IDOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE (2023)

DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semìdoppio. – Paramenti verdi.

Questa Domenica, inserita nel Messale dopo il Sabato delle Quattro-Tempora, era anticamente libera. La liturgia della vigilia si prolungava, infatti, fino alla Domenica mattina, e quindi questo giorno non aveva Messa propria. La lezione del Breviario nella Domenica che segue le Quattro Tempora (4a Domenica di settembre) è quella del libro di Giuditta, che S. Ambrogio, nel 2° Notturno riporta a questo tempo di penitenza, attribuendo al digiuni e all’astinenza di quest’eroina la sua miracolosa vittoria. Per continuare il riavvicinamento che abbiamo stabilito fra il Messale e il Breviario, possiamo anche studiare la Messa del Sabato delle Quattro Tempora, che era anticamente quella di questa Domenica in rapporto con la storia di Giuditta. – Nabuchodonosor, re degli Assiri, mandò Oloferne, generale del suo esercito, a conquistare la terra di Canaan. Quest’ufficiale assediò la fortezza di Betulia. Ridotti agli estremi, gli assediati decisero di arrendersi nello spazio di cinque giorni. Viveva allora in questa città una vedova chiamata Giuditta, che godeva grande riputazione. « Facciamo penitenza per i nostri peccati disse ella, e imploriamo il perdono da Dio con molte lacrime! Umiliamo le anime nostre davanti a Lui e preghiamolo di farci sperimentare la sua misericordia. Crediamo che questi flagelli, con i quali Dio ci castiga, ci sono mandati per correggerci e non per rovinarci ». E questa santa donna entrò allora nel suo oratorio rivestita di cilicio e con la testa cosparsa di cenere si prostrò a terra davanti al Signore. Compiuta la sua preghiera, mise le sue vesti più belle ed uscì dalla città con la sua ancella. Sul far del giorno giunse agli avamposti dei Caldei e dichiarò che era venuta per dare i suoi nelle mani di Oloferne. I soldati la condussero dal generale che fu colpito dalla sua grande bellezza « che Dio si compiacque di rendere ancor più abbagliante, poiché aveva per scopo non la passione, ma la virtù ». Oloferne credette alle parole di Giuditta e offrì in suo onore un gran banchetto. Nel trasporto della gioia bevve con intemperanza maggiore del solito e oppresso del vino si distese sul letto e si addormentò. Tutti si ritirarono allora e Giuditta restò sola presso di lui. Ella pregò il Signore di dar forza al suo braccio per la salvezza di Israele; poi, staccata la spada appesa al capo del letto, tagliò coraggiosamente la testa di Oloferne, la consegnò all’ancella ordinandole di nasconderla nella borsa da viaggio e ambedue rientrarono a Betulia quella notte medesima. Quando gli Anziani della città appresero quello che Giuditta aveva fatto, esclamarono: « Benedetto sia il Signore, che ha creato il cielo e la terra! ». L’indomani la testa sanguinante di Oloferne venne esposta sulle mura della fortezza. I Caldei gridarono al tradimento ma, inseguiti dagli Israeliti, furono massacrati o messi in fuga. Quando il Sommo Sacerdote venne da Gerusalemme con gli Anziani per festeggiare la vittoria, tutti acclamarono Giuditta, dicendo: «Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu la letizia di Israele, tu l’onore del nostro popolo ». S. Ambrogio, nel 2° Notturno della IV Domenica di Settembre commenta questa pagina della Bibbia dicendo: « Giuditta tagliò la testa ad Oloferne in forza della sua sobrietà ». Armata del digiuno, essa penetrò arditamente nel campo nemico. Il digiuno di una sola donna ha vinto le innumerevoli schiere degli Assiri ». La Messa del Sabato delle Quattro Tempora è piena di sentimenti analoghi. Le Orazioni implorano il soccorso della misericordia divina, appoggiandosi sul digiuno e sull’astinenza che ci rendono più forti dei nostri nemici. Perdonaci le nostre colpe, Signore, dice il l° Graduale. Vieni in nostro aiuto, o Dio nostro Salvatore; liberaci, per l’onore del nome tuo ». – « O Signore, Dio degli eserciti, continua il 2° Graduale, presta l’orecchio alle preghiere dei tuoi servi ». « Volgi il tuo sguardo, o Signore; sino a quando volti da noi la tua faccia? Aggiunge il 3° Graduale, abbi pietà dei tuoi servi ». — Le Lezioni fanno tutte allusioni alla misericordia di Dio verso il popolo, che ha fatto penitenza. Così parla il Signore degli eserciti: « Come ebbi l’intenzione di far del male ai vostri padri quando essi provocarono la mia collera, cosi in questi giorni ho avuto l’intenzione di fare del bene alla casa di Gerusalemme ». – Il racconto della liberazione del popolo ebreo dalla servitù assira per mezzo di Giuditta (nome che è il femminile di Giuda) dopo che essa ebbe digiunato è un’immagine della liberazione del popolo di Dio alla Pasqua, per mezzo di Gesù (della stirpe di Giuda) dopo la Quaresima. – Più tardi, allorché non si attese più la sera per celebrare il santo Sacrificio il Sabato delle Quattro Tempora, si prese per la 18° Domenica dopo Pentecoste, la Messa che era stata composta al VI secolo per la Dedicazione della Chiesa di San Michele a Roma e che fu celebrata il 29 settembre; infatti tutto il canto si riferisce alla consacrazione di una Chiesa. « Mi rallegrai quando mi dissero “Andremo nella casa del Signore” (Versetto All’Introito e Graduale). Mosè consacrò un altare al Signore, dice l’Offertorio. « Entrate nell’atrio del Signore e adoratelo nel Tempio Suo santo », aggiunge al Communio, e questa è una immagine del cielo ove affluiranno tutte le nazioni quando verrà la fine dei tempi indicata da questa Domenica e dalle seguenti che vengono alla fine del Ciclo. L’Alleluia è infatti quello delle Domeniche dopo l’Epifania, che annunziava l’ingresso dei Gentili nel regno dei cieli. L’Epistola parla di coloro che attendono la rivelazione di Nostro Signore al suo ultimo avvento; allora essi godranno eternamente, nella casa del Signore, la pace che, come dissero i Profeti, Egli accorderà a quelli che lo attendono (Intr., Graduale). Questa pace Gesù ce l’ha assicurata morendo sulla croce, che è il sacrificio vespertino. Questa pace e questo perdono noi lo godiamo già nella Chiesa, in grazia del potere accordato da Gesù ai suoi Sacerdoti. Questa Messa, che segue il sabato delle Ordinazioni fa infatti allusione anche al sacerdozio. Come il Salvatore, che esercitò il suo ministero e guarì l’anima del paralitico guarendone il corpo, quelli che sono ora stati ordinati Sacerdoti predicano la parola di Cristo (Epistola), celebrano il santo Sacrifizio (Offert.) e rimettono i peccati (Vangelo). E cosi preparano gli uomini a ricevere irreprensibili il loro divin Giudice (Epistola).

La predicazione evangelica è una testimonianza resa a Gesù Cristo. Quelli che l’accettano ricevono doni celesti in sovrabbondanza e possono attendere con fiducia l’avvento glorioso di Gesù alla fine dei tempi.

Giovanni Crisostomo così commenta la risposta data da Gesù agli Scribi che non gli riconoscevano la facoltà di perdonare i peccati: « Se non credete la potestà di rimettere le colpe, credete la facoltà di conoscere i pensieri, credete la virtù del sanare da malattie incurabili i corpi. Più facile sanare il corpo; ma giacché non credete alla maggiore meraviglia, ve ne mostrerò una minore ma aperta ai sensi.  »                                                                           

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Eccli XXXVI: 18
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël.

[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Ps CXXI: 1
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai per ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore].

Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël

[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Dírigat corda nostra, quǽsumus, Dómine, tuæ miseratiónis operátio: quia tibi sine te placére non póssumus.

[Te ne preghiamo, o Signore, l’azione della tua misericordia diriga i nostri cuori: poiché senza di Te non possiamo piacerti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor 1: 4-8
Fratres: Grátias ago Deo meo semper pro vobis in grátia Dei, quæ data est vobis in Christo Jesu: quod in ómnibus dívites facti estis in illo, in omni verbo et in omni sciéntia: sicut testimónium Christi confirmátum est in vobis: ita ut nihil vobis desit in ulla grátia, exspectántibus revelatiónem Dómini nostri Jesu Christi, qui et confirmábit vos usque in finem sine crímine, in die advéntus Dómini nostri Jesu Christi.

[“Fratelli: Io rendo continuamente grazie al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù; perché in lui siete stati arricchiti di ogni cosa, di ogni dono di parola e di scienza, essendosi stabilita solidamente in mezzo a voi la testimonianza di Cristo, in modo che nulla vi manca rispetto a qualsiasi grazia; mentre aspettate la manifestazione di nostro Signor Gesù Cristo, il quale vi manterrà pure saldi sino alla fine, così da essere irreprensibili nel giorno della venuta del nostro Signor Gesù Cristo”.]

LE RICCHEZZE DEL CRISTIANESIMO.

Anche il lettore più zotico e disattento capisce subito che quando San Paolo afferma arricchiti in Gesù e per Gesù i Cristiani, arricchiti in tutti i modi, non parla di ricchezze materiali: il discorso dell’Apostolo si svolge su un piano diverso e superiore al piano della materia, che è il piano dello spirito. Però in quel piano la frase di San Paolo ha una verità, una esattezza matematica: N. S. Gesù col suo Vangelo ha, spiritualmente, arricchito l’umanità. C’è più vita al mondo e nella storia dopo di Lui, maggiore e migliore, più intensa e più alta. C’è più luce. La fede non è una barriera, un limite, è un progresso, uno slancio. Dove si ferma la ragione con la sua luce umana, comincia la fede con la sua luce divina, divina e umanizzata, messa per opera di Gesù, il Rivelatore, il Maestro, alla portata dell’umanità. Prima di Gesù c’è la filosofia, dopo Gesù accanto e oltre la filosofia c’è la Teologia. Prima c’è Dio — mistero — poi ci sono i Misteri di Dio. Il Cristiano sa tutto ciò che sapeva il pio pagano e sa molto di più. E anche il patrimonio di verità comuni, nella mente del Cristiano è più luminoso. Le stesse cose noi le sappiamo meglio. Meglio la sua grandezza, meglio la sua bontà, la giustizia così severa, la misericordia così grande. Il più umile Cristiano, sotto questo rispetto, è più avanti del più grande filosofo pagano. C’è una vita morale più ricca. Si vive nella sfera morale più intensamente, con maggiore severità e maggiore dolcezza. Nostro Signore ci ha tenuto ad affermare questa superiorità morale del Suo Vangelo sulla antica Legge, non discutendo neanche la superiorità della Legge mosaica sulla etica pagana. Sinteticamente ha detto che la giustizia, la bontà dei suoi seguaci, deve essere superiore a quella degli Scribi e dei Farisei. E ha specificato una serie di superiorità morali, spirituali. La parola nostra è più sincera, deve essere tersa come uno specchio. – Non bisogna solo non nascondere la verità delle parole, bisogna non velarla. La morale giudaica, salvo le apparenze, provvede ad evitare il male sociale, la morale cristiana va al fondo della realtà, mette l’anima nella luce e al contatto di Dio. Dove il Cristianesimo trionfa è nel regno della carità, dell’amore. Dopo N. S. Gesù c’è più amore al mondo, un amore più operoso. Chi li aveva mai neanche lontanamente sognati i miracoli della carità cristiana nell’inverno dell’età pagana? Cera a Roma la vestale; non c’era la Suora di carità. L’ha creata Gesù. Tra il paganesimo e il Cristianesimo, c’è la differenza dal verno alla primavera. Il nostro amore è più intimo. Non si benefica solo nel Cristianesimo, non si fa solo del bene, si fa del bene, perché si vuole bene. C’è la fratellanza dell’anima, oltre le divisioni sociali. Rimangono materialmente i poveri e i ricchi, ma poveri e ricchi non conta nulla; si è fratelli. La carità cristiana va oltre la divisione nazionale; ci sono ancora i greci, i romani, i barbari, ma greci, romani e barbari si sentono fratelli, si chiamano con questo bel nome, si amano con questo bel titolo.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. – Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps CXXI: 1; 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore.]

Alleluja

V. Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. Allelúja, allelúja

[V. Regni la pace nelle tue mura e la sicurezza nelle tue torri. Allelúja, allelúja]

Ps CI: 16

Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. Allelúja.

 [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: e tutti i re della terra la tua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. IX: 1-8
“In illo témpore: Ascéndens Jesus in navículam, transfretávit et venit in civitátem suam. Et ecce, offerébant ei paralýticum jacéntem in lecto. Et videns Jesus fidem illórum, dixit paralýtico: Confíde, fili, remittúntur tibi peccáta tua. Et ecce, quidam de scribis dixérunt intra se: Hic blasphémat. Et cum vidísset Jesus cogitatiónes eórum, dixit: Ut quid cogitátis mala in córdibus vestris? Quid est facílius dícere: Dimittúntur tibi peccáta tua; an dícere: Surge et ámbula? Ut autem sciátis, quia Fílius hóminis habet potestátem in terra dimitténdi peccáta, tunc ait paralýtico: Surge, tolle lectum tuum, et vade in domum tuam. Et surréxit et ábiit in domum suam. Vidéntes autem turbæ timuérunt, et glorificavérunt Deum, qui dedit potestátem talem homínibus”.

[“In quel tempo Gesù montato in una piccola barca, ripassò il lago, e andò nella sua città. Quand’ecco gli presentarono un paralitico giacente nel letto. E veduta Gesù la loro fede, disse al paralitico; Figliuolo, confida: ti son perdonati i tuoi peccati. E subito alcuni Scribi dissero dentro di sé: Costui bestemmia. E avendo Gesù veduti i loro pensieri, disse: Perché pensate male in cuor vostro? Che è più facile, di dire: Ti sono perdonati i tuoi peccati; o di dire: Sorgi e cammina? Or affinché voi sappiate che il Figliuol dell’uomo ha la potestà sopra la terra di rimettere i peccati: Sorgi, disse Egli allora al paralitico, piglia il tuo letto e vattene a casa tua. Ed egli si rizzò, e andossene a casa sua. Ciò udendo le turbe s’intimorirono e glorificarono Dio che tanta potestà diede ad uomini].

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

LE ABITUDINI CATTIVE

Portavano a Lui perché lo guarisse un paralitico sul suo giaciglio. Il Maestro divino, davanti alla fede di quella povera gente, sentì l’anima sua piena di commozione e rivolse al malato delle parole piene di bontà: « Figliuolo! » lo chiamò, « confida: i tuoi peccati ti sono perdonati ». A queste parole, alcuni maligni cominciarono a pensare male, « Ma cosa crede di essere costui? Le sue parole sono bestemmia: Dio solo può cancellare i peccati ». E non s’accorgevano quegli uomini gretti che Gesù intanto leggeva i loro pensieri: « Perché  pensate male in cuor vostro? Secondo voi, è più facile perdonare i peccati o far camminare un paralitico? Ebbene, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha la potestà sopra la terra, di rimettere i peccati: sorgi! – gridò, volgendosi all’infermo, – prendi il tuo letto e vattene a casa tua! »  Quegli si rizzò e, caricatosi sulle spalle il giaciglio, si diresse a casa: per tutta la folla passò un fremito di meraviglia. Qualcuno, a gran voce glorificava il Signore. Questo è il brano del Vangelo: deduciamo alcune riflessioni per l’anima nostra.  Il male che affliggeva il povero paralitico io lo assomiglio al male che affligge molte anime: l’abitudine cattiva. Osservate quanto è vero. Il paralitico da solo non poteva fare un passo: ma anche quelli che si trovano da anni e anni irretiti nelle abitudini peccaminose non sanno più muovere un passo sulla via del bene. Essi si lasciano trasportare dalle passioni, come una fragile barchetta senza remi da una rapace fiumana. Non una preghiera sincera, non più un proposito efficace, non più uno sforzo per uscire dal terribile stato in cui ogni giorno affondano maggiormente. Il paralitico notte e dì giaceva sul letto duro: anche l’abitudine cattiva è un letto duro per i disgraziati che vi giacciono. Capiscono che rovinano la propria anima, quella degli altri, dissipano magari la salute e la sostanza, trascurano la moglie e i figli: capiscono e soffrono ma una fune invisibile li tiene legati al vizio. Una fune non di ferro né di corda, ma formata dalla loro volontà, quella volontà che hanno ceduto al demonio perché ne facesse le catene d’imprigionare la loro anima (S. Ag. Conf., VIII, 5). Il paralitico fu guarito, non per i propri meriti, ma per la fede che era negli altri; così è ben difficile che chi vive in abitudine cattiva possa guarire, se qualche persona buona tra i parenti e gli amici non prega per lui e non lo conduce con dolcezza ai Sacramenti dove troverà Gesù che gli dirà: « Sorgi e cammina! ». Ma il danno più grave che l’abitudine cattiva cagiona nell’uomo è quello di sconvolgerlo così che la sua anima non capisce più il bene, non sente più nessun affetto per ciò che è nobile e soprannaturale, non conosce più nemmeno Iddio che l’ha creata. Questo è il primo pensiero. Esaminiamo poi la nostra coscienza: e se, Dio non voglia, siamo proprio anche noi travolti da qualche abitudine cattiva, con uno sforzo eroico corriamo ai rimedi per guarire. – 1. L’ABITUDINE CATTIVA SCONVOLGE TUTTA L’ANIMA NOSTRA a) Non capisce più i suoi eterni interessi: Un padre visitava una fiera con la sua figliuola; nel trambusto, nella folla, nel clamore smarrisce la figlia. Subito la cerca; la fa cercare; senza utilità. Passarono quattro anni: quattro lunghi anni di trepidazione, di attese, di speranze e di accascianti delusioni. Finalmente, passando per Londra, scorge sopra un palco di lottatori una fanciulla. Non ha dubbio alcuno: è sua figlia. Penetra nel palco… « Figlia mia! » le dice; ma la piccina, guasta per la dimora prolungata coi saltimbanchi, contaminata dai loro cattivi discorsi, già aveva dimenticato la sua prima infanzia: aveva dimenticato la sua casa tiepida e linda, il riso delle sue sorelle, i baci della mamma che sempre l’aspettava e piangeva; aveva dimenticato perfino il volto di suo padre. E non lo riconobbe più. « Voi, mio padre? » rispondeva. « Indietro: non vi conosco! ». « Bimba mia! » le diceva l’infelice signore col cuore spezzato, « bimba mia, guardami in viso: non ti ricordi più di quando ti cullavo sulle ginocchia, di quando ti compravo i balocchi, di quel giorno fatale in cui ti condussi alla fiera? ». « No, no! » insisteva la fanciulla. « Con voi non voglio venire: il mio vero padre è questo qui ». E accennava un sinistro ciarlatano, che voleva intervenire per non lasciarsi sfuggire la preda! (Mons. DE SÉGUR Semplici storie). Quante volte accade così all’uomo come a quella fanciulla! Attirato da una gioia di bassi istinti, ingannato dal demonio, grande ladrone di anime, abbandona la dolce casa di famiglia, perde l’amicizia del Padre che sta nei cieli. Divenuto preda delle passioni, a poco a poco si abitua a convivere con loro; fatto schiavo dal demonio, e poco a poco si persuade di esserne il suo servitore. Dio va a cercarlo: moltiplica gli appelli, ripete gl’inviti: « Figliuolo, eccomi, sono Io: tuo Padre, te ne supplico! Oh, se sapessi quanto io bramo di riaverti come mio figliuolo! » Ma l’uomo, abituato nei peccati, non capisce più niente, non riconosce più la voce di Dio, non sa più d’avere un’anima; e con la sua condotta risponde al Signore: « Non so nemmeno chi tu sia: a me piace fare la mia volontà, il mio padrone è il demonio ». Suo padrone è il demonio?… E non sa più che da Dio è stato creato, che da Gesù Uomo-Dio è stato redento, che a Dio deve ritornare per essere giudicato? E non sa più che il demonio, è il nemico acerrimo dell’uomo, e che le sue passioni lo precipiteranno nell’inferno per tutta un’eternità di tormenti e di paure? b) Non capisce più nemmeno i suoi interessi temporali: Ecco un uomo abituato nella passione del gioco: ha sperperato così l’eredità de’ suoi poveri genitori, ha rovinato l’avvenire a’ suoi figliuoli, ha già fatto debiti; eppure gioca ancora. Prevede che i creditori tra poco lo assalteranno, e non potendo pagare sarà chiamato in tribunale; eppure gioca ancora. Tutti già sussurrano di lui, il suo onore e quello della famiglia è già intaccato, eppure gioca ancora. – Ecco un uomo abituato nella passione del bere: ogni domenica, ed anche più spesso, nella casa avvengono scene ributtanti. Egli torna dall’osteria dove ha sciupato il guadagno di molti giorni; entra in casa in uno stato pietoso; gli occhi stravolti, la persona scomposta e dondolante, parole insensate, bestemmie orribili. I figlioletti hanno paura del loro padre e si nascondono vicino alla mamma che tace e piange. Come farà quella famiglia a prosperare? Come farà quell’infelice a guadagnare se le continue ubriacature gli bruciano lo stomaco e dànno a tutte le sue membra un tremito nervoso? Come cresceranno quei figliuoli sotto l’influsso degli esempi paterni? Forse, dopo l’ebbrezza, queste cose le pensa, e pensa a qual calvario condanna la sua sposa; eppure, si è formato una tale abitudine a cui non è più possibile resistere. – Ecco un uomo abituato nella passione dell’impurità: tutto il giorno la sua mente freme sotto il soffio di mille demoni; i suoi occhi non sono mai custoditi; la sua lingua è un carbone d’inferno. La sua anima è discesa al livello dei bruti; i suoi interessi vanno male, ma egli pensa ben altro. La sua famiglia soffre, ma egli non ha più cuore per i nobili affetti. L’abitudine cattiva l’ha sommerso nel fango, e non ricorda più nemmeno se esiste il cielo. Ecco un uomo abituato nella passione dell’avarizia; non dorme, non mangia abbastanza. Sempre in ansietà, è pronto nel ghermire l’altrui, è lento nel concedere il proprio. Non un’elemosina ai poveri, non una beneficenza alle opere pie, non un suffragio a’ suoi morti. Trascura perfino la doverosa educazione dei figli, a cui non concede nemmeno il necessario per vestirsi: è schiavo del danaro. E dopo una vita di stenti sanguinosi, le ricchezze accumulate di chi saranno? Non importa: alla sua passione non può dire di no. – 2. RIMEDI CONTRO LE ABITUDINI CATTIVE. Quello strambo filosofo ch’era Diogene, un giorno, prese un uomo che aveva la cattiva abitudine di rubare, cominciò a sgridarlo e a dimostrargli il male che commetteva e la necessità di correggersi. Per caso, passò da quelle parti un amico del filosofo che gli chiese: « Diogene! che stai dicendo, che parli con tanto calore? ». Il filosofo rivolse uno sguardo all’amico passante e gli disse: « Sto lavando la faccia al moro ». Io non sono così pessimista come l’antico sapiente, ma sono persuaso che non sia cosa facile correggersi da un’abitudine cattiva. Come l’uccello s’accorge d’esser legato al filo quando tenta di volarsene via, così l’uomo si lascia impaniare dalla cattiva abitudine senza accorgersi, ma quando tenta di liberarsene si trova davanti a difficoltà gravissime. E prima di tutto bisogna vincere le difficoltà che il demonio suscita contro quelli che vogliono ricominciare una vita nuova. Quel gran monte a cavaliere del Lazio aspro e della ridente Campania per molti anni fu la sede degli dei bugiardi e del demonio: anche quando in tutta Italia il culto idolatrico era scomparso, là rimanevano ancora i boschetti sacri a Venere e il simulacro d’Apollo. Un giorno su quel monte salì una compagnia d’uomini vestiti di nero, cinti di cuoio: erano S. Benedetto e i suoi primi compagni, i quali a colpi di scure, cantando inni di gloria al Cristo vittorioso, rovesciarono ogni residuo di paganesimo. Si dice che mentre i monaci lavoravano, il demonio escogitava le sue vendette. Una volta mentre rovesciavano un idolo dal suo piedestallo, si destò tutto intorno una fiamma gagliarda che minacciava di incendiare la montagna. Un’altra volta, massi ciclopici, ruinavano giù dalla vetta, schiacciando ogni cosa, e rintronando spaventosamente. I monaci inorriditi fecero per fuggire, ma S. Benedetto tranquillo li arrestò e li incoraggiò con la preghiera. O Cristiani, quando il monte della vostra anima l’avete lasciato in possesso dell’idolo per anni e anni: quando avete permesso al demonio di rizzare dentro di voi un piedistallo per esservi adorato; quando nel vostro cuore avete lasciato che l’impurità impiantasse i suoi boschetti, non meravigliatevi se al momento in cui prenderete la scure per abbattere in voi il regno del demonio, questi vi abbia a spaventare per non lasciarsi sfuggire una preda che già credeva sua. E saranno incendi di passioni che si svilupperanno al primo tentativo di conversione; e saranno macigni che rotoleranno contro l’anima vostra ad abbatterla ogni volta che tenterà di alzarsi dal vizio e dal fango. Ed anche a noi mancherà il coraggio come ai primi monaci benedettini alla conquista di Montecassino. Non disperiamoci. Non è facile vincere una abitudine cattiva, ma non è neppure una cosa disperata come lavare la faccia al moro. Non importa, se qualche volta ricadremo: il Signore, quando c’è tutta la buona volontà e lo sforzo, sa compatire e aiutare maggiormente. Vinti gli inganni del demonio, attacchiamoci alla preghiera con quella bramosia con cui il naufrago s’attacca alla tavola della salvezza: La preghiera è il cibo dell’anima nostra, e come il corpo che non mangia s’indebolisce e muore, così l’anima che non prega s’indebolisce e soccombe. Il demonio è molto più astuto e più forte di noi; ma se preghiamo, Dio scenderà al nostro fianco: e se Dio è con noi, chi può essere contro di noi? Più necessaria ancora della preghiera, per quelli che vogliono liberarsi dall’abitudine cattiva è la frequenza ai sacramenti della Confessione e della Comunione: l’uno purifica e l’altro fortifica. Prima di farlo camminare, Gesù ha liberato il paralitico da’ suoi peccati: « Confida, figlio: i tuoi peccati ti sono rimessi ». Prima di muovere il primo passo sulla via del bene, bisogna liberarci dal fardello del male nella santa Confessione. La Comunione poi irrobustirà le nostre forze e ci renderà temibili anche al demonio. Infine bisogna agir contro all’inclinazione che l’abitudine cattiva ha formato in noi. Chi ha deviato dalla via giusta deve rifare in senso opposto tutta la strada sbagliata: così è pure nelle cose spirituali: « Age contra! ». Finora sei stato troppe indulgente col tuo corpo? da oggi incomincia a castigarlo con qualche mortificazione di occhi, di gola, di lingua. Finora sei stato troppo inclinato all’avarizia? da oggi sii più generoso coi poveri, con quelli che ti cercano aiuto e più giusto con te e con la famiglia. –  Dall’esercito Filisteo accampato contro i soldati di Saul, uscì fuori un terribile gigante, armato di placche di ferro dalla testa fino ai piedi: « Avanti — sfidò — venite a combattere con me! ». Ed ecco dalla parte d’Israele venire un giovanetto, senz’elmo, senza spada: soltanto portava il bastone, col quale tante volte aveva guidato sui pascoli il gregge e una piccola fionda con cinque pietruzze bianche; lui solo contro il gigante. Disse Goliath: « Sono io un cane, perché tu venga col bastone? Vieni e ti farò preda d’uccelli e di belve ». Disse David: « Tu hai spada, asta, scudo: io vengo inerme, però nel nome del Signore, Dio degli eserciti e Dio delle armate ». Dopo qualche tempo, un enorme troncone giaceva insanguinato sulla terra, ed un giovanetto correva verso il campo di Saul portando un capo mozzo, ancora grondante (1 Re, XVII). Se anche l’abitudine cattiva, — o del gioco, o del vino, o dell’avarizia, o della sensualità, o del furto — in cui siamo caduti è per noi terribile da vincere come un gigante armato, non scoraggiamoci! È vero che siamo deboli per natura e per peccato, ma se noi davvero vogliamo convertirci, il Dio degli eserciti, il Dio delle armate combatterà con noi e per noi, E vinceremo. — CARITÀ VERSO I PECCATORI. La malattia di quel poveretto era ben grave. Inchiodato in un letto, non poteva fare il minimo gesto, non sapeva muovere neppure un dito. Solo negli occhi aveva la vita, ma il corpo era immobile come un cadavere. Per guarirlo i medici non avevano nessun rimedio: perché nelle sue vene rifluisse la linfa vitale ci voleva la parola di Gesù che faceva i miracoli. Ma se non ci fossero stati quei buoni uomini a prenderlo e a portarlo a Gesù quell’infermo non si sarebbe certo mai più trovato col Maestro divino. Forse venivano anche da lontano perché se fossero stati tutti di Cafarnao avrebbero saputo che Gesù era partito con la barca e così non sarebbero andati, con quel peso, ad incontrarlo al porto, ma nella casa che Lo ospitava. Quanta carità in questi uomini che dimenticano per un giorno i loro interessi, la loro casa per curarsi di un loro fratello che ha bisogno di vedere Gesù e di essere da Lui veduto. Certo erano uomini di fede viva; perché uno che non crede a Gesù non farebbe neppure un passo, neanche il minimo sforzo per portare qualcuno da Lui. Dice anzi il Vangelo che il Signore rivolse la sua parola al malato quando vide la fede degli uomini che lo portavano e pregavano per lui. Io paragono alla malattia di quell’infelice lo stato deplorevole di quei Cristiani che sono morti alla grazia di Dio, se ne stanno lontani dalla Chiesa o vanno appena qualche rarissima volta forse più per superstizione che per spirito di fede. Oppure potremmo paragonare al paralitico del Vangelo di oggi i Cristiani che riguardo all’anima hanno quel poco di vita sufficiente per dire che non c’è la morte, ma non esiste un po’ di slancio per frequentare i Sacramenti, pregare di gusto, amare davvero il Signore. Ebbene, con questi Cristiani noi dobbiamo fare come gli uomini del Vangelo. Cioè se non abbiamo anche noi la stessa malattia, bisogna che li portiamo a Gesù col nostro buon esempio, bisogna che preghiamo il Signore con vivissima fede perché li guarisca. E non è forse vero che l’esempio trascina e che la preghiera è onnipotente? – 1. COL BUON ESEMPIO. Ai tempi di Nostro Signore Gesù Cristo, comandava da per tutto l’Impero Romano. I sudditi dovevano pagare ciascuno il proprio tributo secondo quello che possedevano, ma questo obbligo era diventato odioso a tutti per il modo con cui le tasse erano pagate. Alcuni ricchi coi loro danari compravano dal governo il diritto di ricevere i tributi di una determinata regione e tutti dovevano portare i denari a questi esattori che si chiamavano pubblicani. Gente, per lo più odiata da tutti perché liberi nei loro affari, senza nessuna sorveglianza delle autorità romane facevano grandi ingiustizie, succhiando il sangue alla povera gente che doveva tacere e pagare. Gesù che era venuto per evangelizzare i poveri e predicare la giustizia non poteva approvare questi disordini. Ora con la bontà e la mansuetudine, ora con la forza dei suoi rimproveri cercava di arrivare fino al cuore di quei pubblicani per convertirli alla giustizia ed all’amore. Ma tutti lo schivavano perché… seguire Gesù voleva dire rinunciare ai denari rubati, voleva dire aiutare i poveri, non pretendere di più di quanto era giusto. Questo costava fatica e nessun pubblicano si sentiva capace di compierlo. Un giorno però il Maestro passa vicino al banco di un pubblicano che stava proprio riscuotendo le tasse. Si chiamava Matteo. Gesù lo fissa in volto e gli dice: « Vieni dietro a me ». Il pubblicano senza esitare lascia tutto e si mette a seguire Gesù. Ed è così contento di stare con Lui che vuole imbandire un sontuoso banchetto in suo onore. E pensare che Gesù certamente da quell’uomo ha voluto una riparazione di carità, di elemosine per tutte le ingiustizie commesse in passato. Eppure, osservate: da quel momento i pubblicani si fanno coraggio, vincono la loro vergogna e cominciano a stare con Gesù. Vedete come era stato efficace l’esempio di Matteo! Sembrava dovesse essere da tutti compianto perché rovinava i suoi affari ed invece si è visto seguito da moltissimi altri. Cristiani, guardando attorno troviamo di quelli che possiamo paragonare al paralitico del Vangelo di oggi od ai pubblicani che pensano solo alle cose del corpo. Ma non mettiamoci in mente di far loro del bene con tante parole, con prediche lunghe o consigli studiati. Avviare un’anima alla conversione, alla grazia di Dio è dare a quest’anima la vita che le manca. Ora che possono dare la vita sono soltanto i vivi: un morto non può far nulla. Ci vuol dunque prima in noi la vita spirituale davvero vissuta, vita fatta di fedeltà assoluta ai propri doveri. Quando uno non manca mai alla Chiesa, frequenta con sincerità e fervore i Sacramenti, lavora con onestà, educa cristianamente i suoi figlioli, sta lontano dai divertimenti pericolosi, e rifugge da ogni discorso cattivo, e legge i giornali buoni questi vive la sua vita. Ebbene senza che egli se ne accorga, va gettando semi di bene in quelli che lo avvicinano, lo vedono, lo ascoltano. Soltanto in paradiso noi potremo comprendere bene tutta l’efficacia di una vita di buoni esempi. – 2. CON LA PREGHIERA. Tra i molti miracoli avvenuti a Lourdes v’è anche il seguente. Una giovane suora da parecchi giorni era gravemente inferma. Aveva già completamente perduto la vista ed ora cominciava ad irrigidirsi in una paralisi che le rendeva impossibile ogni movimento del capo e delle gambe. I medici dicevano tutti che il caso era disperato; per questo il sacerdote le aveva già amministrato gli ultimi Sacramenti. Ma in quell’Istituto c’erano delle anime che pregavano per la povera malata, c’erano soprattutto i piccoli innocenti che ogni giorno innalzavano al Cielo suppliche ardenti perché — se al Signore fosse piaciuto — la loro maestra riacquistasse la salute. Ed ecco che proprio quando tutto pareva perduto, quando la malata e le consorelle cominciavano già a pregare perché il giorno dell’Assunta fosse il giorno della dipartita da questa terra, una mano invisibile accarezza per tre volte quella fronte arsa dalla febbre. Credendo, perché non vedeva, che fossero state le suore a lei vicine a far le carezze, le pregò di desistere. Passano alcune ore e la inferma che dormiva è risvegliata da un’altra carezza sulla fronte e scorge distintamente la radiosa figura della Madonna, ammantata di celeste e cinta il capo di stelle, che si eleva soavemente magnifica dalla sponda del suo letto verso l’alto. La suora, fino allora immobile e cieca, si slanciava dal letto e alla suora infermiera che la tratteneva gridava: « Ho visto la Madonna! Ci vedo! Sono guarita ». Ed è così. Scomparsa la febbre, liberi i movimenti, nuovamente completa la vista. È impossibile descrivere la commozione di tutti, ma specialmente dei piccoli che avevano finalmente ottenuto la grazia implorata con tante preghiere. Cristiani, lo sa il Signore perché ha compiuto questo miracolo, ma io penso che la preghiera di tante anime deve aver fatto violenza sul Cuore di Dio. e penso anche a tanti ammalati nell’anima che camminano sull’orlo dell’inferno e pei quali ogni speranza di ravvedimento sembra perduta. Sono quelli che hanno abbandonato la Chiesa e i Sacramenti, sono quelli che bestemmiano come demoni e vivono pensando solo al corpo, senza un palpito per Dio e per l’anima. Questa è la vera infermità, la vera agonia, l’unico vero male. Solo il Signore è buono di portare un rimedio. Ma noi possiamo pregare, possiamo come quei piccoli innocenti forzare il Cuore di Dio a concedere un po’ di luce a quelli che sono ciechi, a dare un po’ di vita a quelli che sono morti. Ecco allora che, quando tutto sembra inutile, la mano invisibile di Dio e della Vergine comincia a toccare le menti riarse dalla febbre del peccato. È un pensiero di fede, un rimorso, una compagnia, una parola buona che si fa sentire e penetra in fondo al cuore. Dapprima forse non si vuole credere, ma poi… il Signore ottiene la vittoria completa. – Di quante conversioni e diciamo pure di quante santità raggiunte, la causa deve essere ricercata nelle preghiere, nelle immolazioni, nei sacrifici di anime sconosciute nei conventi o nelle case o nelle botteghe o nelle officine strappano a Dio i miracoli! – Ai primi Cristiani di Corinto, S. Paolo scriveva così: « Voi siete una lettera di Cristo » Che cosa voleva dire? Vedete, la lettera è fatta per esprimere ad uno lontano i nostri pensieri. Se Gesù dovesse scrivere una lettera agli uomini quali pensieri esprimerebbe? « Seguite la mia legge di amore, ascoltate le mie parole perché io sono stato mandato dal Padre a salvare i peccatori ed ora sto sempre davanti a Lui a pregare per voi ». Ebbene S. Paolo dice che noi, la nostra vita deve essere questa lettera, questa predica vivente col buon esempio e con la preghiera perché tutti si salvino.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Exod. XXIV: 4; 5
Sanctificávit Móyses altáre Dómino, ófferens super illud holocáusta et ímmolans víctimas: fecit sacrifícium vespertínum in odórem suavitátis Dómino Deo, in conspéctu filiórum Israël.

[Mosè edificò un altare al Signore, offrendo su di esso olocausti e immolando vittime: fece un sacrificio della sera, gradevole al Signore Iddio, alla presenza dei figli di Israele.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes éfficis: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.

[O Dio, che per mezzo dei venerandi scambii di questo sacrificio, ci rendi partecipi della tua sovrana e unica divinità, concedi, Te ne preghiamo, che, come conosciamo la verità, cosí la conseguiamo con degna condotta.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XCV: 8-9
Tóllite hóstias, et introíte in átria ejus: adoráte Dóminum in aula sancta ejus.

 [Prendete le vittime ed entrate nel suo atrio: adorate il Signore nel suo santo tempio.]

Postcommunio

Orémus.
Grátias tibi reférimus, Dómine, sacro múnere vegetáti: tuam misericórdiam deprecántes; ut dignos nos ejus participatióne perfícias.

[Nutriti del tuo sacro dono, o Signore, Te ne rendiamo grazie, supplicando la Tua misericordia di renderci degni di raccoglierne il frutto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: OTTOBRE 2023

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: OTTOBRE 2023

Ottobre è il mese che la Chiesa Cattolica dedica al Santo Rosario. Oltre a questa, c’è un’altra importante festa mariana, l’11 di ottobre, la Maternità divina della Vergine Maria. Poi ci sono le feste degli Angeli custodi (2) e di grandi Santi, tra cui l’Evangelista S. Luca (18) e gli Apostoli S.S. Simone e Giuda (28). L’ultima domenica c’è la Festa di Cristo Re (29 – doppio di I Classe).

… Allorché l’eresia degli Albigesi s’estendeva empiamente nella provincia di Tolosa mettendovi di giorno in giorno radici sempre più profonde, san Domenico, che aveva fondato allora l’ordine dei Predicatori, si applicò interamente a sradicarla. E per riuscirvi più sicuramente, implorò con assidue preghiere il soccorso della beata Vergine, la cui dignità quegli eretici attaccavano impudentemente, ed a cui è dato di distruggere tutte l’eresie nell’intero universo. Ricevuto da lei l’avviso (secondo che vuole la tradizione) di predicare ai popoli il Rosario come aiuto singolarmente efficace contro l’eresie e i vizi, stupisce vedere con qual fervore e con qual successo egli eseguì l’ufficio affidatogli. Ora il Rosario è una formula particolare di preghiera nella quale si distinguono quindici decadi di salutazioni angeliche, separate dall’orazione Domenicale, e in ciascuna delle quali ricordiamo, meditandoli piamente, altrettanti misteri della nostra redenzione. Da quel tempo, dunque, questa maniera di pregare incominciò, grazie a san Domenico, a farsi conoscere e a spandersi. E, ch’egli ne sia l’istitutore e l’autore, lo si trova affermato non di rado nelle lettere apostoliche dei sommi Pontefici. – Da questa istituzione sì salutare promanarono nel popolo cristiano innumerevoli benefici. Fra i quali si cita con ragione la vittoria, che il santissimo Pontefice Pio V e i principi cristiani infiammati da lui riportarono presso le isole Cursolari sul potentissimo despota dei Turchi. Infatti, essendo stata riportata questa vittoria il giorno medesimo in cui i confratelli del santissimo Rosario indirizzavano a Maria in tutto il mondo le consuete suppliche e le preghiere stabilite secondo l’uso, non senza ragione essa si attribuì a queste preghiere. E ciò l’attestò anche Gregorio XIII, ordinando che a ricordo di beneficio tanto singolare, in tutto il mondo si rendessero perenni azioni di grazie alla beata Vergine sotto il titolo del Rosario, in tutte le chiese che avessero un altare del Rosario, e concedendo in perpetuo in tal giorno un Ufficio di rito doppio maggiore; e altri Pontefici hanno accordato indulgenze pressoché innumerevoli a quelli che recitano il Rosario e alla confraternita di questo nome. – Clemente XI poi, stimando che anche l’insigne vittoria riportata l’anno 1716 nel regno d’Ungheria da Carlo VI, imperatore dei Romani, su l’immenso esercito dei Turchi, accadde lo stesso giorno in cui si celebrava la festa della Dedicazione di santa Maria della Neve, e quasi nel medesimo tempo che a Roma i confratelli del santissimo Rosario facendo preghiere pubbliche e solenni con immenso concorso di popolo e grande pietà indirizzavano a Dio ferventi suppliche per l’abbattimento dei Turchi e imploravano umilmente l’aiuto potente della Vergine Madre di Dio a favore dei Cristiani; perciò credé dover attribuire questa vittoria al patrocinio della stessa Vergine, come pure la liberazione, avvenuta poco dopo, dell’isola di Corcira dall’assedio parimente dei Turchi. Quindi perché restasse sempre perpetuo e grato ricordo di sì insigne beneficio, estese a tutta la Chiesa la festa del santissimo Rosario da celebrarsi collo stesso rito. Benedetto XIII fece inserire tutto ciò nel Breviario Romano. Leone XIII poi, in tempi turbolentissimi per la Chiesa, e nell’orribile tempesta di mali che da lungo tempo ci opprimono, ha sovente e vivamente eccitato con reiterate lettere apostoliche tutti i fedeli del mondo a recitare spesso il Rosario di Maria, soprattutto nel mese d’Ottobre, ne ha innalzato di più la festa a rito superiore, ha aggiunto alle litanie Lauretane l’invocazione, Regina del sacratissimo Rosario, e concesso a tutta la Chiesa un Ufficio proprio per la stessa solennità. Veneriamo dunque sempre la santissima Madre di Dio con questa devozione che le è gratissima; affinché, invocata tante volte dai fedeli di Cristo colla preghiera del Rosario, dopo averci dato d’abbattere e annientare i nemici terreni, ci conceda altresì di trionfare di quelli infernali. (Dal Messale Romano).

