UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI-APOSTATI DI TORNO: S. S. Pio XII – MYSTICI CORPORIS (5)

Siamo giunti al termine di questa stupenda catechesi di S. S. Pio XII, contenuta nella Mystici corporis, a sigillo dell’insegnamento del Magistero pontificio infallibile ed irreformabile, giusto prima che nella Chiesa di Cristo si verificasse l’introduzione dei ladri e dei briganti a perdizione eterna delle anime. È vero che tutto era già profetizzato da millenni circa l’apostasia degli occupanti apparenti (… o meglio usurpanti) di cattedre ed uffici ecclesiastici vari, e delle abominevoli inversioni dottrinali dei modernisti novatori – basta rileggere i Vangeli, le Lettere di s. Paolo, S. Pietro (… Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri che introdurranno eresie perniciose, rinnegando il Signore che li ha riscattati e attirandosi una pronta rovina. Molti seguiranno le loro dissolutezze e per colpa loro la via della verità sarà coperta di impropèri. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false; ma la loro condanna è già da tempo all’opera e la loro rovina è in agguato .. 2 S. Pietro, cap. II) e san Giovanni, l’Apocalisse dell’Apostolo che Gesù amava, nonché alcuni profeti del vecchio testamento (Daniele, Zaccaria etc.) – ma starci dentro, magari in modo inconsapevole, da ciechi o ipovedenti non conoscitori o indifferenti alla dottrina, ai luoghi teologici cattolici di sempre, ed aprire gli occhi guidati da documenti infallibili, perché garantiti dal Vicario di Cristo, scritti a disposizione di chiunque abbia un minimo di interesse nel salvare la propria anima, fa un certo effetto sempre pensando al rischio che si corre nell’eterna salvezza. Ecco che a noi derelitti Cattolici, oggi perseguitati non con gli aculei, le grate roventi, le belve nei circhi, le mannaie, i roghi o le spade, ma ancor peggio con le eresie sottili e gli scismi, i falsi e sacrileghi sacramenti di lupi rapaci dal ghigno cortese che ci spingono “misericordiosi” con sorrisi bonari all’eterno supplizio, non resta altra difesa che la preghiera e l’approfondimento minuzioso della dottrina Cattolica, vera fonte di vita anche per riconoscere, oggi più che mai, il “fur et latro”, il ladro e brigante che ci inganna e ci porge sacramenti e riti sacrileghi a nostra perdizione. Allora inforchiamo gli occhiali, se necessario, e non perdiamo una sola parola di questo documento preziosissimo per la nostra eterna salvezza.   

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ESORTAZIONE PER AMARE LA CHIESA

Ora che, Venerabili Fratelli, nell’accurata spiegazione di questo mistero che riassume l’arcana unione di tutti noi con Cristo, nella nostra qualità di Maestro della Chiesa universale, abbiamo irradiate le menti con la luce della verità, riteniamo conforme al Nostro pastorale ufficio aggiungere anche uno sprone agli animi, affinché un tale Corpo mistico venga amato con quell’ardore di carità che non si limita ai pensieri e alle parole, ma che prorompe in attività di opere. Poiché, se i seguaci dell’antica legge poterono così cantare della loro Città terrestre: “Se mi dovessi dimenticare di te, o Gerusalemme, cada in oblio la mia destra; resti attaccata al palato la mia lingua se non mi ricordo di te, se non colloco Gerusalemme al disopra di ogni mia gioia” (Psal. CXXXVI, 5-6), con quanta maggior gloria e più ampio gaudio, abbiamo noi il dovere di esultare appunto per questo che siamo cittadini di una Città costruita sul monte santo con vive e scelte pietre e della quale è “pietra angolare Gesù Cristo” (Eph. II, 20; I Petr. II, 4-5). Giacché niente si può immaginare di più glorioso, niente di più nobile, niente senza dubbio di più onorifico, che appartenere alla santa, cattolica, apostolica e romana Chiesa, per la quale diventiamo membra di un unico e così venerando Corpo, siamo guidati da un unico e così eccelso Capo, siamo ripieni di un unico e divino Spirito, siam nutriti in questo terrestre esilio da una sola dottrina e da uno stesso Pane angelico, finché ci ritroveremo a godere di un’unica sempiterna beatitudine nei cieli.

Sia un amore solido

Ma, per non essere ingannati dall’angelo delle tenebre che suol trasfigurarsi in angelo di luce (cfr. II Cor. XI, 14), sia norma suprema del nostro amore l’amare la Sposa di Cristo quale Cristo stesso la volle, conquistandola con il sangue. Quindi non solo ci devono stare sommamente a cuore i Sacramenti con i quali la Madre nostra Chiesa amorosamente ci nutre; non solo devono esserci carissime le grandi feste che celebra a nostra consolazione e gioia, e i sacri cantici e i riti liturgici, con i quali innalza le nostre menti alle cose celesti; ma dobbiamo anche avere in gran conto quelli che si chiamano sacramentali, come pure tutte le pratiche di pietà con le quali la Chiesa stessa mira a pervadere soavemente dello Spirito di Cristo gli animi dei fedeli, per loro consolazione. Né soltanto è nostro dovere il ricambiare come conviene a figli la materna pietà della Chiesa verso di noi, ma dobbiamo anche professarle riverenza per l’autorità conferitale da Cristo, in modo tale da sottometterle pienamente il nostro giudizio, in ossequio a Cristo stesso (cfr. II Cor. X, 5). Onde siamo tenuti ad obbedire alle sue leggi e ai suoi precetti in fatto di costumi, anche se talvolta ciò riesca abbastanza duro alla nostra natura, decaduta qual è dallo stato dell’innocenza originale. Così pure dobbiamo reprimere con volontarie penitenze la nostra carne ribelle, ci viene anzi inculcato di saper talvolta rinunziare a cose piacevoli, anche se non siano nocive. Né dobbiamo limitarci ad amare questo Corpo mistico perché insigne per la divinità del suo Capo e per le sue doti celesti, ma dobbiamo amarlo con amore operoso anche quale si manifesta in questa nostra carne mortale, composta talvolta di membra che hanno tutte le debolezze dell’umana natura, anche se esse siano meno degne del posto che occupano in quel venerando Corpo.

Col quale vediamo Cristo nella Chiesa

Ad ottenere poi che un tal pienissimo amore regni negli animi nostri e di giorno in giorno aumenti, è necessario assuefarsi a riconoscere nella Chiesa lo stesso Cristo. È infatti Cristo che nella sua Chiesa vive, che per mezzo di lei insegna, governa, comunica la santità; è Cristo che in molteplici forme si manifesta nelle varie membra della Sua società. Se tutti i Cristiani si daranno con impegno a vivere di un così vigoroso spirito di Fede, allora non solo essi tributeranno il debito ossequio d’onore alle più eccelse membra di questo mistico Corpo e specialmente a quelle che per mandato del divin Capo un giorno dovranno render conto delle anime nostre (cfr. Hebr. XIII, 17); ma avranno a cuore anche quelle membra verso le quali il Salvator nostro dimostrò un amore di preferenza: i deboli, i feriti e i malati bisognosi o di medicina materiale o di medicina soprannaturale, i fanciulli la cui innocenza si trova oggi esposta a tanti pericoli e la cui tenera anima è plasmabile come cera, i poveri infine, nei quali, mentre li soccorriamo, dobbiamo ravvisare la persona stessa di Gesù Cristo. – Ben a ragione l’Apostolo ci avverte: “Le membra del corpo che paiono più deboli sono molto più necessarie, e quelle che stimiamo di minor pregio, noi le circondiamo di onore maggiore” (I Cor. XII, 22-23). Tale gravissima sentenza Noi, consapevoli della altissima responsabilità che Ci vincola, riteniamo doveroso ripetere al giorno d’oggi, mentre con profonda afflizione vediamo che ai deformi di corpo, ai deficienti ed agli affetti di malattie ereditarie vien talora tolta la vita, come se costituissero un molesto peso per la società. Peggio ancora, tale espediente da certuni si esalta come una trovata dell’umano progresso, quanto mai giovevole al comune benessere. Ma chi mai, se abbia senno, non vede che ciò ripugna non soltanto alla legge naturale e divina (cfr. Decr. S. Offic., 2 Dec. 1940: A. A. S. 1940, p. 553), impressa nell’animo di ciascuno, ma è violenta offesa contro i nobili sensi di umanità? Il sangue di tali sventurati, al nostro Redentore tanto più cari quanto più degni di commiserazione, “grida a Dio dalla terra” (cfr. Gen. IV, 10).

Imitiamo l’amore di Cristo verso la Chiesa

Affinché poi quella sincera carità, per la quale nella Chiesa e nelle sue membra dobbiamo riguardare il nostro Salvatore, non vada a poco a poco illanguidendosi, è di somma opportunità che teniamo di mira lo stesso Gesù come insuperabile modello di amore verso la Chiesa.

a) Con larghezza di amore

Anzitutto, cerchiamo d’imitare l’estensione di tale amore. Unica è la Sposa di Cristo, e questa è la Chiesa: eppure l’amore dello Sposo divino ha tale ampiezza che, senza escludere alcuno, nella sua Sposa abbraccia tutto il genere umano. La causa infatti per cui il Salvator nostro sparse il Suo sangue, fu appunto per riconciliare con Dio nella Croce tutti gli uomini, per quanto diversi di nazione e di stirpe, e farli congiungere in un unico Capo. Il vero amore della Chiesa esige quindi non solo che siamo vicendevolmente solleciti l’uno dell’altro (cfr. Rom. XII, 5; I Cor. XII, 25), come membri dello stesso Corpo, che godono della gloria degli altri membri e soffrono dell’altrui dolore (cfr. I Cor. XII, 26), ma che altresì negli altri uomini, sebbene non ancora a noi congiunti nel Corpo della Chiesa, riconosciamo fratelli di Cristo secondo la carne, chiamati insieme con noi alla medesima eterna salvezza.

Purtroppo, specialmente oggigiorno, non mancano coloro che nella loro superbia esaltano l’avversione, l’odio, il livore come qualcosa che elevi e nobiliti la dignità e il valore umano. Noi però, mentre vediamo con dolore i funesti frutti di tale dottrina, seguiamo il nostro pacifico Re, che ci insegnò ad amare non solo quelli che non sono della nostra nazione e della nostra stirpe (cfr. Luc. X 33-37), ma persino i nemici (cfr. Luc. VI, 27-35; Matth. V, 44-48). Noi, con l’animo penetrato del soavissimo sentimento dell’Apostolo delle genti, con lui esaltiamo quale e quanta sia la lunghezza, la larghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo (cfr. Eph. III, 18); quell’amore, cioè, che nessuna diversità d’origine e di costumi può fiaccare, che neppure l’immensa distesa dell’oceano può attenuare; e che finalmente neppure le guerre, siano esse intraprese per causa giusta o ingiusta, potranno mai distruggere.  – In quest’ora così grave, Venerabili Fratelli, mentre tanti corpi sono dolorosamente straziati e tante anime oppresse di tristezza, è necessario richiamar tutti a questi sensi di suprema carità, affinché nello sforzo collettivo di tutti i buoni si sovvenga a così immani necessità spirituali e materiali, in una meravigliosa gara d’amore e di commiserazione: il Nostro pensiero va particolarmente agli appartenenti a qualsiasi di quelle organizzazioni che esplicano opere di soccorso. Per tal modo, la generosità piena di zelo del Corpo mistico di Gesù Cristo e la sua inesausta fecondità diffonderanno i loro splendori in tutto il mondo.

b) Con assidua operosità

Dato poi che all’ampiezza della carità onde Cristo amò la sua Chiesa corrisponde la Sua amorosa costanza di opere, di questa stessa carità noi tutti, con assidua e zelante volontà, dobbiamo amare il Corpo mistico di Cristo. Ed invero non è possibile trovare nella vita del nostro Redentore un’ora sola in cui non abbia lavorato fino a spossarsi di fatica, benché fosse Figlio di Dio, per fondare la sua Chiesa o per renderla stabile: dalla Sua Incarnazione, allorché gettò la prima base della Chiesa, fino al termine del Suo corso mortale, con gli esempi della più fulgida santità, con la predicazione, con la conversazione, col radunar le turbe, con l’insegnare. È Nostro desiderio adunque che tutti, quanti riconoscono la Chiesa per madre, ponderino con diligenza che non solo ai sacri Ministri od a coloro soltanto che han fatto oblazione di sé a Dio nella vita religiosa, ma anche agli altri membri del mistico Corpo di Cristo, per ciascuno in ragione della propria possibilità, incombe il dovere di affaticarsi con ogni impegno e diligenza alla costruzione ed all’incremento del medesimo Corpo. In modo speciale desideriamo che a ciò pongano mente (come del resto già lodevolmente fanno) coloro che, arruolati nelle schiere dell’Azione Cattolica, cooperano all’apostolato dei Vescovi e dei Sacerdoti nella loro attività apostolica; come pure coloro che, riuniti in pii sodalizi, collaborano allo stesso fine. Non c’è chi non veda come la solerte attività di tutti costoro sia di somma importanza e di massima gravità nelle attuali circostanze. – Né possiamo astenerci dal dire una parola ai padri e alle madri di famiglia, cui il Redentore nostro affidò le membra più delicate del suo mistico Corpo. Li scongiuriamo quindi ardentemente che, per amore di Cristo e della Chiesa, provvedano con tutta sollecitudine alla prole data loro in consegna, affinché si guardi da ogni sorta di insidie con le quali oggi viene con tanta facilità adescata.

c) Senza tralasciare le preghiere

In particolar modo il Redentore nostro manifestò il suo ardentissimo amore per la Chiesa con le supplici preghiere innalzate per essa al suo celeste Padre. Giacché (per citar solo qualche esempio) è noto a tutti, Venerabili Fratelli, come Egli mentr’era per salire sul patibolo della Croce, elevò accesissime preghiere per Pietro (cfr. Luc. XXII, 32), per gli altri Apostoli (cfr. Jo. XVII, 9-19), e finalmente per tutti coloro che, alla predicazione della divina parola, avrebbero creduto in Lui (cfr. Jo. XVII, 20-23).

Per i membri della Chiesa

Ad esempio di Cristo, anche noi dobbiamo chiedere ogni giorno che il Signore voglia inviare operai alla sua messe (cfr. Matth. IX, 38; Luc.X,2); ogni giorno la comune preghiera deve salire al cielo per raccomandare tutte le membra del mistico Corpo di Gesù Cristo. In primo luogo i sacri Presuli, alla cui particolare sollecitudine è affidata la propria Diocesi; poi i Sacerdoti e infine i Religiosi e le Religiose che, seguendo la chiamata di Dio, sia in patria che in paesi infedeli difendono, accrescono, promuovono il Regno del Redentore divino. Nessuno dei membri di questo venerando Corpo dev’essere dimenticato nella comune preghiera; ma specialmente si abbiano presenti quelli che o sono oppressi dalle sofferenze o dalle angosce di questa terra o, compiuto il corso mortale, vengono purificati nelle fiamme espiatrici. E neppure debbono essere trascurati coloro che si stanno istruendo nella dottrina cristiana, affinché si possano al più presto mondare nel lavacro delle acque battesimali. – Bramiamo altresì fortemente che le comuni preghiere abbraccino nella stessa ardente carità sia coloro che non ancora illuminati dalla verità evangelica, non sono al sicuro nell’ovile della Chiesa, sia coloro che, a causa di una miserevole scissione dell’unità della Fede, si sono separati da Noi che, pur immeritevoli, rappresentiamo in terra la Persona di Gesù Cristo. Per questo ripetiamo l’orazione divina del nostro Salvatore al Padre Celeste: “Che tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me ed io in te, così anch’essi siano in noi una cosa sola; affinché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Jo. XVII, 21).

Per coloro che ancora non sono membri

Anche questi che non appartengono al visibile organismo della Chiesa, come voi ben sapete, Venerabili Fratelli, fin dal principio del Nostro Pontificato, li affidammo alla celeste tutela ed alla celeste direzione, protestando solennemente che dietro l’esempio del buon Pastore, nulla Ci stava più a cuore che essi abbiano la vita e l’abbiano in sovrabbondanza (cfr. Lett. Enc. “Summi Pontificatus“). E quella solenne Nostra affermazione, dopo aver implorate le preghiere di tutta la Chiesa, intendiamo ripetere in questa Lettera Enciclica, con la quale abbiamo celebrato le lodi “del grande e glorioso Corpo di Cristo” (Iren. Adv. Hær., IV, 33, 7; Migne, P. G., VII, 1076): con animo straripante di amore, invitiamo tutti e singoli ad assecondare spontaneamente gli interni impulsi della divina grazia e a far di tutto per sottrarsi al loro stato in cui non possono sentirsi sicuri della propria salvezza (Pio IX “Jam nos omnes“, 13 Sett. 1868: Act. Conc. Vat. C. L., VII, 10), perché, sebbene da un certo inconsapevole desiderio e anelito siano ordinati al mistico Corpo del Redentore, tuttavia sono privi di quei tanti doni ed aiuti celesti che solo nella Chiesa Cattolica è dato di godere. Rientrino perciò nella cattolica unità e tutti uniti a Noi nell’unica compagine del Corpo di Gesù Cristo, vengano con Noi all’unico Capo nella società di un gloriosissimo amore (cfr. Gelas. I, Epist. XIV: Migne, P. L., LIX, 89). Senza mai interrompere di pregare lo Spirito dell’amore e della verità, Noi li aspettiamo con le braccia aperte, non come estranei, ma quali figli che entrino nella loro stessa casa paterna.  – Però, mentre desideriamo che una tale preghiera salga ininterrotta a Dio da parte di tutto il Corpo mistico affinché tutti gli sviati entrino al più presto nell’unico ovile di Gesù Cristo, dichiariamo che è assolutamente necessario che ciò sia fatto di libera e spontanea volontà, non potendo credere se non chi lo vuole (cfr. August., In Jo. Ev. tract., XXVI, 2: Migne, P. L., XXX, 1607). Se alcuni, non credenti, vengono di fatto spinti ad entrare nell’edificio della Chiesa, ad appressarsi all’altare, a ricevere i Sacramenti, costoro, senza alcun dubbio, non diventano veri cristiani, (cfr. August., ibidem), poiché la Fede, senza la quale è impossibile piacere a Dio (Hebr. XI, 6), deve esser libero “ossequio dell’intelletto e della volontà” (Conc. Vat., De Fide cath., cap. 3). Se dunque dovesse talvolta accadere che, in contrasto con la costante dottrina di questa Sede Apostolica (cfr. Leo XIII: “Immortale Dei“), taluno venga spinto suo malgrado ad abbracciare la Fede cattolica, Noi non possiamo esimerCi, per coscienza del Nostro dovere, dall’esprimere la Nostra riprovazione. E poiché gli uomini godono di libera volontà e possono anche, sotto l’impulso di perturbazioni d’animo e di perverse passioni, abusare della propria libertà, è perciò necessario che vengano attratti con efficacia alla verità dal Padre dei lumi per opera dello Spirito del Suo diletto Figlio. – Che ancora molti, purtroppo, errano lontani dalla cattolica verità e non piegano l’animo all’afflato della grazia divina, ciò avviene perché né essi (cfr. August., ibidem), né i fedeli Cristiani innalzano a Dio più ferventi preghiere a tal fine. Noi quindi vivamente e insistentemente esortiamo tutti coloro che sentono amore per la Chiesa, affinché, seguendo l’esempio del divin Redentore, non cessino mai di elevare tali suppliche.

Per i Governanti

E del pari, soprattutto nel momento attuale, Ci sembra non solo opportuno ma necessario che vengano innalzate ardenti suppliche per i re, per i principi e per tutti coloro che, attendendo al governo dei popoli, possono con la loro tutela esterna recar aiuto alla Chiesa, affinché, riordinata rettamente la società, “la pace, opera di giustizia” (Is. XXXII, 17), al soffio della divina carità arrida al genere umano tormentato dai terrificanti flutti di questa tempesta, e la Santa Madre Chiesa possa condurre vita quieta e tranquilla nella pietà e nella castità (cfr. I Tim. II, 2). Dobbiamo chiedere con insistenza a Dio che tutti coloro che sono al governo dei popoli amino la sapienza (cfr. Sap. VI, 23) in modo che questa gravissima sentenza dello Spirito Santo non ricada mai su di essi: “L’Altissimo esaminerà le vostre opere e scruterà i pensieri; perché, ministri del suo regno, non avete governato rettamente, né avete osservato la legge di giustizia, né secondo il volere di Dio aver te camminato. Terribile e veloce piomberà su voi, ché rigorosissimo giudizio sarà fatto di quei che stanno in alto. Al misero invero si usa misericordia, ma i potenti saranno potentemente puniti! Non indietreggerà dinanzi a persona il Signore di tutti, né avrà soggezione della grandezza di nessuno; ché il grande e il piccolo Egli ha creato, ed ha cura ugualmente di tutti. Ma ai potenti sovrasta più rigoroso giudizio; a voi pertanto o re, son rivolte le mie parole perché impariate la sapienza e non cadiate” (Ibidem, VI, 4-10).

d) Compiendo ciò che manca nella passione di Cristo

Inoltre, non solo faticando senza posa e pregando ininterrottamente Cristo Signore palesò il Suo amore verso la Sua Sposa incontaminata, ma anche per mezzo dei dolori e delle angosce sopportate volentieri e con amore per essa: “Avendo egli amato i suoi… li amò sino alla fine” (Jo. XIII, 1). Anzi non acquistò la Chiesa che per mezzo del proprio sangue (cfr. Act. XX, 28). Adunque, su queste orme cruente del nostro Re, come esige la nostra salvezza da mettere al sicuro, intraprendiamo volonterosi il nostro cammino: “Poiché se siamo stati innestati alla somiglianza della Sua morte, lo saremo anche a quella della Resurrezione” (Rom. VI, 5), e “se siamo insieme morti, con lui anche vivremo” (II Tim. II, 11). Ciò è richiesto anche dalla vera ed operosa carità sia verso la Chiesa, sia verso quelle anime che la medesima Chiesa genera allo stesso Cristo. Sebbene infatti il Salvator nostro con le sue durissime pene e la sua acerba morte abbia meritato alla sua Chiesa un tesoro addirittura infinito di grazie, per disposizione però della provvidenza di Dio esse solo partitamente ci vengono distribuite, e la loro minore o maggior dovizia non poco dipende anche dalle nostre buone opere, dalle quali una tale pioggia di celesti doni volontariamente largita da Dio, viene attirata sulle anime umane. Tale pioggia di grazie celesti sarà certamente sovrabbondante, se non solo faremo uso di fervorose preghiere a Dio, specialmente col prendere parte anche ogni giorno, se si può e con pietà, al Sacrificio eucaristico; se non solo faremo del nostro meglio per alleggerire la sofferenza di tanti bisognosi con servizi di cristiana carità, ma se ameremo i beni imperituri a preferenza di quelli caduchi di questa vita; se con volontarie mortificazioni terremo a freno questo corpo mortale, negandogli ciò che è illecito e imponendogli invece ciò che gli è sgradito e arduo; e se finalmente accetteremo con sottomissione come dalla mano di Dio le fatiche e i travagli della presente vita. In tal modo, secondo l’Apostolo “diamo compimento nella nostra carne, a quello che rimane dei patimenti di Cristo, a pro del Corpo di Lui che è la Chiesa” (cfr. Col. I, 24). – Mentre così scriviamo Ci si svolge, purtroppo, dinanzi allo sguardo una moltitudine sterminata di miseri, che con dolore compiangiamo: infermi, poveri, mutilati, vedove e orfani, e moltissimi che per le proprie sventure o per quelle dei loro cari giacciono talvolta in un vero languore mortale. Tutti coloro dunque che per qualsiasi motivo giacciono nella tristezza e nell’angoscia con cuore paterno vivamente esortiamo affinché, pieni di fiducia, levino gli occhi al cielo, offrano le loro pene a quel Dio che un giorno renderà loro una copiosa mercede. Ed abbian tutti presente che il loro dolore non è vano, ma è oltremodo fecondo di bene per essi e per la Chiesa, se mirando a tal fine sapranno sopportarlo con pazienza. A meglio conseguire tal proposito, giova moltissimo la quotidiana e devota oblazione di se stesso a Dio, quale usano fare i membri di quella associazione che prende il nome dell’Apostolato della preghiera: associazione che in questa occasione, come a Dio gratissima, Ci sta a cuore di raccomandare nel modo più vivo. – Se ci fu mai un tempo in cui, per conseguire la salvezza delle anime, dobbiamo unire i nostri dolori agli strazi del divin Redentore, oggi specialmente, Venerabili Fratelli, tale è il dovere di tutti, mentre una guerra immane avvolge nelle sue fiamme quasi tutto l’orbe terrestre, generando tante morti, tante miserie, tante sventure. E particolarmente oggi è doveroso per tutti l’astenersi dai vizi, dagli allettamenti del mondo, dagli sregolati piaceri del senso, come pure da quelle cose terrene, futili e vane che non hanno alcuna relazione né con la cristiana formazione dell’animo, né con il conseguimento del cielo. Dobbiamo, piuttosto, ribadire nelle nostre menti la gravissima sentenza del Nostro Predecessore Leone Magno, il quale afferma che noi, col Battesimo, siam fatti carne del Crocifisso (cfr. Serm. LXIII, 6; LXVI, 3; Migne, P. L., LIV, 357 et 366) e quella bellissima preghiera di S. Ambrogio: “Portami, o Cristo, sulla Croce, che è salvezza agli erranti, nella quale soltanto è riposo agli affaticati, nella quale soltanto avranno la vita coloro che muoiono” (In Psal. 118, XXII, 30: Migne, P. L., XV, 15, 1). – Prima di por fine a questo scritto, non possiamo trattenerCi dal tornare ad insistere nell’esortare vivamente tutti ad amare la santa Madre Chiesa con un amore zelante e operoso. Per la sua incolumità, per il suo più fecondo ed ubertoso incremento, dobbiamo ogni giorno offrire all’eterno Padre le nostre preghiere, le fatiche, le angosce nostre, se davvero ci sta a cuore la salvezza della universale famiglia umana, redenta col suo sangue divino. E mentre nubi minacciose offuscano il cielo, e pericoli e minacce incombono in questo consorzio umano e sulla stessa Chiesa, affidiamo le nostre persone e tutto ciò che ci appartiene al Padre delle misericordie, supplicandolo: “Volgi, ti preghiamo, o Signore, uno sguardo su questa Tua famiglia, per la quale il Signore nostro Gesù Cristo non esitò a consegnarsi ai suoi carnefici ed a subire il tormento della Croce” (Off. Major. Hebd.).

EPILOGO

LA BEATA VERGINE MARIA

Compia, Venerabili Fratelli, questi Nostri paterni voti, che sono certamente anche i vostri, e ottenga a tutti noi un verace amore per la Chiesa, la Vergine Madre di Dio, la cui anima santissima fu ripiena del divino Spirito di Gesù Cristo più che tutte le altre anime insieme: Ella che, “in rappresentanza di tutta l’umana natura”, diede il consenso affinché avesse luogo “una specie di sposalizio spirituale tra il Figlio di Dio e l’umana natura” (S. Thom., III, q. 80, a. 1). Fu Lei che con parto ammirabile dette alla luce il fonte di ogni vita celeste, Cristo Signore, fin dal suo seno verginale ornato della dignità di Capo della Chiesa; fu Lei che poté porgerlo, appena nato, come Profeta, Re e Sacerdote a coloro fra i giudei e fra i gentili che per primi accorsero ad adorarlo. Inoltre il suo Unigenito, accondiscendendo alla sua materna preghiera, in Cana di Galilea, operò quel mirabile prodigio per il quale i suoi discepoli credettero in Lui (Jo. II, 11). Ella fu che, immune da ogni macchia, sia personale sia ereditata, e sempre strettissimamente unita col Figlio suo, Lo offerse all’eterno Padre sul Golgota, facendo olocausto di ogni diritto materno e del suo materno amore, come novella Eva, per tutti i figli di Adamo contaminati dalla sua miseranda prevaricazione. Per tal modo, Colei che quanto al corpo era la madre del nostro Capo, poté divenire, quanto allo spirito, madre di tutte le sue membra, con nuovo titolo di dolore e di gloria. Ella fu che, con le sue efficacissime preghiere, impetrò che lo Spirito del divin Redentore, già dato sulla Croce, venisse infuso nel giorno di Pentecoste con doni prodigiosi alla Chiesa, da poco nata. Ella finalmente, sopportando con animo forte e fiducioso i suoi immensi dolori, più che tutti i fedeli cristiani, da vera Regina dei martiri, “compì ciò che manca dei patimenti di Cristo… a pro del Corpo di lui, che è la Chiesa” (Col. I, 24). Ella, per il mistico Corpo di Cristo nato dal Cuore squarciato del nostro Salvatore (cfr. Off. SS. mi Cordis in hymno ad Vesp.),, ebbe quella stessa materna sollecitudine e premurosa carità con la quale nella culla ristorò e nutrì del suo latte il Bambino Gesù. La stessa santissima Genitrice di tutte le membra di Cristo (cfr. Pio X: Ad diem illum), al cui Cuore Immacolato abbiamo con fiducia consacrato tutti gli uomini e che ora in cielo, regnando insieme col suo Figlio, risplende nella gloria del corpo e dell’anima, si adoperi con insistenza ad ottenere da Lui che, dall’eccelso Capo, scendano senza interruzione su tutte le membra del mistico Corpo rivoli di abbondantissime grazie. Ella stessa, col suo sempre presente patrocinio, come per il passato, così oggi, protegga la Chiesa, e ad essa e a tutta la umana famiglia impetri finalmente da Dio un’era di maggiore tranquillità. – Noi, fidenti in questa superna speranza, auspice delle celesti grazie e quale attestato della Nostra particolare benevolenza, a voi tutti e singoli, Venerabili Fratelli, ed al gregge a ciascuno di voi affidato, impartiamo con effusione di cuore l’Apostolica Benedizione.

