IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (3)

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE

ovvero IL PAGANESIMO NELL’EDUCAZIONE

(3)

[Mons. J. J. Gaume, trad. dal francese di A.V. – Napoli 1854]

Cap. VI

SECONDA EPOCA.

Abbiamo veduto quale fu il sistema di letteraria educazione seguito dai cristiani durante la prima epoca, cioè durante i primi cinque secoli della Chiesa. Noi lo studieremo nella seconda epoca, che comprende tutta la durata del medio-evo. – Interrogando ben bene i monumenti che ci rimangono, noi troviamo lo stesso metodo, se non che gli autori pagani sono ancor meno letti, se non che eglino spariscono anche interamente dal novero dei classici. Difatti, il motivo di studiarli, non ha più, a gran pezza, lo stesso valore. – Il paganesimo greco-romano è vinto, vinto nei suoi tiranni e nei suoi filosofi, vinto nelle idee e nei fatti. Il motivo cristiano di leggere i suoi autori è sparito: il mondano pretesto di studiarli non è peranco inventato. Padrona del campo di battaglia, la Chiesa può oramai adempiere in tutta la sua pienezza la grande missione che le fu assegnata, di rinnovare la faccia del mondo. Intorno ad essa si stringono i robusti figliuoli del settentrione, vincitori semi-selvaggi del vecchio mondo. Bisogna tagliare e pulire questo duro granito: bisogna rendere pieghevoli ed incivilire quei fieri Sicambri: tale si è la sua unica cura, tale sarà la sua gloria. – Ora, essa sa che lo incivilimento non è se non il Cristianesimo applicato alle società; essa sa che tale applicazione, acciò sia reale e duratura, deve prima raggiungere l’infanzia; sa che l’infanzia è segnata o piuttosto formata, irrevocabilmente formata dall’educazione; sa che l’educazione dipende dallo stampo in cui sono gittate le generazioni, le quali sono pagane o cristiane, secondo che lo stampo stesso è pagano o cristiano; sa finalmente che il rozzo elemento a cui essa deve dar forma noi può essere se non per l’azione esclusiva, cioè forte e costante del Cristianesimo. – Il pensiero dominante in quei grandi secoli trovasi per intero nelle notevoli parole di un santo che esercitò grande influenza sul procedere degli animi: si direbbe una nuova promulgazione delle costituzioni apostoliche. Nella vita di Sant’Eligio, il suo collega nell’episcopato, Sant’Oven, vescovo di Roano, così dice: « Qual profitto ricaviamo noi, ve lo chiedo, dalla lettura dei vari grammatici, i quali sembrano piuttosto rovesciare che fabbricare? A che cosa ci servono, in filosofia, Pitagora, Socrate, Platone ed Aristotele? Di qual utile sono ai lettori i tristi canti dei poeti colpevoli, come Omero, Virgilio e Menandro? Quale vantaggio può egli ridondare alla cristiana famiglia da quei facitori di storie pagane, Sallustio, Erodoto e Livio? Qual’arte oratoria di Lisia, di Gracco, di Demostene e di Tullio può essere paragonata alle pure e belle dottrine del Cristo? Di quale utile ci sarà mai l’abilità di Fiacco, di Solino, di Varrone, di Democrito, di Plauto, di Cicerone e d’altri che credo inutile di qui enumerare? » [Vit. B. Elig. Prol. vers. fin.] Durante questa seconda epoca, tutti i classici sono cristiani. Si pensa, così poco a negare questo fatto importante, ch’esso servì d’eterno testo agli innumerevoli rimproveri che si fanno da tre secoli agli avi nostri. Cotal testo sarà esaminato più tardi: prosieguo. – La lingua latina rimase, almeno durante una parte del medio-evo la lingua volgare degli antichi abitanti d’Europa; nel nono secolo, il greco stesso sembra stato generalmente conosciuto.Grazie a questa felice circostanza, l’infanzia poté essere custodita all’ombra del tetto paterno molto più a lungo che non ai dì nostri. Colà, come nei primi secoli, essa veniva sodamente nutrita dalla lettura dei Libri Sacri, degli Atti de martiri, delle opere dei Padri, dalle leggende dei santi, dei racconti a volte così ingenui e così perfettamente epici delle grandi azioni dei cavalieri, dei crociati, dei pellegrini, degli illustri fondatori di tutti gli ordini religiosi, il cui nome era così popolare come le loro opere sono sublimi. Ecco quanto consta da tutti i monumenti contemporanei; ecco ciò che prova il religioso suggello cosi profondamente improntato nel linguaggio, e perfino nei più semplici usi degli abitanti di campagne, del pari che degli abitanti di città. – Né solo presso il domestico focolare il fanciullo leggeva quei classici meravigliosi. Ei li trovava scritti in caratteri fiammeggianti nelle vetrate di tutte le chiese e nei dipinti che ne coprivano le pareti Sicché come i quei dì tutti andavano in chiesa, e spesso; così cotale lettura era veramente la lettura classica e popolare. Quindi, l’usanza consacrata anche ai dì nostri in un gran numero di famiglie d’insegnare a leggere ai fanciulli nella Bibbia a figure. Quindi ancora l’altra usanza non meno religiosamente conservata in certe parti di Francia e d’Europa di leggere, ogni sera almeno nell’inverno, gli Atti dei martiri e le Vite dei santi, in presenza della famiglia adunata. Lasciando la famiglia, la gioventù destinata alla chieresia entrava nelle pubbliche scuole. Si sa infatti che in quel tempo, preteso barbaro, il suolo d’Europa, la Francia, la Spagna, l’Inghilterra, l’Irlanda, l’Italia, era coperto di scuole poste vuoi nei presbiterii di contado, vuoi nei monasteri, vuoi nelle cattedrali, vuoi nelle case episcopali. Ivi riunivansi spesso in un’età ancor tenera i ragazzi delle varie classi della società; tutti vi ricevevano una educazione comune, quale si fosse la differenza delle carriere ch’eglino intendevano abbracciare. Volete conoscere i libri che loro ponevansi fra mano? Leggete le belle lettere di San Gerolamo a Leta e ad Eustachio: esse erano il direttorio degli studi, e voi vedrete con quale ammirabile fedeltà il medio-evo conservasse le regole pedagogiche deprimi secoli della Chiesa. Si cominciava, o piuttosto si proseguiva l’educazione cominciata presso il domestico focolare, colla letteratura ecclesiastica, cioè con quanto spetta alla religione, alla sua storia, alle sue glorie, alla sua dottrina. I principali classici erano gli Atti dei martiri, o, come allora dicevasi, il Libro delle passioni, liber passionum; libro più alto di alcun altro a sviluppare energicamente nell’anima dei giovinetti tutti i nobili sensi di fede, di distacco, di generosità, di coraggio, che formano i grandi caratteri ed i grandi popoli. Quindi quell’ aureo libro si procurava a grandi spese e collocavasi in capo alle più ricche biblioteche. Questa testimonianza di rispetto era una conformità di più all’usanza de’primi cristiani, i quali non si sgomentavano per spesa di sorta, per pericolo alcuno, affine di ottenere gli Atti dei martiri, di cui essi facevano la loro assidua lettura. Una delle glorie della Gran-Brettagna, Acca, successore dell’illustre Wilfrido, arcivescovo di Canterbury, si rese celebre per la magnifica biblioteca da lui composta. Sapete voi qual è il primo libro citato dall’immortale suo storico? Gli Atti de’martiri. Al Libro delle passioni aggiungevasi la Sacra Scrittura, e sovrattutio i Salmi, che in generale si facevano imparare a menadito, come si usa fra di noi le favole di Fedro o l’Arte poetica di Orazio. La storia minuta di certe educazioni non lascia verun dubbio sulla universalità del sistema. Limitiamoci a qualche esempio, preso a caso fra i vari popoli di Europa. San Bonifacio, scrivendo la vita e il martirio di San Livino, così narra il modo col quale ci fu educato nei suoi primi anni: « Codesto fanciullo, dice, dotato di egregie disposizioni, scelse la vita contemplativa e visse con San Benigno, sacerdote scozzese, uomo di nascita illustre. Volendo essere istruito da tale sacerdote nella melodia dei Salmi, nella dolce lettura dei santi Evangeli ed in altri divini esercizi, la sua tenera età trascorse secondo i suoi desideri, in guisa, che, come se stato egli fosse in un immenso giardino di una bellezza tutta celestiale, procedeva innanzi ogni di più, passando per tutti i gradi della virtù. La sottigliezza del suo intelletto era mirabilmente sviluppata, e, colla cooperazione alla grazia, ei non rinveniva difficoltà veruna nello studio di tante cose divine, né nella pratica degli esempli de giusti (Vita B. Livio) ». Narrasi di San Patrizio, che la madre del giovine Lanano, avendogli condotto il figliuol suo acciocché egli lo ammaestrasse nelle lettere, il santo uomo lo affidasse al beato Cassano, ed il giovinetto apprendesse in poco tempo tutto quanto il Salterio, e diventasse poscia uomo di una vita edificantissima. Parlando del giovine Leobardo, d’una illustre famiglia, San Gregorio di Tours dice che, giunto il tempo, ei fu inviato a scuola, ove apprese a memoria tutto il Salterio. Lo stesso raccontasi di San Nizerio, vescovo di Lione, il quale rese il servigio medesimo ad altri giovinetti. Nello studio dei Libri Sacri adopravasi quella saggia prudenza di cui San Gerolamo dà le regole scrivendo a Leta. Piena di reverenza pel fanciullo , laChiesa allontanava da esso, anche nei Libri Sacri, quanto avrebbe potuto porre in pericolo la sua innocenza o stancare la sua immaginazione; le opere dei padri servivano ad un tempo di modelli d’eloquenza e di commenti ai Libri Sacri. Qui pure v’era lo stesso metodo che nei primi secoli della Chiesa, in cui lettura delle lettere dei supremi pontefici e dei Vescovi era il cibo dei fedeli. – I trattati delle scienze e delle arti si spiegavano poscia. Ma secondo quel gran principio di ordine e di luce, che la religione è nel mondo ciò eh’è il sole nel firmamento, il centro intorno a cui tutto gravita, le scienze e le arti si studiavano non già come scopo, ma sì come mezzo, non già di benessere, ma di perfezionamento spirituale e temporale, e di utilità per la religione. Perciò vediamo che nelle dotte scuole d’Inghilterra, stabilite dall’illustre Teodoro, arcivescovo di Cantorbery, la geometria, l’astronomia, le matematiche in generale, erano per tal guisa insegnate sotto il riguardo religioso, ch’elleno portano il nome di geometria, d’astronomia di matematiche ecclesiastiche. Lo stesso avveniva della pittura, della scultura, dell’architettura, della poesia; poiché tutte codeste cose furono stabilite per servire alla gloria del loro Autore. Insegnavano pure le lingue straniere, sia per trarre profitto dai tesori di scienza religiosa dei vari popoli, sia per poter predicare l’Evangelio all’Oriente ed all’Occidente. Erano esse, per questa doppia cagione, cosa di cura speciale. Infatti noi reggiamo che un gran numero le parlavano come loro lingua materna. La storia consegnò questo fatto, che il re Gontrano fu ricevuto in Orleans da una compagnia di persone che cantavano le sue lodi gli uni in siriaco, gli altri in latino, e parecchi in ebraico. – Il latino si parlava in Roma soprattutto, nel palazzo di San Gregorio, con ammirabile perfezione. Vedremo più tardi il concilio di Vienna ordinare solennemente l’erezione delle cattedre di tutte le orientali nelle varie università dell’Europa. Nulla dico delle scienze morali e della filosofia soprattutto, poiché è cosa troppo evidente ch’esse erano tutte considerate come serve della teologia. Così le chiama San Tommaso, le cui opere, non meno di quelle dei dottori del medio-evo, sono una prova solenne di quella magnifica definizione. Ecco del resto il programma degli studi in quei secoli che vogliono barbari. Scritto da Marciano Capella, retore africano del quinto secolo, e venendo dalle più alte tradizioni dell’antichità, siffatto programma rimase invariabile per dodici secoli. « A dieci anni cominciavano gli studi in regola; essi si dividevano in due periodi di cinque anni ciascheduno. Durante il primo, si percorreva il Trivium, che corrispondeva la grammatica, la Dialettica, e la Retorica. Per assai tempo cotali studi non arrossivano di essere modestamente chiamati Triviali. Alla grammatica apparteneva lo studio delle lingue. Si trovano sulle rive della Loira, in Angers, in Orléans, in Poitiers, tutte le lingue dotte coltivate, senza eccettuare le lingue orientali. La dialettica precedeva saggiamente la retorica, la quale quindi non era più ciò che poscia diventò, un fuor d’opera tra la grammatica e la filosofia, un’arte di esprimere pensieri che si avranno più tardi. – « Secondo l’attitudine e i progressi dei discepoli succedeva al Trivium il Quadrivium, il quale li iniziava alle nozioni più alte dell’aritmetica, della geometria, dell’astronomia e della musica. Ora, tutti siffatti elementi sparsi si riunivano col mezzo di una possente ed armonica sintesi. Noi useremo, per esporla, i termini proprii degli antichi. Secondo essi, l’ educazione dell’uomo, come la formazione del mondo, a due cose si riduceva: alla parola ed al numero, e a due fini che tutto abbracciano, l’eloquenza e la sapienza. – « Tre vie menavano all’eloquenza: l’arte di parlare correttamente, di pensar giusto e di ben dire; ovvero, la parola elaborata dalla grammatica, aguzzata dalla dialettica, espressa ed abbellita dalla retorica: il verbo nella sua purezza, nella sua forza e nella sua bellezza, tale si era l’eloquenza. – « Era necessario un cammino più lungo e più arduo per giungere alla sapienza od alla scienza, cose identiche. Tuttavolta, tutto comprendevasi nel numero; ma v’era il numero che si moltiplicava o che si decomponeva in infinite combinazioni, l’aritmetica rappresentata dall’unità; v’era il ninnerò astratto assoluto, immutabile nell’ estensione ideale, ovvero la geometria, che aveva per emblema il binario; v’era il numero moventesi attraverso gli spazi creati, e recante seco i corpi celesti e il mondo nei giri di un immenso vertice; l’astronomia, di cui una sfera era il simbolo. Finalmente, alle sette corde della lira, una mancava ancora. Sicché quando tutti codesti accordi risuonavano insieme, l’armonia sveglia vasi nell’anima, la musica appariva, come quei concerti che Pitagora sentiva in lontananza dal mondo e nelle profondità del suo spirito. Questo era il compimento dell’uomo, la consumazione della sapienza. Così formavasi quella scala dell’umano sviluppo i cui due segni erano la parola e la saggezza; ed i sette gradini, quelle arti liberali che formavano 1’uomo innalzato al vero suo valore, il saggio eloquente: Vir bonus dicendi peritus. – Che sono essi mai, quanto a profondità e ad armonia, i moderni sistemi rispetto a quello? Tuttavolta, quello non era se non lo stampo uniforme in cui passavano tutti gli intelletti. Venivano poscia le cognizioni speciali ad ogni situazione della vita: esse davansi nelle università. Finalmente, perfino la letteratura pagana, conforme allo spirito dei Padri della Chiesa ed alle regole di prudenza dettate da quegli uomini immortali, era studiata nella età conveniente, acciò le spoglie d’Egitto servissero all’ornamento del Santuario. Così, da una parte, l’adolescenza, e mai l’infanzia, toccava quel vaso i cui orli sono dorati, ma la cui coppa contiene veleno. D’altra parte, l’adolescenza medesima, che dico! i maestri stessi nol toccavano se non di passaggio e colle maggiori precauzioni. Se in qualche luogo taluno si allontanava da queste regole, delle quali, i mali che noi soffriamo non permettono a nessuno di revocare in dubbio la grandissima sapienza, tosto lagni e grida di pericolo si fanno sentire. Il supremo pontefice, la grande scolta d’Israele, era avvisato: tutto rientrava nell’ordine, e l’Europa proseguiva ad attingere il bello alla stessa sorgente a cui attingeva il vero, il buono, il giusto. – Terminiamo con alcuni particolari utili a conoscersi specialmente ai dì nostri. Le persone di chiesa, i buoni monaci, dediti in generale all’educazione della gioventù, adempievano all’ufficio loro con un fervore che ne assicurava il buon esito ed al quale punto non rassomiglia la condotta degli uomini di mestiere che speculano sull’insegnamento ufficiale. Fervore nell’istruirsi. La vita dell’ ecclesiastico, ovvero del religioso destinato all’insegnamento, era vita di studi. Nessun pensiero di famiglia, nessuna cura dei bisogni del vivere, nessuna ansia per le agitazioni del di fuori distraeva il suo pensiero: pregare ed istruirsi per santificare ed ammaestrare i suoi discepoli, quest’esse erano tutte le sue sollecitudini. I sacri canoni, le regole dei monasteri glie ne facevano un dovere di coscienza. In mancanza di altre prove, ciò solo dimostrerebbe l’immensa superiorità del loro insegnamento. – Zelo nel conservar l’innocenza de’discepoli loro. Qui pure qual differenza tra la condotta dei religiosi d’allora e quella dei professori d’oggidì! Ai dì nostri, tutta l’educazione è abbandonata all’influsso dei maestri di studi. Altre volte, i maestri non lasciavano i loro fanciulli né il dì né la notte. Nulla io conosco di più commovente e di più istruttivo delle seguenti prescrizioni dei concili di Tours e di Toledo: « I religiosi e i chierici, dicono essi, ai quali l’educazione dei giovanetti è affidata, abbiano cura che i giovani di quindici anni e più in là, dimorino insieme e dormano in una sala comune, senz’essere abbandonati, nemmeno un sol momento, dal loro direttore o dal loro maestro. Di notte uno succeda all’altro per fare una lettura, affinché le medesime precauzioni che si prendono per conservare la purezza del corpo loro servano eziandio a rischiarar le loro anime ». – Zelo nell’alleviare i loro bisogni. Di questi tempi non si può entrar nei luoghi d’insegnamento se non a prezzo di danaro. Nei secoli barbari del medio-evo, la scienza non costava nulla. Essa si impartiva gratis, e quei religiosi sì avidi davano ancora ai giovinetti poveri e libri e cibo corporale, senza di che quelli non avrebbero potuto proseguire i loro studi. – Uscendo dalle scuole poste nei presbiterii, nei monasteri, nelle cattedrali, nell’abitazione stessa dei vescovi, la gioventù portavasi alle università. In quei grandi centri di luce, dei quali la religione aveva cotanto dotato 1’antica Europa, lo spirito d’insegnamento era lo stesso che presso il focolare domestico e nelle scuole elementari: uomini e libri, tutto vi era cristiano. Aristotele solo, perdonatemi l’espressione, ebbe il diritto di venire ammesso a libera pratica, ed ottenne il privilegio d’una grande popolarità. Ma, da un lato, questo filosofo non era posto tra mano ai giovanetti; dall’ altro, nol si studiava né pel fondo dei pensieri, né per la forma oratoria dello stile suo; egli era letto soltanto a cagione del suo metodo dialettico. L’interesse della religione ispirava i nostri Padri, e nessuna persona sagace vorrà negare ch’ei fossero ben ispirati. A rischio di scandalizzarvi, dirovvi che la dialettica ha vari titoli alla mia speciale estimazione. Il primo si è il male che ne dissero gli eretici ed i novatori, e ne dissero molto. Il secondo, si è l’immenso servigio da quella reso all’ umano spirito ed alla verità. Lo spirito umano le deve quel cammino fermo e quella possanza di deduzione che lo rattiene dal perdersi nel vago, e che comunica alle moderne nostre lingue la più preziosa di loro doti, la precisione: immenso beneficio non mai posseduto dalle lingue antiche. Di vero, essa somministrò armi sicure, vuoi per respingere gli assalti dell’errore, vuoi per smascherare l’errore medesimo, ed irretirlo nei suoi propri lacci, riducendo le sue divagazioni e la sua ciancia alla forma chiara e inesorabile di un sillogismo. Tuttavolta le opere d’Aristotele non furono senza pericolo; esse diedero luogo a più errori giustamente condannati dal vescovo di Parigi, Stefano Tempier, nel 1277: « Abbiamo udito, ei dice, che alcuni studiosi delle arti (di filosofia) eccedendo i limiti della loro facoltà, osano sostenere errori manifesti, o piuttosto chimere stravaganti. Eglino trovano queste proposizioni nei libri dei pagani, e loro sembrano cotanto dimostrative, che non sanno rispondere alle stesse. Volendo palliarle, cadono in un altro scoglio; poiché dicono che sono vere, secondo il filósofo, cioè secondo Aristotile, ma non secondo la fede cattolica. Come se due verità che si contraddicono esistessero! ». – Ricapitoliamo brevemente quanto precede. Da questa concisa esposizione emana il fatto che noi vogliamo stabilire, cioè: che durante il periodo del medio-evo i libri classici furono esclusivamente cristiani. Dal principio della Chiesa sino al decimo sesto secolo, l’opinione invariabile dei Padri e dei saggi, fu che la letteratura pagana non si rifaceva né allo spirito, né all’indole della religione cristiana; che perciò era necessario di studiar quella che naturalmente nasceva dal Cristianesimo, che era la sua espressione e che respirava il suo spirito. « La nostra vera latinità, dice S. Prospero, si è, se male io non mi appomgo, quella la quale, ritenendo solo la proprietà dei termini dell’antica latinità, esprime le cose brevemente e semplicemente, e non quella che si compiace della bellezza della forma.» – La gloria eterna di San Gregorio il Grande si è d’aver fissato con i suoi scritti quella lingua latina cristiana, della quale i Padri avevan posto le fondamenta; lingua sì ammirabile di lucidità, di ricchezza, di semplicità, d’ unzione, di eleganza, e così differente dalla lingua latina pagana quanto il giorno differisce dalla notte, od il cristianesimo stesso dal paganesimo. L’illustre pontefice non ristette a ciò; unendo i suoi sforzi a quelli di Sant’Isidoro di Siviglia, nulla omise acciò i giovinetti imparassero le lettere latine unicamente nei cristiani autori, la qual cosa ebbe luogo infatti, siccome vedemmo. In mancanza delle prove qui sopra riferite, si può questo evidentemente conchiudere dalla semplice osservazione seguente: nostro malgrado, noi conserviamo nell’età matura lo stile, i pensieri, l’elocuzione degli autori dei quali fummo nutriti nella infanzia; il vaso ritiene a lungo l’odore del primo liquore da esso ricevuto: quo semel est imbuto, recens servabit odorem testa diu. – Quindi ne viene che San Gerolamo e Sant’Agostino, benché ambedue abbiano efficacemente condannato i classici pagani, lasciano nel loro stile trasparire qualcosa del numero e del giro degli autori profani con i quali la loro infanzia aveva stretta famigliarità; all’opposto, da San Gregorio sino a San Bernardino da Siena, a Sant’Antonino da Firenze, ed a San Lorenzo Giustiniani, scrittori del quindicesimo secolo, egualmente celebri per la loro eloquenza e per la sapiente gravità delle opere loro, verun autore cristiano lascia scorgere nei suoi scritti cosa che senta lo stile, 1’eloquenza profana, la tazza dei pagani scrittori. La è questa la provala più evidente che tutti avevano appreso nella loro infanzia il latino, non già negli autori profani, ma negli autori cristiani. Quindi ne derivava quel gusto, quell’ardente amore per la Sacra Scrittura e per gli antichi Padri ch’ei conservavano tutta la loro vita, e che rinviensi non solo negli ecclesiastici, ma ancora nei laici ed anche nelle donne. Quanto alle opere pagane, essi non concedevano a quelle se non un’attenzione secondaria, e non le leggevano se non nell’età matura; questo non già per formarsi lo stile, ma unicamente, secondo 1’esempio dei primi cristiani, per cercare quanto servir potesse a confermare e ad illegiadrire la verità cristiana. – Cosiffatta fu l’economia degli studi dal principio della Chiesa, sino al finire del secolo decimo quinto. Per conseguenza la filosofia, la letteratura, le scienze, avendo lo stesso spirito della teologia, procedevano insieme sulla stessa via della verità cristiana, di cui essi continuavano lo sviluppo ciascuno a guisa sua e con mezzi esclusivamente cristiani. Infatti, noi vediamo che tutti i libri di quell’epoca, e soprattutto quelli che i Trecentisti han pubblicato (ad eccezione del Boccaccio), hanno per scopo storie cristiane od argomenti cristiani, poiché amare la propria patria, procurare la sua gloria è un dovere del Cristianesimo. – Le arti ci offrono il medesimo spettacolo. A mia saputa, non avvi pittore, non scultore di quell’età che abbia preso a trattare un soggetto mitologico, pagano, osceno o anche esclusivamente profano. Il viaggiatore attento che passa per Venezia può anche di presente acquistare con i suoi occhi la certezza di quanto io dico. Venezia può esser estimata come il più vasto museo dell’arte cristiana. Percorrendo gli innumerevoli suoi monumenti dei secoli decimoterzo, decimoquarto e decimoquinto, nulla vi si rinviene che si riferisca alla mitologia, né che abbia odore di paganesimo; nulla di osceno, né di turpe, né di profano. Che dico mai! Il bronzo, il marmo, i magnifici quadri che rammentano le grandi imprese dei Veneziani contro i Turchi, bastano soli per provare che quegli eroici fatti d’arme si compierono dai cristiani ed appartengono ad una repubblica cristiana. – Perciò, i moderatori e le guide di quell’età si indegnamente calunniata sapevano, come i Padri della Chiesa, che 1’unico mezzo di aver generazioni cristiane sì era di gettarle in uno stampo cristiano. Non già che quegli uomini, cui non si temé di chiamar barbari, non abbiano potuto far uso, per l’educazione della gioventù, degli autori profani. Essi li possedevano, poiché ce li han conservati. Essi li leggevano, poiché li hanno copiati migliaia di volte; ora, poiché essi li hanno e letti e trascritti, pare eziandio li capissero. – Inoltre, li sapevano apprezzare. Per conservarli facevano sacrifici che ci farebbero indietreggiare. Così, nell’ottavo secolo, un povero monaco, Lupo, abate di Ferrières, scrive in tutta Europa per chiedere manoscritti, affine di farli copiare e di servirsene per correggere quelli ch’ei possiede: « beninteso, aggiunge, che tutte le spese saranno a mio carico. » A quando a quando egli scongiura Eginardo di mandargli i manoscritti dell’Oratore di Cicerone, delle Notti attiche d’Aulo Gellio; prega il vescovo di mandargli i Commentari di Cesare. Ad Ausbaldo chiede il manoscritto delle Lettere di Cicerone, a Marquado, abate di Prom, il manoscritto di Svetonio per farlo copiare: a Papa Benedetto III, i Commentari di San Gerolamo, le Istituzioni di Quintiliano, i Commentari di Donato sovra Terenzio, Sallustio, i Discorsi contro Verre ed altri in gran copia. – Nel decimo secolo, il celebre Gerberto, prima umile monaco di Aurìllac, poscia arcivescovo di Ravenna, e finalmente Papa col nome di Silvestro II, non dimostra minor desiderio di conservare e di moltiplicare i manoscritti degli autori profani. Vescovi, religiosi, in Francia. in Italia, in Alemagna, nel Belgio, sono posti a contribuzione, ed il generoso pontefice compra a peso d’ oro quelle opere, le quali, così facilmente come gli autori cristiani, si sarebbero potute dare, e non si diedero, qual classici alla gioventù. Nei secoli seguenti, noi ravvisiamo lo stesso zelo perpetuarsi in tutta Europa sia in Lanfranco, arcivescovo di Cantorbery, sia in Desiderio, abate di Montecassino, poscia Papa col nome di Vittore III, e in molti altri il cui novero empirebbe intere pagine. I dotti conoscendo dunque nel medio-evo gli autori pagani, e studiandoli, ed apprezzandoli, chi oserà sostenere ch’essi non avrebber potuto proporli per modelli alla gioventù, ed essi medesimi imitarli? Che mai mancava loro per ciò? Le opere di quegli autori? ma le possedevano. Il buon gusto necessario per ammirarle? E che! tutti quegli ingegni di prima riga, i quali nel medio-evo e prima tennero sì alto e sì fermo lo scettro del sapere e della eloquenza, non avrebbero forse potuto, se voluto l’avessero, imitare il linguaggio dei pagani, l’architettura pagana, altrettanto bene e molto meglio che nol fecero i personaggi d’ogni fatta che da tre secoli se ne arrogano il privilegio? Né Sant’Agostino, né San Gerolamo, né San Crisostomo, né San Bernardo, né Alberto il Grande, né Dante, né Petrarca, né San Bonaventura, né San Tommaso, né mille altri non avrebber potuto copiare nel loro linguaggio la forma pagana, non meno di quello che gli architetti delle nostre immortali cattedrali avrebbero potuto copiare nei loro lavori le linee rette ed il pien sesto d’Atene e di Roma? No; se nol fecero, si è perché nol vollero fare; e nol vollero fare perché troppo buon gusto avevano per commettere simile stranezza, troppa ragione per risuscitare una forma logoratasi col pensiero ch’essa aveva rivestito, troppa altezza per abbassarsi, come fu fatto dipoi, alla parte d’imitatori servili e sgraziati. – Né solo le sommità del tempo conoscevano gli autori profani. Come nei primi secoli della Chiesa, lo studio ne era permesso quando cessava d’essere pericoloso. Ora, siffatto studio aveva luogo, e, ciò che forse vi meraviglierà, esso era, sino ad un tal quale punto popolare. Non citerò se non un esempio che da tutti gli altri dispensa. Ricordatevi dei bei versi dell’immortal cantore della Divina Commedia, in cui il venerando Cacciaguida, bisavolo di Dante, narra che le dame del suo tempo favellavano dei fatti di Troia, delle antichità di Fiesole e delle eroiche gesta dei Greci e de’Romani, filando la loro rocca o cullando i loro bimbi. – Confrontando le date, voi troverete che questo avveniva nell’undecimo secolo. Voi vedete pertanto che il Rinascimento non inventò, come se glie ne fa l’onore, i Greci ed i Romani. Prima del Rinascimento essi godevano, presso i nostri buoni avi, una onorata ospitalità. Solo il medio-evo aveva avuto il buon senso ed il buon gusto di porre ogni cosa a suo luogo: il Cristianesimo in prima fila, il paganesimo in seconda; il Cristianesimo come base e come corpo dell’edificio, il paganesimo come ornamento accessorio; il cristianesimo come modello, il paganesimo come cesellatura; il cristianesimo come l’essenziale, il paganesimo come forma secondaria di cui si poteva benissimo far senza, non recando nocumento di sorta né alla sodezza, né alla beltà dell’ordine sociale, né ai progressi della mente umana.

