Arist. 1. 1. phys. c. 7). Eccone pronto l’esempio. Avicenna, medico illustre, dopo avere più anni letti e riletti tutti i volumi di sottilità metafisiche, noti a lui, determinò di abbandonare lo studio di detta scienza, tanto gli parve superiore alla propria capacità. Quando giunto un dì su la piazza per sue faccende, vi trovò un rivendugliolo, che dava libri vecchi a prezzo vilissimo. Allettato da tanta facilità, diede Avicenna tre giuli, ed ebbe per essi un volume insigne, di cui non aveva contezza, che era la filosofia commentata da Albumasarre. Lessela, e quindi ricavò tanta luce, che a divenir metafisico sublimissimo non ebbe bisogno più di altro direttore (Theat. Vet. v. 21. 1. 4). Questo incontro sì favorevole è caso, perché rarissimo, non solendo avvenire comunemente, che dal portarsi ad una piazza procedano tali acquisti: ed è caso perché impensato, mentre Avicenna non andava alla piazza per comperare de’ libri, vi andava per comperarsi da desinare. Or quale mai di queste due condizioni voi mi addurrete nella costituzione dell’universo, por dimostrarmi che sia prodotto dal caso? E quivi non vediamo risultare un effetto, cui la natura non abbia posto il suo mezzo per ottenerlo, e mezzo diretto. E quivi non vediamo che da tal mezzo risulti quell’effetto una volta o un’altra: vediamo che ne risulta ordinariamente. Se però queste non sono opere d’arte, quali saranno? Piuttosto su i due principii, pur ora da me additativi, come su due salde basi, abbiamo ad innalzar tali macchine contra il caso, che cada giù sprofondato. Comincisi dalla prima

(Il vocabolo caso è negazione di intelligenza e di ordine, o sinonimo di ignoranza per parte nostra, giacché noi lo adoperiamo tuttavolta che non ci riesce di conoscere la cagione di un avvenimento. Il pronunciare adunque, che l’universo è opera del caso, è un dire un bel nulla, è un coprire con un vocabolo la nostra ignoranza, giacché in sostanza si viene ad affermare sol questo, che noi ignoriamo l’origine dell’universo. Imperò il fatalismo non è una dottrina, ma una negazione).