Festa degli Angeli custodi

Zach II:1-5

E alzai i miei occhi, e guardai, ed ecco un uomo con in mano una corda da misuratore; e dissi: Dove vai tu? Ed egli mi disse: A misurare Gerusalemme per vedere quanta sia la sua larghezza, e quanta la sua lunghezza. Quand’ecco l’Angelo che parlava con me uscì fuori, e gli andò incontro un altro Angelo. E gli disse: Corri, parla a quel giovane, e digli: Gerusalemme sarà abitata senza mura, per la gran quantità d’uomini e di bestie che saranno dentro di essa. Ed io le sarò, dice il Signore, muraglia di fuoco tutt’intorno, e sarò glorificato in mezzo a lei.

Festa di Cristo Re

… Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti. – Pertanto, questo sia il vostro ufficio, o Venerabili Fratelli, questo il vostro compito di far sì che si premetta alla celebrazione di questa festa annuale, in giorni stabiliti, in ogni parrocchia, un corso di predicazione, in guisa che i fedeli ammaestrati intorno alla natura, al significato e all’importanza della festa stessa, intraprendano un tale tenore di vita, che sia veramente degno di coloro che vogliono essere sudditi affezionati e fedeli del Re divino…

(S. S. Pio XI, lett. Enc. Quas primas)

Indulgenze per il mese di OTTOBRE:

398

Fidelibus, qui mense octobri saltem tertiam Rosarii partem sive publice sive privatim pia mente recitaverint, conceditur:

Indulgentia septem annorum quovis die;

Indulgentia plenaria, si die festo B . M. V. de Rosario et per totam octavam idem pietatis obsequium præstiterint, et præterea admissa sua confessi fuerint, ad eucharisticum Convivium accesserint et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitationem instituerint;

Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione, sacra Communione et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitatione, si post octavam sacratissimi Rosarii saltem decem diebus eamdem recitationem persolverint (S. C. Indulg., 23 iul. 1898 et 29 aug. 1899; S. Pæn. Ap., 18 mart. 1932). 81028

[Ai fedeli che nel mese di ottobre reciteranno almeno la terza parte del Rosario in pubblico o in privato, si concede:

Indulgenza di sette anni ogni giorno;

Indulgenza plenaria se nel giorno della festa del B.M.V. saranno confessati e comunicati secondo s.c.

Indulgenza plenaria, s. c.  se dopo l’ottava del sacratissimo Rosario, almeno per dieci giorni lo avranno recitato.]

RECITATIO ROSARII

395

a) Fidelibus, si tertiam Rosarii partem devote recitaverint, conceditur: Indulgentia quinque annorum;

Indulgentia plenaria, suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem idem præstiterint (Bulla Ea quæ ex fidelium, Sixti Pp. IV, 12 maii 1479; S. C. Indulg., 29 aug. 1899; S. Pæn. Ap., 18 mart. 1932 et 22 ian. 1952).

ORATIO AD D. N. IESUM CHRISTUM REGEM

Indulg. plenaria suetis condicionibus semel in die (272)

DÒMINE Iesu Christe, te confiteor Regem universàlem. Omnia, quæ facta sunt, prò te sunt creata. Omnia iura tua exérce in me. Rénovo vota Baptismi abrenùntians sàtanæ eiùsque pompis et opéribus et promitto me victùrum ut bonum christiànum. Ac, potissimum me óbligo operàri quantum in me est, ut triùmphent Dei iura tuæque Ecclèsiæ. Divinum Cor Iesu, óffero tibi actiones meas ténues ad obtinéndum, ut corda omnia agnóscant tuam sacram Regalitàtem et ita tuæ pacis regnum stabiliàtur in toto terràrum orbe. Amen.

Queste sono LE FESTE DEL MESE DI OTTOBRE 2023:

1 Ottobre Dominica XVIII Post Pentecosten I. Octobris  S.duplex Dom. minor *I* –    

                   Commemoratio: S. Remigii Episcopi et Confessoris

2 Ss. Angelorum Custodum Duplex majus *L1*

3 S. Theresiæ a Jesu Infante Virginis  Duplex

4 S. Francisci Confessoris  Duplex majus

5 Ss. Placidi et Sociorum Martyrum  Simplex

6 S. Brunonis Confessoris  Duplex

7 Sanctissimi Rosarii Beatæ Mariæ Virginis  Duplex II. classis *L1*

                Commemoratio ad Laudes tantum: S. Marci Papæ

8 Dominica XIX Post Pentecosten II. Octobris  Semiduplex Dominica minor

                 Commemoratio: S. Birgittæ Viduæ

9 S. Joannis Leonardi Confessoris  Duplex

10 S. Francisci Borgiæ Confessoris  Semiduplex m.t.v.

11 Maternitatis Beatæ Mariæ Virginis  Duplex II. classis *L1*

13 S. Eduardi Regis Confessoris  Semiduplex m.t.v.

14 S. Callisti Papæ et Martyris  Duplex

15 Dominica XX Post Pentecosten III. Octobris  Semiduplex Dominica minor

                Commemoratio: S. Teresiæ Virginis

16 S. Hedwigis Viduæ  Semiduplex

17 S. Margaritæ Mariæ Alacoque Virginis  Duplex

18 S. Lucæ Evangelistæ  Duplex II. classis

19 S. Petri de Alcantara Confessoris  Duplex m.t.v.

20 S. Joannis Cantii Confessoris  Duplex

21 S. Hilarionis Abbatis

22 Dominica XXI Post Pentecosten IV. Octobris  Semiduplex Dominica minor *I*

24 S. Raphaëlis Archangeli  Duplex majus *L1*

25 Ss. Chrysanthi et Dariæ Martyrum  Simplex

26 S. Evaristi Papæ et Martyris  Simplex

           Elezione di S.S. Papa Gregorio XVII Giuseppe Siri

27 In Vigilia Ss. Simonis et Judæ Ap.  Simplex.

28 Ss. Simonis et Judæ Apostolorum  Duplex II. classis *L1*

29 Domini Nostri Jesu Christi Regis  Duplex I. classis *L1*

             Commemoratio: Dominica XXII Post Pentecosten I. Novembris *I*

31 In Vigilia Omnium Sanctorum  Simplex

LO SCUDO DELLA FEDE (271)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (14)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO XIV.

RELIGIONE AMMODERNATA

I. Perché la religione non si piega un poco. Il. Progresso in religione. III. Esigenze dei tempi.

I. Il nostro secolo è secolo di conciliazione, dicono i moderati, or perché non si potrebbe fare anche un poco di transazione in fatto di religione? Se questa si piegasse un tantino, si adattasse e smettesse alquanto del suo rigore, e si conformasse ai tempi, non dovrebbero poi gli uomini del mondo guardarla sì di mal occhio…: tutto sarebbe che ci fosse un poco di discrezione, ed la religione cattolica potrebbe ancora sperare un avvenire. Questo modo di favellare è usitatissimo nel mondo, ed un cotale in questi ultimi tempi spese non so quanti volumi a persuadere questo ammodernamento del cattolicismo al Papa, ai Vescovi, ai Preti, a tutti i fedeli, e trovò non pochi dabben uomini di spirito conciliante che gli tennero bordone. Or che cosa volete che io dica a questa proposta? Mi sembra impossibile che, non dico empietà, ma stravaganze cotali possano annidarsi in mente cattolica. E per rispondere prima generalmente, che cosa è la religione cattolica? E una religione rivelata da un Dio, venuto sopra la terra a farsi maestro degli uomini, una religione che professa un determinato numero di verità da credere ed un determinato numero di esercizi da praticare. Ora, come può cadere in mente ad un Cattolico che tutto ciò si possa cangiare? Ma chi sarà e chi avrà il coraggio di mutare quello che è di divina istituzione? Se dunque il dicono per ischerzo, si rammentino che in materia sì grave non è lecito di scherzare; se il dicono da senno, hanno perduto il senno. – Quello che dà noia a molti e che perciò vorrebbero vedere cambiato, sono l’autorità della Chiesa, l’obbligo dei digiuni e delle astinenze, l’intervento alla Messa, le confessioni, le comunioni, la preghiera, l’indissolubilità del matrimonio e simili: ma e chi può apportare cambiamento a tutte queste leggi? La Chiesa stessa, sebbene di alcuni di questi obblighi può determinare praticamente il modo con cui soddisfarvi, non può mettervi mano al tutto, quanto all’abrogarli. Non può levare nè la Messa, nè la confessione, nè l’obbligo di pregare o di far penitenza, nè diminuire di un solo articolo la somma delle credenze rivelate, o scemare di un apice i precetti imposti. Quello che Cristo ha rivelato un tempo, rimane rivelato per sempre; quello che fu vero una volta, rimane sempre vero; come quello, che una volta fu comandato da Gesù, non fu mai più da Lui abrogato. Chi pertanto avrà diritto di porvi mano e modificarlo a sua posta? I protestanti, che si formano da sé la religione col giudizio privato, possono formare e riformare quanto vogliono; e così noi vediamo che usano di questo loro diritto con qualche ampiezza. Niun protestante, cinquant’anni dopo Lutero, credette più quello che credette Lutero; come la seguente generazione non credette più quello che la generazione che l’aveva preceduta: e dai cambiamenti che si fanno ogni giorno si può raccogliere che quelli, che verranno tra poco, non crederanno più quanto credono quei d’oggigiorno. Sì, per loro ciò è possibile, ma per noi che non siamo ancora giunti a cambiar di religione, come si fa degli abiti o delle mode; che professiamo di tenere quel solo che Gesù Cristo ha insegnato; che sappiamo esser chiusa da diciotto secoli la rivelazione e non essersene fatta più veruna posteriormente, per noi è al tutto impossibile.

II. Ma le ragioni del progresso? domanderà alcuno. Vi risponderò: rispetto alla verità rivelate il progresso non fa prova, perde sua forza e passa per un semplice ciarlatanismo. La religione è stazionaria, ferma, immobile, come quella rocca sopra cui è fondata. Tutti i Padri della Chiesa, tutti i Dottori, tutti i fedeli gridano concordemente ad una voce, che si deve tenere solo ciò che fu tenuto sempre, quello che fu tenuto dovunque (quod semper, quod ubique), che ogni novità è uno scandalo, che basta, affinché sia ripudiata una dottrina qualunque, il sapersi che essa non sia antica. Il perché quello che fu tenuto e fatto in antico, quello bisogna tenere e fare in presente. Ne’ primi secoli i fedeli non volevano aver niuna comunione di preghiere con gli eretici, niuna vuol aversene in presente. Allora i fedeli intervenivano nelle catacombe a celebrare i divini misteri e partecipare ai sacramenti, ed ora, cambiate solo le catacombe ne’ nostri templi sontuosi, bisogna intervenire ai medesimi misteri e partecipare agli stessi sacramenti. Allora Gesù intimava la sommissione intiera e completa all’autorità della Chiesa, pena l’essere avuto in conto di gentile e di pubblicano: ed ora pretende al tutto che dipendiamo dalla Chiesa e dai pastori che in essa sono stabiliti. Allora proibiva le ribellioni, le congiure, i diletti, ed imponeva la sommissione alle legittime autorità dei principi, fossero anche discoli, ed ora intima lo stesso e non accorda il far guerra e macchinare né contro il barbaro, né contro il civile. Un solo progresso è lecito in religione se lo volete, ed è amar più Dio che non l’amarono i vostri maggiori, essere più che essi non furono pii, limosinieri, caritatevoli, disinteressati, casti, abbondanti di ogni opera buona. In tutto ciò vi è pienissima libertà: ed è il solo progresso che sia pienamente consentito. Per nostra disgrazia però è il solo progresso di cui nessuno si cura.

III. Voi fate il soro, dirà taluno, con queste risposte, e mostrate di non intendere quello che a meraviglia già avete compreso. – Non vogliamo che si muti la religione quanto all’essenziale, tenete pure, se volete, anche i dogmi; ma dimandiamo solo che sia raffazzonata, soprattutto quanto alla pratica, che sia recata alle esigenze dei tempi…. Questa e non altra è la nostra dimanda. Ebbene, io vi Risponderò che ho afferrato benissimo il vostro concetto, così Dio vi conceda, o lettore, di comprendere tutto quello che in esso v’ha di falso e di iniquo. Di tanti errori che da tre secoli in qua si sono sparsi contro la Chiesa, niuno forse è più pernicioso di questo. Le aperte eresie dei riformatori del secolo XVI non possono far gabbo a uomini che cercano sinceramente la verità, sono espresse in chiare formole, sono apertamente contro la dottrina della Chiesa, e da questa in termini riprovate. Similmente le bestemmie sfrenate del passato sono così audaci e così svergognate, che, passato il momento di delirio, ne ebbero orrore quegli stessi che ne erano sedotti; ma la dottrina che si sparge ora di raffazzonare, ammodernare il Cristianesimo, di adattarlo al tempo ed al popolo, siccome è più benigna e non mostra nell’apparenza tutta la malignità che contiene intrinsecamente, si fa largo anche presso certi Cristiani non malvagi, ma leggieri e superficiali, i quali credono benissimo che la religione si possa spogliare, quasi d’una scoria che la ricopre, di certe asperità, durezze e forme esterne che le sono essenziali. Ad intelligenza di questo errore, avvertite adunque che la religione abbraccia due sorte di verità, naturali le une, soprannaturali le altre. A cagione di esempio, che Dio esista, che questo Dio sia uno, buono, santo, perfettissimo, sono verità alle quali può pervenire anche la sola ragione usata debitamente: ma che Dio sia uno nell’essenza e trino nelle Persone, che una di queste tre divine Persone si sia incarnata, sono verità a cui niuna ragione umana può pervenire, e bisogna al tutto che vi sia una rivelazione divina, la quale ce ne ammaestri. Similmente nell’ordine pratico vi sono dei precetti morali, ai quali può arrivare anche la sola natural ragione, come è il non rubare, non ammazzare, non fornicare, e Dio per mezzo della natura stessa ce li intima: vi sono dei precetti morali, ai quali non giunge la sola natura, come l’amare i nemici, dare la vita pel prossimo e adoperare per nostra santificazione certi riti, cerimonie, esercizii piuttosto che altri; e questi Gesù Cristo ce li intima con atti di sua positiva volontà. – Inoltre avete da sapere che il Cristianesimo abbraccia bensì anche tutti quei precetti naturali, ma consiste esso principalmente nella perfezione che a quei primi precetti volle aggiunta il Figliuolo di Dio, e per questo esso è legge più perfetta, più pura, più santa che non fu la legge data ai Patriarchi, od a Mosè, che non è quella che possa scoprirsi col solo lume della natura. Vedetelo in parte nel riscontro colla legge antica, sebbene data dallo stesso Dio, là come apparecchio della novella. La legge antica ordinava certamente di amare il prossimo, ma permetteva ancora in certi casi la legge del taglione. Gesù Cristo aggiunse invece l’amar perfino i nostri nemici, il far loro del bene per imitare il Padre celeste, il quale fa bene anche ai malvagi. La legge antica prevedeva l’uso onesto dei beni terreni, ma li lasciava godere, anzi prometteva, come rimunerazione del bene vivere, l’abbondanza di essi: la legge nuova vuole che distacchiamo il cuore da tutto il sensibile, e inclina, per renderci somiglianti a Gesù, all’amore della povertà, e ci propone dei beni spirituali invece dei temporali per premio. La legge antica concedeva perfino in certi casi la pluralità delle donne: la nuova non solo non ne consente più d’una , ma conforta quelli, che il vogliono, ad una illibatissima purità. La legge antica aveva riti e cerimonie che figuravano misteri avvenire e che non davano altra giustizia che l’esteriore e legale: la muova invece ha sacramenti, i quali giustificano pienamente l’uomo comunicandogli la grazia interiore. La legge antica guidava i suoi professori per via di timore più che d’amore: la nuova vi conduce per via d’amore più che di timore. E così andate dicendo di molte altre varietà che vi sono tra le due leggi, per le quali si vede quanto l’evangelica superi la passata. Ciò presupposto, ecco quello che interviene a dì nostri. Popoli eresiarchi hanno impugnata ora l’una, ora l’altra delle dottrine speculative di Gesù Cristo, ed hanno fatta opera di distruggere il Cristianesimo quanto alla credenza: a giorni nostri, data un poco di tregua alle credenze, si tenta di distruggere, tutta la pratica di esso, cioè tutta quella ulteriore perfezione, che Cristo aggiunse alla legge naturale ed alla legge scritta, per tornarci se fosse possibile, allo stato in che erano gli uomini prima di Gesù Cristo. – Ed ecco in qual modo Gesù Cristo mirava, come abbiam detto di sopra, nella formazione dei suoi seguaci a stabilire l’amore dei beni del cielo sul distacco dei beni della terra; e l’eresia moderna che così può benissimo chiamarsi) sotto pretesto di far discendere al popolo, al secolo, all’odierna civiltà la religione, inculca che non bisogna poi in grazia del cielo postergare la terra. – Cristo, per formarsi un popolo spirituale e per comprimere l’amor del mondo e dei piaceri carnali, proponeva la penitenza, il digiuno, la fuga delle occasioni ecc., e l’eresia moderna, sotto colore di moderazione, condanna le austerità e le penitenze siccome eccessi, la fuga delle occasioni come sciocca rusticità, ed a rin contro promuove e proclama tutto quello che sollecita i sensi e la carne. – Gesù Cristo, per sottomettere lo spirito pienamente a Dio, inculcava l’umiltà, il disprezzo di sé medesimo, l’abnegazione del proprio volere; e l’eresia moderna fa tutto l’opposto, chiama imbecillità, bassezza tutto quello che serve all’umiliazione di se stesso, e fanatismo tutto quello che ripugna e contraddice alla propria volontà. – Gesù Cristo, per ottenere la nostra santificazione, ha ordinato mezzi affatto superiori agli umani, cioè virtù soprannaturali, quali sono la fede, la speranza, la carità, mezzi soprannaturali che c’impetrino, o ci apportino la grazia interiore, quali sono l’orazione ed i sacramenti; e l’eresia moderna, disconoscendo tutto quello che è sopra natura, vi sostituisce le sue virtù tutto umane, cioè la filantropia, l’amor proprio, il sentimento della propria dignità e simili. – Gesù Cristo voleva che, nell’attuare i mezzi della salute noi dipendessimo totalmente dalla Chiesa che Egli sostituì in sua vece pel magistero dei fedeli; e questa eresia, disconoscendo l’autorità stabilita, crede superbamente di poter fare da sè, e fa veramente da sè, non curandosi nè punto, nè poco del magistero della Chiesa. – In breve, Gesù Cristo ordinò modi e vie tutto speciali per la salvezza di quelli che sarebbero stati suoi fedeli; e l’ eresia presente, dispettandoli tutti, tutti li prevarica iniquamente. Di che quale sarà la conseguenza? Che con questa riforma si viene a negare l’un dopo l’altro ogni articolo della legge cristiana e ad annientare tutto il Cristianesimo. In prova di che fingete pure che costoro osservassero quella legge qualunque di probità naturale che si propongono, e di cui sola si contentano, sarebbero così ancora Cristiani? Nulla meno. Imperocché un poco di probità naturale, l’amore umanitario degli uomini, il sentire la propria dignità, il rispettarsi, e cento altre di queste virtù, possono stare ottimamente in un Gentile, che mai non ha inteso parlare di Gesù Cristo. – Cristianesimo è muoversi per fede, è aspirare ai beni eteni colla speranza, è operare per carità. Cristianesimo è star sottomessi al sommo Pontefice, ai Vescovi che Dio ha proposti a reggere la Chiesa. Cristianesimo è praticare quelle virtù speciali che Gesù Cristo portò al mondo ed insegnò ai mortali, la purezza, l’umiltà, il distacco dai beni terreni, l’amore soprannaturale di Dio e del prossimo. Cristianesimo è onorare Iddio non a capriccio, ma con quei modi determinati da Gesù, quali sono il sacrifizio della Messa, l’orazione, la partecipazione all’Eucaristia ed agli altri sacramenti nei tempi e modi da Lui assegnati. Tutte quelle altre maniere possono esser buone prese in sè stesse, ma per un Cristiano al tutto non bastano. – Ed è evidente anche da ciò, che se queste bastassero, gl’insegnamenti di Gesù, il suo magistero, la grand’opera della fondazione della Chiesa, con tutti i tesori di grazie, onde la fece depositaria per nostro vantaggio, sarebbero affatto inutili. La croce di Gesù Cristo resterebbe, per parlare coll’Apostolo, pienamente invanita, e non porterebbe più un frutto che nol potesse portare allo stesso modo la nostra corrotta natura. E come no? Se bastavano quelle virtù senza le pratiche positive del Cristianesimo, i Gentili fino ad un cotal punto vi potevano pervenire. Certamente poi non era mestieri d’abrogare la legge dei Giudei, i quali avevano già tutti quegli obblighi imposti nella loro legge. Al naturalismo in religione doveva bastare la natura. Se Gesù è venuto sulla terra, se ci ha innalzati ad uno stato soprannaturale per essere seguaci suoi, bisogna ammettere tutto quello che costituisce la detta elevazione e perfezione. Dio buono! che sorta di errore è mai questo! È la distruzione pratica di tutto il Cristianesimo. – Eppure in questo errore giacciono turpemente Cristiani senza fine. Io ve ne accennerò alcune schiere, perchè le possiate meglio conoscere. – Vi sono in primo luogo quei protestanti, i quali di negazione in negazione son pervenuti fino al razionalismo, dei quali è piena l’Allemagna, che, non accettando più dalle mani di santa Chiesa quel che devono credere ed operare, non si guidano se non se con la cortissima loro ragione, e praticamente trascinati poi dalle passioni non esercitano più nessun culto. Vi sono anche tra i Cattolici quei mondani, i quali tutti immersi nella grande opera di far danari o di sollazzarsi continuamente, non conoscono più neppur quello che sia Cattolicesimo, e non vivono diversamente dai protestanti. Vi sono di quelli che pur conoscono alcun poco le dottrine cattoliche, ma essendo carnali, femminieri, dediti al senso ed alla voluttà, per non contristare la loro carne, e non diminuire i loro diletti, si danno attorno a persuadere sè ed altrui, che non sono essi che hanno da piegarsi alle esigenze della religione, ma che la religione dee piegarsi alle loro. Vi sono dei progressisti fanatici, i quali, piena la mente delle mirabilità del progresso, hanno bisogno per farsi passare quali filosofi, di declamare tutto giorno che la religione ha da avanzare. – Vi sono dei riformatori, i quali pensano che, come si ha da ristorare la politica e metterla in armonia con la civiltà moderna, così si ha da fare altrettanto colla religione. – Vi sono poi certi fanciulloni di università, i quali, per fare i maestri addosso al padre, alla madre ed alle sorelle nella famiglia, non trovano altro mezzo che quello di scaraventare le più strane proposizioni contro le divine istituzioni del Cristianesimo. – Credereste? vi ha persino delle donne, che, piene di vanità fin nelle viscere e svogliate al tutto delle pratiche religiose, che mal possono combinare col lusso sformato, colle genialità, colle tresche e colle dissolutezze, onde son contaminate, hanno bisogno di far passare sotto colore filosofico la non curanza dei doveri religiosi ed il segreto dispetto che loro portano. Vi ha persino qualche ecclesiastico, il quale, avendo bisogno di farsi perdonare dal mondo il collare che porta, dichiara e propaga che si può combinare la religione col secolo, purché si distingua il Cattolicismo dal gesuitismo, le pratiche superstiziose dalle religiose, il culto sincero dalle forme estrinseche onde si riveste, e, che so io. – Tutti costoro, qual più, qual meno, sono in questo errore spaventosissimo ed in questa pratica negazione del Cristianesimo. Per spogliarlo delle sue asperità e durezze gli tolgono quello che è a lui essenziale e vitale, cioè tutto quello che Gesù Cristo ha apportato sulla terra di positivo, tutto quello che più espressamente ha voluto da noi. Ecco dove ricade poi finalmente l’ammodernare la religione, il raffazzonarla, il conciliarla col secolo e colla civiltà.

IL CATECHISMO DI SPIRAGO (XIII)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (XIIi)

CATECHISMO POPOLARE O CATTOLICO SCRITTO SECONDO LE REGOLE DELLA PEDAGOGIA PER LE ESIGENZE DELL’ETÀ MODERNA

DI

FRANCESCO SPIRAGO

Professore presso il Seminario Imperiale e Reale di Praga.

Trad. fatta sulla quinta edizione tedesca da Don. Pio FRANCH Sacerdote trentino.

Trento, Tip. Del Comitato diocesano.

N. H. Trento, 24 ott. 1909, B. Bazzoli, cens. Eccl.

Imprimatur Trento 22 ott. 1909, Fr. Oberauzer Vic. G.le.

PRIMA PARTE DEL CATECHISMO:

FEDE (9).

2-7 Art. del Simbolo: Gesù Cristo. (4)

7. LA PERSONA DEL SALVATORE.

Gesù Cristo nostro Salvatore è il Figlio di Dio fatto uomo, e quindi Dio stesso.

I. L’incarnazione del Figlio di Dio.

I pagani stessi avevano il presentimento che la divinità sarebbe discesa tra gli uomini per conversare con loro. La loro mitologia, ad esempio la storia di Tantalo, parla di visite agli uomini da parte degli dei. Ma Dio ora è veramente disceso sulla terra (S. Giovanni III, 10) all’Annunciazione della nascita di Gesù Cristo.

1. LA SECONDA PERSONA DIVINA HA ASSUNTO L’UMANITÀ NEL GREMBO DELLA VERGINE MARIA, PER OPERA DELLO SPIRITO SANTO AL MOMENTO DELL’ANNUNCIAZIONE.

Il Figlio di Dio ha poi accettato un’anima ed un corpo umani, come una sorta di veste per manifestarsi sulla terra. Nella sua incarnazione, Egli è arrivato da Dio come un sole: i nostri occhi possono guardarlo senza essere abbagliati solo quando è coperto dalle nuvole, così Dio si è circondato della nube della carne per mostrarsi ai nostri deboli occhi corporei. (L. de Grenade). Il pensiero umano si riveste di parola per comunicarsi al mondo esterno, così Dio si è rivestito della natura umana (corpo e anima) per rendersi visibile agli uomini; il Verbo (cioè il Figlio di Dio) si è fatto carne (uomo) ed abitò tra noi (visse 33 anni tra gli uomini). (S. Giovanni, I, 14). – L’incarnazione ha avuto luogo nel momento in cui Maria ha detto all’Arcangelo: “Mi sia fatto secondo la tua parola” (S. Luca, I, 38). Questa parola di Maria ha attirato il Verbo divino (San Bernardo), e la seconda Persona della Trinità discese nel grembo della Vergine Maria, come il sole si riflette sulla superficie di un mare calmo. È un’eresia credere che l’umanità di Cristo sia stata formata per prima e che il Figlio sia stato unito ad essa in seguito; o credere che Cristo abbia portato il suo corpo dal cielo (eresia dei Valentiniani). Cristo ha preso il suo corpo dalla B. Vergine Maria, è stato fatto da una donna, dice S. Paolo (Gal. IV, 4) ed è della razza di Davide secondo la carne (Rom. I, 3). Indubbiamente, il Figlio dell’uomo è disceso dal cielo (S. Giovanni III, 13), ma per quanto riguarda la sua Persona e non la sua umanità. – Non è necessario nemmeno credere che l’essenza divina, comune alle tre Persone, sia scesa dal cielo per unirsi alla natura umana, cioè il corpo e l’anima; in questo caso le tre Persone si sarebbero incarnate e sarebbe già stato impossibile, perché questa incarnazione avrebbe prodotto un cambiamento nella divinità, che è una supposizione assurda, data l’immutabilità di Dio. Solo una Persona della Trinità, il Figlio, ha assunto l’umanità. Dio (una Persona divina), ma non la divinità, si è fatto uomo. Per certo, la natura divina è intimamente unita alla natura umana, attraverso la Persona del Figlio. – Tuttavia, è fuori di dubbio che le tre Persone divine abbiano cooperato all’incarnazione; infatti, tutti gli atti esterni di Dio sono compiuti dalla natura divina, che è comune alle tre Persone. –

L’INCARNAZIONE È PROPRIAMENTE L’OPERA DELLE TRE PERSONE DIVINE.

Tutte e tre hanno creato un corpo e un’anima umani e li hanno uniti alla seconda Persona. Le tre Persone divine hanno rivestito una di esse di umanità, come tre fratelli che si aiutano a vicenda per coprire uno di loro con una veste. In una lira, la corda da sola produce il suono piacevole – dice S. Agostino – eppure sono in tre a collaborare alla produzione di questo suono: la mano, la corda e l’abilità dell’artista. Solo la seconda Persona si è fatta carne e si è resa visibile, eppure tutte e tre le Persone hanno cooperato. Il corpo e l’anima aiutano l’uomo a nutrirsi, eppure il nutrimento si unisce solo al corpo; allo stesso modo le tre Persone hanno agito di concerto nell’incarnazione, anche se la natura umana era unita solo alla seconda Persona. – Tuttavia, l’incarnazione è attribuita allo Spirito Santo, perché è la più grande opera dell’amore di Dio, le cui manifestazioni sono sempre attribuite allo Spirito Santo, cioè all’amore del Padre e del Figlio. (Cat. rom.) – I Dottori della Chiesa ritengono che anche il Padre e lo Spirito Santo avrebbero potuto incarnarsi; ma è stato il Figlio dell’uomo, che da tutta l’eternità è il Figlio di Dio, Colui che è l’immagine sovranamente perfetta di Dio, a ripristinare nell’uomo l’immagine soprannaturale di Dio, distrutta dal peccato.

2. IL PADRE di GESÙ È DUNQUE DIO NEI CIELI; GIUSEPPE, IL MARITO DI MARIA, È SOLO IL SUO PADRE ADOTTIVO.

Cristo è dunque il Figlio di Dio, non solo perché è la seconda Persona della Trinità, ma anche perché Dio ha creato la sua umanità, (Grég. M.). – Nella prima profezia sul Salvatore, nel Protovangelo, Cristo è chiamato discendente di Dio.

Vangelo, Cristo è chiamato figlio della Donna e non dell’uomo (Gen. III, 15J). Cristo stesso si è chiamato Figlio dell’uomo, cioè figlio di un’unica persona umana (S. Matth. XXVI, 64). Nella genealogia di Cristo, S. Matteo cita solo gli antenati di Maria, ma non quelli di Giuseppe (S. Matth. 1,16), eppure Gesù era considerato da molti come figlio di Giuseppe (S. Luca III, 23). Giuseppe era il marito di Maria, solo per salvaguardare l’onore di Gesù e di Maria davanti agli uomini e di provvedere alla loro sicurezza e al loro mantenimento. Di più, Dio voleva ancora nascondere il mistero dell’Incarnazione agli uomini, perché ne sarebbero stati scandalizzati. – Giuseppe era un artigiano (falegname) (S. Matth. XIII, 65); era giusto, cioè conduceva una vita santa (S. Matth. 1,19): era, dice S. Gerolamo, perfetto in ogni tipo di virtù. La sua santità era così grande perché era molto vicino alla fonte di ogni santità, così come l’acqua diventa più limpida quanto più si avvicina alla fonte (S. Thom. Aq.); si distingueva soprattutto per la sua castità che eguagliava la purezza degli Angeli e superava quella di tutti i Santi (S. Fr. de Sales); per questo è raffigurato con un giglio in mano. S. Giuseppe era pieno di di grazie; Dio gli concesse un onore che i re e i Profeti avevano bramato senza mai ottenerlo; gli fu concesso di portare Gesù in braccio, baciarlo, parlargli, vestirlo… di nutrirlo, di proteggerlo (S. Bern.; Pio IX). Giuseppe fu chiamato padre da Colui il cui Padre era Dio (S. Bas.). Molti santi pensano che egli abbia un rango in cielo, come marito della Regina dei cieli, che sarebbe molto invocato verso la fine del mondo. e che allora darebbe prova dell’efficacia della sua intercessione. (Anche Giuseppe in Egitto tardava a farsi riconoscere dai suoi fratelli). – S. Giuseppe è il patrono della Chiesa (Pio IX, 8 dicembre 1870), cioè la Chiesa si è posta sotto la sua speciale protezione presso Dio. È anche patrono della buona morte, perché chiede in modo particolare questa grazia per coloro che lo invocano: egli stesso infatti è morto di morte beata, perché Gesù e Maria lo hanno assistito. S. Giuseppe è anche invocato con successo nelle necessità temporali, perché ha provveduto al sostentamento del Salvatore. San Tommaso dice che questo santo ha ottenuto da Dio di aiutarci in ogni tipo di necessità, e Santa Teresa (+1582) dichiara che tutte le sue preghiere a questo santo, nei momenti di bisogno dell’anima e del corpo, venivano sempre esaudite. S. Alfonso lo invocava ogni giorno ed i missionari si rivolgono a lui con giustificata fiducia. La Chiesa lo colloca nel suo culto subito dopo la Beata Vergine, e quindi prima di tutti gli altri Santi (Congreg. des Riti, 8 dic. 1870).

3. L’incarnazione del Figlio di Dio è un mistero, perché non possiamo mai comprenderla, ma solo ammirarla e adorarla.

Già il profeta Isaia (LIII, 8) aveva dichiarato che la venuta del Salvatore era inenarrabile. La concezione e l’incarnazione di Gesù sono più misteriose della fioritura della verga secca di Aronne, che produsse foglie, fiori e frutti (mandorle) (S. Aug.). “Chiudi gli occhi, ragione, perché puoi sostenere lo splendore di questo mistero soltanto sotto il velo della fede, proprio come l’occhio del corpo non può sostenere la luce del sole senza il velo della nube”. (S. Bern.) “Io so – dice S. G. Cris. – che il Figlio di Dio si sia fatto uomo, ma non so come si sia fatto uomo”. Ecco alcuni paragoni che si riferiscono all’Incarnazione: “La divinità e l’umanità erano unite in Cristo come l’anima e il corpo nell’uomo”(Symb. Ath.); se la materia e lo spirito, che differiscono così radicalmente, possono essere uniti nell’uomo, a maggior ragione la divinità e l’umanità possono essere unite in Lui poiché hanno una certa somiglianza. Anche l’umano ha la sua incarnazione; la parola è prima di tutto pensiero, quindi qualcosa di spirituale, ma quando vuole comunicare se stessa, viene incorporata nella voce, diventa una parola sensibile e viene ascoltata da molti. Nonostante questo il mio pensiero non ha cessato di appartenere a me; così il Verbo di Dio è diventato visibile a molti uomini, senza cessare di essere con il Padre” (S. Aug). I seguenti paragoni sono delle figure del concepimento di Gesù Cristo. Dio ha formato il corpo di Cristo con il sangue di Maria, come trasse Eva da Adamo formato dalla terra (S. Isid.) L’incarnazione assomiglia alla produzione dei primi frutti al momento della creazione: le prime piante produssero i primi chicchi, per l’onnipotenza di Dio senza alcuna cooperazione da parte dell’uomo. –

Dobbiamo adorare il mistero dell’Incarnazione con il suono dell’Angelus.

Il sorgere e il tramontare del sole sono un vivido ricordo dell’Incarnazione e della morte di Cristo, luce del mondo. Le parole dell’Angelus ci ricordano il colloquio tra Maria e l’Angelo. – In ogni Messa in cui si recita il Credo, il Sacerdote piega il ginocchio alle parole: Et incarnatus est; così pure nell’ultimo Vangelo, alle parole: Et Verbum caro factum est. Questa genuflessione è un atto di adorazione del mistero dell’Incarnazione. – Nella Messa solenne di Natale e nella festa della Annunciazione (25 marzo), tutto il coro si inginocchia al suddetto passaggio. del Credo e china il capo. – Gli Angeli stessi adorano questo mistero. “Gli uomini – dice S. Efrem rivolgendosi a Cristo – confessano la tua divinità. gli Angeli adorano la tua umanità. Questi si meravigliano della tua bassezza, quelli della tua grandezza”.

4. L’INCARNAZIONE DEL FIGLIO DI DIO ERA NECESSARIA PER ESPIARE PERFETTAMENTE L’OFFESA FATTA ALLA MAESTÀ DI DIO..

Indubbiamente, Dio avrebbe potuto salvare gli uomini altrimenti che con l’Incarnazione; avrebbe potuto glorificare la sua bontà, accontentandosi di una soddisfazione insufficiente o addirittura perdonare il peccato senza alcuna soddisfazione. S. Agostino scriveva: “Ci sono degli stolti che considerano la sapienza divina incapace di salvare gli uomini se non attraverso l’Incarnazione, la nascita del Figlio da una donna, la sua passione dolorosa. Dio avrebbe potuto agire diversamente”, ma come vediamo dalla morte del Salvatore, Dio ha preteso una soddisfazione perfetta; gli è piaciuto glorificare la sua giustizia e non la sua bontà. E solo un Uomo-Dio poteva fornire una perfetta riparazione. La grandezza dell’offesa è sempre misurata dalla grandezza della persona., un’offesa nei confronti di Dio è infinita e, di conseguenza, nessuna creatura, nemmeno l’Angelo più perfetto, è in grado di riparare pienamente. Si richiede l’intervento di un essere infinito, cioè Dio stesso. La salvezza dell’uomo ha quindi richiesto l’Incarnazione (S. Anselmo); Dio da solo non poteva soffrire, l’uomo da solo non poteva redimere, ed è per questo che Dio si unisce all’umanità. (S. Proclo). Quando un ritratto irriconoscibile deve essere restaurato, l’originale è obbligato a posare di nuovo. È così che Dio è dovuto scendere dal cielo per restaurare l’uomo fatto a sua immagine e somiglianza. (S. Athan.).

Per soddisfare perfettamente la maestà divina offesa, il Dio-Uomo è apparso sulla terra in uno stato di abbassamento.

Se fosse apparso in tutto lo splendore della sua maestà, il Re della gloria non sarebbe stato crocifisso. (I Cor. XI:8). In un certo senso, Cristo ha imitato il re ateniese Codro. L’oracolo di Delfi aveva dichiarato che gli Ateniesi sarebbero stati vittoriosi se il loro re fosse stato ucciso dai nemici. Codro si travestì da schiavo ed entrò nell’accampamento nemico, dove fu ucciso. Quando vennero a sapere che avevano soddisfatto le condizioni dell’oracolo, si spaventarono e fuggirono. I profeti avevano anche predetto che l’umanità sarebbe stata salvata dalla morte del Re della Gloria. Egli prese la forma di uno schiavo, apparve nel mondo, non fu riconosciuto e fu ucciso. Quando gli spiriti maligni videro chi avevano ucciso attraverso i loro servi, fuggirono. (Deharbe). Se un re voleva mostrare le sue abilità di combattimento ed entrare nell’arena, doveva deporre tutti i segni della sua dignità, altrimenti nessuno avrebbe osato accettare la sua sfida; si sarebbe rivelato solo alla fine. È così che agisce il Figlio di Dio (Luigi de Gren.), ma tornerà con grande potenza e maestà. (S. Matth. XXVI, 64). È impossibile affermare in modo assoluto che il Figlio di Dio si sia fatto uomo, anche se gli uomini non avessero peccato; sappiamo solo che l’Incarnazione sia avvenuta dopo il peccato per salvare l’umanità. Tuttavia Dio, essendo onnipotente, avrebbe potuto incarnarsi anche senza peccato. Questa incarnazione avrebbe prodotto l’unione più intima degli uomini con Dio (S. Th. Aq.).

5. IL FIGLIO È SEMPRE RIMASTO DIO, NONOSTANTE L’INCARNAZIONE, NON HA PERSO NULLA DELLA SUA MAESTÀ.

Diciamo che il Figlio di Dio sia sceso sulla terra, ma questo non significa che abbia lasciato il cielo. Quando una stella diventa visibile, quando comincia a esistere per il nostro occhio, rimane nel firmamento, così il Verbo non ha lasciato la gloria del cielo quando si è fatto uomo. (Deharbe). La luminosità del sole non viene distrutta dalle nuvole, ma solo velata; allo stesso modo la divinità di Cristo non è annientata dalla sua umanità, ma solo nascosta, (S. Ambr.) Quando il verbo del nostro spirito, il pensiero, è tradotto esternamente dal linguaggio, non cessa di essere il pensiero della nostra intelligenza; allo stesso modo il Verbo di Dio, diventando visibile, non ha cessato di essere con il Padre. (S. Aug.). La parola, la parola che rivolgiamo a qualcuno, non è percepita solo da quella persona, ma da tutti coloro che la ascoltano, e così il Verbo divino, unendosi all’umanità, non è rimasto confinato in essa per non riempire il cielo e la terra con la sua presenza. (Deharbe). Cristo si è fatto uomo in modo tale da non cessare di essere Dio. Dio, attraverso l’incarnazione, non ha perso nulla della sua maestà. I raggi del sole possono asciugare una fogna senza macchiarsi. Dio ha potuto allearsi con il corpo casto di Maria senza riceverne alcuna macchia la divinità purifica tutto, senza essere macchiata da nulla (S. Odilone). Se un principe che ha indossato l’abito di uno schiavo raccogliesse un anello prezioso caduto nel fango e lo mettesse al dito, non perderebbe nulla del suo onore; così il Figlio di Dio non ha disonorato se stesso prendendo la forma di uno schiavo, per scendere tra gli uomini, salvare le loro anime e renderle sue proprietà. (Tert.) Una veste potrebbe essere troppo ordinaria per un monarca, se non fosse ricamata con oro, perle e pietre preziose; allo stesso modo la natura umana, sporcata dal peccato, sarebbe stata indegna del Figlio di Dio, ma non del corpo immacolato della Vergine. – Quando S. Paolo dice che Gesù Cristo annientò se stesso e prese la forma di uno schiavo (Fil. II, 7), non intende dire che Dio abbia perso una perfezione della la divinità, ma che si sia abbassato assumendo la natura umana e che così facendo ci abbia dato un esempio di umiltà.. (Ibid. 8).