 

29 giugno: SS. PIETRO E PAOLO

Omelia di S. S. GREGORIO XVII – 1975

La solennità odierna è dedicata al ricordo e all’intercessione dei Santi Pietro e Paolo. C’è diversità tra i due. Gli antichi calendari, almeno dal secolo IV, hanno posto nello stesso giorno la passione di S. Pietro e di S. Paolo. Per questo motivo, e forse anche per risparmiare un giorno di festa, li hanno messi insieme, ma non è la stessa cosa, sia chiaro! Pertanto mi limito a parlare questa mattina di Pietro; avrò altre occasioni per parlare di Paolo. – Perché tutta la Chiesa è invitata a fare festa, solennità anzi, nel giorno del martirio di S. Pietro? Il martirio di Pietro fu illustre perché fu doloroso. Fu protratto; non fu ucciso d’un colpo ma crocifisso; dovette attender la morte fra dolori lancinanti, mirabilmente sopportati. Ma non è questa la ragione per cui si fa solennità oggi. La ragione sta in quelle parole (Mt XVI, 13-19) che avete sentito leggere ora dal diacono e che sono state rivolte da Cristo a Pietro e a tutti i suoi successori, perché Gesù non aveva davanti soltanto l’arco di vita di Pietro, ma l’arco di vita dell’umanità. Le parole erano queste: “Tu sei Pietro e su questa pietra edifico la mia Chiesa e le potenze dell’inferno non prevarranno mai contro di essa; e do a te le chiavi del Regno dei Cieli, e quello che avrai stabilito in terra è stabilito in Cielo, e quello che avrai sciolto in terra sarà sciolto in Cielo” (Mt XVI, 18-19). Non esiste nella storia dell’umanità un’arditezza che abbia avuto il coraggio di far dare un simile potere ad un uomo. Ma, lasciando ora la questione dell’unicità di questo discorso, esso porta alla ragione per cui esiste la solennità di S. Pietro. Per questo motivo: egli rappresenta il capo del Regno di Dio visibile in terra, il capo di quello che conduce la storia del mondo e che decide della salvezza eterna di tutte le singole anime, appartengano sia al corpo sia all’anima della Chiesa, dato che è di fede la necessità assoluta di appartenervi per entrare nel Regno dei Cieli. E questo il motivo! – Nel discorso fatto da Gesù a Pietro ci sono alcune parole sulle quali attiro la vostra attenzione. Gesù ha nominato la “Sua Chiesa” (Mt XVI, 18). Quel possessivo “sua/mia” è commovente, ma aggiunge subito, ed è forte: “e le potenze dell’inferno non prevarranno mai contro di essa” (ibid.). E necessario leggere un po’ più a fondo queste parole. Qui Gesù dà evidentemente l’impegno divino di un’assistenza perché mai prevalgano le forze avverse, che, siano di questo mondo, siano dell’altro, vengono tutte giustamente dette potenze infernali (gloria a quelli che vi si ascrivono, gloria! Infernali!). Però qui c’è la sentenza: finite, tutte! Vediamo in particolare a che cosa ha garantito l’indefettibilità con queste parole Nostro Signore. Ha garantito l’indefettibilità alla Sua Chiesa, cioè alla costituzione gerarchica della Chiesa, che è fatta di Sommo Pontefice, di Vescovi, di ministri e di fedeli, in posizione diversa, con responsabilità diverse e con dignità diversa, con capacità uguale per tutti rispetto al merito che vale nel Regno dei Cieli. A questa struttura ha garantito l’indefettibilità. Guai a chi la tocca! Guai, perché c’è la promessa divina su questo. Ma per che cosa era costituita questa società giuridica, gerarchica, visibile? Era costituita per portare con sé delle grandi cose, che in una celebre parabola del cap. XIII di Matteo (v. 44) Gesù chiama il “tesoro del Regno”. E su questo tesoro che scende la garanzia divina dell’indefettibilità. Attenti bene! La verità. Elevati ad esser figli di Dio, con l’ingresso del Verbo incarnato nel mondo gli uomini dovevano conoscere qualche cosa di più, e per questo c’è una Rivelazione. È verità. La verità di Dio è come Dio, non è soggetta né a mutazioni né a evoluzioni; sono soggetti a mutazione gli uomini, che possono passare dall’ignoranza incompleta ad una passabile acquisizione di nozioni, dalla stupidità colpevole – e questa veramente dilaga – alla umile accettazione dell’unica verità di Dio. Sono gli uomini che possono cambiare, che si trovano in diversa posizione. Come tutti gli scolari imparano la stessa grammatica, ma c’è chi piglia dieci e c’è chi piglia zero; e chi ha preso dieci ha meritato dieci e chi piglia zero ha meritato zero, ma la grammatica non cambia! È su questo che cade la promessa d’indefettibilità: sul deposito della dottrina. Guai a chi la tocca; finisce male! Non basta. Tutta l’azione sacramentale e scarificale con tutto il suo contorno, che non sto a descrivere, commessa alla Chiesa: su questo cade la promessa di indefettibilità. E attenti bene: tutti i Sacramenti e il Sacrificio sono caratterizzati dal fatto che hanno un effetto, che generalmente – salvo casi straordinari, come accadeva nei primi secoli, meglio nel I secolo per la Cresima – ne hanno risultanze esterne, e per volontà e designazione di Cristo stesso vengono resi noti ai fedeli attraverso elementi esterni capaci di significarli. – È così che le apparenze del pane e del vino qualificano la certa presenza reale sacramentale di Gesù Cristo nell’Eucaristia. E così che l’unzione crismale sulla fronte del cresimando accerta la discesa dello Spirito Santo e l’incisione di quel carattere crismale, che accompagnerà l’anima per sempre. Ossia, su questa realtà che deve esser continuamente tradotta con segni esterni adeguati scende la indefettibilità della Chiesa, avvertimento a coloro che vogliono lasciare le realtà soprannaturali senza segni esterni. Questa è irragionevolezza! Irragionevolezza che confina con qualche cosa di peggio dell’irragionevolezza, perché la necessità di tradurre agli uomini quello che essi non possono vedere con gli occhi del corpo mediante elementi accolti dalla natura e dall’arte degli uomini è affermata da Gesù Cristo stesso. Su questo modo sacramentale e sacrificale, che rappresenta tutto un mondo, scende la promessa di indefettibilità della Chiesa. E mi fermo qui. – Ora mi rivolgo a voi, prossimi sacerdoti e prossimi diaconi. Questa indefettibilità seguirà anche voi. Badate: non voi come voi, i vostri difetti, le vostre dimenticanze, ma seguirà quella parte del vostro ministero che voi farete degnamente, legittimamente, secondo gli ordinamenti della Chiesa, in nome e per autorità e come vicari di Cristo. Seguirà anche voi, e seguirvi indica tante cose, che non possiamo ora analizzare. Per voi, che siete, che sarete portatori della Grazia di Dio per le opere che compirete, il bene che farete – siatene certi – sarà sempre molto più grande e più lontano di quello che voi non crediate. Andrà sempre lontano, perché, fatto nell’ambito del ministero ricevuto con l’Ordine, nell’ambito della legittimità, con l’osservanza della legge della Chiesa, gode di tutti i carismi che sono conseguenze dell’indefettibilità della Chiesa. Quando vedrete niente, chiudete pure gli occhi e dentro di voi pensate a quali latitudini arriverà la vostra opera. Sarà necessario che viviate di fede per vedere ogni giorno, ogni momento, fin dove arriverà la vostra mano, la vostra benedizione, la vostra consacrazione, i vostri atti di ministero, e soltanto con la vostra fede capirete che l’onda da voi suscitata si propaga si direbbe all’infinito, come accade quando si getta un sassolino in un lago, le onde si propagano fintanto che c’è acqua e non si ristanno prima. Abbiate questa fede e uscite da questa Ordinazione, che sarà ora celebrata, con questa fede che sorregga, che vi dia una visione più giusta di quello che accade intorno a voi, che vi dia la pazienza di attendere, l’umiltà di perdonare ed anche la gioia di vedere, avendo chiuso gli occhi alla realtà umana. Questo consegno a voi, perché non si diparta mai dalla vostra anima!

[I grassetti sono redazionali]

IL TRIPLICE AFFIDAMENTO DELLA CHIESA AL BEATO PIETRO

[da I SERMONI di S. Antonio da Padova]

 «Pasci i miei agnelli» (Gv XXI,15-16). Fa’ attenzione al fatto che per ben tre volte è detto: «pasci», e neppure una volta «tosa» «mungi». Se ami me per me stesso, e non te per te stesso, «pasci i miei agnelli» in quanto miei, non come fossero tuoi. Ricerca in essi la mia gloria e non la tua, il mio interesse e non il tuo, perché l’amore verso Dio si prova con l’amore verso il prossimo. Guai a colui che non pasce neppure una volta e poi invece tosa e munge tre o quattro volte. A costui «il re di Sodoma», cioè i il diavolo, «dice: Dammi anime, tutto il resto prendilo per te» (Gen XIV, 21), tieni cioè per te la lana e il latte, la pelle e le carni, le decime e le primizie. A un tale pastore, anzi lupo, che pasce se stesso, il Signore minaccia: «Guai al pastore, simulacro di pastore, che abbandona il gregge: una spada sta sopra il suo braccio e sul suo occhio destro; tutto il suo braccio si inaridirà e il suo occhio destro resterà accecato» (Zc XI,17). – Il pastore che abbandona il gregge affidatogli, è nella Chiesa ìl simulacro di pastore, come Dagon, posto presso l’Arca del Signore (cf. IRe V, 2); era un idolo, un simulacro: aveva cioè l’apparenza di un dio, ma non la realtà.Perché dunque occupa quel posto? Costui è veramente un idolo, un dio falso, perché ha gli occhi rivolti alle vanità del mondo, e non vede le miserie dei poveri; ha gli orecchi attenti alle adulazioni dei suoi ruffiani e non sente i lamenti e le grida dei poveri; tiene le narici sulle boccettine dei profumi, come una donna, ma non sente il profumo del cielo e il fetore della geenna; adopera le mani per accumulare ricchezze e non per accarezzare le cicatrici delle ferite di Cristo; usa i piedi per correre a rinforzare le sue difese e riscuotere i tributi, e non per andare a predicare la parola del Signore; e nella sua gola non c’è il canto di lode né la voce della confessione. Quale rapporto ci può essere tra la chiesa di Cristo e questo idolo marcio? «Cos’ha a che fare la paglia con il grano?» (Ger XXIII,28). «Quale intesa ci può mai essere tra Cristo e Beliar?» (2Cor VI,15). – Tutto il braccio di quest’idolo s’inaridirà per opera della spada del giudizio divino, perché non possa più fare il bene. E il suo occhio destro, cioè la conoscenza della verità, si oscurerà, perché non possa più distinguere la via della giustizia né per sé, né per gli altri. E questi due castighi, provocati dai loro peccati, si abbattono oggi su quei pastori della Chiesa che sono privi del valore delle opere buone e non hanno la conoscenza della verità. E allora, ahimè, il lupo, cioè il diavolo, disperde il gregge (cf. Gv X,12), e il predone, cioè l’eretico, lo rapisce. Invece il buon pastore, che ha dato la vita per il suo gregge (cf. Gv X,15), di esso sempre sollecito, avendolo a sì caro prezzo, lo affida a Pietro dicendo: «Pasci i miei agnelli ». Pascili con la parola della sacra predicazione, con l’aiuto della preghiera fervorosa e con l’esempio della santa vita. – E fa’ attenzione: per due volte gli raccomanda gli agnelli, che sono più delicati e deboli, e una volta sola le pecore. E qui è da capire che coloro che nella Chiesa sono più delicati e più deboli devono essere assistiti e sostenuti con maggiori attenzioni, sia spirituali che materiali. Dice l’Apostolo: «Confortate i pusillanimi e sostenete i deboli» (lTs V,14). Dice infatti la Genesi: Dio prese Adamo, cioè il prelato, e lo pose nel giardino delle delizie, vale a dire nella Chiesa perché la coltivasse con le opere di misericordia verso i suoi fedeli e la custodisse (cf. Gen II,15) con la predicazione della parola, e insieme con i fedeli meritasse di raggiungere il premio del regno. Amen.

 

Preghiere per il Papa alla Messa.

Orazione

“Deus, omnium fidelium pastore et rector, famulum tuum Gregorium, quem pastorem Ecclesiæ tuæ præesse voluisti, propitius respice: da ei, quæsumus, verbo et exemplo, quibus præest, proficere; ut ad vitam, una cum grege sebe credito, pervenit sempiternam. Per Dominum …”

[O Dio, pastore e capo di tutti i fedeli, volgi benevolmente lo sguardo sul tuo servo Gregorio che hai preposto alla tua Chiesa; da’ a lui di giovare con la parola e con l’esempio ai suoi sudditi e di poter giungere, insieme al gregge affidatogli, alla vita eterna. Per nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio …]

Secreta

“Oblatis, quæsumus, Domine, placare muneribus: et famulum tuum Gregorium, quem Pastorem Ecclesiæ tuæ præesse voluisti, assidua protectione guberna. Per…”. [ Lasciati placare o Signore, dai doni che ti presentiamo, e guida con incessante aiuto il tuo servo Gregorio che hai messo a capo della Chiesa. Per nostro Signore Gesù Cristo, …]

Dopocomunione

“Hæc nos, quæsumus, Domine, divini sacramenti perceptio protegat: et famulum tuum Gregorium, quem pastorem Ecclesiæ tuæ præesse voluisti; una cum commisso sibi grege, salvet semper, et muniat. Per Dominum …”

[Ci protegga o Signore, il sacramento divino che abbiamo ricevuto; mantenga incolume e fortifichi sempre, insieme al gregge affidatogli, il tuo servo Gregorio che hai messo a capo della tua Chiesa. Per nostro Signore …].

Si raccomanda di recitare anche i Salmi sul nome PETRUS [Salmi sul nome PETRUS, exsurgatdeus.org]

 

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (2)

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE

ovvero IL PAGANESIMO NELL’EDUCAZIONE

(2)

[Mons. J. J. Gaume, trad. dal francese di A.V. – Napoli 1854]

CAPITOLO IV

RISPOSTA ALLA PRIMA OBBIEZIONE — STORIA DEI LIBRI

CLASSICI: PRIMA EPOCA

Voi dite, in primo luogo, che io sono troppo assoluto e che il cambiamento di stampo non fu sì compiuto come io pretendo. Per rispondervi, voi mi obbligate a narrare rapidamente la storia dei libri classici dallo stabilimento del Cristianesimo ai dì nostri: lo farò. Questa storia si divide naturalmente in tre epoche ben distinte. – 1) La prima si estende dalla predicazione degli Apostoli sino alla fine del quinto secolo. – 2) La seconda comincia nel sesto secolo e termina col decimo quinto: esso comprende il medio-evo propriamente detto. – 3) La terza parie dal sedicesimo secolo, e giunge sino a noi. Distinguendo accuratamente l’infanzia dall’adolescenza, noi diciamo: durante la prima epoca, i libri classici dell’ infanzia sono esclusivamente cristiani. Tutti sanno che le lingue da noi ora chiamate classiche o morte erano allora le lingue viventi di Roma e d’Atene, nonché di tutti i popoli inciviliti. I fanciulli le imparavano non nelle scuole, ma nel domestico focolare; non da maestri stranieri, ma dai loro parenti e dalle loro nutrici; non da regole, ma dall’uso, come noi stessi impariamo la nostra lingua materna. Ora, quella infanzia si prolungava molto. Non era infatti necessario di applicare così di buon’ora la gioventù allo studio della grammatica e di ritenervela, come si fa di presente, per tanti anni. Rimane a sapere quali racconti risuonassero di continuo alle orecchie dei fanciulli cristiani, in seno alla famiglia; quali libri essi maneggiassero esclusivamente colle innocenti loro mani; quali canti essi ripetessero in comune. La risposta non è dubbia: ognuno conosce l’estrema cura dei primi cristiani di nutrirsi e di nutrire esclusivamente la loro giovine famiglia della lettura de Libri Santi, degli Atti dei martiri e delle Lettere dei sovrani pontefici; di insegnarle sulle dita e di farle cantare con loro i salmi di Davide, di istruirla a fondo nei dogmi, nei precetti, negli usi della religione, acciò quei giovani atleti avessero all’occasione ed il coraggio di confessare la fede in mezzo ai supplizi, e la capacità necessaria per vendicarla dai sofismi e dalle calunnie de’pagani. Questo genere di istruzione non era nuovo. Lo si trova tra gli Ebrei, in ogni antichità e ad esclusione di ogni altro. Allontanare dai loro figliuolini ogni altro libro tranne i Sacri Annali della nazione, non far loro imparare e cantare se non i Canti religiosi di Mosè e dei profeti: tale fu, nessuno lo ignora, l’uso invariabile dei discendenti d’Abramo e di Giacobbe. Ebrei di origine, eredi dell’ antica Chiesa, gli apostoli formarono l’educazione dei fedeli sul tipo dell’educazione in uso nella nazione santa. – Le prove di questa asserzione si offrono in copia. L’esclusione degli autori profani è comandata , in termini oltre ogni dire formali, dalle Costituzioni apostoliche. In questo monumento, che Sant’Atanasio chiama la dottrina degli apostoli raccolta da San Clemente, e Sant’Epifanio, il riassunto, senza corruzione, delle regole di condotta, si legge: « Astenetevi da tutti i libri de’Gentili. Che ve ne fate voi di quelle dottrine, di quelle leggi straniere e di quei falsi profeti? Quelle letture han fatto perdere la fede ad alcuni uomini leggieri. Che vi manca egli nella legge di Dio, perché ricorriate a quelle favole? Se volete leggere storia, avete i libri dei re; se vi abbisogna filosofia o poesia, ne troverete nei profeti, in Giobbe, nell’autore dei Proverbi, e con maggior perfezione ed altezza che non in verun altro di quei sofisti e di quei poeti. Infatti, la sola parola di Dio è sapiente. Volete voi la lirica? leggete i salmi; origini antiche, forse? leggete il Genesi; leggi, precetti di morale? prendete il divin codice del Signore. Astenetevi dunque assolutamente da tutte quelle opere profane e diaboliche (Costit. Apost. Lib. I, c. 6) ». Quanto all’ assidua lettura della Sacra Scrittura per parte dei giovinetti, penetriamo nell’interno di alcune di quelle antiche famiglie d’Oriente e d’Occidente, il cui esempio fa testimonio dello spirito generale, e vedremo che il libro sacro era il primo classico dell’infanzia. « Non prima Origene uscì dalla culla, Leonida suo padre impresse nel suo spirito le lettere divine. Ei non si contentava già di dare a questo studio alcuni istanti rubati all’insegnamento ciclico: questo studio, ei l’aveva posto in prima fila. Ogni giorno ei faceva imparare al ragazzo alcuni passi delle Scritture, e il giovine Origene vi prendeva piacere maggiore che non a studiare gli autori greci ». Nella famiglia così cristiana e così illuminata dei Gregori, l’educazione si praticava nella stessa guisa. – La Sacra Scrittura era insinuata nello spirito dei fanciulli con i loro primi pensieri, per prendervi in qualche guisa posto del primo occupante. Così furono allevati i Santi Basilio e Gregorio di Nissa, i loro fratelli, le loro sorelle, Gregorio di Nazianzo e Cesario. Macrina una delle loro sorelle, divenuta istitutrice, senza essere madre, fece ancor più che non i suoi parenti ed i maestri suoi. Avendo essa fatto voto di verginità, prodigò al più giovine dei suoi fratelli, da lei veduto nascere, tutta quella materna tenerezza che le donne hanno naturalmente in cuore. Essa prese il fanciullo nella culla e lo volle essa allevar bene, secondo le sue idee. Ora, le sue idee non potevano non essere quelle da lei ricevute nella sua propria educazione. Sentiamo ora il suo illustre fratello, San Gregorio di Nissa, a farci conoscere quale era stata l’educazione di Macrina: « Appena Macrina uscì d’infanzia, egli dice, mostrò essa la più felice facilità nel1’imparare. Sua madre stessa aveva voluto essere la sua istitutrice; essa medesima studiava per istruirsi. Essa si guardò bene dallo insegnarle le finzioni dei poeti, di cui è vezzo imbevere i giovani animi. Sembrava a quella poco decente ed anche pericoloso il rappresentare all’immaginazione di sua figlia quei quadri, quei moti appassionati, pennelleggiati dai tragici poeti; ancor più le debolezze che si attribuiscono alle donne nelle commedie: era questo, a suo avviso, un infettare ed un corrompere, sin dalla più tenera età, un’anima ben nata. – « Essa pertanto aveva amato meglio fare una scelta dei tratti i più edificanti, delle massime le più segnalate dei nostri libri santi, e la sua figliuolina le imparava. Il libro della Sapienza le aveva somministrato una moltitudine di sentenze e di riflessioni proprie a formare il cuore ed a rischiarare lo spirito, per tutta la condotta della vita. Celesta madre egregia aveva estratto dai Salmi certe invocazioni ch’essa acconciava a tutti gli esercizi, in guisa che sia che sua figlia si alzasse, o si vestisse, o prendesse il suo cibo, essa aveva sempre qualche versetto di un salmo appropriato alla circostanza, e lo cantava come una graziosa canzone. Nel tempo stesso che Emilia coltivava così lo spirito della sua fanciulla esercitava le sue mani ai lavori del suo sesso e le insegnava a maneggiare abilmente la lana ed il fuso ». – Tale si fu 1’educazione di Macrina, e tale si fu quella del suo giovine fratello Pietro, di cui essa erasi incaricata. Lo studio delle lettere profane fu assolutamente esiliato dalla sua istruzione. La sua dolce istitutrice seppe adoperare e distribuire il suo tempo in modo, che non gliene rimase punto da dare alle vane scienze. – Questa educazione era ovunque la stessa. San Gerolamo, scrivendo a Gaudenzio e a Leta sull’educazione dei loro figliuoli, vuole che la giovine Pacatula, per prima istruzione, sin dal suo settimo anno, prima che i suoi denti siano forti abbastanza per far sua un’alimentazione soda, incomincia a tappezzare la sua memoria colle belle ispirazioni del re profeta, e che sino a quattordici anni essa faccia dei libri di Salomone, dell’Evangelio, degli apostoli e dei profeti. il tesoro del suo cuore. – « Si è dalla scrittura stessa, dice egli a Leta, che la vostra fanciulla comincerà a leggere, a scrivere, a parlare. La sua giovane lingua impari a ridire le soavi cantiche del re profeta. Non le si permetta di formare accozzamenti di parole prese a caso; si sceglieranno queste parole nelle sante lettere, e i primi che essa saprà pronunciare saranno i nomi degli apostoli, dei patriarchi e dei profeti. Il primo libro che essa imparerà sarà il Salterio: questi cantici divini, essa li canterà al suo svegliarsi. Nei Proverbi di Salomone, imparerà a vivere con saggezza; nell’ Ecclesiaste, a calpestare sotto i piedi le cose del mondo; in Giobbe, la virtù della pazienza e del coraggio. Passerà quindi all’Evangelio, per non più lasciarlo; essa si identificherà con gli Atti e con le Epistole degli Apostoli, ogni giorno ve ne reciterà alcuni passi che saranno come un mazzetto di fiori colti nelle Scritture … Tenetela lungi da tutte quelle letture che introducono un linguaggio pagano nel seno stesso del Cristianesimo. Che mai vi può essere di comune tra i canti profani del paganesimo e i casti accordi della lira de profeti? In quai modo amicare Orazio con Davide? Virgilio con l’Evangelio? Si ha bel volere salvarsi con l’intenzione; egli è sempre uno scandalo il vedere un’anima cristiana in un tempio d’idoli ». – Non si dica che qui si tratta dell’educazione delle giovinette. Noi abbiamo già veduto che la Scrittura era il libro classico dei fanciulli dell’uno e dell’altro sesso. Se ciò non basta, sentiamo ancora i Padri, regolatori e storici della famiglia primitiva. « Guardatevi, aggiunge San Crisostomo, dal tenere per superfluo lo studio dei nostri santi libri. La Scrittura insegnerà ai vostri figli ad onorare il loro padre e la loro madre: voi vi guadagnerete quanto essi stessi. Non dite che ciò non è buono se non per le persone separate dal mondo. Certo, io non pretendo fare di voi de’ solitari: diventasse pur tale il vostro figlio, ei non ci perderebbe nulla; ma no, basta che egli sia cristiano. Egli è destinato a vivere in mezzo al mondo; egli è nei nostri libri santi ch’esso imparerà la sua regola di condotta. Ma per questo fa d’uopo ch’egli se ne imbeva sin da’suoi giovani anni (Hom. XXI in ep. Ad Thes.) ». – Quando la comunità fu sostituita alla famiglia per l’educazione della gioventù, San Basilio scriveva: « lo studio delle lettere deve essere accomodato allo spirito dell’educazione dei fanciulli, le Sacre Scritture serviranno ad essi di vocabolario. Si racconteranno loro, invece di favole, le ammirabili storie della Sacra Bibbia; essi impareranno a meraviglia le massime del libro dei Proverbi; si proporranno loro ricompense, sia per le esercitazioni di memoria, sia per le loro composizioni, acciò si rechino allo studio come ad una ricreazione dell’animo senza noia di sorta, senza ripugnanza alcuna. – Ma evvi un fatto che dispensa da tulle le testimonianze. Ogni discorso degli antichi Padri della Chiesa, ogni pagina della storia di quei tempi eroici offre luminosa prova che la Scrittura era pure il libro classico di tutte le famiglie in Oriente e in Occidente. Origene, Sant’Atanasio, San Basilio, San Crisostomo,   Sant’Agostino e tanti altri non mancavano certo né di tatto, né di zelo, né di scienza, né d’eloquenza. In che modo dunque codesti grandi uomini avrebbero essi trattato innanzi ai fedeli le più alte questioni della Teologia, e della Scrittura, se essi non avessero saputo che i loro uditori, istruiti su queste cose fin dall’ infanzia, erano appieno in stato di capirle? – Si ignora forse che parola per un’altra, in una citazione dell’Evangelio, bastava per mettere in rumore tutta quanta un’assemblea? Si ignora forse che Sant’agostino non ardiva far leggere in chiesa la versione di San Girolamo, sebbene affatto ortodossa, temendo di sembrar proporre qualche cosa nuova e di scandalizzare i popoli avvezzi ad un’altra traduzione? Si ignora forse finalmente, che San Girolamo stesso, incaricato dal Papa San Damasti della correzione dei Libri Sacri, esita ad imprenderla, prevedendo che egli farà insorgere i reclami di tutti i fedeli? « Qual è mai, dice egli, il dotto o l’ignorante, il quale, pigliando in mano la mia traduzione, ed accorgendosi della differenza tra quanto ei leggerà e quanto egli ha, per dir così, succhiato col latte, non gridi tosto, e non mi tratti di falsario e di sacrilego, accusandomi d’aver osato fare qualche cambiamento, qualche aggiunta e mutilazione negli antichi esemplari? (Præf. In quatuor Evang.) ». La Scrittura era adunque il primo libro classico dell’infanzia ne’ secoli che toccano alla culla del Cristianesimo. Ai Libri Santi si univano gli Atti dei martiri, di cui i primi sono contemporanei degli Apostoli. Non solo nelle pubbliche assemblee e nelle chiese essi si leggevano; ogni fedele ne faceva in particolare la sua più ordinaria lettura: essi erano il libro della famiglia. I più grandi santi non cessavano di raccomandarne lo studio, e tale era la venerazione e 1’amore dei padri nostri per questi sacri monumenti, che molti li portavano indosso, non polendosene separare nemmeno nei loro viaggi. Quindi non risparmiavano spesa alcuna, non s’atterrivano a nessun pericolo per procurarseli. Lo stesso era delle lettere de’ sovrani pontefici. Lette nelle sinassi, commentate e rilette nel domestico focolare, diventavano esse per i padri e per i figlioli una regola viva di condotta e di fede, ed una fonte di consolazioni. Più tardi vi si aggiunsero le opere dei primi santi e dei primi difensori della religione. Così durante i primi cinque secoli, classici esclusivamente cristiani ammanivansi all’infanzia cristiana, e l’infanzia rimaneva molto più lungo tempo all’ombra tutelare del focolare domestico: tale sì è il doppio fatto che risulta dai primi monumenti dell’oriente e dell’Occidente. – La frequentazione delle scuole pagane, la lettura delle opere pagane non cominciavano se non in una età più inoltrata e dopo che il fanciullo era munito degli antidoti migliori. A questo proposito, i particolari che precedono e la storia dei più illustri Padri della Chiesa non permettono alcun dubbio. San Basilio e San Crisostomo erano adolescenti quando ascoltavano le lezioni del retore Libanio; San Gregorio di Nazianzo non era più giovine quando fu mandato a Cesarea dapprima, poscia ad Alessandria e finalmente ad Atene; San Girolamo aveva diciotto anni quando andò a Roma a studiare grammatica sotto Donato. Per gli adolescenti, e solo per gli adolescenti, classici pagani, scuole pagane. E come sarebbe stato altrimenti? Il Cristianesimo, privo, nel suo nascere, d’ogni umana letteratura, trovò la società pagana in possesso della letteratura e della scienza. Ai maestri pagani apparteneva esclusivamente il diritto d’insegnare dalle pubbliche cattedre. Se qualche cristiano imprendeva a farlo, era forzato a servirsi di autori pagani. Tali autori infatti erano considerati da tutti siccome i modelli finiti dell’eloquenza, della poesia e delle umane lettere. Se i maestri cristiani proibito avessero ai loro discepoli lo studio di quelle opere, se essi stessi proscritte le avessero dalle loro scuole, qual mezzo v’era d’iniziare i giovani cristiani alle scienze umane? Quale specioso pretesto non avrebbero avuto i pagani di calunniare il Cristianesimo? Avrebbero essi forse tralasciato, come non arrossirono di fare i pagani di questi ultimi tempi, di accusarlo d’oscurantismo e di barbarie? Gli epiteti ingiuriosi di setta d’idioti, di setta nemica dei lumi, ch’essi gli prodigarono senza fondamento, con quanta apparenza di ragione non gli sarebbero stati applicati, se il Cristianesimo chiuso avesse ai suoi discepoli le sole fonti in allora note della scienza, della eloquenza e della filosofia? Cosiffatta opinione avrebbe evidentemente rovinato le scuole dei maestri cristiani, e costretto la gioventù ingenua a volgersi solo ai dottori del paganesimo. Bisogna confessarlo, nulla era più triste di somigliante condizione dei giovani cristiani. Tuttavolta essa era parimenti esente da pericolo e da errore. – Da pericolo; soltanto, come abbiamo veduto, dopo essersi affatto premuniti contro il veleno delle opere e dei maestri pagani, essi si servivano delle une e degli altri. Tertulliano, testimonio oculare di sì saggia condotta, le rende testimonianza colle parole seguenti: « I nostri giovani sono egualmente sicuri che colui, il quale, conoscendo il veleno offerto da chi noi conosce , lo riceve e non lo beve. La necessità li scusa, poiché non hanno altro espediente per istruirsi ». Da errore; poiché non la curiosità, non il piacere, ma solo la necessità li spingeva a leggere le opere e ad ascoltare i maestri pagani. San Girolamo parla di tale necessità, quando, condannando i cristiani ed in ispecie gli ecclesiastici che leggevano gli autori pagani solo per piacere, scusa i giovani costretti a ciò fare. « Ciò che è, egli dice, una necessità per la gioventù, ei lo mutano in delitto, per puro genio ». – Ma qual era dunque questa necessità? Si resterà ben meravigliati al sapere ch’essa differisce essenzialmente dal motivo che dopo il Rinascimento serve di pretesto allo studio degli autori pagani. Si è, dicesi, per insegnarci a ben pensare, a ben sentire e a scrivere bene che ci fanno studiare Virgilio e Cicerone, Omero e Demostene. Nel suo complesso, un tale scopo sarebbe stato riguardato dai padri nostri come un insulto alla religione e come una specie di apostasia. « Che mai vi può egli essere di comune, grida San Gerolamo, tra la luce e le tenebre? Tra Gesù Cristo e Belial? Tra 1’Evangelio e Virgilio? Tra San Paolo e Cicerone? Non è forse uno scandalo pel vostro fratello il vedervi nel tempio degli idoli? Ci è vietato di bere in egual tempo al calice di Gesù Cristo ed ai calice dei demoni ». Era forse, come si pratica da tre secoli, per fare ammirare dai giovani cristiani le ricchezze della filosofia pagana e farne loro adottare qualche sistema? Ma eglino chiamavano i filosofi, animali di gloria, patriarchi degli eretici; e colui al quale noi non temiamo di dare il nome di divino, il grande artista di tutti gli errori che desolavano la Chiesa. Essi andavano anche più lungi; componevano opere a bella posta per abbandonar quelli e i loro sistemi alla pubblica derisione. Simile linguaggio in bocca ai padri prova forse l’intenzione di far dei giovani cristiani i discepoli dei filosofi? – Era forse almeno, come ci si raccomanda di fare, per copiare i loro oratori, per appropriarsi le forme della loro eloquenza, le qualità del loro linguaggio? Nessuno vuol negare che gli antichi Padri della Chiesa non abbiano imparato nei libri pagani le parole, le espressioni, lo stile; sia perché, prima di aver essi stessi composto libri sulle cose umane non ne esistevano che potessero servire di modelli; sia perché la maggior parte erano nati nel paganesimo e non si erano convertiti se non in un’ età già inoltrata. V’è egli a meravigliarsi che, figliuoli di pagani, e pagani essi stessi per una parte di loro vita, abbiano imparato la lingua pagana ed anche la retorica pagana, che molti insegnarono con rinomanza? Quanto all’eloquenza che forma ancora la loro gloria, non ne attinsero quelli per nulla negli autori pagani il fondo e nemmeno la forma; ma si nei Libri Sacri, nei profeti soprattutto, con i quali, secondo San Gerolamo, una meditazione continua li aveva identificati. – La prova luminosa ne è che 1’eloquenza dei Padri differisce dall’eloquenza dei pagani oratori quanta è la distanza che separa il cielo dalla terra. Come l’ultima si distingue per l’arte del retore, per la scelta delle parole e per 1’eleganza delle frasi, così la prima per la spontaneità delle espressioni, per la sodezza dei pensieri, per la vivacità de’ sensi, per la forza e per l’abbondanza delle prove. Così, le sparse membra di Cicerone, disjecta Tullii membra, che agevolmente si riconoscono in Quintiliano, esempio, indarno le cerchereste in Sant’Ambrogio, in San Massimo, in Sant’Agostino, in San Cipriano, in San Leone, in San Pietro Crisologo, in San Gregorio. Lo stesso dicasi di Demostene o d’Isocrate per Sant’Atanasio, per San Basilio, per San Crisostomo, per San Gregorio di Nazianzo, per San Cirillo d’Alessandria. – Nulla negli immortali loro discorsi che senta l’imitazione del paganesimo. Tutto vi è primitivo, archetipo ed ispirato dalla forza invincibile della fede e dall’ardente zelo della salvezza del mondo. Quanto dissi dell’eloquenza, si attaglia a tutti i generi di stile storico, epistolare, filosofico. La frase di Eusebio, di Sulpizio-Severo, di Giulio Africano, di San Cipriano, di San Paolino, di San Giustino, d’Origene e degli altri scrittori del Cristianesimo, a volte storici, epistolografi, filosofi, non rassomiglia per nulla al modo di Senofonte, di Svetonio, di Cicerone, di Plinio, di Seneca. Se, come pretendesi, i Padri leggevano e facevano leggere gli autori pagani per imitarli, bisogna confessare eh’ ei furono bene sgraziati. Pure non mancavano né di studio, né di sapere, né di genio. Che dico mai? Eglino li imitavano a pennello quando volevano. Sant’Agostino ne cita un esempio solenne, tratto da San Cipriano; poscia soggiunge. « Pel numero, per l’eleganza, per l’abbondanza, quella frase è ammirabile; ma la sua ricchezza stessa non è conforme alla gravità cristiana. Coloro che amano tal modo di scrivere accusano quelli che non l’adoprano di non poterlo adoprare: ei non sanno, che per ragione e per buon gusto se ne astengono. San Cipriano dimostrò dunque ch’egli poteva adoperare simile linguaggio, poiché il fece: e dimostrò che nol voleva, poiché nol fece più. – San Gerolamo, giudice non meno preclaro in simile materia di Sani’Agostino, fa pure testimonianza che Lattanzio imitò affatto Cicerone, e Sant’Ilario lo stile di Quintiliano. Codesta imitazione era essa una gloria? Niente affatto; Sant’Agostino ce lo fece sentire, e San Gerolamo dice chiaramente: « Quanto voi ammirate, e noi lo disprezziamo ». I Padri greci opinano come i Padri latini. Certo se i giovani cristiani avessero dovuto studiare i profani autori per formarsi stile e gusto, sotto pena di non possedere mai né 1’uno né l’altro, come non si rifinisce da tre seco, si ritroverebbe senza fallo questo precetto in San Basilio, il quale compose un’opera speciale a prò dei giovani, per servire loro di guida nello studio degli autori pagani. Ebbene, il grande dottore non ne dice molto, non una sola parola! Conoscete voi cosa più eloquente di un tale silenzio? – Ma insomma, voi dite, qual era dunque lo scopo che raggiunger si voleva permettendo ai giovani cristiani di leggere le opere dei pagani e di frequentare le loro scuole? Quale vantaggio pretendevasi ricavarne? Voi converrete dapprima, che agli occhi d’uomini sì gravi e sì religiosi come i padri nostri, lo scopo doveva essere serio e il vantaggio tale da compensare i pericoli molto gravi che lo studio dei libri pagani poteva, malgrado tutte le cautele, far correre all’innocenza e alla fede dei figli loro. Meno una necessità imperiosa, un padre non abbandona il figliuolo della sua tenerezza ai pericoli di un mare tutto sparso di scogli. La è una prova di più, che si trattava per quelli di cosa ben altra che non del fanciullesco profitto di formare retori od accademici. Si trattava per i loro figliuoli: 1° Di conoscere la storia della patria loro e degli altri popoli i cui archivi, scritti da mani pagane, erano esclusivamente in potere de’pagani: 2° Di apprendere le arti, le scienze fisiche, naturali, mediche, il cui monopolio apparteneva egualmente al paganesimo: 3° Di restituire al Cristianesimo, erede di tutto, le verità che il paganesimo, usurpatore audace, erasi appropriato e che, depositario infedele delle tradizioni prime, aveva sfigurato: 4° Di servirsi, ad esempio di San Paolo, delle massime, degli esempi, dell’autorità dei poeti, de’saggi e dei filosofi pagani, sia per infervorarsi alla pratica di qualche virtù, sia per rendere più accessibili alla ragione le verità e i precetti della fede, o, come dice Sant’Agostino, di pigliare agli Egizii i lor vasi d’oro e d’argento, e di darli agli Israeliti, per farli servire all’ornamento del Tabernacolo: 5° Di ben conoscere gli errori dei pagani, i loro pregiudizi contro il Cristianesimo, i loro argomenti in favore dell’idolatria, le obbiezioni e i sistemi dei filosofi, per confutarli sodamente e spesso anche per sconfiggerli con le proprie loro armi. Infatti, qual mezzo evvi per vincere un nemico, di cui non si sa né il modo di guerreggiare, né le forze, né le armi, né le fortezze? Tale si era il grande, l’unico interesse dei cristiani illuminati. Posti, sino dalla culla, in faccia ai nemici instancabili di loro religione, non si vedevano obbligati a combattere notte e giorno per sé e per i loro fratelli? Ora, per raggiungere questo scopo, diciamo meglio, per adempiere questo grande dovere, indispensabile cosa era il conoscere non solo la scienza de pagani, ma eziandio la loro lingua, e di parlarla con una certa purezza, per tema d’essere tacciati da quelli d’ignoranza o di barbarie, e di non ottenerne attenzione di sorta. – Sui motivi di fare studiare alla gioventù gli autori pagani nei primi secoli della Chiesa, voi avete udito San Basilio, Sant’Agostino, San Giustino, Taziano, Clemente d’Alesandria, Ermias, San Gerolamo, e con essi tutte le più sagge dei giovani cristiani. – Dal loro unanime insegnamento risulta questa inattaccabile conclusione, cioè; che i primi cristiani studiavano il paganesimo nelle lettere e nelle scienze, non già per imitarlo, cioè per perpetuarlo quanto al fondo o quanto alla forma, ma per attingervi quanto vi era di proficuo sia alla gloria, sia alla difesa della religione. In tal guisa la Chiesa studiò il paganesimo nell’arte, non per perpetuarlo nel fondo o nella forma, ma sì per impadronirsene e per farlo servire, trasformandolo, di elemento all’arte cristiana; in tale guisa ancora essa lo studiò nei suoi sistemi religiosi e filosofici, non per esaltarli, ma per ridurli in polvere.

