LIBRO SESTO
I frutti della redenzione.
CAPO I.
La vita cristiana.
[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA, S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]
III. PRECETTI DI MORALE INDIVIDUALE.
1. LE TRE VIRTÙ TEOLOGALI. — 2. PREMINENZA DELLA CARITÀ. — 3. VIRTÙ E VIZI. — 4. LA PREGHIERA. — 5. VIRTÙ MINORI.
1. La fede, la speranza e la carità sono la base, il corpo e il culmine della vita cristiana: la fede comincia, la carità consuma, la speranza è l’anello di congiunzione. San Paolo vuole classificarle a parte e fa notare la distanza che le separa dalle altre virtù. Egli esorta i Tessalonicesi a rivestire « la corazza della fede e della carità, e l’elmo della speranza (I Tess. V, 8)», perché la fede congiunta con la carità rende il Cristiano invulnerabile, e la speranza gl’insegna a non temere nulla e ad osare tutto. Egli loda in essi « l’opera della fede, il lavoro della carità e l’appoggio della speranza (I Tes. I, 3)», perché la fede sincera è attiva, la vera carità è infaticabile, e la speranza soprannaturale è capace di soffrire tutto. Al contrario dei carismi che passano e il cui compito è transitorio, « la fede, la speranza e la carità rimangono ( I Cor. III, 13) ». Il numero dei casi in cui le tre virtù sfilano insieme è significativo e apparirà ancora più sorprendente se alla speranza si sostituisce uno dei suoi sinonimi o se si riflette che essa è virtualmente compresa nel binomio fede e carità che tante volte ritorna sotto la penna dell’Apostolo (Gal. V, 6). Quando viene associata alla carità e alla speranza, la fede non è più il primo movimento di accesso dell’anima verso Dio e la presa di possesso della giustizia: essa è allora un abito soprannaturale che dà alle diverse manifestazioni della vita cristiana il loro impulso, la loro orientazione e la loro tonalità. Questo carattere della fede stabile è molto più accentuato nelle Pastorali, dove la formula « nella fede » si trova stereotipata; non manca però neppure nelle altre Lettere. L’Apostolo raccomanda ai Corinzi di restare fermi nella fede, di provarsi per vedere se sono nella fede; ai Colossesi raccomanda di perseverare nella fede, di fortificarsi nella fede; si rallegra di vedere i Tessalonicesi fermi nella fede; egli stesso vive nella fede del Figlio di Dio. Evidentemente in tutti questi esempi la fede non è un atto che passa, ma una virtù. Per i classici greci, la speranza era l’attesa vana oppure motivata di un avvenimento o lieto o disgraziato. Tale significato è estraneo alla Bibbia: qui la speranza è sempre l’attesa sicura di un bene futuro:il male si teme, non si spera. La speranza ha sempre per oggetto le promesse divine: la salvezza, la vita eterna, la risurrezione; essa abbraccia tutto l’oggetto della fede in quanto ci riguarda ed è futuro (Ebr. XI, 1). Siccome essa dev’essere fondata nella ragione, appartiene soltanto ai Cristiani. I Gentili non hanno speranza (Ephes. II, 12; I Tess. IV, 13); la speranza degli empi, non essendo altro che un’illusione menzognera, perirà; invece quella dei Cristiani è certa, « essa non confonde (Rom. V, 5) » perché si appoggia sopra la fede; essa è dunque per loro una fonte inesauribile di coraggio, di gioia e di felicità intima. La speranza e la fede si aiutano a vicenda; se la fede agisce sulla speranza, la speranza reagisce sulla fede; l’una e l’altra trae dalla carità il suo valore e il suo prezzo, ma l’una e l’altra infiamma la carità e la stimola all’azione (Col. I, 4-5). Soprattutto la speranza che ha per simbolo l’elmo e il cui carattere distintivo è l’ardore, l’intrepidezza e l’audacia, non si lascia fermare da nessun ostacolo, né smuovere da nessun pericolo né stancare da nessun ritardo. La prova, invece di abbatterla, la rende più stabile: « La tribolazione produce la costanza; la costanza, una virtù provata; la virtù provata, la speranza (Rom. V, 4) ». La speranza è ad un tempo il principio e il termine di questa evoluzione verso il meglio, poiché vi è compenetrazione parziale e causalità reciproca tra le virtù cristiane.