6. CON L’INCARNAZIONE DEL FIGLIO DI DIO, L’INTERO GENERE UMANO È STATO INNALZATO AD UN’ALTA DIGNITÀ.

Il sole illumina con i suoi raggi tutti gli oggetti esposti. Così Cristo diffonde il suo fulgore divino su tutti gli uomini tra i quali ha conversato per 33 anni. La natura umana adottata dal Figlio di Dio è come il lievito che penetra in tutta la pasta (S. Matth. XIII, 33); Cristo è la vite, noi siamo i tralci (S. Giovanni X, 1). – In un certo senso siamo superiori agli Angeli; benché essi non siano soggetti alla morte ed alla malattia, non hanno Dio come fratello; se ne fossero capaci, sarebbero invidiosi di noi. “Il sommo padrone prese la forma di schiavo, perché lo schiavo diventasse libero” (S. Amb.). Il Figlio di Dio si è fatto Figlio dell’uomo, perché i figli dell’uomo diventino figli di Dio (S. Athan.). Quanto è preziosa la redenzione, visto che l’uomo sembra valere quanto Dio! – Perciò non sporchiamo mai la nostra dignità divina con il peccato; non svergogniamo Gesù Cristo; non facciamo mai ciò che è buono solo per il diavolo.

Quali sono le verità da concludere dal mistero dell’Incarnazione?

1. CRISTO È ALLO STESSO TEMPO VERO DIO E VERO UOMO; PER QUESTO LO CHIAMIAMO DIO-UOMO.

Ogni essere possiede la natura di quello da cui trae origine. Dall’origine umana il bambino riceve la natura umana. Cristo ha una doppia origine: con la sua origine da Dio Padre, possiede la natura divina; con la sua origine da Maria, ha acquisito la natura umana. Cristo ha sempre vissuto in modo tale da mostrarci che Egli è Dio e uomo (S. Aug.) A volte si è attribuito la divinità e a volte l’umanità. Il Padre, ha detto, è più grande di me (S. Giovanni XIV, 28), quindi “il Padre e Io siamo una cosa sola”. (ibid. X, 30). Come Dio, chiama Maria: Donna (a Cana e sulla croce); come uomo, la chiama: Madre. Egli stesso si è definito Figlio di Dio e Figlio dell’uomo.

Cristo come uomo è quindi simile a noi tranne il peccato (Concilio di Calcedonia).

“Cristo – dice S. Paolo – divenne in tutto simile ai suoi fratelli” (Eb. II, 17). Egli si è fatto simile agli uomini ed è stato riconosciuto come uomo da tutto ciò che appariva di Lui all’esterno. (Phil. II, 7). Cristo aveva un corpo umano come noi. Egli aveva le nostre necessità materiali, ha sentito la fame e la sete, ha mangiato, bevuto e dormito; ha sentito la gioia, ha pianto, ha sofferto ed è morto. Aveva quindi un corpo reale, e non solo l’apparenza di un corpo, come sosteneva l’eresia docetista. – Cristo aveva un’anima umana, e quindi un’intelligenza umana, perché dice di ignorare il tempo dell’ultimo giudizio (S. Marco XIII, 32) ed una volontà umana, perché prega: “Padre, non la mia volontà, ma la tua sia fatta”. (S. Luca, XXII, 42). Alla sua morte Cristo ha messo la sua anima nelle mani del Padre (ib. XXIII, 46). È quindi un’eresia credere che Gesù Cristo avesse soltanto un’anima sensibile, ma non un’anima ragionevole, come sosteneva Apollinare, che peraltro aveva ben meritato la fede con i suoi scritti contro gli ariani. – S. Paolo chiama Cristo uomo celeste, in contrasto con Adamo, l’uomo terreno che era stato formato dalla terra (1 Cor. XV, 47), perché il corpo di Cristo è stato miracolosamente formato dallo Spirito Santo dal corpo della Vergine, e che già sulla terra aveva rivelato le celestiali perfezioni di un corpo glorificato. (Trasfigurazione, cammino sulle acque).

2. IN CRISTO CI SONO DUNQUE DUE NATURE, LA NATYRA DIVINA E LA NATURA UMANA. Malgrado la loro intima unione, una sussiste accanto all’altra, senza mescolarsi con essa.

La natura è l’insieme delle facoltà insite in un essere; la persona è colui che mette in atto queste facoltà. Ciò che è comune a tutti gli uomini è la natura; ciò per cui l’uomo è un individuo, un essere che sussiste in sé, è la persona. La natura può essere comunicata a molti individui, ma non la persona. – Come un lingotto di ferro e un lingotto d’oro fuso si uniscono senza fondersi, così le due nature. di Cristo. -La natura umana non è stata quindi trasformata nella natura divina, come l’acqua si è trasformata in vino a Cana. Perché un essere finito e cangiante, non può essere trasformata in un essere immutabile e infinito. – Né la natura è stata assorbita dalla natura divina, come una goccia di miele viene assorbita dall’oceano, o un granello di cera dal fuoco (eresia di Eutiche, condannata dal Concilio di Calcedonia, 451). – L’unione delle due nature ha prodotto una terza natura, come, per esempio, l’idrogeno con l’ossigeno forma l’acqua, perché Dio è assolutamente immutabile.

Il Cristo ha dunque una doppiascienza, una scienza umana ed una scienza divina.

Come Dio, conosce tutto, anche i pensieri degli uomini, come uomo afferma di non conoscere né l’ora né il giorno dell’ultimo giudizio. (S. Marc. XIII, 32).

Anche Cristo ha una doppia volontà, una divina e una umana, anche se quest’ultima è completamente soggetta alla volontà divina. (III Concilio di Costantinopoli, 680).

L’esistenza di una volontà umana in Cristo è dimostrata dalla sua preghiera nell’Orto degli Ulivi: “Padre, non la mia volontà ma la tua sia fatta”. (S. Luc. XXII, 42). La sottomissione della volontà umana a quella divina emerge da queste parole: “Non cerco la mia volontà, ma quella di Colui che mi ha mandato”. (S. Giovanni, V 30). Questa volontà di Cristo morente può essere paragonata a quella di un malato che deve essere operato. La sua volontà è riluttante a sottoporsi all’operazione a causa delle sofferenze da sopportare, eppure si sottomette alla volontà del medico.

3. IN GESÙ CRISTO C’È UNA SOLA PERSONA LA PERSONA DIVINA.

Due occhi fanno una sola vista, due orecchie un solo udito. (Arnobio). L’anima ragionevole e il corpo sono un solo uomo, così Dio e l’uomo sono un solo Cristo (Simbolo di Sant’Atanasio). Nell’uomo il corpo sussiste solo grazie all’anima, e senza di essa cade nella polvere, così in Cristo la natura umana sussiste solo attraverso la Persona divina. – Sebbene la natura umana di Cristo non sussista in una persona umana ma divina, non per questo è imperfetta; al contrario, è diventata molto più perfetta. Il corpo, attraverso l’unione con l’anima, diventa più perfetto del corpo degli animali, così la natura umana diventa più perfetta attraverso la sua unione con il Verbo divino più perfetta rispetto a tutti gli altri uomini. Così il corpo di Cristo aveva qualità soprannaturali (ad esempio nella trasfigurazione). – Nell’uomo, il corpo è lo strumento attraverso il quale opera l’anima, così la natura umana è lo strumento attraverso il quale agisce la Persona divina. Tuttavia, l’umanità non è uno strumento inanimato, come la penna dello scrittore, ma è viva ed ha una sua attività distinta, come il fuoco che riscalda e illumina. (Esiste quindi una scienza ed una volontà umana distinta dalla scienza e dalla volontà divine). La natura umana di Cristo non è lo strumento della Persona divina come i Profeti, gli Apostoli, ecc. erano nelle mani di Dio; non erano intimamente uniti a Dio come l’umanità di Cristo. L’occhio e la mano sono strumenti intimamente uniti a noi, ma non la penna, la spada, ecc. È lo stesso che l’uso dei Profeti e degli Apostoli come strumenti di Dio. Essi non furono intimamente uniti a Dio come Cristo. – In Lui, quindi non abbiamo una Persona divina accanto ad una persona umana, un Cristo Dio accanto ad un Cristo uomo, in modo che la divinità, risieda in un uomo particolare come in un tempio, così come risiede nelle anime dei giusti. (Eresia di Nestorio, Patriarca di Costantinopoli, condannata al Concilio di Efeso: 431). Dal momento che la natura divina e la natura umana sono indissolubilmente unite nella Persona divina, ne consegue che:

1. Che Cristo stesso, in quanto uomo, è il Figlio di Dio.

Dio, dice S. Paolo, non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha offerto per tutti noi” (Rom. VIII, 32).

2. Maria, la Madre di Cristo, è veramente la Madre di Dio.

Maria ha partorito Colui che è Dio; è quindi la Madre di Dio. Elisabetta l’aveva già chiamata Madre del Signore. (S. Luc. ï f 43). L’eresia di Nestorio che sosteneva che si potesse chiamare solo la madre di Cristo, fu condannata dal Concilio di Efeso nel 431: “Se Nostro Signore Gesù Cristo è Dio – dice San Cirillo – come può la Beata Vergine che lo ha partorito non essere la Madre di Dio? Anche se il bambino non ha l’anima dalla madre, quest’ultima è tuttavia chiamata madre del bambino, così Maria è chiamata Madre di Dio, anche se non ha dato a Cristo la sua divinità.

3. Che Cristo come uomo non poteva né peccare né ingannarsi.

Cristo non ha peccato né in atti né in parole (S. Pietro II, 22). La luce non tollera alcuna tenebra intorno a sé, così il Figlio di Dio non tollera nella sua natura umana (S. Grég. M.). – Cristo possedeva la perfetta sapienza e santità fin dalla sua nascita (Col. II, 3) e non poteva fare nessun progresso. Le parole di S. Luc.: “Gesù cresceva in età e grazia”, (II, 52) significano che, con l’avanzare dell’età, la sua sapienza e la grazia di Dio si manifestavano sempre più nelle sue parole e nelle sue azioni. “Gesù Cristo, il sole di giustizia, agisce come il sole che dall’alba al mezzogiorno diffonde sempre più luce (Deharbe). – La statura corporea e il portamento di Cristo dovevano essere maestosi (Ps. XLIV, 3), La gloria e la maestà della divinità celata sotto il velo della carne si riflettevano sul suo volto e gli conferivano una bellezza che attraeva e soggiogava tutti coloro che avevano la fortuna di vederlo. (S. Ger.).

4. Le azioni umane di Cristo hanno un valore infinito.

Le azioni di un re sono azioni umane, perché è un uomo, ma sono anche azioni regali, perché è un re. Allo stesso modo, le azioni umane di Cristo erano veramente umane per la realtà della sua umanità, ma anche divine perché è veramente Dio. “Un ferro rovente brucia non perché ha questa proprietà per sua natura, ma perché. è stato a contatto con il fuoco, così la carne di Cristo agisce divinamente, non di per sé, ma perché è unita alla divinità” (S. Gioov. Dam.). La più piccola preghiera, la più piccola sofferenza di Gesù sarebbe stata quindi sufficiente a salvare il mondo.

5. L’umanità di Cristo deve essere adorata.

Questa adorazione non si riferisce alla natura umana, ma alla Persona; Il bambino che bacia la mano del padre non adora la mano, ma il padre stesso (Deh.) Chi onora il re, dice il B. Tommaso d’Aq., lo venera con la porpora che indossa.; così noi adoriamo in Cristo l’umanità con la divinità che è inseparabile da essa. Il legno può essere toccato, ma non quando brucia. Così non si può adorare la carne in sé, ma la carne a cui Dio era unita. La Chiesa adora dunque le Piaghe di Gesù Cristo, il Sacro Corpo di Cristo, il Sacro Cuore di Gesù (come sede del suo amore), il Prezioso Sangue di Cristo.

6. È quindi possibile attribuire qualità umane a Cristo-Dio e qualità divine a Cristo-Uomo. (La teologia chiama questo mistero comunicazione di idiomi.; idioma in greco significa proprietà). S. Pietro poté quindi dire, dopo la guarigione del paralitico: “Avete crocifisso il Creatore della vita”. (Act. Ap. III, 15). S. Paolo, da parte sua, scrive: “Se lo avessero conosciuto, non avrebbero crocifisso il Re della gloria”. (I Cor. II, 8), e S. Giovanni aggiunge: “Da questo conosciamo l’amore di Dio”, che ha dato la vita per noi” (I Ep. II, 15). (I Ep. II, 15). Poiché la seconda Persona divina è sia Dio che uomo, tutto ciò che si dice di questa Persona divina può essere detto anche di Cristo come uomo, ad esempio: quest’uomo sa tutto, è onnipotente. Ciò che possiamo attribuire a Cristo come uomo, possiamo attribuirlo anche alla seconda persona della Santissima Trinità, ad esempio che Dio ha sofferto, è morto per noi. Quando un uomo ha due qualità, la ricchezza e la misericordia, possiamo dire di lui: quest’uomo ricco è caritatevole, e quest’uomo misericordioso è ricco. Queste qualità si riferiscono alla sua Persona, che è ricca e caritatevole. Possiamo fare la stessa per Cristo in relazione alla sua Persona divina, che è Dio e uomo, che è qualità e proprietà divine e umane; possiamo quindi dire: questo morente è è Dio, questo morente è onnipotente, e così via. – Ma non si può dire: la divinità ha sofferto, è morta, perché questa parola designa la natura divina, che non ha sofferto. “Sebbene la divinità fosse in colui che soffriva, non era Essa a soffrire”. Il sole non viene colpito perché un albero illuminato da esso venga tagliato. Né la divinità è stata colpita dalle sofferenze dell’umanità. (S. G. Dam.).

II. GESÙ CRISTO È IL FIGLIO DI DIO..

Gesù Cristo è solitamente chiamato Figlio unigenito del Padre, ed è stato Lui stesso a darsi questo nome (S. Giovanni III, 10). Egli porta questo nome, in primo luogo perché è la seconda Persona della Santa Trinità che è unica, poi perché si distingue da tutti gli Angeli e da tutti i Santi, che sono anche chiamati figli di Dio. Dio infatti non si è sostanzialmente uniti a loro (Fil. II, 6), li ha solo resi suoi figli per adozione. (Gal. IV, 5). Cristo, in quanto Figlio unigenito di Dio, non voleva rimanere solo, ha voluto avere dei coeredi, sapendo che la sua eredità non sarebbe stata diminuita dall’aumento del numero dei partecipanti (S. Amb.).

1. Gesù Cristo affermò con giuramento davanti al sommo sacerdote di essere il Figlio di Dio (Matth. XXVI, 64).

Si attribuì questo titolo anche nel colloquio con il cieco-nato (S. Giovanni IX, 27).

2. Dio Padre chiamò Gesù suo Figlio, al momento del battesimo nel Giordano e della sua trasfigurazione sul monte (S. Matth. III, 17; xvu, 5).

3. Nell’annunciare a Maria la nascita di Gesù, (S. Luc. 1, 32) l’Arcangelo Gabriele lo chiamava già Figlio dell’Altissimo.

4. Anche Pietro lo chiamava Figlio del Dio vivente ed fu per questo elogiato da Gesù (S. Matth. XVI, 16).

5. Anche i demoni al momento di essere espulsi dai posseduti gridavano: “Gesù, Figlio di Dio, cosa vuoi da noi? Sei venuto a castigarci prima del tempo?” (S. Matth. Vlll, 29).

III. GESÙ-CRISTO È DIO STESSO.

I Profeti avevano già scritto: Dio stesso verrà a salvarci. (Is. XXXV, 4). Lo stesso Profeta aveva detto che il bambino destinato alla salvezza del mondo sarebbe stato Dio stesso (ib. IX, 6). – L’eretico Ario negava la divinità di Cristo. Egli fu condannato al Concilio di Nicea (325), che dichiarò che Cristo è consustanziale al Padre e quindi Dio. Ario morì improvvisamente durante una festa pubblica e il suo corpo scoppiò come quello di Giuda (336). La nostra fede nella divinità di Gesù Cristo deve essere molto salda e molto forte, perché tutta la religione poggia su questo dogma. Quando il giovane ricco disse a Gesù: “Maestro mio buono”, Gesù rispose: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”. (S. Luc. XVIII, 19). Con questo Gesù voleva fargli capire che sopra ogni cosa doveva confessare la sua divinità, che senza quella tutto il resto non aveva valore.

1. LA DIVINITÀ DI GESÙ CRISTO È DIMOSTRATA DAL SUO INSEGNAMENTO E DALL’INSEGNAMENTO DEI SUOI APOSTOLI.

Al momento dell’Ascensione Egli disse: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” (S. Matth. XXVIII, 18); così come nella festa della Dedicazione disse: “Io e il Padre siamo una cosa sola ” (S. Giovanni X, 30), cosa che i Giudei consideravano una bestemmia per la quale volevano lapidarlo (ibid. 33). Inoltre, Cristo attribuisce a se stesso perfezioni e opere che sono appropriate solo a Dio; 1° l’eternità, dicendo di sé stesso: “Padre, glorificami con la gloria che avevo in te prima che il mondo fosse” (S. Giovanni XVII, 5), oppure: “Io sono prima che Abramo (ibid. VIII, 58); 2° il potere di perdonare i peccati: perdona i suoi peccati a Maddalena (S. Luc. VII, 48) ed al paralitico (S. Matteo, 2); 3° Egli è chiamato resurrezione (S. Giovanni V, 28), il Giudice dell’universo (S. Matth. XXV, 31); l’autore di ogni vita (S. Giovanni XI, 25), quando dice: “Se uno osserva la mia parola, non morirà mai”. (ibid. VIII, 51). – Gli Apostoli credettero fermamente e confessarono altamente la divinità di Gesù. Tommaso, vedendolo risorto, esclamò: “Mio Signore e mio Dio!” (ibid. XX 28). E S. Agostino dice di San Tommaso: “Vide l’umanità e confessò la divinità”. Tutta la pienezza della divinità, scriveva San Paolo ai Colossesi (II, 9), abita in lui corporalmente”; “per mezzo di lui tutte le cose sono state create, Egli è prima di tutto e tutte le cose sussistono in Lui”. (ibid. I, 16).

2. LA DIVINITÀ DI GESÙ CRISTO È DIMOSTRATA DAI SUOI MIRACOLI E DALLE PROFEZIE.

Il gran numero e la varietà dei miracoli compiuti da Gesù Cristo nel suo stesso nome dimostrano la sua onnipotenza. Questi miracoli possono essere suddivisi in 5 classi: l° miracoli nella natura inanimata (il cambiamento del vino in acqua, la moltiplicazione dei pani, il placarsi della tempesta, il camminare sull’acqua, ecc.); 2° guarigioni di malati (ciechi, muti, lebbrosi, paralitici); 3° le risurrezioni dei morti (la figlia di Giairo nella sua casa, il figlio della vedova di Naim alle porte della città, Lazzaro nel suo sepolcro); 4° l’espulsione dei demoni dagli indemoniati, che erano molto numerosi ai suoi tempi; 5° miracoli nel suo stesso corpo (la risurrezione, l’ascensione). – Il Cristo dimostrò così di avere il potere di comandare tutta la natura, in una misura che nessuno inviato da Dio aveva prima di lui. – I messaggeri di Dio compiono miracoli nel suo Nome (ad esempio, Pietro e Giovanni alla porta del tempio), ma Cristo operò in Nome proprio. Non disse: “Nel Nome di Dio, alzati” o simili, ma semplicemente: “Giovane, io ti dico, alzati”(S. Luc. VII, 14); “lo voglio, sii guarito” (S. Matth. VIII, 3); “Silenzio! Taci”. (S. Marco IV, 39). Quando Gesù prega dapprima il Padre suo, lo fa per allontanare il sospetto di essere uno strumento del principe dei demoni. (Benedetto XIV). – I miracoli attribuiti ai fondatori delle false religioni sono semplicemente ridicoli; Buddha deve aver cavalcato su un raggio del sole, la luna deve essere scesa davanti a Maometto e gli è passata per la manica; Apollonio di Tyana si dice che abbia trasportato tempeste in botti, creato alberi danzando, ecc. Che contrasto con la serena maestà di Cristo!

Le Profezie di Cristo sul suo stesso destino, sul tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro, la morte di Giovanni e Pietro la distruzione di Gerusalemme, i destini del popolo ebraico e della Chiesa sono una prova della sua onniscienza.

Cristo aveva predetto che sarebbe morto a Gerusalemme (S. Luc. XIII, 32), che sarebbe stato flagellato e crocifisso, ma che sarebbe risorto dopo 3 giorni (S. Matth. XX, 17); durante l’ultima cena annunciò che Giuda lo avrebbe tradito (S. Giovanni XIII, 26), che Pietro lo avrebbe rinnegato prima che il gallo avesse cantato tre volte (S. Matth. XXVI, 34). Dopo la sua resurrezione predisse a Pietro che sarebbe stato crocifisso, a Giovanni che sarebbe morto di morte naturale (S. Giovanni XX, 18). Dopo il suo ingresso solenne a Gerusalemme (S. Luca XIX, 41) e nel suo discorso sul Monte degli Ulivi sul Giudizio Universale, annunciò che dopo una generazione Gerusalemme sarebbe stata assediata, circondata da trincee e completamente distrutta, che questo assedio sarebbe stato accompagnato da orrori come non ce ne sono mai stati, e come non ce ne saranno mai. Cristo sapeva anche che i Giudei sarebbero stati dispersi in tutto il mondo (S. Luca XXI, 24), che la sua Chiesa si sarebbe diffusa rapidamente tra tutti i popoli (S. Giovanni X, 16; S. Matteo XIII, 31), nonostante le violente persecuzioni contro i suoi Apostoli (S. Giovanni XVI, 2).

3. LA DIVINITÀ DI GESÙ CRISTO È PROVATA DALL’ELEVATEZZA DELLA SUA DOTTRINA E LA SUBLIMITÀ DEL SUO CARATTERE.

La dottrina di Gesù Cristo supera quella di tutti i saggi e differisce profondamente dalle dottrine delle altre religioni. La dottrina di Gesù risponde a tutte le esigenze del cuore umano ed è adatta ad ogni stato, ad ogni età, ad ogni sesso, ogni nazione. Milioni di persone hanno trovato in essa la perfezione della felicità, la consolazione in vita e in morte. I grandi filosofi, San Giustino e Sant’Agostino, hanno trovato in essa la pace del cuore che desideravano. – La dottrina cristiana ha gettato una luce abbagliante sull’origine e il fine ultimo dell’umanità; raccomanda le più sublimi virtù: amore per il prossimo, umiltà, mansuetudine, pazienza, amore per i nemici, sconosciute fino a Cristo, e che nessuno al di fuori di Lui avrebbe trovato. – La ragione, dice Kant, non conoscerebbe ancora le leggi generali della morale se il Cristianesimo non le avesse insegnate. La dottrina di Cristo, pur nella sua sublimità, è molto semplice e molto chiara, ed è stata insegnata con una tale autorità che il popolo quando ascoltava Cristo rimaneva stupito dalla forza del suo linguaggio (S. Matth. VII, 28). “È impossibile, dice Strauss, (teologo protestante razionalista) in qualsiasi epoca, prevalere su Gesù dal punto di vista religioso. La religione cristiana non contiene cosa che contraddica la ragione, che degradi l’uomo, cosa che non si può dire di altre religioni! Maometto ha insegnato il fatalismo e ha diffuso la sua religione con il ferro ed il fuoco. Il Talmud, la legge degli ebrei moderni, è altrettanto disdicevole.

Cristo era privo del minimo peccato e dotato di un numero infinito di virtù incomparabili, tanto da rimanere per sempre il modello dell’umanità.

Giuda, il traditore, confessò di aver versato sangue innocente {S. Matth. XXXVIT, 4); Pilato non trovò alcuna colpa in lui (S. Giovanni XVIII, 38); Cristo stesso chiese ai Giudei: “Chi di voi mi convincerà del peccato?” e i Giudei non potevano rispondergli (ibidem, VIII, 46). Cristo è persino esente da quei difetti, quelli che il tempo e la nazionalità imprimono al carattere di ogni uomo, come vediamo nel suo comportamento verso i Samaritani e i Romani, soprattutto nella sua bella parabola del Buon Samaritano. (S. Giovanni VII 1,46). – Le virtù eccezionali di Gesù sono: la sua grande carità verso il prossimo; tutta la sua vita è stata spesa nel servizio, “passava il tempo facendo del bene” (Act. Ap. X, 38), ha persino dato la vita per gli altri; la sua umiltà, che gli faceva cercare la compagnia dei più disprezzati; la sua mitezza, che gli ha fatto sopportare non solo le persecuzioni dei suoi nemici, ma anche l’infedeltà del suo apostolo; la sua pazienza, incomparabile nei tormenti più orribili; l’indulgenza verso i peccatori; l’amore per i nemici, di cui diede un esempio così bello sulla croce; la forza con cui si è mostrato ovunque; il suo ardore per la preghiera, che gli faceva trascorrere intere notti in questo esercizio. Dove altro si può trovare una figura come quella di Gesù? I filosofi pagani, ammirati dai loro contemporanei, sono come la luce di una pallida torcia rispetto al sole. Il personaggio di Gesù è e rimane un miracolo nella storia del mondo. – Ecco perché i più grandi nemici di Cristo lo adoravano loro malgrado: lo si vide quando scacciò i venditori dal tempio e nessuno osava opporsi a lui (S. Matth. XXI, 12). Quando i farisei volevano lapidarlo nel tempio, dopo che si era dichiarato Dio, egli passò oltre (S. Giovanni X). Nell’Orto degli Ulivi, Cristo non fece che parlare ai soldati, ed essi caddero all’indietro spaventati (ib. XVIII; Pilato stesso lo temeva (ibid. XIX).

4. LA DIVINITÀ DI GESÙ CRISTO È DIMOSTRATA DALLA RAPIDA DIFFUSIONE DELLA SUA DOTTRINA E DAGLI EFFETTI MERAVIGLIOSI CHE HA PRODOTTO NEL MONDO.

La dottrina cristiana si è diffusa rapidamente in tutto l’universo, superando i più grandi ostacoli e utilizzando i mezzi più semplici.

Gli ostacoli da parte dei pagani erano: le leggi romane che punivano con la morte o l’esilio il vilipendio agli dei; le calunnie diffuse contro i Cristiani accusati di ateismo, di antropofagia nei loro sacrifici, di terribili crimini di ogni tipo e di ogni genere, e incolpati di tutte le disgrazie pubbliche: la peste, la guerra, le inondazioni, provocate dall’ira degli dei; le crudeli persecuzioni a cui i Cristiani furono sottoposti a causa di queste calunnie per quasi 300 anni. In effetti, ci furono 10 grandi persecuzioni fino all’Editto della Tolleranza di Costantino il Grande. – Il Cristianesimo incontrò anche altri ostacoli: la dottrina di “un. suppliziato” era di per sé una follia per i pagani, e per di più era insegnata da giudei che i Romani disprezzavano profondamente. Inoltre, questa dottrina richiedeva la rinuncia, la generosità, virtù che aborrivano i pagani sensuali ed egoisti, virtù che erano penose anche per uomini relativamente ben disposti. – I Giudei erano forse ancora più difficili da conquistare, perché si aspettavano un impero messianico con gloria terrena. –

Mezzi usati per diffondere il Cristianesimo. Furono 12 semplici pescatori o pubblicani ignoranti, che senza eloquenza, senza adulazione, senza l’aiuto dei grandi, hanno convertito il mondo. Senza dubbio fecero dei miracoli, ma la diffusione del Vangelo senza miracoli sarebbe stato il miracolo più grande. (S. Aug.). – Questa diffusione fu meravigliosamente rapida. Il giorno di Pentecoste furono battezzati 3.000 convertiti, altri 2.000 dopo il miracolo nel portico del tempio. 100 anni dopo la religione di Cristo era così diffusa in tutto l’impero romano che Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, riferì a Traiano “la diserzione dei templi nelle città e nei villaggi, perché vi erano Cristiani dappertutto”. Intorno al 150 d.C. Giustino scrisse: “Non c’è nazione in cui non si preghi il Padre celeste nel nome del Crocifisso”. Gamaliele aveva avuto ragione nel dire ne Sinedrio: “Se quest’opera è umana, cadrà da sola, se è divina, non potrete distruggerla”. (Atti degli Apostoli V, 38).

Il Cristianesimo ha eliminato l’idolatria e i suoi orribili costumi ed ha introdotto la vera civiltà nei popoli del mondo.

I sacrifici umani cessarono, così come i crudeli giochi circensi e i combattimenti tra i gladiatori. – Il Cristianesimo, rendendo obbligatorie le opere di misericordia, diede origine ad una serie di istituzioni caritatevoli per i malati, dei forestieri, ecc. – La dottrina dell’indissolubilità del matrimonio ha ricostituito la famiglia abolendo la poligamia e ripristinando la divinità della donna. Essendo ogni uomo membro di Cristo, la schiavitù scomparve gradualmente. – I governanti e le autorità hanno guadagnato rispetto, perché secondo il Cristianesimo i governi sono i rappresentanti di Dio. – Le leggi penali persero la loro disumanità e le guerre divennero più rare. I mestieri, le arti e le scienze erano meglio coltivati e il lavoro veniva messo al primo posto. – In una parola, tutti i veri Cristiani di tutti i secoli si distinsero per la pratica delle più alte virtù e delle opere di misericordia. Giuliano l’Apostata raccomandava ai pagani di imitare la generosità e la purezza di vita dei Cristiani. Una dottrina che produce tali effetti è ovviamente divina. – I nemici del Cristianesimo obiettano che il Cristianesimo abbia dato origine ad una miriade di guerre religiose e di scissioni (sette). Questa obiezione è inutile: questi mali non sono stati causati dalla dottrina di Cristo, ma dalle passioni degli uomini, che non hanno seguito questa dottrina in un modo o nell’altro. Non c’è nulla di così santo che non possa essere abusato. Io credo, dobbiamo gridare con San Pietro, che tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.

IV. CRISTO È IL NOSTRO SIGNORE.

Nell’ultima cena, Gesù Cristo disse agli Apostoli: “Voi mi chiamate Maestro e Signore, e avete ragione, perché Io lo sono” (S. Giovanni XIII, 13).

Noi chiamiamo Cristo nostro Signore perché è il nostro Creatore, il nostro Salvatore, il nostro Legislatore, il nostro Maestro, il nostro Giudice.

Cristo è il nostro Creatore. Per mezzo di Cristo sono state create tutte le cose, il cielo e la terra, le cose visibili e quelle invisibili. (Col. I, 16). Dio ha fatto il mondo per mezzo del suo Figlio. (Eb. I, 2). S. Giovanni, nel suo Vangelo, chiama Gesù il Verbo ed aggiunge: “Nulla di ciò che è stato fatto, è stato fatto senza di Lui” (I, 3). Siamo quindi sue creature e gli apparteniamo come il vaso appartiene al vasaio. (Sal. II, 9), – Cristo è il nostro Salvatore. Siamo stati redenti e liberati da Lui dalla schiavitù di satana (I. S. Piet. I, 18); quindi gli apparteniamo come uno schiavo a colui che lo ha comprato. Così dice San Paolo: “Non sapete che non siete più vostri? Perché siete stati comprati a caro prezzo” (I Cor. VI, 19). È il nostro Legislatore. Ha reso più perfetto l’Antico Testamento e lo ha promulgato di nuovo, ha dato i due precetti dell’amore, è chiamato il Maestro del sabato (S. Luc. VI, 5); ora, colui che deve darci le leggi è il nostro Signore. – Cristo Cristo è il nostro Maestro. È così che chiamiamo chi insegna un mestiere, un’arte o una scienza. Ora, Gesù Cristo insegna agli uomini la scienza della salvezza, l’arte di diventare come Dio. Egli stesso si è chiamato Maestro. (S. Giovanni XIII, 13). – Cristo è il nostro giudice. Egli tornerà infatti con grande potenza e maestà, per radunare gli uomini davanti al suo tribunale e separarli, come il pastore separa i capri dalle pecore (S. Matth. XXV, 31). Sia i giusti che i peccatori lo chiameranno allora, Signore. “Signore: diranno, quando ti avremo visto affamato, assetato, straniero, nudo, malato, prigioniero?” (S. Matteo XXV, 37 e 44). – In tutto l’universo, i deboli sono soggetti ai forti e dipendono da loro. Il regno minerale serve il regno vegetale e quest’ultimo serve il regno animale, e tutti servono l’uomo. Come gli astri girano intorno alla stella polare, tutte le creature ruotano intorno a Cristo, il polo della grazia. Egli è l’unico Re dei re, l’unico Signore dei Signori, al quale siano onore e l’impero nell’eternità. Amen (I. Tim. VI, 16).

LA CHIESA ECLISSATA ED I SACRAMENTI (2)

LA CRESIMA O CONFERMAZIONE

IV. La Cresima è uno dei Sacramenti oggi maggiormente colpito, direi quasi “minato”, occultato dalla chiesa modernista finto-cattolica usurpante il Vaticano e tutte le diocesi mondiali. Iniziamo col ricordare qualche elemento base di questo Sacramento, richiamando canoni di Concili ecumenici, come ad esempio il Decreto agli Armeni del Concilio di Firenze, o i canoni del Concilio di Trento. Nel Concilio di Firenze venivano ricordate agli Armeni e a tutti i Cattolici alcuni pilastri dei Sacramenti: “… abbiamo riassunto la verità dei Sacramenti della Chiesa, per una più facile istruzione degli Armeni presenti e futuri, nella seguente brevissima formula: i Sacramenti della nuova Legge sono sette, cioè il Battesimo, la Cresima, l’Eucaristia, la Penitenza, l’Estrema unzione, l’Ordine e il Matrimonio, che differiscono molto dai sacramenti dell’antica Legge. Questi non erano la causa della grazia, ma solo la figura della grazia che doveva essere data dalla Passione di Cristo. I nostri, invece, contengono la grazia e la conferiscono a chi li riceve come si deve. …. I primi cinque sono stati ordinati per la perfezione spirituale di ogni uomo in se stesso, gli ultimi due per la guida e la moltiplicazione di tutta la Chiesa. Infatti, con il Battesimo rinasciamo spiritualmente; con la Confermazione cresciamo nella grazia e siamo rafforzati dalla fede. Rinati e rafforzati, siamo nutriti dal cibo della divina Eucaristia. E se, a causa del peccato, cadiamo in una malattia dell’anima, siamo guariti spiritualmente con la penitenza. Spiritualmente e corporalmente, come si addice all’anima, con l’Estrema Unzione. Ma con l’Ordine la Chiesa è governata e moltiplicata spiritualmente, con il Matrimonio è accresciuta corporalmente. … Tutti questi Sacramenti sono realizzati da tre componenti: le cose che sono come la materia, le parole che sono come la forma e la persona del ministro che conferisce il Sacramento con l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa. Se manca uno di questi elementi, il Sacramento non si compie. Tra questi sacramenti ce ne sono tre, il Battesimo, la Cresima e l’Ordine, che imprimono nell’anima un carattere, cioè un certo segno spirituale che lo distingue da tutti gli altri, in modo indelebile. Per questo non si ripetono nella stessa persona. Gli altri quattro non imprimono un carattere e possono essere ripetuti. … Il secondo Sacramento è la Cresima, la cui materia è il crisma fatto di olio, che significa la luce di coscienza, e balsamo, che significa odore di buona reputazione, benedetto dal Vescovo. La forma è “Ti segno con il segno della croce e ti confermo con il crisma della salvezza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Il suo ministro ordinario è il Vescovo. E mentre il semplice Sacerdote può impartire tutte le unzioni, solo il Vescovo deve conferire questa, perché solo degli Apostoli, di cui i Vescovi ricoprono il ruolo, leggiamo che abbiano conferito lo Spirito Santo con l’imposizione della mano, come dimostra la lettura degli Atti degli Apostoli. Infatti, poiché gli Apostoli, si dice, che erano a Gerusalemme, udirono che la Samaria aveva ricevuto la parola di Dio, mandarono da loro Pietro e Giovanni, i quali, arrivati, pregarono perché ricevessero lo Spirito Santo; poiché non era ancora entrato in nessuno di loro, ma erano stati battezzati solo nel Nome del Signore Gesù, imposero loro le mani e ricevettero lo Spirito Santo” (Atti VIII:14-17). Invece di questa imposizione delle mani, nella Chiesa si dà la Cresima. Tuttavia, a volte si legge che per dispensa della Sede Apostolica, per un motivo ragionevole e abbastanza urgente, un semplice Sacerdote con il crisma fatto dal Vescovo, amministrava il Sacramento della confermazione. A Trento invece si aggiunsero dei canoni con anatemi – per contrastare le falsità e gli errori dei protestanti – e che ribadivano i concetti già enunciati “… Se qualcuno dice che la cresima dei battezzati è una cerimonia vana e non un vero e proprio sacramento, o che in passato non era altro che una catechesi, con la quale coloro che si avvicinavano all’adolescenza rendevano conto della loro fede in presenza della Chiesa, sia anatema. … se qualcuno dice che chi attribuisce qualche virtù al santo crisma della confermazione fa ingiustizia allo Spirito Santo, sia anatema…. se qualcuno dice che il ministro ordinario della confermazione non è il solo Vescovo, ma qualsiasi semplice sacerdote, sia anatema ….” Qui abbiamo un quadro già abbastanza chiaro della Confermazione o Cresima secondo le intenzioni della Chiesa Cattolica. La falsa chiesa modernista usurpante si è molto data da fare per distruggere alla radice l’effetto di questo Sacramento nella gioventù e negli adolescenti, così da rendere sterili i semi loro piantati nell’anima con il Santo Battesimo. Oltre al cambio della forma sacramentale, oggi in lingua vernacolare e non nella lingua della Chiesa, il latino ecclesiastico, oltre alla mancanza di preparazione disposizioni (ricordiamo che essendo la Cresima un Sacramento dei vivi, richieda lo stato precedente di grazia), c’è stata una “bomba” ben più dirompente e catastrofica, come i nostri pochi lettori ricorderanno dai posts precedenti di qualche anno orsono, che parlavano della consacrazione episcopale inventata di sana pianta da G.B. Montini, il sedicente Paolo VI, cosa di cui è assolutamente vietato parlare per non incorrere nelle ire assurde ed immotivate degli pseudocattolici frequentanti la sinagoga del “baphomet signore dell’universo” ed i suoi riti sacrileghi e blasfemi. Il Ministro della Cresima è il Vescovo diocesano o un suo delegato che usi però il crisma preparato dal Vescovo, di solito il Giovedì Santo. A chi non ne avesse mai sentito parlare, ricordiamo che dal 18 giugno del 1968 fu totalmente cambiata la formula di consacrazione dei Vescovi, formula fissata appena una ventina di anni prima dal Sommo Pontefice Pio XII in “Sacramentum ordinis” (1947), in cui le formule venivano dichiarate immutabili, non modificabili da chicchessia. L’antipapa Montini, appunto perché non era Papa canonicamente eletto, essendo il Papa dell’epoca S.S. Gregorio XVII, modificò radicalmente la formula facendola diventare una formula per “Eletti manichei”, Vescovi invalidi sotto tutti gli aspetti canonici. Chi abba voglia di approfondire questa delicatissima questione, può leggerla sul nostro blog cattolico ExsurgatDeus.org. Per non essere prolissi, diciamo solo le conseguenze di questo vero e proprio “colpo di Stato”: dal 1968 non abbiamo più Vescovi ordinati validamente, quindi niente preti, anch’essi ordinati tutti invalidamente da quella data, né giovani cresimati, come vediamo tra i giovani attuali che non hanno alcune forza (tuttaltro!) di combattere per Cristo e la sua Chiesa, non avendone avuto mandato né forza. E allora, si domanderanno i pochi lettori ancora svegli ed incuriositi, come otterremo la grazia di questo Sacramento? Ma la Chiesa eclissata ha tutte le potenzialità per ottenere grazia e forza dallo Spirito Santo. In questo Sacramento, in unico momento, ed in un unico atto, otteniamo il sigillo e la forza per poter dispiegare i Doni dello Spirito Santo a difesa della fede e della Chiesa contro gli attacchi del maligno, del mondo, degli increduli. Però la Sapienza eterna ha disposto che in questi tempi finali, per avere gli stessi benefici dallo Spirito Santo, terza Persona della SS. Trinità, noi dobbiamo ricorrere ad Esso ogni giorno o momento, con la richiesta attuale dei Doni, mediante l’Inno canonico “Veni Creator Spiritus”, la sequenza di Pentecoste “Veni Creator Spiritus”, la Corona allo Spirito Santo ed altre preghiere sicuramente cattoliche con imprimatur ed indulgenze annesse. Non è certamente il Sacramento, che va comunque desiderato intensamente ed esplicitamente, ma un po’ di grazia arriverà, e con essa godremo dei frutti dello Spirito Santo, quelli che s. Paolo elencava ai Galati… gioia, amore, pace, pazienza, bontà, benevolenza, fedeltà, longanimità, modestia, mitezza, continenza, castità…

IL MATRIMONIO.