CAPITOLO V

SEGUITO DEL CAPITOLO PRECEDENTE.

Nulla di più serio delle ragioni allegate dai Padri per far studiare all’ adolescenza cristiana gli autori del paganesimo e permetterle di frequentare le sue scuole. Tuttavolta, cosa degna della più grande attenzione, i Padri stessi non si accordano, su questo punto, tra di loro. Conforme allo spirito delle Costituzioni apostoliche, il maggior numero si pronunciò formalmente contro siffatto genere d’insegnamento, a cagione del pericolo ch’ei faceva correre alla fede ed ai costumi. Gli altri pensano che gli adolescenti vi si possano dare, ma con riserva e con grandi cautele. In nome di coloro che lo permettono, sentiamo Tertulliano, San Gregorio di Nazianzo e San Basilio; sentiremo più tardi quei che lo vietano: « Quando un fanciullo, dice Tertulliano, allevato nella fede, imbevuto dei suoi principii, va a scuola (d’un maestro pagano , egli deve essere avvertito e premunito contro l’errore. Esso se ne preserverà, imparerà la lettura che gli è utile, e disprezzerà una dottrina empia e menzognera, su cui egli sa già a che attenersi » . – « Gli è avviso comune di tutte le persone di buon senso, dice alla sua volta San Gregorio di Nazianzo, che in prima fila fra i beni ricevuti da un uomo in sorte, bisogna collocare l’istruzione. Non parlo soltanto delle cognizioni in un ordine di cose sovrannaturale, cognizioni che possono ben essere estranee a tutte le grazie, a tutti gli ornamenti del linguaggio … Io ho in vista eziandio quell’istruzione che è oltre la fede e i suoi dogmi, quelle cognizioni che la più parte dei cristiani considerano come vane e illusorie, piene di pericoli, proprie solo ad allontanare le anime da Dio, e che per tale titolo coloro disprezzano ed abborriscono. – La divergenza d’opinioni che noi indichiamo va diminuendo a misura che il Cristianesimo stende il suo impero, e che i suoi libri si moltiplicano; per conseguente, a misura che i motivi di studiare il paganesimo e di toglierne a prestito qualcosa perdono del loro valore. Perciò noi scorgiamo lo stesso San Gregorio di Nazianzo, che s’era dimostrato sì favorevole allo studio delle lettere pagane, modificare la propria opinione e, verso la fine del viver suo, scrivere in questi concetti ad uno dei suoi amici, Adamanzio, il quale gli chiede libri di letteratura: « I libri che tu mi chiedi, ridiventato fanciullo per studiare retorica, io li posi in disparte dal giorno in che, obbedendo all’ ispirazione divina, rivolsi gli occhi verso il cielo. Bisognava bene che tutti gli scherzi della fanciullezza avessero un termine; bisognava cessar di balbettare per aspirar finalmente alla vera scienza, e sacrificare al Verbo tutti questi discorsi frivoli, con quanto aveva formato sino allora la gioia dei miei ozi. Ma, giacché hai deciso di dare la preferenza a ciò che occupar deve il secondo posto; poiché nulla di quanto ti si potrebbe dire ti svolgerebbe da questo disegno, eccoti i miei libri. Ti invio tutti quelli che sono sfuggiti ai vermi e che il fumo non ha anneriti, a quegli uncini a cui io li avevo sospesi, al disopra del mio focolare, come il nocchiere che si ritrasse dal navigare sospende il suo timone. Io t’invito però a studiare i sofisti ampiamente e con ardore. Acquista tutte le cognizioni necessarie e farne partecipe la gioventù, purché il timore di Dio domini tutte queste vanità (1) »[Ep. 199]. – Ma ecco qualcosa più grave dello stesso Padre. Nell’elogio di Sant’Atanasio, Gregorio, trascinato da una giusta ammirazione pel generoso difensore della fede, loda senza restrizione d’avere di buon’ora lasciato la coltura delle lettere e delle scienze umane. « Ei fu allevato, dice, nei buoni costumi ed iniziato alle scienze ed alle lettere; ma non prima ne seppe abbastanza per non parere affatto incolto ed ignorante in quest’ordine di cose, si dedicò affatto alla meditazione dei libri Sacri ». Quale differenza tra questo linguaggio del santo dottore e certi passi delle sue lettere! Il suo amico Basilio subisce la stessa influenza. Dopo il suo battesimo, ei si mette a piangere qual sogno tutto il tempo di sua vita da lui consumato negli studi letterari e filosofici: « Io mi svegliai, dice, come da un sonno profondo; e, come la luce dell’Evangelio rischiarò i miei occhi, riconobbi la vanità della scienza e dell’umana sapienza. Dacché mi trattengo con Mose e con Elia, scrive a Libanio, e dacché ricevo dalla loro barbara lingua le lezioni che trasmetter debbo ai miei fratelli, ho dimenticato del tutto quanto imparai alla vostra scuola (Ep. 339). » Dall’influenza che godevano nella Chiesa uomini come Atanasio, Basilio e i due Gregorii, si può giudicare della disposizione generale degli animi prima della fine del quarto secolo. Sino dal principio del quinto, l’umanità regnò su questa grande questione. Si erano alla perfine aperti gli occhi sui pericoli dell’insegnamento profano: le ripugnanze della più parte dei cristiani, come dice San Gregorio erano riconosciute ben fondate. Si capiva oramai « che sperar non si poteva il compiuto trionfo dell’Evangelio e dei cristiani costumi sull’idolatria e sui costumi così corrotti dei Greci e dei Romani, infino a che la gioventù delle scuole attingesse le sue idee, alimentasse la sua immaginazione, prendesse la regola de suoi giudizi nello studio delle opere dell’antichità. Una nuova morale, nuove leggi, un nuovo mondo uscir non potevano, colla educazione, se non da una nuova letteratura. » – « Come era possibile, dice un moderno filosofo, combinare il Cristianesimo colla eredità degli antichi popoli? Le tradizioni antiche, la ricordanza delle grandi azioni passate, quella degli antenati che procacciato avevano una così grande rinomanza, una sì grande potenza ai loro nipoti, tutto questo attraeva gli animi in un senso, ed il Cristianesimo colle sue promesse in un altro ». – Tre grandi atleti, San Crisostomo, San Gerolamo, Sant’Agostino, sono suscitati da Dio per chiudere le discussioni, per finirla colla scuola pagana e per aprire un’era nuova. Tutti e tre assalgono il paganesimo classico, precisamente sotto gli stessi riguardi che lo fanno tanto stimare dopo il Rinascimento. Inutile come filosofia, vano come letteratura, pericoloso come morale: ecco il triplice marchio ch’essi gli imprimono sulla fronte. – « Da qual male, grida il primo, siamo noi dunque minacciati se ignoriamo le belle lettere (cioè la letteratura profana)? Non solo fra noi, i quali ridiamo di tutta questa vana sapienza, di tutta quest’arte che ci è straniera, le lettere non hanno alcun pregio. Filosofi che non sono dei nostri non ne hanno fatto verun caso Il che non gli impedì d’acquistare una giusta celebrità…. Quanto dunque non saremmo noi da biasimare, noi illuminati dalla fede, se tanto caso facessimo di un ingegno spezzato da coloro stessi che non si nutrono se non di vento; e se per l’acquisto di cosa sì vana corressimo rischio di sacrificare ciò che solo è necessario….? Gli Apostoli, ed un gran numero di santi personaggi che non avevano studiato questa letteratura, non convertirono meno il mondo; mentre nessun filosofo è giunto finora a convertire un tiranno. Dopo avere esposto tutti i pericoli di questo studio, soggiunge: « Non sarebb’egli l’ultimo grado della crudeltà il gettare nell’arena, in mezzo a tanti nemici, i poveri fanciulli che non sono nemmeno capaci di difendersi contro loro stessi? ». – Il secondo sembra avere scritto il suo ammirabile trattato De doctrina cristiana per far venire a nausea per sempre ai giovani cristiani il paganesimo classico. « Infatti, dice il signor Lalanne, frammezzo agli egregi consigli che il santo dottore dà sull’eloquenza, si è meravigliati dapprima della sua riservatezza nel non citare e nel non nominare alcuno scrittore profano … Invece di consigliare, come lo fanno ancora i nostri retori, le opere di Cicerone, di Demostene, di Tito Livio, egli li passa affatto sotto silenzio, e soggiunge: « Noi non manchiamo di scrittori ecclesiastici, indipendentemente da quelli che lo Spirito Santo ispirò, nelle cui opere un uomo ingegnoso saprà attingere senza sforzo veruno, solo leggendole attentamente, modelli di eloquenza, e non avrà più se non a ben esercitarsi sia a scrivere, sia a dettare, e finalmente a parlare come gli sarà dalla pietà inspirato (lib IV n. 4-7) ». – Quanto a San Gerolamo, ei fu, come è noto, l’Origene del suo tempo, il dotto in cui tutta la scienza ecclesiastica dei secoli passati si riassumeva in qualche modo. Egli aveva fatto prestanti studi sotto maestri pagani, ed era già molto istruito quando si diede tutto al servigio della religione. Nella forza degli anni e frammezzo agli scritti letterari i più severi, egli scrisse al papa Damaso, sopra un versetto della parabola del Figliuolo Prodigo, in cui è detto che quel giovine bramava, per attutire la sua fame, i bricioli che si gettavano ai maiali: « Si può capire pel cibo dei maiali la poesia, la falsa filosofia del mondo, la vana eloquenza degli oratori. La loro grata cadenza e la dolce loro armonia, lusingando l’orecchio, s’impadroniscono dell’animo ed ammaliano il cuore; ma, dopo che simili opere si sono lette con molta attenzione, non troviamo in noi se non il vuoto ed una specie di capogiro. E non ci illudiamo dicendo che noi non prestiamo fede alle favole di cui quegli autori empierono gli scritti loro. – Onesta ragione non ci scusa punto, giacché noi scandalizziamo gli altri, i quali credono che noi approviamo quanto essi ci vedono leggere. » Nel processo di quest’opera noi citeremo altri giudizi dello stesso santo dottore, parimenti precisi e molto più severi. – Per compendiare in poche linee tutta questa discussione sul paganesimo classico nei primi secoli, diremo col sapiente scrittore, da noi sopra menzionato: « Dopo questo grande e mirabile rivolgimento, operato da uomini tali che dir si potè: “Infirma mundi elegit Deus, ut confundat fortia”, il Cristianesimo si presenta nella persona dei suoi propagatori con tutto il prestigio, con tutta la pompa delle lettere e delle scienze ammirate dal paganesimo. Gli era il vincitore il quale impadronivasi e rivestivasi delle armi del suo nemico disfatto; ei ne ebbe d’uopo un istante per la difesa e per l’assalimento. Ei se ne servì ed esortò i suoi a rendersi capaci di impugnarle. Ma bentosto, sentendo che quella straniera armatura, la quale non era fatta per esso, lo feriva e gli si attagliava male, se ne spogliò pezzo a pezzo: oppure, non facendone più guari caso, cessò di cercarla. Al cospetto del colosso della barbarie, il Cristianesimo entrò in lizza con le sue vestimenta le più semplici, con la sola arma della croce, come quel pastorello che armato solo di fionda recavasi ad atterrare un gigante: ambi avevano riposto in Dio la loro fiducia ». Partendo dal sesto secolo sino alla metà del decimoquinto non si adoperarono più, generalmente parlando, o solo in modo molto secondario, autori pagani nella educazione della gioventù. « Al cominciare del quinto secolo, noi ci imbattemmo in tre grandi uomini, discepoli del quarto secolo, eredi di tutta quanta la sua scienza filosofica e letteraria, degni di essere gli ultimi di quella splendida legione di scelti intelletti, dai quali la Chiesa era stata cotanto illustrata. Noi li vedemmo dare, in qualche guisa, alla posterità il segno della grande diserzione dai templi letterarii della Grecia e del Portico, e dell’Accademia, e di Atene, e del Museo, del pari che di Corinto e di Pafo; e, con coraggiosa mano, precipitare il mondo in una oscurità momentanea per fargli perdere di vista le false luci che lo traviavano ». – La Provvidenza secondava la loro azione coi grandi avvenimenti che allora si compierono. L’Impero Romano, coi suoi monumenti e colle sue arti, e con i suoi libri, periva sotto i colpi dei barbari. Nel tempo stesso, un Pontefice grande fra tutti diventava il creatore di una letteratura e di una lingua nuova, espressione affatto pura della cristiana società, rimasta sola in piedi fra le rovine. Questo pontefice è San Gregorio, del quale avremo più fiate occasione di parlare nel procedere delle nostre ricerche.

[2 – Continua …]

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (1)

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE

ovvero IL PAGANESIMO NELL’EDUCAZIONE

(1)

[Mons. J. J. Gaume, trad. dal francese di A.V. – Napoli 1854]

LETTERA

Di Sua Eminenza monsignor cardinale Gousset, arcivescovo di Reims, al signor Abate G. Gaume, vicario generale di monsignor vescovo di Nevers.

SIGNOR VICARIO GENERALE,

Ho letto le bozze del libro che voi vi proponete di pubblicare sotto il titolo: IL VERME RODITORE DELLE SOCIETÀ MODERNE, Ovvero IL PAGANESIMO NELL’EDUCAZIONE. La lettura di quest’opera mi ha vivamente interessato pel modo con cui voi vi trattaste questioni della massima importanza. Mi pare che voi abbiate perfettamente dimostrato che, da vari secoli, lo studio pressoché esclusivo degli scrittori pagani nelle scuole secondarie, godette sulla educazione della gioventù e sull’animo delle società moderne una funesta influenza. Il perché gli amici della religione e dell’ordine sociale capiranno agevolmente, come voi stesso capiste, la necessità di modificare, nei luoghi di pubblico insegnamento la direzione degli studi in quanto riguarda la scelta dei classici autori, in guisa da farvi predominare gli scrittori cristiani, greci e latini, le cui opere sono sì acconce ad ispirare ai giovani la pratica delle virtù evangeliche ed a rimettere in tutto il loro vigore i principii costitutivi della società. Questo pensiero può ancora trovar contraddittori: ma ho motivo di sperare che il vostro libro avrà tosto o tardi felici risultati, e non posso non rallegrarmi con voi sinceramente di tale pubblicazione. – Ricevete, signor Vicario generale, l’espressione dei miei sensi devoti ed affezionati.

Parigi, ad giugno 1831.

Cardinale GOUSSET, Arcivescovo di Reims.

PRŒMIO

Che fa egli il medico al vedere l’infelice alle prese con un morbo che d’ora in ora minaccia di precipitarlo nella tomba? Sei non è cieco o colpevole, sua prima cura si è il ricorrere non ai palliativi, non ai rimedi ordinari, ma agli ultimi mezzi dell’arte per produrre una salutifera crisi: se uopo è, si adopereranno il ferro ed il fuoco, malgrado le resistenza e le grida dell’ammalato. – La società è inferma, molto inferma. Sintomi ognora più spaventevoli non permettono ad alcuno di dubitare della gravità del male. Per scongiurare una inevitabile morte, i palliativi, i rimedi ordinari bastano essi? No. Tal è il vostro avviso, e tale è pure il mio. Un rimedio efficace è dunque necessario. – Bisogna produrre un rivolgimento profondo, compiuto, e subito, perché il tempo stringe, ed ogni ora di ritardo può divenire fatale. – Ma dov’è la sede del male? Oggigiorno più che mai essa è negli animi. Gli animi si guariscono non con leggi, ma con costumi. I costumi si formano coll’educazione. L’educazione colpisce non già l’età matura, ma l’infanzia. Rimedio lento, direte voi: rimedio impotente adesso. È vero, noi scriviamo fra il muggire della burrasca. Secondo ogni apparenza, il fulmine sarà scoppiato prima che il parafulmine abbia potuto scaricare la nube. Ma la tempesta passerà, e bisogna che sul terreno sconvolto l’infanzia trovi aperta la pura sorgente della verità, se non si vuole sin dal domani dell’uragano prepararne un nuovo. Sia pure, come voi pensate, che l’intero edificio non possa essere conservato; date dunque la sua parte al fuoco: coloro che vogliono correre a morte, corrano a morte. Se il presente è condannato, salviamo l’avvenire. Su questo punto si deve concentrare tutta la possa dei nostri sforzi; su questo punto deve operarsi il rivolgimento che solo può strappare l’infermo alla morte. – Di tale rivolgimento molti parlano e pochi lo capiscono; vari lo hanno tentato, nessuno vi è riuscito. Proverò di dirne la ragione, dicendo come debba essere. – In codesti ultimi tempi molto si discusse sulla liberta dell’insegnamento; essa venne chiesta con energia, con perseveranza, e come una necessità e come un diritto. Onore al coraggio, onore all’ingegno, sì nobilmente consacrato al buon esito di questa grande causa! Pure, per grave ch’essa sia, la questione di libertà è dominata da un’altra ancora più grave. La libertà non è uno scopo; essa è un mezzo. Il punto essenziale non è già di rendere liberò l’insegnamento, ma sì di renderlo cristiano. Altrimenti la libertà non servirà se non ad aprire un maggior numero di fonti avvelenate, alle quali la gioventù andrà a bere la morte. Rendere cristiano l’insegnamento, ecco l’ultima parola della lotta, ecco quello che bisogna intraprendere, che bisogna realizzare ad ogni costo. Ciò vuol dire anzi tutto: sostituire il Cristianesimo al paganesimo nella educazione. Bisogna ribadire la catena dell’insegnamento cattolico, manifestamente, sacrilegamente, sgraziatamente infranta in tutta Europa da quattro secoli. – Bisogna ricollocare presso la culla delle nascenti generazioni la pura sorgente della verità invece dalle impure cisterne dell’errore; lo spiritualismo invece del sensualismo; l’ordine invece del disordine; la vita invece della morte. – Bisogna di nuovo informare del principio cattolico le scienze, le lettere, le arti, i costumi, le istituzioni, onde guarirle dalle vergognose infermità che le divorano, ed affine di sottrarle alla dura schiavitù sotto cui gemono. Bisogna cosi salvare la società, se essa può ancor essere salvata, od impedire almeno che tutta la carne non perisca nello spaventoso cataclisma che ci minaccia. – Bisogna così secondare i manifesti disegni della Provvidenza sia temprando come l’acciaio coloro che sostener devono l’urto della grande lotta, verso la quale noi ci incamminiamo rapidamente, sia conservando alla religione un piccolo numero di fedeli, destinati a divenir la semenza di un regno glorioso di pace e di giustizia, od a perpetuare fino al fine, fra prove gloriose, la visibilità della Chiesa. Tale è la rivoluzione di cui si tratta. Questa rivoluzione è gigantesca e l’uomo è nulla. Questa rivoluzione incontrerà resistenza di più d’una sorta; essa forse susciterà opposizioni appassionate; pure è possibile: più possibile oggi che altre volte. Giudicatene. Ora fa sedici anni, l’autore del CATTOLICISMO NELLA EDUCAZIONE dimostrò pel primo, ex professo, il verme roditore della moderna Europa. Collo scopo confessato di distruggere l’impero usurpato dal paganesimo sulla educazione dei popoli cristiani, ei predicò la guerra santa. Senz’essere profeta, non gli fu difficile di annunziare che la società giungerebbe in breve alla propria rovina, ov’essa non s’affrettasse a mutare sistema. Ma da una parte, intaccare il paganesimo classico era in allora una bestemmia; d’altro lato la società ebbra di sensualismo non prestava l’orecchio se non alle sirene, i cui perfidi canti attraevano verso l’abisso. Per questo doppio motivo, la sua voce non ebbe guari eco; e, meno felice dell’Eremita del medio-evo, ei trovò a mala pena alcuni cavalieri disposti alla battaglia. Isolato sotto i fuochi incrociati dei nemici ed anche degli amici, egli fu giocoforza abbandonare il campo di battaglia. Egli aveva avuto ragione troppo presto; ei si ritirasse aspettando che tempo venisse di avere ragione. Onesto tempo è giunto, o non giungerà; poiché la società muore, e poi le circostanze sono cangiate d’assai. Agli accenti delle sirene è succeduto il rumore del tuono, l’ebbrezza della prosperità si è dissipata ai colpi delle catastrofi; i solenni avvertimenti della Provvidenza non andarono perduti per tutti. Gli uni per tema, gli altri per convinzione, si sforzano di operare una reazione cattolica sopra la società. Essi applaudono agli sforzi che si fanno in questo senso. Certo, la reazione del Cattolicismo sull’educazione, senza la quale tutte le reazioni, tutte le ristorazioni riusciranno a nulla, non poteva continuare ad esser riguardata come cosa indifferente. Infatti, sotto l’influsso di queste cause e d’altre ancora, il rivolgimento camminò: esso conta di presente numerosi ed illustri sostegni (Il mio pensiero si volge in questo momento alla lettera cosi notevole di monsignor vescovo di Langres, di cui avrò occasione di citare qualche passo). Riprodotti da loro, gli argomenti contro il paganesimo classico non cadono più, come sedici anni fa, sepolti sotto una gragnuola di sofismi e di ingiurie. Dagli uni, essi sono applauditi; agli altri, fanno paura: per nessuno, eccetto per gli Dei Termini, sono oggetto di disprezzo. – Alle parole succedono gli atti. Rientrato trionfante nel dominio dell’architettura religiosa, il Cattolicesimo sviluppa il suo movimento e comincia ad introdursi nell’educazione, vestibolo della onnipotenza. Di già su vari punti della Francia e dell’Europa, la storia, la filosofia, la letteratura gli aprono i loro santuari, sì lungo tempo chiusi. In un cerio numero di stabilimenti, lo studio delle lingue antiche si fa in parte almeno, coll’aiuto di classici cristiani, e poi il monopolio è scosso. Evidentemente, la breccia è aperta: più non si tratta che di allargarla, ed il rivolgimento vittorioso entrerà sino nel cuor della piazza. Riconosciamo qui, benedicendola, l’opera della Provvidenza. Ora la Provvidenza non tentenna mai. Il rivolgimento è dunque possibile, più possibile oggi che altre volte. Che il rivolgimento sia necessario, di una necessarietà attuale e suprema, lo scopo di questo libro si è di dimostrarlo, indicando inoltre ed i caratteri di tal rivolgimento, ed i mezzi di assicurarne il successo.

CAPITOLO I

POSIZIONE DEL PROBLEMA

Per rendere palpabile la verità della mia proposizione, lascio da parte tutti i ragionamenti astratti, tutte le teorie metafisiche; mi contento d’invocare un piccolo numero di fatti clamorosi e di un incontestabile significato. Primo fatto. —Ad eccezione di alcuni atti di disobbedienza, inevitabili anche in giovani ben nati, si vede l’Europa in tutta la durata del medio-evo mostrarsi pieno di rispetto e di sommissione Cristiana nella sua fede, nei suoi costumi pubblici, nelle sue leggi, nelle sue istituzioni, nelle sue arti, nel suo linguaggio, la società sviluppava tranquillamente quelle belle e forti proporzioni, che 1’avvicinavano ogni giorno alla misura del Cristo, tipo divino d’ogni perfezione. Secondo fatto. — Col secolo decimoquinto, l’impero sovrano del Cattolicesimo s’indebolisce. L’antica unione della religione e della società è scossa. Sino allora così venerata, la voce paterna dei pontefici romani diventa sospetta; la maestà del loro potere sparisce come una grande ombra; la sommissione figliale del re e dei popoli diminuisce; la società sente nascere nel suo cuore un funesto desiderio d’indipendenza: tutto annunzia una rottura. – Terzo fatto. — Il sedicesimo secolo è appena incominciato che dalla cella d’un frate alemanno una voce si innalza, possente organo dei colpevoli pensieri che fermentano nei cuori: quella voce dice: « Nazioni, separatevi dalla Chiesa Cattolica, fuggite Babilonia; popoli, rompete i vincoli della vostra lunga infanzia; d’ora in poi voi siete forti abbastanza, abbastanza illuminati per condurvi di per voi. » La voce è ascoltata con un favore che stupisce anche oggidì. Nella maggior parte d’Europa si vide la società accusar la sua madre di superstizione e di barbarie, abiurare le sue dottrine, spregiare i suoi più grandi uomini, bruciare quanto portava l’impronta della sacra sua mano, e rovesciare o mutilare come monumenti d’ignoranza, di schiavitù e d’idolatria, i templi e gli edifici ove i secoli precedenti avevano con tanta magnificenza custodito la loro fede, immortalando in pari tempo le loro scienze ed il loro genio. Quarto fatto. — Questa incredibile rottura non fu un accesso passeggero di vertigine: essa dura tuttora. Né le angosce, né le umiliazioni, né i disinganni, né le catastrofi, né le calamità d’ogni specie poterono ricondurre il Figliuol Prodigo al materno girone. Luugi da questo, il suo allontanamento per la Chiesa andò aumentando; esso mutossi in odio, in odio sempre vivo, sempre operante, talché, dopo tre secoli, l’Europa non sembra saper fare che tre cose, ma essa le fa con una perfezione da disperare: spogliare la Chiesa, incatenare la Chiesa, schiaffeggiare la Chiesa. Di presente, giunta al parossismo della passione, l’antica figliuola del Cattolicesimo non ha più altro grido di riscossa se non queste orribili parole, ripetute su tutti i tuoni, dall’Adriatico all’Oceano, e dal Mediterraneo al Baltico: II Cristianesimo ci pesa, noi non vogliamo ch’esso regni su di noi; lo si tolga; la sola sua vista ci è insopportabile. Quarto fatto. — Dacché questo traviamento dura, la Chiesa non ha cangiato. Prima come dopo, essa è la stessa: così buona. così saggia, così rassegnata. In faccia ai dolori della società, essa non rimase né oziosa né muta. Giammai, forse, la sua materna tenerezza dispiegò una sollecitudine più universale, uno zelo infaticabile. Dal suo seno perpetuamente fecondo, uscirono nel decimoquinto secolo trentacinque ordini o congregazioni religiose; nel sedicesimo , cinquantadue; nel decimo settimo, novanta. Tutti questi grandi corpi, manovrando come un solo uomo, rendevano incessante la sua azione sulla famiglia e sulla società, dal settentrione al mezzodì dell’Europa. Da San Vincenzo Ferrero a San Francesco da Paola, numerosi santi meravigliarono il mondo coll’eroismo delle loro virtù, e mostrarono ai più ciechi che la Chiesa romana non cessò di essere l’incorruttibile sposa del Santo dei santi, la madre di tutti gli uomini veramente degni del nome di grandi: alma parens, alma virum. – Dal canto loro, i suoi ammirabili dottori, da Bellarmino sino a Bossuet, han provato ch’essa è sempre la sorgente della luce e del sapere. Continuato in tutta la maestà della sua forza dai sovrani pontefici e dai concili, l’insegnamento cattolico ha da lungo tempo ridotto in polvere ed il principio protestante, ed i vani motivi che servirono di pretesto alla rottura, e tutti quelli che, più tardi, furono inventati per mantenerla. Ora, né le dimostrazioni, né gli avvertimenti, né i benefizii, né le supplicazioni, né le lagrime, né gli sforzi di ogni genere han potuto toccare la società europea, né ribadire l’antica alleanza che univa alla madre la figliuola. Da questi fatti, che nessuno negherà, risulta evidentemente la conclusione seguente: « Da quattro secoli, evvi in Francia un elemento nuovo, un elemento di più od un elemento di meno che non nel medio-evo; e questo elemento forma un muro di separazione sempre sussistente tra il Cristianesimo e la società. » Qual è codesto elemento ? Ov’ è? È ciò che cercheremo.

CAPITOLO II

STUDIO DEL PROBLEMA

L’investigazione alla quale noi ci daremo è di altissima importanza. Temendo di forviarci, cominciamo dal segnare la nostra strada, posando alcuni principi d’una evidenza incontestabile.

Primo principio. — Ogni effetto ha una cagione; ogni effetto permanente ha una cagione permanente.

Secondo principio. — Ogni parola, ogni azione umana, pubblica o privata, è l’effetto del libero arbitrio o di una volontà dell’anima. Le volontà, o, come dice la filosofia, le voluzioni dell’anima presuppongono l’idea o la nozione della cosa voluta, poiché è impossibile di voler ciò che non si conosce, ciò di cui non si ha idea: Ignoti nulla cupido; nihil colitum nisi prœcognitum.

Terzo principio. — Innate o no, le idee vengono o dipendono dall’insegnamento, il quale le risveglia o le da. L’insegnamento fa dunque l’uomo.

Quarto principio. — L’insegnamento che fa l’uomo, che forma per la vita il suo animo ed il cuore, si compie nel periodo che separa la culla dall’adolescenza, secondo la parola, cotanto vera che era già proverbiale or fanno tremila anni: Quale ei fu nei di della sua adolescenza, tale l’uomo sarà nei dì di sua vecchiezza, e non cambierà (Prov. XXII, 6).

Quinto principio. — La vita dell’uomo si divide in due epoche ben distinte: l’epoca di ricevere e l’epoca di trasmettere. La prima comprende il tempo dell’educazione, cioè dello sviluppo e dell’insegnamento; la seconda, il restante dell’esistenza fino alla morte. Non avendo l’essere da se stesso, l’uomo riceve tutto; tanto nell’ordine intellettuale e morale, quanto nell’ordine fisico. – Dopo aver ricevuto egli trasmette, e non può trasmettere se non quanto ha ricevuto. Trasmettendo quanto ha ricevuto, egli forma la famiglia, la società ad immagine sua. La verità o la bugia, il bene od il male, l’ordine od il disordine realizzati nei fatti esterni della famiglia e della società, non sono se non il riflesso e il prodotto della verità o della bugia, del bene o del male, dell’ordine o del disordine che regnano nella sua anima.

Sesto principio. — Pel bene come pel male, l’influsso viene dall’alto e non dal basso. Le opinioni e i costumi dei parenti formano le opinioni e i costumi dei figliuoli. Le opinioni e i costumi delle classi letterate formano le opinioni e i costumi di quelle che non lo sono.