Dato in Roma, presso San Pietro, il giorno 29 del mese di Giugno, nella festa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, nell’anno 1943, V del Nostro Pontificato.

PIO PP. XII

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2019)

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2019)

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Is LXVI: 10 et 11.I

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI: 1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Orémus.

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV: 22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”.

Omelia I

 [A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli, Sc. Tip. Arciv. Artigianelli – Pavia, 1929]

“Fratelli: Sta scritto che Àbramo ebbe due figli, uno dalla schiava, e uno dalla libera. Ma quello della schiava nacque secondo la carne, quello della libera, invece, in virtù della promessa. Le quali cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono le due alleanze. L’una del monte Sina, che genera schiavi, e questa è Agar. Il Sina, infatti, è un monte dell’Ambia, che corrisponde alla Gerusalemme presente, la quale è schiava coi suoi figli. Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera, ed è la nostra madre. In vero sta scritto: Rallegrati, o sterile, che non partorisci; prorompi in grida di gioia, tu che sei ignara di doglie, poiché i figli della derelitta son più numerosi che quelli di colei che ha marito. Quanto a noi, fratelli, siamo, come Isacco, figli della promessa. E come allora chi era nato secondo la carne perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. Ma che dice la Scrittura? Scaccia la schiava e il suo figlio, perché il figlio della schiava non sarà erede col figlio della libera. Perciò, noi, o fratelli, non siamo figli della schiava, ma della libera, in virtù di quella libertà con cui Cristo ci ha affrancati”. (Gal. IV, 22-31) .

S. Paolo a dimostrare ai Galati come la legge di Mosè non possa continuare ad esistere daccanto al Cristianesimo, che l’ha sostituita, ricorre a un fatto del vecchio testamento, il quale oltre il valore storico, ha un significato allegorico. Abramo ha un figlio, Ismaele, da Agar, schiava, e ha un figlio, Isacco, da Sara, libera. Agar significa la legge che tiene schiavi i suoi figli; legge promulgata sul monte Sina in Arabia, terra abitata dagli schiavi, discendenti di Agar, e che ha per suo centro la Gerusalemme terrena. Sara significa la Gerusalemme celeste, la Chiesa, libera, sposa di Gesù Cristo. Ismaele nato secondo le leggi ordinarie significa la discendenza naturale di Abramo; Isacco, nato non secondo le leggi naturali ma in forza d’una promessa fatta da Dio ad Abramo, significa la discendenza spirituale, noi Cristiani, nati spiritualmente nel Battesimo, uniti con la grazia a Gesù Cristo, termine della promessa. E come allora Ismaele perseguitava Isacco così adesso i Giudei perseguitano i Cristiani, cercando di ridurli sotto il giogo della legge. Ma, come Agar fu cacciata dalla casa con suo figlio, senza diritto all’eredità; così, l’antica legge è stata bandita dalla Chiesa, che resta l’erede delle promesse divine. Parliamo un po’ della Chiesa, nostra madre. Essa:

1. È di origine divina;

2. È universale,

3. Trionfa dei suoi oppositori.

1.

Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera. La Gerusalemme di lassù, cioè la Gerusalemme celeste, è la Chiesa a cui noi apparteniamo, la Chiesa di Gesù Cristo. La sua condizione è ben differente dalla condizione della Sinagoga, centro del culto giudaici. La Sinagoga era schiava della legge: la Chiesa, invece, è libera. È chiamata giustamente Gerusalemme di lassù, Gerusalemme celeste, perché celeste è !a sua origine. Dio stesso l’ha istituita, per mezzo del suo Figlio, Gesù Cristo. Gesù espresse in termini chiarissimi la volontà di fondare la Chiesa. A Pietro, che lo confessa « Figlio del Dio vivente», egli dice: « Tu sei Pietro, e sopra questa pietra fonderò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei ». (Matth. XVI, 18). Non un uomo, non un Angelo, ma Egli stesso ne sarà il fondatore. E quanto aveva promesso si avvererà dopo la sua risurrezione gloriosa. Vicino al lago di Tiberiade Gesù dice a S. Pietro: « Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore ». (Giov. XXI, 16)). Il Redentore salirà al cielo, ma a pascere visibilmente il suo gregge è posto un altro, al quale è dato il potere e l’autorità necessaria. – Agli Apostoli, da Lui scelti, affida un ben determinato corpo di dottrina, che essi apprendono, o direttamente dalla sua bocca, o dall’ispirazione dello Spirito Santo, da Lui mandato. A loro dà la missione ben specificata di insegnare, di battezzare, di rimettere i peccati, di sciogliere e di legare: e questi poteri li dà come continuazione dei poteri suoi. La loro azione non avrà limiti né di luogo né di tempo; Egli, poi, sarà sempre tra loro con la sua assistenza. «E’ stato dato a me ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque a istruire tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto quanto v’ho comandato. Ed ecco Io sono con voi tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli». (Matth. XXVIII, 18-20) «Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati, saranno loro rimessi; e saranno ritenuti, a chi li riterrete». (Giov. XX, 22-23). « In verità vi dico: quanto legherete sulla terra, sarà legato nel cielo: e quanto scioglierete sulla terra, sarà sciolto nel cielo». (Matth. XVIII, 18)). Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me» (Luc. X, 16). La Chiesa è veramente la Gerusalemme di lassù. Di lassù venne il suo fondatore; lassù guidano la sua dottrina e i suoi Sacramenti: lassù sta il suo Capo invisibile, la pietra angolare che la sostiene, Gesù Cristo, Nostro Signore.

2.

Questa Gerusalemme di lassù è la nostra madre. « Questa è la madre di tutti, la quale ci raduna da ogni stirpe e da ogni nazione, e ne forma poi un corpo solo » (S. Zenone Tract. 33). Gesù Cristo ha costituito la Chiesa come una famiglia. Chi entrerà a farvi parte? Tutti quelli che parlano una data lingua? che abitano una determinata regione? Chi è fornito di un certo grado di coltura o di un certo censo? chi vi trova un adattamento ai propri gusti? Gesù Cristo non fa distinzione di luoghi e di persone. Se la legge mosaica si estendeva al solo popolo eletto,la legge cristiana si estenderà a tutti i popoli della terra. «Andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo. a ogni creatura, dice agli Apostoli (Marc. XVI, 15). È dunque la Chiesa di tutti gli uomini e di tutte le nazioni. Nei primissimi anni l’attività della Chiesa si svolge in Gerusalemme e in Palestina. Poi, in adempimento alla missione ricevuta, gli Apostoli allargano il campo della loro azione. Ancor viventi essi, la buona novella è già conosciuta in buon numero delle province dell’impero romano. Roma, che si assoggetta il popolo ebreo, ne distrugge la capitale e ne conduce prigionieri gli abitanti, non ha la forza di soggiogare i dodici ebrei che Gesù Cristo ha mandato a dilatare la sua Chiesa, la quale stabilisce subito il suo centro in Roma stessa. Ben presto si estende a tutto l’impero romano, e a tutto il mondo conosciuto. Man mano che si scoprono nuove regioni, la Chiesa vi pone le sue tende. È una società unica in condizioni e in luoghi disparatissimi. Ovunque si ubbidisce allo stesso capo, si amministrano gli stessi sacramenti,si insegna la stessa dottrina, «che si conserva unica e identica a traverso il succedersi delle età » (S. Vincenzo Lirin. Comm., 24). Non può essere altrimenti, poiché «la Chiesa è la bocca di Cristo » (S. Ilario, Tract. Ps. XXXVIII, 29). A questa universalità della Chiesa non possono nuocere le defezioni, provocate nel corso dei secoli dalle eresie e dalle persecuzioni. Quando un albero è in pieno vigore non fa che una perdita temporanea, se la tempesta o il ciclone gli stroncano qualche ramo. Al posto di un ramo troncato, sorgono, pieni di rigoglio, parecchi altri rami. Se qualche popolo, o parte di qualche popolo, fa talora apostasia dalla Chiesa Cattolica, ben presto altri popoli ne prendono il posto. L’assistenza di Gesù Cristo le infonde un vigore continuo, che la porta a nuove e sempre più ampie conquiste. E come allora, chi era nato secondo la carne perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. E così avverrà sempre.. Ismaele, figlio della schiava perseguita Isacco; i Giudei, schiavi della legge. perseguitavano la Chiesa nascente; gli schiavi della passione e dell’errore perseguiteranno la Chiesa nel corso dei secoli, pur soccombendo sempre.Il giorno della Pentecoste è il giorno natalizio della Chiesa. In quel giorno parecchie migliaia formano la prima comunità, che il giorno seguente aumenta di altre. migliaia, I membri della Chiesa crescono sempre più di numero, e il fatto non può sfuggire ai suoi nemici. Il Sinedrio che aveva visto sigillata la pietra che chiudeva il sepolcro di Gesù, credeva di aver seppellito per sempre anche il suo nome. Si accorge di essersi ingannato. Il nome di Gesù risuona più di prima, e in questo nome si compiono grandi miracoli. Ed ecco che fa in carcerare e battere gli Apostoli. Presto seguirà il martirio di chi professa la divinità di Gesù Cristo. Verrà S. Stefano, verrà S. Giacomo, verranno altri martiri, in Palestina e fuori; ma non per questo la Chiesa s’arresta nel suo cammino.Il Redentore, dopo l’omaggio e l’adorazione dei Magi, è portato in Egitto per essere sottratto alla persecuzione di Erode. Un bel giorno, l’Angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe, e gli dice: «Levati, prendi il fanciullo e la Madre di Lui, e va nella terra d’Israele; perché son già morti coloro che volevano la vita del bambino » (Matth. II, 20).Ecco la storia di tutti i persecutori della Chiesa. La Chiesa è ancor salda sul fondamento posto da Gesù Cristo e i suoi persecutori dove sono? Essi sono scomparsi, uno dopo l’altro, non lasciando di sé alcun nomea, o lasciando un nome esecrato. Quello che Dio guarda, è ben guardato. Eliodoro era stato mandato a Gerusalemme dal re Seleuco con l’ordine di spogliare il Tempio dei suoi tesori. Atterrato all’entrata del luogo santo dal cavallo d’un misterioso cavaliere, e flagellato con violenza da due giovani fulgenti di gloria, è salvato per l’intervento del Sommo Sacerdote Orda. Egli ritorna a Seleuco, a man vuote, ad annunciargli la potenza del Dio d’Israele. E quando il re gli chiede chi altro potrebbe essere mandato un’altra volta a Gerusalemme, risponde francamente: «Se tu hai qualche nemico o traditore del regno da punire, mandalo là, e ti ritornerà flagellato, se riuscirà a scampare la morte… Poiché colui che ha stanza nei cieli visita e protegge quel luogo, e percuote e stermina chi va a farvi del male» (2 Macc. III, 38-39).Brama di perdere, chi contro Dio combatte. Brama di fare una fine triste, dopo opera inutile, chi contrasta e combatte la Chiesa. Lo dimostra l’esperienza di 19 secoli. Abbiamo, dunque, la più grande fiducia nel continuo trionfo della Chiesa. Tutte le forze che si possono mobilitare contro di essa, non varranno a scuoterla. È sopra un fondamento troppo saldo. Lo scoglio avanzato o l’isolotto su cui s’innalza il faro ha ben poco da temere dall’insidia o dal furore delle acque. Il lavorio nascosto delle correnti non riesce a intaccare la salda roccia, e le onde impetuose non la possono abbattere. A ogni assalto c’è un po’ di rumore per l’urto: spruzzi d’acqua s’innalzano per un momento, poi tutto è quiete. Le onde si riversano infrante, lo scoglio sta, e il faro continua a brillare. La Chiesa continuerà la sua missione di illuminare il mondo, e intorno ad essa s’infrangerà qualunque forza.« Poiché è proprio della Chiesa il vincere quando è colpita, esser compresa quando è biasimata, riuscire quando è abbandonata » (S. Ilario, De Trin. L. 7, 4).Gesù Cristo rimprovera gli Apostoli di poca fede, quando temono di andar sommersi nelle onde del lago, nonostante la presenza del divin Maestro nella barca: non li rimprovera però, perché da parte loro fanno il possibile, lavorando di remi, per condurre la barca a riva. Saremmo certamente Cristiani di poca fede, se dubitassimo un momento del progresso continuo e del continuo trionfo della Chiesa; non saremmo certamente Cristiani modello, se non procurassimo, da parte nostra, aggiungere i fatti alla domanda che rivolgiamo tutti i giorni a Dio: «Venga il tuo regno ».

Graduale

Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. [V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus

Ps. CXXIV:1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem. [Quelli che confídano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi àbita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum. [V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VI:1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilaeæ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.”

OMELIA II

[A. Carmagnola: Spiegazione dei Vangeli domenicali – S. E. I. Torino 1921: Spieg. XVIII]

 “In quel tempo Gesù se ne andò di là dal mare di Galilea, cioè di Tiberiade; e seguivalo una gran turba, perché vedeva i miracoli fatti da lui a pro dei malati. Salì pertanto Gesù sopra un monte, e ivi si pose a sedere co’ suoi discepoli. Ed era vicina la Pasqua, solennità de’ Giudei. Avendo adunque Gesù alzati gli occhi e veduto come una gran turba veniva da lui, disse a Filippo: dove compreremo pane per cibar questa gente? Lo che Egli diceva per far prova di lui; imperocché egli sapeva quello che era per fare. Risposegli Filippo: Duecento denari di pane non bastano per costoro, a darne un piccolo pezzo per uno. Dissegli uno de’ suoi discepoli, Andrea, fratello di Simone Pietro: Evvi un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che è questo per tanta gente? Ma Gesù disse: Fate che costoro si mettano a sedere. Era quivi molta l’erba. Si misero pertanto a sedere in numero di circa cinquemila. Prese adunque Gesù i pani, e rese lo grazie, li distribuì a coloro che sedevano; e il simile dei pesci, nuche ne vollero. E saziati che furono, disse ai suoi discepoli: Raccogliete gli avanzi, che non vadano a male. Ed essi li raccolsero, ed empirono dodici canestri di frammenti dei cinque pani di orzo, che erano avanzati a coloro che avevano mangiato. Coloro pertanto, veduto il miracolo fatto da Gesù, dissero: Questo è veramente quel profeta che doveva venire al mondo. Ma Gesù, conoscendo che erano per venire a prenderlo per forza per farlo loro re, si fuggì di bel nuovo da sé solo sul monte” (Io. VI, 1-15).

La volontà di Dio a nostro riguardo è che ci facciamo santi. Hæc est voluntas Dei, dice l’Apostolo Paolo, sanctificatio vestra. E lo stesso nostro Signore in più luoghi delle Sacre Scritture così insiste: Siate santi, perché Io sono Sauto: Sancti estote, quia ego Sanctus sum (Lev. Pass.). Ma forseché  Iddio, che vuole la nostra santificazione, tralascia di darci i mezzi per operarla? Tutt’altro! Egli ce li dona in tanta quantità e di tale efficacia da superare infinitamente qualsiasi aspettazione ed immaginazione. E tra questi tanti e così efficaci mezzi tengono principalissimo posto i Sacramenti, quei Sacramenti, che nostro Signor Gesù Cristo, venuto in su la terra a compiere l’opera di redenzione, nell’amor suo infinito per noi, affine di perpetuarla ha istituito, onde comunicarci in modo specialissimo la sua grazia, renderci capaci della santità e meritevoli della vita eterna. Che se ciò è proprio di ciascuno dei sette Sacramenti, lo è senza dubbio massimamente del Sacramento dell’Eucaristia, in cui per la S. Comunione, si riceve dall’uomo non solamente la grazia, ma lo stesso Autore della grazia, Gesù Cristo. Or bene, il Vangelo di questa domenica ci presenta propriamente la bella occasione di parlare di questo gran mezzo di santificazione.

1. Gesù, ci dice questo Vangelo, era andato di là dal mare di Galilea, cioè di Tiberiade; e seguivalo una gran turba, perché vedeva i miracoli fatti da lui a pro dei malati. Et reliqua … Ecco il Vangelo di oggi. Or bene, la più parte dei Sacri Dottori sono d’accordo nel riconoscere come questa moltiplicazione dei pani, operata da Gesù Cristo a pro di quelle turbe fameliche, sia una chiara e stupenda figura della moltiplicazione che il Salvatore avrebbe fatto del suo corpo e del suo sangue in cibo ed a pro delle anime nostre. E di fatti, che cosa accade nel mistero della Eucaristia? Anzi tutto il pane ed il vino sono tramutati nel corpo e nel sangue di Nostro Signor Gesù Cristo. Il Sacerdote, che nella sacra ordinazione ne ha ricevuto la possanza, a nome di Gesù Cristo pronunzia sopra del pane queste singolari parole: Hoc est corpus meum; questo è il mio corpo, e sopra del vino queste altre: Hic est calix sanguinis mei, questo è il calice del mio sangue, ed a queste semplici parole per la potenza che Gesù Cristo ha loro comunicato, il pane cessa di essere pane: il vino lascia di essere vino: e diventano il Corpo ed il Sangue di Gesù Cristo: quel vero Corpo nato da Maria Vergine, quel vero Sangue sparso sulla croce per la nostra salute. Rimangono, è vero, le specie ossia le apparenze di pane e di vino, la loro figura, il loro colore, odore, sapore, ma il pane ed il vino più non vi sono, perciocché, notatelo bene, dopo le parole consacratorie non è già che il Corpo ed il Sangue di Cristo si trovino nel pane e nel vino che allora non avverrebbe più quella conversione meravigliosa che la Chiesa chiama transustanziazione, ma bensì, come volle credere quel grande eresiarca che fu Martin Lutero, una semplice impanazione; non è dunque che il corpo e il sangue di Gesù Cristo si trovino nel pane e nel vino, ma il pane e il vino sono diventati realmente il Corpo ed il Sangue di Lui. Ma ciò non è tutto. Per l’onnipotenza di Dio, al quale niente è impossibile, la presenza reale di Gesù Cristo resta come moltiplicata su tutta la faccia della terra, perciocché per le parole della consacrazione proferite da ogni Sacerdote, che celebra la Messa, Gesù Cristo viene a trovarsi realmente presente in tutte le ostie consacrate del mondo. Percorrete pure tutta la terra, entrate pure in tutte le Chiese, aprite pure tutti i tabernacoli: scoprite pure tutte le pissidi, Gesù Cristo è sempre tutto intero in quelle sacre ostie, sia che rimangano unite, sia che voi le separiate. Anzi se si spezza pure un’ostia consacrata in minutissime parti, in ciascuna di esse vi sarà sempre ancora tutto intero Gesù Cristo col suo Corpo, col suo Sangue, con la sua Anima e con la sua divinità. Più ancora; fino a che non siano corrotte o consumate le specie del pane e del vino Gesù, rimane sempre in tutte tali ostie ancorché non siano distribuite ai fedeli, ma si conservino solo nei tabernacoli, e cioè indipendentemente dall’uso del Sacramento. Il Battesimo, ad esempio, acquista la natura di Sacramento nell’atto stesso che si compie l’abluzione sull’uomo: la Cresima quando si fa la sacra unzione: ma l’Eucaristia è invece Sacramento prima ancora di essere distribuito nella Santa Comunione; è Sacramento anche dopo d’essere stato distribuito, e vuol essere conservato sui nostri altari, perché il popolo cristiano venga ad adorarvi la reale presenza di Dio e poi essere portato in viatico a quegli infermi, che per la gravezza del male più non possono recarsi nelle Chiese a riceverlo.Ora, non apparisce chiaro da tutto ciò come il miracolo della moltiplicazione dei pani raffigura magnificamente il mistero eucaristico? Ed ecco perché Gesù Cristo nella moltiplicazione dei pani osserva le stesse cerimonie della istituzione dell’Eucaristia, vale a dire prende il pane, rende le grazie, lo distribuisce finché ne vogliono e poi ordina di raccogliere i frammenti, affinché non vadano a male; ecco perché l’Evangelista S. Giovanni dopo un tal miracolo fa subito seguire il racconto della promessa, che Gesù fece dell’Eucarestia. Ed ecco ancora il perché nei primordi della Chiesa in più di trenta luoghi nelle catacombe il mistero dell’Eucaristia fu rappresentato sotto la figura della moltiplicazione dei pani. Tuttavia questo miracolo non raffigura soltanto il gran dono di Gesù Cristo nella sua essenza, ma lo raffigura altresì nei suoi effetti.

2. Quel pane miracoloso fu da Gesù moltiplicato per saziare la fame della turba, che lo seguiva; e così l’Eucarestia viene miracolosamente moltiplicata per saziare la fame delle anime nostre. Ed in vero il Signore, il quale ha creato tutte le cose dal nulla, volle che le medesime avessero incremento e vita mediante la nutrizione. Però « tutte le creature, come dice Davide, aspettano dal Signore il cibo nel tempo opportuno ed Egli apre la mano e tutte le sazia con la sua benedizione: Omnia a te expectant ut des illis escam in tempore; aperis tu manum tuain et imples omne animal benedizione». E la creazione può paragonarsi ad un immenso banchetto, dove seggono incessantemente milioni di convitati pascendosi dal mattino alla sera dei doni della Divina Provvidenza. La pianta va cercando nella terra, e fin sull’arida roccia i succhi, che essa aspira; nell’atmosfera va cercando la luce, i gas, la rugiada ch’essa avidamente beve. L’animale più esigente ancora, a mano a mano che la sua vita si svolge, va cercando il suo cibo nei prodotti delle piante e non di rado nelle carni stesse di un altro animale. L’uomo poi alla sua volta avendo anch’egli bisogno dì mangiare per vivere si serve anch’egli del cibo, che gli somministrano le piante e gli animali. Se non che all’uomo non basta questo cibo terreno, perché egli sia pienamente sazio in tutto il suo essere. Egli ha un’anima creata nel soffio di Dio, da Dio costituita in un ordine soprannaturale, destinata ad avere per suo fine Dio medesimo, a contemplarlo, a possederlo eternamente. Quest’anima nel Cristiano è santificata da Gesù Cristo nel Santo Battesimo, arricchita dei doni dello Spirito Santo nella Cresima e per vari titoli è fatta partecipe della divina natura. Ora quest’anima anch’essa ha fame e per quell’impulso che Iddio le ha dato, per quell’ordine, in cui Iddio l’ha costituita, per quella santificazione, che in lei ha operato, ha fame e sete di un cibo soprannaturale, di un cibo celeste, di un cibo divino, in una parola, ha fame e sete di Dio. E poteva essere che Iddio, sempre infinitamente buono con gli uomini, lasciasse insoddisfatto questo bisogno della loro anima? No, senza dubbio. Onnipotente, sapiente, buono come Egli è, lo ha soddisfatto in un modo che, come osserva S. Agostino, esaurisce la sua potenza, la sua sapienza, la sua bontà. Egli lo ha soddisfatto appunto nel Sacramento della Eucarestia, Sacramento in cui sotto le specie del pane e del vino Egli, Iddio, realmente Iddio, si fa cibo alle anime nostre. Gesù Cristo lo ha detto: « Io sono il pane della vita: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed Io in lui: chi mangia di me, vivrà di me. » E siccome il pane, ed ogni altro cibo materiale che noi prendiamo per saziare la nostra fame, si va trasformando nella nostra carne e nel nostro sangue, così questo pane e questo cibo delle nostre anime, che è la SS. Eucarestia, opera pure su noi una trasformazione anche più, anzi infinitamente più meravigliosa. Perciocché nella Comunione valendo la legge che nel concorso di duranze, la più attiva trasforma in se stessa quella che lo è meno, non siamo noi che trasformiamo il pane vivo di Gesù Cristo nel nostro essere, ma è lo stesso Gesù che ci trasforma in Lui. Cibus sum grandium, diceva Gesù dal tabernacolo a San Agostino, cresce et manducabis me: Io sono il cibo delle anime grandi, cresci e potrai mangiarmi: Nec tu mutabis me in te, sicut cibus carnis meæ, sed tu mutaberis in me: ma tu non cambierai me in te, come il nutrimento della tua carne, tu bensì sarai cangiato in me. Intendetelo bene, o miei cari, Gesù Cristo ci fa passare in Lui! Nel momento della comunione, Egli ci piglia, ci penetra, si impadronisce della nostra vita, ne volge il corso verso la vita sua, conforma le nostre tendenze, i nostri costumi alle tendenze ed ai costumi divini, dimodoché dopo la Comunione ciascuno di noi può esclamare con l’Apostolo: Sembra che io viva, ma no, non son più io che vivo, è Cristo che vive in me: Vivo ego, iam non ego, vivit vero in me Christus. È vero, l’atto della Comunione è passeggiero: la presenza reale non dura che pochi istanti: le specie sacramentali, dalla cui sorte essa dipende, scompariscono ben presto nel cieco lavoro dei nostri organi, ma l’effetto della divina assimilazione è durevole: perché Gesù Cristo lo ha detto: Qui manducat me, vivet propter me; e la sua parola non può fallire. E come quando il fiore è passato per le vostre stanze e l’incenso è stato arso presso l’altare, han lasciato il loro profumo, e come quando il sole è scomparso dall’orizzonte, la terra rimane ancor penetrata dal suo vivifico calore, cosi Gesù Cristo, allora che noi ci siamo nutriti della sua carne, lascia nell’anima nostra la sua fragranza ed il suo calore, sicché noi possiamo sempre ripetere: Mihi vivere Christus est: Gesù Cristo è la mia vita. – Come bene adunque il miracolo della moltiplicazione dei pani, operato da Gesù Cristo per saziare la fame di quella turba che lo seguiva, come bene raffigura il mistero dell’Eucarestia, che Gesù Cristo ha istituito per saziare la fame dell’anima nostra! Ma come quel pane miracoloso saziando la fame di quella turba riparò in essa la perdita delle sue forze, e la sostentò, le accrebbe anzi vigoria e le procacciò pure un grande diletto, così ancora è da dirsi del pane Eucaristico. E così appunto dice S. Tommaso.

3. Ogni effetto che l’alimento materiale produce nella nostra vita corporale, dice egli, lo produce l’Eucaristia nella vita spirituale, vale a dire ripara, sostiene, aumenta e diletta. Ed anzi tutto ripara. Come il nostro corpo va soggetto a perdite per le forze deleterie, che agiscono in lui, così l’anima nostra. Il peccato opera in essa delle alterazioni analoghe a quelle, che le malattie producono nel nostro corpo; e sebbene se ne sia guariti per mezzo di una santa Confessione, rimangono tuttavia le sue conseguenze, una debolezza, una prostrazione di forze, una facilità a ricadervi, come chi si trova nello stato di convalescenza. Or bene per mezzo della Comunione la grazia si rinvigorisce, le forze ritornano, il pericolo di ricadere si fa più lontano e si è più facilmente preservati dal peccato mortale. E siccome non è la colpa grave soltanto, che cagioni in noi delle perdite, ma anche le quotidiane imperfezioni, a cui andiamo soggetti, senza distruggere, scemano tuttavia in noi il fervore della carità, così l’Eucarestia anche qui compie la sua opera di riparazione, perciocché come afferma S. Ambrogio, questo pane divino è il rimedio alle quotidiane infermità: Iste panis quotidianus sumitur in remedium quotidianæ infirmitatis. In secondo luogo la SS. Eucaristia ci sostiene nella lotta, che dobbiamo avere continuamente coi nostri nemici. Il demonio nostro implacabile avversario sempre si aggira dintorno a noi, cercando di divorarci. Il mondo con le sue vanità, con le sue massime e persino con le sue minacce porge, ahi! troppo valido aiuto all’opera di satana. E sventura vuole che a questi nemici esterni si aggiungano dei nemici interni, vale a dire le nostre passioni, che a guisa di furie si scagliano continuamente contro di noi per cooperare con satana e col mondo a far la nostra rovina. Ora, contro di queste tre sorta di nemici, sempre congiurati ai nostri danni, dove troveremo noi la forza per resistere e vincere? Nella SS. Eucaristia. La carne ed il sangue di Gesù Cristo, dice S. Giov. Crisostomo, mette in fuga ed allontana da noi il demonio, poiché al solo vedere nelle anime nostre Colui che atterrò il suo impero, si sente ripieno di sgomento. La Comunione ci tramuta in leoni spiranti fiamme d’un coraggio divino, sicché non è più il demonio che sia terribile a noi, ma noi siamo terribili al demonio. E così venga pure il mondo contro di noi con le sue vanità, con le fragili bellezze delle creature, con le lusinghe de’ suoi amori caduchi! Se l’Eucaristia ciba sì spesso le anime nostre, il nostro cuore non pena e non tarda a dissipare le illusioni, e a togliere anzi argomento da questi assalti mondani a stringersi sempre più fortemente al suo unico vero bene. Venga pure il mondo contro di noi con le sue massime e con le sue derisioni, ma l’Eucaristia metterà nell’anima nostra tale una forza, che ci farà respingere sdegnosamente quelle sue perverse massime e ci indurrà ben anche a sfidare il mondo tutto, se con le sue dicerie verrà a distoglierci dall’operare il bene. Venga in fine contro di noi con le stesse minacce e con le persecuzioni e con le violenze. Non temeremo certamente di ciò, e a somiglianza dei primi Cristiani, fortificati da questo pane celeste, saremo pronti a morire, ma non a cedere. Infine siccome oltreché da questi nemici esterni siamo ancora travagliati dalle nostre prepotenti passioni, dal nostro orgoglio, dalla nostra cupidigia, dalla nostra carne, così Gesù Cristo venendo dentro di noi per la Santa Comunione, come dice S. Cirillo Alessandrino, raffrenerà il loro ardore corroborando contro di esse la nostra pietà. Difatti come non fiaccare la nostra superbia davanti ai prodigiosi abbassamenti di Gesù nella SS. Eucaristia? Come non distaccare il cuore dai beni terreni nel possesso vero ed unico bene? Come non castigare e mondare la nostra carne nel mangiare il frumento degli eletti e nel bere il vino che germina i vergini? In terzo luogo questo cibo delle anime nostre accresce ancora in noi la vita spirituale, spronandoci efficacemente a far passi da gigante nella via della giustizia e della santità; imperciocché coloro, che si cibano sovente e bene della SS. Eucaristia, sono essi, a ciascun dei quali si possono applicare le parole del Salmista: Beatus vir, cuius est auxilium abs te; ascensiones in corde suo disposuit; beato l’uomo che da te, o Signore, riceve l’aiuto, anzi il generatore dell’aiuto, perciocché è desso che ha stabilito di salir sempre più in alto. Sì, sono essi, che se ne vanno di virtù in virtù: Ibunt de virtute in virtúte (Ps. LXXXIII, 6), che si fanno sempre più umili, sempre più pazienti, sempre più mortificati, sempre più casti, sempre più caritatevoli, sempre più ardenti nell’amor di Dio, sempre più santi. È la forza arcana dell’Eucaristia che li spinge, che dice a ciascun di loro con tutta l’efficacia: Ascende superius: pia in alto, più in alto sempre. E finalmente il cibo della SS. Comunione arreca alle anime nostre un ineffabile spirituale diletto. Ah! io so bene che l’uomo animalesco, che non vive che in mezzo alle cose del mondo e ai piaceri del senso, del tutto ignaro e dimentico delle cose di Dio, no, non capisce che vi possa essere uno spirituale diletto nel ricevere la Santa Comunione. Ma se noi ne domandassimo qualche cosa ai Santi, che con tanta frequenza e con tanto fervore vi si accostavano, ben ci risponderebbero che non vi ha sulla terra maggior diletto di questo, e che qui nella Santa Comunione si prova davvero il paradiso anticipato. Ma anche senza rivolgerci ai Santi, è certo che so nel corso della nostra passata vita abbiamo fatto delle buone Comunioni, noi medesimi potremo rendere testimonianza di questa certissima verità, che il cibarci delle carni di Gesù Cristo, arreca veramente il massimo fra gli spirituali diletti. Ecco adunque gli effetti ammirabili, che opera il pane della SS. Eucaristia in chi bene e frequentemente lo riceve. Se ancor noi desideriamo di goderne, imitiamo le turbe del deserto. Aneliamo di star vicini a Gesù, stiamogli vicini davvero col tenerci sempre lontani dal peccato, ed allora con la bella e necessaria disposizione della grazia potremo ancor noi cibarci bene e spesso del pane Eucaristico, e questo pane sazierà la fame dell’anima nostra e ne opererà la santificazione.

