CONOSCERE SAN PAOLO (55)

CAPO II

I Novissimi.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

IV. LA CONSUMAZIONE DELLE COSE.

1. IL REGNO DI DIO E DEL CRISTO. — IL TERMINE FINALE.

1. Il regno di Dio, questo punto così saliente della predicazione sinottica, prende nel resto del Nuovo Testamento, e particolarmente in san Paolo, un altro carattere: è una differenza di orientamento che facilmente si spiega. Al principio della nostra èra, si sapeva di essere alla vigilia del giorno in cui si dovevano compiere le profezie che annunziavano la venuta del re discendente di Davide, il quale avrebbe fatto rifiorire con un maggiore splendore la teocrazia d’Israele ed avrebbe fondato su la terra il regno della pace, della giustizia e della santità. Bisognava dunque che Gesù, se voleva farsi riconoscere per Messia, rivendicasse a sé la dignità regale, spiegando la natura spirituale del regno che veniva a stabilire. So benissimo che, quasi senza eccezione, gli scritti del rabbinismo, tutti posteriori al Vangelo, non mettono « il regno di Dio » in connessione diretta con le speranze messianiche; con questa espressione essi indicano il governo divino nel mondo e non tanto l’impresa di Dio su le anime, quanto la libera accettazione del « giogo della Legge » mediante la professione di fede ebraica (Lagrange: Le messianisme chez les Juifs, Paris, 1909). Ma di queste due cose l’una è la vera: o la disgiunzione del regno di Dio e del regno del Messia era generale nel fariseismo contemporaneo, e importava sommamente che Gesù Cristo correggesse quella falsa idea tanto pregiudizievole alla riuscita della sua missione; oppure essa fu suggerita più tardi ai rabbini dal loro spirito di ostilità contro il Cristianesimo, e allora si capisce meglio perché la dottrina evangelica del regno di Dio non sollevò, nei primi tempi, nessuna obbiezione di principio. In qualunque ipotesi, l’annunzio del regno doveva essere un articolo fondamentale della predicazione di Gesù, durante quella fase del ministero pubblico che è caratterizzata dall’insegnamento delle parabole e che i Sinottici espongono con cura speciale. – Ma questa dottrina passa in secondo ordine quando l’idea cristiana del regno di Dio si trova realizzata nella Chiesa. Se ancora si dice per abitudine « predicare il regno (Act. I, 3; VIII, 12, etc.) », come si direbbe « predicare il Vangelo », si bada ad evitare i malintesi e a non urtare le suscettibilità dell’autorità romana, trasportando il regno fuori della sfera in cui si agitano gl’interessi di questo mondo. Per questo san Paolo, pure facendo un uso frequente di tale espressione, le dà quasi sempre un senso escatologico. « Gli ingiusti, i ladri, non erediteranno il regno di Dio »; gl’impuri, gl’idolatri « non hanno parte nel regno del Cristo e di Dio »; la persecuzione ci « rende degni del regno di Dio », che « la carne e il sangue non possono ereditare ». Sotto questo aspetto, il regno di Dio comincia al ritorno trionfale del Cristo e s’identifica con la vita eterna. Ma non sempre è così: il regno di Dio esiste già per noi; noi lo possediamo anticipatamente, come possediamo la vita, la redenzione, la salvezza e la gloria, in uno stato d’imperfezione che non esclude la realtà. Si può prendere nel senso escatologico la vocazione con cui Dio ci chiama « al suo regno ed alla sua gloria », ma non l’atto con cui ci ha « trasferiti nel regno del suo Figlio prediletto ». Qualche volta il senso è più oscuro: « Il regno di Dio, dice l’Apostolo, non è il mangiare e il bere, ma è giustizia e pace e gioia nello Spirito Santo (Rom. XIV, 17) ». Qui evidentemente non è la società dei fedeli, né molto meno la società dei santi del cielo, quello che Paolo vuole indicare; ma è piuttosto il regno di Dio come si presenta negli scritti dei rabbini: appena appena si modificherebbe il senso, se si sostituisse al regno il Vangelo o il Cristianesimo. Così pure « il regno di Dio non è in parole ma in (opere di) forza (I Cor. IV, 20) »; esso non consiste nel parlare molto, come facevano gli agitatori di Corinto, ma nell’agire con vigore, come Paolo si propone di fare al suo ritorno. Insomma, il regno di Dio indica ordinariamente la vita