2. La fede, la speranza e la carità camminano volentieri insieme, ma la carità precede sempre le due sorelle. Bisogna leggere tutta di seguito la pagina meravigliosa che san Paolo consacra al suo elogio e che giustamente fu chiamata l’inno della carità: « Cercate i carismi migliori; ma io vi indicherò ancora una via più eccellente. Quando io parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, se non ho la carità, non sono che un bronzo rumoroso o un cembalo squillante. E quando avessi il dono della profezia ed una fede capace di trasportare le montagne, se non ho la carità non sono nulla. Se io distribuissi (ai poveri) tutti i miei beni e sacrificassi il mio corpo ad essere bruciato, se non ho la carità tutto questo non mi serve a nulla. La carità è paziente, è benevola; la carità non invidia; la carità non si vanta, non si gonfia, non fa nulla di sconveniente, non cerca il suo interesse, non si adira, non imputa il male; non si rallegra dell’ingiustizia, ma simpatizza invece con la verità; essa scusa tutto, spera tutto, crede tutto, sopporta tutto. – La carità non perirà mai. Se (mi nominate) le profezie, queste svaniranno; le lingue cesseranno; la scienza avrà termine. Poiché noi sappiamo parzialmente e profetiamo parzialmente; ma quando verrà quello che è perfetto, svanirà quello che è parziale. Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; quando sono diventato uomo, mi sono spogliato di ciò che era da bambino. Ora vediamo attraverso uno specchio, in immagine; allora (vedremo) a faccia a faccia. Ora conosco parzialmente; allora invece conoscerò come io medesimo sono stato conosciuto. Ora rimangono la fede, la speranza, la carità, queste tre (virtù capitali); ma la più grande di esse è la carità » (I Cor. XII, 31; XIII, 13). – Questo brano lirico è la stessa chiarezza, e qualunque commento lo guasterebbe. Cerchiamo soltanto di raccoglierne le idee dominanti e di raggrupparle sotto tre capi.
La carità è la regina delle virtù. I carismi sono doni preziosi; bisogna stimarli al loro giusto valore, preferendo ai più vistosi i più utili. Ma vi è una via incomparabilmente più sicura e più alta, vi è la via regia dell’amore. Senza la carità, i carismi più eccellenti non sono nulla e non servono a nulla. Il dono delle lingue, vano rumore di parole; la profezia, bagliore passeggero che si eclisserà alla luce della visione beatifica. Soltanto « la carità non vien meno ». La fede e la speranza che dividono con essa il privilegio di avere Dio come oggetto diretto, svaniranno in Paradiso dove gli eletti vedono invece di credere e non possono più sperare quello che posseggono per sempre; mentre la carità è immortale e non cambia essenzialmente natura quando si trasforma in gloria.
La carità è il compendio dei comandamenti, perché comprende la sommissione implicita al volere divino in tutta la sua ampiezza. Il Maestro aveva detto: « A questi due precetti (l’amore di Dio e del prossimo) sta appesa tutta la Legge come pure i Profeti ». Il discepolo alla sua volta dice: Tutti i precetti « sono riassunti in una frase: Amerai il tuo prossimo come te stesso… La pienezza della Legge (cioè il suo perfetto compimento) è dunque la carità (Matth. XXI, 40 e Rom. XIII, 9-10) ». E ancora: « Tutta la Legge è racchiusa in queste parole: Ama il tuo prossimo come te stesso (Gal. V, 14) ». Oppure, con una concisione enigmatica: « Fine del precetto è la carità (I Tess. I, 5) ».