CREDO …

 Offertorium

Orémus Ps CXXXIV: 3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra. [Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quaesumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. – R. Amen.

Communio

Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine. [Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

Orémus. Da nobis, quaesumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]

LO SCUDO DELLA FEDE (55)

S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Mure, FIRENZE, 1858]

FALSITA’ DEL PROTESTANTESIMO

CAPITOLO V.

IL PROTESTANTISMO È FALSO PERCHÉ È NUOVO.

Dalle persone che abbiamo considerate passiamo alle cose, e vediamo fin dove vi vogliano trascinare. Vi conducono se non istate attenti nell’abisso di ogni errore. Eccovene alcune prove bell’e chiare. La vera Religione è quella che ebbe origine da Gesù Cristo e che mantenutasi in ogni secolo pervenne fino a noi, che perciò si chiama Religione Cristiana, perché proviene da Gesù Cristo. È dunque manifesto che la vera Chiesa deve essere antica quanto è il suo divin Fondatore. Ma il Protestantismo è nuovo, dunque non è la vera Chiesa. Ora che le sette Protestanti non siano antiche e che per conseguenza non provengano da Gesù Cristo, gli è chiaro poiché noi sappiamo l’anno, il mese, il giorno in cui sono comparse al mondo. Le une hanno avuto per padre Lutero, le altre Calvino, la Zuingliana viene da Zuinglin, l’Anglicana da Arrigo VIII e da Elisabetta, i Quaqueri da Giorgio Fox, i Mormoni da Giuseppe Smith, c così andate dicendo. Tutti questi capi settarii non hanno nessun legame con le persone precedenti, non ne hanno principalmente la dottrina, perché se l’avessero avuta non si sarebbero separati da loro: dunque non possono vantarsi di provenire da Gesù; dunque non sono veri pastori, dunque sono lupi voraci. Con questa ragione sola un vecchio contadino fece ammutolire la perfida Regina d’Inghilterra Elisabetta. – Questa Signora andando una volta alla caccia nei suoi poderi s’incontrò in un buon vecchio e prese ad esortarlo che si facesse protestante. Egli stava zitto a sentirla, ed intanto con una mano si lisciava la sua candida barba. Quando la trista Regina ebbe finito, orsù, gli disse, siete risoluto a farvi dei nostri? Come posso, ripigliò allora quel vecchio savio, abbracciare una Religione che è nata dopo la mia barba? Con questa bella risposta le volle far capire che la Religione Cristiana non può esser vera se non è antica, se non rimonta fino a Gesù Cristo che ne è il divin fondatore. E questa è appunto la bella proprietà della Religione Cattolica, la quale sale di età in età, di secolo in secolo, come un bel fiume maestoso sino alla sua sorgente che è Gesù Cristo. Noi in questo secolo teniamo le stesse dottrineche hanno tenuto nel secolo precedente, quelli del secolo precedente hanno conservate quelle dei loro antenati, ed andate dicendo. Quest’oggi siede Pio IX Pontefice e Vicario di Gesù Cristo sul trono Apostolico, egli insegnò quello che insegnò Gregorio XVI. Questi quello che insegnò Pio VIII, Leone XII, Pio VII, Pio VI, e tutti gli altri Romani Pontefici fino a S. Pietro e fino a Gesù Cristo. Direte: e come si sa che hanno sempre insegnato lo stesso? Si sa con tutta certezza in molte maniere. Si sa da questo che si vede che ogni volta che venne fuori qualcuno che insegnasse una dottrina nuova, come hanno fatto finodai primi tempi gli eretici, fu subito reciso dal corpo di S. Chiesa. Questo sono obbligati a confessarlo anche i Protestanti, parlando delle prime Eresie, clic anch’essi rigettano: sebbene poi non lo vogliano più concedere delle ultime e delle loro, perché non vogliono confessare d’aver torto. Si sa per testimonianza degli stessi Protestanti, i quali provocati tante volte a dire in qual secolo la Chiesa abbia cambiate le sue dottrine, sono costretti a dire mille spropositi ed a contraddirsi fra di sé, volendo alcuni che fosse nel terzo secolo, altri nel quarto, altri nel sesto, altri nel duodecimo. Con che fanno vedere molto chiaro, che non sanno quel che si dicono. Lo dimostrano anche con ciò, che postisi talora all’opera d’indicare quelle dottrine in che si è fatto cambiamento, mai non convennero fra di sé, e qualunque punto traessero fuori come novità introdotta dalla Chiesa, fu subito dimostrato che non era altrimenti nuova dottrina introdotta, ma antica sentenza mantenuta. – Si dimostra finalmente da ciò, che sarebbe stato impossibile fare un cambiamento nella Fede senza che tutti i Cattolici reclamassero subito. Nei primi secoli per testimonianza di tutti i Protestanti, Ja Fede era pura, i Sommi Pontefici che reggevano la Chiesa erano sulla strada di verità. Quando fa dunque, li interroga S. Francesco di Sales, che Roma perdette questa Fede pura e celeste? Quando cessò di essere quello che era? » In qual tempo, sotto qual Papa? Per qual mezzo e per forza di chi? Qual Religione straniera invase la città eterna, e con lei il mondo intero? Questo divorzio fatto dalla verità non destò neppure una voce fedele, non un grido, non una lagnanza? Oh dormivano dunque tutti quelli che pure voi tutti quelli che pure voi stessi concedete che erano fedeli, mentre Roma formava nuovi sacramenti, nuovo sacrificio, nova dottrina? Come non vi ha o né greco, né latino, né domestico, né  straniero che ne abbia lasciato un cenno, una memoria, una sillaba? Oh certo questa è la più portentosa novità del mondo, che mentre essi si perdono in cento inezie che riguardano i paesi ed i popoli, abbiano tutti d’accordo passato senza un’osservazione l’affare della Religione. Se venisse adesso un fedele qualunque e volesse mutare qualche verità della S. Fede, starebbero zitti tutti i Sacerdoti, tutti i Vescovi, tutti i Patriarchi della Chiesa Cattolica? Tutto l’opposta Sorgerebbero subito a gridare, a strepitare e condannare, appunto come fanno quando alcuno toglie ad insinuare una novità: ma lo stesso facevano in passato: tanto che non sarebbe mai stato un cambiamento senza di molto strepito. Vedeteadunque che la Chiesa Cattolica, mai non mutò dottrina. – I Protestanti però a dimostrarvi che la Chiesa ha cambiato dottrina, vi portano sempre dinanzi la definizione che il Santo Padre Pio IX ha fatta dell’Immacolata Concezione di Maria Vergine. Ebbene io voglio che osserviate la ignoranza e la malizia di quelli che fanno questa difficoltà. Ecco come andò la cosa. Si dubitava da alcuni se la SS. Vergine fosse stata concepita in peccato o no. Notate bene, non si faceva questione, come sognano alcuni sciocchi, se la Madonna SS. fosse stata Vergine o no, perché mai nessuno ha dubitato che la Madonna godesse questo gran privilegio: quello di che si dubitava, era se la Madonna avesse contratto il peccato originale o no. Allora che cosa fece la S. Chiesa, la quale non vuole che s’introduca nessuna dottrina nuova, ma che ritiene sempre la dottrina tal quale fu rivelata da Gesù Cristo? Fece ricerche diligenti nelle tradizioni di tutte le Chiese e specialmente nelle Chiese fondate dai Santi Apostoli, per scoprire quale fosse la vera dottrina di Gesù Cristo lasciata alla sua Chiesa; ed avendo trovato per quella assistenza che lo Spirito Santo secondo le promesse di Gesù Cristo mai non le lascia mancare, che in tutte anche le più antiche Chiese era comune e costante la dottrina dell’immacolato concepimento di Maria, pronunziò autenticamente per mezzo del Sommo Pontefice che la vera, l’antica dottrina era che la gran Madre di Dio fosse stata esente da ogni macchia di peccato originale. – Vedete adunque che non solo la Chiesa non inventò una nuova dottrina, ma insegnò l’antica levandola da ogni dubbietà. Sono adunque o molto ignoranti quelli che non comprendono queste cose, ed allora farebbero bene a tacere, oppure sono molto maligni ed allora non meritano alcuna fede. – Del resto i Protestanti istruiti sanno che questo mezzo di definizione fu adoperato sempre nella Chiesa, ogni qual volta sorse un dubbio od un errore, ed essi sono costretti ad ammetterlo come legittimo, trattandosi degli errori definiti contro Nestorio, Eutiche etc. che anche essi riconoscono come errori. Qual è dunque il motivo per cui lo stimano inopportuno trattandosi della Madonna SS.? E sempre la mala fede che si mostra a mille miglia lontano. Negano e concedono ad arbitrio, come fanno quelli che avendo detto la bugia, per sostenerne una, sono costretti a dirne cento altre.

QUARESIMALE XXI

[Padre Paolo SEGNERI S. J.:

Quaresimale

– Stamperia Eredi Franco,
Ivrea 1844 –

Cortassa Pro-Vic. Generale; Rist. Ivrea 10 agosto 1843,
Ferraris prof. Rev. Pe]

PREDICA VIGESIMA PRIMA

NEL VENERDI DOPO LA TERZA DOMENICA

Jesus ergo
fàtígatus ex itinere sedebat sic supra fontem hora est quasi sexta.
Venit mulier Samaria haurire aquam etc. [Jo. IV.6];

DUE contrarissimi affetti genera nel mio cuore questo successo della odierna Samaritana, ch’io già presuppongo notissimo ad ognun di voi, e sono appunto una fervente speranza, e un freddo timore. Perocché mentre profondamente io considero, da quanto poco dipende la salute di sì rea femmina, subito mi si sveglia nell’animo un ardito pensiero, il quale mi dice: Se cosi è poco dunque ci vuole afin di salvarsi. Ma, oimè, che si leva tosto in contrario un pensiero palpitante, il quale mi replica: Se così è, basterà dunque ancora poco a perire. E’ vero, che questa misera peccatrice non per altra ragione diventò santa, se non perché s’imbatte casualmente a quel pozzo, dov’era Cristo affaticato ed ansante, ed ivi interrogata da Lui, si contentò di reprimere quella voglia, la quale aveva, di cavare allora dell’acqua per udirlo alquanto discorrere di materie a lei salutari. Ma fate voi ragion, che vedutolo non gli avesse in verun modo voluto prestare orecchie, ma avesse detto: Adesso ho altro che fare, sono assetata, sono arsa, e poi l’ora è tarda: “ora est quasi sexta”; convien ch’io torni alle mie faccende domestiche; quanto è probabile che mai più non dovesse incontrare nell’avvenire una congiuntura sì comoda, quale ella ebbe, da rientrare in se stessa, e da ravvedersi! Da questa considerazione io sollevo sbigottito il mio spirito a domandarvi: Chi è tra noi, Signori miei cari, il quale faccia gran caso di un piccolo movimento interiore, il quale talor ci stimoli alquanto a mortificarci: di un piccolo impulso, di una piccola ispirazione, o di una azione minutissima di virtù? E pure, quell’azion di virtù sì minuta era forse il principio da cui doveva derivare la nostra beatitudine, e siccome trascurato il principio. Né meno. si ottiene il fine; così trascurata quella minuzia, né meno avviene, che ottengasi il Paradiso. Oh Padre (voi mi direte) com’è possibile? Volete dunque che da una minuzia dipenda la salute eterna di un uomo? Mentre parlate così, voi volete atterrirci. non istruire! Voglio atterrirvi? Ah sì. ch’io voglio atterrirvi (ve lo confesso) ma perch’io sono atterrito: Territus terreo, dirò tremante col Padre Santo Agostino. Non però voglio atterrirvi con vane esagerazioni, voglio atterrirvi con sodissime verità. Io vi prometto di non dirvi se non quello che mi fa riscuotere tutto da capo a piedi, quand’io vi penso, e che se ancora non è bastevole a rendermi meno iniquo, mi fa non essere almanco più incorreggibile. E che cosa è questa? Quella proposizione appunto che a voi pareva così strana, cioè, che da una minuzia talor dipenda la salute eterna di un uomo. Questa proposizione è quella che fa tremarmi, questa è quella ch’io qui mi accingo a mostrare, perché ognun veda una volta quanto sia vero che la buona opportunità vuole essere presa a tempo per li capelli, che son le piccole cose.

II. E primieramente io non credo, che vi parrà per altro strano di udire che da cose piccole possano derivare cose grandissime. Non ci predicano quasi altro i Naturali nelle loro considerazioni, i Politici nelle loro avvertenze, i Morali nelle loro massime. Basta dare un’occhiata d’intorno al Mondo per chiarirsene in un momento. Non è già solo il granellino di senape quello che nella Palestina si vanta di giungere a tanta altezza che agguagli gli alberi, non che avanzi le biade? Tutte quelle selve, le quali coi loro tronchi somministrano tante aste agli eserciti, tante navi all’Oceano, tanti sostegni alle case, tanti materiali alle macchine, tanti ricetti alle fiere, tanto nutrimento alle fiamme; ſe ci volessero fedelmente scoprire la l’oro origine, mostrerebbero alla fin altroche minutissimi semi stati talora, o spazzatura dei piedi, o scherzo degli uccelletti? Non accade, che scagliandosi un fulmine dalle nuvole faccia fracasso sì grande per ostentare la sua meravigliosa potenza… Abbatta pure le torri, percuota i gioghi, incenerisca i boschi, sgomenti i popoli: ben si sa da qual piccolo vaporetto egli ebbe i natali. E quei gran fiumi, che del continuo pellegrinando pel mondo ne vanno tanto orgogliosi, che vogliono porre i termini alle provincie, e togliere il nome al mare, e però anch’essi or portano sopra il dosso armati navigli, or contribuiscono dal seno grossissime pescagioni, ed ora infuriati uscendo dagli argini recano strage agli armenti, inondazione a campi, e sterminio alle biade, assedio alle case, solitudine alle Città, questi gran fiumi medesimi, se si potessero rivoltare talora indietro a mirare i loro principi, quanta cagione avrebbero di umiliarsi. mentre vedrebbero o che semplici villanelle vi guizzano entro per giuoco, o che stanchi pellegrini gli saltano per insulto! Tanto è comune alle cose ancora maggiori derivar dalle minime! Così son famosi gli incendi sorti da una favilla, così i contagi sparsi da un fiato, così i tremoti originati da un alito. Ma senza ciò, se si considera il corso degli avvenimenti morali, chi non sa come da cagione leggerissima può accadere che uno o da altissima dignità cada in un vilissimo stato, o da un vilissimo stato sia sollevato ad altissima dignità? Abigaille, di cittadina privata, arrivò ad essere tolta da un Davide per consorte, e così a cingere ancora un giorno la fronte di corona Reale; Ma ciò donde avvenne? Da una tal buona creanza, la qual ella usò coi servi di Davide, nel portar loro un rinfresco. Rebecca, di semplice garzoncella, arrivò ad esser data ad un Isacco per sposa; e così a divenire anche un tempo procreatrice del promesso Messia. Ma ciò donde accadde? Da una tal facile cortesia, ch’ella mostrò col messo di Isacco nell’offrirgli dell’acqua (Gen. XXIV). Laddove Aman, quel sì celebre favorito del Re Assuero, donde venne alla fine a cader di :grazia, a perder le dignità, a perdere le ricchezze, a perder la prole, ed a morir anche appeso qual pubblico malfattore sopra un patibolo? Non da altro venne, che dall’aver lui preso a piccarsi che un Mardocheo, uomo popolare, uomo povero non lo salutasse a suo modo: Non flecteret sibi genu (Esth. III, 5)? Che dirò della milizia? che del traffico? che delle lettere? Non fu per certo un accidente lievissimo, che Protagora divenisse in Grecia filosofo sì ammirato? Guardate donde accadde e meravigliatevi! Era già Protagora un vile contadinello, quando portando egli un dì sulle sue tenere spalle un fastello di legna al vecchio suo padre, si imbatté casualmente in Democrito, filosofo di gran nome, il quale vedendo quelle legne legate insieme con grandissima aggiustatezza, domandò al fanciullo, s’aveva fatte egli quel fascio. E rispondendo quegli di sì: Provati un poco, gli soggiunse Democrito, a scioglierlo, ed a ricomporlo all’istesso modo. Ubbidì Protagora prontamente, e con egual arte ed industria rilegando insieme le legne, se le recò di bel nuovo sopra le spalle. Dal che congetturando Democrito in quel figliuolo ingegno ed indole opportuna agli studi, l’invitò a vivere sotto la sua disciplina, lo educò, lo sostenne, lo addottrinò, e lo rendé filosofo non minore di tal maestro. Fate ora voi ragion che Protagora, o non avesse composto con tale aggiustatezza quel fascio, o non avesse incontrato in tali congiunture quel Savio; quanto è probabile ch’ei si fosse sempre rimasto a guidar l’aratro, in cambio di esercitare la penna? … e a solcar le campagne, in cambio di vergare le carte? E di somiglianti successi io potrei raccontarne quasi infiniti in qualunque genere, se non mi premesse di accostarmi più da vicino ad esemplificare nelle opere della grazia, senza vagar tanto per quelle della Natura.

III. Presupponete adunque che Dio, conforme allo stile, ch’Ei tiene nell’ordine della natura, proceda ancora nell’ordine della grazia; altrimenti da quello, che noi vediamo, non ci potremmo sollevare ad intendere quello, che non vediamo, come pur pretendeva S. Paolo ai Romani, quand’egli disse, che Invisibilia Dei, per ea quæ facta sunt, intellecta conspiciuntur (ad Rom. I, 20). Ha dunque Iddio, quanto alla sua volontà antecedente, non pur disegno (per favellar coi Teologi) ma ancora di beneplacito, destinata a tutti la gloria del Paradiso; e però veramente vorrebbe che la conseguissero tutti, che non la perdesse veruno: Deus vult omnes homines salvos fieri (I Tim. II 4). Ma essendo lo stesso il fine a cui tutti dobbiamo giungere, non son pero l’ istesse le strade da giungere ad un tal fine. Anzi nella vita di ciascun uomo Iddio vede, come le scuole c’insegnano, in numerabili connessioni, concatenazioni, o serie di avvenimenti, le quali, come tante strade maestre conducono, altre dirittamente alla gloria, altre dirittamente alla perdizione: Vias vitæ. Et vias mortis (Jer. XXI, 8). Ora, che l’uomo s’incammini piuttosto per una di queste strade che per un’altra, dipenderà talora da opere piccolissime. L’udire o il non udire una predica: il leggere, o il non leggere un libro; il parlare, o il non parlare con una persona: l’andare o il non andare a una veglia, può esser quello che, o c’incammini al Cielo, o c’incammini all’Inferno. Dissi “c’incammini”, vedete, perché non dipenderà la nostra salute immediatamente da tali azioni, ma dipenderanno remotamente in quella maniera medesima, onde abbiam detto, potere azioni anche minime incamminare naturalmente un mondano a gran perdite, o a grandi acquisti: In tantum ut, si priora tua fuerint parva, (come diceva quell’amico di Giobbe), novissima tua multiplicentrur nimis. Non si sgomenti, se a qualcuno non paja di avere ancor bene appresa una tal dottrina, perché io la renderò con gli esempi manifestissima a chicchessìa, benché digiuno d’ogni perizia scolastica. Pigliamo dunque per maggior’ intelligenza di ciò un nobile avvenimento, che vien descritto dal Padre Santo Agostino. Racconta il Santo. come dimorando l’Imperatore Teodosio nella città di Treviri a rimirare i famosi giuochi del Circo, due cortigiani si vollero appartar da quello spettacolo; ma non sapendo frattanto ciò ch’essi fare, si avviarono unitamente fuor delle mura, per goder la vista innocente della campagna. Passarono d’una in altra strada, d’uno in altro ragionamento, finché s’incontrarono in una solitaria boscaglia, dove abitavano sotto una rozza casuccia alcuni penitenti romiti. Entrarono per curiosità in quel tugurio, e mentre, come accade, ammiravano le angustie dell’abitazione, e la penuria dei mobili, videro un libro assai logoro, che giaceva sopra un tavolino . Uno di loro il piglia, l’apre, e s’avvede contenersi in esso le azioni del grand’Antonio. Comincia a leggerle, prima per curiosità, di poi per diletto, indi sente anche a poco a poco infiammarsi all’imitazione. Quando all’improvviso, avvampando tutto nel cuore di un amor santo, e nel volto di un vergognoso rossore, prorompe in un sospiro, e dice al compagno: Poveri noi, che seguitiamo una strada tanto diversa! Dic, quæso te, omnibus isti laboribus nostris, quo ambimus pervenire? quid quærimus? (S. Agost. Confess. Lib. VI). Ditemi un poco per vita vostra, o Signore, che pretendiamo noi con tante fatiche, con tanti servizi, con tanti corteggi, con tante umiliazioni; che pretendiamo? Possiamo mai sperar più, che di conseguir la grazia del Principe? Major ne esse poterit spes nostra, quam ut amici Imperatirissimus? Ma chi ne assicura che vi arriviamo? La vita è breve, la gioventù fallace, le forze manchevoli, i concorrenti molti, i carichi; pochi. E poi, quando ancor vi arrivassimo quid ibi non fragile, plerumque periculis? Che avremo noi fatto alla fine che cambiare fatica con fatica, servitù con servitù, pericolo con pericolo? Quante invidie ci assedieranno, quanti odi, quante persecuzioni quante calunnie! Non ci converrà vivere sempre in timore, e star sempre in guardia! All’incontro. per diventare amico di Dio, basta il volerlo niuno ce lo potrà mai contendere, e nessun levare: Amicus autem Dei, si voluero, esse non fio. Indi tornò a fissare gli occhi sul libro; e quasi assorto per la gran mutazione che lo agitava nell’animo, leggeva insieme, e gemeva, or nella faccia pallido, ed or acceso; ora pensieroso, ed or lagrimante. Finalmente richiude ad un tratto il libro, e battendo la mano sopra la tavola, dice risolutamente al compagno: Or quanto a me, io del tutto ho già stabilito di non mi partir più di qui. Da quest’ora ed in questo luogo io mi voglio consacrare tutto a Dio; però se voi non mi volete im itare, rimanetevi di sturbarmi: Ego jam Deo servire statui, et hoc ex hora hat, in hoc loco aggredior; te si piget imitari, noli adversari. Come? ripigliò l’altro, commosso da tal esempio, non piaccia a Dio, ch’io a me ritenga la terra, a voi lasci il Cielo. O ambedue ci ricondurremo alla Regia, o chiuderacci questo tugurio ambedue. E così risolutisi di nemmen prima tornare all’Imperatore, gli mandarono dentro un foglio l’avviso della lor concorde risoluzione; e deposti di subito gli ori, e gli ostri , si copersero di un sacco, si cinsero d’una fune, si chiusero in una cella; ed ivi in somma mendicità, sempre squallidi, sempre scalzi, menarono tutto il resto dei loro di, non mai però più famosi al Mondo che quando lo disprezzarono. Ora ditemi un poco, Signori miei; tante opere buone, che questi due novelli romiti dovettero di poi fare, tante vigilie notturne, tanti salmeggiamenti scambievoli, tante contemplazioni profonde, tanti digiuni severi, tante flagellazioni sanguinolenti con cui dovettero sicuramente acquistarsi la gloria del Paradiso, tutte queste cose, donde ebbero principio, chiamato già nei Proverbi (XVI, 5) Initium viæ bonæ? Mirate donde: dall’essersi ritirati da uno spettacolo. Quindi Iddio dispose che uscissero a camminare; dall’uscire a camminare, che incontrassero il romitaggio; dall’incontrare il romitaggio, che leggessero il libro; dal leggere il libro, che s’infiammassero di sentimenti devoti; quindi che aborrissero la Corte, che abbandonassero la Casa, che abbracciassero il chiostro, che camminassero sulla regia via della Croce. Laddove fingete voi, che si fossero trattenuti a quei giuochi, a cui forse potevano intervenire senza grave rimordimento: farebbe accaduto veruno di questi casi? E’ moralmente certo, che no: mercecché tutte le cose, se noi vogliamo dar credito all’Ecclesiaste, hanno una tal propria opportunità, a cui sono affisse Omnia negotia tempus est, et opportunitas (Eccl. VIII, 6). E però piuttosto saria seguita una serie di avvenimenti molto diversa, la qual Dio sa dove gli avrebbe condotti; perocché avrebbero probabilmente perseverato nel servizio del Principe, nella vanità delle signorie, ne’ vizi del secolo, e per conseguente ancor nei pericoli dell’Inferno. Debbono dunque riconoscere essi la loro eterna salute (non già come da cagione prossima, ma come da cagione remota) dall’aver lasciata una ricreazione non sì lodevole; Questa ſu a guisa di quella piccolissima fonte, veduta poi da Mardocheo convertirsi in fiume sì vasto (Esth. XI, 10). Questo fu a guisa di quel piccolissimo sasso veduto poi da Daniele cambiarsi in montagna sì smisurata. (Dan. II. 35).