Settimo principio. — Le opinioni e i costumi delle classi letterate derivano soprattutto dalla loro educazione letteraria. Cotale educazione si fa principalmente coi libri che si pongono tra le mani della gioventù durante i sette od otto anni che uniscono l’infanzia all’adolescenza. E ciò per tre motivi: il primo, perché quegli anni sono gli anni decisivi della vita. Il secondo, perché quei libri sono il nutrimento giornaliero della gioventù ed il suo nutrimento obbligato; perché essa li deve studiare con cura, perché li deve imparare con fervore; perché se ne deve imbevere pel fondo e per la forma. Il terzo perché siffatto studio assiduo è accompagnato da spiegazioni e da commenti, nello scopo di far ben capire il senso di essi libri, di farne ammirare lo stile, i pensieri, le bellezze d’ogni genere, di esaltare le azioni, i fatti, le parole, le istituzioni degli uomini e dei popoli di cui narrano la storia; finalmente, e soprattutto, di offrire all’ammirazione della gioventù gli autori di tali opere come i re , senza paragone, dell’ ingegno e del genio. Dunque in diritto, tutto proviene dalla educazione. Dunque in fatto, 1’educazione delle classi superiori fa l’educazione delle inferiori, l’opinione, i costumi, la società. – Siffatta conseguenza non è meno inattaccabile che i principi stessi da noi rammentati, e dai quali essa scaturisce necessariamente come il fiume dalla sua sorgente. I saggi di tutti i tempi 1’hanno proclamata. Ai nostri occhi l’unico mezzo di riformare l’uman genere si è quello di riformare l’educazione della gioventù. L’educazione è la sola leva colla quale sollevare si possa il mondo. L’educazione è l’impero, perché l’educazione è l’uomo, e l’uomo è la società. – Qualora i saggi non avessero reso quest’omaggio un anime alla non peritura verità che noi indichiamo, basterebbe per non dubitarne, lo scorgere l’ostinato accadimento col quale in tutti i tempi ed in tutti i luoghi, le due potenze del bene e del male si disputano l’impero della educazione. Sotto la questione, in apparenza molto secondaria, di sapere chi s’accosterà al al fanciullo per insegnargli la lettura, la scrittura, il calcolo, il greco od il latino, si nasconde in ultima analisi, una questione di sovranità: la verga del maestro è la scettro del mondo. da tutto ciò, che concluderemo riguardo al problrema che ci occupa? La risposta non è dubbia: si è nell’educazione che noi siamo forzati di cercare la cagione prima e sempre sussistente della rottura quattro volte secolare da noi constatata. – In ogni altra cosa, almeno mi sembra, voi non troverete se non cagioni occasionali, indirette e passeggere; ma queste cagioni esterne ed accidentali, le quali avranno forse potuto affrettare e raffermare lo scisma, non sono maggiormente il principio del male, di quello che gli affluenti siano la sorgente dei fiumi ch’ essi fanno straripare. Qual è di presente, nella educazione pubblica d’Europa, questa cagione o questo elemento di più o di meno che da quattrocent’anni scava tra il Cristianesimo e la società un abisso che nulla ha potuto colmare e che ogni giorno più si va allargando? Qui io invoco tutta la sagacia del filosofo e la suprema imparzialità del giudice. – Lungo tempo prima della rottura, io vedo in tutta l’Europa l’educazione pubblica riposare sul seguente organismo: le università ed i ginnasi o collegi. Dopo la rottura, io rinvengo lo stesso organismo. In Francia, il medesimo sussistette in tutta la sua integrità sino alla fine dello scorso secolo; esso sussiste ancora generalmente in tutte le altre parti d’Europa. Sotto questo primo punto, nulla di nuovo; e, quanto al fondo, nulla di più, nulla di meno. – Prima della rottura, io vedo che nelle università e nei ginnasi si insegnano: il latino, il greco, le lingue viventi e le lingue orientali, la grammatica, la filosofia, la retorica, le scienze fisiche e matematiche. Dopo la rottura, trovo che s’insegnano le stesse cose. Sotto questo secondo punto, nulla di nuovo; e, quanto al fondo, nulla di più, nulla di meno. – Prima della rottura, vedo che s’insegnano con particolare cura le verità della religione; che i maestri ed i discepoli. tranne poche eccezioni, ne adempiono fedelmente i doveri. Dopo la rottura, trovo che non si insegna meno fedelmente la religione; che i maestri ed i discepoli, io generale, continuan fino all’ultimo secolo ad adempierne esattamente i precetti. Sotto questo terzo punto, nulla di nuovo; e quanto al fondo, nulla di più. nulla di meno. – Prima della rottura, vedo l’insegnamento posto fra le mani del clero e degli ordini religiosi. Dopo la rottura. trovo che ne è lo stesso in tutti i paesi ed anche in Francia sin verso la metà dello scorso secolo. Sotto questo quarto punto, nulla di Nuovo; e, quanto al fondo, nulla di più, nulla di meno. – Prima della rottura, vedo seduti sulle cattedre e delle università maestri senza macchia, pii, zelante, dottori illustri ed in gran numero, e ciò in tutte le scienze. Dopo la rottura trovo la stessa cosa. Sotto questo quinto punto, nulla di nuovo; e, al fondo, nulla di più, nulla di meno. – Prima della rottura, vedo l’insegnamento affatto libero: il monopolio non era ancora inventato. Dopo lo scisma, trovo per quasi tre secoli la stessa libertà: il dogma pagano del monopolio è nato ai dì nostri. Sotto questo sesto punto, nulla di nuovo; e, quanto al fondo, nulla di più, nulla di meno. – Tali sono, salvo errore, i punti di paragone i più notevoli sotto cui si presenta, nelle due epoche, la pubblica educazione. Ora, prima e dopo lo scisma, questi punii di paragone si rassomigliano in modo che testimoniano l’identità della istituzione: la stessa organizzazione, lo stesso insegnamento, gli stessi uomini, lo stesso spirito, lo stesso scopo, la stessa libertà. – Donde viene che i risultati si rassomiglino sì poco? Donde viene che la stessa sorgente abbeverando le generazioni nascenti comunichi alle une la vita cattolica in tutto il suo vigore, mentre le altre non vi attingono se non un languore mortale? Donde viene che la stessa educazione, la cui azione onnipotente diede alla società del medio-evo quella forza di coesione contro cui s’infransero gli assalti dell’eresia, del sensualismo e del dispotismo, si trovò tutto in una volta senza forza per proteggerla contro gli stessi tentativi: in modo che l’eresia, il sensualismo ed il dispotismo non ebbero che a presentarsi, per entrare a gonfie vele nel cuore dell’Europa e fermarvisi da sovrani padroni cui nulla poté detronizzare? – Si dirà forse che questo risultato si debba attribuire alle circostanze esterne in cui 1’educazione si è compiuta dopo il quindicesimo secolo? Io chiederò dapprima in qual guisa tali circostanze esterne han potuto nascere ed acquistare tanta influenza al di fuori e a dispetto dell’educazione? Dirò poscia che queste circostanze esterne, ossia questo nuovo mezzo, si è innanzi tutto il protestantismo. Ora, il protestantismo non è altro se non il principio di ribellione contro la Chiesa. Questo principio non nacque nel secolo decimosesto; esso ha sempre esistito nel mondo: il primo protestante fu Lucifero. Dopo la ribellione del paradiso terrestre, ed in più di una epoca della Chiesa, egli ebbe organi non meno possenti di Lutero, agenti non meno formidabili di Enrico Ottavo. La questione è di sapere in qual modo l’educazione, la quale, durante mille anni, lo aveva potuto neutralizzare, siasi d’improvviso trovata senza forza forza contr’esso; e ciò non solo nei luoghi ov’esso fu con violenza stabilito, ma eziandio nelle contrade ove non fu mai ufficialmente ricevuto, come lo dimostra l’indebolimento della fede in tutta l’Europa. – Rinane dunque a cercare la vera cagione, la cagione generale e permanente del male nell’educazione. Qui sta la difficoltà; poiché vedemmo che prima e dopo lo scisma, l’educazione offre gli stessi caratteri. Ove trovare il cambiamento? Qual è il cancro sconosciuto, che da quattro secoli rode l’albero nella sua radice e ne vizia il crescere? Qual è finalmente il novello elemento, la cui formidabile potenza, rendendo inutili, per un ravvicinamento e le dure lezioni ricevute dalla società, e le tenere proposte della Chiesa, condanna la madre alle lacrine, e la figliuola alla morte? Acciò evitiamo ogni rimprovero di esagerazione,dichiariamo prima di rispondere, che non è nostra intenzione di dare alle nostre parole un senso esclusivo. Noi riconosceremo volentieri nel moto anticristiano il quale trascina l’Europa, cagioni estranee a quella che stiamo per indicare. Ma insieme con tutti gli uomini riflessivi che seriamente studiarono la questione, noi ci crediamo fondati a considerar questa cagione siccome la più influente: non ci vuole di più per giustificare il rigore morale della nostra affermazione; inoltre, noi protestiamo contro ogni interpretazione delle nostre parole personalmente ostile a chicchessia. Noi non intacchiamo, né vogliamo intaccare nessuno: né il clero secolare, né l’Università, né gli ordini religiosi addetti all’insegnamento. Noi attacchiamo solo il paganesimo. Ciò posto, ecco la risposta.

CAPITOLO III

SOLUZIONE DEL PROBLEMA

Un fonditore di Firenze esercitava da lunga pezza con esito mirabile 1’arte sua. Il secreto della sua gloria consisteva nel preparare maestrevolmente lo stampo in cui egli versava a volta a volta l’oro, l’argento, il bronzo. Un giorno, il municipio di Firenze gli comanda di fare la statua d’uno dei grandi uomini della repubblica, e l’arcivescovo un bassorilievo per una delle cappelle del celebre Duomo. La gloria della patria e l’amor della religione comunicano all’artista un nuovo ardore: sotto questa doppia inspirazione, il suo genio concepisce un capo d’opera. Sgraziatamente, ei non aveva allora nel suo studio se non lo stampo d’un cavallo. Poco monta, pensò l’artista: combinerò sì bene i metalli, che riparerò codesto guaio. Di fatto, l’argento e l’oro, sapientemente mescolati, sono versati insieme nello stampo. Si aspetta un eroe dalle forme antiche: l’artista infrange lo stampo e ne cava fuori un cavallo! « Quanto sbaglio! dice egli: ma conosco il mio errore. Io non ho adoperato i miei metalli in proporzioni convenienti. » Tosto si rimise all’opera, forma una nuova lega e rifà uno stampo simile al primo. Pochi giorni dopo, nuova fusione. Questa volta l’artista lavora per l’arcivescovo il quale aspetta il suo bassorilievo. Lo stampo è aperto, e dà di nuovo un cavallo simile al primo! – « La è cosa imperdonabile! grida 1’artista picchiandosi la fronte. E come ho io potuto dimenticare che 1′ oro e l’argento non sono i veri metalli del fonditore? Il vero metallo del fonditore è il bronzo. Con esso, non vi sarà più errore possibile; io lo conosco, esso mi conosce, noi siamo vecchi amici. » – Ei ci prepara il suo bronzo con grande cura, e ripara il suo stampo, guardandosi bene dal cambiarlo, e lungamente studia le condizioni del problema. Quando esse sono risolute, egli accende i suoi fornelli; ben tosto il metallo della più bella gradazione scorre in getti abbaglianti nello stampo, il quale dà un … superbo cavallo di bronzo, ma sempre un cavallo! Allora 1″infelice artista si dà alla disperazione, se la prende con tutti ma non con sè, pel suo infortunio, e muore senza aver potuto capire che per cambiare una forma, uopo è cangiare lo stampo. – Popoli d’Europa, voi siete il fonditore di Firenze. Dopo il secolo decimoquinto, voi versate i vostri figli in uno stampo pagano, e vi stupite di non ritrarne dei cristiani. Ascoltate la vostra storia. Durante tutto il medio-evo, l’educazione fu esclusivamente cristiana. I libri pagani non erano mai posti come classici fra le mani della gioventù. Essa non li toccava se non nell’età in cui lo spirito, il cuore, l’immaginazione, l’anima insomma, versata nello stampo del Cristianesimo, aveva preso la sua forma assoluta; in cui, per conseguenza, il paganesimo non poteva più imprimere all’infanzia se non una forma secondaria, senza influire sul fondo dell’essere morale. Allora il Cristianesimo era nell’educazione ciò che sono nei nostri banchetti i piatti sostanziosi che attutiscono la fame dei convitati; ed il paganesimo era ciò che sono le bagattelle che compongono i nostri desserts. – Che nasceva da questo? Ciò che sempre nascerà dall’educazione, cioè che sin dalla culla le giovani generazioni nutrite di Cristianesimo, imbevute di Cristianesimo, allevate nella conoscenza, nell’amore, nell’ammirazione del Cristianesimo, nell’entusiasmo delle sue glorie e delle sue opere, trasmettevano alla società quanto esse avevano ricevuto. E la società era cristiana, profondamente cristiana. E questa società cristiana creò un’Europa meravigliosa di grandezza, di forza, di virtù eroiche, e la coprì di monumenti prodigiosi, le cui inimitabili bellezze non formano se non la minima parte della sua gloria. Verso la fine del secolo decimoquinto, voi rompeste lo stampo cristiano, e poneste in sua vece uno stampo pagano. Le giovani generazioni vi furono dentro gettate, e questa cera molle prese la forma dello stampo, e ne avvenne quello che di necessità ne doveva avvenire: le giovani generazioni nutrite di paganesimo, tirate su nell’ammirazione del paganesimo, cominciarono a mostrarsi pagane, ed a trasmettere alla società quanto esse avevano ricevuto. Se, nella prima fusione, esse non furono del tutto pagane, attribuitelo all’azione del Cristianesimo, il quale, dominando ancora nella famiglia e nella società impedì una trasformazione totale e subitanea. – Nondimeno tale fu l’influenza di questa prima prova, che si videro, cosa profondamente degna di osservazione! Tutti i capi della grande ribellione del decimosesto secolo brillare fra i più ardenti discepoli del paganesimo classico, gloriarsi d’essere stati gettati nello stampo pagano, esaltare coloro che ve li avevano messi. tuffarvisi ogni giorno più, invitando tutti ad imitarli, e facendosi della loro nuova forma un’arma loro contro la Chiesa, la cui lingua, le cui scienze e le cui arti incominciarono quelli ad accusare di barbarie. – Il pericolo diventava vieppiù serio: la religione e la società perdevano terreno manifestamente. Si pose mano di nuovo all’opera, e si tentò di formare una nuova generazione la quale, profondamente cristiana, equilibrerebbe l’azione disastrosa di quella che cessava di esserlo, o non lo era di già più: la grande reazione cattolica del secolo decimosesto incominciò. Chiamati a concorrervi, i dottori i più sperimentati, gli ordini religiosi i più dotti raddoppiarono d’attività. Il più abile di questi grandi corpi, l’immortale Compagnia di Gesù, sembrò creata a bella posta per venire in aiuto alla Chiesa ed alla società nella educazione. Essa vi si addisse affatto, adottando, come i suoi compagni d’armi, lo stampo pagano. Cosi voleva l’opinion pubblica, la quale ormai non conosceva più altra forma del bello. – Nessuno ignora infatti che il sedicesimo secolo fu età dell’oro del Rinascimento, l’epoca per eccellenza del culto dell’antico in letteratura, in poesia,, l’epoca degli artisti, dei grecisti, degli umanisti pagani che soprabbondavano in ogni parte d’Europa, i cui echi non cessavano di ridire i loro ditirambi in onore dei Greci e dei Romani. Bentosto i collegi dell’illustre Compagnia coprirono il suolo d’Europa. Una gioventù numerosa, e soprattutto la gioventù appartenente alle classi le più alte, si strinse intorno alle cattedre degli illustri religiosi. La scienza, la virtù, l’abnegazione, la paternità dei maestri, l’ortodossia della loro dottrina, la varietà e lo sfarzo delle cerimonie religiose praticate nelle loro case, tutto sembrava riunito per far rivivere e perpetuare nella società in generale, e soprattutto nelle condizioni elevate, la vigorosa fede del medio-evo. – Parallelamente ai Padri Gesuiti, i Benedettini, i Preti dell’Oratorio ed altri in buon dato rivaleggiavano di scienza e di zelo, mentre le università, ricche di professori non meno distinti pel sapere che per la virtù, concorrevano alla restaurazione universale coronando, nelle loro dotte lezioni, l’edificio così fortemente concepito, in apparenza, del cattolico insegnamento. – Quale fu il risultato finale di quest’azione sì generale e sì ben combinata? Lo stesso che aveva ottenuto il fonditore di Firenze. Le generazioni erano state gettate nello stampo del paganesimo, e si ebbero generazioni pagane. Conforme alla grande legge che presiede alla vita umana, tali generazioni non tardarono a trasmettere ciò ch’esse avevano ricevuto, e il paganesimo straripò sull’ Europa. Pur troppo! sì, la storia, la triste storia lo dice: invece di rianimarsi, lo spirito cristiano andò indebolendosi, e indebolendosi soprattutto nelle classi letterate, fra le quali ei dovea, grazie allo zelo di tanti eccellenti maestri, risvegliarsi con novello vigore. La cosa procedette siffattamente, e tutti lo sanno, che alla fine del decimosettimo secolo e in principio del decimottavo, nulla vi era in tutta Europa meno cristiano di costumi e di credenze, che coloro che avevano il più largamente partecipato al pubblico insegnamento. – Che questi amari frutti siano stati, salvo forse un piccolo numero e dei meno cattivi, prodotti dall’albero pagano ripiantato in seno all’Europa e coltivato con tanta cura pel nutrimento della gioventù, un’osservazione di un altr’ordine lo conferma. Da un lato, le donne, nella cui educazione non entra, o non entra se non in ben piccola dose 1’elemento pagano, si sono sempre mostrate molto più cristiane degli «nomini: d’altra parte, le classi popolari, preservate dallo stesso flagello, rimasero fedeli alla fede antica e non divennero ostili alla religione se non sotto l’influsso due volte secolare, delle classi educate alla scuola dei Greci e dei Romani. – Fonditore di Firenze, né la tua arte né la tua intenzione possono cambiare la natura delle cose: sinché tu verserai i tuoi metalli in uno stampo di cavallo, tu avrai un cavallo. – Popoli d’Europa, sinché voi getterete la gioventù nello stampo del paganesimo, voi avrete generazioni pagane: né le vostre leggi sull’insegnamento, per quanto esser possano liberali, né l’ingegno dei vostri professori né le vostre intenzioni cambieranno in nulla la cosa. – Pensare l’opposto è un errore. Questo errore voi lo commetteste; lo commettete ogni giorno, da più di tre secoli: ecco il verme che vi rode. Tale è lo scioglimento del problema. – Per le formidabili conseguenze di cui essa minaccia il mondo europeo di presente, l’aberrazione che noi descrivemmo finì di divenire così evidente, che le persone le meno sospette di parzialità non possono trattenersi dallo indicarla ad alta voce. Sotto pena di una catastrofe inevitabile e forse fatale, essi scongiurano la società di mutare sistema. Basti riferire, fatta d’altronde ogni riserva, le parole così piene di buon senso d’un membro dell’Assemblea nazionale, in occasione dell’ ultima legge sull’insegnamento: « Dopo il principio di questa discussione, dice esso, l’Università e il Clero si rimandano le accuse come palle da schioppo. Voi pervertite la gioventù col vostro razionalismo filosofico, dice il Clero. Voi l’abbrutite col vostro dogmatismo religioso, risponde l’Università. Sopraggiungono i conciliatori, i quali dicono: la religione e la filosofia sono sorelle. Fondiamo insieme il libero esame e l’autorità. Università e Clero, voi avete avuto, ciascuno alla vostra volta, il monopolio; dividetelo e sia finita. – « Noi udimmo il venerabile vescovo di Langres apostrofare in tal guisa l’Università: « Siete voi che ci avete data la generazione socialista del 1848! ». – « Ed il signor Cremieux si affrettò a ritorcere l’apostrofe in questi termini; « Siete voi che avete educata la generazione rivoluzionaria del 1793 ». « Se vi ha del vero in somiglianti allegazioni, che se ne deve conchiudere? Che i due insegnamenti sono stati funesti non per ciò che li differenzia, ma per ciò che loro è comune. Sì, questa è la mia convinzione: vi è tra questi due generi di insegnamento un punto comune, cioè l’abuso degli studi classici, ed è con esso che Università e Clero han pervertito il giudizio e la moralità della nazione. Essi differiscono in quanto l’uno fa predominare l’elemento religioso, l’altra l’elemento filosofico; ma siffatti elementi, lungi dall’aver fatto quel male, come si rimproverano a vicenda, lo hanno attenuato. Noi dobbiamo loro di non essere così barbari come i Barbari proposti di continuo dal latinismo alla nostra imitazione. – « Mi si permetta un supposto un po’ forzato, ma che farà capire il mio pensiero. Suppongo dunque che in qualche luogo, agli antipodi, esista una nazione la quale, odiando e spregiando il lavoro, abbia fondato tutti i suoi mezzi d’esistenza sul saccheggio successivo di tutti i popoli vicini e sulla schiavitù. Questa nazione si è fatta una politica, una morale, una religione, una opinione pubblica conformi al principio brutale che la conserva e la sviluppa. La Francia avendo dato al Clero il monopolio dell’educazione, quando non trova di meglio a fare se non d’inviare tutta la gioventù francese da quel popolo a vivere della sua vita, ad inspirarsi dei suoi sensi, ad entusiasmarsi de’suoi entusiasmi, ed a respirare le sue idee come l’aria. Però, esso ha cura che ogni scolare parta munito d’un piccolo libro, chiamato l’Evangelio. Le generazioni in tal modo allegate ritornano nel suolo patrio; una rivoluzione scoppia: lascio pensare la parte ch’esse vi rappresentano. – « Il che vedendo, lo stato strappa al Clero il monopolio dell’insegnamento e lo rimette all’Università. Questa, fedele alle tradizioni, manda essa pure la gioventù agli antipodi presso il popolo saccheggiatore e possessore di schiavi, dopo averla però provvista d’un libriccino intitolato: Filosofia. Cinque o sei generazioni così educate hanno appena riveduto il suolo natio, che una seconda rivoluzione scoppia. Formate alla stessa scuola delle generazioni che le han precedute, esse se ne mostreranno le degne rivali. Allora viene la guerra tra i monopolisti. Il vostro libriccino è quello che ha fatto tutto il male, dice il Clero. È il vostro, risponde l’Università. «Eh! no, signori, i vostri libricini non entrano per nulla in tutto questo. Chi ha fatto il male, è la bizzarra idea, da voi due concepita ed eseguita, di mandare la gioventù francese, destinata al lavoro, alla pace, alla libertà, ad impregnarsi, ad imbeversi ed a saturarsi dei sensi e delle opinioni d’un popolo di banditi e di schiavi. Affermo questo, che le dottrine sovversive, alle quali si diede il nome di socialismo o di comunismo, sono il frutto dell’insegnamento classico, sia esso impartito dal Clero o dall’Università. Aggiungo che il baccalaureato imporrà per forza l’insegnamento classico anche a quelle pretese scuole libere che, dicesi, debbon sorgere dalla legge. – Ma sento gridare e dire: 1° voi siete troppo assoluto; il cambiamento di stampo, per rammentare la vostra espressione, non fu sì totale come voi dite; 2° quando ciò fosse, voi attribuite ad una semplice forma una esagerata influenza: ora, il paganesimo classico od il Rinascimento, non è altra cosa se non una forma nuova, data al pensiero; 3° ammettendo questa influenza, voi dovete riconoscere ch’essa era, se non assolutamente necessaria, per lo meno molto utile per trarre l’Europa dalla barbarie.

[1- Continua]

LA VERITA’ SU GALILEI:

IL PROTESTANTE CAMUFFATO [L’ERETICO ACCADEMICO] e la CHIESA, MAESTRA INFALLIBILE DI VERITA’

[Riflessioni su un testo di Etienne Couvert: “Visage et masques de la gnose”] (1)

L’ “affare Galilei” appartiene all’arsenale delle menzogne ed imposture che gli storici moderni, al servizio dei cabalisti modernisti, hanno montato in ogni parte con l’odio, per l’odio di Gesù-Cristo e della sua Chiesa, con l’interazione confessata e proclamata di uccidere la fede nelle anime ancora credenti, in ciò favoriti dall’atteggiamento degli impostori della “chiesa dell’uomo”, mostro obbrobrioso del modernismo anticristiano, operante attivamente dal 26 ottobre del 1958. Fin dall’inizio della ricerca sulla gnosi, noi non abbiamo cessato di scontrarci con queste menzogne talmente inculcate negli spiriti, che i nostri studi e le nostre dimostrazioni provocano ancora reazioni di diffidenza e di scetticismo anche nella maggior parte dei cristiani sinceri che hanno molta difficoltà a liberarsi dalle mode intellettuali del “correttamente masso-politico”, dello scientificamente masso-corretto, del religiosamente masso-corretto”. Questo studio su Galilei si iscrive nel prosieguo di quanto si può dire sugli umanisti e sul Rinascimento, sorto dopo l’invasione europea dei marrani evacuati saggiamente dalla penisola iberica. È dunque necessario brevemente ricordare il carattere fondamentalmente anticristiano di questo Umanesimo.

La condanna dell’ELIOCENTRISMO

« Noi sappiamo che il culto di Mithra è stato opposto, nei primi secoli cristiani, a quello di Gesù Cristo. Mithra è il sole invitto, imbattuto, (sol invictus). Esso finì per essere il culto ufficiale dell’impero romano sotto Aureliano. Ecco che gli umanisti del Rinascimento nel loro furore anticattolico hanno ripreso questo culto, ma in segreto, secondo gli usi dei marrani, nelle loro conventicole intime. Il sistema eliocentrico, insegnato da Copernico e ripreso da Galileo è effettivamente una manifestazione dell’adorazione del sole, pura idolatria e becero paganesimo. Copernico scrive nel “De revolutionibus orbium coelestium”: “ in mundo vero omnium residet Sol. Quis enim in hoc pulcherrimo templo lampadem hanc in alio vel meliori loco poneret, quam unde totum simul possit illuminare, si quidem non inepte quidam lucernam mundi, alii mentem, alii rectorem invocant, Trismegistum visibilem deum”. Il sole è dunque, per Copernico lo spirito del mondo, il reggitore del mondo, un dio visibile. Il riferimento ad Ermete Trismegisto è significativo. Il sole ha la sua sede di soggiorno, in tutte le cose del mondo ed il mondo è il suo tempio: non è questa forse una definizione di Panteismo? Galilei ulteriormente precisa: “mi sembra che in natura si trovi una sostanza molto volatile, molto tenue, rapidissima, che nel suo espandersi nell’universo, penetra tutto senza ostacolo, riscalda, dà vita e rende feconde tutte le creature animate. Sembra che i sensi stessi ci mostrino che il corpo del sole è il ricettacolo di questo “spirito”, fuori dal quale si spande su tutto l’universo una immensa luce accompagnata da questo “spirito calorifico”, penetrante tutti i corpi capaci di essere animati, dando loro vita e fecondità.” – “Il sole è un dio visibile al centro dell’universo; immobile esso penetra tutte le creature, è sorgente di vita, anima tutto. Certamente è questo il “culto solare”, tipicamente pagano, che Copernico e Galilei praticavano. Ed è alla luce di questi testi che i giudici del Santo Uffizio, quelli che facevano bene il loro lavoro di guardia dell’ortodossia, hanno condannato Galilei. Da questa chiara angolazione si aprono prospettive nuove sul “complesso Galilei”! Si può ben comprendere infatti che le considerazioni sui movimenti della terra e del sole, non sono altro che un pretesto per sviluppare un insegnamento fondamentalmente panteistico, un “cavallo di Troia” che in una certa misura si insinuò tra le autorità romane. Ma il 24 febbraio 1616, l’Eliocentrismo di Copernico, come decodificato sopra, venne condannato dal Santo-Uffizio ed a giusto titolo come abbiamo visto. E per manifestare che i censori non erano incappati nelle trappole tese, essi hanno precisato con cura che le formule condannate “erano assurde in filosofia e formalmente eretiche”, ma che non pregiudicavano considerazioni puramente astronomiche o fisiche. L’affare a questo punto avrebbe dovuto essere chiuso, lo si doveva arrestare là, ma si era di fronte ad una vera “setta” molto ben organizzata, una proto-ragnatela gnostico-cabalista, archetipo degli interessi ed intrallazzi kazaro-massonici oggi visibilmente e spudoratamente operanti in chiaro, ben al di fuori dell’ombra delle conventicole.

L’Accademia dei Lincei

Questa Accademia funzionava come un club massonico, con una facciata mondana, ufficiale, un proto-rotary, che attirava il bel mondo romano con delle conferenze, dei concerti, dei banchetti e ricevimenti vari, ed un nucleo operativo, lo “zoccolo duro”, nella residenza di campagna di Pietro Cesi ad Acquaspartia, vicino ad Urbino. I tre mentori della setta sono Pietro Cesi, Cesarini, ma soprattutto mons. Ciampoli, il gran maestro dei Lincei, che vedremo all’opera ben presto. – Il programma è chiarissimo. Eccone la formula: “noi stabiliremo con dei ragionamenti ed esperienze, dei paradossi che appaiano completamente contrari ai dogmi consacrati”. Consideriamo bene la formula: le esperienze cosiddette “scientifiche”, i ragionamenti polemici e cavillosi non hanno che un unico scopo: distruggere la fede, cancellare la Religione Cattolica, l’unica vera Religione. Una vera confessione! La solita “solfa”, si tratta di lanciare, sotto il pretesto di una copertura scientifica, come la disputa sulle comete, un attacco in grande stile contro le basi intellettuali della cultura tradizionale che domina a Roma. Ciò che è in gioco è il prestigio e la legittimazione intellettuale dei Lincei. Essa va dunque a scontrarsi con la resistenza del Collegio Romano dei Gesuiti, ove regna il rispetto della tradizione aristotelica in filosofia e la vigilanza sui principi della Fede Cattolica. – Galilei è uno dei membri eminenti dell’Accademia. Il 17 luglio 1620, nel corso di una seduta segreta ad Acquaspartia fu decisa l’operazione denominata “Sarseide”. Galilei doveva preparare un’opera per denunciare la fisica aristotelica, trattata come puro “nominalismo”, lanciare lo slogan: “il libro della natura non è stato scritto per essere letto solamente da Aristotele. Questo grande libro del mondo è alla portata di tutti. I commentari di Aristotele sono come “una prigione della ragione”. Egli doveva mettere la sua autorità al servizio dell’Accademia per assicurarle prestigio e legittimità intellettuale. E si mette all’opera! Nel frattempo, il 17 settembre del 1621, era morto il cardinale Bellarmino, l’energico prefetto del Santo-Officio. Si poteva così avere l’opportunità di profittare di una grande libertà per le “Novità”. Nel 1622, il manoscritto del “Saggiatore” è nelle mani dei Lincei. Esso è rivisto e corretto da Cesarini, poi dal principe Cesi, mentre il testo definitivo è redatto da mons. Ciampoli, il “Gran Maestro”. È una vera “macchina da guerra” contro coloro che sono considerati gli “adoratori ostinati dell’antichità”, contro i Gesuiti del Collegio romano. L’opera è piena di falsità e di insulti contro di essi, impiega l’arma del ridicolo puntato sul Collegio Romano e sulla devozione al principio dell’autorità della Tradizione, con formule caustiche ed insolenti contro queste “… anatre incapaci di seguire il volo degli angeli”. – Ora, per i Gesuiti, il principio di autorità era più sacro di una citazione criticabile. Era un valore di carattere religioso ed un punto fondamentale della lotta contro l’eresia. Ed essi reagirono! “L’errore si trova, essi diranno, nell’opera gli atomi di Epicuro, nelle idee di Democrito, nel Nominalismo di Occam, nelle elucubrazioni confuse di matrice pitagorica. Vi si lodavano gli autori pagani in odore di ateismo e degli autori cattolici in odore di eresia”. Un vero scandalo dunque!

Un Papa “novatore”, Urbano VIII

Nel 1623, nuovo Conclave … mons. Ciampoli “lavora” i cardinali, intriga e “fa in modo” che sia eletto Papa Urbano VIII, suo amico e complice. Maffei Barberini è giovane, ama la poesia, è uno sportivo; oggi diremmo che aveva presa “mediatica”. Egli si incarica di piazzare degli “uomini” dei Lincei in tutti i posti principali della corte. Il mons. Ciampoli resta il consigliere intimo e discreto. – Il giovane nipote del nuovo Papa, Francesco Barberini, diviene cardinale a sua volta e “dirige” il pontificato, … egli sarà l’“anima dannata” di suo zio. – Nel corso delle grandi feste e delle manifestazioni di entusiasmo organizzate dai Lincei per promuovere il nuovo Papa eletto, Galilei è ricevuto ufficialmente come “filosofo del Vaticano”, nel corso di una bella cerimonia, il 23 aprile del 1624. Barberini sa che deve la su elezione al gran maestro dei Lincei, al mons. Ciampoli. Quest’ultimo conosce i “segni dei tempi”, per lui questo Pontificato è una “mirabile congiuntura”. – Grazie a lui il mondo di Aristotele è finito. Galilei è il “filosofo cristiano moderno” che rimpiazza il pagano Aristotele nella “summa” della nuova cultura cattolica. Egli pone i suoi amici e quelli di Galilei alla “Sapienza”, nuova università romana, che si erge contro il Collegio romano dei Gesuiti. – La nuova filosofia è presente a corte, in cattedra, nelle accademie e nelle famiglie della società romana. Rivoluzione culturale che permetteva di sperare ben presto di poter rilanciare la campagna in favore di Copernico, l’eretico-condannato. Urbano VIII si leva contro i Gesuiti. Nel 1627, rifiuta la canonizzazione del cardinale Bellarmino imponendo, proprio in questa occasione, l’obbligo di attendere cinquanta anni prima di introdurre un processo di Canonizzazione. Egli nomina il cardinale Pietro de Berulle, “il nuovo teologo”, il mistico riformatore della fede, grande nemico dei Gesuiti e grande amico di Saint-Cyran … è lui che orienta gli Oratoriani di Francia verso il Giansenismo per circa due secoli. Ma il 3 novembre 1624, nel suo discorso inaugurale del Collegio romano, il P. Spinola condanna fermamente i tentativi di edificare una nuova costruzione umana di saggezza: egli compara la nuova filosofia pagana dei novatori alla “costruzione della Torre di Babele”. I novatori vogliono scalare il Cielo … essi sono dei ribelli contro Dio e la Fede. Essi vogliono provocare la rovina della Chiesa! Questo discorso fa sensazione. – Ma, in questa “mirabile congiuntura”, non è facile denunciare Galilei, il “sapiente” (falso) cattolico ufficiale, l’amico intimo del Papa, il più grande filosofo d’Europa, amato, coccolato, adulato, rispettato e temuto. E mentre il nuovo Papa ed i sui “amici” dell’Accademia dei Lincei, preparano questa rivoluzione culturale, i Gesuiti, continuano attraverso l’Europa la loro impresa di riconquista delle provincie protestanti. In questo contesto, ci sembra del tutto opportuno riprodurre una bella pagina del libro di Pietro Redondi [“Galilei eretico”] che seguiamo possa passo. “Non sono le petulanti e chiassose manifestazioni di gioia dei letterati novatori e degli aristocratici progressisti romani galvanizzati dall’elezione di un Papa amico di Galilei ed intellettuale raffinato a preoccupare i Gesuiti; ma è una linea generale di apertura culturale e politica improvvisa ed i cui effetti sono contrari alla linea di rinnovo e di lotta della Chiesa della Contro-riforma fissata dal Concilio di Trento. La Compagnia di Gesù, che è lo strumento più efficace di questa linea di condotta, non è vittima di una stretta visione provinciale e romana dei problemi, che condiziona numerosi suoi nemici nella curia. Il fronte principale di lotta contro la Riforma, non sono né i corridoi della Curia, né i saloni dell’Accademia, ma sono le pianure e le città dell’Ungheria e della Boemia, ove i padri della Compagnia, al seguito dei reggimenti della linea imperiale, riportano vittorie; essi riconquistano per Roma le chiese profanate dai riti protestanti, issano le loro bandiere ornate del simbolo dell’Eucaristia sui monasteri degli ordini religiosi decadenti e corrotti, e li confiscano per farne collegi e centri di educazione religiosa, senza preoccuparsi dei reclami romani degli ordini monastici. Il successo dei Gesuiti è impressionante, sul teatro principale della guerra di religione. Nei territori appena strappati ai protestanti, intere popolazioni si riconvertono in massa al Cattolicesimo con ogni mezzo e ad ogni costo. “Forti di queste vittorie e della coscienza politica e religiosa delle sue dimensioni mondiali, la Compagnia di Gesù sa che la fedeltà all’impero è la migliore garanzia contro la Riforma. Essa diffida di pericolose aperture diplomatiche del nuovo Pontefice in direzione di un avventuriero senza scrupoli come Richelieu, nuovo atro nascente della politica europea”.