  V. Il Matrimonio, come voluto da N. S. Gesù Cristo, è un Sacramento che dona la grazia necessaria a chi sceglie questo stato di vita, il cui scopo primario è proprio quello di formare una famiglia cristiana, sul modello della Santa Famiglia di Nazaret, con l’accoglienza di tutte le creature che il buon Dio manderà secondo i suoi disegni e volontà. Per sostenere questo gravoso impegno che richiede la vita matrimoniale agli sposi, sussistenza materiale, educazione cristiana dei figli, adattamento caratteriale e sopportazione dei reciproci difetti, difficoltà ambientali, familiari etc., è necessaria una grazia che viene elargita ai Cattolici che si uniscono in matrimonio secondo il rito di santa Madre Chiesa, stabilito dai sacri Canoni nei modi richiesti da Dio. Iniziamo col fare una breve, ma importante premessa: che il matrimonio agli occhi Dio è sempre valido, anche quello “civile” dei selvaggi o degli acattolici, increduli, atei (tra i quali spiritualmente non ci sono differenze sostanziali, avendo un’anima morta senza vita di grazia), mentre il matrimonio celebrato secondo i riti cattolici, oltre alla validità, apporta la liceità e dà diritto alla grazia matrimoniale. Ecco che questa, quindi, è una prerogativa essenziale per un Cattolico e per tutta la società, cristiana e non, garante di serenità dell’anima e di una vita fruttuosa sotto ogni aspetto. Detto questo, il Cattolico vero, cioè il Cattolico ostinato nella vera, immutabile dottrina cristiana, apostolica ad ecclesiastica, farà di tutto per assicurarsi questa grazia indispensabile per tutta la famiglia che vuole costituire. – Come detto e gridato da queste pagine da molto tempo, la Chiesa eclissata è oggi sostituita da un baraccone satanico-anticristiano, retto da un servo dichiarato e vicario dell’anticristo, la sinagoga di satana, come la chiamava già a suo tempo S.S. Pio IX, per cui un matrimonio celebrato in questa setta dell’antichiesa, pur contraendo un vincolo valido e definitivo, non conferisce lo stato di grazia matrimoniale, come ognuno può vedere tra i propri vicini o addirittura familiari. Inoltre, sappiamo che, tranne pochi anziani Sacerdoti apostati dalla fede e praticanti un modernismo, somma di tutte le eresie, secondo la sentenza del santo Papa canonizzato Pio X, tutti gli altri sedicenti preti non hanno mai ricevuto una ordinazione valida per difetto di forma ed intenzione, ed oltretutto da un falso Vescovo a sua volta invalidamente ordinato secondo il pontificale fasullo dell’antipapa G. B. Montini del 18 giugno del 1968. Per cui tutti si chiedono, e pure noi un po’ di tempo fa: come fare per ottenere questo stato di grazia matrimoniale per costituire una vera famiglia cristiana? La Santa Madre Chiesa nella sua immensa sapienza e preveggenza ha definito dottrine che sono adatte ai tempi di prosperità e libertà di culto cattolico, e canoni e definizioni dottrinali per i tempi di persecuzione e per la Chiesa “eclissata” o delle catacombe. Al giorno attuale così, il Matrimonio Cattolico tra i pochi, ostinati fedeli Cattolici fedeli alla dottrina bimillenaria della Chiesa, è possibile pure nella difficoltà pratica, per i più, di reperire un Sacerdote o prelato cattolico in comunione con il Santo Padre Gregorio XVIII, capace quindi di fornire, come detto, dei Sacramenti validi e leciti, e nello specifico di rendere possibile l’acquisizione della grazia santificante e particolare relativa ai fini del Sacramento stesso. In effetti i fedeli Cattolici che vogliono ad ogni costo evitare – giustamente – le sette acattoliche, e soprattutto la setta dei falsi profeti della sinagoga di satana [la cosiddetta setta del “Novus ordo” di istituzione massonico-kazara!] oggi usurpante il Vaticano e tutti gli edifici di culto un tempo appartenenti alla Chiesa Cattolica, con le relative false funzioni che, lungi dall’apportare grazia, assicurano la “disgrazia” personale, familiare e sociale, hanno perplessità ed indecisioni nell’approcciarsi correttamente al matrimonio senza commettere una serie di gravi sacrilegi e peccati mortali che comprometterebbero il cammino di salvezza per sé, il coniuge, i parenti ed i partecipanti a funzioni invalide ed illecite e – soprattutto – alla futura prole che verrebbe generata in regime di peccato mortale e fuori dalla Chiesa Cattolica, complicando in tal modo tutta la loro vita di grazia, di redenzione e di salvezza. Ma … nessun problema, la Santa Madre Chiesa, la parte militante del Corpo mistico di Cristo, guidata infallibilmente dallo Spirito Santo e che opera da “Maestra delle genti” attraverso il Magistero apostolico Ordinario e Universale e Straordinario esercitato dal Sommo Pontefice Romano e dalla sua Gerarchia, ha pensato proprio a voi in difficoltà, in questi tempi di apostasia e di impostura dottrinale e canonica, spianandovi la strada al Matrimonio cattolico, se ci è lecito così definire … delle catacombe. Possiamo ricorrere in tutta certezza e sicurezza al Motu Proprio: « Sulla disciplina del Sacramento del Matrimonio per la Chiesa Orientale di San Pio XII » del 22 febbraio 1949 (festa della Cattedra di S. Pietro). – Ferme restando tutte le altre disposizioni (ivi dettagliatamente riportate) in materia di impedimenti, dispense e preparazione al Matrimonio cattolico (per noi la retta vera dottrina, una pratica di vita cristiana, la frequentazione di “veri” Sacramenti materiali e formali – se possibile – o almeno spirituali: severo e sincero esame di coscienza, contrizione perfetta con implicito desiderio di Confessione sacramentale appena possibile, Comunione spirituale, stato di grazia …), un canone in particolare concerne le situazioni estreme che riguardavano allora i fedeli orientali, ma che oggi sono ubiquitarie e riguardano praticamente l’intero pianeta, in riferimento alla disponibilità di un Sacerdote o prelato cattolico della “vera” Chiesa “una cum Papa nostro Gregorio”. Il Canone rinuncia esplicitamente alla presenza di un Sacerdote alla celebrazione del matrimonio in determinate circostanze straordinarie, ma non rinuncia, anche in questo caso, alla richiesta che il matrimonio sia celebrato davanti ad almeno due testimoni. Il matrimonio è validamente celebrato davanti ai soli testimoni comuni (naturalmente Cattolici), quando è impossibile per le parti avere o avvicinare un Sacerdote autorizzato, purché si verifichi una di queste condizioni:

1) una delle parti parte è in pericolo di morte,

2) si prevede che non sarà disponibile alcun Sacerdote autorizzato per almeno un mese. In sintesi: In situazioni estreme per il matrimonio non è richiesto il Sacerdote!!! (i ministri del Sacramento, sono gli sposi).

Ne riportiamo la sentenza dai trattati di teologia dogmatica e poi direttamente dal Motu proprio di S.S. Pio XII citato. Iniziamo dal Buscaren: «Sebbene i Canoni non concedano esplicitamente nessun’altra rinuncia alla celebrazione, c’è la dispensa all’obbligo della legge che richiede l’assistenza attiva di un Sacerdote autorizzato e l’assistenza di testimoni, almeno nel caso di estrema difficoltà che colpisce l’intera comunità. Il Sant’Uffizio ha dichiarato che i Cattolici della Cina non sono tenuti ad osservare la legge sulla forma del matrimonio finché continuano le circostanze create dal regime rosso ». (H. BOUSCAREN, CANON LAW DIGEST, III Ed. p. 408). – In questo Canone, sono riportate due importanti principii: – primo, che in pericolo di morte il matrimonio può essere contratto senza un Sacerdote ma davanti a due testimoni, e … – secondo, che nei luoghi dove non si possa avere un Sacerdote o le parti non possano recarvisi, non hanno bisogno di aspettare un mese intero, se c’è una buona ragione per giudicare che le stesse condizioni continueranno per un mese); ma senza ulteriori indugi riportiamo il canone succitato: (MOTU PROPRIO SULLA DISCIPLINA DEL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO PER LA CHIESA D’ORIENTE PIO PP. XII – SUL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO). CAPITOLO VI: Sulla forma della celebrazione del matrimonio. Canone 89: Se vi sia un grave incomodo per il parroco, o gerarca o Sacerdote con facoltà nell’assistere al matrimonio fatto a norma dei canoni 86, 87:

1° in pericolo di morte è valido e lecito il matrimonio contratto davanti ai soli testimoni; ed anche fuori dal pericolo di morte, quando stando le cose per cui si preveda prudentemente che si protraggano per un mese;

2 ° In entrambi i casi in cui non si possa al più presto chiamare un altro Sacerdote cattolico che possa venire ed assistere al matrimonio con i testimoni, salvo la validità dei coniugi, il matrimonio è valido e lecito… [validum et licitum est matrimonium contractum …] davanti ai soli testimoni.

Sursum corda, fedeli del “pusillus grex” cattolico, la Chiesa ha prevenuto i tempi e ci dà la possibilità in ogni tempo, anche nel nostro tempo di apostasia e paganesimo imperante, di ottenere la grazia necessaria alla vita dell’anima nostra in ogni condizione di vita. Deo gratias!

UNZIONE DEI MALATI O ESTREMA UNZIONE.

VI. Dal Sacrosanto Concilio di Trento: [Sess. XIV]“ … Questa santa Unzione degli infermi fu istituita da Cristo nostro Signore come vero e proprio Sacramento della Nuova Alleanza; questo Sacramento fu indicato in Marco (Mc VI, 13), raccomandato e promulgato da Giacomo, Apostolo e fratello del Signore. Egli disse: “Se qualcuno di voi è malato, chiami i presbiteri della Chiesa e questi preghino su di lui dopo averlo unto con olio nel Nome del Signore. La preghiera della fede salverà il malato e il Signore lo solleverà; e se è peccatore, gli saranno rimessi i peccati” (Giacomo V:14-15). Con queste parole, come la Chiesa ha appreso, tramandate di mano in mano dalla tradizione apostolica, egli insegna quali siano la materia, la forma, il ministro adatto e l’effetto di questo Sacramento salutare. La Chiesa ha infatti compreso che la materia è l’olio benedetto dal Vescovo, perché l’Unzione rappresenta in modo molto appropriato la grazia dello Spirito Santo, con la quale l’anima del malato viene invisibilmente unta. E la forma è costituita da queste parole: “Per questa Unzione, ecc. “

Capitolo 2. L’effetto di questo Sacramento.

La realtà e l’effetto di questo Sacramento sono spiegati da queste parole: “La preghiera della fede salverà il malato e il Signore lo solleverà; e se è in peccato, gli saranno rimessi i peccati” (Gc V,15) . La realtà è, infatti, la grazia dello Spirito Santo, la cui unzione purifica le colpe, se ancora da espiare, ed i postumi del peccato; lenisce e rafforza l’anima del malato (cf. 1717), ispirando grande fiducia nella misericordia divina. Alleggerito da questa grazia, l’ammalato, da un lato, sopporta più facilmente le difficoltà e le sofferenze della malattia e, dall’altro, resiste più facilmente alle tentazioni del diavolo che cerca di morderlo al tallone (Gn III, 15) talvolta, infine, ottiene la salute del corpo, quando questa è utile per la salvezza dell’anima.”

Tale è la dottrina stabilita al sacrosanto Concilio di Trento nella XIV Sess. del 25 novembre 1551 e corroborata dai canoni seguenti:

Canoni sul sacramento dell’estrema unzione. (da Enchiridion def. di H. Denzinger)

1716. (1) Se qualcuno dice che l’Estrema Unzione non sia veramente e propriamente un Sacramento istituito da Cristo nostro Signore, (Mc VI,13), e promulgato dall’Apostolo san Giacomo, (Gc 5,14-15), ma solo un rito ricevuto dai Padri o un’invenzione umana, sia anatema!.

1717. 2 Se qualcuno dice che la santa Unzione degli infermi non conferisca la grazia, non rimetta i peccati, non allevia i malati, ma che non esiste più, come se un tempo fosse stata solo una grazia di guarigione, sia anatema.

1718. 3 Se qualcuno dice che il rito e l’uso dell’Estrema Unzione, osservati dalla santa Chiesa romana, siano contrari alle parole del santo Apostolo Giacomo, e che quindi debbano essere cambiati, affinché possano essere disprezzati senza peccato dai Cristiani, sia anatema.

1719. 4. Se qualcuno dice che i presbiteri della Chiesa, a cui san Giacomo raccomanda di portare l’unzione ad un malato, non siano Sacerdoti ordinati dal Vescovo, ma i più anziani di ogni comunità, e che per questo il ministro dell’Estrema Unzione non sia solo il Sacerdote, sia anatema.

Si tratta pertanto di un Sacramento molto importante ai fini della salvezza eterna, capace in molti casi di aprirci le porte del Paradiso e farci evitare il fuoco eterno degli inferi. Ma come fare oggi che la vera Chiesa è eclissata ed è estremamente difficile trovare un vero Sacerdote con missione canonica comunicata da un Vescovo validamente consacrato, con giurisdizione pontificia ed “una cum” il Pontefice romano impedito? – Ricorrendo alla Summa di S. Tommaso, abbiamo già ricordato che lo Spirito Santo, qualora non abbiamo possibilità di accedere in buona fede a veri, validi e leciti sacramenti, ci darà la grazia attraverso mezzi a Lui noti capaci appunto di conferire la Grazia che in situazioni “normali” si ottiene mediante i Sacramenti istituiti da Gesù Cristo ed amministrati nella sua vera Chiesa, cioè la Chiesa Cattolica. Ma questo non significa rimanere inoperosi, spiritualmente parlando, perché questa grazia va in qualche modo meritata dalla nostra attiva collaborazione. Ed allora possiamo attingere dagli scritti di grandi Santi del passato che hanno scritto pagine edificanti ed utilissime circa la “buona morte”. Nello specifico penso al nostro grande S. Alfonso M. De Liquori e a San Roberto Bellarmino nel suo “l’Arte del ben morire” scritto nel 1619 ma più che mai attuale oggi. Egli inizia subito affermando perentoriamente nel primo precetto da lui consigliato: chi desidera morire bene, viva bene! Poi passa ad annunciare gli altri precetti: in primis morire al mondo, praticare le tre virtù teologali e soprattutto la carità. Tenere accese le lampade nelle mani (Luc. XII, 35), vigilare continuamente sui nostri atti, pensieri e parole, evitare l’uso cattivo dei beni e delle ricchezze e l’avidità priva di elemosina, la pratica di tre altre virtù: la sobrietà, la giustizia la pietà. Ovviamente un posto importante è riservato alla preghiera (settimo precetto), al digiuno ed astinenza canonici (quaresimale, delle quattro tempora e vigilie); particolare rilievo è dato all’esame di coscienza con il pentimento sincero dei peccati commessi, e la penitenza. Ancora ci raccomanda la meditazione frequente della morte riguardata come ingresso alla eterna beatitudine, degli altri novissimi (giudizio, inferno e paradiso); fare testamento senza lasciare situazioni indefinite, nutrirsi dei Sacramenti se possibile, così da attuare la beatitudine ricordata da s. Giovanni nell’Apocalisse … beati quelli che muoiono nel Signore (XIV, 35). Insomma, c’è veramente da leggere e meditare attentamente questi santi consigli che in pratica si riducono a vivere una vita veramente cristiana secondo gli insegnamenti evangelici della Chiesa (pensiamo alle beatitudini!). Infine possiamo affidarci con fede ai Santi padroni della buona morte, innanzitutto s. Giuseppe, da invocare praticamente sempre per ottenere questa grazia (fondamentale è la preghiera del “sacro Manto di San Giuseppe”), poi s. Barbara, s. Disma (il buon ladrone che “rubò” il Paradiso diventando il primo Santo canonizzato direttamente dal Salvatore … oggi sarai con me in Paradiso. Concludendo abbiamo ampie possibilità, con un impegno serio e costante, di procurarci una buona morte, lontana dalle tentazioni estreme del “nemico”, cioè in grazia di Dio e pronti per l’entrata nel Cielo anche se non dovessimo avere la possibilità di ricevere un Sacramento valido e lecito. Ora non abbiamo pretesti o accampare scuse, siamo chiamati alla conversione del cuore, ad una vita santa, ad una morte gloriosa in Dio… è ciò che auguriamo a tutti i nostri lettori.

SACRAMENTO DELL’ORDINE

VII. In questo numero trattiamo l’argomento più spinoso e cruciale della fede cattolica, solennemente definito dal Magistero ecclesiastico, a partire dal Sacrosanto Concilio di Trento, passando attraverso diversi documenti della Sede Apostolica, fino alla definitiva ed irreformabile Costituzione Apostolica di S.S. Pio XII data a San Pietro il 30 novembre dell’anno 1947 (vedi in: A.A.S., Vol. XL, n. 1-2 del gennaio-febbraio 1948): ci riferiamo cioè al Sacramento dell’Ordine, Sacramento fondamentale: 1) nel perpetuare la continuità apostolica della Chiesa di Cristo – l’unica vera Chiesa che assicura la salvezza eterna; – 2) garantire l’insegnamento dottrinale evangelico e tradizionale, fonte certa di pratica di pietà e retta moralità cristiana, ; – 3) somministrare gli altri Sacramenti divinamente istituiti e garantire il culto liturgico ecclesiastico. Ma procediamo con ordine. Concilio di Trento, Sess, XXIII, can 1: “Che poi questo sia stato istituito dallo stesso Signore e salvatore nostro, e che agli Apostoli e ai loro successori nel sacerdozio sia stato trasmesso il potere di consacrare, di offrire e di dispensare il suo corpo e il suo sangue; ed inoltre di rimettere o di non rimettere i peccati, lo mostra la Sacra Scrittura e lo ha sempre insegnato la tradizione della Chiesa cattolica… Capitolo IV … Poiché, poi, nel Sacramento dell’ordine, come nel battesimo e nella cresima, viene impresso il carattere, che non può essere né cancellato, né tolto, giustamente il santo Sinodo condanna l’opinione di quelli che asseriscono che i Sacerdoti del nuovo Testamento abbiano solo un potere temporaneo, e che quelli che una volta siano stati regolarmente ordinati, possano tornare di nuovo laici, se non esercitano il ministero della Parola di Dio.”. – Una cosa assolutamente rimarcata è la Tonsura clericale che deve essere praticata del Vescovo della diocesi di appartenenza dell’aspirante Sacerdote. Essa sancisce il desiderio di appartenere agli Ordini sacri offrendo la propria vita a Dio, rinunciando alla vita mondana e laica. Questo è un primo passo indispensabile tanto da poter affermare che senza tonsura non c’è Sacerdozio cattolico. Una volta praticata la tonsura (che non è quella degli istituti monastici) l’aspirante poteva accedere agli Ordini sacri, che procedevano secondo una sequenza ben determinata, in ascesa continua, distinguendosi in Ordini minori – Ostiariato, Esorcistato, Lettorato, Accolitato – ed Ordini maggiori: Subdiaconato, Diaconato, Presbiterato, fino alla pienezza dell’Ordine che è la dignità episcopale. Il conferimento del Sacramento, che imprime un sigillo [carattere] indelebile nell’anima del Sacerdote, avviene secondo le consuete disposizioni, cioè la materia, la forma [o formula] e l’intenzione. A scanso di equivoci e contestazioni, queste disposizioni, per altro millenarie, furono messe nero su bianco da S.S. Pio XII nell’accennata Costituzione Apostolica del novembre del 1947, nella quale veniva riportata la materia e la forma di ogni Ordine. Il ministro del Sacramento è il Vescovo e delle formule riportiamo quelle atte ad ordinare un Sacerdote ed un Vescovo cattolico appartenente alla successione apostolica che procede dagli Apostoli designati da Gesù Cristo. Nell’Ordinazione sacerdotale, la materia è la prima imposizione delle mani del Vescovo, quella che si fa in silenzio, e non la continuazione di questa stessa imposizione che si fa estendendo la mano destra, né l’ultima imposizione accompagnata da queste parole: « Accipe Spiritum Sanctum: quorum remiseris peccata, etc. » La forma è costituita dalle parole del Prefazio, delle quali le seguenti sono essenziali e pertanto necessarie per la validità; « Da, quæsumus, omnipotens Pater, in hunc famulum tuum Presbyterii dignitatem; innova in visceribus eius spiritum sanctitatis, ut acceptum a Te, Deus, secundi meriti munus obtineat censuramque morum exemplo suæ conversationis insinuet ».

(« Date, ve ne supplichiamo, Padre onnipotente, al vostro servo qui presente la dignità del Sacerdozio; rinnovate nel suo cuore lo spirito di santità, affinché egli eserciti questa unzione del secondo ordine [della gerarchia] che Voi gli affidate e che l’esempio della sua vita corregga i costumi »). Per la consacrazione episcopale: … Per la validità è pertanto richiesta: « Comple in Sacerdote tuo ministerii tui summam, et ornamentis totius glorificationis instructum cœlestis unguenti rore sanctifica ». … Noi ordiniamo – continua la Costituzione Apostolica – che nei confronti di ogni Ordine, l’imposizione delle mani si faccia toccando fisicamente la testa dell’ordinando, benché sia sufficiente il contatto morale per conferire validamente il Sacramento. Infine, non è affatto permesso interpretare ciò che stiamo dichiarando e decretando sulla materia e la forma, in modo da credersi autorizzato sia a trascurare, sia ad omettere le altre cerimonie previste nel Pontificale Romano; inoltre, Noi ordiniamo che tutte le prescrizioni del Pontificale Romano siano religiosamente mantenute ed osservate. Ecco, pertanto, ciò che Noi ordiniamo, dichiariamo e decretiamo, nonostante qualsiasi disposizione contraria, anche degna di speciale menzione. Di conseguenza, Noi vogliamo ed ordiniamo che le disposizioni sopramenzionate siano incorporate, in un modo o nell’altro nel Pontificale Romano.

NESSUNO AVRÁ DUNQUE IL DIRITTO DI ALTERARE LA PRESENTE COSTITUZIONE DA NOI DATA NÉ DI OPPORVISI CON TEMERARIO ARDIMENTO.

La questione, almeno per quanto possiamo noi illustrare in questo contesto giornalistico, ci sembra definita in modo chiaro ed esaustivo dalla dottrina della Chiesa, che ci offre la possibilità di ben distinguere tra veri Sacerdoti e veri Vescovi, ed impostori senza Sacramento dell’ordine né sigillo sacerdotale, i briganti ed i ladri ricordati nel santo Vangelo (S. Giov. X, 8) dal nostro Redentore che entrano nella Chiesa non dalla porta. a devastare le anime riscattate da Cristo a prezzo del suo preziosissimo sangue. E allora ricapitoliamo con chiarezza e senza tema di essere teologicamente o canonicamente smentiti: Sacerdote della Chiesa di Cristo, una, santa ed apostolica è colui che: 1) abbia ricevuto la tonsura ecclesiastica per mano del suo Vescovo diocesano; 2) abbia ricevuto il Sacramento dell’Ordine con la formula di S.S. Pio XII da un Vescovo a sua volta consacrato con la formula del Pontificale Romano sopra riportata, [abolita truffaldinamente dall’antipapa eresiarca Montini – sedicente Paolo VI – dal 18 giugno 1968, come abbondantemente illustrato su questo blog in passato], con missione canonica e giurisdizione pontificia annessa e documentata per iscritto. Tutti coloro che non possono soddisfare a queste due condizioni essenziali, sono da considerarsi dei laici travestiti sacrilegamente e che occupano usurpandole le cariche, i privilegi, le prebende, gli onori che detengono, che gli uomini non conoscono, ma che Dio conosce benissimo attendendoli al varco della vita eterna perché siano degnamente ricompensati per il loro operato. Non vorremmo veramente trovarci nei loro panni in quel momento e preghiamo quindi che il Signore li illumini in tempo perché salvino la loro anima pericolante. – Nella nostra terra ci sono Sacerdoti ancora validamente ordinati e con giurisdizione richiesta per la valida Confessione, anche se apostati dalla fede cattolica e scismatici dalla vera Chiesa Cattolica e dalla vera Gerarchia, aderenti all’antipapa usurpante attuale e celebranti uno pseudo-rito demoniaco con sacramenti sacrileghi ed illeciti, ma volendo … possono tornare al vero culto ripudiando la setta della sinagoga di satana a cui oggi appartengono legati dal filo della … congrua e della pensione (… meglio la pensione oggi che il Paradiso domani!) e che si spaccia per Chiesa di Cristo. A questi poveri derelitti voglio solo ricordare la profezia del Profeta Zaccaria alla fine del Cap. XI: “… Io susciterò nel paese un pastore, che non avrà cura di quelle pecore che si perdono, non cercherà le disperse, non curerà le malate, non nutrirà le affamate; mangerà invece le carni delle più grasse e strapperà loro perfino le unghie. Guai al pastore stolto che abbandona il gregge! Una spada sta sopra il suo braccio e sul suo occhio destro. Tutto il suo braccio si inaridisca e tutto il suo occhio destro resti accecato”. È parola di Dio.

LA SANTA MESSA.

VIII. Sulla Messa Cattolica abbiamo già da anni scritto tante volte, per cui qui ci limiteremo a ricordare le cose essenziali che un vero tenace Cattolico, cioè il Cattolico radicato nella fede della Chiesa di sempre, debba conoscere e ricordare attentamente per evitare le pene eterne dell’infero ed aspirare alla beatitudine senza fine. Il tutto ovviamente secondo il pensiero ed i Canoni della Chiesa Cattolica, attualmente sostituita da un baraccone posticcio di cui rimane solo una facciata logora e sfigurata che solo può attrarre chi non abbia mai conosciuto, né voglia conoscere, la meravigliosa realtà della Chiesa fondata dall’Uomo-Dio ed affidata al suo Vicario, capo in terra, il successore del Principe degli Apostoli, il vero Papa, riconoscibile non dalla talare bianca, ma dalla infallibilità nella fede e nella morale gelosamente custodita nel deposito della fede che racchiude l’insegnamento di  Cristo e dei suoi Apostoli e successori. Cominciamo col dire cosa sia la Messa cattolica: essa è essenzialmente il rinnovo del Sacrificio di Cristo sulla croce, offerto in modo non cruento sull’altare a Dio Padre per riscattare gli uomini dai peccati e riconciliarli col Padre onde permetterne la vita dello spirito e quindi l’ingresso nel regno dei Cieli. La sua frequentazione, per chi ne abbia possibilità, è obbligo di precetto ecclesiastico nella Domenica ed in tutte le feste liturgiche comandate. Ora dobbiamo riflettere sul fatto che la Messa, che nella sua essenza, ripete le parole e gli atti dell’ultima cena di Gesù, sia stata regolamentata infallibilmente ed irreformabilmente dal Concilio di Trento (Sess. IV) e messa “nero su bianco” da un santo Pontefice canonizzato, cioè da Papa S. Pio V in una celeberrima bolla, “Quo primum” del 1570, ulteriormente approvata da altri suoi successori e celebrata da sempre in tutto l’orbe cattolico. È chiaro che, secondo dottrina, nessuno possa abrogare una legge o definizione di un Papa autentico, un po’ come se lo Spirito Santo che dirige le azioni del Sommo Pontefice, cambiasse idea a seconda dei tempi o dei capricci degli uomini, cosa aberrante solo a pensarlo. E allora si chiederanno molti, come è stato possibile introdurre un “papocchio” liturgico composto da un massone 33° ed approvato da un Illuminato di Baviera? La risposta è già contenuta nella domanda così come posta: solo un impostore, un falso pontefice poteva modificare ciò che fosse stato stabilito infallibilmente da un Concilio ecumenico e da un vero Papa. Sappiamo infatti, come don Luigi Villa, sollecitato da padre Pio da Pietralcina ed incaricato da S.S. Pio XII, abbia documentato questa impostura, anche se non è l’unico, e noi più volte l’abbiamo riportato. A parte l’uso della lingua volgare, riprovato dal Concilio tridentino e tutte le preghiere e gli atti liturgici modificati (chi ci segue ricorderà gli articoli su questo blog che commentavano le osservazioni dei Cardinali Ottaviani e Bacci alla nuova pseudo-messa, e che qui non è il caso di riprendere). Solo vogliamo segnalare due fatti “illuminanti”. In primo luogo, la “messa modernista” viene offerta al “signore dell’universo” che, sempre in precedenza, abbiamo spiegato essere il baphomet-lucifero adorato nelle logge massoniche di alto livello. Da questo punto di vista il rito si configura come un’agape rosa+croce (18° livello della Massoneria scozzese A. A.) durante la quale un agnello vivo (figura di Cristo crocifisso) inchiodato e coronato di spine, viene decapitato ed immolato al demonio. Quindi il povero pseudo-fedele, che pensa di onorare e rendere culto al vero Dio-trino, in realtà rende culto a satana e reca offesa gravissima a Dio Padre e al S. N. Gesù Cristo, riportando in luogo della grazia divina, la disgrazia infernale.. Ci fermiamo qui su questo punto già sufficientemente illustrato in altri articoli del blog. – Il secondo punto che vogliamo toccare qui, riguarda la formula di consacrazione del pane e del vino transustanziato – nella vera Messa – nel vero Corpo e Sangue di Cristo. Qui la formula vera riporta le parole di Cristo pronunciate nell’ultima cena; ad un certo punto Gesù dice … bevete il mio sangue offerto in sacrificio, versato per voi e per molti (pro multis, in S. Matteo XXVI, 28); questa è la versione biblica riportata fedelmente nel Canone della Messa cattolica. Nella messa farlocca invece c’è … versato per voi e per tutti… Sembra una inezia a prima vista, ma dire “per molti” e “per tutti”, cambia completamente la prospettiva dell’opera della divina Redenzione. Dire “per molti”, vuol dire essersi immolato per coloro che, partecipando al Corpo mistico di Cristo, cioè la Chiesa Cattolica, lo riconoscono come vero Dio e Redentore, e sono nella sua grazia. Dire invece “per tutti” significa che la redenzione di Cristo è operata indifferentemente per i credenti e per i miscredenti, gli infedeli, gli atei, gli increduli, i pagani, gli empi, etc. il che ovviamente è una proposizione eretica, offensiva per l’opera di Cristo e della sua Chiesa, offensiva per le orecchie pie, lesiva per i diritti di Dio e per l’azione dello Spirito Santo, in breve: un vero e proprio abominio anticattolico. Quindi, anche a voler prescindere da altre considerazioni liturgiche o dottrinali pur giustissime, questa modifica del Canone rende totalmente invalida la transustanziazione. C’è poi da considerare che una vera Messa debba essere celebrata da un Sacerdote con missione canonica concessa da un vero Vescovo con giurisdizione comunicata dal vero Santo Padre, cioè attualmente il successore di Gregorio XVII, Giuseppe Siri, Papa impedito come il suo successore eletto dal 1991. Ed allora la domanda … sorge spontanea: come fare per assolvere al precetto domenicale ed ottenere la grazia che il Sacramento e la partecipazione alla Messa possono dare? Ci affidiamo, come sempre al Catechismo cattolico (tipo S. Pio X, o del Cardinal Gasparri, o Spirago, S. Pietro Canisio, ecc.ecc.). Qui la risposta è chiara, nel senso che dobbiamo partecipare ad una Messa sicuramente cattolica, approvata da una vera Autorità ecclesiastica ed officiata da un vero Sacerdote con le caratteristiche su riportare. Se questo non sia possibile o richiederebbe l’esporsi a pericoli o danni per la vita o la salute (viaggi lunghi e pericolosi, etc.) se in buona fede, si è dispensati dall’obbligo della presenza fisica in Chiesa, fermo restando l’obbligo di santificare il giorno di festa (3° Comandamento) con la preghiera, lo studio della dottrina, le opere di misericordia e potendo, leggendo la Messa con omelie relative di autori approvati antecedenti al 1958. Oggi il vero Cattolico si “arrangia” così con il desiderio ardente di poter partecipare ad un vero Sacrificio offerto al Deus Sabaoth… l’opposto del suo e nostro nemico, il demoniaco “signore dell’universo”. Si salvi chi vuole!

Si ringrazia il prof. A. Morgillo, direttore del mensile “Valle di Suessola” che ci ha consentito di riprodurre articoli tratti dal giornale da lui diretto.

LA CHIESA ECLISSATA ED I SACRAMENTI (1)

LA CHIESA ECLISSATA ED I SACRAMENTI (1)

LA CHIESA ECLISSATA ED I SACRAMENTI (1)

La domanda più frequente che i presunti cattolici aderenti alle sette scismatiche ed eretiche del Novus ordo modernista o delle cappelline pseudotradizionaliste che usano falsi chierici con la mascherina della Messa antica, è proprio questa: come facciamo allora con i Sacramenti ed il Sacrificio della Messa che ci viene comandato come precetto delle domeniche e dei giorni festive? Questa domanda deriva ovviamente dalla ignoranza della dottrina cattolica e dall’indottrinamento dei falsi chierici che sotto la parvenza della scienza teologica, occultano i punti che potrebbero illuminare i loro fedeli e portarli a lasciare le sette che frequentano. La Chiesa ha previsto sia i tempi in cui potesse esprimersi liberamente a livello morale e liturgico, ed i tempi di “eclissi” in cui la Chiesa sarebbe stata relegata in spazi angusti, catacombe o sotterranei, come è successo tante volte nel passato quando è stata perseguitata dalla barbarie musulmana, degli eretici protestanti o degli sc0ismatici sedicenti ortodossi orientali. Gesù Cristo ha promesso la salvezza a tutti gli uomini, specie per i perseguitati a motivo della confessione del suo Nome e della sua dottrina. Cominciamo a mo’ d’esempio con l’Angelico dottore il quale ci faceva già partecipi di una verità consolante per i nostri tempi in cui la sinagoga di satana si è insediata dei sacri palazzi fingendo di essere la Chiesa di Cristo:

L’UNIONE CON IL SOMMO PONTEFICE (quello canonicamente eletto in un vero e valido Conclave con Cardinali nominati dalla “vera” ed unica Autorità Apostolica, cioè il vero Papa!), è “condicio sine qua non” per l’ETERNA SALVEZZA DELL’ANIMA.

“Chi aderisce ad un falso [o finto usurpante] Papa, diceva già S. Cipriano, è assolutamente fuori dalla Chiesa Cattolica – quindi sulla via della dannazione – come pure gli scismatici senza giurisdizione o missione con i loro settari, che sacrilegamente amministrano falsi sacramenti e false messe senza l’ “una cum Papa nostro …”, l’unico garante della fede, dei Sacramenti e delle azioni liturgiche, e senza il quale, tutto il resto risulta inutile, anzi sacrilegio degno di riprovazione e condanna eterna. Ma sentiamo come si esprime la Dottrina immutabile e perenne della Chiesa Cattolica, per bocca del suo massimo teologo, l’Angelo della scuola, San Tommaso d’Aquino:

(T. Pégues, O. P.: LA SOMMA TEOLOGICA di S. Tommaso D’Aquino In forma di Catechismo per tutti i fedeli; (trad. aut. A. Romani) – ROMA, Marietti, 1922 p. 452, Impr .,). Sull’importanza vitale dell’essere in unione con la Giurisdizione papale onde  ricevere la grazia soprannaturale:

D. Perché questo potere supremo nell’ordine della Giurisdizione appartiene al Sovrano Pontefice?
R. Perché la perfetta unità della Chiesa esige che questo potere supremo appartenga a lui solo. Per questo motivo Gesù Cristo ha incaricato Simon Pietro di nutrire il suo gregge; e il Romano Pontefice è l’unico e solo legittimo successore di San Pietro fino alla fine dei tempi (XL. 6).

D. È quindi dal Sovrano Pontefice che dipende l’unione di ogni uomo con Gesù Cristo attraverso i Sacramenti, e di conseguenza la sua vita soprannaturale e la sua salvezza eterna?
R. ; poiché sebbene sia vero che la grazia di Gesù Cristo non dipende in modo assoluto dalla ricezione dei Sacramenti stessi quando è impossibile riceverli, almeno nel caso degli adulti e che l’azione dello Spirito Santo possa integrare questo difetto purché la persona non sia in malafede; è, d’altra parte, assolutamente certo che nessuno che si separi consapevolmente dalla comunione con il Sovrano Pontefice, possa partecipare alla grazia di Gesù Cristo, e che di conseguenza …

se muore in quello stato si perde irrimediabilmente “.

Questa sentenza la Chiesa l’ha ribadita costantemente in forma magisteriale a cominciare dalla Bolla di SS. Bonifacio VIII “Unam sanctam” e più recentemente nell’ultimo Concilio Ecumenico vaticano (1870) nella Costituzione dogmatica Pastor Æternus. Quindi, la salvezza nei casi di impossibilità nella ricezione di Sacramenti validi e leciti, amministrati da Sacerdoti con Giurisdizione e missione canonica, una cum il Santo Padre Vicario di Cristo, passa per altre vie secondo l’azione dello Spirito Santo santificatore. Tutto ciò che viene fatto fuori da questa regola dottrinale elementare è sacrilego, blasfemo e non apporta minimamente neppure un briciolo di grazia.

Altra bella e consolante – per gli “eclissati” – sentenza della Chiesa è la seguente data dal S.Officio nel 1949, alla vigilia cioè dell’istituzione dell’antichiesa col colpo di Stato nel Conclave del 26 ottobre del 1958:

Alla CHIESA CATTOLICA appartiene colui che, lasciata qualsiasi setta eretica e scismatica, sia battezzato ed abbia esplicito desiderio di appartenervi, pur non potendolo materialmente. Riportiamo il testo originale in latino così da controllare possibili errori della traduzione fatta in italiano. (i numeri posti in capo alle sentenze sono quelli del Denzinger.- S., XXXVI Ed.)

Lettera del Santo-Officio all’Arcivescovo di Boston, 8 agosto 1949.

[Ed: AmER 127 (1952, Oct.) 308ss.]

De necessitate Ecclesiæ ad salutem

[La necessità della Chiesa per la salvezza.]

3866 …. Inter ea autem, quæ semper Ecclesia prædicavit et prædicare numquam desinet illud quoque infallibile effatum continetur, quo edocemur « extra Ecclesiam nullam esse salutem ». Est tamen hoc dogma intelligendum eo sensu, quo id intelligit Ecclesia ipsa. Non enim privatis iudiciis explicanda dedit Salvator noster ea, quæ in fidei deposito continentur, sed ecclesiastico magisterio.

3867 – Et primum quidem Ecclesia docet, hac in re agi de severissimo præcepto Iesu Christi. Ipse enim expressis verbis Apostolis suis imposuit, ut docerent omnes gentes, servare omnia quæ ipse mandaverat. Inter mandata autem Christi non minimum locum illud occupat, quo baptismo iubemur incorporari in Corpus mysticum Christi, quod est Ecclesia, et adhærere Christo eiusque vicario, per quem ipse in terra modo visibili gubernat Ecclesiam. Quare nemo salvabitur, qui sciens Ecclesiam a Christo divinitus fuisse institutam, tamen Ecclesiæ sese subiicere renuit vel Romano Pontifici, Christi in terris vicario denegat obœdientiam.

3868 Neque enim in præcepto tantummodo dedit Salvator, ut omnes  gentes intrarent Ecclesiam, sed statuit quoque Ecclesiam medium esse salutis, sine quo nemo intrare valeat regnum gloriæ caelestis.

3869Infinita sua misericordia Deus voluit, ut illorum auxiliorum salutis,  quæ divina sola institutione, non vero intrinseca necessitate, ad finem ultimum ordinantur, tunc quoque certis in adiunctis effectus ad salutem necessarii obtineri valeant, ubi voto solummodo vel desiderio adhibeantur. Quod in sacrosancto Tridentino Concilio claris verbis enuntiatum videmus tum de sacramento regenerationis tum de sacramento pænitentiæ [*1524 1543].

3870 Idem autem suo modo dici debet de Ecclesia, quatenus generale ipsa  auxilium salutis est. Quandoquidem ut quis æternam obtineat salutem, non semper exigitur, ut reapse Ecclesiæ tamquam membrum incorporetur, sed id saltem requiritur, ut eidem voto et desiderio adhæreat. Hoc tamen votum non semper explicitum sit oportet, prout accidit in catechumenis, sed ubi homo invincibili ignorantia laborat, Deus quoque implicitum votum acceptat, tali nomine nuncupatum, quia illud in eà bona animae dispositione continetur, qua homo voluntatem suam Dei voluntati conformem velit.

3871 Quæ dare docentur in [Pii XII Litt. encycl.] . . . De mystico Iesu Christi Corpore. In iisdem enim Summus Pontifex nitide distinguit inter eos, qui re Ecclesiæ tamquam membra incorporantur, atque eos, qui voto tantum modo Ecclesiæ adhærent …. « In Ecclesiæ autem membris reapse ii soli adnumerandi sunt, qui regenerationis lavacrum receperunt veramque fidem profitentur neque a Corporis compage semet ipsos misere separaverunt vel, ob gravissima admissa, a legitima auctoritate seiuncti sunt » [*3802]. Circa finem autem earundem Litterarum encyclicarum, amantissimo animo eos ad unitatem invitans, qui ad Ecclesiæ catholicæ compagem non pertinent, illos commemorat, « qui inscio quodam desiderio ac voto ad Mysticum Redemptoris Corpus ordinentur », quos minime a salute æterna excludit, ex altera tamen parte in tali statu versari asserit, « in quo de sempiterna cuiusque propria salute securi esse non possunt… quandoquidem tot tantisque cælestibus muneribus adiumentis carent, quibus in catholica solummodo Ecclesia fruì licet » [3821].

3872 – Quibus verbis providentibus tam eos reprobat, qui omnes solo voto  implicito Ecclesiæ adhærentes a salute æterna excludunt, quam eos, qui falso asserunt, homines in omni religione aequaliter salvari posse [cf. *2806 2865]. Neque etiam putandum est, quodcumque votum ecclesiæ ingrediendæ sufficere, ut homo salvetur. Requiritur enim, ut votum, quo quis ad Ecclesiam ordinetur, perfecta caritate informetur; nec votum implicitum effectum habere potest, nisi homo fidem habeat supernaturalem [Alìegatur Hebr XI, 6 et Conc. Trid., sess. VI c. 8: *I532].

——

3866 – …. Or tra le cose che la Chiesa ha sempre predicato e non cesserà mai di predicare, si trova ugualmente questa affermazione infallibile che ci insegna che « Fuor dalla Chiesa, non c’è salvezza ». Questo dogma deve tuttavia essere compreso nel senso in cui la Chiesa stesso lo comprende. In effetti non è al giudizio privato che il Signore ha affidato la spiegazione delle cose contenute nel deposito della fede, ma al Magistero della Chiesa.