La carità è il vincolo della perfezione (Col. III, 14).È essa che tiene strettamente legate, come in un mazzo di fiori olezzanti, le virtù il cui complesso costituisce la perfezione cristiana. Oppure, per dare alla metafora un’altra forma, essa è la chiave di volta che deve tenere insieme tutte le pietre e le nervature del nostro edificio spirituale che senza dilei si sfascerebbe. – San Francesco di Sales ci dice, nel suo grazioso linguaggio, che « la carità non entra mai in un cuore senza condurvi con sé tutto il seguito delle altre virtù ». Il pio Vescovo di Ginevra sembra che si ispiri da san Paolo quando così descrive la scorta delle virtù minori che fanno corteo alla loro regina: « La carità è paziente », essa ha quella tollerante longanimità che la Scrittura attribuisce, come suo carattere proprio, alla paternità divina. — « Essa è piena di benignità » e pratica, nelle relazioni fraterne, quella dolcezza amabile di cui l’Apostolo ci dirà l’incanto. — « La carità non è invidiosa », perché è senza pretese, e la felicità o la fortuna degli altri non può offuscarla.
— « La carità non è millantatrice », non imita i farisei che vanno strombazzando i loro servizi o i loro benefizi. — « Essa non si gonfia di superbia », perché bada meno al bene che fa, che non a quello che non può fare. — « Essa non ha nulla di sconveniente » nel suo linguaggio e nel suo atteggiamento, evitando con cura tutto ciò che potrebbe ferire o urtare il prossimo. — « Non cerca il suo vantaggio », poiché ha bisogno di dimenticare se stessa per vivere, e l’egoismo la ucciderebbe. — « Non si adira », ancorché venga misconosciuta e calunniata, tanto è superiore alle preoccupazioni terrene. — « Non imputa a male » le indelicatezze. — « Non si rallegra dell’ingiustizia », neppure quando essa riesce bene e ne ha vantaggio. — « Mette invece la sua gioia nella verità » e applaude al suo trionfo. — « Scusa tutto », lasciando a Dio che scruta i cuori, la cura di giudicare le intenzioni segrete. — « Crede tutto » ciò che le dicono, con buona fede e con semplicità. — « Spera tutto » ciò che le viene promesso, senza sospetti e senza diffidenza. — « Sopporta tutto », anche l’indifferenza e l’ingratitudine (I Cor. XIII, 4-7). – Non tenteremo di classificare queste quindici virtù compagne della carità: per volervi cercare un ordine rigoroso, si sacrificherebbe l’esegesi al sistema. Paolo poteva benissimo allungare o abbreviare a suo talento la lista, e l’enumerazione è fatta piuttosto a titolo di esempio, che non per esaurire la materia.
3. Il posto sovreminente assegnato alla carità ha l’effetto naturale di mettere un po’ nell’ombra il gruppo delle virtù morali. Il loro scarso rilievo dipende anche da un’altra causa. Siccome esse entravano nella catechesi apostolica, e per conseguenza appartenevano ai rudimenti della fede, gli scrittori sacri non avevano quasi più occasione di tornarvi sopra. Quando Paolo crede opportuno il ricordarle, le sue liste di virtù e di vizi non sono né complete né metodiche, e ben poco è quello che c’insegnano. Rileviamo soltanto i tratti caratteristici del vocabolario paolino; l’umiltà e la bontà tra le virtù, la cupidigia e la discordia tra i vizi.