Il vero processo

Quando il libro del “Saggiatore” appare in libreria a Roma, il primo esemplare venduto viene comprato da P. Grassi, professore eminente del collegio romano. Egli, di carattere irascibile, si adira violentemente con il libraio. Il P. Grassi, annuncia una risposta che non viene. – Galilei intanto viene ricevuto con grande pompa dal Papa nell’aprile del 1624. Ora, nell’estate del 1624, il P. Grassi depone alla cancelleria del Santo-Uffizio una denuncia in regola contro il “Saggiatore” per eresia concernente l’Eucaristia. Il testo di questa denuncia è stato ritrovato da Pietro Redondi in un dossier annesso al processo Galilei, che era stato dunque ben separato fin dall’inizio dell’affare. – Il p. Grassi muove due accuse fondamentali contro Galilei. 1) Il “nominalismo” di Occam, secondo cui le qualità delle cose non sono che dei nomi, ma che nella realtà non esistono: “… se vedo il colore rosso di questo oggetto, questo colore non è che nella mia percezione, ma non nel sole”. È evidentemente un’assurdità. – 2) L’“Atomismo” di Democrito; “… se gli atomi o corpuscoli, o “minima” costituiscono la sostanza dell’oggetto, allora le percezioni sensibili che sono il prodotto di queste particelle fanno anche parte della sostanza delle cose; se dunque, nelle Specie eucaristiche, le forme sensibili del pane e del vino permangono dopo la Consacrazione, la loro sostanza medesima resta presente. Non c’è dunque transustansazione, ma consustansazione”. La tesi di Galilei non fa che riprendere la tesi di Lutero e dei protestanti: Galilei, il filosofo ufficiale della corte pontificia e grande amico del Papa, non è che un “protestante camuffato” …. In effetti le Congregazioni Generali dei Gesuiti hanno sempre condannato l’“Atomismo” di moda presso gli umanisti e ne hanno proibito l’insegnamento nei collegi della Compagnia, condanne rinnovate nel corso del XVII secolo con notevole insistenza. Il primo aprile 1632, la Compagnia di Gesù aveva proibito di insegnare la dottrina degli atomi nei collegi. [… “Non si deve identificare la sostanza con l’estensione e le qualità. Le particelle non sono che misure della materia. L’Atomismo non è che una forma sottile di materialismo. Se è la materia che produce le forme sensibili e le qualità delle cose, allora essa diviene creatrice delle sue forme; essa è dunque di natura divina …”] Questa condanna viene rinnovata nel 1641, nel 1643, nel 1649. Ecco la formula protestante: “Il pane ed il Corpo del Cristo sono realmente, non sostanzialmente né essenzialmente presenti, perché se il pane non avesse più sostanza, non sarebbe più niente e di conseguenza, non sarebbe nemmeno un Sacramento”. Si scorge qui la vecchia tentazione nominalista. Da questo si vede che tali insegnamenti filosofici contrari al buon senso, provocano conseguenze disastrose nelle affermazioni della Dottrina Cattolica. Il filosofo cristiano non può dunque insegnare il “nominalismo” né l’“Atomismo” senza recare nocumento alla Fede. L’accusa è grave, e Galilei lo comprende subito, ha paura e si cerca di rassicurarlo: il suo libro aveva ricevuto l’imprimatur e l’approvazione entusiasta del Papa stesso. Egli crede così di poter contare sull’impunità, ma il sospetto di eresia comincia a circolare in città, malgrado il favore del Papa. Si consiglia a Galilei di non raccogliere il guanto, di restare zitto; noi diremmo oggi volgarmente di “squagliarsela”; perché Galilei sa bene che l’accusa è ben fondata e che il P. Grassi ha compreso pienamente l’intenzione soggiacente e truffaldina dell’autore.

La fronda dei cardinali

Il 18 aprile 1631, nella Cappella Sistina, in presenza del Papa Urbano VIII e nel corso della liturgia del Venerdì Santo, il P. Grassi, l’eminente gesuita, pronuncia una solenne orazione che dovette risuonare molto sgradevolmente alle orecchie del Papa: “Noi dobbiamo piangere, o beati Padri, una spaventosa distruzione ed una immensa rovina. L’edificio che la Saggezza Divina aveva eretto con le sue mani, questo tempio eterno della pace tra Dio e gli uomini viene ora demolito da saccheggiatori empi, distrutto, raso al suolo. « Quanto è veramente atroce assistere alla scena della imminente rovina. Questi strumenti, queste leve, questi operai, tutto è a posto, pronto per l’opera spaventosa di distruzione … i guardiani del tempio, i nuovi leviti, dormono di un sonno profondo. Ma il terrore li scuote ora dal loro sonno profondo. La folla dei saccheggiatori avanza … Già il velo del tempio, come quando l’anima si separò dal Cristo, è squarciato; già tutta la struttura si inclina ed un fracasso simile a quello della morte, anche se sono addormentati, li spinge ora a svegliarsi … le cose sacre sono calpestate, gli altari rovesciati, il tempio in rovina. Dove ci rifugeremo, dove, io mi domando? » Cosa stava accadendo dunque? L’armata svedese di Gustavo-Adolfo percorreva l’Europa centrale, distruggendo, bruciando, assassinando tutti al suo passaggio. Le armate imperiali erano impreparate ed impotenti davanti a questa furia. Gustavo-Adolfo si avvicinava alle Alpi. Il 7 aprile egli era in Baviera, saccheggiando e depredando i collegi dei Gesuiti, costringendoli a fuggire o a nascondersi. La situazione era grave e durante questo tempo « i leviti dormivano ». Chiaramente qui era indicato il Papa: Gustavo-Adolfo minacciava Roma, c’era terrore, e questo era troppo. – Più volte già i cardinali avevano rimproverato il Papa di compiacenza per gli eretici a Roma. Si reclamava un’azione energica, una crociata cattolica contro l’eresia e le novità sovversive. L’8 marzo del 1632, il Cardinale Borgia si alza, denuncia le debolezze del Papa e comincia a leggere una memoria «di grandissima importanza per la religione e la fede ». Egli rimprovera al Papa la sua attitudine conciliante verso il re di Svezia. Urbano VIII vuole togliergli la parola e minaccia di deporlo. Il fratello del Papa vuole prenderlo con la forza, ma gli altri Cardinali gli si raggruppano intorno per proteggerlo. Si crea un gran tumulto, uno scandalo in pieno concistoro. L’avvenimento viene risaputo in tutte le cancellerie. La Spagna reagisce immediatamente, protesta diplomaticamente contro le compiacenze del Papa verso il nemico della religione, sostenendo energicamente il Cardinale Borgia, divenuto il vero maestro del concistoro. Si parla di deporre il Papa! Qualche giorno più tardi, l’imperatore Habsbourg invia a Roma il suo cancelliere, il Cardinale gesuita Peter Pazmani che viene a ripetere al Papa le stesse minacce di Madrid. Il Papa deve promettere un rigore maggiore nella difesa dell’ortodossia. « La mirabile congiuntura » è oramai finita!

Il falso processo

Nel marzo 1632, Galilei pubblica il “Dialogo”, gradito al Papa e munito di imprimatur. Galilei vi riprende la tesi di Copernico sui movimenti della terra e le maree, con l’autorizzazione del Vaticano, a condizione di non mescolare le considerazioni sulle Scritture, e presentandola come ipotesi, senza riferimenti alle Scritture. Galilei ne profitta per riprendere l’atomismo di Democrito ed attaccare Aristotele. Egli identifica la sostanza corporale alle sue componenti materiali e quantitative, riducendo il reale al suo valore numerico. Ma egli evita di usare il termine “atomo” e di parlare di sostanza. Il suo amico e complice Campanella, la cui reputazione di eretico era ben acquisita, lo felicita in una lettera del 3 aprile 1632 … di rinnovare « gli antichi pitagorici e i partigiani di Democrito ». La lettera viene intercettata: la complicità è evidente. Viene inviata una denuncia alla cancelleria del Santo-Uffizio … subito il Papa confida l’affare a suo nipote, il Cardinale Barberini, affare che non può lasciare nelle mani del Cardinale Borgia, Prefetto del Santo-Uffizio, che lo accusa apertamente di  indulgenza colpevole e mancanza di fermezza nell’opera di Contro-Riforma. Portare il caso al Santo-Uffizio, sarebbe stato un vero suicidio politico per il Papa, uno scandalo enorme, la prova della sua complicità con i novatori. Il Cardinal nipote forma allora una commissione speciale al di fuori del Santo-Uffizio. Si rassicura Galilei sulle intenzioni benevole del Papa, suo grande amico, ed il Cardinale nipote si esprime così nei confronti del nunzio di Firenze, in una lettera del 25 settembre 1632: «Si sono affidate le opere di Galilei ad una commissione particolare con il compito di esaminarle e di vedere se si poteva evitare di portarle davanti alla Sacra Congregazione del Santo-Uffizio ». il Papa precisa allo stesso nunzio che aveva fatto un grande favore a Galilei per « … non aver sottomesso una tale materia al tribunale, ma ad una congregazione particolare creata espressamente per lui … che gran cosa! ». Galilei viene appoggiato dal Cardinale nipote, incaricato della sua difesa. Egli deve riconoscere di aver difeso la teoria di Copernico, mostrarsi conciliante, non protestare: « … il tribunale allora poté essere clemente con l’accusato e sua Santità essere soddisfatto ». E ciò è fatto, Galilei viene obbligato a proclamare pubblicamente in una chiesa la condanna dell’eliocentrismo [il culto di Mithra] già formulata precedentemente contro Copernico. Egli fa questa dichiarazione il 22 giugno del 1633, con soddisfazione di tutti. Il Papa gli da un castello come residenza sorvegliata [premio di consolazione e risarcimento dei danni!]. Ma il Cardinale Borgia, indignato dal processo, si rifiuta di firmare il processo verbale. L’indomani il P. Grassi viene esiliato a Savona. Gli si proibisce di pubblicare qualsivoglia cosa; egli, da gesuita fedele ed obbediente, si sottomette. Il testo della seconda denunzia contro il “Dialogo” è sparito dagli archivi, come tutti i resoconti delle sedute della “Commissione speciale”: il lavoro evidentemente è stato ben fatto! – Punto finale. L’affare Galilei era chiuso … tutto il resto, non è che leggenda, mito, menzogna ed imposture … perno su cui poggiare la leva della mistificazione modernista e progressista degli intellettualoidi dell’inganno massonico-mondialista ed ecumenista.

Il fallimento di un Pontificato

L’ultimo “exploit”, se così si può dire, del Papa Urbano VIII fu l’evasione riuscita di Campanella. Tommaso Campanella, domenicano nato in Calabria, a Stilo, possedeva una feconda immaginazione, estese conoscenze in materia di cabala ed alchimia, delle idee ispirate a Joachim de Flore, una attività disordinata e furibonda. Egli si faceva chiamare “il Messia”, annunciava le catastrofi della fine dei tempi. Poiché le sue predizioni tardavano ad avverarsi, immaginò di montare una cospirazione per cacciare gli Spagnoli dal Regno di Napoli. Aveva pure compromesso numerosi gentiluomini e trecento monaci, ma fu preso in tempo e condannato alla carcerazione a Napoli. Egli aveva continuato la crociata contro la Scolastica e contro Aristotele. Ma Urbano VIII venne in suo soccorso. Per tre anni negoziò la sua liberazione con la corte di Madrid, ma invano. Finalmente promise al Re di Spagna che lo avrebbe fatto giudicare dal Santo Uffizio. Questi, fidandosi, glielo consegnò nel 1926, dopo 25 anni di prigionia. Ma ben presto il Papa gli accordò la libertà e lo ammise nella sua intimità. Egli aveva pubblicato una “Apologia per Galilei” ed “una difesa del sistema di Copernico … non contraria alle scritture”, nel 1634. Il suo capolavoro, se così si può dire, fu “la città del sole” dove predicava la comunione totale dei beni e delle persone, nella diretta filiazione di Tommaso Moro. Ma le sue eresie erano ben conosciute. Lo si minacciava, si facevano appelli al Santo-Uffizio. Disperando la sua causa, Urbano VIII si sentì con il conte di Noailles, ambasciatore francese, per aiutarlo a fuggire travestito da cavaliere. Fu caldamente raccomandato a Richelieu ed al Re di Francia Luigi XIII. Ottenne pure una pensione di 3000 libbre, e si stabilì a Parigi ove lavorò alla Biblioteca del re. Gabriel Naudé, il bibliotecario capo, ringraziò pubblicamente Urbano VIII “in nome della scienza, di aver coperto Campanella con la sua autorità”. Ora Naudé era membro della “Fraternità della rosa+croce”, la cui parola d’ordine era: “Guerra al Papa, abolizione del culto” [la solita manfrina anche delle logge attuali, comprese quelle ecclesiastiche, anzi quelle soprattutto!]. Quando l’Inquisizione Reale di Napoli si accorse del sotterfugio, chiese che gli si rendesse il prigioniero. Il Papa rifiutò! – In tutta questa storia, noi assistiamo ad una girandola: Umanisti, Rosa+croce, Lincei ed altri empi formavano tra loro come una vasta “ragnatela” che copriva tutta l’Europa. Questi uomini erano legati da una corrispondenza regolare di attive complicità, come abbiamo visto. L’affare Galilei non può essere veramente compreso se non all’interno di una ben più vasta tragedia, quella delle lotta del Protestantesimo, guidato dai soliti kazari, dappertutto infiltrati, contro i dogmi della Fede Cattolica e contro la Filosofia Scolastica che ne è il necessario supporto. Si faceva finta di attaccare Aristotele ed i Gesuiti del Collegio Romano … ma nei fatti, con fare sornione, si lavorava con accanimento per uccidere la fede nelle anime. Quando un Papa è eletto da una consorteria, quando la sua elezione è il risultato di manovre sotterranee, per dare il potere gerarchico ad un amico e complice, costui si trova in una situazione ben poco confortevole: Urbano VIII non può confessare la sua intenzione profonda e una volta posto sul trono di Pietro, egli è ben obbligato per la sua funzione magisteriale, a continuare ad insegnare le verità della Fede Cattolica alle quali non crede più e che vorrebbe distruggere. Egli deve manovrare delicatamente tra coloro che hanno “fatto” la sua elezione e che reclamano continuamente ciò che essi si attendono da lui, e l’insieme del clero romano restato fedele, che ignora queste manovre, resta perplesso e diffidente davanti alle situazioni che mal comprende. Ci vuole una singolare attitudine all’inganno per utilizzare le formule della Fede Cattolica svuotate dalle loro sostanze, e metterle al servizio del panteismo e della gnosi. – I nostri moderni falsi Pontefici [gli antipapi succedutisi dal 28 ottobre 1958 in poi], i servi dell’anticristo, sono dei virtuosi in questo gioco diabolico. – I più perspicaci avevano allora compreso: erano i Gesuiti del collegio romano, pubblicamente e violentemente attaccati [… mentre oggi è l’ordine più infiltrato ed infestato da marrani e massoni]. Si sono trovati a Roma in quest’epoca degli uomini coraggiosi ed energici per essersi opposti fermamente contro un Papa che aveva abbandonato il suo dovere di stato. Ma vi erano stati pure dei Principi cristiani come il re Filippo IV di Spagna e l’Imperatore Ferdinando II di Habsbourg che misero tutto il peso della loro autorità e delle loro potenze contro Urbano VIII, fino a minacciarlo di deposizione. Si cercano oggi vanamente questi Principi Cristiani! – Questa vicenda è servita ai “nemici di Dio e di tutti gli uomini”, per comprendere che non avrebbero mai potuto manipolare, come in situazioni analoghe precedenti e successive, nessun vero Papa, seppure Cardinale compiacente, perché questi, una volta divenuto Vicario di Cristo, cambiava atteggiamento ed era controllato dal Sant’Uffizio, paladino incrollabile ed inattaccabile dell’ortodossia della Fede Cattolica. Ecco perché hanno voluto nel 1958 l’elezione di un “vero” Papa [Gregorio XVII], impedendogli subito di esercitare pubblicamente il suo “Incarico” e spedendolo in un esilio monitorato 24 ore al giorno per 31 anni. Non lo hanno ucciso pur potendolo fare con estrema facilità, perché per essi era una “garanzia”: … quello è il Papa, e finché è Papa, gli altri non lo sono! Al suo posto hanno creato così una serie di “burattini” manipolabili a piacimento perché non Vicari di Cristo né guidati dallo Spirito Santo [anzi dallo spirito opposto”]. Nel contempo, per garantirsi la docilità dei burattini al movimento dei “fili” mossi dal “gran burattinaio”, e la loro libertà di azione dottrinale anticristiana, si è operata una indispensabile e “strategica” eliminazione del “Santo Uffizio”. Create le “idonee” premesse, i marrani modernisti della quinta colonna hanno potuto trionfare largamente, come ancora oggi vediamo, contando sul sonno colpevole dei “cani” da guardia, i cani muti grassi e sazi che hanno introdotto anzi ben volentieri i lupi nell’ovile a fare strage di anime. – Per Galilei sarebbe stata una “pacchia” spacciarsi per un geniale scienziato innovatore, appoggiato da falsi prelati e falsi gesuiti compiacenti … ma poverino, sfortunatamente era nato troppo presto .. se fosse stato operativo dopo il 1958, altro che premio Nobel, quello che i marrani cabalisti appioppano ai loro “beniamini” per convincere gli sciocchi goym che sono uomini straordinari da ammirare e seguire con fiducia! … ed il culto di Mithra si sarebbe appalesato subito senza ricorrere al baphomet-lucifero massonico. – L’ltimo insegnamento che questa vicenda “pompata” ci offre è questo: la Santa Chiesa Cattolica, Sposa Immacolata del Cristo, Madre tenerissima verso i suoi figli (i Cattolici!), è INFALLIBILE in materia di fede e di morale, inattaccabile in materia dottrinale e dogmatica, seppur rappresentata da elementi che umanamente lasciano a desiderare o semplicemente sono i “cani muti” dipinti dal Profeta Isaia. La Chiesa, Una, Santa, Cattolica, Apostolica Romana, NON DEVE CHIEDERE SCUSA A NESSUNO, mai, in nessun tempo ed in alcun modo. Se sentiamo qualcuno che, Dio ci scansi, dovesse farlo, allora siamone certi: questi è un servo del “nemico”, un lupo satanico travestito da “angelo” di luce [sinistra!], e sappiamo che … non dobbiamo assolutamente credergli, anzi dobbiamo fuggire lontano al più presto e rifugiarci tra le braccia della nostra Santissima Madre, la Vergine Maria … et IPSA conteret caput tuum! Exsurgat Deus et …

(1) Etienne Couvert è un autore francese che ha studiato per anni la gnosi nei suoi variegati aspetti, evidenziandone le infiltrazioni in ogni campo, da quello letterario a quello filosofico, pedagogico, teologico. I suoi testi sono oramai dei classici dell’argomento, e da essi altri hanno largamente scopiazzato e riprodotto. Pur non appartenendo alla “vera” Chiesa Cattolica, considerando anzi la “sinagoga di satana” massonico-modernista essere la Chiesa di Cristo [e nonostante ne abbia evidenziato tutti gli aspetti gnostico-cabalistici, fieramente anticristiani …], i suoi studi, al netto delle considerazioni sulla falsa chiesa e sui falsi “papi”, sono estremamente interessanti e vale la pena tenerli in grande considerazione, con tutta la prudenza richiesta nel valutare l’opera di un a-cattolico (ci auguriamo inconsapevole!) [-ndr.-] 

 

 

 

Un’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: “ANNUM SACRUM”

Nella domenica infra l’ottava della Festa del Sacro Cuore di Gesù, ci è sembrato opportuno rileggere la lettera enciclica di S. S. Leone XIII “Annum sacrum” con la preghiera di Consacrazione dell’umanità al Sacro Cuore di Gesù, una preghiera da inserire nel nostro bagaglio di devozioni abituali.

Leone XIII

“Annum sacrum”

Lettera Enciclica

La consacrazione dell’umanità al sacro Cuore di Gesù

25 maggio 1899

Con nostra lettera apostolica abbiamo recentemente promulgato, come ben sapete, l’anno santo, che, secondo la tradizione, dovrà essere tra poco celebrato in quest’alma città di Roma. Oggi, nella speranza e nell’intenzione di rendere più santa questa grande solennità religiosa, proponiamo e raccomandiamo un altro atto veramente solenne. E abbiamo tutte le ragioni, se esso sarà compiuto da tutti con sincerità di cuore e con unanime e spontanea volontà, di attenderci frutti straordinari e duraturi a vantaggio della religione cristiana e di tutto il genere umano. – Più volte, sull’esempio dei nostri predecessori Innocenzo XII, Benedetto XIII, Clemente XIII, Pio VI, Pio VII, Pio IX, ci siamo adoperati di promuovere e di mettere in sempre più viva luce quella eccellentissima forma di religiosa pietà, che è il culto del sacratissimo Cuore di Gesù. Tale era lo scopo principale del nostro decreto del 28 giugno 1889, col quale abbiamo innalzato a rito di prima classe la festa del Sacro Cuore. Ora però pensiamo a una forma di ancor più splendido omaggio, che sia come il culmine e il coronamento di tutti gli onori, che sono stati tributati finora a questo Cuore sacratissimo e abbiamo fiducia che sia di sommo gradimento al nostro redentore Gesù Cristo. La cosa, in verità, non è nuova. Venticinque anni fa infatti, all’approssimarsi del II centenario diretto a commemorare la missione che la beata Margherita Maria Alacoque aveva ricevuto dall’alto, di propagare il culto del divin Cuore, da ogni parte, non solo da privati, ma anche da vescovi, pervennero numerose lettere a Pio IX, con le quali si chiedeva che si degnasse di consacrare il genere umano all’augustissimo Cuore di Gesù. Si preferì, in quelle circostanze, rimandare la cosa per una decisione più matura; nel frattempo si dava facoltà alle città, che lo desideravano, di consacrarsi con la formula prescritta. Sopraggiunti ora nuovi motivi, giudichiamo maturo il tempo di realizzare quel progetto. – Questa universale e solenne testimonianza di onore e di pietà è pienamente dovuta a Gesù Cristo proprio perché re e signore di tutte le cose. La sua autorità infatti non si estende solo ai popoli che professano la fede Cattolica e a coloro che, validamente battezzati, appartengono di diritto alla Chiesa (anche se errori dottrinali li tengono lontani da essa o dissensi hanno infranto i vincoli della carità), ma abbraccia anche tutti coloro che sono privi della fede cristiana. Ecco perché tutta l’umanità è realmente sotto il potere di Gesù Cristo. Infatti Colui che è il Figlio unigenito del Padre e ha in comune con Lui la stessa natura, “irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3), ha necessariamente tutto in comune con il Padre e quindi il pieno potere su tutte le cose. Questa è la ragione perché il Figlio di Dio, per bocca del profeta, può affermare: “Sono stato costituito sovrano su Sion, suo monte santo. Il Signore mi ha detto: Tu sei mio Figlio; io oggi ti ho generato. Chiedi a me e ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra” (Sal II,6-8). Con queste parole egli dichiara di aver ricevuto da Dio il potere non solo su tutta la chiesa, raffigurata in Sion, ma anche su tutto il resto della terra, fin dove si estendono i suoi confini. Il fondamento poi di questo potere universale è chiaramente espresso in quelle parole: “Tu sei mio Figlio”. Per il fatto stesso di essere il figlio del re di tutte le cose, è anche erede del suo potere universale. Per questo il salmista continua con le parole: “Ti darò in possesso le genti”. Simili a queste sono le parole dell’apostolo Paolo: “L’ha costituito erede di tutte le cose” (Eb 1,2). – Si deve tener presente soprattutto ciò che Gesù Cristo, non attraverso i suoi apostoli e profeti, ma con le stesse sue parole ha affermato del suo potere. Al governatore romano che gli chiedeva: “Dunque tu sei re”, egli, senza esitazione, rispose: “Tu lo dici; io sono re” (Gv XVIII,37). La vastità poi del suo potere e l’ampiezza senza limiti del suo regno sono chiaramente confermate dalle parole rivolte agli apostoli: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt XXVIII,18). Se a Cristo è stato concesso ogni potere, ne segue necessariamente che il suo dominio deve essere sovrano, assoluto, non soggetto ad alcuno, tanto che non ne può esistere un altro ne uguale ne simile. E siccome questo potere gli è stato dato e in cielo e in terra, devono stare a lui soggetti il cielo e la terra. Di fatto egli esercitò questo suo proprio e individuale diritto quando ordinò agli apostoli di predicare la sua dottrina, di radunare, per mezzo del battesimo, tutti gli uomini nell’unico corpo della chiesa, e di imporre delle leggi, alle quali nessuno può sottrarsi senza mettere in pericolo la propria salvezza eterna. – E non è tutto. Cristo non ha il potere di comandare soltanto per diritto di nascita, essendo il Figlio unigenito di Dio, ma anche per diritto acquisito. Egli infatti ci ha liberato “dal potere delle tenebre” (Col 1,13) e “ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1Tm II,6). E perciò per lui non soltanto i Cattolici e quanti hanno ricevuto il Battesimo, ma anche tutti e singoli gli uomini sono diventati “un popolo che egli si è conquistato” (1Pt II,9). A questo proposito sant’Agostino osserva giustamente: “Volete sapere che cosa ha comprato? Fate attenzione a ciò che ha dato e capirete che cosa ha comprato. Il sangue di Cristo: ecco il prezzo. Che cosa può valere tanto? Che cosa se non il mondo intero? Per tutto ha dato tutto”. – San Tommaso, trattando della questione, indica perché e come gli infedeli sono soggetti al potere e alla giurisdizione di Gesù Cristo. Posto infatti il quesito se il suo potere di giudice si estenda o no a tutti gli uomini, risponde che, siccome “il potere di giudice è una conseguenza del potere regale”, si deve concludere che “quanto alla potestà, tutto è soggetto a Gesù Cristo. anche se non tutto gli è soggetto quanto all’esercizio del suo potere”. Questa potestà e questo dominio sugli uomini lo esercita per mezzo della verità, della giustizia, ma soprattutto per mezzo della carità. – Tuttavia Gesù, per sua bontà, a questo suo duplice titolo di potere e di dominio, permette che noi aggiungiamo, da parte nostra, il titolo di una volontaria consacrazione. Gesù Cristo, come Dio e Redentore, è senza dubbio in pieno e perfetto possesso di tutto ciò che esiste, mentre noi siamo tanto poveri e indigenti da non aver nulla da potergli offrire come cosa veramente nostra. Tuttavia, nella sua infinita bontà e amore, non solo non ricusa che gli offriamo e consacriamo ciò che è suo, come se fosse bene nostro, ma anzi lo desidera e lo domanda: “Figlio, dammi il tuo cuore” (Pro XXIII,26). Possiamo dunque con la nostra buona volontà e le buone disposizioni dell’animo fare a lui un dono gradito. Consacrandoci infatti a lui, non solo riconosciamo e accettiamo apertamente e con gioia il suo dominio, ma coi fatti affermiamo che, se quel che offriamo fosse veramente nostro, glielo offriremmo lo stesso di tutto cuore. In più lo preghiamo che non gli dispiaccia di ricevere da noi ciò che, in realtà, è pienamente suo. Così va inteso l’atto di cui parliamo e questa è la portata delle nostre parole. – Poiché il sacro Cuore è il simbolo e l’immagine trasparente dell’infinita carità di Gesù Cristo, che ci sprona a rendergli amore per amore, è quanto mai conveniente consacrarsi al suo augustissimo Cuore, che non significa altro che donarsi e unirsi a Gesù Cristo. Ogni atto di onore, di omaggio e di pietà infatti tributati al divin Cuore, in realtà è rivolto allo stesso Cristo. – Sollecitiamo pertanto ed esortiamo tutti coloro che conoscono e amano il divin Cuore a compiere spontaneamente questo atto di consacrazione. Inoltre desideriamo vivamente che esso si compia da tutti nel medesimo giorno, affinché i sentimenti di tante migliaia di cuori, che fanno la stessa offerta, salgano tutti, nello stesso tempo, al trono di Dio. – Ma come potremo dimenticare quella stragrande moltitudine di persone, per le quali non è ancora brillata la luce della verità cristiana? Noi teniamo il posto di Colui che è venuto a salvare ciò che era perduto e diede il suo sangue per la salvezza di tutti gli uomini. Ecco perché la nostra sollecitudine è continuamente rivolta a coloro che giacciono ancora nell’ombra di morte e mandiamo dovunque missionari di Cristo per istruirli e condurli alla vera vita. Ora, commossi per la loro sorte, li raccomandiamo vivamente al sacratissimo Cuore di Gesù e, per quanto sta in noi, a Lui li consacriamo. – In tal modo questa consacrazione che esortiamo a compiere, potrà giovare a tutti. Con questo atto, infatti, coloro che già conoscono e amano Gesù Cristo, sperimenteranno facilmente un aumento di fede e di amore. Coloro che, pur conoscendo Cristo trascurano l’osservanza della sua legge e dei suoi precetti, avranno modo di attingere da quel divin Cuore la fiamma dell’amore. Per coloro infine che sono più degli altri infelici, perché avvolti ancora nelle tenebre del paganesimo, chiederemo tutti insieme l’aiuto del cielo, affinché Gesù Cristo, che li tiene già soggetti “quanto al potere”, li possa anche avere sottomessi “quanto all’esercizio di tale potere”. E preghiamo anche che ciò si compia non solo nel mondo futuro, “quando Egli eseguirà pienamente su tutti la sua volontà, salvando gli uni e castigando gli altri”, ma anche in questa vita terrena con il dono della fede e della santificazione, in modo che, con la pratica di queste virtù, possano onorare debitamente Dio e tendere così alla felicità del cielo. – Tale consacrazione ci fa anche sperare per i popoli un’era migliore; può infatti stabilire o rinsaldare quei vincoli, che, per legge di natura, uniscono le nazioni a Dio. – In questi ultimi tempi si è fatto di tutto per innalzare un muro di divisione tra la Chiesa e la società civile. Nelle costituzioni e nel governo degli stati, non si tiene in alcun conto l’autorità del diritto sacro e divino, nell’intento di escludere ogni influsso della Religione nella convivenza civile. In tal modo si intende strappare la fede in Cristo e, se fosse possibile, bandire lo stesso Dio dalla terra. Con tanta orgogliosa tracotanza di animi, c’è forse da meravigliarsi che gran parte dell’umanità sia stata travolta da tale disordine e sia in preda a tanto grave turbamento da non lasciare vivere più nessuno senza timori e pericoli? Non c’è dubbio che, con il disprezzo della Religione, vengono scalzate le più solide basi dell’incolumità pubblica. Giusto e meritato castigo di Dio ai ribelli che, abbandonati alle loro passioni e schiavi delle loro stesse cupidigie, finiscono vittime del loro stesso libertinaggio. – Di qui scaturisce quella colluvie di mali, che da tempo ci minacciano e ci spingono con forza a ricercare l’aiuto in colui che solo ha la forza di allontanarli. E chi potrà essere questi se non Gesù Cristo, l’unigenito Figlio di Dio? “Non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati” (At IV,12). A lui si deve ricorrere, che è “la via, la verità e la vita” (Gv XIV,6). Si è andati fuori strada? bisogna ritornare sulla giusta via. Le tenebre hanno oscurato le menti? è necessario dissiparle con lo splendore della verità. La morte ha trionfato? bisogna attaccarsi alla vita. – Solo così potremo sanare tante ferite. Solo allora il diritto potrà riacquistare l’autentica autorità; solo così tornerà a risplendere la pace, cadranno le spade e sfuggiranno di mano le armi. Ma ciò avverrà solo se tutti gli uomini riconosceranno liberamente il potere di Cristo e a lui si sottometteranno; e ogni lingua proclamerà “che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil II,11). – Quando la Chiesa nascente si trovava oppressa dal giogo dei Cesari, a un giovane imperatore apparve in cielo una Croce auspice e nello stesso tempo autrice della splendida vittoria che immediatamente seguì. Ecco che oggi si offre ai nostri sguardi un altro divinissimo e augurale segno: il Cuore sacratissimo di Gesù, sormontato dalla croce e splendente, tra le fiamme, di vivissima luce. In Lui sono da collocare tutte le nostre speranze; da lui dobbiamo implorare e attendere la salvezza. – Infine non vogliamo passare sotto silenzio un motivo, questa volta personale, ma giusto e importante, che ci ha spinto a questa consacrazione: l’averci Dio, autore di tutti i beni, scampato non molto tempo addietro da pericolosa infermità. Questo sommo onore al Cuore sacratissimo di Gesù, da Noi promosso, vogliamo che rimanga memoria e pubblico segno di gratitudine di tanto beneficio. – Ordiniamo perciò che, nei giorni 9, 10 e 11 del prossimo mese di giugno, nella chiesa principale di ogni città o paese, alla recita delle altre preghiere si aggiungano ogni giorno anche litanie del sacro Cuore da Noi approvate. Nell’ultimo giorno poi si reciti, venerabili fratelli, la formula di consacrazione, che vi mandiamo con la presente lettera. – Come pegno di favori divini e testimonianza della nostra benevolenza, a voi, al clero e al popolo affidato alle vostre cure, impartiamo di cuore, nel Signore, l’apostolica benedizione.

Roma, presso San Pietro, il 25 maggio 1899, anno XXII del nostro pontificato

Formula di consacrazione da recitarsi al sacratissimo Cuore di Gesù

 “Iesu dolcissime, Redemptor humani generis, respice nos ad altare tuum humillime provolutos. Tui sumus, tui esse volumus; quo autem Tibi coniuncti firmius esse possimus, en hodie Sacratissimo Cordi tuo se quisque nostrum sponte dedicat. – Te quidem multi novere numquam. Te, spretis mundatis tuis, multi repudiarunt. Miserere utrorumque, benignissime Iesu: atque ad sanctum Cor tuum rape universos. Rex esto, Domine, nec fidelium tantum qui nullo tempore discessere a Te, sed etiam prodigo rum filiorum qui Te reliquerunt fac has, ut domum paternam cito repetant, ne miseria et fame pereant. Rex esto eorum, quos aut opinionum error deceptos habet, aut discordia separatos, eosque ad portum veritatis atque ad unitatem fidei revoca, ut brevi fiat unum ovile et unus pastor. Rex esto denique eorum omnium, qui in vetere gentium superstitione versantur, eosque e tenebris vindicare ne renuas in Dei lumen et regnum. Largire, Domine, Ecclesiæ tuæ securam cum incolumitate libertatem; largire cunctis gentibus tranquillitatem ordinis: perfice, ut ab utroque terræ vertice una resonet vox: Sit laus divino Cordi, per quod nobis parta solus: ipsi gloria et honor in sæcula. Amen”.  