3867 – In primo luogo, la Chiesa insegna che in tal questione si tratta di un comandamento in senso stretto di Gesù Cristo. Egli ha, in effetti, imposto espressamente ai suoi Apostoli di insegnare a tutte le Nazioni ad osservare tutto quel che aveva ordinato. Tra i comandamenti del Cristo, ed esso non è il minore, c’è quello che ci ordina di essere incorporati con il Battesimo nel Corpo mistico del Cristo, che è la Chiesa, e di restar uniti al Cristo ed al suo Vicario attraverso il quale governa Egli stesso in modo visibile la sua Chiesa sulla terra. Ecco perché, nessuno sarà salvato se, sapendo che la Chiesa sia stata divinamente istituita dal Cristo, non accetti tuttavia di sottomettersi alla Chiesa, o rifiuti l’obbedienza al Pontefice Romano, vicario di Cristo sulla terra.

3868 – Ora il Salvatore non ha solamente ordinato che tutti i popoli entrino nella Chiesa, ma ha deciso anche che la Chiesa fosse il mezzo di salvezza, senza il quale nessuno possa entrare nel Regno della gloria celeste.

3869 – Nella sua infinita Misericordia, Dio ha voluto che gli effetti necessari per essere salvati, di questi mezzi di salvezza che sono ordinati al fine ultimo dell’uomo, non per necessità intrinseca ma unicamente per istituzione divina, possano essere ottenuti in certe circostanze, quando questi mezzi non siano messi in opera che per desiderio o voto. Noi vediamo questo chiaramente enunciato nel Sacrosanto Concilio di Trento rispetto sia al Sacramento della Rigenerazione, sia al Sacramento della Penitenza. (D. 1524, 1543)

3870 – Lo stesso va detto, a suo modo, della Chiesa come mezzo generale di salvezza. Infatti perché qualcuno ottenga la salvezza eterna, non sempre è necessario che uno sia effettivamente incorporato nella Chiesa come membro, ma è almeno necessario che sia unito a lei con il voto e il desiderio. Tuttavia, non è sempre necessario che questo voto sia esplicito, come avviene tra i catecumeni, ma quando l’uomo è vittima di un’invincibile ignoranza, Dio accetta anche un voto implicito, così chiamato perché è incluso nella buona disposizione d’animo con cui l’uomo vuole conformare la sua volontà alla volontà di Dio.

3871 – Questo è il chiaro insegnamento dell’enciclica di Pio XII (Mystici corporis) sul Corpo Mistico di Gesù Cristo. In essa il Sommo Pontefice distingue chiaramente tra coloro che sono veramente incorporati nella Chiesa come suoi membri e coloro che sono uniti alla Chiesa solo dal voto… « … Ma solo coloro che hanno ricevuto il battesimo della rigenerazione e professino la vera fede, e che, d’altra parte, non si siano miseramente auto-separati dall’insieme del Corpo, o non ne siano stati tagliati fuori per gravissime colpe dalla legittima autorità, (per eresia, scisma, apostasia) sono veramente membri della Chiesa » (D. S. 3802). Verso la fine della stessa Enciclica, però, invitando molto affettuosamente all’unità coloro che non appartengono al Corpo della Chiesa cattolica, egli menziona « coloro che, per un certo inconscio desiderio e voto, si trovano ordinati al Corpo mistico del Redentore », che non esclude in alcun modo dalla salvezza eterna, ma di cui, d’altra parte, dice di essere in uno stato « in cui nessuno può essere sicuro della sua salvezza eterna…. poiché sono privati di così tanti e di così grandi e celesti aiuti e favori, di cui si può godere solo nella Chiesa cattolica » (D. S. 3821).

3872 – Con queste sagge parole egli condanna sia coloro che escludono dalla salvezza eterna tutti gli uomini che sono uniti alla Chiesa dal solo voto implicito, sia coloro che affermano falsamente che gli uomini possono essere salvati anche in una qualsiasi religione (2865).

Né si deve pensare che qualsiasi tipo di desiderio di entrare nella Chiesa sia sufficiente per essere salvati. Perché è necessario che il voto che ordina qualcuno alla Chiesa sia animato da una perfetta carità. Il voto implicito può avere effetto solo se l’uomo ha una fede soprannaturale. (Ebrei XI: 6; Concilio di Trento, VI\VIII ss. Cap. 8).

Questo documento Ecclesiastico irreformabile ed infallibile (come tutto il Magistero Ordinario ed Universale della Chiesa, al quale siamo obbligati a dare il nostro assenso, pena scomunica, secondo la lettera Enciclica « Satis Cognitum » di S. S. Leone XIII), giunge a conferma della dottrina tomistica di San Tommaso d’Aquino sulla grazia fornita dallo Spirito Santo a coloro che, pur non avendo la possibilità di accedere a veri Sacramenti, o al Santo Sacrificio validamente celebrato da Sacerdoti canonicamente consacrati, siano battezzati osservanti la Dottrina Cattolica, in unità con il “vero” Sommo Pontefice seppure di desiderio, unica condizione – una volta lasciata la setta di appartenenza – per ottenere l’eterna salvezza.
Fuori dalla Chiesa Cattolica, cioè fuori dalla salvezza eterna, vi sono quindi:

1- Tutte le sette protestanti: luterane, anglicane, calviniste, ortodosse sec. Fozio, monotelite, monofisite, etc. …

2- La setta degli eretici e scismatici modernisti (il modernismo è la somma di tutte le eresie, secondo la sentenza di S. Pio X nella sua magistrale e magisteriale Enciclica “Pascendi” del Novus Ordo dell’attuale colle Vaticano – la “sinagoga di satana” inneggiante al signore dell’universo, il baphomet-lucifero delle logge massoniche – conformi alle eresie del conciliabolo c. d. Vaticano II (Concilio scomunicato con largo anticipo dalla bolla Execrabilis di Papa Pio II, Piccolomini);  sono qui compresi i secolari e tutti i religiosi degli ordini un tempo Cattolici, oggi “novusordisti”.

3 – I sedicenti tradizionalisti, supporter eretici del papa eretico – a loro dire -, la setta paramassonica-kadosh dei falsi chierici invalidi e sacrileghi, i c. d. lienart-lefebvriani di Ecône-Sion;

4- Tutte le sette pseudo-tradizionaliste degli eretici e scismatici sedevacantisti di Occidente e d’Oriente, parto distocico dell’ultima ora di satana che cominciava a capire che qualcosa non aveva funzionato nei suoi piani vacillanti e scricchiolanti, ed ha cercato di metterci una “pezza a colore”. .. ma si sa che il diavolo fa le pentole ma dimentica – per fortuna dei “veri” Cattolici – i coperchi … Questo documento sia dunque per loro, monito onde abbandonare senza indugi la setta infernale di appartenenza e confluire in massa, almeno con desiderio o voto esplicito, nella Chiesa Cattolica guidata dal suo Sommo Pontefice Romano, ovunque si trovi, prigioniero o nascosto! (Il Cristo ce lo ha promesso – solennemente – con noi fino all’ultimo giorno! … e pure la Pastor Aeternus).

       Fatta questa debita premessa, passiamo e valutare i Singoli Sacramenti istituiti da Cristo e come, almeno per una parte di essi, si possano ricevere senza un Sacerdote con giurisdizione e missione canonica, o come si possa in qualche modo supplire alla grazia sacramentale specifica da essi apportata.

BATTESIMO.

I. Cominciamo ovviamente con Santo Battesimo, il Sacramento che ci apre la via della salvezza, dandoci la grazia santificante, le virtù ed i santi Doni, donandoci la nuova vita soprannaturale con l’inabitazione del Spirito Santo in noi e la filiazione a Dio come figli adottivi.

I. In casi straordinari, il Battesimo può essere conferito da chiunque.

    Negli scritti magisteriali pubblicati incessantemente su questo blog, sono state evidenziate numerose sentenze ufficiali della santa Chiesa Cattolica che rendono espressamente ed incontestabilmente chiaro il danno prodotto alla Chiesa di Cristo – la Chiesa  Cattolica romana – dal conciliabolo cosiddetto Vaticano II e dagli antipapi succeduti  al Santo Padre Pio XII, ultimo Pontefice romano che abbia legittimamente e  liberamente occupato il seggio di San Pietro, vale a dire del Vicario di N. S. Gesù  Cristo, fedele custode della dottrina apostolica e Capo di tutta la gerarchia ecclesiastica e dei fedeli di Cristo. Abbiamo pure dimostrato come dal 26 ottobre del 1958, tutti i documenti approvati da falsi pontefici usurpanti, non abbiano alcuna validità canonica, ma siano al contrario sacrileghi ed in molti casi blasfemi, tali da  configurare un vero “ribaltone” della dottrina, della liturgia e dell’intera economia  della grazia. In particolare, abbiamo dimostrato, con documenti ineccepibili ed irreformabili prodotti dai canoni ecclesiastici, come le ordinazioni dei “vescovi” siano totalmente invalide a partire dal 18 giugno del 1968, data dell’entrata in vigore del falso pontificale romano dell’antipapa G. B. Montini (alias il sedicente Paolo VI).  Recentemente poi abbiamo dimostrato come gli ordini sacerdotali siano totalmente invalidi per difetto di forma ed intenzione secondo i canoni del Concilio di Trento, del Codice canonico pio-benedettino del 1917, della Costituzione apostolica Sacramentum Ordinis di S.S. Pio XII [A.A.S., vol. XL (1948), n. 1-2, pp. 5-7], per cui in pratica tutti i sacramenti  amministrati dalla antichiesa m del c. d.  novus ordo (la setta vaticana insediata dal 1958),  sono invalidi o quanto meno illeciti  [se  amministrati da vegliardi Sacerdoti e Vescovi validamente ordinati prima del 1968,  ma aderenti alla setta acattolica ubiquitaria e dominante summenzionata]. Ai nostri scritti, ovviamente, nessuno ha potuto opporre la benché minima osservazione, al netto di offese, derisioni, disprezzo. In realtà non si tratta di offendere un misero scribacchino “farneticante” , ma la dottrina bimillenaria della Chiesa e l’intero Magistero pontificio, per cui, i giovani pseudo preti non hanno argomenti per ribattere, date la loro scadentissima preparazione dogmatica e per quanto riguarda il  diritto canonico, mentre i “volponi”, i grassi Sacerdoti stagionati, prudentemente si  sono rinchiusi in un mutismo secondo l’aforisma del profeta Isaia come … “cani muti”, anche per non perdere prebende e pensioni – A questo punto, finalmente, sembra che alcune persone si siano svegliate dal  sonno illusorio in cui si erano assopiti, scossi dal torpore della narcosi spirituale in cui erano stati sprofondati dagli “anestesisti” dell’anima, i modernisti diretti da antipapi provenienti dalle “logge” e da pseudoprelati “illuminati”, ed abbiano cominciato a chiedersi con dubbio legittimo, se i loro sacramenti, ricevuti da laici  mascherati, siano validi e leciti, e nel caso non lo siano come riceverli per sé e per i propri cari. Essendoci giunte alcune richieste in merito da nostri attenti lettori  allarmati dalle argomentazioni e dai documenti ufficiali riportati, vogliamo a questo punto  occuparci di questo importantissimo argomento che interessa la vita dell’anima e le  nostre possibilità di salvezza, secondo la retta dottrina cattolica insegnata da due millenni da Gesù Cristo, dagli Apostoli, dai Padri e dai dottori della Chiesa, dai teologici riconosciuti ed approvati e dal Magistero pontificio e conciliare.- Innanzitutto possiamo tranquillizzarci osservando come la Chiesa abbia previsto l’evenienza di una propria “eclissi” (chiaramente prevista a La Salette nel 1946 dalla Vergine Maria) o inattività in tempi o in determinate aree geografiche, dando la possibilità ai fedeli impediti di accedere ai mezzi della grazia santificante, mediante la preghiera indulgenziata o alcuni sacramenti, tra i quali  hanno assoluta preminenza i cosiddetti “ Sacramenti dei morti ”, di quei sacramenti  cioè che permettono ai  morti spirituali  di avere o recuperare la grazia abituale, in  modo da consentire un retto cammino sulla via della salvezza. Essendo l’argomento  di capitale interesse, vogliamo focalizzare l’attenzione su di un singolo Sacramento per volta, citando come al nostro solito i canoni ed i documenti  cclesiastici come  sono consultabili nei volumi od opere citate e che fanno parte della dottrina dogmatica, teologica o morale ufficiale, approvata dalle Autorità validamente riconosciute. Iniziamo ovviamente dal Battesimo, Sacramento istituito da Gesù Cristo in persona con un comando perentorio impartito ai suoi Apostoli nel momento in cui li mandava ad evangelizzare i popoli presso i quali stavano per recarsi ad annunciare la buona novella. Il Battesimo è Sacramento essenziale nella vita cristiana, il Sacramento che trasforma l’anima umana in un’anima capace di divinizzarsi e divinizzare alla Resurrezione i corpi a cui è legata, per l’azione della grazia e dello Spirito Santo che ne vengono a prendere possesso rendendo il battezzando “figlio adottivo di Dio” per partecipazione ed incorporandolo nel Corpo mistico di Cristo. Su questo Divino Sacramento ci sono volumi interi di teologia dogmatica, morale, ascetica che ne spiegano l’importanza esclusiva ed il privilegio infinito che investe chi ne beneficia, e rimandiamo ad essi per un approfondimento salutare e la esatta comprensione della natura e della trasformazione che opera nel rendere l’anima recettiva della grazia in terra e della gloria in cielo. Qui a noi interessa il dato essenziale pratico, che la Chiesa abbia reso questo Sacramente accessibile a tutti in tutti i tempi ed in tutti i luoghi. Se non c’è un Sacerdote o Prelato cattolico validamente consacrato, con missione canonica conferita da un Vescovo valido con Giurisdizione ed “ una cum ” il Pontefice regnante (ai nostri tempi Gregorio XVIII o successore della linea Siri), la Chiesa permette il rito straordinario , come  viene ad esempio descritto nel trattato di Teologia dogmatica di B. Bartmann, vol. III, IV ed., Ed. Paoline, con nihil obstat  ed imprimaturdel 19 luglio 1957. Nel III volume, come dicevamo, leggiamo a pag. 103 e segg.: § 170 Ministro e soggetto del Battesimo.  Ministro ordinario del Battesimo è il Sacerdote avente Missione dal Vescovo; ministro straordinario, in caso di necessità, può essere qualsiasi persona umana.

Spiegazione. Eugenio IV dichiara nel suo decreto per gli Armeni: « Ministro di  questo sacramento è il Sacerdote cui compete per ufficio di battezzare. In caso di necessità, però, non solo il Sacerdote o diacono, ma anche il laico, uomo o donna, anzi il pagano e l’eretico può battezzare, purché osservi la forma prescritta ed abbia intenzione di fare ciò che fa la Chiesa (Denz. 696). Il IV Concilio Lateranense dice in modo affatto generale che il Battesimo da chiunque amministrato, purché nei debiti modi, è sempre valido (Denz. 430). Finalmente il Concilio di Trento ha ancora una volta definito l’antica dottrina della validità del Battesimo degli eretici (s. 7 de Bapt., can. 4, Denz. 860). Gli spazi ristretti non ci consentono di procedere oltre, ma penso che la questione sia fin troppo chiara: in casi straordinari, quando cioè non abbiamo la possibilità di ricorrere ad un “vero” e sicuro prete cattolico scartando i  Probabili (oggi sicuramente improbabili, anzi certamente falsi) del novus ordo o delle sette sedevacantiste o lefebvriane dei sedicenti tradizionalisti (secondo la sentenza del 4 marzo 1679 di S.S. Innocenzo  XI, in Denz. 1151: “Non è lecito nel conferire sacramenti seguire un parere probabile per quanto riguarda il valore del sacramento, abbandonando il parere più sicuro … pertanto non si dovrebbe fare uso di pareri probabili nel conferimento di Battesimo degli ordini sacerdotali ed episcopali”. Quindi, tranquilli, lettori carissimi, possiamo avere grazia santificante, figliolanza adottiva di Dio, Doni dello Spirito Santo, virtù teologali e cardinali, oltre all’inabitazione dello Spirito Santo in noi, anche con il Battesimo conferito da un laico, addirittura anche un eretico, purché si usi la forma –  la formula prescritta –, la materia, cioè l’acqua, e l’intenzione secondo la Chiesa Cattolica. Penso che l’argomento sia chiaro restando in attesa di eventuali chiarimenti, delucidazioni e ulteriori documenti, di cui la santa dottrina della santa  Madre Chiesa è stracolma. La formula è: «  Ego te baptizo in nomine Patris, et Filii,  et Spiritus Sancti, amen . » Nel contempo si versa l’acqua sul capo del battezzando, tracciando tre segni di croce e facendola scorrere in avanti verso la fronte. –

PENITENZA O CONFESSIONE

        II. Dopo il Battesimo, il Sacramento più importante per riacquistare la grazia perduta per aver commesso un peccato mortale, è la Penitenza o Confessione, Sacramento che, ben ricevuto con le dovute predisposizioni, ci ridona la figliolanza divina con il diritto alla sua eredità con le virtù ed i Doni, e la presenza nell’anima dello Spirito Santo, e con esso la Santissima Trinità. Essa nella pratica, si compone di tre momenti, la contrizione, la confessione, la penitenza. Ministro ordinario è il Vescovo o un  Sacerdote con potestà d’ordine e Giurisdizione (ad esempio il parroco – sottolineiamo che senza giurisdizione conferita dell’Ordinario del luogo, a sua volta in comunione col Sommo Pontefice romano [il vero] il Sacerdote, pur validamente ordinato, non è abilitato alla Confessione che resta perciò invalida e come non fatta). Condizione essenziale per ottenere il perdono delle proprie colpe è il dolore dei propri peccati, che teologicamente si distingue in Contrizione ed Attrizione.  Attrizione, o contrizione imperfetta, è semplicemente il dolore per aver commesso un grave peccato, o per aver  perso la possibilità di entrare in Paradiso ed aver meritato l’inferno con le pene eterne.  Contrizione perfetta, invece, è il dolore per aver offeso Dio nella sua Maestà,  Giustizia e Divinità, offesa infinita che richiede un dolore: interiore, soprannaturale,  sovrano, universale, cioè il dolore della più grave sventura della nostra vita, estesa ad  ogni nostro peccato mortale, e la detestazione del peccato commesso, col proposito di non peccare più in avvenire e fuggirne le occasioni prossime. Poiché nessuno potrà mai essere certo della sua perfetta contrizione, la Chiesa Cattolica richiede almeno l’attrizione unita alla Confessione sacramentale che supplirebbe così alla temuta imperfezione. I peccati mortali vanno confessati singolarmente riferendo ogni circostanza aggravante o che ne muti la specie, mentre i peccati veniali non devono necessariamente confessarsi, anche se sia lecito confessarli per accrescere il dolore delle proprie offese a Dio, Padre Creatore, Figlio Redentore, Spirito Santo santificatore. Tutte queste peculiarità sono state da sempre ritenute dalla Chiesa Cattolica, e sono state definite e fissate dogmaticamente dalla XIV Sessione del Sacrosanto Concilio di Trento. Quindi i fedeli della Chiesa  eclissata, cioè la vera unica Chiesa di Cristo oggi nelle catacombe, o portata nel deserto, come ben mostrato nel capitolo XII dell’Apocalisse, annunziata per i nostri tempi nell’apparizione della Vergine Santissima a La Salette nel 1846, e da diverse  visioni di veggenti Cattolici approvati, in diversi secoli, si chiedono come sia possibile riacquistare la grazia e tutte le prerogative perse con il commettere un peccato mortale, che ci taglia dal cammino verso la salvezza e l’eterna beatitudine,  spalancandoci le porte dello stagno di fuoco eterno. Ma il Signore, ovviamente, aveva  già “sistemato” la faccenda con largo anticipo, quando già nel 22 febbraio 1482 suggeriva al Sommo Pontefice Martino Quinto, la celebre bolla, contro l’eretico Wicleff: “ Inter cunctas ” tra le cui preposizioni, al numero 20, si sottolineava che un  Cristiano è tenuto, per essere necessariamente salvato, oltre alla contrizione del suo cuore [condizione assoluta  sine qua non], quando può trovare un sacerdote  qualificato (Sacerdotis idonei), a confessarsi solamente da un Sacerdote, e non da un  laico o laici, sebbene buoni o pii quanto mai (Denz.- Schon. 1260). Per la giustificazione, dopo il Battesimo, la prassi consolidata della Chiesa, è quindi la Contrizione perfetta, da chiedere come grazia a Dio con un atto di contrizione perfetto pubblicato con debito imprimatur, chiedendo la grazia delle lacrime per i propri peccati. Naturalmente la ricerca dei peccati viene fatta dopo un attento studio  della Dottrina cristiana e della propria coscienza … come può uno confessarsi se per trascuranza non conosce i peccati numerati dalla Chiesa, ad esempio i peccati contro i Comandamenti, in particolare gli ultimi due, che sono peccati solo di pensiero, i peccati contro i precetti della Chiesa, contro le Virtù teologali e cardinali, i peccati contro lo Spirito Santo, i peccati che gridano vendetta agli occhi di Dio, i peccati di omissione circa le opere di misericordia corporale e spirituale, i peccati capitali etc.. Utile sarebbe formare uno schema scritto, col quale esaminare la propria coscienza  alla luce della dottrina di sempre della Chiesa, che riporti pure le scomuniche più  solenni comminate dai Sommi Pontefici e dai Concilii ecumenici contro eresie e  difformità dottrinali o eterodossie. Fatto questo lavoro, si resterà sorpresi dalla enormità e dal numero delle proprie colpe se ben esaminate, accusate senza ritegno o attenuazioni, inquadrate nelle perverse dinamiche delle intenzioni. Subito dopo si passa alla detestazione dei peccati commessi e al dolore per avere offeso un Dio così buono che ci ha creato dal nulla dandoci la possibilità di essere suoi figli adottivi per mezzo  della redenzione di Gesù Cristo operata versando tutto il suo preziosissimo sangue. Non basta ancora, bisogna aggiungere il proposito serio e fermo di non più peccare, e soprattutto di evitare le occasioni prossime del peccato e possibilmente anche le remote, senza di che non è valida nessuna  Confessione, che al contrario sarebbe sacrilega ed aggiungerebbe anzi peccati gravissimi e difficilmente emendabili. Ultima condizione è il proposito esplicito di ricorrere alla Confessione sacramentale una volta reperito un Sacerdote cattolico con missione canonica e giurisdizione nominato da un vero Vescovo una cum il vero Sommo Pontefice Gregorio XVIII o successore della linea Siri. Se in buona fede operiamo tutto quanto la Chiesa ci comanda di fare quando non sia raggiungibile, siamo giustificati e rientriamo sulla “pista” della corsa verso la salvezza eterna. In articulo mortis (cioè in pericolo di morte imminente) si può ricorrere anche a Sacerdoti validamente consacrati fino al 18 giugno del 1968, anche se apostati e passati alla sinagoga infernale, l’antichiesa del Vaticano II, ma attenti! Occorre prudenza e grande preparazione dottrinale per non cadere nella trappola della finta “divina misericordia” che rende Nostro Signore ingiusto nel secondare ed approvare i capricci dei peccatori, facendo apparire inutile Redenzione, Sacramenti, Fede e Carità divina, e dulcis in fundo, come ultima beffa, li spedisce dritti all’inferno senza giustificazione. – Come più volte scritto e documentato con inoppugnabili documenti della Chiesa Cattolica “pre-modernista” (cioè l’unica vera Chiesa fondata da Gesù Cristo) il vero  Cattolico, una cum  la Sede Apostolica impedita ma realmente esistente, si trova oggi  nella impossibilità di praticare liberamente il retto culto dovuto a Dio essendo le strutture un tempo appartenenti alla Chiesa, invase dalla apostasia modernista, vero obbrobrio, d’altra parte concretamente visibile nel culto rasa+crociano definito nuova messa, o novus ordo missæ, che tutto è fuorché una Messa cattolica. In queste nuove “sinagoghe infernali”  si celebra un culto apparentemente cristiano (il demonio si sa è la scimmia di Dio e vuole ricevere il culto dovuto solo a Dio), ma assolutamente invalido e sacrilego,  da parte di pseudo-sacerdoti mai consacrati validamente, quindi, privi del sigillo sacerdotale impresso dallo Spirito Santo per mezzo dell’imposizione delle mani di un vero Vescovo, (cioè consacrato prima del 18 giugno 1968 come spiegato a suo tempo in una serie di articoli documentati e mai contestati e di cui parleremo ancora trattando del Sacramento dell’Ordine), e da qualche ultraottuagenario apostata che non ha mai compreso né le leggi della Chiesa, né il suo ruolo di agente in persona Christi. Questo significa, secondo le leggi canoniche della Chiesa (C. J. C. o codice pio-benedettino del 1917, l’unico valido perché facente parte di un documento ufficiale del Magistero, e perciò irreformabile ed eterno!) che tutto  quello che viene celebrato in queste pseudo-funzioni (o meglio FINZIONI), non ha alcuna validità né liceità, ergo: confessione invalida e sacrilega, comunione invalida e sacrilega con pane mai transustanziato per difetto di forma, intenzione, e perché operato da un laico “travestito” da prete. Ma la Chiesa, prevedendo possibile questa situazione che si è “evoluta” dal 1958 in poi, aveva già pensato a come ovviare alla mancanza di grazia sacramentale dei finti illeciti sacramenti.

COMUNIONE

III. Nel paragrafo precedente abbiamo parlato della Confessione, secondo i dettami del Sacrosanto Concilio Tridentino e del relativo Catechismo del Sacerdote (libro introvabile anche presso gli anziani Sacerdoti, ma che noi custodiamo gelosamente in cassaforte come perla dottrinale preziosissima), oggi parleremo della Comunione. Non è qui il caso di spiegare l’importanza centrale dell’Eucarestia nella vita del Cristiano e della Chiesa tutta, poiché mi illudo che i miei pochi lettori sappiano almeno a grandi linee di cosa si tratti. La Comunione sacramentale, Sacramento dei vivi, di coloro cioè che sono già in grazia, perché non contaminati dal peccato mortale, consiste nella transustanziazione del pane e del vino offerto durante la vera Messa cattolica definita da S.  Pio V, di cui non si poteva mutare nemmeno una parola, nel Corpo e nel Sangue di Cristo, che viene poi dato ai fedeli sotto una specie unica per aumentare la grazia e preservare dal peccato e da azioni indegne di un fedele di Cristo. La sua specificità è  indubbia, ma ecco che, nella impossibilità di ricevere l’Eucarestia validamente  consacrata direttamente in bocca dalla mano del Sacerdote che la porge, la Chiesa permette con gran frutto, la Comunione spirituale. Lasciamo la parola, noi che ne siamo indegni, ad uomini la cui santità è indiscussa e la dottrina purissima. Riportiamo per brevità le considerazioni di S. Leonardo di Porto Maurizio: « LA COMUNIONE SPIRITUALE,  Considerazioni di S. Leonardo da Porto Maurizio. » – “Coloro che non possono ricevere sacramentalmente il corpo del Signore, Lo possono  ricevere spiritualmente con gli atti di viva fede e fervente carità e con un grandissimo​ desiderio di unirsi a quel sommo Bene; in questa maniera ricevono il frutto di questo divin Sacramento.”  – La Comunione spirituale si può fare durante la Messa (la Messa di sempre, quella definita da S. Pio V, come riportato sopra – n.d.r.-) o in qualsiasi momento della vostra giornata. Quando il Sacerdote sta per comunicarsi nella santa Messa, voi, stando ben raccolti eccitate nel vostro cuore un atto di vera contrizione, e battendovi il petto umilmente, in segno che vi riconoscete indegno di una grazia così grande, fate tutti quegli atti di amore, di offerta, di umiltà, con tutti gli altri che fate abitualmente quando vi comunicate sacramentalmente, e poi desiderate ardentemente di ricevere il buon Gesù sacramentato per vostro bene. E per ravvivare la vostra devozione, immaginatevi che Maria santissima, o qualche altro vostro Santo avvocato vi porga la santa particola. Figuratevi di riceverla, ed abbracciando Gesù nel vostro cuore, replicate più e più volte:  venite, caro Gesù mio, venite dentro questo mio povero cuore, venite ed esaudite i miei desideri, venite e santificate l’anima mia;  venite Gesù dolcissimo, venite … E ciò detto fate silenzio, rimirate il vostro buon Gesù dentro di voi e, come se realmente vi foste comunicato, adorateLo e ringraziateLo e fate tutti quegli atti che fate abitualmente dopo la Comunione sacramentale”. Ora sappiate che questa benedetta e santa Comunione spirituale, così poco praticata dai Cristiani dei nostri tempi, è un tesoro che vi riempie l’anima di mille beni. E come dicono vari autori, è così utile che  può produrre quelle stesse grazie che produce la  Comunione sacramentale, anzi maggiori. Perché, sebbene la Comunione sacramentale – cioè quando realmente ricevete la sacra particola – di sua natura è di maggiore frutto, perché, essendo Sacramento, ha la virtù “ex opere operato” (cioè opera per virtù propria), tuttavia può un’anima con tanta umiltà, amore e devozione fare la sua Comunione spirituale, da meritare maggior grazia di quella che merita un’altra, la quale si comunichi sacramentalmente, ma non con tanta squisita preparazione. Quindi il nostro Salvatore gradisce tanto questo modo di comunicarsi spiritualmente, che tante volte con evidenti miracoli si è compiaciuto di esaudire benignamente i pii desideri dei suoi servi: come accadde alla beata Chiara da  Montefalco, a Santa Caterina da Siena, a santa Liduina, a san Bonaventura ed al beato Silvestro. Sappiate dunque che questa santa Comunione spirituale vi dà questo vantaggio rispetto alla Comunione sacramentale: che la Comunione sacramentale non può farsi che una sola volta al giorno, ma la Comunione spirituale potete farla tante volte, quante sono le Messe che ascoltate; ed anche fuori dalla Santa Messa, mattino e sera, giorno e notte, in Chiesa ed in casa: insomma, quante volte voi praticherete quanto si è detto, altrettante volte farete la Comunione spirituale e vi arricchirete di grazie e di meriti e di ogni bene.

Preghiera per la Comunione spirituale.

(di S. Alfonso M. dei Liguori).

« Gesù mio, credo che voi state nel Santissimo Sacramento. V’amo sopra ogni cosa e Vi desidero nell’anima mia. Giacché ora non posso ricevervi sacramentalmente, venite almeno spiritualmente nel mio cuore. Come già venuto, io Vi abbraccio e tutto mi unisco a Voi: non permettete che io abbia mai a separarmi da Voi. »

Ai fedeli che compiono un atto di comunione spirituale, usando qualsiasi formula che vogliano scegliere, si concede:

Un’indulgenza di 3 anni; Indulgenza plenaria una volta al mese alle solite condizioni, se recitato per ogni giorno del mese (S. S. Pænit.  Ap., 7 marzo 1927 e 25 febbraio 1933).

Potremmo citare una serie lunghissima di autori e libri che discorrono dei benefici straordinari di questa pratica devozionale, ma ne ricordiamo, per brevità, solo il  dottissimo Gesuita G. B. Scaramelli, che nel suo rinomatissimo DIRETTORIO ASCETICO, Trattato Primo, al CAPO VII ne fa una meravigliosa descrizione. – Non poteva mancare la pratica devota nel “libro dei libri” teologici, la Summa Theologica di S. Tommaso d’Aquino … « questa, dice S. Tommaso, consiste in un vivo desiderio di prendere il Santissimo Sacramento.» (3 p., q. 21, art.1 ad 3). Allora accade, dice ancora l’Angelico nell’articolo successivo, che alcuno mangi spiritualmente Gesù Cristo ricoperto dalle specie sacramentali, quando crede in Cristo con desiderio di riceverlo in questo sacramento. E questo non solo è un ricevere spiritualmente Gesù Cristo, ma è un ricevere spiritualmente lo stesso Sacramento. Se queste brame siano molto fervide, e molto accese, la comunione fatta in spirito sarà talvolta più fruttuosa e più cara a Dio, che molte altre Comunioni reali fatte con tiepidezza, non per difetto del Sacramento, ma di chi freddamente lo riceve. – Testimonianze ne abbiamo, come già ricordato, da S. Caterina da Siena, S. Liduina, S. Lorenzo Giustiniani e tanti altri che non possiamo qui riportare. Non tema dunque il vero Cattolico di essere escluso dalla grazia sacramentale della santa Comunione, l’importante, sottolinea sempre puntualmente l’Angelico di Roccasecca, è fuggire dalle sette eretiche ed essere unito anche solo di desiderio se impedito al Santo Padre, il Vicario di Cristo S.S. Gregorio XVIII, successo di G, Siri. Questa è la via che giunge in Paradiso, ogni altra conduce allo stagno di fuoco eterno.

LA CHIESA ECLISSATA ED I SACRAMENTI (2)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (XI)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (XI)

CATECHISMO POPOLARE O CATTOLICO SCRITTO SECONDO LE REGOLE DELLA PEDAGOGIA PER LE ESIGENZE DELL’ETÀ MODERNA

DI

FRANCESCO SPIRAGO

Professore presso il Seminario Imperiale e Reale di Praga.

Trad. fatta sulla quinta edizione tedesca da Don. Pio FRANCH Sacerdote trentino.

Trento, Tip. Del Comitato diocesano.

N. H. Trento, 24 ott. 1909, B. Bazzoli, cens. Eccl.

Imprimatur Trento 22 ott. 1909, Fr. Oberauzer Vic. G.le.

PRIMA PARTE DEL CATECHISMO:

FEDE (7).

2-7 Art. del Simbolo: Gesù Cristo.(2)

4. Quando e dove visse il Salvatore?

1. IL SALVATORE VISSE SU QUESTA TERRA CIRCA 2000 ANNI FA, PER 33 ANNI.

L’era cristiana è iniziata con la nascita di Gesù Cristo.

All’inizio del Cristianesimo, gli anni venivano contati in base al regno dei governanti o dei consoli romani. Dalla grande persecuzione di

di Diocleziano, i Cristiani presero come loro era il regno di questo imperatore (l’era dei martiri. L’abate Dionigi, di Roma, fu il primo che nel 525 cominciò a datare gli anni dall’Incarnazione di Cristo, cioè dall’Annunciazione. Carlo Magno introdusse questa epoca, ma iniziò a contare non dall’Incarnazione, ma dalla Natività di Cristo… -. Quest’epoca non è del tutto accurata, poiché Dionigi colloca la Natività quattro anni più avanti. Cristo sarebbe quindi nato 4 anni prima dell’anno 1 della nostra era.

Il tempo che precede Cristo è chiamato Antico Testamento o Antica Alleanza, il tempo successivo a Cristo, Nuovo Testamento o Nuova Alleanza. (Eb. IX , 15-17).

I tempi che precedono e seguono Gesù Cristo li chiamiamo Testamento, (cioè dichiarazione di volontà, concessione dell’eredità nel diritto, di volontà, concessione dell’eredità in caso di morte), perché nei tempi precedenti e successivi a Cristo, Dio ha espresso la sua santa volontà agli uomini ed ha assicurato loro un’eredità in caso di morte del Salvatore (un’eredità che diventa esecutiva con la morte del Salvatore). L’eredità assicurata agli ebrei era la Terra Promessa, l’eredità dei Cristiani è il cielo. – Il tempo prima di Cristo è chiamato l’Antica Alleanza, perché Dio fece un’alleanza con molti popoli, con Noè, Abramo, Giacobbe e con il popolo israelita al Sinai, attraverso la mediazione di Mosè. Lì il popolo israelita si impegnò a osservare le leggi appena promulgate. Dio, in cambio, promise di proteggerlo e di benedirlo. L’alleanza fu sigillata con il sangue di un sacrificio animale. – Il periodo dopo Cristo è chiamato Nuova Alleanza, perché Dio, attraverso la mediazione di suo Figlio, si è impegnato per la santificazione degli uomini qui sulla terra e per la loro glorificazione in cielo, se essi osservano i due comandamenti dell’amore. Questa alleanza è stata sigillata dal sangue di Cristo. – I libri sacri scritti in questo periodo sono noti anche come Antico Testamento, e il Nuovo Testamento, i libri sacri scritti dopo Cristo. Questi sono così chiamati perché contengono la volontà di Dio e la garanzia dell’eredità celeste.

2. IL SALVATORE FU MOLTO ATTIVO IN PALESTINA.

(Vedi la mappa di questo Paese).

Notiamo 1° per quanto riguarda il nome; che questo Paese fu chiamato prima Chanaan, poi Giudea, di solito Terra Promessa, cioè la terra promessa da Dio, infine Terra Santa, cioè la terra santificata dal soggiorno del Salvatore. – 2° per quanto riguarda la sua estensione e natura, la Palestina non è che un paese piccolo, appena 500 miglia quadrate, la metà della Svizzera, tanto che i pagani dicevano beffardamente che il Dio degli Ebrei doveva essere un Dio molto piccolo per aver dato al suo popolo un paese così piccolo. (È lunga solo 90 leghe e larga 30). Tuttavia, la sua posizione al centro del mondo antico fu molto favorevole alla diffusione della vera religione. Era un paese molto fertile, dove scorrevano latte e miele (Es. III, 8) e non c’era bisogno di importazioni dall’estero. La Palestina è tagliata fuori dai suoi vicini su tutti i lati, sia dal mare che dal deserto, così che le comunicazioni amichevoli tra i suoi abitanti e le nazioni vicine erano molto difficili. – 3° per quanto riguarda il numero di abitanti; che la Palestina al tempo di Gesù Cristo contava 5 milioni di abitanti, di cui 1 milione a Gerusalemme, la capitale. Oggi il Paese conta solo 500.000 abitanti e Gerusalemme 28.000.

LA PALESTINA È SITUATA LUNGO IL MEDITERRANEO SU ENTRAMBE LE SPONDE DEL FIUME GIORDANO.

La parte più grande, situata tra il mare e il Giordano, è chiamata il Paese del Giordano occidentale, la parte più piccola, al di là del fiume, è chiamata il Paese del Giordano Orientale. La Palestina è delimitata a nord dalla Fenicia e a est dal deserto siro-arabo, a sud dall’Arabia e a ovest dal Mediterraneo. – Il Giordano, che gli ebrei attraversarono sulla terraferma e dove Gesù fu battezzato, è largo da 80 a 150 passi; le sue acque torrenziali e giallastre attraversano il piccolo lago di Merom, poi il lago di Génèzareth (ove Gesù calmò la tempesta, predicò dalla barca, operò una pesca miracolosa, ha camminato sulla acque e diede il primato a Pietro) lungo 5 miglia, e sfociano nel Mar Morto, che è lungo 10 miglia.di lunghezza (nella depressione vi erano le città di Sodoma e Gomorra, le aque sono salare e non vi si trova alcuna creatura vivente). Prima di sfociare nel Mar Morto, il Giordano viene raggiunto dal torrente di Karith, vicino al quale viveva Elia. Il Mar Morto riceve anche le acque del Cêdron, che passa vicino a Gerusalemme e attraverso il quale fuggirono Davide e Cristo prima della sua agonia. – La Palestina era divisa in quattro parti: la Giudea a sud; la Samaria al centro; la Galilea a N., e a E. del fiume Giordano, la Perea (con Ituraea e Trachonitide).

Gli abitanti della Giudea erano i più fedeli alla vera religione; quelli della Samaria erano idolatri ed odiati dai Giudei, mentre quelli della Galilea erano in parte pagani, soprattutto al nord, e di conseguenza disprezzati dai Giudei. Essere chiamati Galilei era un insulto, soprattutto perché avevano un dialetto molto rozzo, ed erano facilmente riconoscibili, come accadde a Pietro nel tribunale del sommo sacerdote).

La città più importante della Giudea era Gerusalemme, dove era il Tempio. Gerusalemme (cioè il luogo della pace) è chiamata anche città dei colli, perché è situata su 4 alture: la più alta è il Monte Sion, sulla cui sommità si ergeva maestosa la cittadella di Davide e dove si trovava il cenacolo; a est di questo si trovava il monte Acra con la sorgente e la piscina di Siloe, dove avvenne la guarigione del cieco; a nord, il monte Moriah, dove era stato Isacco e dove si trovava il tempio; più a N. c’era il monte Bezetha con la città nuova; a ovest di Moriah, fuori dal recinto, c’era il Golgota, chiamato anche Calvario, sul quale Cristo fu crocifisso. L’insieme di queste alture è delimitata da due valli: quella a ovest, l’Hinnom (Gehenna, inferno, perché le donne israelite idolatre vi sacrificavano i loro figli a Moloch), a est la valle di di Giosafat (Giudizio di Dio; si riteneva che Dio avrebbe tenuto ivi l’ultimo giudizio). In questa valle scorre il torrente Cêdron. A est della valle di Josafat c’era il Monte degli Ulivi, con il giardino del Getsemani, dimora preferita del Salvatore. – Gerusalemme esisteva già al tempo di Melchisedec, che ne era il re.. Sotto Davide (1000 a.C.) divenne la capitale dei re ebrei, e fu distrutta completamente dal re di Babilonia (588 a.C.), Nabucodonosor, per poi essere ricostruita 50 anni dopo (536), e ridistrutta dal generale romano Tito, 70 anni dopo J.-C. – Il Tempio di Moria formava una lunga piazza e fu costruito in pietra biancastra. Da lontano appariva come una montagna coperta di neve e offriva uno spettacolo maestoso (S. Marco XIII, 1). Aveva un cortile per il popolo ed un altro interno per i sacerdoti, con l’altare degli olocausti; è in questo secondo cortile che si trovava il tempio vero e proprio, su un terrazzo lungo 30 metri, largo 10 e alto 15, con un tetto fatto di cedro. Questo tempio era composto dal vestibolo, dal Luogo Santo e dal Santo dei Santi. – Le pareti di questi due ultimi comparti erano ricoperte da spesse lastre di marmo e separate da un velo che fu strappato al momento della morte di Cristo. Nel Santo dei Santi era posta tra due grandi cherubini d’oro, l’Arca dell’Alleanza, che conteneva le tavole della legge, la manna, la verga di Aronne ed il libro della legge. (Pentateuco). Sopra l’arca, Dio dimorava in una nuvola. – Il tempio fu costruito da Salomone intorno all’anno 1000. Distrutto nel 588 da Nabucodonosor, fu ricostruito dopo 70 anni di cattività dal principe ebreo Zorobabele. Ma l’Arca dell’Alleanza era scomparsa. Re Erode lo restaurò al al tempo di Gesù Cristo. Questo restauro fu completato nel 64, e 6 anni dopo (70) il tempio fu distrutto dai Romani. Nel 361 l’imperatore Giuliano l’Apostata tentò di ricostruirlo, ma un terremoto fece crollare le fondamenta e le fiamme dal terreno dispersero gli operai. Questo tempio non sarà ricostruito fino alla fine dei tempi. (Dan. IX, 27).