IV. Ora figuratevi, che da sì lievi cagioni incominciassero quasi tutti coloro che noi sappiamo essere di presente arrivati ad eccelsissimi gradi di perfezione, di santità, di miracoli. Certamente pochissimi furono quei Santi, che nacquero Santi: nella Legge vecchia un Geremia, nella nuova un Giovanni. La maggior parte degli altri non nacquero Santi, ma diventarono. E che diventassero, qual ne fu la cagione? Ad uno fu l’aver gittate le cetere e le chitarre, per correre un poco dietro ad un uomo pio, che con grandissimo accompagnamento di gente passava per la via pubblica. come accadde a San Ranieri il Pisano; ad altri ſu l’aver contemplato attentamente un cadavere, come a San Francesco Borgia; ad altri fu l’aver perdonata Pietosamente un’ingiuria, come a San Giovanni Guarlberto; ad altri l’aver sovvenuto l’avvenuto cortesemente un mendico, come a San Francesco d’Assisi, ad altri l’aver tollerata innocentemente una prigionia, come a Santo Efrem Siro; ad altri l’aver udito casualmente una predica, come a San Niccolò di Tolentino; ad altri l’esser caduto vergognosamente nel loto come al Beato Consalvo Domenicano; ad altri l’aver ricevuto opportunamente un rimprovero dalla madre, come a Santo Andrea Corsini; e ad altri non più che l’aver servito caritatevolmente una Messa, come a Marcello Mastrilli, quel gran campione della mia fiera milizia, il quale giunto al sepolcro di San Francesco Saverio ricevé un chiarissimo lume di essere stato colà chiamato all’onore di combattere per Cristo, e di trionfare con tanta novità di stupori; perché una volta in Napoli ricercato, mentre egli ancora era studente, da un padre vecchio, in congiunture importune, ed in ora tarda, di ministrargli all’altare, egli con sembiante sereno, e con prontezza amorevole nel compiacque. Ma qual maggior santità si può figurare di quella alla quale giunsero, benché per diversissime strade, un Antonio Abate, ed un Ignazio Loyola?- Udite di grazia, se pure il parallelo in mia bocca non sia ambizioso. Furono ambedue patriarchi di numerosissima figliolanza, quantunque l’uno di gente solinga, e contemplativa, l’altro di persone trattabili ed attuose. Ambedue nei principi della loro conversione ebbero da’ demoni contrasti travagliosissimi. Perocché, se ad Antonio apparivano spesso in forma. di animali feroci, ad Ignazio comparivano ancor col volto di femmina lusinghevole. Ma esercitarono all’incontro ambedue sopra i demoni grandissima padronanza, perocché dove Antonio fugavali con la voce; spesso ancora Ignazio scacciavali col bastone. Ambedue arsero d’una voglia accesissima del martirio, per cui sfogare ne andarono, Antonio in Alessandria, Ignazio in Gerusalemme. Ma ambedue volle Dio, che fossero preservati per dare la vita a molti. Popolò pertanto l’uno le selve di santissimi solitari, l’altro riempie le città di zelanti predicatori, eletti ambedue da Dio per ristorare nella Chiesa le perdite ch’ella cominciava a patire, ne’ tempi di Antonio per l’eresia di Ario, nei tempi d’Ignazio per l’eresia di Lutero; opporsi al furore dei quali, lasciò l’uno per qualche tempo i deserti della Tebaide, l’altro per sempre la solitudine di Manresa. E siccome Antonio ancor vivo vide i suoi seguaci distesi; non solo nell’Oriente, ma ancora nell’Occidente; così vide Ignazio ancor vivo distesi suoi, non solo nell’Occidente, ma ancora nell’Oriente. Somigliante verso ambedue, fu la stima, e la venerazione che portarono loro i Principi, perocché e ad Antonio ricorreva per consiglio l’Imperator Costantino, e ad Ignazio l’Imperatore Ferdinando, il quale in confermazione di ciò aveva dato anche ordine al suo ambasciatore residente in Roma, che niun negozio trattasse mai col Pontefice senza averlo conferito prima col Santo. E finalmente è stata somigliante ancor la difesa, che ha Dio pigliata dell’onore di ambedue questi celebri personaggi, perché col fuoco ei represse i dispregiatori d’Antonio, col fuoco i detrattori d’Ignazio, facendo miracolosamente arder vivo uno, che aveva osato di dileggiarlo. Ora ditemi, la santità di ambedue questi grand’uomini donde ebbe il cominciamento, Initium vitæ bonæ, non pare che dovesse essere qualche gran seme quello, il qual produsse due piante sì generose, che molto più di quell’albero già veduto dall’addormentato monarca di Babilonia, hanno dilatata la pompa dei loo rami da un mare all’altro,, e dall’uno all’altro emisfero? (Dan. IV, 7 e 8). Eppure udite che fu. Nell’uno Initium vitæ bonæ fu l’ascoltare attentamente una Messa; nell’altro Initium vitæ bonæ, fu pure attentamente leggere un libro. Entra Antonio ancor giovinetto in una chiesa per udir Messa, e s’incontra in quel Vangelo, nel qual si dice: Se tu vuoi esser perfetto a va’, vendi ciò che possiedi, e poi seguimi. Lo reputa detto a sé, ed indi si risolve a far vita simile a Cristo. Domanda Ignazio convalescente alcun libro per passatempo, e gli è recato il Leggendario dei Santi in cambio dei volumi di cavalleria, ch’avrebbe voluti. Comincia a leggerlo, e quinci ſi determina di far vita simile alla loro. Ora, se non avessero l’uno udita quella Messa con attenzione, e l’altro letto quel libro; che vogliamo credere, che sarebbe stato di essi? Sarebbero ambedue divenuti quei sì gran Santi, che ora noi veneriamo? Io non lo so, perché tutto ciò si appartiene a’ giudizi occulti di Dio. che sono le acque di quel profondo torrente, in cui neppure un Ezechiele si attentò d’inoltrarsi troppo, per non vi restare annegato: Aqua profundi torrentis, qui non potest transvadari (Ezech. XLVII, 5). Ma potrebbe esser ancora molto probabile. che non fossero divenuti; Perché assai spesso Dio suole usare con gli uomini, come fece con Naman Siro lebbroso, non so dir più se di corpo, o d’anima, ogni cui bene, come sapete, egli affisse, a che operazione? ad una sommamente tenue, ad una sommamente triviale: al bagnarsi sette volte in un piccolo fiumicello a lui forestiero: Lavare septies in Jordane, et mundaberis (IV Reg. V, 10). Ma chi mai l’avrebbe creduto? Come? (diceva Naman) Perché non piuttosto venirmi incontro il profeta, e mettermi le sue mani sopra la testa? No: Dio vuol, che ti lavi. Ma s’ho a lavarmi, perché non anzi nell’acque del mio Damasco, che son sì elette? No: nel Giordano! Ma non è meglio nell’Abana? No: nel Giordano! Ma non è meglio nel Farfar? No: nel Giordano! Vuoi per forse tu mettere legge a Dio? Quis ei dicere potest: cur ita facis? (Job. IX, 12). Fa pure ciò che a te piace, che sei padrone del tuo libero arbitrio: nel resto è certo che qualunque tuo bene, non solo corporale, ma ancor spirituale, dovrà dipendere dal mortificare con quest’atto, il quale a te sembra men proporzionato, men proprio, la tua altezza. Lavare septies in Jordane, et mundaberis. – Ora in una forma medesima Iddio suole assai spesso determinare la santità, anzi la salvezza degli uomini, ad una tale opera buona molto ordinaria, la quale s’essi eseguiscono, egli poi comunica loro una grazia tanto soprabbondante, e una protezione tanto speciale, che infallibilmente giungono al cielo, come appunto fu di Naman; ma se non l’eseguiscono, gli priva di tali aiuti più liberali, i quali, come i Teologi sanno, non sono dovuti, né per legge di Provvidenza, né per legge di redenzione; e prove dandogli degli aiuti solamente consueti, lascia, che seguano i lor fallaci consigli, e così si perdano; come sarebbe parimente avvenuto a Naman medesimo, se contumace non s’induceva ad attuffarsi in quell’acque, da lui riputate sì vili.

V. E questo è quello che c’inculcano i Santi, qualora ci dicono, che da un momento dipende l’eternità: Momentum unde pendet eternitas. Alcuni pensano che questo momento sia solamente quel della morte, e però n’usano male tanti altri, quasi che basti impiegar bene quel solo. Eh non è così. Questo momento ad alcuni è nella fanciullezza; ad altri è nella gioventù, ad altri è nella virilità. ad altri è nella vecchiaia. Ed è quel momento al quale Iddio, terribilissimo nei consigli ch’Egli ha sopra i figliuoli degli uomini: Terribilis in consiliis super filios hominum, ci attende per così dire, come ad un varco, affin di provare la nostra cordialità, e la nostra corrispondenza, ch’è quello appunto che Mosè scoperse al suo popolo, quando disse: tenta vos Dominus, ut palam fiat, utrum diligatis eum an non, in tota anima vestra (Deuter. XIII, 3): non perché passato quel momento, non ci sia sempre egualmente possibile la salute o la dannazione (questo non si può dire) ma perché da quello dipenderà, che incontriamo nell’avvenire maggiori o minori difficoltà per ben operare, che abbiamo maggiori o minori forze, ed in una parola, che: Gratiam inveniamus, o non inveniamus, per usare la formula dell’Apostolo, in auxilio opportuno (ad Hebr. IV, 16). Vediamo di grazia questo in un singolarissimo esempio delle divine Scritture, il quale a meraviglia conferma l’intento nostro: e siccome reca seco grandissima autorità, così ancora merita d’essere da tutti ascoltato con gran tremore. Avendo le Tribù Ebree richiesto a Dio qualche Re , che le governasse invece de’ Giudici, condiscese Dio finalmente, quantunque di mala voglia, alle loro istanze, e destinò loro Saule. Era questi vilissimo di lignaggio. ma sceltissimo di virtù. Perciocchè il sacro testo afferma di lui, che nessuno di tutto quel popolo lo vantaggiava per merito di bontà: Non erat vir melior illo. E pure per tacer gli altri, fiorivano seco a quel medesimo tempo un Samuele, ed un Davide, personaggi sì segnalati. Ebbe la cura di eleggerlo il medesimo Samuele. L’unse, lo pubblicò. Indi perchè nel principio del suo governo doveva il novello Re offrire a Dio sacrificio, Samuele il chiama, e gli dice: va’ in Galgala, dove arrivato, mi aspetterai sette giorni, nel termine dei quali io verrò per sacrificare: Septem diebus expectabis, donec veniam ad te. Va Saule, lo aspetta: ma già scorre il settimo giorno, ed il buon Samuele ancor non appare. Or che deve fare Saule? Si vede accampato d’incontro un poderosissimo esercito di nemici che lo sfidano alla battaglia: ha le milizie in ordine per combattere: ha le vittime pronte per immolare; si risolve però, giacché è vicina la sera del dì prefisso, di offrire ei medesimo il sacrificio, come venivagli dalla legge permesso in assenza di sacerdote. Appena egli ha immolato le vittime, ed ecco vien Samuele. Saule l’incontra, e Samuele in vederlo: Ahi sfortunato (gli dice) di’, che hai tu fatto? Quid fecistis? Risponde Saule: io ti ho aspettato conforme all’appuntamento più, che ho potuto, ma frattanto i soldati nostri chiedevano la battaglia, i nemici la minacciavano: stimai scelleratezza l’uscir in campo senza aver prima placato il volto divino con sacrifici pacifici. Ho precorsa nell’offrirli la tua venuta. Avvisandomi che tu per qualche nuovo accidente non potessi giungere in ora. Sì eh (ripigliò allor Samuele) or sappi, che tu hai usato da stolto: Stulte egisti! Però ti denunzio, che siccome, se tu mi avessi aspettato pazientemente, Iddio avrebbe perpetuato il tuo scettro sopra il suo popolo, così ora non ti sporgerà successore dal tuo lignaggio … Si non fecisses, (ponderate bene quest’orrenda condizionale) jam nunc præparasset Dominus regnum tuum super Israel in sempiternum; sed nequam regnum tuum ultra consurget (I Reg, XIII, 13 e 14). – Ma poco fu per questa azione a Saule perdere il regno. Fu peggio perdere le virtù, fu peggio perder la grazia, fu peggio perder l’anima, ſu peggio perder il paradiso. Udite in qual modo. Non si dannò già egli precisamente per quest’azione: Signori no. Perocché molti autori insigni hanno infino voluto credere, ch’ei non peccasse in ciò gravemente, o perché egli stimasse d’esser tenuto ad aspettare solamente il principio del settimo giorno, o perché ei reputasse d’esser costretto a secondare finalmente il volere degli impazienti soldati, come par ch’egli volesse anzi accennare dicendo per sua discolpa: Necessitate compulsus obtuli holocaustum (Ibid. XIII, 12). Come si dannò nondimeno per quest’azione? Si dannò per questa, come per azione, che lo dispose alla perdizione. non come per azione, che ve lo determinò. Mi dichiaro. Per quest’azione di Saule Dio volle togliere il regno da tutta la sua prole e da tutta la sua prosapia, ch’era privarlo d’un benefizio temporale gratuito. Gli prepara però successore d’altro lignaggio, qual fu Davide. E perché Dio, secondo il nobile detto della Sapienza, soavemente dispone intorno di noi ciò che efficacemente risolve: cum magna reverentia disponit nos (Sap. XII, 18); fa cadere una congiuntura opportuna di trasferire Davide allor pastorello dalla greggia alla Corte. Saule stesso è il primo ad accoglierlo per lo bisogno ch’ei n’ha contro il ſier gigante; ma dalle vittorie, che vede lui riportare de’ Filistei, dagli applausi ch’ode a lui farsi dalle milizie, si accorge questo essere il successore a sé minacciato. Però d’innanzi il comincia a guardar con quell’occhio livido, con cui è proprio dei governanti mirare i loro successori. Si accende d’odio, si gonfia di veleno, cerca in mille modi d’ucciderlo, or con lanciargli l’asta sul viso, or con mandargli le birrerie sino in camera, or con tendergli agguati per le foreste, quindi comincia a prezzare assai gl’interessi del suo Reame, poco i comandamenti del suo Signore. E perché sa, che alcuni sacerdoti di Nobe hanno ricettato il suo emulo, ordina, che siano tutti scannati alla sua presenza. Onde si vede cader ai piedi, per mano di un vile servo Idumeo, ottantacinque Sacerdoti vestiti in abito sacro: né contento di questo ordina parimente che Nobe, loro città, sia mandata a ferro ed a fuoco, facendo in essa una confusissima strage di uomini, di donne, di giovani, di bambini, di vecchi, senza nè meno perdonare alle bestie, né meno ai sassi. E quinci passando d’una in altra barbarie, d’una in altra scelleratezza; vede finalmente morirsi insieme in battaglia ſu gli aspri monti di Gelboe tutti e tre quei figliuoli, sui quali ambiva di stabilire lo scettro: chiede disperato allora la morte: non trova chi gliela dia: egli però rivoltando il suo ferro contro il suo petto, l’apre, lo squarcia, s’uccide da sé medesimo: e così finalmente: Dum Samueli non obtemperavit, Paullatim, atque paullatim habens, non stetit, quousque ad ipsùm perditionìs barathrum seipsum, immisit, come poi scrisse San Giovanni Crisostomo ponderando sì fiero caso. (Hom. 87 in Matth.). Ora considero io, chi avesse detto a Saule, quand’egli stava in procinto di trasgredire il comandamento di Samuele: Sire, guardate bene ciò, che voi fate, perché da codesta azione dipende come in radice la vostra salute e temporale, ed eterna; crediamo noi, che a Saule sarebbe ciò parso possibile? Come? da un’azione sì minima? non può essere, non può essere; questi sono spaventacchi di scrupolosi, son timori di vecchierelle. E pur così fu: non perché egli (notate bene) … non perché egli poi non avesse potuto assolutamente ritrarsi da tutte le susseguenti scelleratezze; ma perché il farlo gli fu tanto difficile, ch’ei non lo fece: laddove sarebbe stato a lui facilissimo (come ad uomo di tanta bontà, che: Non erat vir melior illo) se senza contrasto con emulo, e senza sospetto di successore, goduto avesse tranquillamente il suo Regno, com’è di fede, ch’ei se l’avrebbe goduto. – Ora deduciamo da questo illustre racconto quel ch’è di nostro particolare interesse, ed esclamiamo tremanti con San Gregorio: En quam magna… perdidit qui, ut putabat, nulla contemsit. Per così poco perduto tanto? E che cosa è questa? Ah, che quel poco era, per così dire, quel passo augusto, al quale Iddio: Magnus consilio, incomprehensibilis cogitatu, come lo chiamò Geremia, voleva mettersi a provar l’obbedienza, l’ossequio, la fedeltà di Saule per veder s’egli riusciva ancora del numero di coloro di cui sta scritto, che: Deus tentavit eos, et invenit illos dignos se (Sap. III, 5). Saule a questo passo non tennesi, ma cadde: e Dio privandolo di quegli aiuti maggiori, che secundum propositum voluntatis suæ, avevagli apparecchiati, lasciò che a poco a poco andasse in rovina. Or non credete, Signori miei, che con ciascuno di noi Dio faccia molte volte ancora così? E quanto spesso accadrà, ch’Egli dica dentro il cuor suo: io voglio ispirare a quell’ammogliato. che vada ad ascoltar quella predica. S’egli v’andrà, lo verrò di modo a commuovere in auxilio opportuno, che finalmente abbandonerà quella pratica. Abbandonata quella pratica, non gli sarà più difficile accostarsi frequentemente alla confessione e alla Comunione. Con questa frequenza egli a poco a poco si svezzerà di molti abiti licenziosi, contratti nel giuocare, nel parlare, nel trafficare: quindi applicatosi a maneggiar la sua casa cristianamente, vivrà ritirato, si morrà salvo. Ma se non udirà quella predica seguirà a conversare con la sua pratica, entrerà in altri amori, s’allaccerà in altri impegni, s’abbatterà in altri rivali che gli toglieranno miseramente la vita. Ed a quel giovane io voglio parimente ispirare, ch’ei vada a confessarsi per la tale solennità. S’ei v’andrà, lo verrò di modo a compungere in auxilio opportuno, che finalmente abbandonerà quei compagni. Ritirato da quei compagni, non gli sarà più molesto di attendere applica talmente allo studio ed alla pietà . Con questa applicazione egli a poco a poco accenderà di molti desideri ferventi di mortificarsi, di orare, di ritirarsi. – Quindi risoluto di assicurare la sua anima interamente, entrerà in Religione, volerà al Cielo. Ma s’ei non farà la tal confessione, seguirà a praticare coi suoi compagni, piglierà peggior piega, passerà in peggiori tresche, cadrà in peggiori disordini, che il condurranno drittamente all’inferno. Signori miei cari, queste sono verità certissime, irreparabili, indubitate. le quali noi quì non possiamo capire, perché troppo folto è quel velo ch’abbiamo agli occhi: Contenebrati sunt oculi nostri; ma le capiremo il dì del Giudizio, quando cadutoci, per così dire, un tal velo, noi vedremo subito per quali strade, o Dio si sarà compiaciuto salvarci, o noi ci saremo voluti dannare vias vitæ et via mortis (Ger. XXI, 8). E allora ogni Giusto, impaurito, qual pellegrino ramingo, ch’abbia camminato di notte, senza avvedersene, su l’orlo sempre d’un orrido precipizio: Oh Dio buono, dirà, da che è dipesa la mia salute! Quanto poco mancò, che in vece di mettermi per la strada del Cielo, non inoltrassi per la via dell’Inferno! Nisi quia Dominus adjuvit me, Paulo minus habitasset in inferno anima mea (Ps. XCIII, 17). Quell’operetta buona ſu che salvommi; il tal giorno, nella tale occasione: e s’io lasciava di farla, oh che via diversa prendea da quella ch’io presi! All’incontro quanto fremeranno i dannati, quanto urleranno, in veder donde avvenne, ch’essi smarrissero la via dritta al cielo! Viam civitatis habitaculi non invenererunt (Ps. CVI, 4). Ah s’io udiva la tal predica, ah s’io lasciava il tal compagno, ah s’io non andava al tal giuoco, ah s’io mi rimaneva la tal sera d’intervenire a quella veglia, a quel ‘bagordo, a quel ballo, a quella commedia! Ora non c’è più rimedio in eterno, misero me! non c’è più rimedio in eterno: Quam magna perdidi, quam magnaperdidi, qui, ut putabam, nulla contempsi!

SECONDA PARTE.

VI. Veggo che non vi potete più contenere da una gagliarda opposizione, la quale vorreste addurmi. Parlate dunque animosamente, sfogatevi. Oh Padre (voi mi direte) se fosse vera la dottrina da voi predicata finora, poveri noi! ne seguirebbe che noi dovessimo vivere in un assiduo sgomento ed in una angosciosa sollecitudine. Perocché (sentiteci bene) se noi sapessimo per appunto qual fosse questa piccola azione da cui dovesse come in radice dipendere o la nostra miseria, o la nostra felicità, chi può dubitare che noi saremmo molto ben circospetti nell’eseguirla? Ma non sapendo di qual dobbiamo temere, converrà temere di tutte: e per tanto dovremo sempre far grandissimo conto d’ogni minuzia: non dovremo sprezzar mai nessun difetto, come leggero, mai nessuna ispirazione come non importante; anzi in ogni luogo, in ogni occasione, in ogni ora, in ogni momento, dovremo studiarci di assicurare con qualunque minima sorte d’opere buone il nostro incamminamento alla Gloria. Signori miei, troppo mi volete voi stringere i panni addosso con coteste vostre obbiezioni. Ma che volete voi, ch’io risponda? Io non posso finalmente trovar gran difficoltà in concedere certe proposizioni, le quali ha concesse prima dirne la Sapienza eterna. Però vi do per convinto che quanto avete opposto, tutto è verissimo: Concedo, sì torno a dire, concedo totum. E che altro volle intender San Pietro, quand’ egli, dopo lungo discorso, cavò quella formidabile conclusione: quapropter fratres, magis satagite, ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis; hæc enim facientes, non peccabitis aliquando (2 Petr. I, 10). Quasi voless’egli dire in brevi parole: Dilettissimi miei, voi vi credete che il negozio della vostra eterna salute sia negozio da trattarsi per passatempo, quando non riman altro che fare in tutta la giornata, o di che pensare. Eh non è così? Egli è un negozio gravissimo, un negozio geloso, un negozio tremendo, il quale dovrebbe tener sempre occupato il vostro pensiero: Satagite … satagite …; diligenza ci vuole, industria, fatica, finché arriviate a non peccare giammai né molto, né poco, se tanto vi sia possibile: Magis satagite, magis; quanto più fate, tanto stimatevi obbligati a far più. Ma la maggior parte non fa così. Concedo. E però larga è la strada che conduce alla perdizione: Spaziosa via est quæ ducit ad perditionem. (Matth. VII, 13). Ma sono pochissimi quei che faccian così. Concedo. E però angusta è la porta che introduce alla gloria! Angusta porta est quæ ducit ad vitam. (Ib. VII, 14). Che poss’io dirvi? Poss’io predicarvi diversamente da quello, che ha pronunciato l’infallibile Verità? Numquid aliud judex nunciat, aliud præco clamat? (S. Greg. Rom. 17 in Evang.) Poss’io cancellar gli Evangeli, per darvi soddisfazione? poss’io cambiarli? che posso io fare?

VII. E a dire il vero, se non fosse così troppo forsennati sarebbero sempre stati tutti coloro i quali sentitosi dire dall’Ecclesiaste che: Qui timet Deum nihil negligìt, (Eccl. VII, 19) facevano tanto caso di non commettere né pur piccole imperfezioni. Appena si sollevava un leggero dileticamento di senso negli animi d’un Bernardo, d’un Francesco , d’un Benedetto, che incontanente tutti ignudi correvano, chi a tuffarsi nei ghiacci, chi a seppellirsi tra le nevi, chi a ravvolgersi tra le spine. Un solo fantasma impuro, che passò in sogno come di volo per la mente d’un Francesco Saverio, l’atterrì, l’agitò; lo riscosse in modo che gli fece scoppiar dalle fauci una corrente impetuosa di sangue, poco men che bastevole a soffocarlo per l’alto orrore. Un passo poco misurato, un riso poco composto, una parola poco considerata recava tal crepacuore alle Agnesi Auguste, ed alle Marie d’Ognes, che non potevano pe’ singhiozzi parlare, qualora se ne accusavano; come della prima testifica il Cardinal Pietro Damiano, e della seconda il Cardinal Jacopo da Vitriaco, ambedue loro santissimi confessori. Che più? Leggeva un Eusebio Monaco il libro degli Evangeli, quando dal libro gli trascorsero gli occhi con qualche straordinaria curiosità, a rimirare dall’aperta finestra della sua cella alcuni lavoratori che faticavano nella vicina campagna. Non ebbero quegli occhi più pace, finché la morte medesima per pietà non venne a serrarli. Perocché da Eusebio, accortosi del suo fallo, furono tosto puniti con questa legge, che non mirassero mai più né selve, né prati, né montagne, né Cielo. Si legò pertanto al collo una catena di ferro d’immenso peso, che sempre lo costringeva a mirare al basso, e così curvo e cadente, finché egli visse, che furono ancor vent’anni, non schiodò le palpebre più dal terreno. Signori miei, dove siete? Pensate voi che per sì piccoli mancamenti questi sfortunati credessero di aver subito meritato l’Inferno, onde se ne volessero ricattare con supplizi sì atroci, con asprezze sì intollerabili? Eh che non erano i miseri sì ignoranti, che non sapessero ancor essi assai bene, quanto si richieda a dannarsi. Sapevano, che a dannarsi richiedesi colpa grave, e colpa ancora commessa ad occhi veggenti, con animo risoluto, con voglia piena. Ma nondimeno temevano d’ogni minuzia, perché intendevano quanto sia facile in materia di peccato il passare dal poco al molto! Qui spernit modica, paullatim decídet. E così appunto lo confessò di propria bocca. l’istesso Eusebio a coloro. che quasi si scandalizzavano di veder punita un’imperfezioncella sì piccola con una penitenza sì rigorosa. Non vi meravigliate, diss’egli loro, di questo, perch’io lo fo: Ne malignus dæmon de magnis bellum gerat, conans aufèrre temperamtiam, atque justitiam. Temeva egli, che l’avere guardato curiosamente un oggetto indifferente non lo dovesse a poco a poco condurre a guardarne un peccaminoso: e non si fidava, ammesso questo una volta, di non dover passar dal guardo al compiacimento, dal compiacimento al desiderio, dal desiderio al consenso, dal consenso all’operazione, e quindi all’ultimo sterminio totale di quello spirituale edificio, ch’egli aveva innalzato con tanta pena; conforme a quel bellissimo detto dell’Ecclesiastico: Si non in timore Domini tenuerí, te instanter, cito subvertetur domus tua (Eccl. XXVII, 4). Direte, che a voi dà l’animo di astenervi dal molto, dopo avere commesso il poco; e che però tal timore non è per voi. Ma come, se non dava l’animo ad uomini sì perfetti. È possibile adunque, che per loro soli fosse la natura tanto ribelle, la grazia tanto scarsa, il cielo tanto spietato, la virtù tanto faticosa, la salute tanto difficile? Essi vestiti di cilizio, sparsi di cenere, ricoperti di lividure, temevano d’ogni principio di colpa, come d’un principio di dannazione; e non ne temerete voi, che pure vivete ammantati di bisso, aspersi di odori, e sagginati nel lusso? Crudelissimo Dio (vorrei allor io gridare, se questo fosse) Dio crudelissimo! E che amore di padre è cotesto vostro, ch’egualità di Signore? Porgete aiuti tanto soprabbondanti a quei che ingolfati nei piaceri del secolo, concedono ogni sfogo ai loro capricci; e non li porgete a quei, che per cagione vostra son iti a confinarsi nelle boscaglie, dove non hanno altra compagnia, che le fiere; altri testimoni che le ombre; al tre stanze, che le caverne; altro refrigerio che i pianti; altro trastullo che la mortificazione. Debbono stare ognora questi sì timorosi di sé medesimi; e quelli ne potranno vivere sicuri? Meglio sia dunque, se così è, gettar via cilizi, incenerire flagelli, sbandir digiuni, dimenticar penitenze, mentre maggior pericolo corrono di perire quei ch’ogni leggiera colpa castigano con tanta severità, di quei che l’ammettono con tanta scioperatezza. Ma bene stolto io sarei se mai mi lasciassi in questo modo trascorrere a lamentarmi di Dio, mentre pur troppo verrà giorno, verrà, nel quale si vedrà chiaro, quanto ad ognuno o religioso, o mondano, sarà costato comunemente il salvarsi. Ahimè, che il Regno dei Cieli non è da tutti. Chi vuol entrarvi, si ha da rompere il passo, anche a viva forza, con la negazione di quegli appetiti scorretti, che glielo ritardano: Contendite intrare per angustam portam, sì, dice Cristo, contendite, contendite. E che vuol dire questo contendite? Vuol dire: affannatevi, vuol dire: affaticatevi. Queste è poco. Vuol dir ciò che San Luca espresse più orribilmente col suo Greco vocabolo: Agonizate; vuol sprezzare roba, sprezzare riparazione, sprezzare all’ultimo sin la medesima vita.

VIII. Io so, che queste cose non si ascoltano da ciascuno sì volentieri, e che più volentieri si corre comunemente ad udire quei predicatori i quali diano sicurezza, che non quegli altri i quali arrechino timore. Ma non vi diss’io da principio, ch’io non poteva darvi in questa. materia, se non timore? Non vi dovete però meco sdegnare, ma compatirmi .Forse che non ho ancor io comune la causa con tutti voi? Non solleticherei anch’io, quanto ogni altro, volentieri le vostre orecchie, non lusingherei il vostro genio, non mi cattiverei la vostra benevolenza, s’io non vedessi che ciò facendo vi tratterei da servitore infedele; mentre per darvi un breve contento, forse vi arrecherei un’eterna rovina? Però vi conchiuderò con Santo Agostino: Fratres, nimis timendum esse volo . Eh convien temere pur troppo, convien temere; perché di certo è molto più profittevole un timore santo, che una sicurtà baldanzosa: Melius est enim non vobis dare securítatem malam. Io quanto a me: Non dabo, quod non accipiam. Come posso a voi dare ciò ch’io non ho? S’io fossi sicuro, farei sicuro anche voi: Securo vos facerem, si securus ego essem. Ma io pavento, ma io palpito, ma io tutto mi raccapriccio, pensando all’anima mia. E come dunque poss’io farvi sicuri? Benché, sapete voi, qual è il modo da ritrovar nel negozio della salute qualche considerabile sicurezza? Trattarlo sempre con un immenso timore, sempre ricorrere a Dio, sempre raccomandarsi a Dio: Chi fa così, vada lieto: Beatus homo, qui semper est pavidus (Prov. XXVIII, 14).