 [“O Gesù dolcissimo, o redentore del genere umano, riguardate a noi umilmente prostesi dinanzi al vostro altare. – Noi siamo vostri, e vostri vogliamo essere; e per poter vivere a voi più strettamente congiunti, ecco che ognuno di noi oggi si consacra al vostro sacratissimo Cuore. Molti purtroppo non vi conobbero mai; molti, disprezzando i vostri comandamenti, vi ripudiarono. – O benignissimo Gesù, abbiate misericordia e degli uni e degli altri; e tutti quanti attirate al vostro Cuore santissimo. – O Signore, siate il re non solo dei fedeli che non si allontanarono mai da voi, ma anche di quei figli prodighi che vi abbandonarono; fate che questi quanto prima ritornino alla casa paterna, per non morire di miseria e di fame. – Siate il Re di coloro che vivono nell’inganno dell’errore o per discordia da voi separati: richiamateli al porto della verità e all’unità della fede, affinché in breve si faccia un solo ovile sotto un solo pastore. – Siate il Re finalmente di tutti quelli che sono avvolti nelle superstizioni del gentilesimo, e non ricusate di trarli dalle tenebre al lume e al regno di Dio. – Largite, o Signore, incolumità e libertà sicura alla vostra Chiesa, largite a tutti i popoli la tranquillità dell’ordine: fate che da un capo all’altro della terra risuoni quest’unica voce: sia lode a quel Cuore divino da cui venne la nostra salute; a Lui si canti gloria e onore nei secoli. Così sia].

 

DOMENICA III dopo PENTECOSTE

Introitus

Ps XXIV:16; XXIV:18 Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus. [Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

Ps XXIV:1-2 Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam. [A te, o Signore, elevo l’ànima mia: Dio mio, confido in te, ch’io non resti confuso.]

Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus. [Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

 Orémus. Protéctor in te sperántium, Deus, sine quo nihil est válidum, nihil sanctum: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, te rectóre, te duce, sic transeámus per bona temporália, ut non amittámus ætérna. [Protettore di quanti sperano in te, o Dio, senza cui nulla è stabile, nulla è santo: moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché, sotto il tuo governo e la tua guida, passiamo tra i beni temporali cosí da non perdere gli eterni.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet V:6-11 “Caríssimi: Humiliámini sub poténti manu Dei, ut vos exáltet in témpore visitatiónis: omnem sollicitúdinem vestram projiciéntes in eum, quóniam ipsi cura est de vobis. Sóbrii estote et vigiláte: quia adversárius vester diábolus tamquam leo rúgiens circuit, quærens, quem dévoret: cui resístite fortes in fide: sciéntes eándem passiónem ei, quæ in mundo est, vestræ fraternitáti fíeri. Deus autem omnis grátiæ, qui vocávit nos in ætérnam suam glóriam in Christo Jesu, módicum passos ipse perfíciet, confirmábit solidabítque. Ipsi glória et impérium in sæcula sæculórum. Amen”. [Carissimi: Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti nel tempo della sua visita: e affidate a Lui ogni vostra preoccupazione, poiché Egli stesso ha cura di voi. Siate sobrii e vigilate, poiché il vostro nemico, il diavolo, vi circonda come un leone ruggente, cercando di divorare qualcuno: ad esso resistete forti nella fede; sapendo che le medesime sofferenze hanno i vostri fratelli sparsi per il mondo. Tuttavia, il Dio di ogni grazia, che ci ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesú, ci perfezionerà dopo che avremo sofferto un poco, e ci confermerà nella fede, ci irrobustirà. A Lui gloria e impero nei secoli dei secoli. Amen.]

Omelia I

[Mons. Bonomelli: da “Omelie”, vol III – Omelia VII, Torino 1899]

“Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché vi innalzi allorché verrà a visitarvi, abbandonando in lui ogni vostra affannosa cura, perché egli ha pensiero di voi”. Siate sobri e vegliate, perché il demonio, vostro avversario, come leone ruggente, gira intorno a voi, cercando chi divorare. A lui tenete testa, saldi nella fede, sapendo che le stesse tribolazioni incalzano i vostri fratelli sparsi pel mondo. Il Dio poi d’ogni grazia, che in Gesù Cristo ci ha chiamati alla eterna sua gloria, poiché avrete alcun poco sofferto, egli stesso vi perfezionerà e solidamente vi stabilirà. A lui sia gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen „ (I . di S. Pietro, v, 6-11).

In queste sentenze voi avete voltato nella nostra lingua, parola per parola, il tratto dell’epistola, che la Chiesa ci fa leggere nella Messa di questa Domenica; tratto che si legge verso la fine della la lettera di S. Pietro. Esso è breve, ma, come voi stessi vi sarete accorti, udendone la recita, contiene alcune verità morali d’una importanza altissima, ch’io mi ingegnerò di sviluppare e voi vi studierete di comprendere. – S. Pietro, prima di chiudere la sua lettera, divisa in cinque piccoli capi, con affetto paterno si rivolge ai pastori di anime e vivamente li esorta allo zelo, al disinteresse ed alla modestia, ponendo innanzi ai loro occhi la corona immarcescibile che un dì riceveranno dal Principe dei pastori, Gesù Cristo. Poi si rivolge ai giovani e li esorta ad essere docili e rispettosi verso i provetti ed umili tra loro, perché l’umiltà è cara a Dio, che la ricolma di grazia. Quindi, rivolgendosi a tutti, continua: “Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, „ “Humiliamìnì sub potenti manu Dei”. L’umiltà, come sapete, è figlia del conoscimento di se stesso (S. Bernardo), e volentieri aggiungo, e del conoscimento di Dio, giacché il primo conoscimento si compie e perfeziona nel secondo, precisamente come le ombre d’un quadro hanno il loro risalto dalla luce. Raccogliamoci in noi stessi un istante e gettiamo uno sguardo sopra l’essere nostro. Che è questo corpo? Un po’ di terra, che presto ritornerà alla terra: un po’ di nebbia, che un raggio del sole abbellisce per pochi momenti e un soffio d’aria disperde: un fiore, che al mattino sfoggia i suoi colori smaglianti e spande la sua fragranza, e la sera china il capo, inacidisce e muore. – Questo corpo, che sembra pieno di vita, di forza e di bellezza, è travagliato da mille infermità, invecchia, si curva sotto il peso agli anni, è calato nel sepolcro, si riduce ad un pugno di polvere. E l’anima che l’avviva? Legata a questo corpo, se lo trascina dietro penosamente, come la chiocciola si trascina dietro la sua casa; tormentata dalle passioni, si dibatte miseramente tra l’errore e la verità, tra il vizio e la virtù, troppo spesso schiava di quello, raramente amica e discepola di questa: la sua vita è un intreccio continuo di debolezze e di colpe, che fanno salire la vergogna sulla sua fronte: il rimorso la segue e l’incalza, l’orrore della morte e il terrore del divino giudizio l’arresta, la respinge. Se leviamo gli occhi a Dio, che vediamo? Quale confronto tra Lui e noi? Tutto ciò che abbiamo è dono suo: nulla che sia nostro, del peccato in fuori: Egli eterno, immenso, immutabile, sapientissimo, la stessa bontà; noi racchiusi in questo angusto circolo del tempo, in questo punto impercettibile del nostro essere, soggetti ad incessanti mutazioni, pieni di dubbi, di incertezze, di errori, di ree tendenze. – Chi siamo noi d’innanzi a Dio? Povere, miserabili creature, degne d’ogni disprezzo e d’ogni pena. Consci di noi stessi e delle nostre miserie estreme, sentiremo il dovere e la necessità di umiliarci sotto la mano potente di Dio, che tutto conosce e dispone a nostro bene. – Che se curveremo la nostra fronte e fiaccheremo il nostro orgoglio dinanzi alla potenza ed alla maestà di Dio e diventeremo piccoli e spregevoli ai nostri occhi, ecco la mercede, che infallibilmente ne avremo: “Egli, Iddio, ci solleverà nel giorno della visitazione, „ Ut vos exaltet in tempore visitationis. – E la gran legge, che brilla da un capo all’altro del Vangelo e che ha il suo pieno compimento nel nostro capo divino, Gesù Cristo. Vuoi essere grande dinanzi a Dio? Abbassati agli occhi tuoi. Vuoi essere il primo nel regno dei cieli? Sii l’ultimo quaggiù sulla terra, perché sta sempre la sentenza di Cristo: “Chi si abbassa sarà esaltato: Agli umili Dio concede la sua grazia. „ E quando al tuo volontario abbassamento risponderà l’innalzamento tuo? In tempore visitationis, nel tempo che Dio verrà a te, il dì cioè della tua morte, il giorno nel quale si chiuderà la vita presente e comincerà l’eterna (La frase “In tempore visitationis„ si incontra più volte nei libri sacri, e vuol dire, ora la visita che Dio fa colla sua grazia ed anche con i suoi castighi, ed ora il giudizio, sia particolare, sia universale. È una forma di dire ebraica e poetica).Voi vedete, o cari, che i Libri santi per sostenere la nostra debolezza nelle dure lotte della vita, per confortarci in mezzo alle pene ed alle amarezze, inseparabili compagne di chi batte il cammino della virtù, ci fanno sempre brillare agli occhi della mente le gioie della Vita futura: Ut vos exaltet in tempore visitationis. Togliete all’uomo la speranza del premio nella vita futura, chiudetegli sul capo le porte del cielo, ditegli che tutto finisce quaggiù, nella fossa del sepolcro, e voi avrete gettato nel suo cuore la disperazione, voi lo costringerete a maledire la sua esistenza, la virtù come un sogno, come un tormento. Ah! Se non vi fosse altra vita che la presente, altro premio per la virtù tribolata, che quello che da il mondo, la nostra esistenza quaggiù sarebbe un enigma insolubile, una contraddizione manifesta, e noi saremmo, come scrisse l’Apostolo, i più miserabili degli esseri.Vi sono anche al giorno d’oggi alcuni dotti, i quali pensano e insegnano che è cosa indegna dell’uomo operare il bene, praticare la virtù per la mercede promessa nella vita futura. Essi dicono, che in tal guisa la virtù si trasforma in una merce, la si abbassa, la si avvilisce: affermano, la virtù doversi praticare per se stessa, né doversi aspettare un premio futuro quale che sia; i credenti colla loro speranza della ricompensa essere volgari mercanti. – Che si possa esercitare la virtù, prescindendo dalla mercede futura, per la sua bellezza intrinseca, per piacere solo a Dio, che la comanda, nessun dubbio: è virtù altissima, lo sappiamo: che sia cosa indegna e biasimevole, esercitarla per la speranza della retribuzione, è grave errore, condannato dai Libri santi, che ci incoraggiano alla battaglia della vita, all’esercizio della virtù, proponendoci il premio; è anche cosa che ripugna alla natura stessa dell’uomo, che non può non desiderare il proprio bene e che per vincere le passioni e superare gli ostacoli ha bisogno di attingere forza nella speranza della ricompensa. Costoro mostrano di non conoscere la natura umana e sollevano la virtù a tanta altezza da renderla non solo difficile, ma impossibile almeno alla maggior parte degli uomini.Compresi del vostro nulla dinanzi a Dio, fisso lo sguardo della mente in Lui “abbandonate in lui ogni vostra cura affannosa.Omnem sollicitudinem vestram projicientes in eum”. Come bella e cara è questa sentenza del principe degli Apostoli! Voi, figliuoli miei, così sembra parlare, voi siete oppressi dai timori e dalle ansie, che vi assediano e stringono da ogni parte: siete come poveri pellegrini, che, camminando verso la patria, sentono gravate le spalle da enorme fardello. Quante cure moleste! Quante pene dello spirito, spesso più pungenti di quelle che affliggono il corpo! Ebbene: di tutte queste cure, che vi affannano, di tutte queste pene del corpo e dello spirito alleggeritevi, fatene un fascio e gettatele in Dio: Projicientes in eum! La espressione qui usata da S. Pietro è piena di forza: non dice ponetele in Dio, offritele a Dio, rassegnatevi al volere di Dio, o alcun che dimile, ma, Projicientes: Gittatele in Dio, che significa il totale e perfetto abbandono d’ogni nostra cura ed ansia in Dio, a talché ne smettiamo al tutto ogni pensiero ed ogni timore.Dobbiamo noi dunque vivere spensierati? S. Pietro in questo luogo ci vieta forse di occuparci delle cose nostre e ci comanda di starcene neghittosi, colle mani in mano, il tutto rimettendo alla Provvidenza divina? No sicuramente; così facendo, offenderemmo la stessa Provvidenza di Dio, che vuole il concorso dell’uomo: sarebbe un tentar Dio e un trasformare la virtù in un vizio. S. Pietro in questa sentenza vuole, che cessiamo dalle sollecitudini eccessive, ma che dal canto nostro facciamo ciò che possiamo: condanna la cura smoderata, affannosa, che ripone ogni fiducia nei propri sforzi e dimentica che al di sopra dell’uomo vi è Dio, che governa ed ordina ai suoi fini altissimi. Facciamo tutto, come scrisse un santo, come se non vi fosse la Provvidenza, e poi governiamoci come se tutto avesse fatto la Provvidenza.E perché dobbiamo abbandonarci interamente fra le braccia della Provvidenza? “Perché risponde S. Pietro, Dio ha pensiero di voi” Quìa ipsi cura est de vobis. Dio non fa come l’architetto, il quale dopo avere fabbricato la casa, se ne va; come il pittore, il quale dopo avere ritratta sulla tela la figura, pensa ad altro lavoro: egli è creatore e insieme conservatore e provveditore, e non perde di vista l’opera delle sue mani per un solo momento, e pensa e provvede a ciascuna come se fosse sola. Come dunque non dobbiamo riposare tranquillamente in questa paterna Provvidenza? Abbandonandoci in Dio, come figli nel seno del padre, noi lo onoriamo, riconoscendo la sua sapienza, la sua potenza e la sua bontà, e, se è lecito il dirlo, lo obblighiamo a circondarci di cure più affettuose. Il figlio, che tutto si affida alle cure del padre amoroso, lo onora grandemente ed è sicuro, se è possibile, di accrescerne la tenerezza. Sì, o dilettissimi, gettiamo tutte le nostre sollecitudini in Dio, perché Egli ha pensiero di noi.E sì vero che S. Pietro, esortandoci a collocare ogni nostra cura in Dio, non intesa a scioglierci da ogni lavoro e sforzo dal lato nostro, che soggiunge: “Siate sobrii e vegliate, „ Sobrii estote et vigilate. Due cose accoppia tra loro e raccomanda l’Apostolo, la sobrietà e la vigilanza, perché non si possono separare. La sobrietà o temperanza in ogni cosa è madre della vigilanza, nutrice della scienza e tutrice della castità, come la gola e la crapula sono amiche del sonno, della pigrizia, dell’ignoranza, del basso sentire e della lussuria. “Sobrii estote” Siate sobri, che il cibo non sia mai soverchio, o soverchiamente delicato, che la bevanda estingua la sete, non solletichi il gusto: che l’uno e l’altra siano contenuti entro la giusta misura, né gravino il corpo ed oscurino la mente: soddisfino i bisogni della natura, non eccitino le passioni, né siano alimento del vizio. Come volete che vegli, che stia in guardia, che preghi, che pesi le parole, che regoli gli atti suoi colui che è oppresso dal cibo, la cui mente è abbuiata dai vapori del vino? Come volete che si sollevi a Dio col pensiero e coll’affetto chi giace sotto il peso della crapula? Come volete che fissi l’occhio della mente nella luce sì pura della verità e della virtù chi l’ha pressoché chiuso per l’intemperanza del mangiare e del bere? Siate sobri e sarete vigilanti: e ciò è necessario, perché grandi pericoli e terribili nemici ne circondano. – Quali nemici? Udite: “Perché il demonio, vostro avversario, come leone ruggente, si aggira intorno, cercando chi divorare.„ Nemico nostro è il mondo, colle sue seduzioni, con i suoi inganni; nemico nostro è il corpo, che portiamo, colle passioni che in esso si annidano, quasi serpi velenose sotto un cespuglio di fiori; nemici nostri sono i tristi, che insidiano la nostra fede; ma il nemico principale, il nemico, che sotto la sua bandiera raccoglie tutti i nostri nemici, che li muove e scatena ai nostri danni, è il demonio, il nostro avversario per eccellenza; egli sedusse i nostri primi padri e continua in noi, loro figli, l’opera sua, opera di morte. Non ignoro, o dilettissimi, che parecchi anche credenti, all’udir nominare il demonio, si stringono nelle spalle, sorridono e quasi in aria di compatimento, dicono: Il demonio! chi ora ci crede? Chi l’ha mai veduto ? È una credenza, che si può lasciare alle pie donne del volgo. L’esistenza dello spirito malvagio, che troviamo in fondo a tutte le credenze religiose antiche e moderne, per noi Cattolici, è verità di fede: le pagine dei Libri santi ne sono ripiene e possiamo dire che tutta la divina rivelazione, dal Genesi all’Apocalisse, si svolge sotto l’azione della lotta tra gli spiriti maligni ed i figli di Dio. Essa comincia nell’Eden, prosegue fino al Calvario ed avrà fine al termine tempi, quando il principe delle tenebre sarà cacciato per sempre dalla terra. Non ascoltate dunque coloro, che mettono nel numero delle favole o delle leggende l’esistenza dei demoni; essa è un articolo di fede. – Il demonio odia Dio, a cui si ribellò e che lo punisce, ed odia fieramente noi, perché sue creature, portanti in noi stessi l’immagine di Dio, perché amati da Dio e da Lui chiamati a quel regno beato, dal quale egli fu per sempre sbandeggiato. Vedetelo, dice S. Pietro, vedetelo il demonio, il vostro implacabile nemico, egli è simile al leone: il leone, il re della selva, è superbo, feroce, pieno d’ira e di rabbia: esso arruffa il pelo, colla coda si flagella i fianchi; dagli occhi balena una luce sinistra, con i suoi ruggiti fa tremare il deserto, si lancia sulla sua preda, la ghermisce, la dilania con le unghie poderose e coi denti la maciulla: esso non sa che uccidere e degli uccisi si pasce. Il demonio, come leone affamato, rugge, e si aggira intorno a voi, in cerca della preda, e guai al misero sul quale può stendere l’unghia terribile! Voi vedete che S. Pietro in poche battute ci descrive al vivo la forza, la crudeltà, la rabbia onde il demonio arde contro di noi, e quanto sia necessario vegliare per non cadere nelle sue fauci. – Prima condizione per non essere sua vittima è la vigilanza, perché quantunque questo nemico sia tremendo per la forza e per la ferocia. esso è incatenato da Cristo, è come chiuso entro la sua gabbia, e soltanto coloro che incautamente gli si avvicinano, sono da lui afferrati e divorati. Lungi adunque, lungi dalla fiera belva: badate di non cercare il pericolo, di non esporvi alla tentazione senza necessità: chi cerca il pericolo, chi si espone senza motivo sufficiente alla tentazione è simile a quell’imprudente che si accosta alla gabbia del leone e scherza con esso; sentirà la forza dei suoi artigli e sarà suo pasto miserando. – Non basta star lungi, fuggire la tentazione, vigilare per non essere colto ed addentato; fa d’uopo al bisogno tenergli testa: Cui resistite fortes. Assai volte possiamo fuggire la tentazione, ma talora è impossibile fuggirla: talora è forza affrontarla, massime vivendo in questo mondo. Allora, o miei cari, noi siamo simili a coloro che sono costretti ad entrare nella gabbia, dove giace il leone e affrontarne il furore. Che fanno essi? Non è mai che gli volgano le spalle: fissano lo sguardo immobile e dominatore sul leone, e questo qua e là si aggira ruggendo, ma non osa assalirli, anzi diviene loro zimbello. Così noi, o carissimi, costretti a lottare corpo a corpo contro il demonio, il tentatore, teniamo fisso sopra di lui l’occhio illuminato dalla fede. Un raggio solo della luce divina, che per la fede si riflette nel nostro sguardo, farà sentire al nemico la presenza di Cristo, che lo vinse, lo soggiogherà, lo renderà impotente, ed allora, come cantava il Salmista, potremo camminare sul capo del leone e del dragone. È questo, che vuole insegnarci S. Pietro, allorché ci dice: “Tenete testa, forti nella fede, „ Cui resistite fortes in fide. – “Lo so, in questa lotta soffrirete assai, così S. Pietro; ma ricordatevi, che altri soffrirono come voi. Chi sono? I vostri fratelli, sparsi pel mondo”: Scientes eamdem passionem ei, quæ in mundo est, vestræ fraternitati fieri. Questa lettera fu scritta da S. Pietro in Roma, sette anni circa prima della sua morte. I fedeli ai quali scriveva, non potevano certamente ignorare le sue tribolazioni, le persecuzioni che soffriva egli, Principe degli Apostoli, e con lui soffrivano tutti i fratelli suoi nell’apostolato, e più o meno tutti i cristiani sparsi nel mondo. È un conforto, doloroso, se volete, ma è sempre un conforto il sapere che altri patiscono come noi, come noi e per gli stessi motivi, per i quali soffriamo noi. È un conforto, perché se soffrono altri come noi e per gli stessi motivo, perché non soffriremo ancor noi? La loro costanza, il loro esempio ci incoraggia e ci avvalora. L’essere soli a lottare e soffrire sconforta: guai al solo, dice la Scrittura: avere compagni sembra raddoppiare le nostre forze. È un conforto, perché la nostra fede si ravviva, si ravviva la nostra speranza, perché sappiamo che altri per esse soffrono con noi. I soldati, che sanno i loro commilitoni pugnare altrove valorosamente, sentonsi eccitati ad imitarli e più animosi si gettano nella mischia. Bene a ragione adunque S. Pietro rammenta ai fedeli dell’Asia, che se essi soffrono, soffrono pur altri, i loro fratelli, dovunque sparsi sulla terra. Da queste parole dell’Apostolo noi comprendiamo che fin d’allora tutti i credenti, benché lontanissimi tra loro, si consideravano come fratelli, formanti una sola famiglia, tantoché i dolori come le gioie erano comuni. – Questo spirito di solidarietà, dirò meglio, di mutua carità e fratellanza, è caratteristico della Chiesa di Gesù Cristo; allorché alcuni suoi membri soffrono per la fede, per la causa della giustizia, siano pure sulle ultime spiagge dell’Oriente, o tra le aride sabbie del deserto, o tra le selve d’Africa o d’America, gli altri soffrono con essi, pregano e li soccorrono, se possono. – Questa comunione delle gioie e dei dolori tra i figli della Chiesa, è frutto della stessa fede e della stessa carità, e ne è ad un tempo l’alimento. – Soffriamo tutti, dice in sostanza S. Pietro, soffriamo tutti in questa lotta col principe delle tenebre e con i suoi alleati: che posso dirvi? Io non fo che un voto, ed è questo: “Il Dio d’ogni grazia, che in Cristo ci ha chiamati alla gloria eterna, dopo il breve patire, vi perfezioni e solidamente vi stabilisca. „ Dio, che è fonte inesausta d’ogni grazia, per i meriti di Cristo, che ci ha redenti, compia l’opera sua in voi, vi perfezioni nella pazienza e nella carità, vi tenga saldi nella lotta contro il nemico e dopo i brevi patimenti della vita presente, vi stabilisca in quella gloria beata, alla quale ci ha chiamati. – Sempre questo lo spirito che informa l’insegnamento della fede e che brilla mirabilmente in tutti gli scritti del nuovo Testamento; noi siamo posti su questa terra per conoscere, amare e servire Iddio; siamo posti su questa terra, non per godere di questi poveri beni, ma per acquistarci colle nostre fatiche la immortalità beata; tutto il Vangelo di Gesù Cristo si riduce a questa semplicissima verità, vivere santamente sulla terra per meritare il cielo, patire nella vita presente per amore di Dio e godere con Lui per sempre nella vita futura. “È questo, diceva Lattanzio, il compendio d’ogni cosa, è questo il segreto di Dio, è questo il mistero del mondo” (Lact.lib. 7, c. 6). Ricordate questa verità, compendio di tutta la fede, S. Pietro sembra quasi rapito fuori da se stesso: fissando gli occhi della fede nella sempiterna felicità, che ci aspetta; considerando il poco che ci si domanda per guadagnarla, coll’anima riboccante di gratitudine e di gioia verso Dio, quasi fosse giunto al termine del suo pellegrinaggio ed immerso in quell’oceano di ineffabili godimenti, esce in questo grido, in quest’inno d’amore: “A Lui, cioè a Dio, a Gesù Cristo gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen. „ Noi, miserabili creature, non possiamo dar nulla a Dio, perché nulla abbiamo di nostro e di nulla Egli abbisogna: eppure, in qualche senso noi possiamo dare a Dio alcun che di nostro; anzi possiamo offrirGli un dono prezioso e tutto nostro e ch’Egli aspetta e che altamente lo onora. E quale ? La nostra volontà, la nostra libertà. Essa pure è dono, o dono di Dio; ma Dio l’ha data a noi per modo che è nostra, tutta nostra e noi possiamo restituirla a Lui e non restituirla ed usarne a nostro talento. Non v’è offerta, che maggiormente onori Iddio e che torni a Lui accettevole della nostra libera volontà, appunto perché libera ed è in poter nostro fargliene omaggio o ricusarglielo. Non dimenticatelo mai, o cari; un atto della libera libera volontà rende a Dio più onore che tutte insieme le creature irragionevoli del cielo e della terra. Offriamo dunque a Dio la nostra volontà, e la offriremo, facendo la volontà sua nella osservanza esatta della sua legge. A Dio non possiamo dar nulla, perché Egli di nulla abbisogna ed è il centro di tutte le perfezioni, è vero, ma possiamo godere della infinita sua grandezza e delle sue perfezioni; possiamo desiderare che il nome suo sia santificato su tutta la terra, che la sua volontà sia dovunque adempiuta, cioè possiamo desiderare che gli uomini tutti Lo conoscano, Lo lodino, Lo esaltino, Lo glorifichino e da questa s’innalzi perenne il grido di S. Pietro: “A Dio gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen”. — Così sia.

Graduale
Ps LIV:23; LIV:17; LIV:19 Jacta cogitátum tuum in Dómino: et ipse te enútriet. [Affida ogni tua preoccupazione al Signore: ed Egli ti nutrirà.] V. Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam ab his, qui appropínquant mihi. Allelúja, allelúja. [Mentre invocavo il Signore, ha esaudito la mia preghiera, liberandomi da coloro che mi circondavano. Allelúia, allelúia]

Ps VII:12 Deus judex justus, fortis et pátiens, numquid iráscitur per síngulos dies? Allelúja. [Iddio, giudice giusto, forte e paziente, si adira forse tutti i giorni? Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.

Luc XV:1-10 “In illo témpore: Erant appropinquántes ad Jesum publicáni et peccatóres, ut audírent illum. Et murmurábant pharisaei et scribæ, dicéntes: Quia hic peccatóres recipit et mandúcat cum illis. Et ait ad illos parábolam istam, dicens: Quis ex vobis homo, qui habet centum oves: et si perdíderit unam ex illis, nonne dimíttit nonagínta novem in desérto, et vadit ad illam, quæ períerat, donec invéniat eam? Et cum invénerit eam, impónit in húmeros suos gaudens: et véniens domum, cónvocat amícos et vicínos, dicens illis: Congratulámini mihi, quia invéni ovem meam, quæ períerat? Dico vobis, quod ita gáudium erit in coelo super uno peccatóre poeniténtiam agénte, quam super nonagínta novem justis, qui non índigent poeniténtia. Aut quæ múlier habens drachmas decem, si perdíderit drachmam unam, nonne accéndit lucérnam, et evérrit domum, et quærit diligénter, donec invéniat? Et cum invénerit, cónvocat amícas et vicínas, dicens: Congratulámini mihi, quia invéni drachmam, quam perdíderam? Ita dico vobis: gáudium erit coram Angelis Dei super uno peccatóre pœniténtiam agénte”.

[In quel tempo: si erano accostati a Gesú pubblicani e peccatori per ascoltarlo. E scribi e farisei mormoravano, dicendo: “Riceve i peccatori e mangia con essi”. Allora egli disse questa parabola: “Chi di voi, avendo cento pecore, perdutane una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella smarrita finché la ritrova? E ritrovatala, non la pone contento sulle spalle e, tornato a casa, raduna amici e vicini, dicendo loro: Congratulatevi con me, perché ho ritrovata la pecora che si era smarrita? Io vi dico che in cielo vi sarà più gioia per un peccatore che fa penitenza, che non per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza”. – “E qual è quella donna che, avendo dieci dracme, se ne avrà perduta una, non accende la lucerna e non spazza tutta la casa e non cerca diligentemente finché non la ritrova? E appena l’avrà ritrovata non chiama le amiche e le vicine, dicendo loro: Congratulatevi con me, perché ho ritrovata la dracma che avevo perduta? Io vi dico che vi sarà un grande gàudio tra gli Angeli di Dio per un peccatore che fa penitenza”.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

Abuso della Divina Misericordia

Mio Dio, dunque egli è vero che quell’istessa via da voi aperta per nostra salvezza, si cangia ora in via di perdizione per nostra malizia? – E quell’istesso balsamo da voi preparato per nostro rimedio si converte sovente per nostra colpa in micidiale veleno? Così è, ascoltatori umanissimi, e ne abbiamo l’esempio nell’odierno Vangelo. Il divin Salvatore discende dal cielo a farci misericordia, dipinge sé stesso sotto l’allegoria di un buon pastore, che va in cerca della pecora errante, e trovatala se la pone in su le spalle e la riconduce all’ovile. E perché la figura corrisponda al figurato, egli va in cerca dei peccatori, li accoglie, al suo seno e siede con essi a mensa. E pure la malignità dei Farisei di questa sua bontà Lo incolpa e Lo condanna. “E mirate, dicono, con chi ci conversa e con chi siede a tavola”. “Hic peccatores recipit, et manducat eum illis”. Piacesse a Dio che stravolgimento consimile non si rinnovasse tra noi. Che cos’ha in effetti di più santo, di cui non abusi l’umana amicizia? Osservate: Iddio è il Padre delle misericordie: “Pater misericordiarum, et Deus totius consolationis” (2 ad Cor. I, 3), verità consolante, verità salutevole, ma al tempo stesso, per il mal uso che se ne fa, diviene per tanti una verità infruttuosa e dannevole. E come? Dio è buono, dice taluno, Dio è misericordioso, è vero, ma io appunto mi son prevalso della sua bontà per oltraggiarLo. Come dunque volete ch’io speri? Dio è la stessa misericordia, dice un altro, ho peccato e pecco, è vero, ma sa compatire e saprà perdonarmi. Ed ecco la misericordia di Dio, nel passato abusata, dà motivo al primo di diffidenza e disperazione, la stessa misericordia, sperata in futuro, dà spinta al secondo di più liberamente peccare, e presumerne il perdono. – Ad allontanare da questi due scogli fatali qualche anima ingannata, eccomi a confortare il peccatore che dispera, ed atterrire il peccatore che presume. Uditemi attentamente, ché ben lo merita l’importante argomento.

I. “Della divina misericordia (così un peccator disperato nell’agitazione de’ torbidi suoi pensieri e nelle fitte de’ suoi fieri rimorsi), della divina misericordia io ho disseccato il fonte, la mia vita è una catena di misfatti, anzi una mostruosa guerra tra me e Dio, Egli in beneficarmi, io in servirmi dei suoi benefizi come di tante armi per oltraggiarLo. Pazienza del mio Dio, io v’ho stancata, è troppo giusto che finalmente vi armiate contro il più perfido dei vostri nemici a tremenda vendetta. Altro che la pecora errante descritta nell’odierno Vangelo, sono stato una vipera, che ha squarciate le viscere di quel seno che mi portò; per me dunque non v’è più né misericordia, né pietà”. – Se vi fosse tra voi, uditori miei cari, chi, delirando così parlasse, ah! vorrei dirgli proteso ai suoi piedi, abbiate, figlio, abbiate pietà di voi e della vostr’anima, non colmate la misura delle vostre colpe colla maggiore di tutte, qual è il disperare della divina misericordia: non imitate Caino primogenito dei presciti, non imitate Giuda traditore. Fu grande il misfatto di Caino in uccidere l’innocente suo fratello; ma fu immensamente maggiore il suo reato, allorché disse con orrenda bestemmia, che la sua iniquità non era capace di perdono. Fu atrocissimo il delitto di Giuda in vendere per trenta danari, e tradir con un bacio il suo divino maestro; ma senza paragone più grave fu il disperare della divina clemenza. Confessò l’infelice aver tradito un sangue innocente, ma la disperazione lo condusse ad un laccio, che compì la sua malizia e la sua riprovazione. Disperare della misericordia di Dio, è il peccato più ingiurioso a Dio e il più nocivo all’uomo: il più ingiurioso a Dio, perché lo va direttamente a colpire in quell’attributo, di cui più si pregia, qual è la sua bontà; il più nocivo all’uomo, perché distruggendo in lui la speranza, estingue la carità, attacca la fede, e per conseguenza fa morire nell’uomo cristiano tutt’i princìpi della vita, della grazia e della salute. Di che temete, fratello carissimo, in ritornare a Dio? Ch’Ei vi rigetti, perché peccatore di molta età e di molta malizia? Pensate! anzi i più gran peccatori sono da Lui i più ricercati, i più ben accolti. Un Davide, un S. Pietro, una Maddalena, un Agostino, una Maria Egiziaca, una Margherita da Cortona, e mille altri di voi forse peggiori, non furono tutti accolti, abbracciati, careggiati come prede della sua carità, come trofei della sua grazia, come figli del suo cuore? Temete che non vi accolga? Oh Dio! Quegli che vi venne dietro quando da Lui fuggiste, come vi scaccerà se Gli correte incontro? Chi vi desidera, chi vi cerca, chi vi prega a venire a Lui, come potrà rigettarvi? Osservate una immagine del suo buon cuore in un tenero tratto di S. Agostino. Scrivendo questi a Dioscoro, “tu vuoi perderti, gli dice, o Dioscoro. Tu agitato da uno spirito di vertigine pronunzi la tua sentenza con dire, voglio dannarmi, ed Io rispondo non voglio. Vale più il mio non voglio, che il tuo voglio. Il tuo “voglio” è parto di un’insensata mania. Il mio non voglio è figlio d’un cuore tutto compassione ed amore per te”. “Plus valet meum nolle, quam tuum velle”. E non son queste l’espressioni e le proteste del misericordioso nostro Signore a riguardo dei peccatori? E di quanto vincono il paragone?Nolo, dice Egli, nolo mortem impii, sed ut convertatur, et vivat” (Ez. XXXIII, 11) . Peccatori miei cari, no, non voglio la vostra morte, non voglio la vostra dannazione. Se nulla mi costasse l’anima vostra, potreste forse diffidare della pienezza di mia volontà, ma costandomi tutto il sangue mio, ah! no, non voglio né la vostra né la mia perdita: “Nolo mortem impii”. Qual pro avere sparso per voi tutto il mio sangue, se poi vi perdo, se voi vi perdete? “Quæ utilitas in sanguine meo?”- Se voi ancor dubitate è segno che voi non conoscete né la preziosità della vostr’anima, né la bontà del mio cuore, né il mio disgusto in perdervi, né la mia consolazione in acquistarvi. Venite orsù a farmi contento col vostro ritorno. Venite, o almeno non fuggite da me, ché anche fuggendo confido raggiungervi e stringervi al seno. Le vostre colpe vi fanno orrore? Appunto per questo nol fanno a me, e mi muovono a pietà e non a sdegno. Temete forse che me ne ricordi? Non sarà così, me ne dimenticherò totalmente, me le getterò dietro le spalle, anzi perché più non mi tornino sott’occhio le seppellirò nel più profondo del mare. Sono queste le patetiche espressioni, colle quali Iddio pietoso, ricco in misericordia, per la bocca de’ suoi Profeti per vincere le nostre ritrosie, per dileguare i nostri timori, per trarci a sé, per assicurarci di quel tenerissimo accoglimento, che ebbe già il figliuol prodigo in quella dolce parabola, in cui coi più vivi colori dipinse la nostra miseria, e la sua misericordia. Ma ohimè! che queste amorevoli proteste del buon Dio servono di lusinga e di pretesto a più d’un peccatore, per durarla in peccato sulla falsa speranza della divina misericordia!