Oltre a Gerusalemme, le città più notevoli sono Beihléhem e Nazareth.

Le città più importanti della Giudea sono: a sud di Gerusalemme, Betlemme, il luogo di nascita di Gesù; un po’ più a sud, Hebron, la casa di Abramo, Isacco e Giacobbe e i genitori di San Giovanni Battista; a est, Betania, la casa di Lazzaro e il deserto della Quarantena, dove Gesù digiunò per 40 giorni; a NW, Gerico, la città delle palme, dove visse Zaccheo, il pubblicano pentito; a N, Emmaus, famosa per un’apparizione del Salvatore risorto. Sulle rive del mare: Joppe, la città fenicia divenuta famosa durante le Crociate, dove vissero San Pietro e i suoi discepoli. Ivi Pietro risuscitò Tabitha dai morti e dove fu chiamato a visitare il centurione pagano Cornelio. Più a sud si trova l’antico paese dei Filistei, con le città di Gaza e Ascalon.

Ad ovest del Mar Morto si trova il deserto di Giuda o deserto di S. Giovanni, dove soggiornò il Precursore. – In Samaria, bisogna ricordare la capitale, Samaria, situata più o meno al centro del paese; a S. di questa città si trova la vicino a Sichem, il pozzo di Giacobbe, dove avvenne l’incontro tra Gesù e la Samaritana. Ad ovest si vede il Monte Gerizim, dove i Samaritani avevano un tempio idolatrico; a S., Silo, dove, dopo Giosuè, l’arca rimase per 350 anni. Lungo il Mediterraneo si estende la ricca pianura di Saron; sulle rive del mare si trova Cesarea, cioè la città imperiale, dove risiedevano i procuratori romani. A nord-est, non lontano dal mare e sul confine si erge, a 300 metri di altezza, il monte Carmelo con le sue 1000 grotte, casa degli anacoreti e di Elia, che vi offrì il suo sacrificio per confondere i sacerdoti di Baal. In Galilea sono da notare: Nazareth (la città del fiore), domicilio della Vergine Maria al momento dell’Annunciazione e dove Gesù Cristo visse fino all’età di 30 anni; a S, il monte Thabor, luogo della Trasfigurazione; nelle vicinanze, Naim, dove Ges risuscitò il figlio della vedova; a E., Cana, dove compì il suo primo miracolo. Sulle rive del lago di Genezareth si trovava Cafarnao, “la città di Gesù Cristo”, dove Egli amava fermarsi e dove compì molti miracoli, come la guarigione del servo del centurione. e la resurrezione della figlia di Giairo. Fu anche lì che fece la promessa dell’Eucaristia e chiamò a sé l’apostolo San Matteo; a S. Betsaida, da dove provenivano gli apostoli Andrea e Filippo; poi Magdala, la casa della Maddalena peccatrice. Sulle rive dello stesso lago, c’era anche Tibêriade. A nord della Galilea c’era Cesarea di Filippo, dove Pietro ricevette il potere delle chiavi. Le città marittime di Tiro e Sidone, dove Gesù si recava spesso (S. Matth, XV, 21; S. Marco VII, 27) si trovano in Fenicia piuttosto che in Galilea; ai confini di quest’ultima, ricoperta di neve perenne, si erge (fino a 3000 m.) la catena del Libano (Monte Libano (monte bianco) con i suoi magnifici cedri, ed a E. il grande Hermon (2900 m.); Più a est si trova Damasco, dove si convertì San Paolo. – In Perea molto vicino al Mar Morto, a est della foce del Giordano, si trova Bêthtibarah (anche Betania), il luogo dove Giovanni battezzò, dove rivelò il Salvatore e lo chiamò l’Agnello di Dio; e a E. il Monte Nebo, dove morì Mosè. A S. del lago di Génézareth si trovava Pella, dove i Cristiani di Gerusalemme si rifugiarono durante l’assedio di Tito (70).

5. GESÙ DI NAZARETH È IL SALVATORE O CRISTO.

Gli ebrei erano soliti chiamare l’atteso Salvatore Messia, Cristo o Unto.

Il termine unto del Signore era usato dagli ebrei per indicare Profeti, Pontefici e Re. Essi venivano unti con olio santo quando assumevano la carica, come segno della loro missione divina. (L’unzione simboleggiava l’illuminazione e la potenza dello Spirito Santo, oltre ad essere un’esortazione alla mitezza). Il futuro Salvatore sarà il Profeta, il Pontefice ed il Re per eccellenza, gli ebrei lo chiamano l’Unto del Signore. (Unto significa Messia in ebraico, Cristo in greco). Tuttavia Cristo non fu unto visibilmente con l’olio, ma interiormente dallo Spirito Santo. (Sal. XLIV, 8), la cui pienezza era in lui. (Act. Ap. X, 38).

1. GESÙ DI NAZARETH È IL SALVATORE, PERCHÉ IN LUI SI SONO ADEMPIUTE TYTTE LE PREDIZIONI DEI PROFETI.

Gesù si appellava spesso a questa testimonianza (S. Giovanni V, 39; S. Luca XVIII, 31), in particolare ai discepoli di Emmaus. (S. Luca, XXIV, 26). Matteo, da parte sua non cessa nel suo vangelo di mostrare l’adempimento delle profezie in Gesù Cristo.

2. IL CARATTERE DIVINO MESSIANICO DI GESÙ DI NAZARETH È DIMOSTRATO DALLA PERPETUITÀ DEL SUO REGNO SU QUESTA TERRA.

I falsi messia hanno avuto molti seguaci all’inizio, ma gradualmente li hanno persi del tutto. Gesù conserva i suoi seguaci attraverso tutti i secoli. Se il suo regno, la Chiesa, fosse un’opera umana, sarebbe già scomparso da tempo; ma dato che resiste nonostante tutte le persecuzioni, è necessariamente un’opera di Dio. Questo fu l’eccellente ragionamento di Gamaliele al Sinedrio (Act. Ap. V, 38).

3. GESÙ SI È DICHIARATO ESPRESSAMENTE COME IL SALVATORE IN PARTICOLARE NEL COLLOQUIO CON LA SAMARITANA E DAVANTI AL SOMMO SACERDOTE CAIFA.

“Io so”, disse la Samaritana, “che il Messia (cioè il Cristo) verrà”. Gesù le rispose: “Io che ti parlo sono lui”. (S. Giovanni IV). – Il sommo sacerdote Caifa disse a Gesù: “Ti ordino nel nome del Dio vivente di dirmi se sei il Cristo, il Figlio di Dio, e Gesù rispose: “Lo sono” (S. Matth. XXVI, 64). Inoltre, Gesù lodò S. Pietro quando gli disse: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente “. (S. Matth. XVI, 16).

4. ANCHE GLI ANGELI LO HANNO PROCLAMATO LORO SALVATORE, SIA QUELLO DELLA CAMPAGNA DI BETLEMME, SIA QUELLO CHE APPARVE A GIUSEPPE.

Un Angelo apparve ai pastori nei campi di Betlemme e disse loro: “Non temete. Perché ecco, vi porto una buona notizia di grande gioia per tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, vi è nato un Salvatore, il Cristo Signore. (S. Luca II,10). – Giuseppe, che voleva ripudiare Maria, vide in sogno un Angelo che gli annunciò la nascita di Gesù. e gli disse: “Lo chiamerai Gesù, perché egli salverà il suo popolo dai suoi peccati” (S. Matth. I, 21). Perché Gesù di Nazareth è il Cristo, cioè il Messia, è chiamato Gesù Cristo, nome che Egli stesso si è dato. (S. Giovanni XVII, 3).

6. LA VITA DI CRISTO.

L’infanzia e la giovinezza di Cristo.

La nascita di Gesù fu annunciata alla B. Vergine Maria a Nazareth dall’Arcangelo Gabriele. (S. Luc. I, 25).

Questo messaggio ci viene ricordato nella festa dell’Annunciazione (25 marzo), dall’Angelus del mattino, di mezzogiorno e della sera, e dalla prima parte dell’Ave Maria, che consiste nelle parole dell’Arcangelo. – Dopo l’Annunciazione della nascita Maria visitò sua cugina Elisabetta. Elisabetta la salutò con le parole contenute nella 2a parte dell’Ave Maria. Fu a casa di Elisabetta che Maria cantò il mirabile cantico del Magnificat. (S. Luc. 1). Questo mistero ci viene ricordato dalla festa della Visitazione (2 luglio – in certi Paesi questa festa è ancora di precetto, altrove è trasferita alla prima domenica di luglio; cadendo nella ottava della nascita di S. Giovanni Battista, alcuni interpreti pensano che la Vergine restasse nella casa di Zaccaria fino alla nascita del Precursore); anche S. Giuseppe, come abbiamo detto in precedenza, fu avvertito da un Angelo della nascita di Cristo.

CRISTO NACQUE DALLA VERGINE MARIA A BETLEMME, IN UNA STALLA.

L’imperatore Augusto aveva ordinato il censimento del popolo, così Maria e Giuseppe dovettero recarsi nella loro città natale, Betlemme (S. Luc. II, 1). Dando questo ordine, Augusto, come molti sovrani, servì come strumento inconsapevole del fatto che Ella non trovò posto a Betlemme (ibid.). Questa stalla sembra essere stata fuori Betlemme, nelle rovine di un palazzo di Davide, che in seguito servì come rifugio per i pastori e le loro greggi (Cath. Emmerich). La nascita di Cristo fu miracolosa quanto il suo concepimento, poiché Maria fu esentata dalla maledizione (Gen. III, 16) pronunciata contro Eva; fu esentata, dice S. Bernardo, dai dolori della maternità, perché era libera dalla concupiscenza. – A proposito di questa nascita, Sant’Agostino esclama: “Ecco, colui che sostiene i mondi giace in una mangiatoia! Colui che è il cibo degli angeli è è nutrito da una madre. La forza è diventata debolezza perché la debolezza diventi forte. “Un grande medico è disceso dal cielo, perché sulla terra c’è un infermo, gravemente malato; egli ci cura con un metodo nuovo, togliendoci le malattie. “Cristo – dice San Paolo – si è fatto povero, essendo ricco perché noi fossimo arricchiti dalla sua povertà” (2 Cor. VIII, 9). – Tutte le circostanze che circondano la nascita di Cristo sono piene di misteri (come lo sono tutti gli eventi della sua vita): 1. Gesù nacque a Betlemme (la casa del pane), perché Egli è il pane dal cielo (S. Ger.); a Betlemme e non a Nazareth, cioè in un luogo estraneo, perché aveva lasciato il cielo, la sua patria, per venire sulla terra, dove è uno straniero per la maggior parte degli uomini. 2 Nacque tra i pastori e le loro greggi, perché voleva essere il buon pastore (San Giovanni) di un grande gregge. 3 È nato in una stalla, perché la terra è più misera di questa grotta rispetto al cielo. Non è nato in un palazzo, per ispirare fiducia a tutti coloro che vogliono avvicinarsi a Lui. (S. P. Chr.) 4. Nasce oscuro, perché è il Dio nascosto. (Is. XLV, 15), invisibile a noi in questa vita, che ama le opere buone fatte in segreto (S. Matth. VI, 1-6). 5. Egli giace in una mangiatoia dove gli animali prendono il loro cibo. perché anche Lui vuole essere il cibo delle anime. Egli fin dalla nascita è adagiato sul legno, per indicare che è venuto sulla terra per morire sulla croce, (Similitudine tra la culla e il tabernacolo). 6. Egli è nato in una notte, perché quando arrivò il genere umano era immerso nelle tenebre dell’ignoranza di Dio. 7. Nasce in inverno, in una notte fredda (in Palestina le notti sono relativamente molto fredde), perché i cuori degli uomini erano freddi, totalmente privi dell’amore di Dio e 8. Scende dal cielo di notte, come la rugiada (Is. XLV, 8), perché esercita sugli uomini l’azione benefica della rugiada sulle piante. 9 Nasce quando a Roma il tempio di Giano è chiuso e la pace regna su tutta la terra, perché è il principe della pace (id. IX, 6), è un Dio di pace. 10.Egli viene sotto forma di bambino e non in età matura, per attirarci di più: noi ci spaventiamo di fronte a un grande signore, ma ci avviciniamo a un bambino piccolo non solo senza paura, ma con compassione, quando ascoltiamo i suoi gemiti. 11. Gesù viene nella povertà e nell’indigenza per mostrarci che il cielo non si raggiunge attraverso i piaceri e i godimenti sensuali ma attraverso la sofferenza e l’abnegazione. 11 vuole dimostrare che è un amico dei poveri, ai quali si rivolgerà per prima cosa per annunciare la buona novella. (S. Luc. IV, 18). 12. Gesù fa risplendere una luce intensa nella notte di Betlemme, per indicare che egli è la luce venuta nel mondo per dissipare le tenebre (S. Luc. IV, 18). (S. Giovanni 1). 13.Il canto degli Angeli annuncia immediatamente il motivo della sua venuta: Egli vuole glorificare Dio (S. Giovanni XIII. 32), portare agli uomini la pace: pace con Dio attraverso il suo sacrificio di riconciliazione sulla croce, pace con il loro prossimo attraverso la pratica della carità, dell’amore per i nemici, della mitezza; pace con se stessi attraverso la contentezza derivante dalla pratica delle virtù evangeliche. 14. Fece annunciare la sua venuta dagli Angeli, non ai superbi farisei e agli scribi, ma ai pastori, perché nasconde i suoi misteri ai saggi e ai prudenti di questo mondo e li rivela ai piccoli, (S. Matth. XL 25) e che dà la sua grazia agli umili, mentre resiste ai superbi (I Pietro V, 5). Inoltre ha indicato che, nel corso dei secoli, il Vangelo sarebbe rimasto per gli orgogliosi, anche per i più dotti, un libro chiuso, mentre sarebbe stato compreso dagli umili e dai piccoli. Egli chiama alla sua mangiatoia prima i Giudei, nella persona dei pastori, poi le nazioni, nella persona dei Magi, indicando che avrebbe mandato i suoi Apostoli prima ai Giudei (S. Matth. XV, 24) e poi ai Gentili per chiamarli alla Chiesa. 16. La stella meravigliosa che apparve ai Magi doveva indicare agli uomini che Cristo è l’Ammirabile annunciato da Isaia (IX, 6). 17. Il censimento fatto al momento della sua nascita, richiama quella del suo secondo Avvento; Gesù inizia così a insegnare nella sua nascita prima che iniziasse a balbettare. (Cat. rom.). Osservazioni liturgiche. Natale, il 25 dicembre è la festa della Natività di Cristo. – La notte di Natale si celebra una Messa solenne a mezzanotte e ogni sacerdote deve celebrare tre messe per ricordare il triplice avvento di Gesù (in forma umana a Betlemme, sotto le specie eucaristiche sull’altare e nella sua maestà nell’ultimo giorno), e la sua triplice nascita (la sua generazione eterna da parte del Padre, la nascita temporale da Maria e la sua nascita spirituale nei nostri cuori per grazia). L’usanza di erigere culle nelle chiese risale a San Francesco d’Assisi. L’albero di Natale ricorda l’albero fatale del paradiso e anche l’albero della croce. Per questo motivo vi si appendono frutta, luci e oggetti preziosi. I regali di Natale sono un simbolo dei doni ricevuti dall’umanità da Dio Padre. – All’indomani si celebra la festa di Santo Stefano e quella di San Giovanni Evangelista il giorno successivo, poi quella dei SS. Innocenti. La Chiesa sembra dirci: Se vuoi arrivare a Gesù Cristo, sii come Stefano, un martire, cioè un testimone, se non con il sangue, almeno con l’abnegazione e la pazienza; siate come Giovanni pieni di amore per Dio e per il prossimo, praticando le opere di misericordia; siate come un bambino davanti a Dio. Le quattro settimane che precedono il Natale si chiamano Avvento (arrivo) e rappresentano i 4.000 anni che hanno preceduto la venuta del Salvatore. L’Avvento, che ci ricorda il peccato originale e la miseria della razza umana, è sempre stato considerato un tempo di penitenza. La Chiesa primitiva (480) prescriveva 3 giorni di digiuno alla settimana e faceva leggere ogni Domenica il Vangelo gli appelli di Giovanni Battista alla penitenza.

L’Avvento si conclude il 24 dicembre con la commemorazione di Adamo ed Eva, per mostrarci il contrasto tra il primo Adamo e il secondo, per mostrarci l’immensa misericordia di Dio rivelata nell’Incarnazione. L’Avvento coincide con una stagione fredda e buia, proprio come prima di Gesù l’umanità era sprofondata nel buio della comprensione e della freddezza del cuore (il mondo pagano era idolatra, praticava la schiavitù e i sacrifici umani).

Il neonato Gesù fu adorato prima dai pastori, poi dai tre Magi.

I pastori stavano accudendo le loro greggi nella campagna di Betlemme ed appresero da un Angelo che Cristo era nato (S. Luc. II, 9); i tre Magi provenienti dall’Oriente (da un paese situato ad est della Palestina), grazie ad una stella miracolosa, che li condusse alla mangiatoia. (S. Matth. II, 9). Questa stella non era dunque una stella ordinaria, perché si muoveva in varie direzioni: S. Giovanni Cris. crede anche che si trattasse di un Angelo in forma di stella. I Magi indicavano con i loro doni le qualità di Colui che adoravano (S. Irén.): la sua regalità, attraverso l’oro, simbolo di fedeltà; la sua divinità, per mezzo dell’incenso, simbolo di preghiera; il suo sacerdozio redentore dalla mirra, simbolo della mortificazione e della sua passione. I Magi tornarono al loro paese per una via diversa, per indicare che possiamo tornare in paradiso, la nostra patria, solo abbandonando la via del peccato, e percorrendo quella della penitenza, dell’obbedienza e del dominio di sé. (S. Grég. M.) – I pastori erano i rappresentanti dei Giudei (e dei poveri); i tre Re, quelli dei Gentili (e dei ricchi). Le reliquie dei Re Magi vennero portate da Federico Barbarossa a Colonia (1162), dove riposano nella Cattedrale. – La festa dei Re Magi si celebra il 6 gennaio. Il giorno prima, nella primitiva chiesa orientale, venivano battezzati i Pagani. – È chiamata anche festa dell’Epifania (apparizione) perché in questo giorno in alcune chiese si celebrava la Natività, cioè l’apparizione di Cristo sulla terra.

(Nella Chiesa greca, l’Avvento dura fino a questa festa). Questo giorno commemora anche il battesimo di Gesù Cristo e il suo primo miracolo a Cana.

Quando il Salvatore aveva otto giorni, fu circonciso e gli fu dato il nome di Gesù. (S. Luc. II, 21).

La circoncisione era una cerimonia simbolica di purificazione dai vizi. (S. Ambr.) Gesù (in ebraico, Joshua) significa Salvatore, liberatore. Questo nome, dice S. Paolo, è al di sopra di tutti i nomi (Fil. II, 9); esso è stato scelto da Dio stesso e annunciato alla Beata Vergine (S. Matth. Vergine (S. Matth. I, 21). Questo nome ha un potere divino; la sua invocazione ci procura soccorso nella tentazione e in ogni disgrazia; i demoni sono scacciati da esso. (S. Marc. XVI, 17). I Profeti chiamavano spesso il Messia, Emmanuele, cioè Dio con noi (Is. VII, 14). – La festa della Circoncisione, il 1° gennai è anche il nuovo anno. La Chiesa ci esorta ad iniziare tutto l’anno nel Nome di Gesù e a purificare i nostri cuori da ogni peccato e vizio (Col. II, 11), se vogliamo avere un anno nuovo buono e felice. Fu Papa Innocenzo XII che, nel 1691, fissò l’inizio dell’anno al primo di gennaio. In precedenza, si iniziava generalmente a Natale. La vigilia di Capodanno, S. Silvestro, era in altri tempi un giorno festivo; da qui, in alcune regioni, le funzioni solenni per chiudere l’anno. Inoltre, è opportuno che ogni Cristiano non passi questo giorno in piaceri insensati, ma di rendere grazie per le benedizioni di Dio nell’anno trascorso, perché in questo modo xe ne attiviamo di nuove per il futuro.

Quando Gesù aveva 40 giorni, fu presentato nel tempio di Gerusalemme. (S. Luc. n, 39).

Maria osservò la legge di Mosè (Lev. XII), anche se la sua purezza la esentava da essa, offrì Gesù, perché Dio, al tempo della morte del primogenito d’Egitto, riservò a sé il primogenito degli israeliti (Num. VIII, 17). – Questa festa della Purificazione è chiamata anche Candelora. Infatti la Chiesa ha istituito in questo giorno una

processione prima della Messa con le candele accese, perché nel tempio il vecchio Simeone aveva proclamato Gesù, la luce che illumina le nazioni (S. Luc. Il, 32), da cui l’espressione, Candelora. Prima della processione ha luogo la benedizione delle candele; il Sacerdote chiede luce e protezione per tutti coloro che le portano. Non è superstizione accendere queste candele durante i temporali, metterle tra le mani dei moribondi e chiedere l’aiuto di Dio per questa preghiera del Sacerdote. Sarebbe solo superstizione se a queste candele si attribuisse una virtù infallibile contro il fulmine: quest’ultimo può cadere nonostante la candela, ma Dio può proteggere il Cristiano devoto. – Il giorno dopo la Candelora si celebra la festa di S. Biagio: in questo giorno i Sacerdoti benedicono il collo dei fedeli con delle candele della vigilia, perché in questo modo S. Biagio salvò un bambino dalla morte. Le candele accese in questi due giorni simboleggiano Gesù come luce del mondo, secondo le parole di Simeone citate sopra. Seguendo l’esempio di Maria, le madri cristiane portano i loro bambini appena nati in chiesa per offrirli a Dio (la cerimonia dell’elevazione).

Gesù trascorse i primi anni della sua vita in Egitto. Poi visse a Nazareth fino al suo trentesimo anno (Matth. II).

Un Angelo ordinò a Giuseppe di fuggire con il bambino, perché Erode stava attentando alla sua vita. Egli allora fece uccidere tutti i bambini maschi di età inferiore ai due anni (ibid. 16). Questa piaga colpì le madri di Betlemme a causa della loro durezza nei confronti del Salvatore, rifiutando un asilo a sua madre e a Giuseppe. Gli Innocenti non persero nulla con questo martirio, anzi il battesimo di sangue procura la beatitudine eterna. In un sobborgo del Cairo (ex Heliopolis) si venera la casa dove visse la Sacra Famiglia. L’Egitto è stato benedetto dalla presenza di Gesù bambino, e divenne la dimora di migliaia di monaci che condussero una vita “angelica”(Sant’Antonio l’Eremita, San Paolo di Tebe). Fu su un’isola nel Nilo che S. Pacomio fondò il primo monastero (340). Dopo il suo ritorno dall’Egitto, Gesù visse a Nazareth; scelse questo luogo perché era disprezzato dai Giudei: voleva darci una lezione di umiltà. Fino all’età di 30 anni ha condotto una vita assolutamente nascosta, per raccomandarci la lontananzadalmondo.

All’età di 12 anni, Gesù si recò al tempio di Gerusalemme.

Lì stupì i maestri con la sua saggezza.

Quando Cristo raggiunse l’età dell’uomo, Giovanni il Battista nel deserto annunciò il ministero pubblico di Gesù.

Questa è la storia di Giovanni Battista: l’Arcangelo Gabriele annunciò la sua nascita a suo padre Zaccaria nel tempio nell’ora del sacrificio. Zaccaria non volle credere e divenne muto; (S. Luc. 1) alla nascita del bambino recuperò la parola e cantò il magnifico cantico del Benedictus (ibid. 57-80). Fin dall’adolescenza, Giovanni visse nel deserto e si preparò con austere penitenze ai suoi doveri di precursore del Salvatore. Quando Gesù aveva circa 28 anni (S. Luc. III, 1), Giovanni, ispirato da Dio, uscì dalla sua solitudine, predicò sulle rive del Giordano una severa penitenza alle masse che accorrevano a lui, annunciò la venuta del Messia e battezzò (S. Matth. III). Un giorno vide arrivare Cristo e gridò: Questo è l’Agnello di Dio, che toglierà i peccati del mondo. “(S. Giovanni I, 29). Quando Giovanni rimproverò Erode per la sua vita dissoluta, Erode lo fece gettare in prigione e poi decapitare durante un banchetto. (S. Matth. XIV). S. Giovanni è il modello degli anacoreti.

II. La vita pubblica di Cristo.

All’età di 30 anni, Gesù fu battezzato da Giovanni nel Giordano e poi digiunò per 40 giorni nel deserto, dove fu tentato dal diavolo (S. Matth. III, IV). Tutti i messaggeri di Dio si ritirarono in solitudine prima della loro vita pubblica; Mosè, Giovanni Battista e gli Apostoli prima della Pentecoste. Attraverso il suo digiuno e la sua lotta vittoriosa con il demonio, Gesù, il nuovo Adamo, ha voluto rimediare per il peccato di aver mangiato il frutto proibito nel paradiso e per la caduta nella tentazione. – Il numero 40 ricorre spesso nella Scrittura e i Padri ne hanno fatto il simbolo della penitenza.

La piaga del diluvio, il digiuno di Mosè ed Elia durò 40 giorni, i Niniviti ebbero 40 giorni per convertirsi, Gesù rimase 40 giorni sulla terra dopo la sua risurrezione; gli israeliti trascorsero 40 anni nel deserto. – Liturgia: In memoria del digiuno di Gesù, la Chiesa ha prescritto i 40 giorni di digiuno quaresimale, che iniziano il mercoledì delle ceneri. Per esortarci seriamente a fare penitenza, la Chiesa ci ricorda con forza il pensiero della morte. Il Sacerdote sparge la fronte con la cenere, simbolo della nostra mortalità, e ci dice: “Ricordati, o uomo, che sei polvere e in polvere ritornerai“. “Questa cenere è fatta con rami benedetti dell’anno precedente, per ricordarci la fugace vanità dei piaceri e della gloria terrena. La Quaresima dura dal Mercoledì delle Ceneri alla Domenica di Pasqua; durante questo periodo gli adulti, secondo la legge della Chiesa, consumano un solo pasto al giorno, e tutti i Cristiani devono evitare i piaceri rumorosi e meditare sulla passione del Salvatore. (Da qui i sermoni quaresimali e i veli sulle immagini dell’altare). La domenica, il sacerdote indossa paramenti di colore viola (il colore della penitenza), e invece di dire Ite missa est, che indica la fine dell’ufficio, dice Benedicamus Domino, come per invitare il popolo a rimanere in chiesa per pregare e benedire Dio. In molte chiese ci sono saluti serali in cui si canta il Miserere. – I 3 giorni che precedono la Quaresima sono chiamati carnevale (caro = carne, vale=addio). Per allontanarci dai piaceri rumorosi di questo periodo la Chiesa fece celebrare in alcune chiese l’esposizione delle 40 ore. La follia, in particolare le mascherate e i balli in maschera che precedono il Mercoledì delle Ceneri, sono di origine pagana; i pagani celebrano a febbraio, quando le giornate si allungano notevolmente, il presunto ritorno di Apollo sul suo carro splendente. La quinta domenica di Quaresima, le croci vengono velate per simboleggiare la fuga del Salvatore, che fu costretto a nascondersi per non essere ucciso prima del tempo (S. Giovanni XI, 54); questa domenica è detta della Passione, perché da quel momento in poi la Chiesa è assorta nel meditare la passione del Salvatore.

A partire dal suo 30° anno di vita, Cristo viaggiò per la Giudea e insegnò per quasi 3 anni, raccogliendo intorno a sé 72 discepoli tra i quali scelse 12 Apostoli.

Gesù iniziò il suo ministero dottrinale alla festa di nozze di Cana, dove compì il suo primo miracolo per mostrare che il regno a cui invita le persone è come un matrimonio. (S. Matth. XXII, 1). Cristo parlava spesso a grandi folle,

da 4000 a 5000 persone, senza contare donne e bambini. (Moltiplicazione dei pani); Zaccheo, il pubblicano, fu costretto a salire su un albero per vedere Cristo in mezzo alla folla. Gesù Cristo era solitamente accompagnato dai suoi Apostoli e discepoli; essi erano testimoni di tutte le sue parole ed azioni, al fine di proclamarle a tutti i popoli del mondo. Gli Apostoli erano figura dei Vescovi; i discepoli, quella dei Sacerdoti, i collaboratori degli Apostoli. Apostolo significa inviato. – La dottrina di Cristo è giustamente chiamata Vangelo, cioè buona notizia, perché il Vangelo annuncia la remissione delle pene del peccato e l’eredità del cielo. (S. Giovanni Cris.) – Cristo è il Maestro dei maestri; ha insegnato come se avesse autorità, in modo tale da stupire il popolo con la sua dottrina (S. Marco I, 22 – S. Matth. VII, 29).

Cristo parlava chiaramente, con semplicità ed illustrava il suo linguaggio con azioni simboliche, parabole, allusioni allo spettacolo della natura.

La dottrina di Cristo è come un tesoro nascosto nel campo del linguaggio semplice. (Matteo III, 44). Tutti gli uomini apostolici parlano in modo semplice; non cercano di piacere, ma di farsi capire e di fare del bene. Parlano con il cuore e il loro linguaggio è sempre semplice. – Gesù Cristo ha anche usato azioni simboliche. Ha alitato sugli Apostoli, comunicando loro lo Spirito Santo, che è come un soffio che emana dalla divinità; elevò le mani (S. Luc. XXIV, 50) dando loro il potere di insegnare e battezzare prima della sua ascensione. Quando guarì il cieco nato (S. Giovanni IX), “sputò a terra, fece un po’ di fango, lo strofinò negli occhi del cieco e lo portò alla piscina, come se volesse dire: “l’acqua viva della mia dottrina, che esce dalla mia bocca e si mescola alla polvere, ha guarito l’uomo dalla sua cecità spirituale se inoltre si fa battezzare. – Cristo parlava spesso in parabole: il figliol prodigo, la samaritana, il ricco epulone ed il povero Lazzaro, il fariseo nel tempio, la vergine saggia e quella stolta, il servo buono e quello cattivo, i 10 talenti, la pecora perduta, la dracma perduta, il fico, gli operai nella vigna, le nozze reali, il grande banchetto, le 7 parabole sul regno del cielo: il seminatore, il grano e la zizzania, il seme di senape, il lievito, la rete, il tesoro nel campo, la perla. – Cristo ha fatto continue allusioni allo spettacolo della natura davanti ai suoi occhi: il giglio e l’erba del campo, i passeri sul tetto, il seme, la zizzania, il fico, la vite, le pecore, i pastori. La natura e la religione cristiana hanno molte analogie, entrambe vengono da Dio.

Cristo ha predicato per primo il Vangelo ai poveri.

Lo disse lui stesso nella sua risposta ai discepoli di Giovanni: “Il Vangelo è stato predicato ai poveri”. (S. Matth. XI, 6); nella sinagoga di Nazareth applicò a se stesso come al Messia, queste parole del profeta: “Il Signore mi ha mandato a evangelizzare i poveri”. (S. Luc. IV, 18). I poveri sono già in parte distaccati dai beni di questo mondo, e quindi più pronti a ricevere il Vangelo.

Il pensiero fondamentale di tutti gli insegnamenti di Gesù Cristo è questo: “Cercate il regno di Dio”.

“Cercate prima il regno di Dio!” dice nel Discorso della Montagna (S. Matth. VI, 33), cioè cercate la felicità eterna. Gli evangelisti riassumono anche la dottrina di Gesù Cristo in queste parole: “Fate penitenza e credete al Vangelo, perché il regno dei cieli è vicino”. (S. Matth. IV, 17 – S. Marco 1, 15).

Cristo ha insegnato nuovi dogmi, ha dato una nuova legge una nuova legge, istituì nuovi mezzi di santificazione.

Insegna, ad esempio, il mistero della Santissima Trinità, la sua stessa divinità, il Giudizio Universale. Promulgò la duplice legge della carità e perfezionò il Decalogo, ha persino proibito l’ira, le parole ingiuriose, eccetera; – ha istituito il s. Sacrificio della Messa, i 7 sacramenti e ci insegnò il Padre Nostro.

Cristo ha giustificato la sua missione divina e la verità della sua dottrina con numerosi miracoli, con prove della sua onniscienza e dalla santità della sua vita.

Cristo stesso si è appellato ai suoi miracoli quando ha detto: “Se non credete a me (cioè alle mie parole), credete alle mie opere”. (S. Giovanni X, 38). Nicodemo conclude anche dai miracoli di Cristo la sua missione divina: “Nessuno può fare i miracoli che fai tu, se Dio non è con lui”. (S. Giovanni III, 2). Cristo ha compiuto tutti i suoi miracoli con il proprio potere, mentre altri li hanno compiuti solo in Nome di Dio o di Cristo. Ne parleremo più avanti in relazione alla divinità di Gesù Cristo. – Egli era onnisciente; conosceva i peccati più segreti: quelli della Samaritana, quelli dei Farisei che gli avevano portato l’adultera nel tempio; prevedeva i piani di Giuda per tradirlo, le debolezze di Pietro e molte altre circostanze della sua passione, e le sue predizioni si sono avverate.

– Cristo è ancora notevole per la sua straordinaria santità; la sua pazienza, dolcezza, umiltà, carità, ecc. non sono mai state eguagliate. Come potrebbe un uomo così santo mentire?

I farisei e gli scribi lo odiavano e lo perseguitavano, perché non era all’altezza delle loro aspettative di un Messia e attaccava i loro vizi; dopo la resurrezione di Lazzaro, progettarono addirittura di ucciderlo.

Volevano lapidarlo nel tempio (S. Giovanni VIII, 59; X, 31), gettarlo giù da una roccia a Nazareth (S. Luc. IV, 29); lo hanno vituperato; lo hanno chiamato servo del diavolo (S. Matth. XII, 24), un sobillatore, un profanatore del sabato. Gli tendevano trappole, ad esempio chiedendogli se fosse lecito pagare un tributo a Cesare”. Tutto l’insegnamento di Cristo era quindi già una sorta di sacrificio. – Gli ebrei pensavano che il Messia sarebbe stato un re temporale molto potente che li avrebbe liberati dal giogo romano e speravano che li avrebbe riempiti dei beni di questo mondo. Ma Gesù è nato nell’oscurità e nella povertà; ha prescritto la mortificazione, le opere di misericordia, ecc.. Inoltre, rimproverava ai farisei la loro ipocrisia e il loro atteggiamento puramente esteriore, e li chiamava sepolcri imbiancati (S. Matth. XXIII, 27), figli di Satana (S. Giovanni VIII, 44). Per questo lo perseguitarono e attaccarono la sua dottrina; poi quando i capi dei sacerdoti e i farisei vennero a sapere della risurrezione di Lazzaro, dissero: “Quest’uomo fa molti miracoli; se lo lasciamo fare, tutti crederanno in Lui” e decisero di ucciderlo. (S. Giovanni XI, 47-53).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. PIO XI – “RITE EXPIATIS”.

Questa volta, è una celebrazione di un Santo speciale ad indurre la composizione di questa Enciclica: San Francesco di Assisi. Il Sommo Pontefice ne fa una sapiente descrizione dando preminenza al fatto che questo insigne umilissimo personaggio abbia iniziato la ricostruzione di una Chiesa indebolita e di una società lontana da una pratica evangelica fervida e vivificante. Tra i tanti aspetti, il Santo Padre ne sottolinea uno che di solito viene taciuto di questo Santo poderoso nella sua opera di rivitalizzazione del culto, della morale e della povertà evangelica illanguidita in una civiltà la cui carità veniva sempre più raffreddandosi, e nella quale si infiltrava sempre più il desiderio delle attrattive del mondo e del peccato. Questo elemento è appunto l’attaccamento alla Sede apostolica del Romano Pontefice del Santo serafico e degli Ordini religiosi da lui costituiti. Questo è il vero segreto della santità a Dio gradito come atto di sottomissione – e quindi di amore – alla sua volontà, onde poi praticare le virtù ed i consigli evangelici. Ecco perché il demonio ha attaccato il Trono di Pietro con i suoi occupanti, fino a porvi un suo rappresentante nel tentativo, se mai fosse possibile, di distruggere la Chiesa e la società cristiana da essa modellata. Il paganesimo pratico che così ne è scaturito, imperniato sull’ideologia massonica dell’ecumenismo indifferentista, del culto rosa+croce del signore dell’universo, della messa maya e dell’idolo pachamana, sta minando alla base l’impianto della cristiana fede e della morale bimillenaria della Chiesa, scuotendo e confondendo le anime dei deboli, dei tiepidi, dei falsi e dei colpevoli ignoranti la dottrina. Ma ancora una volta i demoni non praevalebunt sulla vera Chiesa di Cristo, ma semmai solo sugli ipocriti finti cristiani di convenienza e di apparenza. Preghiamo il Santo serafico di Assisi perchè torni a restaurare il suoo Ordine così infangato dalla melma del modernismo, e la Chiesa tutta perchè si rinnovi nella sua bellezza, integrità morale, e luminosità per i popoli tutti dell’umanità.