L’umiltà è una virtù specificamente cristiana che sembra non sia stata sospettata dai pagani. Per questi, « umile » (ταπεικός = tapeikos)ha per sinonimi « basso, vile, abbietto, servile e ignobile (Trench.)». Presso gli Ebrei non era affatto così. L’uomo oppresso che, conscio del suo nulla e della sua miseria, accettava la prova con pazienza, come un mezzo di espiazione, metteva la sua speranza in Dio e non aveva né odio né rancore contro i suoi persecutori, passava come l’ideale del giusto, ed era designato con una parola che vien tradotta ora con « povero, mite », ora con « umile ». Quando Gesù Cristo diceva di se stesso: « Io sono mite e umile di cuore », gli Ebrei che lo udivano non stentavano a capirlo (Matt. XI, 29).L’umiltà e la dolcezza sono i due aspetti di una medesima virtù: umiltà dinanzi a Dio, dolcezza verso gli uomini. San Paolo le unisce volentieri: egli vuole che « ciascuno, in tutta umiltà, consideri gli altri come superiori a sé » e raccomanda vivamente ai suoi neofiti di essere « pieni di dolcezza verso tutti gli uomini (Ephes. IV, 2) ». Così queste due virtù gemelle, delle quali l‘una era profondamente disprezzata e l’altra appena conosciuta dal mondo antico, diventano la pietra di paragone del vero Cristiano. – La bontà è pure caratteristica della morale di san Paolo. Essa è espressa con due parole che appartengono a lui solo, delle quali l’una (ἀγαθωσύνη = agatosune) è propriamente la « bontà », l’altra (χρηστότης = krestotes) la « benignità » o la « mansuetudine (Rom. XV, 14; Gal. V, 22; Rom. II, 4, etc.) ». San Gerolamo ne comprese bene la differenza: « La benignità, egli dice, è una virtù soave, amabile, tranquilla, dal parlare dolce, dai modi affabili, fusione felice di tutte le buone qualità. La bontà le è assai vicina, perché anch’essa cerca di far piacere; ma ne differisce in questo, che è meno avvenente e di aspetto più severo; essa pure è pronta a fare il bene ed a rendere servizi, ma senza quella giocondità, quella soavità che guadagna i cuori (Comm. in Galat. V, 22) ». La bontà riguarda più la sostanza, la benignità più la forma della dedizione. La benignità comprende la bontà, ma le unisce qualche cosa che ne raddoppia il valore. Si può dire senza pleonasmo «la benignità della bontà »; ma non si direbbe « la bontà della benignità ». La benignità è specialità di Dio; perciò essa è l’impronta più riconoscibile del Creatore sopra la sua creatura. Però né la bontà né labenignità cristiana non degenerano mai in bonomia e in debolezza, come spesso avviene negli autori profani. – Fra tutti i vizi, il più odioso per san Paolo è lo spirito di discordia. Egli lo trova sui suoi passi quasi fin dal principio della sua carriera, che minaccia di intralciare il suo ministero e di distruggere l’opera sua. Lo ritroverà al termine della sua corsa, sempre turbolento, sempre inquieto, sempre invidioso. Egli lo flagella con una moltitudine di nomi, alcuni dei quali sono esclusivamente suoi: le dispute, idissensi, le combriccole, l’animosità, l’invidia, l’amore degli scismi e delle sètte. Egli ordina espressamente a Tito di fuggire l’eretico, cioè il fautore di discordie e di divisioni. Si direbbe talora che tutta la sua morale consista nel far regnare tra i suoi cristiani l’unione, il buon accordo, la concordia e la pace. Un altro vizio che ha molta parte negli scritti di san Paolo (πλεονέκτης = pleonectes) e che è caratteristico del suo vocabolario, è difficile a definirsi (II Cor. II, 11 etc.; I Tess. IV, 6). La Volgata lo traduce sempre per avaritia, ma è piuttosto la cupidigia che l’avidità. Infatti questo vizio è quasi sempre associato ai peccati d’impurità, e non si vede ben chiaro che cosa abbia da fare l’avarizia in tale compagnia. Inoltre esso viene presentato come la nota dominante del paganesimo ed è anzi una volta identificato con l’idolatria; ora non sembra che l’avarizia sia stato il vizio particolare dei pagani, mentre l’idolatria e la fornicazione o l’impudicizia erano sinonimi. Finalmente la proibizione fatta agli Efesini di parlarne: Fornicatio et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, s’intende assai meglio della cupidigia carnale. Non dobbiamo dimenticare che nella morale primitiva, prima che venissero differenziate le specie dei cattivi desideri, la stessa parola significava al tempo stesso cupidigia o appetito impuro, e avidità o avarizia. L’uso speciale di san Paolo ci riporta a quelle lontane origini: tale è la soluzione più naturale di un problema di linguistica il quale preoccupa gli esegeti.