.II. Io sono devoto, dice taluno, d’una gran Santa che ne ha salvati tanti. Questa mia avvocata singolarissima è la misericordia di Dio, che è un mare di infinita bontà, io mi getto in seno a questo gran mare, ei può salvarmi, spero mi salverà. – Mirate quanto sono irragionevoli le vostre lusinghe, e mal fondate le vostre speranze. Voi dite che la divina misericordia è un mare in seno al quale vi abbandonate. Dite ora a me. Se trovandovi in alto mare, vicino ad imminente naufragio, diceste così: per non andare a fondo insieme colla nave, mi lascerò nel mare, esso ha tanta forza per cui sostiene navi di peso immenso, a più forte ragione sosterrà il mio corpo; e gettatovi in mare pretendeste che vi tenesse a galla, senza adoperare né braccia, né piedi al nuoto, non sarebbe ridicola, non sarebbe da pazzo la vostra pretensione? E il mare con tutta la sua capacità a sostenervi non vi lascerebbe lasciar andare a fondo naufragato e perduto? Mare immenso senza fondo e senza lido è la divina misericordia; ma se voi non fate le vostre parti, se non vi date ad opere di penitenza, se non alzate neppur la voce ad implorare il suo soccorso, è certo che vi lascerà cadere nell’abisso di eterna perdizione. Come pretendere che vi salvi, se nulla volete fare per salvarvi, se anzi fate di tutto per perdervi? Quel Dio, dice S. Agostino che ha creato voi senza di voi, non vi salverà se voi non vi adoperate per la vostra salvezza:Qui creavit te sine te, non salvabit te sine te”. – Aspettate che Dio faccia un miracolo per farvi risorgere dallo stato di morte in cui giacete? Egli più volte si è accinto per farlo. Non è egli vero, che come a Lazzaro quatriduano, vi ha fatto sentire la sua voce per mezzo dei suoi ministri, e coll’interne ispirazioni e con i salutari rimorsi che ha eccitati nel vostro cuore? Lazare, veni foras(Io. 11, 43). Esci, o figlio dall’errore del tuo sepolcro, sorgi dal fango di tante disonestà, che più di Lazzaro ti rendono fetente. E voi, sordo alle sue chiamate, avete amata la vostra tomba e la vostra morte. La sua misericordia però non si è stancata, ha rinnovate le prove per richiamarvi a vita, e come usò verso il defunto figliuolo della vedova di Naim col toccare il suo feretro, “tetigit loculum”(Luc. VII, 14), fece sentire la sua mano sopra di voi, e vi toccò con quella infermità, con quella disgrazia, con quella tribolazione, e voi non vi curaste di alzarvi dal vostro peccato, né di aprire gli occhi sul vostro stato infelice. Ed ora per colmo di cecità e di follia pretendete persistere in questo stesso stato di morte, e che intanto la misericordia di Dio vi sopporti finché abbiate sfogato a sazietà le vostre passioni, e dopo poi quando vi piacerà, faccia il maggior di tutti i miracoli con risuscitarvi a vita di grazia, e prendendovi per i capelli come Abacuc vi porti di volo al Paradiso. Che deliri son questi, che diaboliche pretensioni? – Peggio ancora. Un’anima in peccato, e massime se nel peccato voglia persistere, ella è attuale nemica li Dio; sperare che la misericordia di Dio le sia propizia, è lo stesso che servirsi della misericordi stessa come di scudo e di riparo per oltraggiare impunemente, e con maggiore franchezza la sua maestà. Che vi pare? Può andare più oltre l’insensataggine e là temerità? – Iddio, peccatori miei cari, coll’abbondanza di pietà vi domanda la pace: voi ostinati volete guerra, che potete aspettarvi? Immaginate una città, come è avvenuto più volte, che scosso il gioco del proprio Sovrano abbia innalzato lo stendardo della ribellione. Il re clemente, compassionando l’infelice città, a condizione che dismetta le armi le accorda un generale perdono. Quella vuol guerra e non perdono: egli la cinge con forte assedio, ella è combattuta, e combatte. Rinforza il re le batterie, apre la breccia, intima la resa: tutto è vano non vuol arrendersi: si dà finalmente la scalata, l’esercito nemico inonda le strade della città: pace, pace, perdono, gridano i rivoltosi, gettando le armi a terra. Che pace, che perdono, ferro, fuoco, sangue, strage, sterminio. Ecco ciò che dovete aspettarvi se a tempo non vi arrendete ai tratti pacifici della divina bontà. – Padre giusto, esclamava Gesù Cristo, il mondo non vi conobbe, non vi conosce : “Pater iuste, mundus te non cognovit(Io. XVII, 14). Non dice, Padre onnipotente, Padre misericordioso, ma Padre giusto, perché da taluni non si crede, né si vuol credere la severità della sua giustizia, e il rigore dei suoi tremendi giudizi. Iddio a nostro modo d’intendere, con due mani regge e governa il mondo, colla misericordia cioè, e colla giustizia. Or l’una or l’altra adopera di queste mani. Ditemi ora, se dopo aver Egli steso la mano di sua misericordia in tollerarvi, non debba mai più venire il tempo che alzi la sua destra a punirvi? Viva Dio! Che questa destra armata di spada fulminatrice si scaricherà sopra di voi con piaga insanabile. Volete sottrarvi da questo colpo? Opponete lo scudo della penitenza: distruggete in voi il peccato con dolore sincero, e rotta cadrà la spada della sua giustizia: volete misericordia da Dio? Usate misericordia all’anima vostra e fate pace con Dio; Egli stesso arriva a pregarvi che abbiate pietà della vostr’anima. “Miserere animæ tuæ placens Deo[Eccl. XXX, 21]. Chi sa che questa non sia per voi l’ultimata chiamata? Schivate, carissimi, quei due scogli fatali, la disperazione e la presunzione della divina misericordia. Non disperate, ma non presumete; non disperate, che infinita è la sua misericordia: non presumete, ché di sua misericordia non sono infiniti gli effetti. Non disperate, avete a far con un Dio infinitamente buono; non presumete: avete a fare con un Dio infinitamente giusto!

CREDO …

 Offertorium

Orémus Ps IX:11-12 IX:13 Sperent in te omnes, qui novérunt nomen tuum, Dómine: quóniam non derelínquis quæréntes te: psállite Dómino, qui hábitat in Sion: quóniam non est oblítus oratiónem páuperum. [Sperino in te tutti coloro che hanno conosciuto il tuo nome, o Signore: poiché non abbandoni chi ti cerca: cantate lodi al Signore, che àbita in Sion: poiché non ha trascurata la preghiera dei poveri.]

 Secreta

Réspice, Dómine, múnera supplicántis Ecclésiæ: et salúti credéntium perpétua sanctificatióne suménda concéde. [Guarda, o Signore, ai doni della Chiesa che ti supplica, e con la tua grazia incessante, fa che siano ricevuti per la salvezza dei fedeli.]

 Communio

Luc XV:10. Dico vobis: gáudium est Angelis Dei super uno peccatóre poeniténtiam agénte. [Vi dico: che grande gaudio vi è tra gli Angeli per un peccatore che fa penitenza.]

 Postcommunio

Omus. Sancta tua nos, Dómine, sumpta vivíficent: et misericórdiæ sempitérnæ praeparent expiátos. [I tuoi santi misteri che abbiamo ricevuto, o Signore, ci vivifichino, e, purgandoci dai nostri falli, ci preparino all’eterna misericordia.]

SAN GIOVANNI BATTISTA

Omelia di S. S. GREGORIO XVII (1976)

Cappella di S. Giovanni Battista a Genova, cattedrale S. Lorenzo.

“La solennità odierna e il brano del Vangelo (Lc. 1, 57-66.80) che avete ora sentito leggere ci riportano alla nascita di San Giovanni Battista, unico tra i Santi del quale si celebri la nascita. E la ragione è questa: che era un predestinato fin dal momento della sua creazione e che aveva già al momento della nascita tutto il contorno di manifestazioni soprannaturali che tale lo indicavano, tanto che si diceva, come riferisce il Vangelo di Luca, nelle montagne di Giudea: “Ma chi sarà mai questo fanciullo?” (Lc I 66) Questa nascita è circondata da segni soprannaturali, ma – ed è l’oggetto del mio parlare oggi – ha una caratteristica: é punteggiato dai due più grandi cantici del Nuovo Testamento, il “Magnificat” e il “Benedictus”. – Cominciamo dal primo. Il “Magnificat” (Lc 1, 46-55) è noto a tutti, la parola risuona nelle orecchie di tutti. E il cantico sciolto della Vergine Madre del Signore. Dove? Sulla porta della casa di Ain Karim, dove sarebbe nato S. Giovanni Battista e dove la Vergine Madre del Signore andava a servire per tre mesi, cioè fintanto che non è nato lui, la sua vecchia parente Elisabetta, che aspettava Giovanni il Battista. Il “Magnificat” fu il primo atto compiuto dalla Vergine mentre andava a servire la madre del nascituro. E il nascituro se ne accorse, perché – cosa che non accade agli altri, lo riferisce il Vangelo di Luca – all’udire la voce di Maria esultò nel grembo della madre. Sapeva che quel cantico era collegato con lui, con la sua missione e inquadrava la sua figura di uomo che entrava in questo mondo con una strada ben segnata e divinamente disegnata. Ora, che cosa disse Maria nel “Magnificat”? Esaltò il Signore per la misericordia, esaltò fedeltà di Dio nel mantenere le promesse fatte ai padri e allo stesso Abramo, annunciò che sarebbero stati riempiti di bene gli umili e gli affamati e sarebbero stati cacciati giù dai troni i superbi. Annunciò in quel modo poetico, proprio della lingua in cui la Vergine cantava, che in questo mondo ci sarebbe stata una giustizia, non certo inclusa nei cicli delle nostre stagioni; ma c’è! Nessuna si creda di farla e alla Divina Provvidenza e alla legge di Dio. O prima o poi il ciclo della giustizia si chiude, e questo è uno dei segni evidenti, tangibili e qualificati per noi per intendere la presenza di una giusta Provvidenza nel mondo. E questo è un ammonimento. Più tardi lo stesso Giovanni Battista avrebbe ripreso il motivo nei discorsi tenuti al Giordano e che un po” ci sono riferiti da tutti e quattro gli Evangelisti, dicendo a tutti: “Osservate bene la giustizia voi capi del popolo, voi soldati” (cfr. Lc III, 10-14). Ricordò a tutti che se la giustizia non l’avessero fatti loro, l’avrebbe fatta un Altro. E il momento di ricordare questa legge della storia. Quando la giustizia non la fanno gli uomini, la fa Iddio! E molte cose che accadono a questo mondo non portano sopra, come se fossero delle bottiglie, un’etichetta per indicare che sono il frutto di un’eterna giustizia, ma lo sono. – L’altro cantico; il “Benedictus” (Lc. I, 68-79). Quando il padre che, essendo stato incredulo prima all’annuncio dell’Angelo, era stato punito con l’incapacità di parlare, era muto; quando il padre, dopo lui nato e richiesto di dire che nome voleva dare – i parenti lo volevano chiamare Zaccaria; tale era in nome del padre -, prese una tavoletta e scrisse sopra: ” I l suo nome è Giovanni” (Lc. 1, 63), (anche la madre aveva detto questo), in quel momento, compiuto il suo dovere, si sciolse la lingua di Zaccaria e cantò pieno di Spirito Santo il “Benedictus”, l’altro cantico grande del Nuovo Testamento. Lo cantò dinanzi alla culla del fanciullo al quale imponeva il nome determinato da Dio. E che cosa disse nel suo cantico Zaccaria? Rese grazie a Dio, annunciò la missione di quel fanciullo, che era di illuminare e portare la luce dove erano le tenebre, ma soprattutto cantò la fedeltà di Dio alle promesse e cantò la sicurezza che dava alla vita degli uomini la fedeltà di Dio alle Sue promesse. “Sine timore” (Lc. 1, 74), “senza timore liberati” possiamo cantare a Lui l’inno di grazie. Cantò la fedeltà di Dio. E l’unico veramente fedele; gli altri quand’anche vogliono esser fedeli, sono soggetti alla sonnolenza, al sonno, alla dimenticanza e ai diversi sbalordimenti dalle diverse cause e dalle diverse qualifiche. Anche volendolo, non riescono tutti a mantenere tutte le loro promesse. Dio solo è fedele, e il cantico della fedeltà, cominciato all’inizio del Nuovo Testamento, è cantato dinnanzi alla culla di questo bambino e proclamato lì. – Ecco con quale appannaggio entra nel mondo Giovanni Battista. Ecco con quali certezze entra nel mondo Giovanni Battista. Possiamo esser tranquilli di Dio, certo! Perché? Perché la Grazia di Dio all’interno degli uomini può operare cose meravigliose che annullino tutto quello che gli avvenimenti iniqui possono di perverso combinare all’intorno dell’uomo. Dio all’interno può sempre pareggiare quello che all’esterno la libertà umana tollera si pareggi. [Il colore rosso è redazionale].

FESTA DEL SACRO CUORE DI GESU’

Ad Sacratissimum Cor Iesu formula consacrationis recitanda

 “Iesu dolcissime, Redemptor humani generis, respice nos ad altare tuum humillime provolutos. Tui sumus, tui esse volumus; quo autem Tibi coniuncti firmius esse possimus, en hodie Sacratissimo Cordi tuo se quisque nostrum sponte dedicat. – Te quidem multi novere numquam. Te, spretis mundatis tuis, multi repudiarunt. Miserere utrorumque, benignissime Iesu: atque ad sanctum Cor tuum rape universos. Rex esto, Domine, nec fidelium tantum qui nullo tempore discessere a Te, sed etiam prodigorum filiorum qui Te reliquerunt fac has, ut domum paternam cito repetant, ne miseria et fame pereant. Rex esto eorum, quos aut opinionum error deceptos habet, aut discordia separatos, eosque ad portum veritatis atque ad unitatem fidei revoca, ut brevi fiat unum ovile et unus pastor. Rex esto denique eorum omnium, qui in vetere gentium superstitione versantur, eosque e tenebris vindicare ne renuas in Dei lumen et regnum. Largire, Domine, Ecclesiæ tuæ securam cum incolumitate libertatem; largire cunctis gentibus tranquillitatem ordinis: perfice, ut ab utroque terræ vertice una resonet vox: Sit laus divino Cordi, per quod nobis parta solus: ipsi gloria et honor in sæcula. Amen.”  [Leone XIII – Annum sacrum].

FESTA DEL SACRO CUORE DI GESU’

[J. J. Gaume: Catechismo di Perseveranza, Torino, vol. IV, 1881]

Festa del Sacro Cuore di Gesù. — Suo scopo e motivo. — Differenza tra la devozione al Sacro Cuore e la devozione al Santo Sacramento. — Storia della festa del Sacro Cuore. Sua armonia con i bisogni della Chiesa e della Società. — Confraternita del Sacro Cuore.

Ecco una nuova festa anche più commovente, se pure è possibile, di quella di cui abbiamo tessuto la storia; è il dì della festa del Sacro Cuore! A questo nome si risveglia la più viva tenerezza che sia dato albergare nelle anime cristiane. Che è dunque la festa del Sacro Cuore? Quale ne è lo scopo? Quale la ragione?

1° Che cosa è la festa dei Sacro Cuore? Or io vi domando: cos’è le festa della Natività, della Risurrezione e dell’Ascensione, se non festa di Gesù Cristo medesimo, alle quali danno occasione questi misteri, e nelle quali si fa menzione di quei grandi avvenimenti della vita del Redentore? Che cosa è inoltre la Festa del Santissimo Sacramento, se non una delle feste di Gesù Cristo? Il cui motivo è la ricordanza della istituzione dell’Eucaristia? Che cosa sarà dunque la festa del Sacro Cuore di Gesù Cristo? Nient’altro che una delle feste di Gesù Cristo medesimo, a cui dà occasione l’immensa sua carità per gli uomini, simboleggiata e rappresentata dal suo cuore. La risposta a questa prima domanda risolve anche la seconda.

2° Qual è lo scopo di questa festa? È d’uopo rammentare che le feste cattoliche hanno per scopo e per soggetto particolare una persona intelligente, come l’Augusta Trinità, Gesù Cristo, Dio e Uomo, ovvero qualche Santo. Non è un mistero, non è la reminiscenza d’un benefizio, non è la devozione ad un Santo lo scopo materiale d’una festa qualunque; anzi tutte queste cose non ne somministrano che occasione e motivo. Quindi lo scopo materiale della festa del Sacro Cuore è quello stesso che si suole attribuire a tutte le feste di Gesù Cristo, vale a dire Gesù Cristo medesimo.

3° Qual è il motivo di questa festa? È l’immensa carità di Gesù Cristo per gli uomini, e il Sacro Cuore che ne è il simbolo e la vittima. Tale è il fine e l’intenzione della Chiesa nella istituzione di questa festa, siccome chiaramente si deduce dal doppio uffizio ch’ella ci ha dato, l’uno per la Polonia e l’altro pel Portogallo. Nel primo ella si esprime cosi: « Affinché i fedeli venerino con maggior devozione e fervore la carità di Gesù Cristo soffrente sotto il simbolo del Sacro suo Cuore, ed affinché ne raccolgano frutti più abbondanti, Clemente XIII ha permesso a diverse Chiese che ne han fatto domanda di celebrare la festa di questo santissimo cuore ». La memoria e la venerazione della carità di Gesù Cristo sotto il simbolo del Sacro Cuore, eccovi dunque il primo motivo della concessione di questa festa.Nell’altro uffizio, approvato pel Portogallo e per altri paesi, la Chiesa propone un nuovo motivo, espresso nell’invitatorio, ove si dice: « Venite ed adoriamo il cuor di Gesù vittima della carità ». Il cuore di Nostro Signore, vittima della carità, egli è il secondo motivo della concessione di questa festa: e non può dubitarsi che qui si parli del vero e reale cuore di Gesù Cristo. Donde è palese, che la carità del Salvatore per gli uomini, e il suo cuore fisico e reale, che ne è stato la vittima, e che la rappresenta come simbolo, sono il motivo di questa nuova festa dell’Uomo-Dio.A chi domandasse, perché mai questa festa non è chiamata la festa di Gesù Cristo, ma festa del Sacro Cuore, risponderemmo, che per distinguere tra loro le diverse feste di Gesù Cristo, non se ne toglie la denominazione nell’obbietto, ma nel motivo. Così noi diciamo la festa della Natività, della Circoncisione, dell’Epifania, perché il motivo e la nascita del Salvatore, la sua circoncisione, l’adorazione dei Magi quantunque il Signor nostro ne sia sempre l’obbietto.A chi domandasse inoltre perché si onora la carità di Gesù Cristo verso gli uomini sotto il simbolo del suo cuore, e non sotto un altro emblema, ne daremmo una ragione naturale e di senso comune, alla quale nessun uomo di retto giudizio può contraddire. Infatti è indubitato che il cuore di carne è la parte del corpo umano che più vivamente risente gli effetti delle passioni dell’anima; sicché può derivare dall’esser il cuore la causa motrice di tutti i nostri fluidi; donde sembra naturale che i movimenti siano più sensibili al punto ove agisce la causa materiale e la sorgente del moto vitale. Comunque sia, le sensazioni, le emozioni, i palpiti che prova il cuore di carne, per conseguenza dell’amore che risiede nell’anima, sono tanti testimoni irrefragabili della mutua corrispondenza tra l’amore dell’anima e il cuore di carne.Da ciò è derivato l’uso universale tra gli uomini di prendere il cuore per l’amore. E quest’uso è fondato sopra i modi di esprimere della Scrittura stessa, ove si vede che l’amore infinito di Dio è talvolta espresso sotto il simbolo del cuore umano. Iddio dice ad Eli per bocca del profeta: « E io mi creerò un sacerdote fedele il quale servirà secondo il mio cuore » [I Re II, 35] donde si rileva che il cuore è nominato in luogo e come simbolo della volontà o dell’amore di Dio. Gli altri esempi di queste maniere di dire non sono rari nei libri santi.A chi domanda infine qual culto la Chiesa cattolica presta al cuore di Gesù Cristo, noi possiamo rispondere che essa gli presta un culto di latria o di adorazione. Infatti il cuore di Gesù Cristo è adorabile, come fu il sacro suo corpo, a cagione dell’unione ipostatica con la Divinità; perché è manifesto che il culto di adorazione tributato al cuore di Gesù Cristo, gli è prestato precisamente perché è il cuore di Gesù Cristo, Dio ed Uomo; e perché in questo cuore adoriamo Gesù Cristo tutto intero senza separazione né divisione. « Io credo, prosegue il dotto Muzzarelli, che possa esprimere in poche parole la ragione di questo culto dicendo: Che il cuore di Gesù Cristo è adorato con culto di latria in Gesù Cristo, con Gesù Cristo e a cagione dell’eccellenza di Gesù Cristo » [Muzzarelli: “Devozione e culto del Sacro Cuore”].È specialmente nella festa di cui parliamo che si venera quel cuore adorabile; il che ne invita a rispondere ad un ultima interrogazione che può esserci fatta: Qual differenza cioè vi sia tra la devozione pel sacro cuore di Gesù e la devozione per il Santissimo Sacramento? Gesù Cristo è l’oggetto unico dell’una devozione e dell’altra.Nella devozione al Santissimo Sacramento il motivo è di onorare l’umanità sacra di Gesù Cristo unito col Verbo, e veramente degna per questa unione dell’adorazione degli Angeli e degli uomini. Nella devozione al Sacro Cuore il motivo essenziale è di onorare il cuore di Gesù Cristo unito alla Divinità, e specialmente di riconoscere quell’amore di cui è infiammato per gli uomini, e di fargli ammenda onorevole per quello che Egli ha sofferto e per quello che Ei deve soffrire ogni giorno da quegli stessi uomini nel suo Sacramento di amore, la più meravigliosa invenzione, che sia uscita dal cuore divino .

II . Origine della festa. — Passiamo all’origine della festa del Sacro Cuore e alla sua armonia con i bisogni della Chiesa e della società. Se il Belgio ebbe la gloria di offrire al mondo cattolico la festa del santo Sacramento, la Franca fu scelta a fondare quella del Sacro Cuore. Io vedo nel Belgio una santa fanciulla a cui Dio si degna manifestare i propri disegni; vedo in Francia una modesta vergine eletta a confidente dei segreti del suo Cuore divino. Cosi, a quattro secoli di distanza, noi troviamo una prova novella dell’adempimento di quella gran legge della quale le cose deboli del mondo elesse Iddio per confondere le forti [I Cor. I, 27].Nel secolo decimosettimo viveva nel monastero della Visitazione di Paray-le-Monial, nel Charolais, una santa monaca chiamata Margherita Maria Alacoque. Esempio di saviezza, di sottomissione, e di pazienza, quell’angelo della terra stava un giorno dell’ottavario del santo Sacramento in adorazione davanti all’augusto altare, quando il Dio dei cuori puri si fece udire da lei, e scoprendo il suo cuore adorabile le disse: « Ecco quel cuore che ha amato gli uomini, che nulla ha risparmiato per essi, che è fino giunto ad esaurirsi ed a consumarsi per dar loro prova dell’amor suo. Per ricompensa io non ricevo dalla maggior parte degli uomini che ingratitudini, a cagione dei dispregi, delle irriverenze, dei sacrilegi e della freddezza ch’essi hanno per me in questo sacramento d’amore. Ma quello che mi è anche più amaro si è, che così mi trattino cuori che a me si sono consacrati; perciò, ti chiedo che il primo venerdì, dopo l’ottava del santo Sacramenta, venga dedicato a celebrare una festa particolare per onorare il mio cuore, offrendoGli riparazione per mezzo d’una ammenda onorevole e una santa comunione in quel giorno, risarcisca gl’indegni trattamenti ch’Egli ha ricevuto nel tempo che è stato esposto sopra gli altari [Vita della B. Margherita Maria scritta da M. Languet, arcivescovo di Sens, lib. IV, n. 57]. – Il Salvatore promise all’umile sua serva i più abbondanti tesori di grazia, a favore di coloro che si dedicherebbero al culto del sacro suo Cuore. Il suggello delle opere di Dio, vale a dire la contrarietà, fu ben presto impresso sulla nuova devozione. Appena la venerabile Margherita Maria ebbe parlato della rivelazione che aveva avuta, fu trattata di visionaria. Disprezzo, beffe, penitenze, nulla insomma le fu risparmiato; ma nulla altresì poté indurla a ritrattare il suo detto. Ella poteva dire come gli Apostoli: Non possiamo non parlare di quelle cose che abbiamo vedute e udite. [Act. IV, 20]. – Fin qui tutto era accaduto nell’interno del monastero; ma la tempesta diventò ben altrimenti furiosa, quando la rivelazione fu conosciuta nel pubblico. I Giansenisti specialmente si scatenarono con una violenza inaudita contro la devozione proposta; donde i Pastori della Chiesa rimanevano sospesi, aspettando che il cielo si manifestasse con indubitabile evidenza. Quel momento non era lontano, ma l’umile serva di Dio nol vide. Il dì 17 ottobre 1690 ella scese nella tomba, seco portando la corona di spine con cui il Salvatore suole adornare le sue spose dilette; ma questa corona fu in cielo cangiata in corona di gloria, e ben presto anche la terra cangiò sentimenti e linguaggio circa la serva di Dio e circa la devozione al Sacro Cuore. – Il cielo fece udire l’alta sua voce, la voce del miracolo. Nel 1720 la Provenza era devastata da pestilenza furiosa. La città di Marsiglia fu la prima attaccata da questo flagello, che in pochi mesi rapì la metà degli abitanti di quella vasta città. – Monsignor di Belzunce di Castelmorone, vescovo di Marsiglia, vedendo l’insufficienza de’ rimedi umani, risolse di ricorrere a Colui che tiene nelle sue mani le chiavi dell’inferno e della morte, e di contrapporre in favore dei suoi diocesani allo sdegno di Dio i meriti del sacro Cuore del divino suo Figlio. Qual nobile inspirazione! Cerca pure, o eroe della carità, nel culto pubblico del Cuore di Gesù Cristo un rimedio ad un male che non ne ha sulla terra; prega, e la tua speranza non verrà delusa! Il santo vescovo esortò tutti i suoi diocesani ad entrare nello spirito da cui era animato egli stesso; quindi ordinò che la festa del Cuor di Gesù fosse solennizzata come una delle più grandi feste dell’anno. Né qui ristette, poiché fece una consacrazione solenne e pubblica di tutta la sua diocesi e di sé stesso al sacro Cuore di Gesù. La sua preghiera fu visibilmente esaudita, perché da quel giorno stesso il morbo sì furioso cominciò a diminuire considerabilmente, e in poco tempo cessò affatto; lo che fu riconosciuto e dichiarato dai magistrati della città per atto pubblico. Ma Dio riserbava allo zelo del Pontefice e del suo popolo una protezione anche più visibile. – Nel 1722 sul mese di maggio la peste, creduta spenta da tanto tempo, si ridestò di nuovo nella città, gettandola in una terribile costernazione. La morte, quel monarca dello spavento, come dice la Scrittura, collocò il proprio trono nel centro di quella vasta città, testé si brillante e sì allegra. Abbandonata da coloro che avevano mezzi di porsi in salvo, Marsiglia presentò ben presto l’immagine d’un orribile campo seminato di cadaveri e di moribondi. – Allora ricomparvero quei sacrifici sublimi, che vedremo sempre rinascere in tutte le calamità pubbliche finché regnerà il Cattolicismo. Monsignor di Belzunce rinnovò quanto aveva fatto a Milano san Carlo Borromeo. Colà pure una tremenda lotta tra il furore della malattia e lo zelo della carità; colà pure pericoli affrontati, moribondi assistiti, poveri soccorsi; colà pure i sacerdoti morienti a centinaia accanto agli appestati, ed esalanti l’estremo fiato nel preparare gli altri alla morte; colà pure orribili patimenti e sublimi conforti; colà finalmente il legno mancante per le bare, mancanti i portatori per il trasporto ai cimiteri, ma non già mancanti i sacerdoti per soccorrere e consolare da per tutto. – Belzunce scriveva da Marsiglia: « Io sono ancora la Dio grazia in piedi, in mezzo a morti e a moribondi. Tutto accanto a me è stato rovesciato, e di tutti i ministri del Signore che mi hanno accompagnato, più non rimane che il mio solo elemosiniere. Io ho veduto e sentito durante otto giorni duecento morti imputridire intorno alla mia casa e sotto le mie finestre; sono stato costretto a percorrere le strade, tutte senza eccezione fronteggiate da entrambi i lati da cadaveri mezzo fracidi e rosi dai cani, e il mezzo della via ingombro da cenci e da sozzure in modo da non sapere ove posare il piede. Con una spugna sotto il naso inzuppata nell’aceto, con la mia sottana alzata sotto le ascelle, mi bisognava traversare quei cadaveri infetti per rintracciare tra loro, confessare e confortare i moribondi, stati gettati fuori delle proprie case. » La città è ormai rimasta senza confessori. I sacerdoti hanno fatto prodigi di zelo e di carità, ed hanno dato la propria vita per i loro fratelli. Tutti i Gesuiti son morti, meno tre o quattro. Ne sono venuti molti altri da lontano per dedicarsi alla morte. » Sono morti trentatré cappuccini. Il Padre de la Fare ad onta della grave sua età si è salvato, perché almeno un Padre di Santa-Croce potesse sopravvivere agli altri. Vi sono stati venti Mendicanti e altrettanti Minori Osservanti morti, Carmelitani scalzi, Minimi, e alcuni Gran Carmelitani. Non vi parlerò dei miei figli Ecclesiastici che si sono sacrificati; io considero come un generale che ha perduto il fiore de’ suoi soldati. » – Infatti erano periti dugento cinquanta sacerdoti della diocesi di Marsiglia o delle diocesi vicine; e dopo la malattia ne giungevano tutto giorno altri che invidiavano la sorte dei primi. – Quando il contagio cominciò a diminuire, M. di Belzunce fece erigere nel giorno di Ognissanti un altare in mezzo del Corso, uscì poscia del suo palazzo vescovile a piedi scalzi con la corda al collo (come san Carlo), e preceduto dai sacerdoti e Religiosi superstiti, s’inginocchiò davanti a quel Dio che punisce e che perdona e cantò: Parce, Domine, parce populo tuo! pregando ardentemente per il proprio gregge. Oh! chi potrebbe ridire l’emozione del santo vescovo, la tenerezza di tutto il popolo a tal cerimonia? Le preghiere continuarono, e il 15 novembre M. de Belzunce diede la benedizione a tutta la città dall’alto di un campanile al suono delle campane e allo strepito del cannone che invitava gli abitanti a pregare. Questo imponente spettacolo sparse nel popolo un religioso terrore. – A malgrado di tanta carità per parte dei pastori, e tante lacrime e preghiere per parte dei fedeli, il cielo rimaneva inflessibile, e il flagello continuava le sue stragi; la gloria di farlo sparire era serbata al Cuore di Gesù. Infatti quel Sacro Cuore divenne per la seconda volta il fortunato rifugio del pio Prelato. A sua istanza i Magistrati in corpo fecero voto di andare tutti gli anni, in nome della città, alla chiesa della Visitazione nel giorno della festa del Sacro-Cuore per venerarvi il degno oggetto dell’amor nostro, ricevervi la santa Comunione, offrirvi un cero bianco di quattro libbre di peso, ornato con lo stemma della città, e finalmente assistere alla processione generale che il Prelato si proponeva d’istituire a perpetuità in quel giorno medesimo. Quel voto fu pronunziato pubblicamente dinanzi all’altare della cattedrale, dai principali Magistrati municipali, a nome dei cittadini, il giorno del Corpus Domini prima della processione del santo Sacramento portato da monsignor vescovo, mentre i magistrati erano inginocchiati davanti a lui. Tutto il popolo si uni ad un voto da cui sperava con viva fede un esito felice. Fu esso esaudito in un modo che formò l’ammirazione non meno che la consolazione di tutta la città. Da quel giorno tutti i malati guarirono, né più avvennero casi di peste. La diffidenza, che in quei funesti flagelli cagiona più mali dei flagelli medesimi, cede il luogo ad una piena fiducia, poiché gli abitanti di Marsiglia si credevano in sicurezza sotto la protezione del Cuore misericordioso del Salvatore. – Il male disparve a tal segno, che, sei settimane dopo, i virtuoso Pontefice, in una pastorale che pubblicò per eccitare i suoi diocesani alla riconoscenza, diceva loro : « Noi godiamo attualmente d’una salute sì perfetta, che è cosa prodigiosa e senza esempio in una città così vasta e così popolata come questa; non abbiamo più da qualche tempo in Marsiglia né morti né malati di alcuna sorta come neppure nel territorio ». Pieno di riconoscenza per questa seconda grazia, che sembrò anche più istantanea e più miracolosa della prima, Monsignor di Belzunce si affrettò d’adempiere la sua promessa, e istituì a perpetuità una processione generale per la festa del Sacro Cuore di Gesù. Tutti questi fatti sono autenticati dalle pastorali di quel prelato e dai registri delle deliberazioni dei Magistrati municipali della città di Marsiglia. Alla voce del cielo in favore della devozione del Sacro Cuore si unì ben presto la voce della Chiesa cattolica che n’è l’eco infallibile. Dopo le informazioni consuete (e ognuno sa quanto siano lunghe e rigorose le informazioni della Corte di Roma) il papa Clemente XIII approvò la festa e l’ufficio del Sacro Cuore per la Polonia; favore che il Portogallo richiese ed ottenne alcuni anni dopo. Già i vescovi di Francia, dopo una deliberazione presa a questo proposito nella famosa assemblea del clero del 1765, avevano quasi universalmente adottata nelle loro diocesi la devozione al Sacro Cuore. Da quell’epoca essa andò sempre aumentando fino al Pontificato di Pio VI. – Questo gran Pontefice, di santa e gloriosa memoria, diede una nuova approvazione a questa devozione salutare, e condannò quelli che osavano combatterla [vedi la lettera al vescovo di Pistoia]. – La festa del sacro Cuore fu stabilita, in seguito alla rivelazione fatta alla venerabile Margherita Maria, per il venerdì dentro l’ottava del Corpus Domini, ma ad oggetto di darle maggior pompa le chiese di Francia la solennizzano nella seconda domenica di luglio.