LETTERA ENCICLICA
RITE EXPIATIS

 DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA, NEL SETTIMO CENTENARIO DELLA MORTE
DI SAN FRANCESCO D’ASSISI

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Il grande Giubileo celebratosi in Roma, e che è stato esteso al mondo intero per tutto il corso di quest’anno, è servito di purificazione delle anime e di richiamo per tanti ad un più perfetto tenore di vita. Ad esso sta ora per aggiungersi, quale compimento dei frutti o già ricavati o sperati dall’Anno Santo, la solenne commemorazione con cui da ogni parte i Cattolici si accingono a celebrare il settimo centenario del felice passaggio di San Francesco di Assisi dall’esilio terreno alla patria celeste. Orbene, avendo l’immediato Nostro predecessore assegnato all’Azione Cattolica quale Patrono questo Santo, donato dalla divina Provvidenza per la riforma non solo della turbolenta età in cui egli visse ma della società cristiana di ogni tempo, è ben giusto che quei Nostri figli, i quali lavorano in tal campo secondo i Nostri ordinamenti, di concerto con la numerosa famiglia francescana procurino di ricordare ed esaltare le opere, le virtù e lo spirito del Serafico Patriarca. In tale opera, rifuggendo da quell’immaginaria figura che del Santo volentieri si formano i fautori degli errori moderni o i seguaci del lusso e delle delicatezze mondane, cercheranno di proporre alla fedele imitazione dei Cristiani quell’ideale di santità che egli in sé ritrasse derivandolo dalla purezza e dalla semplicità della dottrina evangelica. Nostro desiderio dunque è che le feste religiose e civili, le conferenze e i discorsi sacri che si terranno in questo centenario mirino a che si celebri con manifestazioni di vera pietà il Serafico Patriarca, senza farne un uomo né totalmente diverso né soltanto dissimile da come lo formarono i doni di natura e di grazia, dei quali si servì mirabilmente per raggiungere egli stesso e per rendere agevole ai prossimi la più alta perfezione. Che se altri temerariamente paragona tra di loro i celesti eroi della santità, destinati dallo Spirito Santo chi a questa, chi a quella missione presso gli uomini — e tali paragoni, frutto per lo più di passioni partigiane, non riescono di nessun vantaggio e sono ingiuriosi verso Dio, autore della santità — tuttavia sembra potersi affermare non esservi mai stato alcuno in cui brillassero più vive e più somiglianti l’immagine di Gesù Cristo e la forma evangelica di vita che in Francesco. Pertanto, egli che si era chiamato l’« Araldo del Gran Re », giustamente fu salutato quale « un altro Gesù Cristo », per essersi presentato ai contemporanei e ai secoli futuri quasi Cristo redivivo; dal che derivò che come tale egli vive tuttora agli occhi degli uomini e continuerà a vivere per tutte le generazioni avvenire. Né è meraviglia, dato che i primi biografi contemporanei al Santo, narrandone la vita e le opere, lo giudicarono di una nobiltà quasi superiore all’umana natura; mentre quei Nostri predecessori che trattarono familiarmente con Francesco, non dubitarono di riconoscere in lui un aiuto provvidenziale inviato da Dio per la salvezza del popolo cristiano e della Chiesa. E perché, nonostante il lungo tempo trascorso dalla morte del Serafico, si accende di nuovo ardore l’ammirazione, non solo dei Cattolici, ma degli stessi acattolici, se non perché la sua grandezza rifulge alle menti di non minore splendore oggi che nel passato, e perché s’implora con ardente brama la forza della sua virtù, tuttora così efficace a rimediare ai mali della società? Infatti, l’opera sua riformatrice tanto profondamente penetrò nel popolo cristiano che, oltre a ristabilire la purità della fede e dei costumi, fece sì che i dettami della giustizia e della carità evangelica informassero più intimamente e regolassero la stessa vita sociale. – L’imminenza dunque di così grande e felice avvenimento Ci consiglia, servendoci di voi, Venerabili Fratelli, che della Nostra parola siete nunzi ed interpreti, di ridestare nel popolo cristiano quello spirito francescano, che non differisce punto dal modo di sentire e dalla pratica evangelica, richiamando alla memoria, in così opportuna congiuntura di tempo, gl’insegnamenti e gli esempi della vita del Patriarca d’Assisi. Ci piace così entrare come in gara di devozione coi Nostri predecessori, i quali non si lasciarono mai sfuggire nessuna commemorazione centenaria dei principali fasti della sua vita, senza proporne la celebrazione ai fedeli illustrandola con l’autorità del magistero apostolico. A questo proposito ben volentieri ricordiamo — e con Noi ricorderanno certo quanti sono ormai innanzi cogli anni — l’ardore acceso nei fedeli di tutto il mondo verso San Francesco e l’opera sua dall’Enciclica « Auspicato » scritta da Leone XIII quarantaquattr’anni fa, nella ricorrenza del settimo centenario della nascita del Santo; e come allora l’ardore concepito si manifestò in molteplici dimostrazioni di pietà e in una felice rinnovazione di vita spirituale, così non vediamo perché ugual esito non debba coronare la prossima celebrazione ugualmente importante. Anzi, le presenti condizioni del popolo cristiano lasciano sperare assai di più. Per una parte, infatti, nessuno ignora che oggi i valori spirituali sono dalla massa meglio apprezzati e che i popoli, ammaestrati dall’esperienza del passato a non dover attendersi pace e sicurezza se non tornando a Dio, guardano ormai alla Chiesa cattolica come ad unica sorgente di salvezza. D’altra parte, l’estensione a tutto il mondo dell’Indulgenza Giubilare coincide felicemente con questa commemorazione centenaria, che non può andare disgiunta dallo spirito di penitenza e di carità. – Sono ben note, Venerabili Fratelli, le aspre difficoltà dei tempi in cui ebbe a vivere Francesco. È verissimo che allora la fede era più profondamente radicata nel popolo, come testimonia il sacro entusiasmo con cui non solo i soldati di professione, ma gli stessi cittadini di ogni classe portarono le armi in Palestina per liberare il Santo Sepolcro. Tuttavia nel campo del Signore si erano man mano infiltrate e serpeggiavano eresie, propagate o da eretici manifesti o da occulti ingannatori, i quali, ostentando austerità di vita e una fallace apparenza di virtù e disciplina, facilmente trascinavano le anime deboli e semplici; pertanto si andavano spargendo tra le moltitudini perniciose faville di ribellione. E se alcuni si credettero, nella loro superbia, chiamati da Dio a riformare la Chiesa, alla quale imputavano le colpe dei privati, a non lungo andare, ribellandosi all’insegnamento e all’autorità della Santa Sede, manifestarono apertamente da quali intenti fossero animati; ed è notorio che la maggior parte di costoro ben presto finirono nella libidine e nella lussuria e persino nel turbamento dello Stato, scuotendo i fondamenti della religione, della proprietà, della famiglia e della società. In una parola, avvenne allora ciò che spesso si vide qua e là nel corso dei secoli; cioè, la ribellione mossa contro la Chiesa andava di pari passo con la ribellione contro lo Stato, aiutandosi a vicenda. Ma quantunque la fede cattolica vivesse nei cuori o intatta o non del tutto oscurata, venendo però meno lo spirito evangelico la carità di Cristo si era tanto intiepidita nella società umana da parere quasi estinta. Infatti, per tacere delle lotte impegnate, da una parte dai fautori dell’Impero, dall’altra dai fautori della Chiesa, le città italiane erano lacerate da guerre intestine, o perché le une volessero reggersi liberamente da sé sottraendosi alla signoria d’un solo, o perché le più forti volessero sottomettere a sé le più deboli, o per le lotte di supremazia tra i partiti di una stessa città; di tali contese erano frutto amaro stragi orrende, incendi, devastazioni e saccheggi, esilii, confische di beni e di patrimoni. Iniqua era poi la sorte di moltissimi, mentre tra signori e vassalli, tra maggiori e minori, come si diceva, tra padroni e coloni, correvano relazioni troppo aliene da ogni senso di umanità, e il popolo imbelle veniva impunemente vessato e oppresso dai potenti. Coloro poi che non appartenevano alla più misera categoria dei plebei, lasciandosi trasportare dall’egoismo e dall’avidità di possedere, erano stimolati da un’insaziabile ingordigia di ricchezze; senza badare alle leggi qua e là promulgate contro il lusso, facevano ostentatamente pompa di un pazzo splendore di abiti, di banchetti e di festini di ogni genere; povertà e poveri disprezzati; i lebbrosi, allora così frequenti, aborriti e trascurati nella loro segregazione; e ciò ch’è peggio, da tanta avidità di beni e di piaceri non andavano nemmeno esenti — benché molti del clero fossero commendevoli per austerità di vita — coloro che più scrupolosamente avrebbero dovuto guardarsene. Era perciò invalso l’uso di accaparrarsi e di ammucchiare ciascuno grandi e lauti guadagni da qualunque parte si potesse; non solo dunque con l’estorsione violenta del danaro o con l’esosità dell’usura, ma molti aumentavano ed impinguavano il patrimonio col mercimonio delle cariche pubbliche, degli onori, dell’amministrazione della giustizia e persino dell’impunità procurata ai colpevoli. La Chiesa non tacque, né risparmiò le punizioni; ma con qual giovamento, se perfino gli Imperatori, con pubblico cattivo esempio, si attiravano gli anatemi della Santa Sede e contumaci li disprezzavano? Anche l’istituzione monastica, che pure aveva condotto a maturità tanto lieti frutti, offuscata ora di polvere mondana, non era più così in grado di resistenza e di difesa; e se il sorgere di nuovi Ordini religiosi arrecò un po’ di aiuto e di forza alla disciplina ecclesiastica, occorreva però molto più fervida fiamma di luce e di carità per riformare la travagliata società umana. – Orbene, ad illuminare siffatta società e a ricondurla al puro ideale della sapienza evangelica, ecco apparire per divino consiglio San Francesco di Assisi, il quale, come cantò l’Alighieri, rifulse qual Sole, o come aveva già scritto, servendosi di simile figura, Tommaso da Celano, « brillò come fulgida stella nella notte caliginosa e quasi mattino che si distende sulle tenebre ». – Giovane d’indole esuberante e fervida, amante del lusso nel vestire, usava invitare a splendidi banchetti gli amici che si era scelto tra i giovani eleganti ed allegri e girava per le strade lietamente cantando, pur allora però facendosi notare per integrità di costumi, castigatezza nel conversare e disprezzo delle ricchezze. Dopo la prigionia di Perugia e le noie di una malattia, sentendosi non senza meraviglia intimamente trasformato, tuttavia, come se volesse sfuggire dalle mani di Dio, andò nella Puglia per compiervi imprese di valore. Ma durante il cammino, da un chiaro comando divino si sentì ordinare di ritornarsene ad Assisi per apprendere che cosa dovesse poi fare. Indi, dopo molti ondeggiamenti di dubbio, per divina ispirazione e per aver inteso alla messa solenne quel passo evangelico che riguarda la missione e il genere di vita apostolico, comprese di dover vivere e servire a Cristo « secondo la forma del Santo Vangelo ». Fin d’allora pertanto cominciò a congiungersi strettamente a Cristo e a renderglisi simile in tutto; e « tutto il suo impegno, sia pubblico sia privato, si rivolse alla croce del Signore; e fin dai primi tempi in cui cominciò a militare per Cristo, rifulsero intorno a lui i diversi misteri della croce ». E veramente egli fu buon soldato e cavaliere di Cristo per nobiltà e generosità di cuore; tanto che per non discordare in nulla, né egli né i suoi discepoli, dal suo Signore, oltre che ricorrere come ad oracolo al libro dei Vangeli quando doveva prendere una deliberazione, diligentemente conformò la legislazione degli Ordini da lui fondati con lo stesso Vangelo e la vita religiosa dei suoi con la vita apostolica. Perciò in fronte alla Regola giustamente scrisse: «Questa è la vita e la regola dei frati Minori, di osservare cioè il santo Vangelo di nostro Signor Gesù Cristo». Ma per stringere più dappresso l’argomento, vediamo con quale preclaro esercizio di virtù perfette si apparecchiasse Francesco a servire ai consigli della misericordia divina e a rendersi strumento idoneo della riforma della società. – Anzitutto, se non è difficile immaginare con la mente, crediamo impresa assai ardua descrivere a parole di quale amore avvampasse per la povertà evangelica. Nessuno ignora com’egli fosse per indole portato a soccorrere i poveri, e come, al dire di San Bonaventura, fosse pieno di tanta benignità, che « non sordo uditore del Vangelo » aveva stabilito di non mai negare soccorso ai poveri, massime se questi nel chiedere « allegassero l’amor di Dio»; ma la grazia spinse al culmine della perfezione la natura. Pertanto, avendo una volta respinto un povero, subito pentitosene, per intimo impulso divino si diede tosto a ricercarlo e ad alleviarne la miseria con ogni bontà ed abbondanza; un’altra volta, andandosene con una comitiva di giovani dopo un allegro convito cantando per la città, all’improvviso si fermò come attratto fuori di sé da una soavissima dolcezza spirituale, e tornato in se stesso ai compagni che l’interrogavano se allora avesse pensato a prender moglie, subito rispose con calore che avevano indovinato, perché egli veramente si proponeva di condurre una sposa, di cui non si troverebbe altra o più nobile o più ricca o più bella; intendendo con tali parole o la povertà o una religione che poggiasse specialmente sulla professione della povertà. Egli infatti da Cristo Signore, che si fece povero per noi, pur essendo ricco, affinché noi divenissimo ricchi della sua povertà, apprese quella divina sapienza, che non potrà mai essere cancellata dai sofismi della sapienza umana, e che sola può santamente rinnovare e restaurare tutto. Certo Gesù aveva detto: « Beati i poveri in spirito ». « Se vuoi essere perfetto, va, vendi quanto hai e donalo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi ». Siffatta povertà che consiste nella rinuncia volontaria di ogni cosa, fatta per amore e per ispirazione divina e che è del tutto contraria alla povertà forzata, arcigna e affettata di alcuni filosofi antichi, fu da Francesco abbracciata con tanto affetto, che la chiamava con riverente amore signora, madre e sposa. In proposito scrive San Bonaventura: «Nessuno fu mai così avido dell’oro com’egli della povertà, né più geloso nella custodia di un tesoro quanto egli di questa perla evangelica ». E lo stesso Francesco, raccomandando e prescrivendo ai suoi nella Regola dell’Ordine il particolare esercizio di questa virtù, manifesta la stima ch’egli ne aveva e quanto la amasse con queste chiarissime parole: «Questa è la sublimità dell’altissima povertà che costituisce voi carissimi fratelli miei, eredi e re del regno dei cieli; vi fece poveri di cose, vi sublimò di virtù. Questa sia la vostra porzione, a cui aderendo totalmente, null’altro vogliate avere in eterno sotto il cielo per il nome del Signor nostro Gesù Cristo ». La ragione per cui Francesco amò particolarmente la povertà, fu perché la considerava come familiare della Madre di Dio, e perché Gesù Cristo sul legno della croce, più che familiare, se la scelse a sposa, benché poi dagli uomini fosse dimenticata e riuscisse al mondo troppo amara ed importuna. Al che spesso ripensando, soleva prorompere in gemiti e lacrime. Orbene, chi non si commuoverà a questo insigne spettacolo di un uomo, che tanto s’innamorò della povertà da parere agli antichi compagni di divertimento e a molti altri uscito di senno? Che dire poi dei posteri, i quali, anche se lontanissimi dall’intelligenza e dalla pratica della perfezione evangelica, furono compresi per sì ardente amante della povertà di un’ammirazione, che ognora aumentando riesce ancora a colpire gli uomini dell’età nostra? Questo senso di ammirazione dei posteri precorse l’Alighieri con quel canto dello sposalizio tra Francesco e la Povertà, dove non sapresti se più ammirare la grandiosa sublimità delle idee o la dolcezza e l’eleganza del verso. – Ma l’alto concetto e il generoso amore che della povertà nutrivano la mente e il cuore di Francesco, non potevano restringersi soltanto alla rinunzia dei beni esterni. Chi infatti riuscirebbe ad acquistare, sull’empio del Signor nostro Gesù, la vera povertà, se non si facesse povero in ispirito e piccolo per mezzo della virtù dell’umiltà? Ciò ben comprendendo Francesco, non disgiungendo mai l’una dall’altra virtù, ambedue così insieme calorosamente saluta: « Santa Signora povertà, il Signore ti salvi con la sorella santa umiltà… La santa povertà confonde ogni cupidigia e avarizia e ansietà di questo secolo. La santa umiltà confonde la superbia e tutti gli uomini di questo mondo e le cose tutte che sono nel mondo ». – Così per dipingere Francesco in una parola, l’autore dell’aureo libro «Dell’Imitazione di Cristo », lo chiama « l’umile ». «Quale è ciascuno innanzi ai tuoi occhi (o Signore), tanto vale e non più, dice l’umile San Francesco ». Egli ebbe infatti soprattutto a cuore di comportarsi con umiltà, come il minimo e ultimo di tutti. Perciò, fin dal principio della sua conversione, desiderava con ardore di essere schernito e deriso da tutti; e poi, sebbene fondatore, legislatore e Padre dei Frati Minori, si prendeva qualcuno dei suoi per superiore e padrone, da cui dipendere; indi, appena fu possibile, senza lasciarsi piegare da preghiere e da pianti dei suoi, volle deporre il governo supremo dell’Ordine « per osservare la virtù della santa umiltà » e restare « quindi innanzi suddito fino alla morte, vivendo più umilmente che qualsiasi altro »; offertagli spesso da Cardinali e da magnati ospitalità generosa e splendidissima, la ricusava recisamente; mentre agli altri mostrava maggiore stima e rendeva ogni onore, metteva se stesso in dispregio fra i peccatori, facendosi come uno di loro. Si credeva infatti il più grande peccatore, usando dire che se la misericordia usatagli da Dio fosse stata fatta a qualche altro scellerato, questi sarebbe riuscito migliore dieci volte tanto, e a Dio solo doversi quindi attribuire, perché da Dio unicamente derivato, quanto si trovava in lui di bello e di buono. Per questa ragione occultava con ogni studio i privilegi e carismi che potevano procacciargli la stima e la lode degli uomini, e anzitutto le stimmate del Signore impresse nel suo corpo; e se talora in privato o in pubblico veniva lodato, non solo si reputava e protestava degno di disprezzo e vituperio, ma se ne contristava, tra sospiri e lamenti, con incredibile rammarico. – Che dire poi dell’essersi stimato tanto indegno da non volere ordinarsi sacerdote? Su questo medesimo fondamento dell’umiltà egli volle che si appoggiasse e consolidasse l’Ordine dei Minori. E se con esortazioni di una sapienza meravigliosa ammaestrava ripetutamente i suoi come non potessero gloriarsi di nulla, e molto meno delle virtù e grazie celesti, ammoniva soprattutto, e secondo l’opportunità rimproverava quei frati che per i loro officii andavano esposti al pericolo di vanagloria e di superbia, come i predicatori, i letterati, i filosofi, i superiori dei conventi e delle province. Sarebbe lungo scendere ai particolari, ma basti questo solo: San Francesco dagli esempi e dalle parole di Cristo derivò l’umiltà nei suoi, quale distintivo proprio dell’Ordine; volle infatti che i suoi fossero chiamati « minori », e « ministri » fossero detti tutti i prelati del suo Ordine, e « ciò per usare il linguaggio del vangelo ch’egli aveva promesso di osservare, sia perché suoi discepoli dallo stesso nome capissero di essere venuti alla scuola dell’umile Cristo per imparare l’umiltà ». – Abbiamo veduto come il Serafico per l’ideale stesso che aveva in mente della povertà più perfetta, si faceva tanto piccolo ed umile da ubbidire con semplicità di bambino ad un altro o meglio, possiamo aggiungere, a quasi tutti, perché chi non rinnega se stesso e non rinunzia alla propria volontà, certo non può dirsi o che si sia spogliato di tutte le cose, o che possa divenire umile di cuore. San Francesco, pertanto, col voto di obbedienza consacrò di buon animo e sottomise interamente al Vicario di Gesù Cristo la libertà della volontà, questo dono sopra tutti eminente da Dio conferito alla natura umana. Oh, quando male fanno e quanto vanno lungi dalla cognizione dell’Assisiate coloro che, per servire alle loro fantasie ed errori, s’immaginano, (cosa incredibile!) un Francesco intollerante della disciplina della Chiesa, noncurante degli stessi dogmi della Fede, precursore anzi e banditore di quella molteplice e falsa libertà, che si cominciò ad esaltare sul principio dell’età moderna, e tanto disturbo recò alla Chiesa ed alla società civile. Ora, con quanta intimità aderisse alla gerarchia della Chiesa, a questa Sede Apostolica e agli insegnamenti di Cristo, il banditore del gran Re può bene insegnare nei suoi mirabili esempi ai Cattolici ed agli acattolici tutti. Consta infatti dai documenti storici di quell’età, i più degni di fede, che egli « venerava i sacerdoti e con estremo affetto abbracciava tutto l’Ordine ecclesiastico »; da « uomo cattolico e tutto apostolico » insisteva principalmente, nella sua predicazione, « che si mantenesse inviolabile la fedeltà alla Chiesa, e per la dignità del Sacramento del Signore, che si compie per ministero dei sacerdoti, si tenesse in riverenza somma l’ordine sacerdotale. E parimenti insegnava doversi in gran maniera riverire i maestri della legge divina e tutti gli ordini del Clero ». E ciò che insegnava dal pulpito al popolo, inculcava molto più caldamente ai suoi frati, cui soleva anche avvisare di tempo in tempo — come nel suo famoso testamento e in punto di morte li ammonì con gran forza — che nell’esercizio del sacro ministero obbedissero umilmente ai prelati ed al clero, e si portassero con essi quali figliuoli della pace. – Ma il punto più capitale in questo argomento è che appena il Serafico Patriarca ebbe formata e scritta la Regola propria del suo Ordine, non indugiò un istante a presentarla personalmente, con i primi undici discepoli, ad Innocenzo III perché l’approvasse. E quel Pontefice d’immortale memoria, mirabilmente commosso dalle parole e dalla presenza dell’umilissimo Poverello divinamente ispirato, abbracciò con grande amore Francesco, sancì con l’autorità apostolica la Regola da lui presentata ed ai nuovi operai diede inoltre la facoltà di predicare la penitenza. A questa Regola poi di poco ritoccata, come ci attesta la storia, Onorio III aggiunse nuova conferma su preghiera di Francesco. Il Serafico Padre volle che la Regola e la vita dei Frati Minori fosse questa: osservare « il santo Vangelo del Signor Nostro Gesù Cristo vivendo in obbedienza, senza cosa propria e in castità », né già a capriccio proprio o secondo una propria interpretazione, ma al cenno dei Romani Pontefici, canonicamente eletti. Quanti poi anelano a « ricevere questa vita… siano esaminati diligentemente dai Ministri intorno alla fede cattolica ed ai sacramenti della Chiesa, e se credono tutte queste cose e intendono confessarle e osservarle fermamente sino alla fine; coloro poi che siano incorporati nell’Ordine, non se ne allontanino per nessun conto « secondo il mandato del Signor Papa ». Ai chierici si prescrive che celebrino i divini offici, « secondo l’Ordine della Chiesa Romana »; ai frati in generale, che non predichino nel territorio di un Vescovo senza suo comando, e non entrino, anche per causa di ministero, nei conventi delle religiose senza facoltà speciale dell’Apostolica Sede. Né minore riverenza e docilità verso la Sede Apostolica ci mostrano le parole che usa Francesco nel prescrivere che si domandi un Cardinale protettore: « Per obbedienza ingiungo ai Ministri che domandino al Signor Papa qualcuno dei Cardinali della Santa Chiesa Romana che sia guida, protettore e correttore di questa Fratellanza; affinché, sempre subordinati e soggetti ai piedi della stessa Santa Chiesa Romana, stabili nella fede cattolica, osserviamo il santo Vangelo del Signor nostro Gesù Cristo ». – Ma non si può tacere di quella « bellezza e mondezza di onestà » che il Serafico « singolarmente amava », cioè di quella castità di anima e di corpo che egli custodiva e difendeva con l’asperrima macerazione di se stesso. E l’abbiamo pure veduto giovane, festoso ed elegante, aborrire da qualsiasi bruttura anche di parole. Ma quando poi rigettò i vani piaceri del secolo, cominciò tosto a reprimere con ogni rigore i sensi, e se mai gli accadeva di sentirsi agitato da moti sensuali, egli non esitava o a ravvolgersi fra gli spinosi roveti, o ad immergersi nelle gelide acque del più crudo inverno. – È, infatti, noto che il nostro Santo, studiandosi di richiamare gli uomini a conformare la loro vita agli insegnamenti del Vangelo, soleva esortare tutti « ad amare e temere Dio ed a far penitenza dei proprii peccati », ed a tutti si faceva predicatore di penitenza col suo stesso esempio. Infatti cingeva alle carni un cilicio, vestiva una povera e ruvida tonaca, andava a piedi nudi, prendeva riposo appoggiando il capo a una pietra o ad un tronco, si nutriva quel tanto solo che bastasse a non morire d’inedia, e al suo cibo mescolava acqua e cenere per togliergli ogni gusto; anzi, passava quasi interamente digiuno la maggior parte dell’anno. Inoltre, sia che fosse sano o infermo, trattava con dura asprezza il suo corpo, ch’egli soleva paragonare ad un asinello; e non s’indusse a concedere al suo corpo qualche sollievo o riposo, neanche quando, negli ultimi anni della sua vita, fatto a Cristo similissimo per le Stimmate, quasi inchiodato alla Croce, era tormentato da molte infermità. Né trascurò di avvezzare i suoi all’austerità ed alla penitenza, benché — ed in ciò soltanto « la lingua fu diversa dall’opera del santissimo patriarca » — li ammonisse di moderare l’eccessiva astinenza e afflizione del corpo. – Chi non vede quanto manifestamente tutto ciò procedesse dal medesimo fonte della carità divina? Infatti, come scrive Tommaso da Celano, « ardendo sempre di amore divino, bramava di dar mano ad opere forti, e camminando di gran cuore nella via dei comandamenti divini, anelava a raggiungere la somma perfezione ». Secondo la testimonianza di San Bonaventura, « tutto quanto… quasi brace ardente, sembrava consumarsi nella fiamma dell’amore divino »; onde vi erano taluni che si scioglievano in lacrime « vedendolo sì rapidamente levato a tanta ebbrezza di divino amore ». E siffatto amore di Dio si effondeva talmente verso il prossimo, che egli, vincendo se stesso, abbracciava con particolare tenerezza i poveri, e tra essi i più miseri, i lebbrosi, dai quali aveva tanto aborrito nella sua giovinezza; e dedicò ed obbligò tutto se stesso e i suoi alle loro cure e al loro servizio. Né minor carità fraterna volle regnasse tra i suoi discepoli: onde la francescana famiglia sorse come « un nobile edificio di carità, nel quale pietre vive, radunate da ogni parte del mondo, vengono edificate in abitacolo dello Spirito Santo ». – Ci è piaciuto, Venerabili Fratelli, trattenervi alquanto più a lungo nella contemplazione di queste altissime virtù, appunto perché, nei nostri tempi, molti, infetti dalla peste del laicismo, hanno l’abitudine di spogliare i nostri eroi della genuina luce e gloria della santità, per abbassarli ad una specie di naturale eccellenza e professione di vuota religiosità, lodandoli e magnificandoli soltanto come assai benemeriti del progresso nelle scienze e nelle arti, delle opere di beneficenza, della patria e del genere umano. Non cessiamo perciò dal meravigliarci come una tale ammirazione per San Francesco, così dimezzato e anzi contraffatto, possa giovare ai suoi moderni amatori, i quali agognano alle ricchezze e alle delizie, o azzimati e profumati frequentano le piazze, le danze e gli spettacoli o si avvolgono nel fango delle voluttà, o ignorano o rigettano le leggi di Cristo e della Chiesa. Molto a proposito cade qui quell’ammonimento: « A chi piace il merito del Santo, deve altresì piacere l’ossequio e il culto a Dio. Perciò, imiti quel che loda, o non lodi quella che non vuole imitare. Chi ammira i meriti dei Santi, deve egli stesso segnalarsi nella santità della vita ». Pertanto Francesco, agguerrito dalle forti virtù che abbiamo ricordate, è provvidenzialmente chiamato all’opera di riforma e di salvezza dei suoi contemporanei e di aiuto per la Chiesa universale. – Nella chiesa di San Damiano, dove era solito pregare con gemiti e sospiri, per tre volte aveva udito scendere dal cielo una voce: «Va’, Francesco, restaura la mia casa che cade. Egli, per quella profonda umiltà che lo faceva credere a se stesso incapace di compiere qualsiasi opera grandiosa, non ne comprese l’arcano significato; ma bene lo scoprì Innocenzo III chiaramente argomentando quale fosse il disegno del misericordiosissimo Iddio da una visione miracolosa in cui gli si presentò Francesco in atto di sostenere con le sue spalle il tempio cadente del Laterano. Il Serafico Santo, dunque, fondati due Ordini, uno per uomini, l’altro per donne, aspiranti alla perfezione evangelica, prese a percorrere rapidamente le città italiane, annunziando, o da se stesso o per mezzo dei primi discepoli che si era associati, e predicando al popolo la penitenza, in un modo di dire breve e infocato, raccogliendo da tal ministero, e con la parola e con l’esempio, frutti incredibili. In tutti i luoghi ove egli si recava a compiervi Ministeri apostolici, si facevano incontro a Francesco il clero e il popolo, processionalmente, tra suoni di campane e canti popolari, agitando in aria rami di olivo. Persone di ogni età, sesso e condizione gli si affollavano attorno, e assiepavano di giorno e di notte la casa ove abitava, per vederlo uscire, toccarlo, parlargli, ascoltarlo. Nessuno, per quanto invecchiato in una continua consuetudine di vizi e di peccato, poteva resistere alla sua predicazione. Quindi moltissime persone, anche di età matura, abbandonavano a gara tutti i beni terreni per amore della vita evangelica, e interi popoli d’Italia, rinnovati nei costumi, si ponevano sotto la direzione di Francesco. Anzi, era cresciuto a dismisura il numero dei suoi figliuoli, e tale era l’entusiasmo di seguire le sue orme suscitato ovunque, che lo stesso Serafico Patriarca spesso era costretto a dissuadere e a stornare dal proposito di lasciare il secolo uomini e donne già disposti anche a rinunziare all’unione coniugale e alla convivenza domestica. Intanto il desiderio che principalmente animava quei nuovi predicatori di penitenza era di ricondurre la pace fra individui, famiglie, città e terre, sconvolte e insanguinate da discordie interminabili. E si deve attribuire alla virtù sovrumana dell’eloquenza di quegli uomini rozzi, se ad Assisi, ad Arezzo, a Bologna e in tante altre città e terre si poté efficacemente provvedere ad una generale pacificazione, confermata talvolta con solenni convenzioni. A tale opera di generale pacificazione e riforma molto giovò il Terz’Ordine: istituzione che, con esempio nuovo fino allora, mentre ha lo spirito di Ordine religioso, non ha obbligo di voti, e si propone di somministrare a tutti, uomini e donne anche viventi nel secolo, i mezzi non solo di osservare la legge di Dio, ma di raggiungere la perfezione cristiana. Le Regole del nuovo sodalizio si riducono ai seguenti capi: Non accettare se non persone di schietta fede cattolica, e pienamente ossequenti alla Chiesa; modo di accettare nell’Ordine i candidati dell’uno e dell’altro sesso; ammissione alla professione, compiuto l’anno di noviziato, previo il consenso della moglie per il marito e del marito per la moglie; rispetto dell’onestà e della povertà nell’uso degli abiti, e modestia degli abbigliamenti muliebri; che i Terziari si astengano dai conviti, dagli spettacoli immodesti e dai balli; astinenza e digiuno; confessione da farsi tre volte l’anno, e altrettante la comunione, avendo cura di porsi in pace con tutti e di restituire la roba altrui; non indossare le armi se non in difesa della Chiesa Romana, della fede cristiana, e della propria patria, oppure con il consenso dei propri ministri; recita delle ore canoniche ed altre preci; dovere di dettare il legittimo testamento prima che scada un trimestre dall’entrata nell’Ordine; ricondurre quanto più presto si può la pace dei confratelli fra loro o con esterni, ove fosse turbata; che fare nel caso che i diritti o i privilegi del sodalizio fossero impugnati o violati; non prestar giuramento se non per urgente necessità riconosciuta dalla Sede Apostolica. Alle norme riferite se ne aggiungono altre di non minore importanza sul dovere di ascoltare la messa, sulle adunanze da convocare in tempi determinati, sulle sovvenzioni da prestarsi da ciascuno secondo le proprie forze in aiuto dei poveri e specialmente degli infermi e per tributare gli estremi offici ai soci defunti, sul modo di farsi scambievoli visite in caso di malattia, od anche di riprendere e ricondurre sulla buona via coloro che cadono e sono ostinati nel peccato, sul dovere di non ricusare gli uffici e i ministeri che vengono assegnati, e non adempierli trascuratamente; sulla risoluzione delle liti. – Ci siamo trattenuti su queste cose partitamente, affinché si veda come Francesco, sia col vittorioso apostolato suo e dei suoi, sia con l’istituzione del Terz’Ordine, gettò le fondamenta di un rinnovamento sociale operato radicalmente in conformità dello spirito evangelico. Omettendo pure ciò che riguarda, in tali Regole, il culto e la formazione spirituale che pure sono di primaria importanza, ognuno vede come dalle altre prescrizioni dovesse risultare tale ordinamento di vita privata e pubblica da formare del civile consorzio non soltanto una specie di convivenza fraterna, consolidata dalla pratica della perfezione cristiana, ma anche uno scudo al diritto dei miseri e dei deboli contro gli abusi dei ricchi e dei potenti, senza pregiudizio dell’ordine e della giustizia. Dalla consociazione infatti dei Terziari col clero, necessariamente risultava la felice conseguenza che i nuovi soci venivano a partecipare delle medesime esenzioni e immunità delle quali questo godeva. Così fin d’allora i Terziari non prestarono più il così detto solenne giuramento di vassallaggio, né venivano chiamati ai servizi militari o di guerra, né indossavano armi, perché essi alla legge feudale opponevano la regola del Terz’Ordine, alla condizione servile l’acquisita libertà. Ed essendo perciò molto vessati da chi aveva tutto l’interesse a far sì che le cose tornassero alle condizioni di prima, essi ebbero a loro difensori e patroni i Pontefici Onorio III e Gregorio IX, i quali sventarono quegli ostili attentati, anche comminando severe pene. Da qui quell’impulso di una salutare riforma dell’umana società; da qui la vasta espansione e l’incremento preso fra le nazioni cristiane dalla novella istituzione che aveva Francesco quale Padre e istitutore, ed insieme con lo spirito di penitenza il rifiorire dell’innocenza della vita; da qui quell’ardente fervore, onde fu dato vedere, non solo Pontefici, Cardinali e Vescovi, ricevere le insegne del Terz’Ordine, ma anche re e prìncipi, fra cui alcuni anche saliti in gloria di santità, i quali con lo spirito francescano s’imbevevano della evangelica sapienza; da qui le più elette virtù ritornate in pregio ed onore presso la società civile; da qui in una parola il mutarsi « la faccia della terra ». – Senonché Francesco « uomo cattolico e tutto apostolico », come attendeva in modo mirabile alla riforma dei fedeli, così si adoperava personalmente ed ordinava ai suoi discepoli di impiegarsi con alacrità alla conversione degli infedeli alla fede e alla legge di Cristo. Non occorre con molte parole rammentare una cosa a tutti ben nota, come cioè il Nostro, mosso dall’ardente brama di propagare il Vangelo e sostenere il martirio, non esitasse a recarsi in Egitto ed ivi comparire, animoso e ardito, alla presenza del Sultano. E nei fasti della Chiesa non sono registrati con parole di sommo onore quei numerosi banditori del Vangelo i quali sin dai primordi, e per così dire nella primavera dell’Ordine minoritico, trovarono il martirio in Siria e nel Marocco? Tale apostolato nel corso dei tempi fu poi dalla molteplice famiglia francescana proseguito con tanto zelo, e non senza largo spargimento di sangue, che sono moltissime le regioni d’infedeli le quali, per disposizione dei Romani Pontefici, si trovano affidate alle loro cure. – Nessuno vorrà quindi meravigliarsi che, per tutto il passato periodo di ben settecento anni, la memoria dei tanti benefizi da lui derivati né in alcun tempo né in alcun luogo si sia mai potuta cancellare. Anzi, vediamo come la vita e l’opera di lui, la quale non da lingua umana, ma, come scrive l’Alighieri, « meglio in gloria del ciel si canterebbe », di secolo in secolo si è imposta e tramandata al culto ed all’ammirazione in modo che egli non solo grandeggia alla luce del mondo cattolico per l’insigne gloria della santità, ma splende anche con un certo culto e gloria civile onde il nome di Assisi è divenuto familiare ai popoli di tutto il mondo. Era passato infatti poco tempo dalla sua morte, che presero a sorgere in ogni parte, per voto di popolo, chiese dedicate in onore del Serafico Padre, mirabili per magistero di architettura e di arte; e fra i più insigni artefici fu come una gara a chi fra loro riuscisse a ritrarre con maggior perfezione e bellezza l’immagine e le gesta di Francesco in pittura, in scultura, in intaglio, in mosaico. Così a Santa Maria degli Angeli, in quella pianura, dalla quale Francesco « povero ed umile entrò ricco nel cielo », come al luogo del sepolcro glorioso, sul colle di Assisi, concorrono, e d’ogni parte affluiscono pellegrini, quando alla spicciolata, quando a schiere, per ravvivare insieme, a vantaggio dell’anima, la memoria di un così gran Santo, ed insieme ammirare quegli immortali monumenti di arte. Inoltre, a cantare l’Assisiate sorse, come abbiamo veduto, un lodatore che non ha pari, Dante Alighieri, e dopo di lui non mancarono altri che illustrarono le lettere in Italia e altrove, esaltando la grandezza del Santo. Ma specialmente ai nostri giorni, studiati più a fondo dagli eruditi gli argomenti francescani e moltiplicate in gran numero le opere a stampa in varie lingue, e ridestati gl’ingegni dei competenti a compiere lavori ed opere artistiche di gran pregio, l’ammirazione verso San Francesco divenne fra i contemporanei smisurata, quantunque non sempre bene intesa. Così altri presero ad ammirare in lui l’indole naturalmente portata a manifestare poeticamente i sentimenti dell’animo, e il «Cantico » famoso divenne la delizia della erudita posterità, la quale vi ravvisa un vetustissimo saggio del volgare nascente. Altri rimasero incantati dal suo gusto della natura, ond’egli sembra preso dal fascino non solo della natura inanimata, del fulgore degli astri, dell’amenità dei monti e delle valli umbre, ma, al pari di Adamo nell’Eden prima della caduta, discorre con gli animali stessi, quasi legato ad essi da una certa fratellanza, e li rende obbedientissimi ai suoi cenni. Altri ne esaltano l’amor di patria, perché a lui deve l’Italia nostra, che vanta il fortunato onore d’avergli dati i natali, una fonte di benefizi più copiosa che qualsiasi altro paese. Altri infine lo celebrano per quella sua veramente singolare comunanza di amore, che tutti gli uomini unisce. Tutto ciò è vero, ma è il meno, e da doversi intendere in retto senso: poiché chi si fermasse a ciò come alla cosa più importante, o volesse torcerne il senso a giustificare la propria morbidezza, a scusare le proprie false opinioni, a sostenere qualche suo pregiudizio, è certo che guasterebbe la genuina immagine di Francesco. Infatti, da quella universalità di virtù eroiche delle quali abbiamo fatto breve cenno, da quell’austerità di vita e prediazione di penitenza, da quella molteplice e faticosa azione per il risanamento della società, risalta in tutta la sua interezza la figura di Francesco, proposto non tanto all’ammirazione, quanto all’imitazione del popolo cristiano. Essendo Araldo del Gran Re, egli volse le sue mire a far sì, che gli uomini si conformassero alla santità evangelica e all’amore della Croce, non già che dei fiori e degli uccelli, degli agnelli, dei pesci e delle lepri si rendessero soltanto sdilinquiti amatori. – Che se egli verso le creature sembra trasportato da una certa tenerezza di affetto, e « per quanto piccole » le chiama « coi nomi di fratello o di sorella » — amore, peraltro, che quando non esca dall’ordine non è proibito da nessuna legge — non da altra causa che dalla sua stessa carità verso Dio egli si muove ad amare le dette creature, le quali « sapeva avere con lui uno stesso principio e nelle quali guardava la bontà di Dio; giacché « da per tutto egli va seguendo il Diletto sulle orme impresse nelle cose, di tutte le cose si fa scala per giungere al trono di Lui. Quanto al resto, che cosa proibisce agli italiani di gloriarsi dell’Italiano, il quale nella stessa liturgia è chiamato « luce della Patria »?. Che cosa impedisce ai fautori del popolo di predicare quella che fu la carità di Francesco verso tutti gli uomini, specialmente poveri? Ma gli uni si guardino per lo smoderato amore verso la propria nazione, di vantarlo quasi segno e vessillo di questo acceso amore nazionale, rimpicciolendo il « campione cattolico »; gli altri si guardino dal gabellarlo per un precursore e patrono di errori, dal che egli era lontano, quant’altri mai. D’altra parte tutti quelli che non senza qualche affetto di pietà prendono gusto a queste lodi minori dell’Assisiate e si affaticano con fervore a promuoverne le feste centenarie, piacesse al cielo che come sono degni del nostro encomio, così dalla stessa fausta ricorrenza traessero forte stimolo a esaminare più sottilmente l’immagine genuina di questo grandissimo imitatore di Cristo, e ad aspirare ai migliori carismi. – Intanto, Venerabili Fratelli, Noi abbiamo un bel motivo d’allegrezza, nel vedere come per la concorde mira di tutti i buoni a celebrare la memoria del Santo Patriarca, lungo l’anno sette volte secolare dalla sua morte, si vanno allestendo in tutto il mondo solennità religiose e civili, ma specialmente in quelle contrade, che egli vivente nobilitò con la presenza e con la luce della santità e con la gloria dei miracoli. Nel che vediamo con molto piacere andare voi innanzi, con l’esempio, ciascuno al proprio clero e gregge. E già fin d’ora si presentano all’animo Nostro, anzi quasi agli occhi Nostri, le foltissime schiere di pellegrini che andranno a visitare Assisi e gli altri vicini Santuari della verde Umbria, o gli scoscesi gioghi della Verna o i colli sacri che guardano sulla valle di Rieti; luoghi nei quali Francesco sembra ancora vivere e darci esempio delle sue virtù, e dei quali i pii visitatori non potranno non tornare a casa più imbevuti di spirito francescano. Infatti — per usare le parole di Leone XIII — « bisogna ben persuadersi che gli onori che si preparano a San Francesco torneranno particolarmente accetti a lui, cui sono indirizzati, se riusciranno fruttuosi a chi li rende. Ora, il più sostanziale e non passeggero profitto consiste in questo: che gli uomini prendano qualche tratto di somiglianza dalla sovrana virtù di colui che ammirano, e procurino di rendersi migliori imitandolo ». – Taluno forse dirà che a restaurare la società cristiana ci vorrebbe oggi fra noi un altro Francesco. Nondimeno, fate che gli uomini con rinnovato zelo prendano l’antico Francesco a maestro di pietà e di santità; fate che essi imitino e ritraggano in sé gli esempi che egli lasciò, come colui che era « specchio di virtù, via di rettitudine, regola di costumi »; non avrà questo tanta virtù ed efficacia che basti a sanare ed a troncare la corruzione dei nostri tempi?

In primo luogo, dunque, debbono ricopiare in sé l’immagine insigne del Padre e Legislatore i tanti suoi figli dei tre Ordini; i quali essendo « stabiliti in tutto il mondo » — come Gregorio IX scriveva alla beata Agnese, figlia del re di Boemia — « ogni giorno in essi l’Onnipotente è reso in molti modi glorioso » [33]. E con i religiosi del Primo ordine, quale che sia il loro nome francescano, da una parte Ci congratuliamo vivamente che dalle indegnissime vessazioni e spogliazioni, come oro passato nel crogiuolo, riprendano ogni giorno più l’antico splendore; e dall’altra sinceramente desideriamo che con l’esempio della propria penitenza ed umiltà levino quasi alte proteste contro la concupiscenza della carne e la superbia della vita così ampiamente diffusa. Sia ufficio loro richiamare il prossimo ai precetti evangelici del vivere: il che meno difficilmente conseguiranno, quando osservino scrupolosamente la Regola, che il Fondatore chiamava « libro della vita, speranza della salute, midolla del Vangelo, via della perfezione, chiave del paradiso, patto dell’eterna alleanza » [34]. Il Serafico Patriarca poi non cessi di assistere ed aiutare dal cielo la mistica vigna, che egli con le sue mani piantò, e la molteplice propaggine talmente nutrisca e corrobori dell’umore e del succo della fraterna carità, che tutti, divenuti « un cuore e un’anima sola », s’adoperino con ogni zelo al rinnovamento della famiglia cristiana.

Le sacre vergini, poi, del Secondo Ordine, partecipi « della vita angelica, che per Chiara divenne chiara », continuino a diffondere, quali gigli piantati nelle aiuole dell’Orto del Signore, il più soave olezzo e a piacere a Dio col niveo candore dell’anima. Per le loro preghiere, sì, avvenga che i peccatori, in molto maggior numero, ricorrano alla clemenza di Cristo Signore, e la Madre Chiesa senta crescere mirabilmente il proprio gaudio per i figli restituiti nella divina grazia e nella speranza dell’eterna salute. Infine Ci rivolgiamo ai Terziari, sia uniti in comunità regolari, sia viventi nel secolo, perché si adoperino anch’essi col proprio apostolato a promuovere il profitto spirituale del popolo cristiano. Il quale apostolato, se al principio li fece degni di essere chiamati da Gregorio IX soldati di Cristo e novelli Maccabei, può anche oggi riuscire di non minore efficacia per la comune salute, purché essi, quanto sono cresciuti di numero su tutta la terra, altrettanto, fatti simili al loro Padre San Francesco, diano prova d’innocenza e d’integrità di costumi. E quel che scrissero i Nostri antecessori Leone XIII nella Lettera « Auspicato », e Benedetto XV nell’Enciclica « Sacra propediem », significando a tutti i vescovi dell’orbe cattolico ciò che sarebbe loro piaciuto grandemente, questo stesso, Venerabili Fratelli, Noi Ci ripromettiamo dallo zelo pastorale di tutti voi: che cioè favorirete in tutti i modi il Terz’Ordine francescano, ammaestrando il gregge — o da voi stessi o per l’opera di sacerdoti colti e idonei al ministero della parola — sugli scopi di quest’Ordine di uomini e di donne secolari, e quanto sia da stimarsi, e come riesca spedito l’ingresso nel Sodalizio e facile l’osservanza delle Sante Regole, e quale l’abbondanza delle indulgenze e dei privilegi di cui i Terziari fruiscono; infine, che grande utilità ridondi dal Terz’Ordine sui singoli e sulla comunità. Coloro che non ancora abbiano dato il nome a questa gloriosa milizia, lo diano quest’anno su vostro incitamento; e coloro che ancora non lo possono dare per ragione dell’età, si iscrivano candidati cordiglieri, sì che da fanciulli s’avvezzino a questa santa disciplina. – E poiché dai salutari avvenimenti offertisi così spesso a celebrare, sembra Iddio benignamente volere che il nostro Pontificato non trascorra senza i più lieti frutti nel popolo cattolico, vediamo con gran piacere apparecchiarsi questa solenne celebrazione centenaria di San Francesco, il quale « mentre visse rifondò la casa, e ai suoi tempi fu ristoratore del tempio » [35]; tanto più che sin dal fiore degli anni lo venerammo Patrono con grande devozione e fummo già annoverati tra i suoi figli, prendendo le insegne del Terz’Ordine. In quest’anno dunque, che è il settecentesimo dalla morte del Padre Serafico, il mondo cattolico e la nostra nazione in particolare ricevano per intercessione di San Francesco, tanta dovizia di benefìci, che sia un anno da rimanere nella storia della Chiesa perpetuamente memorabile.