4. Quello che precede basta a far vedere quale abisso separi la morale di Paolo dalla morale stoica. Come fu detto molto bene,« lo stoicismo è il frutto della disperazione »: disperazione in religione, al vedere mitologie caduche e assurde; disperazione in politica, quando la conquista macedonica ebbe dissipati tutti i sogni d’indipendenza; disperazione in filosofia, allo spettacolo di sistemi impotenti e contradittori(Lightfoot: Ep. Philip.). Ora il Cristianesimo è la Religione della speranza, e la morale di Paolo è la morale dell’amore. Tra queste grandezze non vi è misura comune. Siccome quasi tutti gli stoici erano di origine orientale, e molti di loro si erano stabiliti a Tarso o nella Cilicia, sipoté sospettare che il Dottore dei Gentili ne avesse subita l’influenza;e difatti compulsando faticosamente Epitteto e Seneca, si trova uncerto numero di massime molto simili, nel tono e nell’espressione,a quelle di Paolo. Ma queste somiglianze non devono farci illusione,perché sono soltanto esteriori e superficiali. Noi constatiamo anzituttol’assenza completa del vocabolario stoico; ma quello che piùdi tutto differenzia le dottrine, è lo spirito. Gli stoici consideravanocome sommamente ridicolo il domandare a Dio la virtù e il farglieneonore; ora nella morale di Paolo non vi è nulla di più caratteristicoche la preghiera e il ringraziamento.Le sue ingiunzioni a questo riguardo sembrano iperboliche: « Pregatesenza interruzione; ringraziate in tutto. — In ogni circostanza, esponete a Dio ivostri bisogni con preghiere esuppliche, con ringraziamenti. — Qualunque cosa diciate, qualunque cosa facciate, fate tutto nel nome del Signore Gesù, ringraziando per mezzo di lui Dio Padre. — Fate in ogni tempo per mezzo dello spirito ogni sorta di preghiere e di suppliche (1 Tess. V, 17; Fil. IV, 6; Ephes. VI, 18 ) ». Egli stesso ne dà l’esempio: ai nuovi cristiani scrive: « Noi preghiamo sempre per voi, con ringraziamenti… Non cessiamo di pregare per voi (i Tess. I, 2; Col. I, 9; etc. ) ». Gli Atti ce lo presentano che prega in tutte le circostanze più gravi della sua vita: quando sta per andare da Anania per essere battezzato (Act. IX, 11), nel Tempio, dopo la sua conversione (Act. XXII, 17), prima di ricevere l’imposizione delle mani (Act. XIII, 3), quando ordina degli anziani per le nuove cristianità (Act. XIV, 23), nella prigione di Filippi (Act. XVI, 25), a Mileto dinanzi agli anziani riuniti (Act. XX, 36), nel dare l’addio ai fedeli di Tiro (Act. XXI, 5), dopo il suo miracolo di Mitilene (Act. XXVIII, 8), alle Tre Taverne su la via di Roma (Act. XXVIII, 15). Egli prega per i suoi discepoli (Rom. I, 9-10; etc.) e per gli Ebrei (Rom. X, 1); egli prega anche per sé (II Cor. XII, 8); esorta i fedeli apregare sovente (Rom. XII, 13, passim) specialmente per lui (Rom. XV, 30-32; passim), efa assegnamento sule loro preghiere (Phil. I, 19). Noi sappiamo che, come tutti gli Ebrei pii, soleva pregare prima dei pasti (Act. XXVII, 35). Le sue lettere, interrotte da dossologie, cominciano generalmente con un atto di ringraziamento che talora continua per tutta l’Epistola e ne fa come la cornice. L’augurio finale ripete quasi sempre una formula di preghiera. – Se non insistiamo di più, è perché in questo non vi è nulla di singolare, essendo la pratica della preghiera frequente un’abitudine contratta da san Paolo in seno al fariseismo. Tutti i farisei devoti si compiacevano di seminare i loro scritti e i loro discorsi di preghiere e di dossologie. San Paolo non ne differisce se non per la serietà delle sue suppliche e per il fatto, già notato altrove, che egli, nelle sue invocazioni, associa il Figlio col Padre e fa dello Spirito Santo il maestro e l’agente principale della preghiera cristiana.