III. Propagazione della divozione del sacro Cuore. — La devozione del sacro Cuore si è diffusa in tutte le parti del mondo con sorprendente rapidità. Si sono formate società religiose allo scopo speciale di onorare il sacro Cuore del Salvatore. E già una di queste Congregazioni evangelizza i vasti arcipelaghi dell’Oceania, e un’altra, composta di donne, partecipando dello zelo con cui Gesù Cristo infiamma i suoi discepoli, ha inviato parecchie colonie nella vasta diocesi della Luigiana per secondare, presso le persone del suo sesso, le fatiche dei Missionari, che vanno a rischiarare con i lumi della fede i selvaggi del Mississipì e del Missouri. Non lungi dalle rive di questo fiume si ode il giovine indiano cantare le lodi del Cuore divino, che viene oltraggiato sulle rive della Senna. Donde nasce codesta meravigliosa propagazione? E perché la rivelazione della devozione al sacro Cuore in questi ultimi tempi? Qui certamente fa d’uopo ammirare la Provvidenza che veglia sopra la Chiesa, e la sublime armonia che Dio conserva tra lo svolgersi della Religione e i bisogni del mondo. Attaccati, impugnati, alterati da numerose eresie, figlie del protestantismo, i dommi della fede erano per divenire l’oggetto delle sacrileghe beffe de’ filosofi dell’ultimo secolo. E ben presto Iddio, anima, cielo, virtù, religione, non altro più esser dovevano per la maggior parte degli uomini fuorché oggetto di dubbio o di sprezzo, astrazioni senza realtà, senza influenza sulla condotta. A dir breve, il morbo dell’indifferenza era per sorgere di mezzo al sangue e alle rovine, e per gettar l’uomo ai piedi di un idolo, d’un solo idolo, IL DENARO!!! E il cuore dell’uomo, fatto per amare, stava per essere abbandonato a inesplicabili angosce, e la società a disordini ognor rinascenti. – A questo momento estremo Gesù Cristo mostra il divino suo Cuore all’uomo e alla società. Simile ad un padre, che dopo avere esaurite tutte le espressioni di tenerezza e tutti i mezzi suggeriti dall’amor paterno per trattenere dal precipizio un figlio diletto, chiama ad un tratto questo ingrato figlio, e scoprendo il petto gli dice: Guarda, questo è il mio Cuore; se tu ne conosci un altro che più schiettamente e più teneramente ti ami, dà a lui il tuo e lacera quello di tuo padre. Così fa Gesù Cristo padre degli uomini e delle società moderne, nel momento in cui esse stanno per precipitarsi nello spaventoso abisso dell’indifferenza e dell’empietà. O uomini, sembra che Egli dica, obliate forse quanto ho fatto per voi? Obliate il mio presepio, il mio esilio, il mio sangue, la mia croce? Ma poiché voi siete fatti per amare, e vi abbisogna un cuore, ecco il mio; ed io in cambio domando il vostro. È impossibile che il vostro cuore non si dia a qualcuno, poiché non può vivere senza amare, né amare senza vendersi o donarsi. Se il vostro cuore è da vendere, chi può esserne miglior compratore di Colui che ne è la beatitudine, il fine, l’eterna ricompensa? Se è da donare, chi meglio merita possederlo di Colui che lo ha fatto? Il mondo, l’empietà, l’eresia, l’indifferenza, il denaro chiedono il vostro cuore per cambiarlo in un inferno, ed io ve lo chiedo per farne un paradiso cominciando da questa vita: scegliete! – Mentre il Figlio di Dio parlava così, il demonio infiammava lo zelo dei suoi satelliti e si formavano misteriose, occulte congreghe per rapire all’Uomo-Dio il cuore dell’uomo e della società. L’ora delle tenebre era venuta e uno spirito di vertigine, coll’impadronirsi di un gran numero, trascinava verso l’abisso le nazioni colpevoli. Tuttavia in questo conflitto mortale, Dio non rimarrà vinto. Ecco che il Sacro Cuore riunisce d’intorno a sé tutto ciò che vi ha di più puro sopra la terra, sicché voti e preghiere salgono al cielo come nuvole di grato profumo. La giustizia divina, egli è vero, avrà il suo corso contro gli ostinati, ma avrà posto in bilancia il contrappeso, e la fede non perirà.

Confraternita del sacro Cuore. – Infatti sotto il pontificato di Pio VII fu instituita a Roma, centro del Cattolicesimo, una società forte e numerosa in onore del sacro Cuore. Altre se ne formarono del pari nelle diverse diocesi della cristianità; ma quella di Roma è divenuta il punto centrale ove fanno capo tutte le altre, se non di fatto, almeno d’intenzione e di desiderio. Questa ammirabile devozione, che da Roma si spande da per tutto e perfino nelle più remore regioni e che dappertutto è esercitata con tutte le pratiche pubbliche di un colto che non paventa la luce, si trova in opposizione con il sistema oscuro, tenebroso delle società segrete, antireligiose ed antisociali. – Qual sede più conveniente della città privilegiata ove risiede il Vicario in terra del Figlio di Dio, e di dove egli spedisce i suoi operai in tutti i luoghi del suo campo e della sua vigna, per creare in essa il deposito centrale di tutti gli istrumenti necessari e la sorgente sempre aperta dei mezzi più efficaci per andare con profitto alla grand’opera della salute dell’anima? Era dunque necessario che la prima e la più estesa confraternita del Sacro Cuore avesse il proprio seggio nella capitale della cristianità. Quivi s’innalza, come sulla sommità d’una montagna, la grande Basilica intorno alla quale dobbiamo figurarci, come altrettante cappelle agglomerate, tutte le chiese grandi e piccole, che sono collocate su tutti i punti del globo. Di là, come dal suo focolare sempre ardente, debbono ognora partirsi tutti i dardi di quel bel fuoco d’amore, che Gesù Cristo è venuto ad accendere sopra la terra, che alimenta nel proprio cuore, e di cui desidera ardentemente che tutti i cuori degli uomini siano infiammati. Questo magnifico quadro ci mostra la devozione al sacro Cuore in perfetta armonia non solamente con i bisogni attuali della Religione e della società, ma anche con le grandi leggi del mondo morale. Tutti gli esseri creati da Dio debbono tornare a Lui pel mezzo del cuore stesso dell’uomo; e il cuore stesso dell’uomo deve tornare a Lui per mezzo del sacro Cuore di Gesù. Quindi è che la devozione a questo sacro Cuore è il centro d’unione ove tutte le altre vanno a far capo, ed ove esse si perdono, per così dire, come i fiumi vanno a scaricarsi e a mescolarsi nel vasto oceano. Tutte le sante istituzioni, tutti gli ordini religiosi, uniti tra loro con una pura affezione nel Cuore di Gesù, riconoscono che sotto diversi nomi sono derivati da Lui, come da sorgente unica e comune, nella quale debbono tutti rientrare, o che piuttosto non abbandonano mai, comecché da essa siano usciti, come la luce non lascia mai il sole, il quale la genera e la spande. – E ora poiché ci abbisogna un cuore, chi di noi ricuserà di scegliere, anzi di accettare quello di Gesù quando Egli ce l’offre? Che chiede Egli in cambio? Una sola cosa: il nostro cuore. E forse troppo? Cuore per cuore: da qual lato è il guadagno? Affrettiamoci dunque ad entrare nella compagnia del Sacro Cuore di Gesù. – Molti favori e pochi obblighi, ecco le condizioni che ci vengono proposte. Perciò si ottiene indulgenza plenaria il primo venerdì o la prima domenica di ogni mese; – 2° Indulgenza plenaria il giorno della festa del Sacro Cuore; 3° Indulgenza di sette anni e sette quarantene le quattro domeniche che precedono la festa: 4° Indulgenza di sessanta giorni per ogni opera buona compiuta nel corso della giornata; 5° Indulgenza plenaria in punto di morte purché s’invochi con vero fervore e col cuore, se non si possa colla bocca, il santo nome di Gesù [Raccolta di indulgenze, pag 210]. I confratelli, dietro rescritto di Pio VII in data del 20 marzo 1802, debbono recitare devotamente ogni giorno un Pater, Ave, Credo e la seguente giaculatoria, o altra che significhi lo stesso: In ogni giorno in me cresca l’amore — Pel cuor di Gesù Cristo Redentore. — Si può anche con grande utilità fare il mese del sacro Cuore come si fa il mese di Maria: la devozione ha destinato il mese di giugno a questa bella e affettuosa devozione.

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio che abbiate rivelata al mondo la devozione al Sacro Cuore di Gesù; fateci grazia che corrispondiamo all’amore immenso di cui questo cuore divino e infiammato per noi. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso per amor di Dio, ed in prova di questo amore io mi assocerò alla devozione del Sacro Cuore:

 

CANONIZZAZIONE (4)

V. ELENCO DELLE C. PREPARATE DALLA S. CONGREGAZIONE

DEI RITI, DA CLEMENTE VIII ( 1594) FINO A Pio XII

(seguono in ultimo le c. già fissate definitivamente per l’Anno Santo 1950 fino a tutto giugno 1949. Da notare che alle volte le bolle di c. non sono state pubblicate contemporaneamente all’atto della c. solenne; l’elenco dà unicamente le date delle c. solenni).

Clemente VIII, il 14 apr. 1594, s. Giacinto Odrovaz (15 ag. 1257); il 29 apr. 1600, s. Raimondo di Penafort (6 genn. 1275).

Paolo V, il 29 maggio 1608, s. Francesca dei Ponziani (9 marzo 1440); il I° nov. 1610, s. Carlo Borromeo (3 nov. 1584).

Gregorio XV celebrò, il 12 marzo 1622, per la prima volta nella storia, la c. di un gruppo di cinque santi s. Teresa di Gesù (15 ott. 1582), s. Filippo Neri (26 maggio 1595), s. Ignazio di Loyola (31 luglio 1556), s. Francesco Saverio (2 dic. 1552), s. Isidoro agricoltore (maggio 1130).

Urbano VIII, il 25 maggio 1625, s. Elisabetta regina del Portogallo (4 luglio 1336); il 24 apr. 1629, s. Andrea Corsini (6 genn. 1373).

Dopo l’interruzione di quasi trent’anni: Alessandro VII; il l ° nov. 1658, s. Tommaso da Villanova (8 sett. 1555); il 19 apr. 1665, s. Francesco di Sales (28 dic. 1622).

Clemente IX, il 28 apr. 1669, s. Pietro d’Alcàntara (18 ott. 1562) e s. Maria Maddalena de’ Pazzi (25 luglio 1607).

Clemente X, seconda c. cumulativa d i cinque santi, il 12 apr. 1671 : s. Rosa da Lima (24 ag. 1617), s. Luigi Bertràn (9 ott. 1581), s. Gaetano da Thiene (7 ag. 1547), s. Francesco Borgia (30 sett. 1572), s. Filippo Benizi (22 ag. 1585).

Alessandro VIII, altra c. di cinque santi il 16 ott. 1690: s. Lorenzo Giustiniani (8 genn. 1455), s. Giovanni da S. Facondo (11 giugno 1479), s. Pasquale Baylon (17 maggio 1592), s. Giovanni di Dio (8 marzo 1550), s. Giovanni da Capistrano (23 ott. 1456).

Clemente XI, il 22 maggio 1712, s. Pio V (l° maggio 1572), s. Andrea Avellino (10 nov. 1608), s. Felice da Cantalice (18 maggio 1587), s. Caterina Vigri da Bologna (9 marzo 1463).

Benedetto XIII, il 10 dic. 1726, s. Turibio Alfonso di Mogrovejo (23 marzo 1606), s. Giacomo della Marca (28 nov. 1476), s. Agnese Segni da Montepulciano (20 apr. 1317); il 27 dic. 1726, s. Pellegrino Laziosi (1° maggio 1345), s. Giovanni della Croce (de Yepes; 14 dic. 1591), s. Francesco Solano (14 luglio 1610); il 31 dic. 1726, s. Luigi Gonzaga (21 giugno 1591) e s. Stanislao Kostka (15 ag. 1568); il 16 maggio 1728, s. Margherita da Cortona (22 febbr. 1297); il 19 marzo 1729, s. Giovanni (Nepomuceno) Welflin da Pomuk (16 maggio 1393) .

Clemente XII, il 16 giugno 1736, s. Vincenzo de’ Paoli ( Depaul; 27 sett. 1660), s. Giovanni Francesco Regis (31 dic. 1640), s. Caterina Fieschi-Adorno, da Genova (15 sett. 1510), s. Giuliana Falconieri (19 giugno 1340).

Benedetto XIV, terza c. quintupla, il 29 giugno 1746: s. Fedele da Sigmaringa (Marco Roy; 24 apr. 1622). s. Camillo de Lellis (14 luglio 1614), s. Pietro Regalado (13 maggio 1456), s. Giuseppe da Leonessa (4 febbr. 1612), s. Caterina de’ Ricci (2 febbr. 1590).

Clemente XIII fece la prima c. di sei santi insieme il 16 luglio 1767: s. Giovanni Vacenga da Kanty (24/25 dic. 1473), S. Giuseppe da Copertino (18/19 sett. 1663), s. Giuseppe Calasanzio (25 ag. 1648), s. Girolamo Emiliani (8 febbr. 1537), s. Serafino da Montegranaro (12 ott. 1604) s. Giovanna Francesca Frémiot di Chantal (13 dic. 1641). Segue una parentesi di 40 anni.

Pio VII fa un’altra c. d i 3 santi, il 24 maggio 1807: s. Francesco Caracciolo (4 giugno 1608), s. Benedetto da S. Filadelfo, il « Moro » (4 apr. 1589), s. Angela Merici (27 genn. 1540), s. Coletta Boilet (6 marzo 1447), s. Giacinta Marescotti (30 genn. 1640). Segue altra parentesi di 35 anni. Gregorio XVI, il 26 maggio 1839, procede ad altra c. quintuplice: s. Alfonso M. de’ Liguori (1 ag. 1787). s. Francesco di Gerolamo (11 maggio 1716), s. Giovanni Giuseppe della Croce ( Carlo Gaetano; 5 marzo 1734), s. Pacifico da S. Severino (24 sett. 1721), s. Veronica Orsola Giuliani (9 luglio 1727).

Pio IX, l’8 giugno 1862: 26 martiri giapponesi (6 francescani, 3 gesuiti, 17 laici: 5 febbr. 1597) e s. Michele de Santi (10 apr. 1725); il 29 giugno 1867, c. solenne per il centenario della morte di s. Pietro: s. Giosafat Kuncewif (12 nov. 1623) e s. Pietro da Arbué; (17 sett. 1485), martiri; i 19 martiri di Gorkum (11 francescani, un domenicano, tre premonstratensi, un canonico di s. Agostino, quattro sacerdoti secolari, un laico: 9 luglio 1572), s. Paolo della Croce (Paolo Francesco Danei; 18 ott. 1775), s. Leonardo da Porto Maurizio 26 nov. 1751), s. Maria Francesca delle Cinque Piaghe (Anna Maria Gallo; 6 ott. 1791), s. Germana Cousin (1601 senz’altra indicazione; la festa fu fissata al 15 giugno). –

Leone XIII, l’8 dic. 1881, s. Giovanni Battista de Rossi (23 maggio 1764), s. Lorenzo da Brindisi (Cesare de Rossi; 22 luglio 1619), s. Benedetto Giuseppe Labre (16 apr. 1783), s. Chiara da Montefalco (18 ag. 1308); il 15 genn. 1888, i Sette fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria, s. Pietro Claver (8 sett. 1654), s. Giovanni Berchmans (13 ag. 1621), s. Alfonso Rodriguez (31 ott. 1617); il 27 maggio 1897, s. Antonio M . Zaccaria (5 luglio 1539), s. Pietro Fourier (9 die. 1640); i l 24 maggio 1900, s. Giovanni Battista de la Salle (7 apr. 1719), s. Rita da Cascia (22 maggio 1457).

Pio X, l’11 dic. 1904, s. Alessandro Sauli (11 ott. 1592), s. Gerardo Maiella (15 ott. 1755); il 20 maggio 1909, s. Giuseppe Oriol (22 marzo 1702), s. Clemente M. Hofbauer (15 marzo 1820).

Benedetto XV, il 13 maggio 1920, s. Gabriele dell’Addolorata (Francesco Possenti; 27 febbr. 1862) e s. Margherita Maria Alacoque (17 ott. 1690), il 16 seguente s. Giovanna d’Arco (30 maggio 1431).

Pio XI celebrò 15 c. Nell’anno santo 1925: il 17 maggio 1925, s. Teresa del Bambino Gesù (Ter. Martin; 21 dic. 1897); il 21, s. Pietro Canisio ( Kanis, Kanijs; 21 dic. 1597); il 24, s. Maria Maddalena Postel (16 luglio 1846), s. Maddalena Sofia Barat (24 maggio 1865); il 31, s. Giovanni Eudes (19 ag. 1680), s. Giovanni Batt. M. Vianney (4 ag. 1859). Il 22 giugno 1930, s. Lucia Filippini (25 marzo 1732), s. Caterina Thomas (5 apr. 1374); il 29, gli otto martiri gesuiti « canadesi », s. Giovanni di Brébeuf e compagni (1642-49), s. Roberto Bellarmino (17 sett. 1621), s. Teofilo da Corte (19 maggio 1740). Durante l’Anno Santo della Redenzione 1933-34 vi furono sei c. Il 4 giugno 1933, s. Andrea Uberto Fournet (13 maggio 1834); 1′ 8 dic., s. Maria Bernarda Soubirous (16 apr. 1879); il 14 genn. 1934, s. Giovanna Antida Thouret (24 ag. 1826); il 4 marzo, s. Maria Michela del S.mo Sacramento (Desmaisières; 24 ag. 1865); l’11, s. Luisa de Marillac, vedova Le Gras (15 marzo 1660); il 19, s. Giuseppe Benedetto Cottolengo (30 apr. 1842), s. Pompilio M. Pirrotti (15 luglio 1766), s. Teresa Margherita del S. Cuore di Gesù (Anna M. Redi; 7 marzo 1770); il l° apr. 1934, s. Giovanni Bosco (31 genn. 1888); il 20 maggio, s. Corrado da Parzham ( Giov. Ev. Birndorfer; 21 apr. 1894). Il 19 maggio 1935, s. Giovanni Fisher (22 giugno 1535) e s. Tommaso More (6 luglio 1335); il 17 apr. 1938, s. Andrea Bobòla (16 maggio 1657), s. Giovanni Leonardi (9 ott. 1609), s. Salvatore da Orta (18 marzo 1567).

Pio XII, il 3 maggio 1940, s. Gemma Galgani (11 apr. 1903), s. Maria di s. Eufrasia Pelletier (24 apr. 1868) il 7 luglio 1946, s. Francesca Sav. Cabrini (22 dic. 1917): il 15 maggio 1947, s. Nicola di Flue (21 marzo 1487); il 22 giugno, s. Giovanni de Britto (4 febbr. 1693), s. Bernardino Realino (2 luglio 1616), s. Giuseppe Cafasso (23 giugno 1860); il 6 luglio, s. Michele Garicoìts (14 maggio 1863) e s. Elisabetta Bichier des Ages (26 ag. 1838); il 20 luglio, s. Luigi Maria Grignion di Montfort (28 apr. 1716); il 27 luglio, s. Caterina Labouré (31 dic. 1876); il 15 maggio 1949, s. Giovanna di Lestonnac (2 febbr. 1640); il 12 giugno, s. Maria Giuseppa Rossello (7 dic. 1880) ; il 22 maggio 1950, s. Bartolomea Capitanio (26 luglio 1833) e s. Vincenza Gerosa (28 giugno 1847); il 28 maggio 1950, s. Giovanna di Valois (4 febbr. 1505). [12 giugno 54 Domenico Savio, Gaspare del Bufalo, Pietro Chanel, Giuseppe Pignatelli, Maria Crocifissa Do Rosa, Pio X. – ndr. -]

LA C. EQUIPOLLENTE. – Il termine giuridico c. equipollente è una creazione, come pare, di Prospero Lambertini (Benedetto XIV) e precisamente introdotta nella sua nota opera circa la beatificazione e la c. Nella beatificazione si soleva, al suo tempo, distinguere una beatificazione formale, in tutta regola secondo la procedura canonica, e una beatificazione equipollente. Tale distinzione nacque ai tempi di Urbano VIII; in forza dei suoi decreti, quando preesisteva sotto determinate condizioni giuridiche un culto liturgico, era possibile ottenerne dalla S. Sede la ricognizione, equivalente, negli effetti pratici, ad una beatificazione formale: indi la denominazione beatificazione «equipollente ». Ora, il Lambertini, raccogliendo l’immenso materiale per la sua opera, riscontrò un certo parallelismo alle beatificazioni formale ed equipollente anche nel campo della c. Egli dovette registrare dei casi ove l’effetto finale era identico a quello raggiunto in forza di una c. formale, senza che vi fossero mai stati né la procedura canonica, né l’atto stesso di “una c. formale. Tutti questi casi il Lambertini li raccolse sotto la denominazione « c. equipollente ». Ne parlò lungamente nel 1. I, cap. 41 e intravvide una duplice specie di c. equipollente: 1) Molti santi infatti, come i martiri dell’antichità, i SS. Padri e dottori antichi, molti santi medioevali godono in tutta la Chiesa di culto universale, e su loro non fu mai fatto un processo, mai emanata una sentenza; tutto fu l’effetto di uno sviluppo storico; secondo il Lambertini, abbiamo qui una c. equipollente ed egli non omette, per scrupolo giuridico, di notare che certamente non manca, in questi casi, il consenso dei Sommi Pontefici, almeno tacito. Ci sono poi altri santi, martiri, confessori, vergini, che in tutta la Chiesa vengono comunemente considerati santi, ma la loro festa viene celebrata soltanto in determinate regioni, come, ad es., Genoveffa, Sigismondo, Rocco e innumerevoli altri. Anche qui esiste il consenso della Chiesa, mentre la festa effettiva rimane circoscritta. Anche qui manca la procedura canonica e la formale c., ma l’effetto è uguale; basta ricordare che anche per i santi formalmente canonizzati, oltre l’atto della c., ci vuole un secondo atto, con cui il Papa impone anche la festa alla Chiesa universale. Dunque siamo sempre nell’ambito della c. equipollente.

2) Il Lambertini costituisce però un secondo gruppo di santi, per i quali constata l’atto pontificio dell’imposizione della festa a tutta la Chiesa, senza però alcuna procedura precedente canonica né un atto di c. formale. Sono i santi inseriti per atto pontifìcio nel calendario universale. Siccome poi un calendario della Chiesa universale, in senso stretto, esiste soltanto dai tempi di S. Pio V (v. CALENDARIO DELLA CHIESA UNIVERSALE), la c. equipollente in quest’ultimo senso si riscontra in tutti i casi, in cui un Papa inserisce la festa di un santo, non mai canonizzato formalmente, nel detto calendario. Il Lambertini, fra l’altro, adduce come esempi i ss. Romualdo, Norberto, Brunone, Pietro Nolasco, Raimondo Nonnato, Giovanni de Matha e Felice di Valois, Stefano d’Ungheria, Venceslao, Gregorio VII ecc. Dopo i tempi di Benedetto XIV la lista di tali casi si potrebbe di molto allungare (ss. Pietro Damiani, Beda il Venerabile, Cirillo di Gerusalemme e Cirillo di Alessandria, s. Scolastica, Ireneo, Bonifacio apostolo della Germania, Agostino apostolo dell’Inghilterra ecc.). – Infatti i liturgisti e i canonisti hanno accettato questo modo di vedere del Lambertini, e fino ai nostri tempi passarono come esempi della c. equipollente soprattutto i casi dell’inserzione di santi non formalmente canonizzati nel calendario della Chiesa universale. Senonché lo stesso Lambertini, nella stessa opera, 1. IV, parte 2 a, cap. 6, si diffonde largamente circa la concessione di Messa ed Ufficio in onore di santi non canonizzati; qui presenta come esempi, fra altri, anche Norberto, Brunone, Pietro Nolasco, Giovanni di Matha e Felice di Valois, Stefano d’Ungheria, tutti già presentati come esempi della c. equipollente; ora qui non parla più di c. equipollente, ma di cosa completamente differente. I casi citati dunque sono o non sono c. equipollenti? Almeno la cosa non appare troppo chiara, e l’autore ha alquanto complicato le cose. – Ma i tempi recentissimi ci portarono finalmente due atti pontifici, dichiarati espressamente come c. equipollenti, cioè le c. equipollenti di s. Alberto Magno, sotto Pio XI (16 dic. 1931: AAS, 24 [1932], pp. 1-17) e di s. Margherita d’Ungheria sotto Pio XII (19 nov. 1943: AAS, 36 [1943], pp. 33-40) . In entrambi i casi precedette uno studio storico-critico della sezione storica della S. Congregazione dei Riti e le susseguenti discussioni dei consultori storici e soprattutto della Congregazione ordinaria. Mancò quindi la procedura normale; non furono chiesti miracoli; ma il Sommo Pontefice procedette, di sua piena autorità, alla proclamazione dei due personaggi come santi, e da venerarsi come tali in tutta la Chiesa. Per s. Alberto Magno la festa fu imposta contemporaneamente a tutta la Chiesa, dato anche che egli era stato dichiarato, nello stesso atto pontificio, Dottore della Chiesa universale; la festa invece di s. Margherita non fu imposta a tutta la Chiesa. In entrambi gli atti pontifici è chiaramente detto che l’atto stesso vuol essere una vera e piena c. equipollente. – Da questo momento si delinea, per la c. equipollente, una duplice accezione: nel senso del Lambertini, cioè come estensione o imposizione della festa di un santo non formalmente canonizzato, e che oggi dev’essere chiamata c. equipollente in senso improprio o largo; e nel senso dei due atti pontifici ora citati, cioè la vera e propria c. equipollente nel senso stretto. – Quando furono elaborati gli schemi per il CIC, era stato preparato anche uno schema per la c. equipollente, ma poi fu ritirato per lasciare ai Sommi Pontefici la piena libertà di procedere in questo campo. Quindi una definizione giuridica precisa o una norma per la procedura “ad casum” non esiste. Certo è però che un personaggio da proporsi al Papa per una c. equipollente dovrà presentare alcuni elementi inderogabili, come, ad es., l’autenticità della persona stessa, la prova storica delle virtù o la certezza del martirio, l’esistenza di veri miracoli operati dalla persona dopo la sua morte, l’esistenza di un vero e proprio culto liturgico antico, la sua origine, la sua continuazione, e un certo rilievo della persona stessa, elementi storicamente provati nei due casi finora esistenti della c. equipollente vera e propria.

VII. C. E CHIESA. – La c. costituisce, nella vita della Chiesa Cattolica, un elemento essenziale, in quanto che attesta la santità della Chiesa stessa attraverso la storia, proprietà o nota distintiva della vera Chiesa di Cristo, confessata nel simbolo niceno-costantinopolitano. Questa santità dev’essere esternamente controllabile, e Chiesa deve poter mostrare al mondo la santità delle sue membra in modo tangibile. Non si tratta qui soltanto della santità comune alla quale sono chiamati tutti i cristiani, ma soprattutto della santità esimia, alla quale possono arrivare ed arrivano di fatto molti cristiani. La nota della santità esimia non mancò mai alla Chiesa cattolica, ma trattandosi di un elemento esterno, la Chiesa deve avere il modo e la facoltà di dichiarare, in forma dottrinale, che questa o quella persona è veramente santa, vale a dire, che esprime, nella sua vita, l’ideale evangelico, previssuto e chiesto da Cristo. Questa dichiarazione ufficiale è appunto la c. – Per la vita della Chiesa quindi è necessario che non le manchi mai la nota della santità, ma non è necessario per la Chiesa che venga canonizzato questa o quella persona. Del numero dei santi che vissero e vivranno nella Chiesa, solo pochi sono e saranno quelli che, per disposizione positiva della Provvidenza, arriveranno al riconoscimento esplicito della santità nella c. Questa è anche la ragione per cui la Chiesa, come tale, non prende l’iniziativa per introdurre una causa, ma lascia ciò alla Provvidenza, la quale si serve ai suoi scopi dei mezzi e delle vie ordinarie. – Talvolta però la storia di una causa rivela molto chiaramente disposizioni particolari di Dio; vedi, ad es., la rapidità straordinaria con cui si svolse la causa del frate cappuccino Corrado da Parzham (la causa più rapidamente condotta a termine nei tempi recenti: introduzione 1914, c. 1934). – L’oggetto immediato e diretto della definizione papale, nella c., è solo il fatto che l’anima della persona santa gode certamente la gloria celeste; ciò però non è un fatto, incluso direttamente nel tesoro della rivelazione soprannaturale, chiusa dopo la morte dell’ultimo apostolo; quindi il Papa non lo può definire come oggetto di fede divina, ma solo come oggetto di fede ecclesiastica. – Il Concilio Vaticano, nella sua esposizione dell’infallibilità del Papa, non nomina espressamente la c. dei santi come oggetto dell’infallibilità pontificia. È però dottrina comune dei teologi che il Papa nella c. è veramente infallibile, trattandosi di un atto importantissimo attinente alla vita morale della Chiesa universale, in quanto che il santo non viene soltanto proposto alla venerazione perché gode la gloria celeste, ma anche perché modello delle virtù e della santità reale della Chiesa. – Ora, sarebbe intollerabile se il Papa in una tale dichiarazione che implica tutta la Chiesa, non fosse infallibile. Questa dottrina risulta da non poche bolle di c., anche del medioevo, dalle deduzioni dei canonisti, sin dal medioevo, e dei teologi sin da s. Tommaso d’Aquino. Benedetto XIV insegna che è certamente eretico e temerario insegnare il contrario.

 [Nota: Come abbiamo potuto vedere, la Canonizzazione è una faccenda estremamente seria e complessa, che nel tempo ha assunto, data l’importanza capitale della questione, caratteri rigorosissimi. Ogni elemento viene setacciato con cura e valutato attentamente da commissioni che si succedono per gradi, inserito in un mosaico perfettissimo in cui ogni tessèra deve trovare la sua giusta collocazione. Questo fa ben comprendere come il Santo Padre abbia una grande responsabilità spirituale nel proporre alla Chiesa Universale un culto ed un esempio di virtù eroiche da additare ai fedeli. Pertanto, come più volte è stato riportato, massimamente dal Santo Padre Benedetto XIV [P. Lambertini], una autorità assoluta in materia. … “sarebbe intollerabile se il Papa in una tale dichiarazione che implica tutta la Chiesa, non fosse infallibile … ed è certamente eretico e temerario insegnare il contrario!” Se ci imbattiamo invece in canonizzazioni strane, di soggetti notoriamente empi, eretici, anticristiani, tendenti al protestantesimo, all’indifferentismo religioso ed all’ecumenismo multietnico, garantiti da miracoli ridicoli, da raffreddori guariti in estate o simili, questo non vuol dire che il Papa sia fallibile in materia di canonizzazione e la Chiesa la tana di aspidi velenose: significa semplicemente che chi ha sottoscritto la santità di un soggetto notoriamente “dannato”, almeno secondo il giudizio dei sacri canoni, del Magistero e dei catechismi della Santa Madre Chiesa, semplicemente non è un Papa, bensì un impostore fasullo. Praticamente l’ultima canonizzazione fu quella del 27 aprile 1958 di S. Teresa di Gesù Jornet y Ibars1843-1897- alla quale sono succedute invalidamente, [perché gestite da antipapi marrani modernisti apostati e scismatici della falsa chiesa dell’uomo, da Roncalli fino ad oggi, che non hanno alcuna autorità … o forse ce l’hanno nelle logge degli Illuminati ?!?] una caterva di pseudo-beati e pseudo-santi che sono da considerare come “mai canonizzati”; tra essi chiaramente ci saranno anche delle sante persone degne di attenzione e di venerazione, ma canonicamente non sono assolutamente da considerarsi tali, né possono costituire oggetto di venerazione o di culto da parte dei Cattolici. È probabile che quando la Chiesa Cattolica sarà emersa dall’eclissi attuale, alcuni di essi saranno validamente canonizzati da un “vero” Papa liberamente e validamente eletto, ma al momento il loro culto è sacrilego e blasfemo, perché non conforme alle leggi della Chiesa Cattolica (anzi “imposto” fuori dalla “vera” Chiesa Cattolica) e soprattutto perché avallato da servi della sinagoga di satana: falsi religiosi, falsi cardinali e veri antipapi].