 

CONOSCERE SAN PAOLO (55)

CAPO II

I Novissimi.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

IV. LA CONSUMAZIONE DELLE COSE.

1. IL REGNO DI DIO E DEL CRISTO. — IL TERMINE FINALE.

1. Il regno di Dio, questo punto così saliente della predicazione sinottica, prende nel resto del Nuovo Testamento, e particolarmente in san Paolo, un altro carattere: è una differenza di orientamento che facilmente si spiega. Al principio della nostra èra, si sapeva di essere alla vigilia del giorno in cui si dovevano compiere le profezie che annunziavano la venuta del re discendente di Davide, il quale avrebbe fatto rifiorire con un maggiore splendore la teocrazia d’Israele ed avrebbe fondato su la terra il regno della pace, della giustizia e della santità. Bisognava dunque che Gesù, se voleva farsi riconoscere per Messia, rivendicasse a sé la dignità regale, spiegando la natura spirituale del regno che veniva a stabilire. So benissimo che, quasi senza eccezione, gli scritti del rabbinismo, tutti posteriori al Vangelo, non mettono « il regno di Dio » in connessione diretta con le speranze messianiche; con questa espressione essi indicano il governo divino nel mondo e non tanto l’impresa di Dio su le anime, quanto la libera accettazione del « giogo della Legge » mediante la professione di fede ebraica (Lagrange: Le messianisme chez les Juifs, Paris, 1909). Ma di queste due cose l’una è la vera: o la disgiunzione del regno di Dio e del regno del Messia era generale nel fariseismo contemporaneo, e importava sommamente che Gesù Cristo correggesse quella falsa idea tanto pregiudizievole alla riuscita della sua missione; oppure essa fu suggerita più tardi ai rabbini dal loro spirito di ostilità contro il Cristianesimo, e allora si capisce meglio perché la dottrina evangelica del regno di Dio non sollevò, nei primi tempi, nessuna obbiezione di principio. In qualunque ipotesi, l’annunzio del regno doveva essere un articolo fondamentale della predicazione di Gesù, durante quella fase del ministero pubblico che è caratterizzata dall’insegnamento delle parabole e che i Sinottici espongono con cura speciale. – Ma questa dottrina passa in secondo ordine quando l’idea cristiana del regno di Dio si trova realizzata nella Chiesa. Se ancora si dice per abitudine « predicare il regno (Act. I, 3; VIII, 12, etc.) », come si direbbe « predicare il Vangelo », si bada ad evitare i malintesi e a non urtare le suscettibilità dell’autorità romana, trasportando il regno fuori della sfera in cui si agitano gl’interessi di questo mondo. Per questo san Paolo, pure facendo un uso frequente di tale espressione, le dà quasi sempre un senso escatologico. « Gli ingiusti, i ladri, non erediteranno il regno di Dio »; gl’impuri, gl’idolatri « non hanno parte nel regno del Cristo e di Dio »; la persecuzione ci « rende degni del regno di Dio », che « la carne e il sangue non possono ereditare ». Sotto questo aspetto, il regno di Dio comincia al ritorno trionfale del Cristo e s’identifica con la vita eterna. Ma non sempre è così: il regno di Dio esiste già per noi; noi lo possediamo anticipatamente, come possediamo la vita, la redenzione, la salvezza e la gloria, in uno stato d’imperfezione che non esclude la realtà. Si può prendere nel senso escatologico la vocazione con cui Dio ci chiama « al suo regno ed alla sua gloria », ma non l’atto con cui ci ha « trasferiti nel regno del suo Figlio prediletto ». Qualche volta il senso è più oscuro: « Il regno di Dio, dice l’Apostolo, non è il mangiare e il bere, ma è giustizia e pace e gioia nello Spirito Santo (Rom. XIV, 17) ». Qui evidentemente non è la società dei fedeli, né molto meno la società dei santi del cielo, quello che Paolo vuole indicare; ma è piuttosto il regno di Dio come si presenta negli scritti dei rabbini: appena appena si modificherebbe il senso, se si sostituisse al regno il Vangelo o il Cristianesimo. Così pure « il regno di Dio non è in parole ma in (opere di) forza (I Cor. IV, 20) »; esso non consiste nel parlare molto, come facevano gli agitatori di Corinto, ma nell’agire con vigore, come Paolo si propone di fare al suo ritorno. Insomma, il regno di Dio indica ordinariamente la vita eterna dove i giusti regneranno con Gesù Cristo; più raramente, la Chiesa militante dove essi lottano per lui; qualche volta, l’essenza ed i princìpi direttivi del Vangelo. Per san Paolo, come per gli Evangelisti, il regno di Dio è anche il regno del Cristo. La fondazione del regno è lo scopo della missione redentrice; e raggiunto tale scopo, il mandato del Salvatore cessa: « Poi la fine, quando rimetterà il regno al Dio e Padre, dopo di aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e (ogni) virtù. Poiché bisogna che Egli regni finché abbia messo sotto i suoi piedi tutti i suoi nemici. L’ultimo dei nemici resi impotenti sarà la morte… Ma quando tutto gli sarà stato assoggettato, allora il Figlio stesso si assoggetterà a suo Padre, affinché Dio sia tutto in tutti (I Cor. XV, 24-26) ». La fine di cui qui si parla non è lo scopo della risurrezione, senso che non è ammesso né dalla parola greca né dal contesto; non è neppure la fine della risurrezione, come pretendono molti esegeti; è invece il compimento dell’opera del Cristo e la consumazione di tutte le cose. Si può tenere questo punto come acquisito, anche senza fare appello ai passi paralleli, poiché san Paolo indica chiaramente e in due maniere l’istante preciso che segna questa fine: da una parte la consegna del regno al Padre, dall’altra il trionfo completo sopra tutti i suoi nemici. Finché durava la lotta, finché gli avversari erano in piedi, la missione del Figlio di Dio era incompleta; ora che tutti i suoi nemici sono caduti ai suoi piedi, non eccettuata neppure la morte che era restata l’ultima sul campo di battaglia, la sua dittatura finisce, ed Egli restituisce al Padre il mandato che da Lui aveva ricevuto, con il frutto delle sue vittorie, come un vassallo fa al suo sovrano l’omaggio dei regni conquistati. – Tale è il pensiero di Paolo, espresso abbastanza chiaramente; ma il timore che san Paolo sembri voler limitare il regno del Cristo, suggerì agli esegeti le soluzioni più sottili. Rimettere il regno al Padre sarebbe far contemplare Dio dagli eletti che formano questo regno; oppure condurli a sottomettersi a Dio; oppure organizzare il regno, estirparne gli abusi, bandirne i ribelli: tutte sottigliezze che non hanno consistenza. Il Cristo, come Dio, come creatore, regna eternamente col Padre. Come uomo, conserva il primato di onore e la dominazione universale conferitagli dall’unione ipostatica. Se la Chiesa è un corpo, Egli ne è sempre il capo; se la Chiesa è una società religiosa, Egli ne è sempre il pontefice; se la Chiesa è un regno, Egli ne è sempre il re. Sotto questo aspetto, il suo regno non può finire: Egli regnerà sempre, e sempre « noi regneremo con lui ». Ma Egli è inoltre capo della Chiesa militante, incaricato di vendicare l’onore di Dio, di condurre alla vittoria quelli che marciano sotto la sua bandiera, di punire i ribelli o di sottometterli. Questo vice-reame temporaneo cessa con le funzioni che lo costituiscono; il mandato di dittatore o di generalissimo spira nel momento in cui non vi sono più combattimenti né forze nemiche. Dio, nell’affidare a suo Figlio questo potere straordinario, aveva pensato ad assegnarne il termine: « Bisogna che egli regni finché abbia messo sotto i suoi piedi tutti i suoi nemici ». Come capo della Chiesa militante, il Cristo godeva di una specie di autonomia ed aveva effettivamente un’autorità propria. Terminata la sua missione, altro non gli rimane che prendere il suo posto, posto alto assai sopra i suoi soggetti, ma basso molto in relazione con Dio. L’abbandono del suo mandato è spontaneo, come era pure l’atto con cui lo aveva preso: l’uno e l’altro sono regolati secondo l’ordine del volere divino. San Paolo parla così evidentemente del Cristo come uomo, che si stenta a capire perché mai tanti Padri — e dei più illustri — abbiano pensato o al Cristo sussistente nella natura divina, o al corpo mistico del Cristo. Il corpo mistico del Cristo non è mai chiamato « il Figlio di Dio » né molto meno « lo stesso « Figlio »; ed è fare violenza al testo il passare bruscamente dall’opera della redenzione, che è l’argomento di tutto questo passo, alle relazioni della vita intima del Verbo.

2. Il sentimentalismo teologico dei nostri giorni, rinnovando i sogni di Origene, prolunga l’azione redentrice del Cristo molto di là dal suo ritorno trionfale. La parusia porterebbe soltanto la risurrezione e la glorificazione dei giusti; per gli altri non ci sarebbe ancora nulla di definitivo. La fine verrà più tardi, quando il Cristo avrà compiuta la sua vittoria sottomettendo con la persuasione tutti i suoi avversari; quando Dio, effettuando i suoi disegni di amore, avrà fatto misericordia, a tutti gli uomini. Ma san Paolo non si può fare responsabile di un sistema che contraddice molte delle sue più precise affermazioni. Secondo lui, la volontà salvifica di Dio, per quanto sia universale, rispetta la libertà umana; la redenzione offerta a tutti non è imposta a nessuno, ed il Cristo, mediatore unico, associa alla sua vittoria soltanto quelli che accettano la sua mediazione e che gli sono uniti con la carità. Perciò i partigiani della restaurazione universale si trovano costretti ad abbandonare il terreno della teologia e dell’esegesi per stabilirsi sul terreno, secondo loro, più stabile, della filosofia razionale, dove noi non possiamo seguirli. – Quando l’uomo sarà giunto al termine dei suoi destini, che cosa diventerà la sua antica dimora? Un solo testo dell’Apostolo permette a questo riguardo, qualche induzione abbastanza incerta (7). Egli ci rappresenta la creazione che attende, con ansiosa impazienza, la glorificazione degli eletti, alla quale Dio le ha promesso di farla partecipe. Senza sforzare troppo questa poetica ipotiposi, è evidente che la creazione materiale — poiché qui si tratta di questa, in opposizione agli esseri ragionevoli — fu associata in qualche maniera alla caduta dell’uomo ed avrà parte, in qualche misura, alla sua glorificazione. Difatti essa geme per la sua condizione attuale, come di uno stato violento e contrario alle sue legittime aspirazioni; essa non accettò di essere sottomessa alla vanità se non per ottemperare agli ordini del Creatore e dietro assicurazione che questo giogo odioso le verrebbe tolto al momento della perfetta liberazione dell’uomo. Tutto sta nel sapere se si tratta di una decadenza fisica o di una decadenza morale, di una riabilitazione fisica o di una riabilitazione morale. Questo testo isolato non permette di rispondere con certezza. La maledizione pronunziata da Dio contro la terra colpiva direttamente l’uomo e toccava la terra soltanto di rimbalzo: ora perdette la terra la sua fertilità naturale, oppure perdette l’uomo l’aiuto provvidenziale che lo sottraeva alla dura legge del lavoro! E la terra ricupererà un giorno quella meravigliosa fecondità che le promettono gli Oracoli Sibillini e altri apocrifi, senza parlare dei redattori del Talmud! Non ne sappiamo assolutamente nulla: « Dio solo può dire quali saranno i nuovi cieli e la nuova terra. Sarà quello che vi è di più conveniente per manifestare la bontà divina e la gloria dei beati. È dunque superfluo il perdersi in vane congetture dove la ragione è impotente e la rivelazione è muta ». Queste sagge parole di Scoto avrebbero potuto risparmiare ai teologi molti sogni, ed agli esegeti molte divagazioni. A Paolo, meno che a qualunque altro, non bisogna domandare che ci descriva i destini della creazione materiale. Tutto il suo interesse si concentra su la storia dell’umanità; e anche questa storia, di mano in mano che progredisce, si va racchiudendo in un orizzonte sempre più stretto: prima il genere umano, poi la Chiesa militante, poi gli eletti associati al trionfo del Cristo, finalmente Dio, tutto in tutti.

CONOSCERE SAN PAOLO (54)

CONOSCERE SAN PAOLO (54)

CAPO II

I Novissimi.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

III. IL GIORNO DEL SIGNORE.

1 . LA PARUSIA. — 2. IL GIUDIZIO FINALE. — 3. LA SEPARAZIONE DEI BUONI E DEI CATTIVI.

1. Parusia, letteralmente « presenza » e per estensione « venuta », è un termine tecnico usato nel Nuovo Testamento per indicare la seconda venuta di Gesù Cristo, la quale è anche chiamata « la rivelazione » oppure « l’apparizione » o « il giorno del Signore ». Quando san Paolo scriveva le sue lettere, si chiamava « parusia » la visita solenne di un sovrano o di qualche gran personaggio, particolarmente dello stesso imperatore. Polibio ricorda in questo senso la parusia del re Antioco, ed un’iscrizione del terzo secolo prima di Gesù Cristo, ci dice che la parusia di Saitapharnes a Olbia costò agli abitanti novecento pezze d’oro (Polibio, Hist. XVIII, 31). Questa circostanza straordinaria celebrata con feste, giochi, sacrifici, perpetuata da statue, da fondazioni, da medaglie commemorative e talora dall’inaugurazione di un’era nuova, era tale da colpire la fantasia della gente e lasciava un ricordo duraturo nella memoria degli uomini. Nessuna espressione conveniva dunque meglio di questa per indicare il ritorno trionfale del Cristo che viene a inaugurare il suo regno. – La parusia attinge largamente dalle descrizioni profetiche del giorno di Jehovah, del quale essa è la realizzazione tipica. Da entrambe le parti, il Giorno del Signore chiude la storia dell’umanità e segna la fine dei tempi; da entrambe le parti appare vicino, senza che si possa dire se tale sia effettivamente oppure se l’illusione dipenda dallo stile profetico che, sopprimendo la prospettiva, proietta sul medesimo piano avvenimenti lontani tra loro; da entrambe le parti arriva circondato da un apparato terribile, si annunzia con convulsioni cosmiche e lascia l’intera natura purificata e rinnovata; da entrambe le parti finalmente il Signore si presenta come Giudice, Salvatore e Vindice: Giudice universale, Salvatore dei suoi e Vindice degli oppressi. Ma, diversamente dal Giorno di Jehovah, la parusia è sempre intimamente collegata con la risurrezione dei morti; il suo carattere è più spirituale; è il Cristo, piuttosto che Dio, che pronunzia il giudizio. – In ogni profezia ed in ogni apocalisse, la parte del tipo, del simbolo e dell’allusione a profezie anteriori è sempre difficile da definire nettamente. Né  la profezia si dovrebbe spiegare come un racconto storico, né l’apocalisse come una profezia ordinaria: questo genere letterario comporta simboli tradizionali che sarebbe pericoloso prendere alla lettera, e il cui senso, condizionato da una serie di predizioni più antiche, rimane sempre misterioso e indeciso. Come tutte le composizioni della stessa specie, l’apocalisse di Paolo si fa eco di altre apocalissi; vi si trovano in copia reminiscenze di Daniele, d’Isaia, di Ezechiele, dei Salmi, con diversi tratti presi dal discorso escatologico di Gesù. Una difficoltà poi tutta speciale è questa: essa si riferisce ad un insegnamento orale del quale noi ignoriamo il tenore. L’apparato esteriore della parusia è presso a poco il medesimo dei Sinottici. Lo squillo della tromba chiama i morti ed i vivi alle grandi assise dell’umanità; il Figlio dell’uomo si avanza con la scorta degli Angeli, avendo per cocchio le nubi; in un batter d’occhio si muta la faccia del mondo, e gli spettatori sono colpiti da sorpresa, da costernazione, da spavento. Lo sconvolgimento fisico dell’universo, sul quale insiste l’escatologia dei profeti, da Paolo è accennato appena, e non troviamo in lui nessuna traccia sicura del fuoco della conflagrazione, del quale ci è data una drammatica descrizione nella prima Epistola di san Pietro. Dei tre segni precursori della parusia — oltre ai fenomeni fisici — la conversione finale degli Ebrei è speciale di Paolo, l’apostasia generale è comune a tutti, e così pure, probabilmente, l’apparizione dell’Anticristo, benché i Sinottici parlino di una molteplicità di falsi Cristi, e san Giovanni sembri dividere tra più personaggi la parte assegnata da san Paolo all’Uomo dell’iniquità, al Figlio della perdizione. Siccome san Giovanni ci fa sapere che la venuta di un Anticristo unico faceva parte dell’insegnamento degli Apostoli, si può ammettere che gli anticristi molteplici fossero considerati come i ministri o i precursori del grande avversario.

2. Avendo già parlato dei due punti che sono particolari dell’apocalisse di Paolo — l’ostacolo misterioso che si oppone alla manifestazione immediata dell’Anticristo ed il privilegio dei giusti testimoni della parusia — non aggiungeremo che poche parole sul giudizio finale, dove del resto la teologia paolina non offre nulla di veramente originale. Il giudizio è così intimamente collegato con la parusia, che è impossibile separare queste due scene di un medesimo dramma, riunite dalla Chiesa in un medesimo articolo del simbolo. Gesù Cristo  viene, e viene per giudicare i vivi ed i morti. Gli apostoli non mancavano mai di far entrare questo dogma nei loro primi discorsi ai pagani, e san Paolo con maggiore insistenza che gli altri, perché, almeno da principio, dava alla parusia un grandissimo rilievo. Il giudizio sarà universale e fondato sopra le opere: « Noi tutti dobbiamo comparire dinanzi al tribunale del Cristo, affinché ciascuno vi riceva la retribuzione di ciò che ha fatto mentre era nel corpo, sia in bene, sia in male (II Cor. V, 10) ». Qui si tratta soltanto degli adulti, i soli capaci di azioni morali; e nonostante l’autorità di sant’Agostino che dietro di sé trascinò, come al solito, tanti altri interpreti, non vi si possono includere, senza fare violenza, i bambini; ma l’universalità assoluta del giudizio è espressa con una formula che non ammette equivoco: « Verrà a giudicare i vivi ed i morti (II Tim. IV, 1) », i morti risuscitati ed i vivi testimoni della parusia. In qualunque maniera s’intendano i vivi ed i morti, non vi è nulla di mezzo tra questi due termini che comprendono necessariamente tutti gli uomini senza eccezione. Ne segue che i santi, assessori del sommo Giudice, saranno giudicati anch’essi; anzi, « noi giudicheremo gli Angeli (I Cor. VI, 3) »; e non soltanto gli angeli decaduti, ma gli Angeli rimasti fedeli: gli angeli cattivi non ricevono mai il solo nome di angeli senza il qualificativo. Insomma, il giudizio avrà la stessa estensione del merito e del demerito: Angeli o uomini, tutti quelli che sono stati sottoposti alla prova, ne siano o no riusciti vincitori, tutti dovranno comparire al tribunale di Dio. – Ai catecumeni s’insegnava che il giudizio sarà « eterno (Ebr. VI, 2) », nei suoi effetti e nelle sue conseguenze, cioè definitivo e irrevocabile. Per i giusti, san Paolo non potrebbe essere più esplicito: essi saranno « sempre col Signore (I Tess. IV, 17) »; la vita eterna che essi si sono guadagnata li mette al sicuro da una seconda morte. La sentenza pronunziata contro i cattivi non è meno immutabile; essi sono votati « alla perdizione eterna (II Tess. I, 9) ». Coloro i quali pretendono che san Paolo, dopo le Lettere ai Tessalonicesi, avrebbe mutato parere, non hanno dato la prova di tale ritrattazione immaginaria. In tutti gli scritti apostolici la morte è presentata come il termine dei timori e delle speranze: la sorte degli eletti e dei riprovati non è dunque più soggetta a incertezze ed a vicende.

3. Un passo di san Paolo ricorda la drammatica separazione dei buoni e dei cattivi, descritta da san Matteo e dall’Apocalisse di san Giovanni. È un brano ritmico e lirico, una specie di inno o di salmo, che raccoglie come in un mazzo tutti i principali tratti dell’escatologia cristiana. L’Apostolo dice ai neofiti, per consolarli delle persecuzioni che subiscono: È una prova del giusto giudizio di Dio che vuol rendervi degni del suoregno per il quale voi soffrite; poiché è giusto agli occhi di Dio il rimandare l’afflizione a coloro che vi affliggono ed il dare a voi, afflitti, il riposo con noi; quando si rivelerà dall’alto dei cieli il Signore Gesù, con gli Angeli della sua potenza, in un fuoco fiammeggiante; per punire quelli che non conoscono Dio e quelli che non obbediscono al Vangelo di Nostro Signor Gesù Cristo: essi subiranno per castigo la rovina eterna, lontano dalla faccia del Signore e dalla gloria della sua potenza; quando verrà per essere glorificato nei suoi santi e ammirato in tutti i credenti ( II Tess. I, 5-10). Paolo dimostra la necessità del giudizio con lo spettacolo del mondo attuale, dove così spesso gli innocenti sono vittime: questo momentaneo sconvolgimento dell’ordine deve cessare. Il mondo futuro sarà il contrappeso del mondo presente: ai persecutori, il dolore e la vergogna; ai perseguitati, il riposo e la gloria. Dio ci manda la prova per renderci degni della corona; nel darci la corona Egli fa un atto di giustizia; Egli fa un giudizio altrettanto giusto, quanto nel rifiutarla agli empi; da entrambe le parti vi è retribuzione (II Tess. I, 6-7). Non si potrebbe dire più chiaramente di così, che il regno di Dio si conquista, si guadagna, si merita. Certamente si traviserebbe il pensiero di Paolo se si supponesse che il merito, per quanto sia reale e personale, possa essere frutto dei soli nostri sforzi. È Dio che, dopo di averci messo in mano il potere di meritare, ci eccita e ci aiuta a farne uso, fa trionfare in noi la sua grazia e ci rende degni del regno. Non è però meno vero che il merito è nostro e ci dà un vero diritto presso Dio. « Nonmi resta altro, scrive l’Apostolo a Timoteo, che ricevere la corona di giustizia che mi assegnerà in quel giorno il Signore, il giusto Giudice; e non soltanto a me ma a tutti quelli che hanno amato il suo ritorno glorioso (II Tim. IV, 8) ». La corona di « giustizia » è un premio legittimamente guadagnato; e il « giudice », se è « giusto », è tenuto ad assegnarlo senza nessun arbitrio o sopruso. « Dio non fa accettazione di persone; perciò chi ha peccato senza la Legge, perirà senza la Legge; chi ha peccato nella Legge sarà giudicato dalla Legge; poiché non sono gli uditori della Legge che sono giusti presso Dio; ma sono gli osservatori della Legge che saranno giustificati (Rom. II, 11-13) ». Il giudizio si farà secondo i lumi degli uomini e secondo le loro opere; perciò il giorno della retribuzione, si chiama, relativamente ai cattivi, « il giorno dell’ira » e, in relazione a tutti, « la manifestazione del giusto giudizio di Dio ». Non occorre aggiungere che le « opere » che saranno la misura del giudizio, non sono le sole azioni esteriori, poiché l’occhio del sommo Giudice penetra fino nelle più intime pieghe della coscienza umana (I Cor. IV, 5). – Il supplizio dei cattivi consiste in due cose: essi sono banditi lontano dal Signore e privi della sua gloria — e questa si chiama oggi la pena del danno — e provano nei loro sensi l’afflizione e l’angoscia; la loro sorte è la rovina, la morte eterna (II Tess. I, 9). La ricompensa degli eletti è tutto l’opposto: è la quiete, il riposo e la calma derivanti dalla soddisfazione di tutti i desideri legittimi, ed è soprattutto il regno di Dio, l’unione con Gesù loro capo, nella pace e nella felicità senza fine (II Tess. I, 7). Del resto la parola umana è impotente a tradurre quelle meraviglie, perché « l’occhio dell’uomo mai non vide e il suo orecchio mai non udì e il suo cuore mai non provò le cose che Dio ha preparate a coloro che lo amano (I Cor. II. 9) ». Tutto quello che si può dire, è che la visione di Dio senza velo e senza intermediario di sorta, succederà per noi ai misteriosi bagliori della fede; noi vedremo Dio a faccia a faccia e lo conosceremo come noi stessi ne siamo conosciuti (I Cor. XIII, 12).

SAN GIUSEPPE PROTETTORE DEI CRISTIANI (4)

SAN GIUSEPPE, IL PROTETTORE DEI CRISTIANI (4)

[A. CARMAGNOLA: Il Custode della Divina Famiglia S. GIUSEPPE – Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1896]

RAGIONAMENTO I.

Della Santità eminente di S. Giuseppe e del grado di culto a lui dovuto.

Se noi gettiamo lo sguardo lassù in cielo in una notte serena ed osserviamo per poco le stelle, vediamo tosto che non tutte brillano del medesimo splendore, ma che le une risplendono di più ed altre risplendono meno. Così pure assai diversa dalla chiarezza delle stelle ci apparirà la chiarezza della luna. Ma quando sul mattino dalle balze d’Oriente vien fuori il sole, allora il suo splendore fa eclissare quello di tutti gli altri astri. Tant’è: altra è la chiarezza del sole, altra la chiarezza della luna, altra la chiarezza delle stelle ed ogni stella ancora differisce in chiarezza dalle altre: Alia claritas solis, alia claritas lunæ, alia claritas stellarum. Stella enim a stella differt in claritate(I Cor. XV, 41). È questa l’osservazione,che fa S. Paolo scrivendo ai cristiani diCorinto, servendosene come di comparazione perfar loro intendere anzi tutto la differenza chepassa tra il corpo dell’uomo mortale e quellodell’uomo risuscitato ed in secondo luogo ladifferenza dei gradi di gloria, che vi sarà neicorpi dei risuscitati.Ma noi possiamo valerci di questa osservazioneper comprendere un’altra verità, quella cioè checi insegna S. Agostino quando dice che i Santinon sono tutti santi alla stessa guisa, ma che visono di quelli che sono più Santi degli altri edegli altri migliori. Ed in vero al di sopra ditutti i Santi vi ha primieramente il Santo deiSanti, il tre volte Santo, Iddio, il quale è a guisadi sole che illumina tutto il Paradiso; vi ha poila Santissima Vergine, la quale risplende comela luna; vengono in seguito gli altri Santi, chesi possono paragonare alle stelle, le quali peròdifferiscono in chiarezza l’una dall’altra.Or bene quale sarà tra i Santi quello che lassùin cielo formerà la stella più brillante? O mieicarissimi, voi tutti l’avete già indovinato:egli è S. Giuseppe, Sposo di Maria Santissima eCustode di Gesù durante la sua vita mortale. Nondeve far dunque meraviglia se si vede la ChiesaCattolica prodigar tanti onori a questo Santo ese i Cristiani hanno presa la bella abitudine diconsacrare anche a lui un mese intero. Imperciocchése noi dobbiamo onorare tutti i Santi edonorarli tanto più quanto maggiore è la loro santità,non si dovrà da noi onorare S. Giuseppe aldi sopra di ogni altro Santo, essendo egli il piùgrande fra tutti i Santi? Sì, senza dubbio la cosaè chiarissima. Ma è poi egli vero che S. Giuseppesia il più grande di tutti i Santi? Ecco una domanda,alla quale, secondo il mio avviso, devesi prima chead ogni altra rispondere nel dar principio al mesedi S. Giuseppe; perché risposto che noi avremo affermativamentea questa domanda, riconosceremoaltresì come a S. Giuseppe si debba il maggiorgrado di quel culto che si dà ai Santi e quanto convenga per conseguenza di consacrare a lui un intero mese. – O S. Giuseppe! Eccomi qui per imprendere il canto delle vostre lodi. Voi lo sapete, il desiderio del mio cuore è grande, ma son poche le forze della mia mente. Come già ho fatto in privato, lasciate che ancora una volta in pubblico io invochi il vostro santo aiuto. Che in questo mese, a voi consacrato, almeno un poco io valga a farvi meglio conoscere, almeno un poco io possa accrescere la divozione per voi e nel cuor mio e nel cuore di questi miei carissimi uditori.

PRIMA PARTE.