eterna dove i giusti regneranno con Gesù Cristo; più raramente, la Chiesa militante dove essi lottano per lui; qualche volta, l’essenza ed i princìpi direttivi del Vangelo. Per san Paolo, come per gli Evangelisti, il regno di Dio è anche il regno del Cristo. La fondazione del regno è lo scopo della missione redentrice; e raggiunto tale scopo, il mandato del Salvatore cessa: « Poi la fine, quando rimetterà il regno al Dio e Padre, dopo di aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e (ogni) virtù. Poiché bisogna che Egli regni finché abbia messo sotto i suoi piedi tutti i suoi nemici. L’ultimo dei nemici resi impotenti sarà la morte… Ma quando tutto gli sarà stato assoggettato, allora il Figlio stesso si assoggetterà a suo Padre, affinché Dio sia tutto in tutti (I Cor. XV, 24-26) ». La fine di cui qui si parla non è lo scopo della risurrezione, senso che non è ammesso né dalla parola greca né dal contesto; non è neppure la fine della risurrezione, come pretendono molti esegeti; è invece il compimento dell’opera del Cristo e la consumazione di tutte le cose. Si può tenere questo punto come acquisito, anche senza fare appello ai passi paralleli, poiché san Paolo indica chiaramente e in due maniere l’istante preciso che segna questa fine: da una parte la consegna del regno al Padre, dall’altra il trionfo completo sopra tutti i suoi nemici. Finché durava la lotta, finché gli avversari erano in piedi, la missione del Figlio di Dio era incompleta; ora che tutti i suoi nemici sono caduti ai suoi piedi, non eccettuata neppure la morte che era restata l’ultima sul campo di battaglia, la sua dittatura finisce, ed Egli restituisce al Padre il mandato che da Lui aveva ricevuto, con il frutto delle sue vittorie, come un vassallo fa al suo sovrano l’omaggio dei regni conquistati. – Tale è il pensiero di Paolo, espresso abbastanza chiaramente; ma il timore che san Paolo sembri voler limitare il regno del Cristo, suggerì agli esegeti le soluzioni più sottili. Rimettere il regno al Padre sarebbe far contemplare Dio dagli eletti che formano questo regno; oppure condurli a sottomettersi a Dio; oppure organizzare il regno, estirparne gli abusi, bandirne i ribelli: tutte sottigliezze che non hanno consistenza. Il Cristo, come Dio, come creatore, regna eternamente col Padre. Come uomo, conserva il primato di onore e la dominazione universale conferitagli dall’unione ipostatica. Se la Chiesa è un corpo, Egli ne è sempre il capo; se la Chiesa è una società religiosa, Egli ne è sempre il pontefice; se la Chiesa è un regno, Egli ne è sempre il re. Sotto questo aspetto, il suo regno non può finire: Egli regnerà sempre, e sempre « noi regneremo con lui ». Ma Egli è inoltre capo della Chiesa militante, incaricato di vendicare l’onore di Dio, di condurre alla vittoria quelli che marciano sotto la sua bandiera, di punire i ribelli o di sottometterli. Questo vice-reame temporaneo cessa con le funzioni che lo costituiscono; il mandato di dittatore o di generalissimo spira nel momento in cui non vi sono più combattimenti né forze nemiche. Dio, nell’affidare a suo Figlio questo potere straordinario, aveva pensato ad assegnarne il termine: « Bisogna che egli regni finché abbia messo sotto i suoi piedi tutti i suoi nemici ». Come capo della Chiesa militante, il Cristo godeva di una specie di autonomia ed aveva effettivamente un’autorità propria. Terminata la sua missione, altro non gli rimane che prendere il suo posto, posto alto assai sopra i suoi soggetti, ma basso molto in relazione con Dio. L’abbandono del suo mandato è spontaneo, come era pure l’atto con cui lo aveva preso: l’uno e l’altro sono regolati secondo l’ordine del volere divino. San Paolo parla così evidentemente del Cristo come uomo, che si stenta a capire perché mai tanti Padri — e dei più illustri — abbiano pensato o al Cristo sussistente nella natura divina, o al corpo mistico del Cristo. Il corpo mistico del Cristo non è mai chiamato « il Figlio di Dio » né molto meno « lo stesso « Figlio »; ed è fare violenza al testo il passare bruscamente dall’opera della redenzione, che è l’argomento di tutto questo passo, alle relazioni della vita intima del Verbo.