5. Ricordiamo, terminando, tre virtù modeste assai care all’Apostolo: il lavoro, l’ordine e il decoro. Appena arrivato in una nuova missione, s’installava in una di quelle bottegucce che fiancheggiavano l’agora e quivi riprendeva il suo mestiere di tessitore per bastare da sé ai suoi bisogni, per dare a tutti buon esempio e per salvaguardare la sua indipendenza. Agli anziani di Efeso venuti a Mileto per ricevere il suo addio, mostrava fieramente le sue mani callose, avvezze alle dure fatiche di giorno e di notte (Act. XX, 34). Ai Tessalonicesi, ossessionati dalla prospettiva della prossima fine del mondo, ricordava con insistenza la legge del lavoro: « Noi non stavamo in ozio presso di voi e non abbiamo mangiato gratuitamente il pane di nessuno (II Tess. III, 5) ». Era sua massima che « chi non vuole lavorare non deve mangiare (II Tess. II, 10) ». L’agiatezza che mette al sicuro dal bisogno, non è una scusa per l’ozio. Paolo vuole che si lavori per fuggire l’ozio e — se si vuole un motivo più cristiano — per poter fare più larghe limosine (Ephes. IV, 28-29). E lavoro per se stesso è un’opera buona, ma la carità ne accresce dieci volte il valore. L’ordine stava pure molto a cuore all’Apostolo che ne era un modello vivente. Egli prescriveva che nelle assemblee religiose tutto sicompisse con ordine (I Cor. XIV, 40); nessuna cosa gli piaceva tanto, quanto il contemplare in ispirito il bell’ordine di una comunità nascente (Col. II, 5). Egli esigeva che si riprendessero fraternamente gli scioperati che disturbavano e scandalizzavano gli altri, e che si sottoponessero anche, in caso di recidiva, ad una specie di scomunica benigna, capace di ricondurli al dovere (I Tess. V, 14). Il decoro era ai suoi occhi la, risultante dell’ordine e del lavoro: « Tutto si faccia con decenza, ripeteva spesso. Diportatevi convenientemente come nel pieno giorno della luce evangelica. Agite in modo conveniente con le persone estranee » alle nostre credenze (I Cor. XIV, 40). E convertito non deve esiliarsi dal mondo; egli può accettare gl’inviti degli infedeli; ma bisogna che lasci sempre un profumo di edificazione (I Cor. 27-28). È troppo poco non essere « una pietra d’inciampo per gli Ebrei e per i Greci (I Cor. X, 32) »; il Cristiano, nel suo contegno e in tutta la sua condotta, deve dare un alto concetto della sua fede e fare onore al Vangelo (Tit. II, 10). Elevate da tali motivi, anche le piccole virtù diventano grandi; esse si chiameranno devozione e apostolato. La morale di san Paolo è tutta piena di contrasti: con una facilità incomparabile, l’Apostolo associa la mistica più sublime con l’ascetismo più pratico; mentre il suo occhio penetra i cieli, il suo piede non perde mai il contatto con la terra. Nulla è sopra né sotto di lui. Nel momento in cui si dichiara crocifisso al mondo e vivente della stessa vita del Cristo, sa trovare per i suoi figliuoli delle parole che rapiscono per la giocondità e la grazia, e discendere alle prescrizioni più minuziose sul velo delle donne, sul buon ordine delle assemblee, sul dovere del lavoro manuale, su la cura di uno stomaco debole. Perciò la sua spiritualità offre ai cuori più umili un alimento sempre saporito, e alle anime più elette una miniera inesauribile di profonde meditazioni.