A dimostrare che S. Giuseppe è il più grande fra tutti i Santi non è per nulla difficile, e si può dimostrare con molte ragioni. Tuttavia io ne scelgo una sola, che a me pare anche la più forte di tutte, ed è quella della perfetta corrispondenza che S. Giuseppe diede alla grazia da Dio ricevuta. Udite. È volere espresso di Dio che noi ci facciamo Santi, che cioè attendiamo ad osservare in questa vita la sua divina legge, a praticare la virtù, a fuggire il peccato per essere poi eternamente beati nella gloria del Cielo: Hæc est voluntas Dei sanctificatio vestra (I Tess. IV, 3). Ma possiamo noi colle sole nostre forze naturali operare la nostra santificazione? No. È dottrina di fede, insegnataci dalla Chiesa e ripetutamente scritta nei Santi libri che noi, da noi medesimi, non possiamo far nulla in ordine alla nostra eterna salute, neppure concepire nell’anima un buon pensiero. Or dunque Iddio, che ci comanda di farci santi, comanderà a noi l’impossibile? Sarà Egli perciò un Dio crudele, un Dio tiranno?…. Oh! lontane, lontane da noi tali supposizioni. Iddio che vuole la nostra santificazione, pieno di amore e di bontà, non lascia di darci i mezzi necessari ad operarla, ed il mezzo che tutti gli altri comprende è quello della sua grazia. Sì, è certo che Iddio dà a tutti gli uomini quella grazia, per mezzo della quale, se essi risolutamente il vogliono, possono salvarsi ed essere un giorno nel novero dei Santi. E se vi hanno pur troppo di quelli, i quali si dannano, ciò non avviene perché sia loro mancato l’aiuto della grazia di Dio, ma bensì perché a questo aiuto della grazia essi non hanno corrisposto; sicché se le anime dannate dal fondo dell’inferno, ove si trovano, osassero muovere lamento contro alla divina giustizia, il Signore potrebbe bene rispondere a ciascuna di esse: Taci là, che la tua perdizione è opera tua: Perditio tua ex te. Or bene come è certo che il Signore dà a tutti gli uomini la grazia sufficiente per operare la loro eterna salute, così è certo che Egli non dà a tutti la stessa quantità di grazia, ma a chi ne dà più, a chi ne dà meno. E forsechè si potrà perciò accusarlo di ingiustizia? Deve forse a qualcuno degli uomini qualche cosa? Egli deve un bel niente a nessuno. E non è egli forse il padrone assoluto della grazia? Dunque potrà distribuirla come e a chi gli piace. Tuttavia, benché Iddio sia liberissimo distributore della sua grazia agli uomini, dicono i Santi Dottori, tra i quali l’Angelico S. Tommaso, che Egli è solito dare la sua grazia in proporzione dell’ufficio, cui Egli elegge gli uomini, e che però quanto più alto è l’ufficio, cui un uomo è dalla divina Provvidenza eletto, tanto maggiore è la grazia, che da Dio riceve. – Or bene, venendo al nostro caro S. Giuseppe, quali erano gli uffici, cui Iddio l’aveva destinato? Anzi tutto egli era destinato al nobilissimo ufficio di Sposo di Maria Santissima, vale a dire di Colei che era la più pura, la più santa, la più grande fra tutte le creature, di Colei, che Iddio avrebbe sollevato alla dignità più sublime, alla dignità di sua Madre istessa, di Colei che perciò sarebbe stata la Regina del cielo e della terra, degli Angeli e degli uomini. E di Costei, di Maria, S. Giuseppe doveva essere lo Sposo! Doveva cioè vivere con lei e per lei, essere il suo capo, manifestare a lei i suoi pensamenti, i suoi desideri e persino i suoi ordini, essere il suo intimo confidente e ricevere da lei il deposito delle sue gioie e de’ suoi affanni, essere il suo sostegno, il suo aiuto, il suo scudo, la sua difesa, il suo visibile angelo custode. E quando S. Giuseppe non avesse dovuto esercitare altro ufficio in sulla terra che questo, non si richiedeva già per questo solo un tesoro immenso di grazia? Ma oltre ad essere eletto all’ufficio di Sposo di Maria, S. Giuseppe era eletto ad un altro ufficio anche più sublime, a quello cioè di essere quaggiù il vicepadre di Gesù Cristo, di Colui che da tutta l’eternità generato dal divin Padre nello splendore dei Santi si sarebbe incarnato e fatto uomo per opera dello Spirito Santo nel seno purissimo della Vergine e da lei sarebbe nato e poi vissuto e morto per la redenzione del mondo. Ora che avrebbe importato un tale ufficio? Avrebbe importato, che Giuseppe prendesse cura e sollecitudine di Gesù come suo figliuolo, che con le sue fatiche e con i suoi sudori pensasse a procacciare il sostentamento per Colui, che colla sua divina provvidenza lo procaccia a tutti gli uomini del mondo e persino a tutti gli uccelli dell’aria, a tutti i pesci del mare, a tutti gli animali della terra, che Giuseppe a costo di qualsiasi sacrificio scampasse Gesù dai pericoli della sua vita privata e diventasse per tal guisa il Salvatore del Salvator del mondo, che Giuseppe insegnasse a Gesù a lavorare e dirigesse per tal modo quelle mani che hanno creato e sostengono il mondo, che Giuseppe avesse soggetto ed obbediente a sé Colui, nel quale gli Angeli non osano di fissare lo sguardo, che tocca col dito i monti e li fa fumare, che fa un cenno del capo e trema la terra, che insomma Giuseppe fosse un’altra volta Angelo custode visibile e lo fosse dell’Uomo Dio! – Or dunque se tale era l’altro sublimissimo ufficio al quale S. Giuseppe era da Dio trascelto, chi non argomenterà, che a S. Giuseppe convenivasi una grazia smisurata? Per certo e in cielo e in terra dopo l’ufficio di Madre di Dio a cui venne eletta Maria, non vi era ufficio più alto di quello a cui venne eletto Giuseppe, Sposo di Maria e Custode di Gesù. Epperò siccome l’ufficio suo sorpassava di gran lunga quello di tutti gli altri Santi, e dei patriarchi, e dei profeti, e degli Apostoli, e dei Martiri, e dei confessori e dei vergini, così a lui si conveniva una grazia, che fosse pure di gran lunga superiore a quella ricevuta da tutti gli altri Santi. Ora chi potrà anche solo pensare che Iddio non abbia dato a Giuseppe una tal grazia? Ah! Quello che potrà più facilmente accadere in tutti si è di non sapere neppur pensare quanto grande sia stata la grazia di cui il Signore volle arricchire questo Santo. Epperò ormai non vi ha più alcuno che dubiti sopra di ciò, che, sebbene non sia di fede, tuttavia comunemente si ammette da molti sacri Dottori, che cioè San Giuseppe sia stato santificato insin dal seno materno, epperò sia venuto alla luce del mondo scevro dalla macchia del peccato originale. Imperciocché se un tanto privilegio venne concesso, come ci insegnano le Sacre Scritture, al profeta Geremia ed a S. Giovanni Battista, perché Iddio l’avrebbe negato a colui, che già abbiamo riconosciuto per il suo ufficio essere superiore ad ogni altro Santo? Ma che vuol dire questo privilegio della santificazione prima della nascita? Vuol dire non solo essere mondati, prima di nascere, dalla macchia del peccato originale, ma per soprappiù essere ammirabilmente invasi dalla divina grazia e per mezzo di questa essere fatti belli, santi, sommamente cari a Dio. Se adunque noi piamente riteniamo che S. Giuseppe sia stato santificato insino dal seno materno, riteniamo altresì che Iddio gli abbia allora riversato nel cuore una pienezza di grazia tutta conforme all’ufficio, cui lo aveva eletto da tutta l’eternità e che una tale pienezza di grazia fosse superiore a quella di tutti gli altri Santi. – Or bene, stabilita questa verità, a riconoscere secondo il nostro proposito, che S. Giuseppe è il più grande di tutti i Santi, bisogna ancor riconoscere se egli corrispose convenientemente alla grazia da Dio ricevuta. E per ciò non abbiamo bisogno di lunghe indagini: basta che ci appigliamo al Santo Vangelo e il Santo Vangelo, benché di Giuseppe ci parli pochissimo, a questo riguardo tuttavia ci dice quanto è basta. Di fatti, come mai il Vangelo chiama Giuseppe? Qual è la qualità, la virtù, che per eccellenza ci dimostra trovarsi in lui? Attenti bene: Joseph autem cum esset iustus: Giuseppe, dice il Vangelo, era giusto. Giusto? Ma che significa qui questo nome di giusto? Questo nome, dice S. Girolamo, il dottor massimo di Santa Chiesa, questo nome qui significa il possessore di tutte le virtù: Giuseppe è chiamato giusto propter omnium virtutum perfectam possessionem: per la perfetta possessione di tutte le virtù. Non per una virtù sola, non per molte, non per moltissime, ma per tutte; anzi nemmeno solo per tutte le virtù, ma per tutte praticate in perfetto grado: propter omnium virtutum perfectam possessionem! E che cosa può dirsi di più di un uomo, quanto il dire che egli possiede ogni perfezione e la possiede perfettamente? Non vi par questo un elogio sublime? un encomio sommo? E se è così qual dubbio si può avere che egli non abbia pienamente corrisposto alla grazia da Dio ricevuta? sì, vi corrispose; vi corrispose quanto poteva corrisponderle; è lo Spirito Santo che ce ne fa fede, e poiché la grazia a lui data da Dio, dopo quella data a Maria, fu una grazia  superiore a quella data a tutti gli altri santi. perciò S. Giuseppe anche solo per questa ragione della perfetta corrispondenza alla grazia, fu il più grande fra tutti i Santi. E come tale appunto lo riconoscono e lo predicano il celeberrimo cancelliere di Parigi, Gersone, i devotissimi Bernardino da Busto, Giovanni di Cartagena. Isidoro soprannominato Isolano, S. Leonardo da Porto Maurizio ed il piissimo Suarez, uomo il cui voto, al dire del padre Paolo Segneri, equivale quello d’una intera università. E tutti questi Santi uomini riconoscendo S. Giuseppe come il più grande fra tutti i Santi, sciolgono essi medesimi la difficoltà, che potrebbe nascere da quell’elogio. Gesù Cristo fece un giorno di S. Giovanni Battista, quando disse di lui che non surrexit major E dicono: Questa parola del divin Redentore a lode di S. Giovanni Battista non deve far difficoltà a riconoscere S. Giuseppe anche maggiore di S. Giovanni, perché S. Giuseppe non entra in rigacogli altri nati di donna, essendo che egli fu di un ordine sopra ogni ordine, fu nell’ordine supremo dell’unione ipostatica; epperò quando Gesù Cristo disse ad onor di Giovanni, che non era nato alcuno maggiore di lui, S. Giuseppe ne era totalmente escluso ed eccettuato. – S. Giuseppe adunque, ripetiamolo pure lietamente, è il più grande fra tutti i Santi e come il più grande fra tutti i Santi merita di essere onorato da noi col maggior grado di quel culto, che si dà ai Santi. – Il culto che noi rendiamo ai Santi è un culto di venerazione, che si differenzia da quello che rendiamo a Dio, in ciò che Iddio lo adoriamo come Creatore e Signore supremo di tutte le cose, mentre i Santi li veneriamo in quanto sono immagini della bontà di Dio, avendo in sé qualche cosa delle divine perfezioni e qualche somiglianza della divina eccellenza sopra le creature. Dal che si vede, per dirlo anche solo di passaggio, quanto la sbagliano i Protestanti, i quali per il culto che noi rendiamo ai Santi arrivano a tale da accusarci di idolatria. Ma forse ché noi adoriamo i Santi, come adoriamo Iddio! Niente affatto. I Santi li veneriamo soltanto. E venerare i Santi non è cosa al tutto conforme alla ragione! Poiché si onora i l re, non è giusto onorarne anche, sebbene in modo inferiore, i suoi amici! coloro che dal re istesso sono stimati ed onorati! coloro che ne sono la rappresentanza? E tali presso a poco sono appunto per rispetto a Dio i Santi, sicché il non onorarli sarebbe lo stesso che disprezzare Iddio. Epperciò la Chiesa, checché ne sembri ai Protestanti, ha sempre venerato i Santi fin dai tempi apostolici. – Or dunque se i Santi meritano di essere onorati, benché solo col culto di venerazione, e la Chiesa li venera qual più qual meno, secondo che in essi appare una maggiore o minore santità, non è egli vero che S. Giuseppe per essere il più grande di tutti i Santi merita di avere in questo culto di venerazione il maggior grado? Sì, senza dubbio. Epperò si doni pure a Maria, Madre di Dio, un tutto speciale, il culto della somma venerazione, che tenga come un posto di mezzo tra quello che si dà a Dio e quello che si dà ai Santi, ed a S. Giuseppe non si doni altro culto che quello della semplice venerazione, ma glielo si dia nel suo maggior grado, perché giustamente gli è dovuto. Così consacrisi pure a Gesù il mese di Giugno per esaltare le misericordie del suo divin Cuore, si consacri pure a Maria il mese di Maggio per disfogare l’animo ripieno di amore per Lei, ma sia pur bello consacrare a Giuseppe il mese di Marzo per manifestare viemeglio la divozione che si nutre verso di lui. Onorare con tanto alari S. Giuseppe non è far altro che seguire l’esempio della Chiesa; anzi non è far altro che seguire l’esempio di Maria Santissima e dello stesso nostro Signor Gesù Cristo, come vedremo dopo breve riposo.

SECONDA PARTE.

Onorare S. Giuseppe è anzitutto seguire l’esempio della Chiesa. Difatti non vi ha alcun Santo che la Chiesa onori tanto quanto S. Giuseppe. Gli altri Santi hanno nel corso dell’anno un solo giorno di festa, o tutto al più due. Ma S. Giuseppe ne ha tre; anzi tutto quel del 19 Marzo, nel quale comunemente si crede sia avvenuto il suo transito; e poi la terza domenica dopo Pasqua per onorare ed invocare il suo santo Patrocinio; e poi ancora il 23 Gennaio per ricordare il suo sposalizio colla Beata Vergine. Inoltre la Chiesa consacra a S. Giuseppe come fa per Maria, un giorno della settimana, il mercoledì, e persino un intero mese, il mese di Marzo, o quello che corre dal 18 Febbraio al 19 Marzo. Quante poi sono le chiese che ora si vanno innalzando ad onor di S. Giuseppe! e di tutte le altre dedicate ad altri Santi, manca forse un altare per S. Giuseppe? Si può dire ancora, che ogni qualvolta la Chiesa per ottenere da Dio grazie speciali interpone l’intercessione dei Santi in generale e di alcuni in particolare, non lascia mai di interporre quella di S. Giuseppe; per modo che chiaramente apparisce che non vi è Santo, che la Chiesa onori così come S. Giuseppe. Ma se così fa la Chiesa, è perché la Chiesa si modella per questo culto sulla stessa Santissima Vergine e sopra Gesù Cristo. Di fatti Maria quanto onorò il suo sposo quaggiù! Lo riguardò sempre come il suo capo, come colui al quale doveva essere sottomessa e lo trattò sempre con grande rispetto, non ostante che fosse a lui tanto superiore. E come l’onorò essa, così si adoperò per farlo onorare dagli altri ed è certo che anche dopo che avvenne la morte di lui, sempre portandolo scolpito nella memoria e nel cuore, ne parlava con venerazione ed affetto, studiandosi di far concepire nel cuore dei primitivi Cristiani una grande stima ed un grande amore per lui. E dopo averlo onorato qui in terra, l’onora anche presentemente lassù in cielo, poiché possiamo bellamente immaginare, che se Maria in Paradiso passando avanti a tutti gli altri Santi è da loro profondamente inchinata, passando anche dinnanzi a S.Giuseppe e riguardandolo sempre, come suo carissimo sposo, ella a lui si inchina con riverenza ed amore. Così adunque Maria ha onorato ed onora S. Giuseppe. E Gesù? Oh! in quanto a Gesù basta per tutto quel che leggiamo nel Vangelo. Là si dice che Gesù a Nazaret era soggetto a Maria ed a Giuseppe: et erat subditus illis. Soggetto anche a San Giuseppe? Ma quale onore più grande gli poteva rendere in sulla terra? E se tanto l’ha onorato qui in terra non l’onorerà altresì grandemente lassù in Cielo? Non vi può essere di ciò alcun dubbio. – Se pertanto onorare S. Giuseppe è fare quel che fa laChiesa, quel che fa Maria, quel che fa Gesù, onoriamolo grandemente anche noi, onoriamolo con grande slancio particolarmente in questo mese a lui consacrato; veniamo sovente dinnanzi al suo altare per pregarlo, veniamo a sentire le sue lodi, ad imparare le lezioni che egli ci dà; studiamoci altresì di guadagnargli ancora altri devoti, e per tal modo oltre al renderci sicuri della protezione di questo gran Santo, faremo ancora una cosa sommamente gradita alla Chiesa, a Maria ed a Gesù.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (36)

CAPITOLO XXXIV

(seguito del precedente)

Frutti dello spiritismo — Negazione sempre più generale del Cristianesimo— Libertà data a tutte le passioni — Pazzia — Suicidio — Statistiche — Ultimo ostacolo all’invadimento satanico: il papato— Grido della presente guerra: Roma o morte — Timore, generale sentimento d’Europa — Unico mezzo di calmarlo rimettersisotto il governo dello Spirito Santo — maniera di farlo.

La novella religione dà i suoi frutti. È dote essenziale d’ogni dottrina concretarsi in fatti, che ne sono i frutti naturali. Sinora, fra i più palesi effetti dello spiritismo s’annovera, nell’ordine religioso, la negazione che si fa sempre più generale del Cristianesimo, come opera divina e come religione positiva; il diminuirsi del timore dei divini giudizi, la fede della metempsicosi, la quale portando in pieno secolo decimonono gli errori dello gnosticismo teorico, mena allo gnosticismo pratico, vale a dire allo sbrigliamento degli scorretti appetiti. E potrebbe forse accadere altrimenti? Venir fuori a proclamare in mezzo ad un mondo come il nostro, che le pratiche del Cattolicismo punto non sono obbligatorie; e che qualunque vita s’abbia menata, se ne potrà saldare i conti con pene transitorie; che queste pene medesime andranno sempre scemando, finché si giunga a perfetta ed eterna felicità; non è egli un gettar legna sul fuoco e stimolar le passioni in modo terribilmente efficace? « Le strade ferrate, dicono con ragione gli spiritisti, hanno fatto cadere le barriere materiali. La parola d’ordine dello spiritismo: senza carità non vi è salute, farà cadere tutte le barriere morali. Farà in special maniera cessare l’antagonismo religioso, cagione di tanti odi e sanguinosi conflitti; attesoché allora ebrei, Cattolici, protestanti, turchi, si stenderanno la mano, adorando, ciascuno alla sua maniera, l’unico Iddio di misericordia e di pace ch’é lo stesso per tutti.» [Rivista spiritistica, ivi, p. 23]. E in altro luogo: «Il principio della pluralità delle esistenze, ha soprattutto una singolare tendenza a entrar nell’opinione delle moltitudini, e nella filosofìa moderna. » [Ivi,, p. 5]. E noi lo crediamo facilmente. Di tutti questi errori più o meno seducenti, qual è il finale risultato? quello che il demonio ha sempre ambito e che unicamente ambisce: la perdita delle anime, cioè la separazione eterna del Verbo redentore: « satana, dice san Cipriano, non ha altro desiderio che di allontanare gli uomini da Dio e attirarli al suo culto, togliendo loro l’intelligenza della vera Religione. Punito egli cerca di farsi dei compagni del suo supplizio, di coloro che rende con i suoi inganni, partecipi del suo delitto. »[De idolorum vanit., c. VII] – E sant’Agostino: « I demoni fìngono d’essere costretti dai maghi a cui obbediscono volentieri, a fine di allacciarli essi e gli altri, più fortemente nelle loro reti e di ritenerveli. » [De cìvit. Dei, lib. II, c. VI. – « Il demonio, aggiunge Alfonso di Castro, finge d’esser preso per prenderti meglio; vinto, a fine di vincerti, sottomesso alla tua volontà, per sottometterti alla sua; prigioniero per metterti nei suoi ferri; finge d’essere attaccato, per le tue invocazioni ad una statua, ad una pietra (a una tavola) all’oggetto di attaccarti con le catene del peccato e di trascinarti nell’inferno. [Lib. I, de Inst. Hæretic. punit.] » E in mezzo a nazioni battezzate, si lascia tranquillamente propagarsi una simile religione? Nell’ordine sociale, i suoi effetti non sono punto meno funesti. Per ciò stesso che egli tende a distruggere il Cristianesimo, lo spiritismo prepara la rovina della società. Bisogna aggiungere che i principali agenti della Rivoluzione europea sono spiritisti, e che gli oracoli degli Spiriti, circa i futuri avvenimenti sono mandati da Garibaldi. Fra esso e i capi dello spiritismo vi è una attivissima corrispondenza. Nell’ordine civile o domestico, la nuova Religione si rivela con la pazzia e col suicidio. Cosi doveva essere. satana è l’implacabile nemico dell’uomo: chiunque scherza con esso, scherza col fuoco. Vittima della sua temerità, ei si trova con la pazzia quando credeva abbracciar la ragione: in seno alla morte, credendo andare alla vita: imperocché, uccidere l’uomo nell’anima e nel corpo, è il supremo intento del grande omicida. Son questi adunque i due grandi contrassegni del regno di satana, che si manifestano sul mondo presente, segni che lo Spiritismo ha resi più che mai chiari e spiccati. Ahimè! guardate che terribile forza ha la muta eloquenza delle seguenti cifre. Il numero de’pazzi in cura nei manicomi in Francia, era nel 1835, quando s’ebbe a farne per la prima volta il novero, di 10,539. Nel 1851, di pazzi o scemi, ricoverati nei pubblici ospizi, o dimoranti nelle loro case, se ne contarono 44,960. Nel 1856 il numero dei pazzi propriamente detti crebbe a 35,031; de’quali 11,714 nelle loro case, e 23,515 negli spedali. Nel 1861, negli 86 dipartimenti dell’antica Francia, si contarono 14,853 pazzi propriamente detti a domicilio, e quindi quasi 20 per cento più che nel 1856. Il l° gennaio del 1860, il numero de’pazzi negli spedali era di 28,706. « Siccome questo numero cresce incessantemente; noi non esitiamo punto a metterlo, pel giugno 1861, di 29;500: onde risulterebbe un totale di 44,353 pazzi, nei manicomi o a domicilio. Sommando insieme pazzi, scemi e cretini, si ha per l’antica Francia, nel 1861, un totale di 80,839 di cotesti infermi. » [Giornale della Società di statistica di Parigi. Del movimento dell’alienazione mentale, ecc., del signor Legoyt, capodi divisione e di statistica generale in Francia, marzo 1863.— L’Inghilterra segue lo stessa progresso. Al 1° gennaio 1864vi si contavano 44,695 pazzi per l’Inghilterra e il paese diGalles, e questo numero non rappresenta tutto che imperfettamente le reali proporzioni della pazzia in tutto il regno].Dal che si vede che nei ventisei ultimi passati anni il numero dei pazzi noverati in Francia si è quasi triplicato [Statistica della Francia. 2a serie, t. III, 2a parte — e Censimento del ministero dell’Interno, 1861]. –  Non è altrimenti un calunniare lo spiritismo, l’attribuirgli gran parte del merito di cotesto bel progresso. Or sono diebi anni, negli Stati Uniti, si calcolava che nei casi di pazzia e di suicidio ei ci entrava per un decimo. [Nampon, Disc. sullo spirit. p. 41]. In un suo ragguaglio sullo Spiritismo, considerato come causa di pazzia, e letto recentemente alla società degli studi medici di Lione, il Dott. Burlet cosi riepilogava le sue conclusioni: « L’influenza della pretesa dottrina spiritica è oggidì ben dimostrata dalla scienza. Le osservazioni che la mostrano vera e reale si contano a migliaia. Ci sembra cosa posta fuori di dubbio che lo spiritismo può venir collocato fra le più feconde cagioni dell’alienazione mentale » [ivi]. – E una lettera da Lione, posteriore a codesto ragguaglio dice: « E un fatto, che, dopo l’invasione dello Spiritismo nelle nostre mura, il numero di coloro che s’ebbero a chiudere nell’ospedale per cagione di pazzia, si è più che duplicato. » Somigliante progresso appalesasi dovunque pianta le sue tende lo spiritismo. L’arcivescovo di Bordeaux, in una sua pastorale per la Quaresima del 1863, diceva al suo clero: « Difendete la cattolica verità contro le pratiche misteriose, le evocazioni, le malie, cose che rammentano tristi epoche nella storia del mondo, e che, troppo sovente, hanno, fra gli altri loro lagrimevoli effetti, quello altresì di produr la pazzia. » E, notato che il numero dei pazzi si è in questi ultimi tempi triplicato, il cardinale soggiunge: « Sì è giunti, fra le congreghe, che noi crediamp dover nostro segnalare alla sollecitudine dei nostri padri di famiglia, al segno di formulare dottrine contrarie a quelle della Chiesa. State costantemente sulla breccia; allontanate i fedeli dai luoghi in cui si esercitano queste dannevoli superstizioni. » –

Segno manifesto dell’influenza del demonio si è, ancor più della pazzia, il suicidio. Suprema violazione della legge divina, negazione assoluta della fede del genere umano, questo disperato delitto non è in natura. Ogni essere ripugna alla sua propria distruzione: mortem horret, dice sant’Agostino, non opinio sed natura, di guisa che le bestie medesime non si uccidono volontariamente. – Il pensiero del suicidio, che rende l’uomo inferiore alle bestie, non può dunque venirgli che da suggestione fuori della sua natura. Ora, gli ispiratori del pensiero sono due soltanto: lo Spirito Santo, e satana. Non viene dallo Spirito Santo: che anzi lo vieta e condanna: Non occides. Viene dunque da satana, il grande Omicida, che, fin dal principio del mondo, non ha mai cessato, e non cesserà mai, di odiare l’uomo di mortalissimo odio. E se vien dal demonio il pensiero, che dire del delitto stesso del suicidio? Per spingere l’uomo a distruggere sé stesso, oh Dio! che dominio non bisogna mai che abbia sopra di lui! E l’uomo suicida, quanto più consuma l’orrendo delitto a sangue freddo, dà segno che è tanto meno libero di se stesso: proprio com’è il moderno suicidio. Pertanto, tutte le volte che sentirete dire che un uomo s’é dato a sangue freddo la morte, dite pure francamente, ch’egli era in balìa del demonio. Parimente se troverete nella storia tempo, in cui il suicidio si mostri più frequente, dite pure anche allora: il demonio in questo tempo volle avere una gran signoria. E se voi v’abbattete a trovar tempo in cui il suicidio sia più frequente che in altri mai; che lo si commetta a sangue freddo, per qualsisia motivo, in ogni età e condizione dell’uomo; in modo insomma che cessi d’incutere orrore e spavento, ahimè! quello sarà tempo di dover tremare. E si ha un bel negarlo, ma pur troppo si può dirlo ad alta voce, e senza paura di errare, che il demonio sul tempo nostro regna con signoria, quasi diremmo, sovrana: la storia è li pronta a confermarlo. Quando, nell’antico mondo, il suicidio desolava in miseranda guisa l’umana società, il regno di satana era al suo apogèo: [Vedi Storia del suicidio del sig. Buonafede]; cotesto delitto n’è il segno e la misura. Divenuto simile alla Bestia che adorava, l’uomo s’era abbrutito. E non credeva più a nulla, nemmeno a se stesso: a sanare il mondo, a purgarlo della profonda sua corruzione, ci voleva il ferro de’ barbari, e il diluvio di sangue. – Scacciato dal Cristianesimo, il suicidio ricomparve in Europa in un col Risorgimento [ibidem]; in modo che di mano in mano che questo andava recando i suoi frutti, il suicidio cresceva ancor esso; imperocché egli è uno di quei frutti. Presentemente s’è fatto tale che, in questa parte, i tempi nostri passano gli antichi. Lo si commette per i più leggieri motivi, da uomini e donne, da fanciulli e da vecchi, da ricchi e da poveri, nelle campagne, del pari che nelle città. Non fa più orrore né spavento: se ne leggono i casi come una novella della giornata. La, legge civile più non lo punisce: e sa male che la Chiesa il condanni: per la coscienza di molti non è più manco peccato. – Volete vedere, nel suo laido splendore, cotesto segno, del regno di satana sul mondo presente ? Nel 1783, Mercier scriveva nel suo Quadro di Parigi: « Da alcuni anni in qua, si contano circa venticinque suicidi per anno, in Parigi. » E nelle provincie, allora, era delitto quasiché ignoto, e sempre orribile; cosicché un solo caso che ne avvenisse, bastava a gettar lo spavento in tutto un paese. Mezzo secolo dopo il Mercier, Parigi fu spettatrice di cinquantasei suicidi in un mese. Del resto, ecco qui, per la’ Francia, la statistica ufficiale del suicidio nel 1861.