2. Il sentimentalismo teologico dei nostri giorni, rinnovando i sogni di Origene, prolunga l’azione redentrice del Cristo molto di là dal suo ritorno trionfale. La parusia porterebbe soltanto la risurrezione e la glorificazione dei giusti; per gli altri non ci sarebbe ancora nulla di definitivo. La fine verrà più tardi, quando il Cristo avrà compiuta la sua vittoria sottomettendo con la persuasione tutti i suoi avversari; quando Dio, effettuando i suoi disegni di amore, avrà fatto misericordia, a tutti gli uomini. Ma san Paolo non si può fare responsabile di un sistema che contraddice molte delle sue più precise affermazioni. Secondo lui, la volontà salvifica di Dio, per quanto sia universale, rispetta la libertà umana; la redenzione offerta a tutti non è imposta a nessuno, ed il Cristo, mediatore unico, associa alla sua vittoria soltanto quelli che accettano la sua mediazione e che gli sono uniti con la carità. Perciò i partigiani della restaurazione universale si trovano costretti ad abbandonare il terreno della teologia e dell’esegesi per stabilirsi sul terreno, secondo loro, più stabile, della filosofia razionale, dove noi non possiamo seguirli. – Quando l’uomo sarà giunto al termine dei suoi destini, che cosa diventerà la sua antica dimora? Un solo testo dell’Apostolo permette a questo riguardo, qualche induzione abbastanza incerta (7). Egli ci rappresenta la creazione che attende, con ansiosa impazienza, la glorificazione degli eletti, alla quale Dio le ha promesso di farla partecipe. Senza sforzare troppo questa poetica ipotiposi, è evidente che la creazione materiale — poiché qui si tratta di questa, in opposizione agli esseri ragionevoli — fu associata in qualche maniera alla caduta dell’uomo ed avrà parte, in qualche misura, alla sua glorificazione. Difatti essa geme per la sua condizione attuale, come di uno stato violento e contrario alle sue legittime aspirazioni; essa non accettò di essere sottomessa alla vanità se non per ottemperare agli ordini del Creatore e dietro assicurazione che questo giogo odioso le verrebbe tolto al momento della perfetta liberazione dell’uomo. Tutto sta nel sapere se si tratta di una decadenza fisica o di una decadenza morale, di una riabilitazione fisica o di una riabilitazione morale. Questo testo isolato non permette di rispondere con certezza. La maledizione pronunziata da Dio contro la terra colpiva direttamente l’uomo e toccava la terra soltanto di rimbalzo: ora perdette la terra la sua fertilità naturale, oppure perdette l’uomo l’aiuto provvidenziale che lo sottraeva alla dura legge del lavoro! E la terra ricupererà un giorno quella meravigliosa fecondità che le promettono gli Oracoli Sibillini e altri apocrifi, senza parlare dei redattori del Talmud! Non ne sappiamo assolutamente nulla: « Dio solo può dire quali saranno i nuovi cieli e la nuova terra. Sarà quello che vi è di più conveniente per manifestare la bontà divina e la gloria dei beati. È dunque superfluo il perdersi in vane congetture dove la ragione è impotente e la rivelazione è muta ». Queste sagge parole di Scoto avrebbero potuto risparmiare ai teologi molti sogni, ed agli esegeti molte divagazioni. A Paolo, meno che a qualunque altro, non bisogna domandare che ci descriva i destini della creazione materiale. Tutto il suo interesse si concentra su la storia dell’umanità; e anche questa storia, di mano in mano che progredisce, si va racchiudendo in un orizzonte sempre più stretto: prima il genere umano, poi la Chiesa militante, poi gli eletti associati al trionfo del Cristo, finalmente Dio, tutto in tutti.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

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