« Il numero de’ suicidi in Francia è, tratta una media, da 10 a 11 al di, cioè 3899 all’anno. « Figurano in cotesto numero 842 donne, e 3057 uomini: 16 fanciulli furono suicidi: 9 di 15 anni; 3 di 14: 2 di 13: 2 di 11, « 49 nonagenari di cui 38 uomini, e 11 donne. ». [Statistica pubblicata dal Ministero della giustizia. Nel 1866 il numero dei suicidi in Francia è stato di 5,119, cioè 173 di più che nel 1865. Statistica id. 1868]. Da quanto reca l’esattissimo e molto ben fatto libro intitolato: Del suicidio in Francia, pubblicato nel 1862, dal sig. Ippolito Blanc, capo d’ uffizio nel ministero dell’istruzion pubblica, il numero dei suicidi in Francia, dal 1827 al 1858, vale a dire in 32 anni, crebbe sino all’enorme somma totale di 99,662. – Gran Dio, in trentadue anni, nel regno cristianissimo, novantanove mila uomini volontariamente uccisi di propria mano! Sarà egli lo Spirito Santo che ha ispirato sì orrenda strage? E poi si nega l’operar di satana sul mondo! E si celia su d’esso! E si parla di miglioramento morale sempre crescente! E non è da pretermettere che la Francia, in cotesto satanico macello, punto non fa eccezione: anzi in tal progresso di nuovo genere non primeggia né anco. Da quanto ricavasi dai più recenti documenti ufficiali, i vari stati d’Eùropa danno; sovra un milione di abitanti, i seguenti numeri di suicidi :

Belgio ………… 57

Svezia…………………. 67

Inghilterra……………. 84

Francia ……….. 100   

Norvegia……………….108

Prussia…………………. 108

Sassonia…………… 202

Ginevra…………….267

Danimarca ……. 288

[Annali d’igiene pubblica, gennaio 1862, p. 85. Quanto alla Russia, ecco quel che ne dice il sig. D. K. Schedo-Ferroti ne’suoi Studi sull’avvenire della Russia, pubblicati in Berlino, 1863. « Si conta gran numero di sètte in Russia; eccone qui alcune, che più van segnalate per la stravaganza delle loro dottrine. « I Kapitoni, cosi detti dal loro capo, il monaco Kapiton, formano la più antica delle sètte, senza clero: essi considerano il suicidarsi per la fede come la più meritoria delle azioni. « I bespopowzì, della Siberia, credono che l’Anticristo è venuto e regna sulla chiesa russa, onde fa d’ uopo evitare ogni contatto con i suoi servi o aderenti. Come buon mezzo d’involarsi al pericolo di cader vittima delle astuzie del demonio, raccomandano specialmente il suicidio col fuoco; e tali raccomandazioni non sono punto vane; attesoché, in un dì, 1700 persone perirono volontariamente per via dell’immacolato battesimo del fuoco, implorato dal loro capo. – « I pomoreni e i filipponi professano la stessa credenza sull’efficacia del suicidio per la fede. – « Havvene de’ mostruosi, come per es. g li uccisori di bambini, i quali stimano atto meritorio mandare al cielo l’anima di un tenero bambino: i soffocatori, i quali credono che il cielo non sarà .aperto se non a coloro che muoiono di morte violenta, e si fanno un dovere di soffocare o accoppare quei de’ loro congiunti, ne’ quali una qualche grave malattia faccia temer la sventura d’una morte naturale. Anzi i più fanatici spacciano fin anco i loro amici vegeti e sani]. –  E in questo conto non entrano che i suicidi ufficialmente denunziati. Quanti ve n’ha che, per un motivo o per un altro, sfuggono alla pubblicità ufficiale! Tale si è la sanguinosa via in cui, da quattro secoli, cammina l’Europa, l’antica Città del bene. Al vedere il suicidio, abolito già dal Cristianesimo, tornato, col Risorgimento, endemico in Europa, che altro conchiuderne se non che il Risorgimento fu il ritorno del Satanismo in Europa: che il grande Omicida ha ricuperato parte del suo impero e regna sui nuovi suoi soggetti con signoria pari all’antica? che dico? con signoria ancora più estesa; attesoché la si vede, a certi segni, maggiore d’ assai dell’antica. – E lo spiritismo la va facendo crescere sempre più; – [Ecco alcune confessioni che abbiamo raccolte dalla bocca stessa di spiritisti avanzatissimi nelle pratiche dello spiritismo, e testimoni dei fatti che ci confidavano. « Lo spiritismo è pieno di pericoli per la salute ed anche per la vita. Dappertutto ove si sviluppa con una certa intensità, sorgono malattie anomali, un immenso numero di casi di pazzia e la deplorevole propagazione del suicidio, che vanno a colpire coloro che vi si danno con ardore. » Ravvedutisi non senza fatica dei loro errori, gli stessi spiritisti ci riferivano moltissimi casi di suicidi e di follia, avvenuti tra i loro fratelli in spiritismo. La loro testimonianza non faceva che confermare la nostra personale esperienza» A questo proposito la Vera buona novella racconta che a Firenze dove il magnetismo ed il sonnambulismo contano numerosi osservanti, un empio si è dato al mestiere dello spiritismo. Egli ha trovato per medium una povera giovane, e si è messo ad evocare gli spiriti infernali. A forza di essere chiamati, gli spiriti, che non sono sordi, sono venuti: son venuti così spesso che hanno stimato per la più corta di stabilirsi a dimora presso la giovane, la quale a quest’ora, è diventata ossessa e sul punto di morire], – imperocché lo spiritismo toglie il timor dell’inferno, anzi gli spiriti ben spesso invitano a venir con essi i viventi e ad entrare, per via della morte, in una nuova incarnazione più perfetta, od anche a godersi lo stato di puri spiriti. Da quanto confessano gli spiritisti medesimi, confermato dai molti fatti riferiti da’ giornali, dalle osservazioni dei medici, da’ ragguagli datine dalle famiglie, risulta pur troppo chiarissima l’influenza omicida della novella religione. – Si giudichi adesso se la Chiesa ha avuto ragione di condannare gli spiriti, i sonnambuli, i magnetizzatori, i loro libri e le loro pratiche. Sino dall’anno 1856, il Sommo Pontefice segnalava le pratiche diaboliche che avevano per fine di evocare le anime dei morti, e raccomandava a tutti i Vescovi del mondo cattolico di adoperare tutte le forze, per estirpare queste pratiche abusive. [Pii PP. IX ad omnes Episcopos sub die 4 A ugusti 1856. Denz. 1653]. – Quantunque il decreto non nomini lo spiritismo col suo proprio nome, attesoché a quest’epoca non erasi ancor bene smascherato, nulladimeno egli è chiaramente condannato con queste parole: evocare le anime del morti e ottenere risposte, è una cosa illecita ed eretica. Più tardi, avvenne più direttamente, allorquando lo stesso Pio IX, mediante il decreto della S. Congregazione del Santo Uffizio data del 20 aprile, e della Congregazione del Concilio del 25 dello stesso mese 1864 condannò tutte le opere di Allan Kardec, che trattano dello spiritismo, e tutte le altre opere concernenti le stesse materie: omnes libri similia tractantes. Infine il Padre Perrone, gesuita romano, stabilì teologicamente la proposizione seguente che è la condanna delle moderne pratiche diaboliche: « Il magnetismo animale, il sonnambulismo e lo spiritismo nel loro insieme non sono altra cosa che la restaurazione della superstizione pagana e dell’impero del demonio. [De Virt. relig. ecc., p. 351, n. 825]. – Una sola cosa impedisce tuttavia allo spiritismo di recare tutti i suoi frutti: il Cattolicismo. Or il Cattolicismo si personifica nel Papato; e satana lo sa molto meglio ancora di Garibaldi e Mazzini. Quindi i fatti di cui siamo spettatori: l’accanita sua guerra contro di Roma. Dal suo babelico concilio fino alla venuta del Messia, i perseveranti sforzi del principe delle tenebre mirarono ad un solo scopo: formare la sua gigantesca città, e stabilirne Roma capitale. Ci riuscì, imperocché con l’essere padrone di Roma, era padrone del mondo. Ed invero, non sì tosto comparvero gli Apostoli armati di Spirito Santo, Roma diventò l’oggetto del combattimento. Roma o Morte., era il grido della Città del bene e della Città del male, che per tre secoli echeggiò da Oriente ad Occidente; ed undici milioni di martiri attestano quanto grande fosse e tremendo il conflitto. Per il Verbo incarnato, Roma vuol dir l’impero: per satana, morte vuol dire perdita di Roma e dell’impero. Chi non resterà stupito al vedere, dopo diciotto secoli, Roma diventare un’altra volta oggetto della pugna; ed il grido di guerra Roma o morte servire di parola d’intesa ai due campi opposti? Fra tutti i segni dei tempi, questo, per nostro avviso, non è punto il meno degno di attenzione. Che Roma sia il grido del mondo attuale, il grido che passa ogni altro, è fatto che non ha bisogno di prova. Re e popoli, diplomatici e filosofi, scrittori e soldati, Cattolici e rivoluzionari, tutti agognano Roma per diversi motivi. Oggidì più che mai l’odio e l’amore si contendono Roma; e tutto ciò che parla di Roma scuote gli animi, ed eccita la duplice passione del bene e del male. – Questo dramma supremo, di che il mondo fu spettatore solo una volta, di che cosa è prova? Di quel medesimo che diciotto secoli fa. Prova che Roma è la regina del mondo; prova che satana, cacciato di regno, e stretto in catene dal Redentore, tenta spezzare quelle catene e rifare la sua città; città formidabile, in quanto che va composta di gran parte d’Europa, tolta al Cristianesimo. – Prova che, per ricostituirla qual era una volta, non gli resta più che renderle Roma, sua antica capitale; ch’ei la vuole ad ogni costo, e per conquistarla cammina alla testa d’immenso esercito di rinnegati, non facendo, come già altre volte, distinzione tra mezzo e mezzo, e ripromettendosi una non lontana vittoria, la quale, giusta il detto di Pio IX, ricomincerà l’era dei Cesari e dei secoli pagani, vale a dire farà ricadere il mondo nella morale e materiale schiavitù, da cui avevalo liberato il Cristianesimo. [Encycl. 8 dec. 1849 “Nostis et nobiscum”]. – Detto verissimo. Ora s’egli è chiaro che il mondo va sempre peggio sottraendosi all’influenza dello Spirito Santo, è chiaro non meno che ei cade, in pari misura, sotto l’impero dello Spirito maligno, e si sottopone per sua grande sventura a tutte le conseguenze della sua colpevole infedeltà. Il passato è storia dell’avvenire. Non ostante le lusinghiere predizioni dei loro falsi profeti, i popoli dei tempi nostri hanno un cotal presentimento di quel che li aspetta: essi hanno paura. È questo indefinibile sentimento, ignoto in tempi regolari, un contrassegno dei nostri. – L’Europa soggioga città reputate inespugnabili, e pure ha paura. Con pochi soldati ottiene, in lontani paesi, splendide vittorie su potenti nemici, e pure ha paura. Vegliano alla sua difesa quattro milioni di baionette, e pure ha paura. Doma gli elementi, annulla le distanze da popoli a popoli, vanta i prodigi della sua industria; l’oro scorre abbondante nelle sue mani; alle rustiche divise ha sostituita la seta; la natura tutta s’è fatta tributaria del suo lusso; la sua vita somiglia al convito di Baldassarre; e pure ha paura. Dappertutto regna la paura. Le nazioni hanno paura delle nazioni: i re hanno paura dei popoli, e i popoli hanno paura dei re. L’uomo ha paura dell’uomo. La società ha paura del presente, e più ancora dell’avvenire; ell’ha paura di qualcheduno, o di qualche cosa, il cui nome è un mistero. Perché ha ella paura? Perché l’istinto della sua propria conservazione l’avverte che non è più retta dallo spirito di verità, di giustizia, di carità, senza del quale non v’ha ordine possibile, né società durevole, né sicurezza per alcuno. E questo temere non è altrimenti vano. Per le nazioni sì come per gl’individui, tra la Città del bene e la Città del male, tra Cristo e Belial, non si dà punto di mezzo. Or, ritornando nel mondo, satana, checché ne dicono i suoi apologisti, ci ritorna qual è, fu, e sarà sempre: l’Odio. Lasciate che cotesto forzato dell’inferno, esca della sua galera, sciolto e libero della camicia di forza che si chiama Cattolicismo, e vedrete quel che farà. Padre della superbia e della crudeltà, della menzogna e della voluttà fallace, farà domani quello che ha fatto in tutti i tempi che fu dio e re, quel che seguita a far tuttavia in tutti i popoli ancor sottoposti al suo impero. La guerra sarà generale; la terra diventerà un campo di rovine; lagrime e sangue scorreranno a torrenti: il genere umano avvilito, sarà fatto segno ad oltraggi non rammentati ancor dalla storia, giusto castigo di una ribellione allo Spirito Santo, simile al quale la storia parimente non conta. Salvo un miracolo, tale si è, non accade dissimularlo, lo spalancato abisso, a cui camminiamo. Come arrestarci sul fatale pendio? Via tutti i mezzi di salvamento, che viene a proporre l’umana sapienza. No, cento volte no; l’Europa infedele allo Spirito Santo non sarà salvata né dalla filosofia, né dalla diplomazia, né dall’assolutismo, né dalla democrazia, né dall’oro, né dall’industria, né dalle arti, né dalle banche, né dal vapore, né dall’elettrico, né dal lusso, né dalle belle parole, né dalle baionette, né dai cannoni rigati, né dalle navi corazzate. Come dunque vorrà ella esser salvata, se lo dev’essere? La risposta è facile: perdutosi per essersi dato in braccio allo spirito del male, il mondo moderno sì come l’antico, non andrà salvo che col darsi allo spirito del bene. Il figliuol prodigo non risorge a vita se non ritornando nelle braccia di suo padre. Attesi gl’incalcolabili pericoli onde, nell’ora che corre, è minacciata la vecchia Europa, questo ritorno allo Spirito Santo, pronto, sincero, universale, è la prima necessità urgentissima. A fine di farla vedere financo ai ciechi, noi ci siamo indotti a rinfrescar la memoria dell’esistenza, dimenticata troppo, dei due spiriti opposti, che si contendono l’impero del mondo e con sovrana autorità lo governano: e abbiam posta in chiaro l’ineluttabile alternativa, in cui si trova il genere umano, di vivere sotto l’impero dell’uno o dell’altro. Finalmente la storia universale, riepilogata in breve nella descrizione parallela delle due Città, ci ha detto quel che ridonda all’uomo dall’essere cittadino della Città del bene, o cittadino della Città del male. – Ma il solo sapere quel che bisogna fare, punto non basta, e resta a indicare i mezzi corrispondenti. I quali tutti consistono e riduconsi nel conoscere lo Spirito Santo, al oggetto di amarlo, invocarlo, rimetterci sotto il suo impero, e restarvi. Finora abbiamo mostrata l’opera più che l’artefice: l’opera esteriore e generale, più che l’opera intima e particolare; il corpo piuttosto che l’anima. Or’è d’uopo far conoscere in se stessa quest’Anima divina dell’uomo e del mondo: questo Spirito Creatore, a cui il cielo e la terra van debitori del loro splendido ammanto: questo Spirito vivificatore, che ci nutre come l’aria, che ci circonda come la luce: questo Spirito santificatone, autore del mondo della grazia e delle sue magnifiche realtà. E si vogliono spiegare le moltiformi sue operazioni nell’ordine della natura e nell’ordine della grazia, si nell’Antico come nel Nuovo Testamento. – Teologica, acciocché sia esatta; semplice e in certo modo catechetica, acciocché la verità sia nelle mani del Sacerdote un pane più facile a rompere alle menti men forti e capaci, tale dev’essere la seconda parte del nostro lavoro. La quale, diciamolo schiettamente, è, più ancor della prima, superiore alle nostre forze. Vi ci accingiamo tuttavia, confortati nella nostra debolezza da due cose: cioè dalla benevola indulgenza delle persone illuminate, le quali intendono la difficoltà di tale lavoro; e dalla infinita bontà di Colui per cui lavoriamo: Da mihi sedium tuarum assistricem saptentiamut im eum sit et mecum làboret [Sap., IX, 4].

FINE DEL PRIMO VOLUME.

FESTA DELL’ANNUNCIAZIONE (2019)

ANNUNZIAZIONE DI MARIA

[A. Carmignola: La porta del cielo – S. E. I. ed. – Torino, 1895]

DISCORSO X

L’Annunziazione di Maria.

Il grande S. Agostino considerando la sublimità della prima pagina del Vangelo di S. Giovanni, ove è dichiarata l’eterna e inenarrabile generazione del Verbo, desiderava che una tal pagina fosse stata scolpita a lettere d’oro in tutte le chiese del mondo. Ma quella pagina così sublime ha un degnissimo riscontro in un’altra pagina del Vangelo di S. Luca, ove si narra del Divin Verbo la generazione umana, o dirò meglio in qual tempo, in qual luogo ed in qual modo il Figliuolo di Dio, che è generato dal Padre da tutta l’eternità, siasi incarnato nel seno purissimo di una Vergine per abitare in mezzo a noi. Questa pagina, che si potrebbe riguardare come la più bella tra le pagine infinite, scritte per narrare la storia umana, devesi senza dubbio riguardare come la più importante. Difatti la scena umile e sublime ad un tempo dell’Annunziazione di Maria, che ivi è narrata, è l’autentica rivelazione del più profondo consiglio della SS. Trinità, e l’avveramento di quell’unione tanto necessaria della misericordia con la verità, della giustizia con la pace, è il termine della prima alleanza ed il principio del nuovo Testamento. Le figure scompaiono per dar luogo alla realtà, le grandi profezie si adempiono, la religione assume in terra la sua forma più perfetta e Dio prendendo da Maria l’umana carne comincia a far apparire la luce, a diffondere la grazia, a portare la libertà, a vincere la morte e a donarci la vita. Ecco il complesso delle grandezze del mistero dell’Annunziazione, il primo e l’unico un po’ diffuso che il Vangelo ci presenti della vita di Maria. Noi tuttavia lasciando da parte ogni altra considerazione, ci contenteremo oggi di studiare questo mistero solo in relazione a Maria e ci adopreremo a conoscere l’infinita grandezza, che racchiude per lei:

1° Per l’onore che le vien reso.

2° Per l’ossequio che ella presta a Dio.

3° Per il ricambio che ne riceve.

I. — Pur troppo l’onore, che noi giustamente tributiamo a Maria, non solo è contestato dai poveri protestanti, ma eziandio da certi Cristiani, che, smarrita la fede, arrivano al punto di chiamare la nostra divozione per Lei follia e superstizione. Ciechi che sono! E chi dunque fu tra noi primo a darne l’esempio? Chi primo incominciò ad onorare questa Vergine Immacolata? Forse qualche femminetta, tratta dalla semplicità del suo cuore? Forse qualche tenera madre, che vedendo il suo pargoletto in pericolo si pensò d’implorare per la prima la Madre di Gesù, nella dolce illusione, che madre Ella stessa si sarebbe dato pensiero della sua materna afflizione? Forse fu un moribondo alle prese con la morte, che il primo pregò la madre del dolore ad assisterlo nell’ultima sua agonia? No; Egli è un ben più grande, un ben più alto personaggio. E quale? Un Padre della Chiesa? Un apostolo di Gesù Cristo? Un profeta inspirato dallo Spirito Santo? Più, più ancora. Egli non è già un debole mortale, un abitatore di questa terra di esilio, ma un abitatore del cielo, più che un santo Padre, più che un apostolo, più che un profeta, egli è uno di quegli spiriti beati, che veggono del continuo Iddio a faccia a faccia, una di quelle celesti intelligenze che notte e giorno ritte dinnanzi al trono del tre volte santo, cantano senza fine le sue eterne lodi. Egli è un Angelo dell’Altissimo, e non solo uno degli ordini inferiori, ma uno dei possenti capitani della milizia celeste, uno dei principi della corte del Re dei re, quegli che Iddio ha destinato ai più grandi annunzi, che cinquecento anni prima aveva ammaestrato Daniele intorno all’epoca precisa in cui nascerebbe il Messia, che da poco tempo aveva accertata a Zaccaria la nascita miracolosa del precursore di Cristo, in una parola egli è l’Arcangelo Gabriele. E in qual congiuntura questo principe degli eserciti del Signore presenta egli pel primo i suoi omaggi alla Vergine benedetta? Forse allora che ella entra trionfante nel cielo il giorno della sua gloriosa assunzione, quando le porte eternali si aprirono dinanzi a Lei come dinanzi alla Regina degli uomini e degli Angeli? No, ma allora, che Ella ancor viveva nella solitudine, ignota agli altri ed a se stessa, in una povera casa, in una città antica, sì, ma oscura e screditata. Ma forseché questo beato Arcangelo sia venuto ad onorare Maria di proprio volere o così alla ventura? No, egli viene in nome di tutti gli Angeli e gli Arcangeli; in nome di tutti i Troni e di tutte le Dominazioni, in nome di tutte le Virtù, di tutti i Principati e di tutte le Podestà, in nome di tutti i Cherubini e di tutti i Serafini. Che dico io? Egli viene in nome della santissima ed adorabile Trinità. Sì, egli è a nome di Dio e di tutta la corte celeste, che Gabriele si presenta a Maria. Fu mandato l’Angelo Gabriele da Dio, così narra S. Luca (I. 26), ad una città della Galilea chiamata Nazaret, ad una Vergine il cui nome era Maria: Missus est Angelus Gabriel a Deo, m civitatem Galilææ cui nomen Nazareth ad Virginem et nomen Virginis Maria. E finalmente come la saluta? Ecco. Ed entrato da Lei, prosegue l’evangelista, le disse: Ave, piena di grazia, il Signore è teco, tu sei benedetta fra tutte le donne: Ave, grafia piena, Dominus tecum, benedicta in mulieribus. « Ave » vale a dire ti riverisco, ti onoro, ti fo mille ossequi. « Piena di grazia » perché con unico privilegio fosti da Dio preservata da ogni peccato, persino dall’originale e sollevata a tale altezza di grazia da superare noi medesimi tutti. « Il Signore è teco »cioè come in nessun’altra persona per effetto di inaudita manifestazione di potenza, di sapienza, di bontà e di amore. « Benedetta fra le donne » vale a dire più benedetta di Eva innocente, di Sara, di Rebecca, di Anna, di Giuditta, di Ester, di quante grandi donne ti hanno preceduta e ti seguiranno, benedetta infine, perché tu stessa sei una benedizione, essendo che per te saranno benedette tutte quante le tribù della terra. Questo fu il saluto dell’Angelo. E dopo tutto questo vi sarà ancora chi ardisca di chiamare follia e superstizione l’onore, che noi rendiamo a Maria? Ma chi l’onora di più fra noi e Dio? Chi più la riverisce e la esalta? Riconoscendo pertanto l’onore altissimo, che Dio stesso per mezzo dell’Angelo ha reso a Maria in questo mistero della sua Annunziazione, gloriamoci di essere nel numero di coloro, che seguono un sì sublime esempio e non sia mai che lo scherno dei nostri infelici fratelli ci trattenga o ci impedisca dal rendere a Maria quegli onori, che ella si merita.

II — Il Mistero dell’Annunziazione di Maria grande anzi tutto per 1′ onore che le vien reso è grande in secondo luogo per 1’ossequio, che Ella presta a Dio. Ed invero se l’Arcangelo Gabriele è mandato a Lei da Dio medesimo non è solamente perché le faccia un onorifico saluto, ma per qualche cosa di ben più importante, per trattare cioè con Lei dell’esecuzione di quell’eterno disegno, che doveva riparare al passato, al presente, ed al futuro, fare stupire gli Angeli, gli uomini ed i demoni, consolare la terra, riaprire il cielo, e confondere l’inferno. È mandato a Lei per trattare dell’adempimento di quella promessa di misericordia, che formò l’unica speranza di Adamo e di Eva nella loro caduta, l’unico intento di tutti i desideri dei patriarchi, di tutte le predizioni dei profeti, l’aspettazione generale di tutte le genti, la gioia del cielo, il terrore dell’abisso, per trattare dell’Incarnazione del Figliuolo di Dio e della Redenzione degli uomini. Difatti a Maria, che per umiltà si turba per il suo saluto l’Angelo dice prontamente di non temere, poiché avendo trovato grazia presso Dio, ella concepirà e darà alla luce un Figlio che sarà il Salvatore del mondo. Ed a Maria, che oppone il voto di verginale purezza, col quale si è consacrata a Dio, scioglie ogni difficoltà rispondendole: « Lo Spirito Santo sopravverrà in te, e la virtù dell’Altissimo ti adombrerà: epperò quegli, che nascerà da te il Santo, sarà chiamato Figliuolo di Dio ». Ecco adunque Iddio e Maria, per così dire, faccia a faccia, cuore a cuore; da una parte Iddio, che guarda Maria e a lei si offre e cogli inviti e cogli stimoli, lasciandole tuttavia una piena libertà di accettare o no l’altissima dignità di essere Madre di Dio e per conseguenza il sublime sacrificio di cooperatore a redimere il genere umano, dall’altra parte Maria, che umiliata, attonita, raccolta sta per mandare dal cuore alle labbra la risposta, che sia più degna di Dio. Finché tace, tutto è sospeso. Alla proposta di Dio, fatta dall’Angelo, Ella può dire di sì, e può dire di no. E da questo sì e da questo no dipende tutto il compimento degli eterni consigli di Dio tutto il bene per il genere umano. Qual momento solenne e decisivo! Ah se l’umano genere sapesse che cosa succede e quali destini si trattino tra l’augusta Trinità e questa Vergine fanciulla, quale commozione lo sorprenderebbe e quali grida di supplichevole angoscia, di appassionato e ardente desiderio sfuggirebbero dalle sue viscere! O Vergine, o Donna, o sorella, tu hai nelle tue mani la nostra vita e la nostra morte, la nostra eterna felicità e la nostra disperata rovina. Tu sei adunque l’unica nostra speranza. Deh! Non ci illudere, non ci abbandonare. È vero la maternità, che t i viene offerta, ti impone carichi schiaccianti, fatiche senza pari e dolori insoffribili, ma

pure abbi pietà di noi. Di’, di’ adunque quel sì per noi indispensabile; apriti o porta del cielo; o stella del mattino brilla sul nostro orizzonte, ed annunziaci l’aurora del sole di giustizia! Così immagina S. Bernardo, che avrebbe gridato il mondo a Maria se avesse conosciuto quel che si trattava tra Dio e Lei in quell’istante. E Maria che risponderà Ella? Umile, serena, forte, soave e candida ella risponde col dire: Ecco l’ancella del Signore si faccia di me secondo la tua parola: ecce anelila Domini, fiat mihi seenndum verbum tuum. Oh risposta sopra ogni immaginazione ammirabile! Da quattro mila anni il cuore di Dio è oppresso; da quattro mila anni trattenuto dalla sua sapienzae legato dalla sua giustizia, il Signore aspettal’ora e il mezzo di avere pietà di noi e farci provare l’infinito suo amore e Maria col dire: « Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondola tua parola », pone in mano a Dio questo mezzo, e gli fa suonare quest’ora. No! giammai, né prima né dopo, né dall’uomo, né dall’Angelo, venne reso a Dio un ossequio, una gloria, una gioia più grande, perché giammai dalle sue creature venne fatto a Dio un’oblazione più grande, più libera, più totale di quella, che fece allora Maria nel pronunciare quel fiat, neldare quella risposta.

III. — Ma quale ricambio riceve Maria al suo ossequio! Non appena ella finisce di parlare che la Divinità le è sopra e la invade. In meno che il lampo squarcia la nube, lo Spirito Santo forma dal sangue di Maria un corpo umano perfetto sì animato da un’anima perfetta, creata in questo corpo dal Padre onnipotente; e il Figlio si unisce personalmente a quest’anima, che rende beata nella sua cima e a questo corpo, al quale conserva tutta la sua passibilità. Il mistero è dunque compiuto; la Vergine è madre, il Verbo è fatto carne ed abita in mezzo a noi; Dio è un uomo; un uomo è Dio. E così Iddio ha in Gesù Cristo il Figlio delle sue compiacenze ed in Maria ne ha la Figlia, la creazione ha in Gesù Cristo il suo Re ed in Maria la sua Regina, gli Angeli hanno in Gesù Cristo il loro sovrano, ed in Maria la loro sovrana, gli uomini hanno in Gesù Cristo il loro Redentore ed in Maria la loro Corredentrice, la Chiesa ha in Gesù Cristo il suo capo ed in Maria la sua protettrice, i miseri peccatori hanno in Gesù Cristo il loro avvocato ed in Maria la loro avvocata, insomma Gesù Cristo è il Figliuol di Dio ed il Figliol di Maria, Maria è la Madre di Gesù Cristo e la Madre di Dio. E qual ricambio maggiore poteva ricevere Maria dell’ossequio da lei prestato a Dio? Qual premio più grande poteva Ella toccare per l’umiltà, per la fede, per l’amore, per la conformità al divino volere, per la totale donazione di se stessa a Dio, addimostrata nella sua risposta all’Angelo? Non è egli vero insomma, che questo mistero dell’Annunziazione anche per l’ossequio che Maria presta a Dio e per il ricambio che Iddio ne fa a Maria, è per Lei un mistero sommamente grande? Ma tutto ciò, sebbene sia sempre per noi uno fra i più meravigliosi ed incomprensibili misteri, non deve tuttavia passare senza che ne abbiamo a ricavare un importante profitto. – Noi tutti, dal Papa e dal Monarca all’operaio della città e al pastore dei campi, benché esternamente di condizioni diverse ed eziandio ineguali, rimaniamo sempre uguali e simili in ciò che siam servi di Dio. Come tutti siamo fattura delle sue mani e di tutti Egli è il Fattore, perciò tutti senza distinzione di sorta gli apparteniamo e dobbiamo essere ai suoi cenni. Or bene riconoscendo questa verità, che ha da essere la legge maestra della nostra vita, noi dobbiamo eziandio essere sempre pronti a rispondere a Dio come fece la Vergine: Eccomi, si faccia di me secondo la tua parola. Signore, Voi con la vostra legge, col vostro Vangelo, con la vostra Chiesa, coi vostri ministri, con la vostra ispirazione, vi degnate di farmi sentire la vostra parola; ebbene si faccia di me, come Voi avete detto. Voi mi dite che io preghi, ed io pregherò; Voi mi dite che io lavori ed io lavorerò, Voi mi dite che io combatta ed io prenderò le armi somministratemi dalla vostra grazia e combatterò; Voi mi dite che io soffra e sebbene ciò mi costi sacrificio, dirò tuttavia: Eccomi, o Signore, son qua per bere il calice del dolore, per portare la croce della tribolazione. E quando infine voi mi direte, che io mi disponga a lasciare il mondo per entrare nel seno dell’eternità ed io vincendo tutte le ripugnanze della inferma natura mi disporrò. Sarà l’ultimo « eccomi » che io pronuncerò, sarà l’ultima oblazione, che io vi farò, dietro alla quale verrà il vostro ricambio, la vostra mercede ed oh quale mercede! quella stessa che è toccata alla Vergine, poiché voi l’avete solennemente giurato e il vostro giuramento non verrà meno in eterno: Ego… merces tua magna nimis(Gen. XV, 10). – Io, io stesso sarò la tua eterna ricompensa. Oh noi felici se ai voleri di Dio daremo sempre questa risposta. E sull’esempio di Maria e per amor di Maria noi la daremo senza dubbio, sicché l’anima nostra d’ora innanzi non ripeterà più altro a Dio che questo cantico: Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola: Ecce ancilla Domini, fiat mini secundum verbum tuum!

Esempio e preghiera.

Quella illustre Compagnia di Gesù, che rese mai sempre alla Chiesa tanto segnalati servizi, può ben a ragione ricordare la sua prima origine in quel giorno, che la Chiesa consacra ogni anno a ricordare il mistero dell’Annunziazione di Maria. S. Ignazio di Loyola fin dai più teneri anni aveva sentito desiderio di acquistar fama e gloria, poi si era dato alla milizia, aveva mostrato valore; ma pur troppo aveva ceduto al giogo della schiavitù dei vizi. Pur non tralasciava di praticare certe sue divozioni a Maria Santissima ed al principe degli Apostoli S. Pietro. Intanto nella carriera militare saliva di grado in grado, sino a che gli fu assegnato un posto assai onorevole per sostenere l’assedio di Pamplona contro le soldatesche Francesi di Francesco I. Ma né il valor delle milizie Spagnole, né il coraggio di Ignazio valse a sorreggere quella città e fortezza; e Ignazio, che si esponeva ai più ardui rischi, ebbe ferita la gamba sinistra da alcune scaglie di pietra e fracassata la destra da una palla. In tale stato fu dapprima recato al quartiere generale dei Francesi, fu medicato e poi trasportato a Loyola; ma le ferite parevano minacciar cancrena e si temé fortemente pe’ suoi giorni. Senonché la notte della festa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo provò un mirabile miglioramento, il che si ebbe per una grazia del Principe degli Apostoli. Quindi volle sottomettersi al taglio di un nodo osseo, che nella cura si era formato sopra il ginocchio destro e lo rendeva deforme; la quale operazione lo trattenne sebbene quasi sano nel resto della persona, lungamente a letto. Per passare il tempo, chiese che gli si portasse un romanzo o qualche narrazione cavalleresca; ma buon per luì, che in casa sua non si trovavano cotali libri! Sì che gli si recarono la vita di Gesù Cristo e le vite dei Santi. Ma Ignazio preso affetto a questa lettura si trovò mutato in un altro da quello che era; non più stimava la gloria mondana, ma anzi reputava indegni di un giovane Cristiano i mondani affetti: insomma aveva risoluto di farsi santo. Appena guarito sparì di Loyola, andò al famoso santuario della Vergine di Monserrato per ringraziarla di quel benefizio, che da Lei massimamente riconosceva. Ed ivi fatta la confessione generale delle sue colpe e ricevuto Gesù nella Santa Comunione, per pegno di addio al mondo appese la sua spada dinanzi all’immagine di Maria. Or bene quello era il giorno 25 Marzo del 1522, sacro all’Annunziazione di Lei. Dopo quel giorno il giovane Ignazio, che aveva corrisposto prontamente ed esattamente alla volontà di Dio, visse veramente da santo e fondata poscia la Compagnia di Gesù, operò mirabili cose per la gloria di Dio e per la salvezza delle anime. Oh grazie veramente magnifiche, che suol fare la Vergine nei giorni a Lei consacrati! Ma e questo mese non è tutto sacro a Maria? Or dunque, per quanto gravi siano le nostre necessità, in questo mese rivolgiamoci con fiducia a Maria e dessa farà sentire anche sopra di noi la sua ammirabile bontà e potenza. A Voi dunque, o Santissima Vergine, noi ricorriamo pieni di speranza in questi bei giorni per implorare il vostro santo aiuto, e per essere ognor più certi di ottenerlo vi facciano oggi con maggior riverenza il saluto, che l’Angelo vi fece in quel giorno che vi annunziò l’Incarnazione del Verbo, e vi diremo perciò: Iddio ti s alvi, o Maria piena di grazia, il Signore è teco e Tu sei benedetta fra tutte le donne:

Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedieta tu in mulieribus.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – MYSTICI CORPORIS (4)

Questa parte della sublime enciclica, gemma magisteriale di S. S. Pio XII, scorre sapientemente tra elementi di solida dottrina e la confutazione di errori sottili, ma proprio per questo, ancora più perniciosi. Ci conviene quindi leggere, rileggere e meditare attingendo da questa fonte di acqua cristallina alla quale abbeverarci per accendere il desiderio della salute spirituale, della eterna felicità e dell’appartenenza al regno dei Cieli.

PIO PP. XII

LETTERA ENCICLICA

MYSTICI CORPORIS CHRISTI (4)

PARTE SECONDA

L’UNIONE DEI FEDELI CON CRISTO

Ci piace ora, Venerabili Fratelli, trattare in modo particolarissimo dell’unione nostra con Cristo nel Corpo della Chiesa. Questo argomento (come giustamente osserva Agostino: cfr. August. Contra Faust. 21, 8; Migne, P. L., XLII, 392) è cosa grande, arcana e divina, e perciò spesso avviene che da alcuni sia compreso e spiegato male. Anzitutto è chiaro che quest’unione è strettissima. Infatti, nella Sacra Scrittura, vien raffigurata nel vincolo d’un casto matrimonio e paragonata ora all’unità vitale dei tralci con la vite, ora alla stretta compagine del nostro corpo (cfr. Eph. V, 22-23; Jo. XV, 1-5; Eph. IV, 16). Si presenta inoltre nei libri ispirati talmente intima, che antichissimi documenti costantemente tramandati dai Padri e fondati sul detto dell’Apostolo “Egli (Cristo) è il Capo della Chiesa” (Col. I, 18) insegnano che il divin Redentore costituisce con il Suo Corpo sociale una sola Persona mistica, ossia come dice Agostino: tutto Cristo (cfr. Enarr. in Ps., XVII, 51 et XC, 11, 1: Migne, P. L., XXXVI, 154 e XXXVII, 1159). Anzi lo stesso Salvatore nostro nella sua preghiera sacerdotale non dubitò di paragonare tale unione con quella mirabile unità per la quale il Figlio è nel Padre e il Padre è nel Figlio (Jo. XVII, 21-23).

Vincoli giuridici e sociali

Questa nostra compagine in Cristo e con Cristo nasce anzitutto dal fatto che la società cristiana, per volontà del suo Fondatore, è un Corpo sociale perfetto, per cui in essa l’unione deve consistere nel concorso di tutte le membra allo stesso fine. Quanto infatti è più nobile il fine cui questa cooperazione tende, quanto più divina è la fonte dalla quale essa procede, tanto più sublime diventa senza dubbio l’unità. Orbene, il fine è altissimo: continuare cibò la santificazione delle membra dello stesso Corpo, per la gloria di Dio e dell’Agnello che è stato ucciso per noi (Apoc. V, 12-1 3). La fonte è divinissimo: il beneplacito dell’eterno Padre, l’amabile volontà del nostro Salvatore, e specialmente l’interna ispirazione ed impulso dello Spirito Santo negli animi nostri. Se infatti senza lo Spirito Santo non si può produrre neppure un minimo atto che conduca alla salvezza, come possono innumerevoli moltitudini d’ogni popolo e di ogni stirpe aspirare con lo stesso intento alla gloria di Dio uno e trino, se non per le virtù di Colui che procede dal Padre e dal Figlio in un solo eterno amore? – Poiché, come abbiamo detto, questo Corpo sociale di Cristo deve essere visibile per volontà del suo Fondatore, quella cospirazione di tutte le membra deve anch’essa manifestarsi esternamente, sia per mezzo della professione d’una fede, sia per la comunione dei medesimi Sacramenti, sia per la partecipazione dello stesso sacrificio, sia per un’operosa osservanza delle stesse leggi. È poi assolutamente necessario che sia manifestato agli occhi di tutti il Capo supremo, cioè il Vicario di Cristo, dal quale venga efficacemente diretta la cooperazione dei membri al conseguimento del fine proposto. Come, infatti, il divin Redentore inviò il Paraclito Spirito di verità che per suo mandato (cfr. Jo. XIV, 16 e 26) governasse invisibilmente la Chiesa, così ordinò a Pietro e ai suoi Successori che, rappresentando in terra la Sua Persona visibile, governassero la società cristiana.

Virtù teologiche

Ai vincoli giuridici, tali in se stessi da trascendere quelli di qualsiasi altra società umana anche suprema, è necessario aggiungere un’altra ragione di unità proveniente da quelle tre virtù con le quali noi ci uniamo a Dio nel modo più stretto, cioè: la fede, la speranza e la carità cristiane. – Certo, come osserva l’Apostolo, “uno solo è il Signore, una sola la fede” (Eph. IV, 5), quella fede cioè con la quale aderiamo a Dio e a Colui ch’Egli mandò, Gesù Cristo (cfr. Jo. XVII, 8). Quanto intimamente restiamo congiunti a Dio con questa fede, lo insegnano le parole del discepolo prediletto: “Chiunque confesserà che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio” (I Jo. IV, 15). Né siamo meno congiunti tra di noi e col nostro Capo divino, mediante questa fede cristiana. Infatti, tutti i credenti, “avendo il medesimo spirito di fede” (II Cor. IV, 13), siamo illuminati dalla medesima luce di Cristo, siamo nutriti al medesimo convito di Cristo, siamo governati dalla medesima autorità e magistero di Cristo. Ché se fiorisce in tutti il medesimo spirito di fede, tutti anche “viviamo (la stessa vita) nella fede del Figlio che ci amò e diede Se stesso per noi” (cfr. Gal. II, 20). E Cristo nostro Capo, che per la viva fede abbiamo ricevuto in noi ed abita nei nostri cuori (cfr. Eph. III, 17), come è Autore della nostra fede, così ne sarà il perfezionatore (cfr. Hebr. XII, 2). . – Come per mezzo della fede qui in terra aderiamo a Dio, fonte di verità, così per mezzo della speranza cristiana lo desideriamo quale fonte di beatitudine, “attendendo quella beata speranza che è l’apparizione gloriosa del grande Iddio” (Tit. II, 13). Per quel comune desiderio poi del Regno celeste, per cui non vogliamo avere qui sulla terra una dimora permanente ma cerchiamo quella futura (cfr. Hebr. XIII, 14) e aneliamo alla gloria superna, l’Apostolo delle Genti non dubitò di asserire: “Un colpo solo, un solo spirito, come siete stati chiamati in un’unica speranza” (Eph. IV, 4); anzi Cristo risiede in noi come la speranza della gloria (cfr. Col. I, 27). – Ma se i vincoli della fede e della speranza, con i quali siamo congiunti al nostro divin Redentore nel suo Corpo mistico, sono di grandissima importanza, di non minore gravità ed efficienza sono i vincoli della carità. Infatti, se anche in natura è cosa eccellentissima l’amore, dal quale nasce la vera amicizia, che cosa deve dirsi di quell’amore soprannaturale che viene infuso nei nostri cuori dallo stesso Dio? “Dio è carità: e chi sta nella carità, sta in Dio e Dio in lui” (I Jo. IV, 16). La quale carità, quasi per legge istituita da Dio, fa sì che Egli, riamandoci, discenda in noi che Lo amiamo, conforme alle parole divine: “Se uno mi ama…. anche il Padre mio l’amerà e verremo a lui e faremo sosta presso di lui” (Jo. XIV, 23). La carità dunque, più strettamente di qualsiasi altra virtù ci congiunge con Cristo, dal cui celeste ardore infiammati, tanti figli della Chiesa tran gioito nel poter essere oltraggiati per Lui e nell’affrontare sino all’estremo anelito i più ardui sacrifici, anche l’effusione del sangue. Perciò il nostro divin Salvatore ci esorta ardentemente con le seguenti parole: “Perseverate nel mio amore”. E poiché la carità è una cosa inutile e del tutto vuota, se non è attuata e manifestata dalle buone opere, soggiunge: “Se osserverete i miei comandamenti, persevererete nel mio amore, come io stesso ho osservato i comandamenti del Padre e rimango nel suo amore” (Jo. XV, 9-10).

Amore verso il prossimo

È necessario però che all’amore verso Dio e verso Cristo corrisponda l’amore verso il prossimo. Come possiamo infatti asserire di amare il divin Redentore, se odiamo coloro ch’Egli redense col suo Sangue prezioso per farli membra del suo Corpo mistico? Perciò così ci ammonisce l’Apostolo prediletto: “Se uno dirà: io amo Dio e odierà il suo fratello, è mentitore. Infatti, chi non ama il suo fratello che vede, come può amare Dio che non vede? E questo comandamento abbiamo da Dio: che chi ama Dio, ami anche il proprio fratello” (I Jo. IV, 20-21). Anzi, bisogna anche affermare che noi saremo sempre più uniti con Dio e con Cristo, a misura che saremo membri uno dell’altro (Rom. XII, 5) e vicendevolmente premurosi (I Cor. XII, 25); come d’altra parte, quanto più saremo stretti a Dio e al nostro Capo divino con un ardente amore, tanto maggiormente noi saremo compatti ed uniti mediante la carità.

Cristo ci ama con una conoscenza infinita
e una carità eterna

Il Figlio Unigenito di Dio, già prima dell’inizio del mondo, con la sua eterna infinita conoscenza e con un amore perpetuo, ci ha stretti a sé. E perché potesse manifestare tale amore in modo ammirabile e del tutto visibile, congiunse a sé la nostra natura nell’unione ipostatica donde avviene che “in Cristo la nostra carne ami noi”, come, con candida semplicità, osserva Massimo di Torino (Serm. XXIX; Migne, P. L., LVII, 594). – In verità, questa amantissima conoscenza, con la quale il divin Redentore ci ha seguiti sin dal primo istante della sua Incarnazione, supera ogni capacità della mente umana, giacché, per quella visione beatifica di cui godeva sin dal momento in cui fu ricevuto nel seno della Madre divina, Egli ha costantemente e perfettamente presenti tutte le membra del Corpo mistico e le abbraccia col Suo salvifico amore. O ammirabile degnazione della divina pietà verso di noi; o inestimabile ordine dell’immensa carità! Nel presepio, sulla Croce, nella gloria eterna del Padre, Cristo ha presenti e congiunti a Sé tutti i membri della Chiesa in modo molto più chiaro e più amorevole di quello con cui una madre guarda il suo figlio e se lo stringe al seno, e con cui un uomo conosce ed ama se stesso.

La Chiesa «pienezza» di Cristo

Da quanto detto fin qui si vede chiaramente, Venerabili Fratelli, perché l’Apostolo Paolo tanto frequentemente scriva che Cristo è con noi, e noi in Cristo. Il che egli dimostra ancora con una ragione alquanto sottile. Cioè: Cristo, come sufficientemente abbiamo detto sopra, è in noi per il Suo Spirito che ci comunica e per mezzo del quale Egli talmente agisce in noi, da doversi dire che qualsiasi cosa divina si operi nello Spirito Santo in noi, viene operata anche da Cristo (cfr. S. Thom. Comm. in Ep. ad Eph., cap. II, lect. 5).”Se uno non ha lo Spirito di Cristo (dice l’Apostolo), non è dei suoi: se invece Cristo è in voi…, lo spirito vive per effetto della giustificazione” (Rom. VIII, 9-10). – Per la medesima comunicazione dello Spirito di Cristo, avviene poi che la Chiesa sia quasi la pienezza ed il complemento del Redentore, perché tutti i doni, le virtù e i carismi che si trovano eminentemente, abbondantemente ed efficacemente nel Capo, derivano in tutti i membri della Chiesa e in essi si perfezionano di giorno in giorno a seconda del posto di ciascuno nel Corpo mistico di Gesù Cristo: quindi Cristo in certo modo e sotto ogni riguardo Si completa nella Chiesa (cfr. S. Thom., Comm. in Ep. ad Eph., cap. I, lect. 8) Con le quali parole tocchiamo la stessa ragione per cui, secondo il parere già accennato di Agostino, il Capo mistico, che è Cristo, e la Chiesa, la quale rappresenta in terra la sua persona come un altro Cristo, costituiscono un unico nuovo uomo, per il quale, nel perpetuare l’opera salutare della Croce, si congiungono il cielo e la terra: ragione per cui possiamo dire come in sintesi: Cristo, Capo e Corpo, tutto Cristo.

L’inabitazione dello Spirito Santo

Certo, non ignoriamo che nel comprendere e nello spiegare questa dottrina riguardante la nostra unione con il divin Redentore e, in modo particolare, l’inabitazione dello Spirito Santo nelle anime, vi sono velami che l’avvolgono come caligine, a causa della debolezza della nostra mente. Ma sappiamo anche che dalla retta ed assidua indagine di questa materia, dal conflitto delle varie opinioni, dal concorso delle diverse teorie, purché in tale indagine siamo diretti dall’amore della verità e dal debito ossequio verso la Chiesa, scaturiscono e balzano fuori preziosi lumi, per mezzo dei quali si fa un vero profitto negli studi sacri di questo genere. Non biasimiamo quindi coloro che intraprendono diverse vie e metodi per trattare ed illustrare con ogni sforzo l’altissimo mistero di questa nostra unione con Cristo. Però tutti abbiano questo per certo ed indiscusso, se non vogliono allontanarsi dalla genuina dottrina e dal retto insegnamento della Chiesa: respingere cioè, in questa mistica unione, ogni modo con il quale i fedeli, per qualsiasi ragione, sorpassino talmente l’ordine delle creature ed invadano erroneamente il campo divino, che anche un solo attributo di Dio eterno possa predicarsi di loro come proprio. Inoltre fermamente e con ogni certezza ritengano che in queste cose tutto è comune alla Santissima Trinità, in quanto tutto riguarda Dio quale suprema causa efficiente. – Devono anche aver presente che in questo argomento si tratta di un mistero occulto, il quale, in questo terrestre esilio, non può mai essere intravveduto libero da ogni velame, né può mai essere espresso da lingua umana. Si dice che le Persone divine inabitano, in quanto che, presenti in modo imperscrutabile negli esseri dotati di intelletto, questi si pongono con esse in relazione mediante la conoscenza e l’amore in un modo del tutto intimo e singolare che trascende ogni natura creata. Per tentare di comprendere alquanto questo modo, bisogna aver presente il metodo tanto raccomandato dal Concilio Vaticano nelle cose di tal genere, per cui si paragonano gli stessi misteri tra di loro e col loro fine supremo, sforzandosi di attingere quel tanto di luce che faccia almeno intravvedere gli arcani divini. Quindi opportunamente il sapientissimo Nostro Predecessore Leone XIII di felice memoria, parlando di questa nostra unione con Cristo e del divin Paraclito inabitante in noi, volge gli occhi a quella beata visione con la quale un giorno questa mistica unione otterrà il suo compimento nel cielo; e dice: “Questa mirabile unione, detta con nome suo proprio inabitazione, si differenzia da quella con cui Iddio abbraccia e fa beati i celesti, soltanto per la nostra condizione (di viatori sulla terra)”. In quella celeste visione, sarà concesso agli occhi della mente umana rinvigoriti da luce soprannaturale di contemplare in maniera del tutto ineffabile il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, di assistere per tutta l’eternità al procedere delle divine Persone l’Una dall’Altra, beandosi di un gaudio molto simile a quello con cui è beata la santissima e indivisa Trinità.- Quanto finora abbiamo esposto di questa intima unione del Corpo mistico di Gesù Cristo col suo Capo, ci parrebbe imperfetto, se qui non aggiungessimo almeno poche parole intorno alla santissima Eucaristia, con la quale una siffatta unione in questa vita mortale raggiunge il grado più alto.

L’Eucarestia segno di unità

Gesù Cristo volle che questa mirabile unione, mai abbastanza lodata, per la quale veniamo congiunti tra di noi e col divino nostro Capo, si manifestasse ai credenti in modo speciale per mezzo del Sacrificio eucaristico. In esso infatti i ministri dei Sacramenti non solo rappresentano il Salvatore nostro, ma anche tutto il Corpo mistico e i singoli fedeli; in esso i fedeli, uniti al sacerdote nei voti e nelle preghiere comuni, per le mani dello stesso sacerdote offrono all’eterno Padre, quale ostia gratissima di lode e di propiziazione per i bisogni di tutta la Chiesa, l’Agnello immacolato, dalla voce del solo sacerdote reso presente sull’altare. – E come il divin Redentore, morendo in Croce, offrì all’eterno Padre Se stesso quale Capo di tutto il genere umano, così “in quest’oblazione pura” (Mal. I, 11), non offre quale Capo della Chiesa soltanto Se stesso, ma in Se stesso offre anche le sue mistiche membra, poiché Egli nel Suo Cuore amantissimo tutte le racchiude, anche se deboli ed inferme. – Il Sacramento dell’Eucaristia, vivida e mirabile immagine dell’unità della Chiesa in quanto il pane da consacrarsi deriva da molti grani che formano una cosa unica (cfr. Didaché, IX, 4), ci dà lo stesso Autore della grazia santificante, affinché da Lui attingiamo quello Spirito di carità con cui viviamo non già la nostra vita ma la vita di Cristo, e in tutti i membri del Suo Corpo sociale amiamo lo stesso Redentore. – Se dunque, nelle tristissime circostanze in cui ora versiamo, vi sono moltissimi i quali aderiscono talmente a Gesù Cristo nascosto sotto i veli eucaristici da non poter essere separati dalla sua carità né dalla tribolazione né dall’angoscia né dalla fame né dalla nudità né dal pericolo né dalla persecuzione né dalla spada (cfr. Rom. VIII, 35), allora senza dubbio la sacra Comunione, non senza consiglio del provvidentissimo Iddio ritornata in questi ultimi tempi d’uso frequente anche per i fanciulli, potrà diventare fonte di quella fortezza che non raramente suscita e fomenta anche eroi cristiani.

PARTE TERZA

ESORTAZIONE PASTORALE

ERRORI DELLA VISTA ASCETICA

Venerabili Fratelli, se i Cristiani comprenderanno piamente e rettamente queste cose e diligentemente le riterranno, più facilmente potranno guardarsi anche da quegli errori che, con grande pericolo della fede cattolica e turbamento degli animi, scaturiscono dall’investigazione, da alcuni arbitrariamente intrapresa, di questa difficile materia.

Falso «misticismo»

Infatti non mancano coloro i quali non considerano abbastanza metaforicamente e senza distinguere (com’è assolutamente necessario) i significati particolari e propri di corpo fisico, di corpo morale, di Corpo mistico, e quindi danno di questa unione una spiegazione pervertita. Costoro fanno unire e fondersi in una stessa persona fisica il divin Redentore e le membra della Chiesa: e mentre attribuiscono agli uomini cose divine, fanno Gesù Cristo soggetto ad errori e a debolezze umane. Dalla falsità di questa dottrina ripugnano la fede cattolica e i precetti dei Santi Padri, rifuggono la mente e la dottrina dell’Apostolo delle Genti, il quale, sebbene congiunga tra loro con mirabile fusione Cristo e il Corpo mistico, tuttavia oppone l’uno all’altro come lo Sposo alla Sposa (cfr. Eph. V, 22-23).

Falso «quietismo»

Non meno lontano dalla verità è il pericoloso errore di coloro che dall’arcana unione di noi tutti con Cristo si studiano di dedurre un certo insano quietismo, con il quale tutta la vita spirituale dei Cristiani e il loro progresso nella virtù vengono attribuiti unicamente all’azione del divino Spirito, escludendo cioè e tralasciando da parte la nostra debita cooperazione. Nessuno certamente può negare che il Santo Spirito di Gesù Cristo sia l’unica fonte donde promana nella Chiesa e nelle sue membra ogni forza superna. Infatti, come: dice il Salmista, “il Signore largisce grazia e gloria” (Psal. LXXXIII, 12). Ma che gli uomini perseverino costantemente nelle opere di santità, che progrediscano alacremente nella grazia e nella virtù, che infine non soltanto tendano strenuamente alla vetta della perfezione cristiana, ma spingano secondo le proprie forze anche gli altri a conseguire la medesima perfezione, tutto questo, lo Spirito celeste non vuoi compierlo se gli stessi uomini non cooperano ogni giorno con diligenza operosa. “Infatti — come osserva Ambrogio — i benefici divini non vengono trasmessi a chi dorme, ma a chi veglia” (Expos. Evang. sec. Luc., IV, 49; Migne, P. L., XV, 1626). Poiché, se nel nostro corpo mortale le membra si corroborano e si sviluppano con ininterrotto esercizio, molto più ciò accade nel Corpo sociale di Gesù Cristo, nel quale le singole membra godono di una propria libertà, coscienza, azione. Perciò chi disse: “Vivo, non più io, ma vive in me Gesù” (Gal. II, 20), quello stesso non dubitò di asserire: “La grazia di Lui, cioè di Dio, verso di me non fu cosa vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non già io, ma la grazia di Dio con me” (I Cor. XV, 10). Quindi è chiarissimo che in queste fallaci dottrine, il mistero di cui trattiamo non sarebbe diretto allo spirituale profitto dei fedeli, ma si volgerebbe miseramente alla loro rovina.

Errori circa la confessione sacramentale e l’orazione

Da tali false asserzioni proviene anche che alcuni asseriscano non doversi molto inculcare la frequente confessione dei peccati veniali, poiché meglio si adatta quella confessione generale che ogni giorno la Sposa di Cristo con i suoi figli a sé congiunti nel Signore fa per mezzo dei sacerdoti sul punto di ascendere all’altare di Dio. È vero che in molte lodevoli maniere, come voi o Venerabili Fratelli, ben conoscete, possono espiarsi questi peccati, ma per un più spedito progresso nel quotidiano cammino della virtù, raccomandiamo sommamente quel pio uso, introdotto dalla Chiesa per ispirazione dello Spirito Santo, della confessione frequente, con cui si aumenta la retta conoscenza di se stesso, cresce la cristiana umiltà, si sradica la perversità dei costumi, si resiste alla negligenza e al torpore spirituale, si purifica la coscienza, si rinvigorisce la volontà, si procura la salutare direzione delle coscienze e si aumenta la grazia in forza dello stesso Sacramento. Quelli dunque che fra il giovane clero attenuano o estinguono la stima della confessione frequente, sappiano che intraprendono cosa aliena dallo Spirito di Cristo e funestissima al Corpo mistico del nostro Salvatore. – Vi sono inoltre alcuni i quali o negano alle nostre preghiere ogni vera efficacia d’impetrazione, ovvero si sforzano d’insinuare nelle menti che le suppliche rivolte a Dio in privato bisogna ritenerle di poco valore, mentre piuttosto quelle pubbliche usate nel nome della Chiesa realmente valgono come quelle che partono dal Corpo mistico di Gesù Cristo. Ciò è affatto erroneo: poiché il divin Redentore non ha a Sé strettissimamente congiunta soltanto la Sua Chiesa, quale amatissima Sposa, ma in essa, anche gli animi dei singoli fedeli, con i quali desidera ardentemente trattenersi in intimi colloqui, specialmente dopo che si sono accostati alla mensa eucaristica. E benché la preghiera collettiva, come procedente dalla Madre Chiesa, superi tutte le altre per la dignità della Sposa di Cristo, pure tutte le preghiere, dette anche in forma privatissima, non sono prive di dignità né di virtù e conferiscono moltissimo anche all’utilità di tutto il Corpo mistico, in quanto che tutto ciò che si compie di bene e di retto dai singoli membri ridonda anche in profitto di tutti, grazie alla Comunione dei Santi. Né ai singoli uomini, appunto perché membra di questo Corpo, si vieta di chiedere per se stessi grazie speciali anche per quanto riguarda la vita presente, serbando tuttavia la conformità alla volontà di Dio: essi infatti rimangono persone libere e soggette ai propri individuali bisogni (cfr. S. Thom. II-II, q. 83, a. 5 et 6). Quanto poi debbano tutti grandemente stimare la mediazione delle cose celesti, è comprovato non soltanto dai documenti della Chiesa ma anche dall’uso e dall’esempio di tutti i Santi. – Certuni infine dicono che le nostre preghiere non devono essere dirette alla stessa Persona di Gesù Cristo, ma piuttosto a Dio o all’eterno Padre per mezzo di Cristo, poiché il nostro Salvatore, in quanto Capo del suo Corpo mistico, dov’essere considerato semplicemente “mediatore di Dio e degli uomini” (I Tim. II, 5). Ma ciò non solo si oppone alla mente della Chiesa e alla consuetudine dei Cristiani, ma offende anche la verità. Cristo infatti, per parlare con esatto linguaggio, è Capo di tutta la Chiesa (cfr. S. Thom. De Veritate, q. 29, a. 4, c.) secondo l’una e l’altra natura insieme, la divina e l’umana, e del resto Egli stesso asserì solennemente: “Se mi domanderete qualche cosa in mio nome, Io lo farò” (Jo. XIV, 14). E sebbene le preghiere sian rivolte all’eterno Padre per mezzo del suo Unigenito di preferenza nel Sacrificio eucaristico, nel quale Cristo, essendo Egli stesso Sacerdote ed Ostia, compie in modo speciale l’ufficio di conciliatore, tuttavia non poche volte e persino nello stesso santo Sacrificio, si usano preghiere rivolte allo stesso divin Redentore, giacché tutti i Cristiani devono conoscere e comprendere chiaramente che l’uomo Gesù Cristo è lo stesso Figlio di Dio e il medesimo Dio. Anzi, mentre la Chiesa militante adora e prega l’Agnello incontaminato e la sacra Ostia, sembra che in certo modo risponda alla voce della Chiesa trionfante che canta in eterno: “A colui che siede sul trono e all’Agnello, la benedizione e l’onore e la gloria e il potere per i secoli dei secoli” (Apoc. V, 13).