Intanto, Venerabili Fratelli, in auspicio dei celesti doni e a testimonianza della Nostra benevolenza, a voi, al clero e al popolo vostro di tutto cuore impartiamo nel Signore l’Apostolica Benedizione.

 Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 aprile dell’anno 1926, quinto del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2023)

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani,

comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La storia di Tobia che si legge nell’Officio divino a questa epoca, coincide spesso con questa Domenica. Sarà dunque cosa utile, continuare a studiare la Messa in relazione col biblico racconto. Tobia sarebbe vissuto, sembra, sotto il regno di Salmanasar, verso la fine del secolo VIII prima di Cristo, al tempo della deportazione degli Israeliti in Assiria. Come Giobbe, questo santo personaggio, diede prova di costanza e di fedeltà a Dio in mezzo a tutte le sue afflizioni. « Non abbandonò mai la via della verità, distribuendo ogni giorno quanto poteva avere ai fratelli e a quelli della sua nazione, che con lui erano in prigionia e, quantunque egli fosse il più giovane nella tribù di Nephtali, nulla di puerile riscontravasi nei suoi atti ». I l Salmo dell’Introito può essergli applicato, poiché parla di un adolescente che fin dai suoi più teneri anni ha camminato nella legge del Signore. Fino dagli anni della sua fanciullezza, dice la Sacra Scrittura, « Tobia osservava ogni cosa conformemente alla legge di Dio. Sposata una donna della sua tribù, per nome Anna, ne ebbe un figlio cui diede il proprio nome e al quale insegnò fin dall’infanzia a temere Iddio e ad astenersi da ogni peccato. Condotto prigioniero a Ninive, Tobia di tutto cuore si ricordò di Dio, visitando gli altri prigionieri e dando loro buoni consigli, consolandoli e distribuendo a tutti del proprio avere, secondo quello che poteva. Nutriva chi aveva fame, vestiva quelli che erano nudi, e seppelliva con cura quelli che erano morti o che erano stati uccisi ». Dio permise che venisse cieco, affinché la sua pazienza servisse di esempio alla posterità come quella del sant’uomo Giobbe. « Avendo sempre temuto il Signore fin dalla sua infanzia ed avendo osservato i suoi comandamenti, non si rattristò contro Dio per essere stato colpito da questa cecità, ma rimase fermo nel timore di Dio, rendendogli grazie tutti i giorni della sua vita ». « Noi siamo figli dei santi, soleva dire, e attendiamo quella vita che Dio deve dare a coloro che non hanno mai cambiato la loro fede verso di Lui ». E poiché sua moglie insultava alla sua disgrazia, Tobia proruppe in gemiti e cominciò a pregare con lagrime (Allel.), dicendo parole che sono identiche a quelle dell’Introito: «Tu sei giusto, Signore, tutti i giudizi tuoi sono equi e tutti i tuoi disegni sono misericordiosi. Ed ora, o Signore, trattami secondo la tua volontà ». E, parlando a suo figlio Tobia, disse: « Figlio mio, abbi sempre in mente Dio tutti i giorni della tua vita, e guardati bene dall’acconsentire ad alcun peccato. Fa’ elemosina dei tuoi beni e non distogliere il tuo volto dal povero. Sii caritatevole in quel grado che puoi e quello che ti dispiacerebbe fosse fatto a te, guardati bene dal farlo ad altri ». Questo precetto dell’amore di Dio e del prossimo e la sua attuazione sono inculcati dall’Epistola e dal Vangelo: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, tutta l’anima tua e tutto il tuo spirito, e il prossimo tuo come te stesso » (Vang.). « Camminate in umiltà, dolcezza e pazienza, sopportandovi a vicenda con carità, sforzandovi di mantenere l’unità di spirito nei vincoli della pace » (Ep.). Tobia mandò suo figlio presso Gabelo a Rages, sotto la guida dell’Arcangelo Raffaele. Per via, l’Angelo disse a Tobiolo di prendere un pesce che lo aveva voluto divorare e di serbarne il fegato per scacciare ogni specie di demoni e gli indicò inoltre il mezzo per prendere in moglie Sara, senza che il demonio, che aveva già uccisi i suoi primi sette mariti, potesse fargli del male. « Il demonio, spiegò l’Arcangelo, ha potere su coloro che nel contrar matrimonio bandiscono Dio dal loro cuore e ad altro non pensano se non a soddisfare la loro passione ». L’Orazione prega Iddio di dare al suo popolo la grazia di evitare i contatti diabolici, « affinché possa con puro cuore essere unito a te solo che sei il suo Dio ». « Come figli di Dio, noi non possiamo, dissero Tobia e Sara, sposarci come pagani, che non conoscono Dio », e « pregarono insieme istantemente il Signore che ha fatto il cielo e la terra, il mare, le sorgenti ed i fiumi con tutte le creature che contengono ». E Dio « benedisse il loro matrimonio, come aveva benedetto quello dei patriarchi, affinché essi avessero dei figli della stirpe di Abramo » (Graduale). Tobia ritornò con Sara e guarì suo padre dalla cecità e questi allora intonò un cantico di ringraziamento, una specie di Benedictus o di Magnificat, nel quale scoprì le grandiose aspettative messianiche: « Gerusalemme tu castigata per le sue opere malvagie, ma essa brillerà di fulgida luce e si rallegrerà nei secoli dei secoli. Dai lontani paesi verranno verso lei le nazioni, portandole delle offerte e adoreranno in essa il Signore. Maledetti saranno coloro che la disprezzeranno e quelli che la bestemmieranno saranno condannati. Beati, continua egli, coloro che ti amano! lo sarò felice se qualcuno della mia stirpe sopravvivrà per vedere lo splendore di Gerusalemme. Le sue porte saranno di zaffiri e di smeraldi e tutta la cinta delle sue mura sarà di pietre preziose. Tutte le pubbliche piazze saranno lastricate di pietre bianche e pure e nelle stradi si canterà: Alleluia. La rovina di Ninive è vicina, poiché la parola di Dio non resta senza effetto ». È questo il « cantico nuovo che troviamo nel Salmo del Graduale « Dio è fedele alla sua parola; Egli dissipa i progetti delle nazioni e rovescia i consigli dei principi. Beato il popolo che Egli ha scelto per suo retaggio. Palesa, o Signore, la tua misericordia su di noi, secondo la speranza che abbiamo posta in te ». E il Salmo del Communio aggiunge: « Dio ha infranto tutte le forze nemiche, i re superbi sono stati abbattuti e i loro eserciti distrutti. Offrite dunque sacrifizi di ringraziamento a questo Dio terribile », poiché, continua l’Offertorio, « Egli ha gettato uno sguardo favorevole sul popolo in favore del quale il suo Nome è stato invocato ». – Gerusalemme, ove il popolo di Dio regna e ove affluiscono tutte le nazioni per lodare il Signore, è il regno di Dio, è la Gerusalemme celeste. Tutti vi sono chiamati con una comune vocazione a formarvi « un solo corpo », la Santa Chiesa, che è una nuova creazione, dice S. Gregorio Magno, e che è animata da « un solo Spirito, una sola speranza, un solo battesimo e una sola fede in un solo Signore » (Epistola). È Gesù Cristo, Figlio di Dio e Figlio di David, che il « Dio unico e Padre di tutti gli uomini, ha fatto sedere alla sua destra fino al giorno in cui tutti i suoi nemici, vinti, saranno sgabello ai suoi piedi ». Questo Dio « sia benedetto nei secoli dei secoli » (Epistola). – L’unità della nostra fede, del nostro battesimo e delle nostre speranze, come pure dello Spirito Santo, di Cristo e di Dio Padre, dice S. Paolo, fa a tutti noi un dovere di essere uniti dai vincoli della carità, sopportandoci a vicenda.

Il comandamento di Dio di amare il prossimo è simile a quello che ci fa amare Dio, poiché è per amor suo che amiamo il prossimo. « Doppio è il comandamento, dichiara S. Agostino, ma una è la carità ». E per consolidare il suo insegnamento agli occhi dei farisei, Gesù Cristo dà loro, in un testo di David, una prova della sua divinità. Dobbiamo dunque, nella fede e nell’amore, essere uniti a Cristo Gesù. « Interrogato circa il primo comandamento, Gesù rivela il secondo, che non è inferiore al primo, facendo loro comprendere che lo interrogavano soltanto per odio, poichéla carità non è invidiosa » (I Cor. XIII, 4). Egli dimostra inoltre il suo rispetto per la legge ed i profeti. Dopo aver risposto, Cristo interrogò a sua volta, e dimostra che pur essendo figlio di David, ne è il Signore, essendo Egli il Figlio unico del Padre, e li spaventa dicendo che un giorno avrebbe trionfato su tutti coloro che si oppongono al suo regno, poiché Iddio farà dei suoi nemici sgabello ai suoi piedi. Con ciò dimostra la concordia e l’unione che esiste fra Lui e il Padre » (S. Giov. Crisostomo – Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps CXVIII: 137;124
Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secúndum misericórdiam tuam.

[Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.

[Beati gli uomini retti: che procedono secondo la legge del Signore.]

Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secundum misericórdiam tuam.

[Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.
Oratio

Oremus.
Da, quǽsumus, Dómine, populo tuo diabólica vitáre contágia: et te solum Deum pura mente sectári.

[O Signore, Te ne preghiamo, concedi al tuo popolo di evitare ogni diabolico contagio: e di seguire Te, unico Dio, con cuore puro.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 1-6

 “Fatres: Obsecro vos ego vinctus in Dómino, ut digne ambulétis vocatióne, qua vocáti estis, cum omni humilitáte et mansuetúdine, cum patiéntia, supportántes ínvicem in caritáte, sollíciti serváre unitátem spíritus in vínculo pacis. Unum corpus et unus spíritus, sicut vocáti estis in una spe vocatiónis vestræ. Unus Dóminus, una fides, unum baptísma. Unus Deus et Pater ómnium, qui est super omnes et per ómnia et in ómnibus nobis. Qui est benedíctus in sæcula sæculórum. Amen.”

[“Fratelli: Io prigioniero nel Signore vi scongiuro che abbiate a diportarvi in modo degno della vocazione, cui siete stati chiamati, con tutta umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi con carità scambievole, solleciti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Un sol corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati a una sola speranza per la vostra vocazione. Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutti, che opera in tutti, che dimora in tutti. Egli sia benedetto nei secoli dei secoli. Così sia.”]

LA VOCAZIONE.

Come sono solenni e dense di significato le poche battute con cui si apre il brano domenicale della Epistola agli Efesini! Vi scongiuro, — dice l’Apostolo, e perché lo scongiuro sia più efficace e commovente, si chiama prigioniero di Dio (in Dio), — a camminare degnamente in quella che è la vostra vocazione. E il pensiero corre subito alla «vocazione » di Cristiani, quali erano proprio e tutti i suoi primi, immediati lettori. C’è sotto alle parole dell’Apostolo, una grande, una nobilissima idea di questa vocazione cristiana. È Iddio che chiama i suoi figli dalle tenebre del paganesimo, dalla penombra della religione naturale, alla luce del Cristianesimo. Ogni Cristiano è un chiamato da Dio. Molti lo hanno dimenticato, lo dimenticano. Credono che l’essere Cristiani sia la cosa più naturale del mondo: che si nasca Cristiani come si nasce bimani o bipedi, che la vocazione sia un privilegio di pochi, e precisamente di quei pochi che si avviano al Sacerdozio, oppure entrano in un Monastero. Idee piccole e false. Dio ci ha chiamati, tutti e ciascuno, noi Cristiani alla Religione nostra, al Cristianesimo, al Vangelo che è e rimane una grazia! Ci vuole Lui Cristiani. Manda i Suoi apostoli a battezzarci, a istruirci, a convertirci. Nobilissima vocazione, perché Dio ci chiama nel Cristianesimo mercè del Battesimo, ci chiama ad essere suoi figlioli: «ut fili Dei nominemur et simus. » Basta pronunciare bene, sillabando, meditando, questa parola fili Dei, per capire l’altezza di questa dignità e la gravità degli obblighi che ne conseguono. Bisogna rendersi, in qualche modo, degni del nome e del carattere di figli, ricevuti nel Santo Battesimo, con la bontà delle opere. Bisogna vivere da figli di Dio; vivere veramente da buoni Cristiani. C’è qui tutto un programma, riassunto ancor più largamente nelle parole di un Santo Pontefice, grande anima romana e cristiana, San Leone Magno: — Riconosci, o Cristiano, la tua dignità, e, diventato partecipe della natura divina (non è forse il figlio della stessa natura del padre?) non volere con una condotta degenere tornare all’antica bassezza e viltà. — Sentiamola questa dignità di Cristiani oggi meglio d’allora, oggi dopo quasi duemila anni di esperienza, dopo che, con la loro vita, milioni di Santi e di Eroi, ci hanno mostrato che cosa può produrre di eroico il Vangelo in un’anima, in una società. Diventare Cristiani col Battesimo, oggi, vuol dire ricevere una eredità gloriosa di bene, inserirsi in una corrente luminosa, calda, satura di ciò che vi è al mondo di più sacro e più augusto. E ciò non toglie che ciascuno di noi abbia anche una vocazione, una destinazione, una destinazione provvidenziale in un altro senso. Perché ognuno è chiamato poi dal Padre a servirLo in modo speciale.

Nella Casa del Padre, ci sono molte mansioni, o funzioni, come in tutte le case bene ordinate, e ciascuno ha la sua, e tutte sono materialmente diverse ma tutte sono spiritualmente belle e nobili, perché nulla è ignobile nella casa del Padre Celeste, Iddio. E noi dobbiamo stare al nostro posto, fedeli e valorosi come soldati che montano la guardia, e lavorano, e combattono, sapendo di contribuire veramente a una sola, grande vittoria: la vittoria di Dio.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XXXII: 12;6
Beáta gens, cujus est Dóminus Deus eórum: pópulus, quem elégit Dóminus in hereditátem sibi.

[Beato il popolo che ha per suo Dio il Signore: quel popolo che il Signore scelse per suo popolo.]

Alleluja

Verbo Dómini cœli firmáti sunt: et spíritu oris ejus omnis virtus eórum. Allelúja, allelúja

[Una parola del Signore creò i cieli, e un soffio della sua bocca li ornò tutti. Allelúia, allelúia]
Ps CI: 2
Dómine, exáudi oratiónem meam, et clamor meus ad te pervéniat. Allelúja.

[O Signore, esaudisci la mia preghiera, e il mio grido giunga fino a Te. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. XXII: 34-46

“In illo témpore: Accessérunt ad Jesum pharisæi: et interrogávit eum unus ex eis legis doctor, tentans eum: Magíster, quod est mandátum magnum in lege? Ait illi Jesus: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo et in tota ánima tua et in tota mente tua. Hoc est máximum et primum mandátum. Secúndum autem símile est huic: Díliges próximum tuum sicut teípsum. In his duóbus mandátis univérsa lex pendet et prophétæ. Congregátis autem pharisæis, interrogávit eos Jesus, dicens: Quid vobis vidétur de Christo? cujus fílius est? Dicunt ei: David. Ait illis: Quómodo ergo David in spíritu vocat eum Dóminum, dicens: Dixit Dóminus Dómino meo, sede a dextris meis, donec ponam inimícos tuos scabéllum pedum tuórum? Si ergo David vocat eum Dóminum, quómodo fílius ejus est? Et nemo poterat ei respóndere verbum: neque ausus fuit quisquam ex illa die eum ámplius interrogare”.

[“In quel tempo, accostandosi i Farisei a Gesù, avendo saputo com’Egli aveva chiusa la bocca ai Sadducei, si unirono insieme: e uno di essi, dottore della legge, lo interrogò per tentarlo: Maestro, qual è il gran comandamento della legge? Gesù dissegli: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, e con tutta l’anima tua, e con tutto il tuo spirito. Questo è il massimo e primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti pende tutta quanta la legge, e i profeti. Ed essendo radunati insieme i Farisei, Gesù domandò loro, dicendo: Che vi pare del Cristo, di chi è egli figliuolo? Gli risposero: di Davide. Egli disse loro: Come adunque Davide in ispirito lo chiama Signore dicendo: Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, sino a tanto che io metta i tuoi nemici per sgabello ai tuoi piedi? Se dunque Davide lo chiama Signore, come è Egli suo figliuolo? E nessuno poteva replicargli parola; né vi fu chi ardisse da quel dì in poi d’interrogarlo”.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

CHE VE NE PARE DI CRISTO?

I sadducei e i farisei erano giunti a tentare Gesù. Il Maestro, con poche ma ardenti parole, ribatté ogni loro ragionamento, poi, Egli stesso rivolse a’ suoi tentatori una terribile domanda: « Che ve ne pare di Cristo? Di chi è Figlio? ». Qualcuno ardì rispondere: « Di Davide ». Gesù incalzò: « Di Davide, tu dici? Allora, e perché Davide lo chiama suo Signore? ». Più nessuno osò fiatare. A noi, venuti venti secoli dopo, il Maestro rivolge la medesima domanda: « Quid vobis videtur de Christo? ». Cosa che fa stupire: oggi, in cui si parla di fratellanza universale; in cui, senza filo, possiamo comunicare da un estremo altro della terra; in cui, sorpassato ogni confine di monte e di mare, l’uomo in poche ore vola sopra le nazioni e congiunge i continenti, basta rivolgere questa domanda: « che ve ne pare di Cristo » per mettere gli uomini in contraddizione tra loro. Aveva ragione, il candido vecchio che nel tempio aveva consumato la sua vita aspettando il Messia, quando, stringendolo tra le braccia, esclamava: « Ecco il segno della contraddizione: e molti avranno per lui la vita, e molti avranno per lui la morte ». Gesù stesso dirà di sé la medesima cosa: « Venni al mondo per un giudizio: quei che non hanno la vista l’acquisteranno, quei che hanno la vista la perderanno » (Giov. IX, 39). E voleva dire che le anime umili saranno da Cristo illuminate, mentre i superbi da lui saranno accecati. Il crocifisso che domina il mondo, che domina i troni e le potenze della terra, come già una volta sul Calvario è il segno della divisione. Chi lo bestemmia, chi lo ignora, chi lo contempla con amore. « Quid vobis videtur de Christo? ». A questa domanda gli uomini rispondono in un triplice modo: odio, ignoranza, amore. – 1. ODIO. Un giorno del 1797, un ufficiale, passando non lontano dalla città d’Aosta, incontrò nel fondo di una torre in rovina, un disgraziato che vi dimorava da anni, privo d’ogni compagnia. « Che fate qui? » disse il militare. « Sono gli uomini, che non mi possono vedere » gemette l’infelice. Dopo aver scambiate alcune parole, l’ufficiale gli domandò il suo nome. « Il mio nome? » rispose il solitario « ah, il mio nome è terribile. Mi chiamano il Lebbroso ». Cristiani! Io conosco qualcuno che fin nell’ultimo villaggio trascorre i suoi giorni nella solitudine, dove l’odio degli uomini cerca di confinarlo. Se domandate il suo nome, quello che un Angelo portò dal cielo per lui, è Gesù; ma in terra, l’hanno chiamato con un nome terribile: il Lebbroso. Tale, infatti, lo vide il profeta… putavimus eum quasi leprosum. (Is., LIII, 4). E della sua storia si può dire quanto l’ufficiale diceva di quello d’Aosta: « È una lacrima, una lacrima continua ». — In antico, quando all’alba un lebbroso si lasciava sorprendere presso l’abitato, tutti, urlando, lo cacciavano a sassate. Ed a sassate i nemici della religione hanno cercato d’allontanare Cristo dalla società. E lo hanno cacciato dai comuni, ove insegnava a reggere i popoli: e via l’hanno cacciato dalle scuole ove benediceva la crescente gioventù; e via l’hanno cacciato dai tribunali, ove insegnava la giustizia. Perfino dagli ospedali l’hanno cacciato via, dove gli infermi lo cercavano sulle squallide pareti perché lenisse il loro dolore. — In antico, quando un lebbroso s’avvicinava, per bisogno, agli uomini, doveva segnalare la sua venuta col suono della raganella, e chiunque lo udiva, correva lontano, temendo il contagio. Oggi, quando Gesù esce come Viatico dei morenti nelle vie dei nostri paesi, e il chierichetto davanti l’annunzia col suono del campanello, ecco ripetersi l’antica scena di obbrobrio; tutti fuggono, tutti deviano, tutti, se possono, si nascondono dietro i portoni, per non vederlo, per non salutarlo: il Lebbroso! — « Le mie delizie sono tra i figliuoli degli uomini » ha detto il Signore; ma i figliuoli degli uomini ripetono l’urlo di Voltaire: « schiacciamo l’infame »; e i figliuoli degli uomini l’hanno scomunicato dalla loro società. E Gesù è costretto a ritirarsi in solitudine, perché le bestemmie e il turpiloquio offendono pubblicamente le sue sante orecchie, perché una moda sfacciata e scandalosa, ad ogni passo, offende la sua purissima pupilla, quella che pur guardando convertiva i cuori; è costretto a ritirarsi dalle nostre case e dai nostri cuori perché sono diventati luoghi di peccato. « Quid vobis videtur de Christo? ». — Via! via! crucifiggilo — rispondono gli uomini. – 2. IGNORANZA. Quando Giovanni cominciò a battezzare sulle rive del Giordano, a tutti balenò il sospetto ch’egli fosse il Messia. I Giudei da Gerusalemme mandarono una legazione di sacerdoti e di leviti a interrogarlo. Ma il Battista rispose: « Ecco il Messia è già tra voi: e non lo sapete ». Medius vestrum stetit quem vos nescitis (Giov., I, 26). Questo è il rimprovero che meriterebbero ancora non pochi Cristiani. Dite a loro: « Che ve ne pare di Cristo? ». Sgranerebbero gli occhi come a rispondere: « E che ce ne importa? ». Vivono perciò nell’indifferenza della religione, e quando hanno soddisfatto alle brame del loro corpo, non desiderano più nulla. Cristo è venuto sulla terra e per trent’anni col suo esempio, e per tre anni con la sua parola ci ha istruiti: e ci ha detto chi è Dio e quanto ci ama e che vuole da noi e come si fa ad amarlo e servirlo. Ma gli uomini, che pur sanno tante e tante cose per il loro corpo, non sanno nulla per la loro anima. E non desiderano di sapere, anzi non vogliono sapere; e il solo pensiero di ascoltare una predica, una spiegazione della dottrina cristiana, li fa morir di noia. Ignorano Cristo, perché ignorano il suo Vangelo. Cristo è venuto sulla terra nostra e ha istituito mirabili sacramenti, tra cui il sacramento del perdono, che da colpevoli ci ritorna innocenti, da maledetti ci fa figliuoli di Dio. Ha pure istituito il sacramento che nutrisce l’anima di un cibo soprasostanziale, che fortifica e santifica: questo cibo è la carne stessa, il sangue vero di Cristo nell’Eucaristia. Eppure, gli uomini non lo sanno, non vengono mai a confessarsi, a comunicarsi; solo qualche volta all’anno, e malamente. Ignorano Cristo, perché ignorano i suoi sacramenti. Cristo è venuto sulla terra nostra debole e bambino avvolto in panni, Lui che è Dio d’eserciti; è venuto nel freddo e nelle tenebre, Lui che ha creato il sole ed ogni fuoco; e pativa fame e sete, Lui che ha cibo per ogni uccello dell’aria e per ogni giglio della valle. E poi si lasciò tradire, e volle essere umiliato, crocefisso. Eppure, gli uomini ignorano tutto questo, perché non amano che i piaceri dei sensi, le ricchezze del mondo, il cibo e le vesti. Ignorano Cristo, perché non sanno quanto Cristo ha patito per loro. Perciò ha detto bene S. Giovanni (I, 10) in principio del suo Vangelo: « In mundo erat et mundus eum non cognovit ». – 3. AMORE! Fortunatamente però ci furono e ci sono anime che alla domanda: « Quid vobis videtur de Christo », rispondono: « Amore ». Da quel giorno che Pietro ruppe in quel grido: « Tu sei il Cristo, Figlio di Dio, » una lunga schiera d’anime sante hanno saputo rendere a Cristo testimonianza vera, con sacrificio e con sangue, e soprattutto con amore. Furono dapprima i martiri che morivano per Lui; pallidi e sanguinanti, tra la vita e la morte, il loro ultimo palpito era, sempre l’amore di Cristo. È santa Caterina d’Alessandria che davanti ai sapienti parla di Gesù; e poiché tentavano di persuaderla ch’era follia, lei ricca e giovane, adorare un povero ed oscuro Nazareno, la coraggiosa fanciulla gridò: « Cristo è Dio; e chi crede in Lui vivrà anche se muore ». E porse il suo vergine corpo ai tormenti del martirio. Vennero poi i vergini e le vergini che per amore di Gesù, rinunziarono ad ogni amore terreno. È sant’Agnese che alla profferta di un giovane nobile e potente rispose ch’ella amava il Signore con tanta forza che più non le restava amor di creatura. È S. Filippo Neri che nella festa di Pentecoste fu preso da un impeto d’affetto così forte per Gesù Cristo, che il suo cuore non seppe contenersi e ruppe due coste. È S. Teresa che nel monastero d’Avila vide un serafino che le punse il cuore con un dardo d’oro dalla punta infuocata: e da quel giorno non visse che per celeste ardore. Desiderava di morir mille volte per convertire i peccatori; piangeva sulla iniquità degli uomini e si flagellava per ripararle; era insaziabile di dolore e ripeteva sotto i portici del chiostro: O patire o morire. In fine, consumata dal fuoco divino in Alba di Termez morì d’amore per Cristo. Anche ai nostri tempi vivono di queste anime generose e sante, e non sono appena frati e monache; ma anche giovani, come Domenico Savio che preferiva la morte ma non il più piccolo peccato; ma anche uomini, come il professore Contardo Ferrini che si ebbe gli onori dell’altare. E noi, noi che cosa ne pensiamo di Cristo? A parole, certo, tutti diciamo che è Figlio di Dio: ma coi fatti, con la vita nostra quotidiana, che cosa pensiamo di Cristo? – Nella notte della passione, il principe dei sacerdoti osò domandare a Cristo cosa egli pensasse di sé. « Ti scongiuro, per Dio vivo, se tu sei figlio di Dio, dillo! ». E Gesù rispose: « L’hai detto ». Allora il principe dei sacerdoti si stracciò i vestimenti. Cristo aggiunse: « Verrà giorno e mi vedrai, seduto alla destra di Dio, giudicare dalle nubi i vivi ed i morti ». In questa vita, come già l’ipocrita Caifa, possiamo pensare quel che vogliamo noi di Cristo. È libero calunniarlo; è libero avvoltolarci nella polvere e nel fango dei vizi, stracciare coi peccati la veste dell’anima che è la grazia santificante. Ma quando lo vedremo sulle nubi, nella maestà, tra gli Angeli, calare verso noi a giudicarci, che cosa potremo pensare di Lui, allora? — CHI È GESÙ CRISTO. Questa volta, con una domandetta, Gesù mette in imbarazzo i farisei ed i sapientoni della legge che erano venuti in frotta per tentarlo. « Che cosa pensate del Cristo — domandò il Maestro divino. — Di chi è figlio? « Di Davide. — risposero ad una voce. — È un discendente della stirpe di Davide ». « Ditemi, allora — soggiunse Gesù, — se è figlio di Davide, perché Davide, pensando a lui non ancor nato, lo ha chiamato: mio Signore? ». Tutti tacevano smarriti nella difficoltà, che non era difficoltà da poco: un monarca indipendente, come era Davide, non riconosceva nessun signore o padrone fuori di Dio. Come mai aveva dato il titolo di Signore a un suo discendente?… I Farisei, i sapientoni della legge, silenziosi e mogi chinarono la testa, e da quel giorno, dice il Vangelo, furono più guardinghi nell’interrogare Gesù! Ma non è questa l’unica figura inflitta alla superbia e all’ignoranza di simil gente. Diceva un’altra volta Gesù: « Il padre vostro Abramo ha sospirato di vedermi nascere: la mia esistenza gli fu manifestata, mi vide e ne tripudiò ». A sentirlo parlare così, i Giudei restarono sbalorditi. « Son secoli e secoli che Abramo è morto, e tu, che non hai cinquant’anni, hai veduto Abramo? ». « In verità ve lo dico: io esisto prima ancora di Abramo ». Per la rabbia i Giudei non ci videro più: gli risposero a sassate come fosse un bestemmiatore. Ma chi è questo Cristo? È figlio di Davide; e Davide lo chiama suo Signore. È nato molti secoli dopo Abramo; ed esiste prima d’Abramo. Nasce da una donna, ma questa donna è, e rimane, vergine. Gli fa da cuna la greppia d’una stalla come fosse figlio di zingari; ma sopra la stalla viene un astro che guida tre re dall’Oriente a’ suoi piedi. Cresce nella bottega d’un falegname, ma, dodicenne appena, ne sa da meravigliare i dottori di Gerusalemme. Si fa battezzare nel Giordano da Giovanni Battista come fosse un peccatore; ma dal cielo discende la voce di Dio: — È il mio figlio diletto. Cammina come un pellegrino per le strade dei paesi. È stanco lui ma fa camminare gli storpi e i paralitici; ha gli occhi pieni di polvere lui, ma dà la vista ai ciechi; ha fame lui, ma dà pane e companatico a tutta una folla. Va in barca sul lago come un pescatore: non ne può più dal sonno e s’addormenta mentre i suoi discepoli lottano contro la burrasca: un momento dopo si sveglia e con un gesto appiana il lago e spezza le ali del vento. Davanti al cadavere d’un suo amico, anche lui piange lacrime amare! Ma poi con un grido lo risuscita. Nel giardino degli ulivi si lascia legare da una turma di soldati e di servi; ma prima li rovescia al suolo, senza toccarli; pronunciando il suo Nome. Sulla croce muore spasimando, come un uomo qualsiasi: ma il sole si oscura, la terra trema, il velo del tempio si scinde da un capo all’altro; s’aprono le tombe e i morti camminano. Chi è dunque Cristo? È Dio?… Ma Dio non nasce, perché è eterno. Dio non si stanca, non può aver fame, non può aver sete, non può soffrire, non può morire. È uomo?… Ma gli uomini non danno la vista ai ciechi, non guariscono subitamente la lebbra, non gettano a terra con una parola una compagnia di soldati, non placano i temporali, non fanno tremare la terra, non risuscitano, dopo tre giorni, dal sepolcro. Ma chi è dunque Cristo? Ciò che i Giudei non sapevano spiegare, ciò che nella loro superbia non volevano credere, noi Cristiani lo sappiamo e lo crediamo: Gesù Cristo è Dio e Uomo; vero Dio e vero uomo; Dio uguale al Padre Eterno e allo Spirito Santo. Uomo uguale a ciascuno di noi fuor che nel peccato. Come Dio è Signore di Davide, esisteva prima di Abramo; come Uomo è figlio di Davide, è nato dopo Abramo. Sono forse un po’ difficili da capire queste cose; ma è necessario saperle; e s’io non ve le predicassi farei ingiuria alla bontà di Dio che s’è degnata rivelarcelo. Ma si può forse essere Cristiani, senza conoscere chi è Gesù Cristo? Lasciate adunque che vi parli del nostro Redentore e vi dica: — Gesù Cristo è il Figlio di Dio che si è fatto Uomo, perché l’uomo si facesse figlio di Dio (Galat., IV, 4-5). – 1. FIGLIO DI DIO SI È FATTO UOMO. a) Il Figlio di Dio. Dio è uno solo: eterno, immenso, perfettissimo, Creatore e Signore dell’Universo. In questo unico Dio ci sono tre Persone distinte e uguali: il Padre da cui è generato il Figlio; dal Padre e dal Figlio spira un Amore infinito che è lo Spirito Santo. Padre, Figlio, Spirito Santo sono un Dio solo. O beata Trinità, io vi adoro! Offeso da Adamo, Dio maledisse tutti gli uomini e più nessuno doveva salvarsi. Era necessario che qualcuno chiedesse perdono a Dio ed espiasse per gli uomini! Espiare! L’ingiuria di Dio era infinita ed esigeva un’espiazione infinita che l’uomo non può dare: ci voleva dunque un Dio. Espiare! Qualsiasi espiazione avviene attraverso il patimento che Dio non sa provare perché eternamente beato: ci voleva dunque un uomo; ma un Uomo che fosse anche Dio. Ed allora ecco il Figlio di Dio prendere la nostra carne e farsi uomo. Gesù il Dio-Uomo: come Uomo poteva patire, e come Dio il suo patimento acquistava valore di una espiazione infinita. b) Si è fatto Uomo. Quando giunse la pienezza dei tempi, un Angelo discese in una cittaduzza di Galilea, e si diresse verso un’umile casa dove una fanciulla era entrata sposa da poco. E quella fanciulla si chiamava Maria. « Ave, o piena di grazia: il Signore è teco, benedetta tu fra le donne. Concepirai un Figlio che è Figlio dell’Altissimo ». « Come è possibile, se io non conosco uomo? ». « Per opera dello Spirito Santo, e non d’uomo diverrai Madre di Dio; e resterai sempre vergine ». Or udite un esempio della Storia Sacra. Un giorno afoso di mietitura, ad una donna di Sunam portarono in casa l’unico figliolo suo moribondo. « Mi duole il capo! — Mi duole il capo » gemeva in deliquio e morì. La madre presa da turbine di dolore, fugge al monte Carmelo in cerca del profeta Eliseo. « Viva il Signore, e viva l’anima tua! — singhiozzava la madre — io non ti lascerò se non vieni con me ». Il profeta la segue a casa, dove era il fanciullo morto. Entrato, chiuse la porta dietro di sé e pregò il Signore; poi ascese sul letto si distese sopra il fanciullo; pose la sua bocca sulla bocca di lui, i suoi occhi sugli occhi di lui, le sue mani sulle mani di lui, tutto il suo corpo vivo su quel corpo morto. La carne del fanciullo si riscaldò. Chiamò la donna di Sunam e le disse « Prendi, il tuo figlio è vivo » (IV Re, IV). Il fanciullo morto è immagine dell’umanità dopo il peccato originale, morta alla grazia e alla vita soprannaturale. Il profeta Eliseo è immagine del Figlio di Dio che viene a risuscitarla. L’unione di Dio con l’umanità avvenne nel seno verginale di Maria. Fu là che il Verbo si è fatto carne, che il Figlio di Dio si è fatto Figlio dell’uomo: fu là che l’Infinito si è ristretto sopra le piccole membra d’un bambino; l’Altissimo si è curvato sopra il morto che giaceva: ha posto i suoi occhi che avevano visto lo splendore del Padre sopra gli occhi umani senza luce, ha posto la sua bocca divina sopra la bocca umana muta, ha posto le sue mani creatrici del cielo e delle stelle, sopra le piccole mani peccatrici dell’umanità. Insomma, nel seno di Maria la Natura Divina si è misteriosamente congiunta alla natura umana, restando però sempre una sola Persona, la seconda Persona della Santissima Trinità. Ecco Gesù Cristo chi è. S. Bernardo passava delle giornate meditando questo mistero dell’Incarnazione e si trovava l’anima piena di dolcezza. Suaviter rumino ista, et replentur viscera mea. Noi non ci pensiamo mai. – 2. PERCHÈ L’UOMO SI FACESSE FIGLIO DI DIO. Sono figli di un padre quelli che hanno ricevuto la vita dal padre, assomigliante a lui, sono gli eredi di lui. Ebbene Gesù Cristo ci ha portato la vita di Dio, la somiglianza con Dio, l’eredità di Dio. Con la sua Redenzione ha meritato per noi la grazia, la quale è una virtù misteriosa e divina che ci fa partecipi della vita del Signore, rende l’anima così bella che pare un ritratto del Signore, e ci dà il diritto di avere in morte le ricchezze del Signore, che sono in paradiso. Dunque, siam figli di Dio, Dio è nostro Padre. « Padre nostro che sei in cielo… ». Ma S. Giovanni dice che non tutti gli uomini divengono figli di Dio, ma solo quelli che ricevono Gesù Cristo. Quotquot autem receperunt eum… Gesù è la via, la verità, la vita; bisogna dunque accoglierlo come via, verità, vita. a) Ego sum via. L’uomo sapeva che il suo destino era di amare Dio e di andare al cielo. Ma come si doveva fare per amarlo, e quale strada si dovesse scegliere per arrivare a salvamento? Gesù con i suoi esempi ce l’ha insegnato. Ricordate il fatto di Venceslao re di Boemia? Camminava una notte, a piedi nudi, per una strada coperta di neve e dietro si conduceva un fidatissimo servo. Costui ad un tratto, intirizzito dal gelo, non ne poté più, e stava per cadere disperatamente. Ma il Re gli disse: « Metti i tuoi piedi dove io imprimo l’orma nella neve ». Così fece il servo, sentì assai meno il freddo, e poté giungere dove erano incamminati. Così ha fatto con noi Gesù: « Mettete i vostri piedi dove io ho messo i miei e non sbaglierete, perché Io sono la via ». Non nell’avarizia, non nella superbia, non negli odi, non nei piaceri dei sensi, il nostro Redentore ha messo i piedi divini!… E i nostri dove li mettiamo? b) Ego sum veritas. « Maestro, — gli diceva S. Pietro — tu solo hai parole di verità ». E l’Eterno Padre ha gridato a noi dal cielo: « Questo è il mio figlio diletto: ascoltatelo ». Gesù parla nelle prediche, insegna nella spiegazione della dottrina cristiana: l’ascoltiamo noi? Gesù parla per la bocca del Papa; solo il Papa e i Vescovi uniti con lui hanno le parole della verità: e noi trascuriamo di leggere e di sapere le parole del Papa e del Vescovo per ascoltar libri, giornali, persone piene di menzogne e di calunnie e di oscenità. c) Ego sum vita. « Io sono venuto a portare la vita e a portarne tanta ». Gesù parla qui, non della vita naturale, ma della vita soprannaturale, che ci renderà capaci di vedere e godere Dio. Ebbene se vogliamo questa vita divina dobbiamo stare uniti a Cristo come il tralcio sta unito alla vite, come i membri stanno uniti al capo. Quando bambini fummo portati a Battesimo, noi fummo inseriti nel corpo di Cristo, e la sua vita cominciò a fluire nell’anima nostra. Ma quando cadiamo in peccato mortale noi diventiamo fronde tagliate via dall’albero, diventiamo braccia tagliate dal corpo:… inaridire, marcire, bruciare, ecco il destino di coloro che sono staccati da Cristo. Con qual coraggio, Cristiani, si resta in così orribile condizione per mesi, per anni? – Chi è Gesù Cristo? è tutto; è via, è verità, è vita. Senza di Lui c’è lo smarrimento, c’è l’oscurità, c’è la morte. Una notte, tornando da Mattutino, santa Teresa e sua sorella Maria, attraversavano le viuzze oscure di Avila. Ad un tratto Teresa, in pieno buio, esclamò: « O sorella mia, sapessi quale cavaliere ci accompagna ne rimarresti incantata! ». « Chi dunque? » domandò la sorella. « Nostro Signore Gesù Cristo che porta la croce… ». Lo vedesse in quel momento o no, l’episodio ci dimostra come Gesù era tutto nella vita di questa santa. E deve essere anche nella nostra vita, altrimenti siamo falsi Cristiani. Nelle vie del dolore, nelle vie della gioia, nelle ore di fervore e in quelle di tentazione, da giovani e da vecchi, sempre in ogni circostanza ci accompagni il ricordo di Nostro Signore Gesù Cristo che porta la croce per la nostra salvezza.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Dan. IX: 17;18;19
Orávi Deum meum ego Dániel, dicens: Exáudi, Dómine, preces servi tui: illúmina fáciem tuam super sanctuárium tuum: et propítius inténde pópulum istum, super quem invocátum est nomen tuum, Deus.

[Io, Daniele, pregai Iddio, dicendo: Esaudisci, o Signore, la preghiera del tuo servo, e volgi lo sguardo sereno sul tuo santuario, e guarda benigno a questo popolo sul quale è stato invocato, o Dio, il tuo nome.]

Secreta

Majestátem tuam, Dómine, supplíciter deprecámur: ut hæc sancta, quæ gérimus, et a prætéritis nos delictis éxuant et futúri

[Preghiamo la tua maestà, supplichevoli, o Signore, affinché questi santi misteri che compiamo ci liberino dai passati e dai futuri peccati.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXV: 12-13
Vovéte et réddite Dómino, Deo vestro, omnes, qui in circúitu ejus affértis múnera: terríbili, et ei qui aufert spíritum príncipum: terríbili apud omnes reges terræ.

[Fate voti e scioglieteli al Signore Dio vostro; voi tutti che siete vicini a Lui: offrite doni al Dio temibile, a Lui che toglie il respiro ai príncipi ed è temuto dai re della terra.]

 Postcommunio

Orémus.
Sanctificatiónibus tuis, omnípotens Deus, et vítia nostra curéntur, et remédia nobis ætérna provéniant.

[O Dio onnipotente, in virtù di questi santificanti misteri siano guariti i nostri vizii e ci siano concessi rimedii eterni.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (270)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (13)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO XIII.

MISTERI

I. La mia ragione non può ammettere misteri. II. Involgono contraddizione. III. Che ragione può esservi per ammetterli?

La fede presenta varie sorta di verità da credere: alcune alle quali l’uomo non giungerebbe o giungerebbe a stento, ma che, dopo che sono rivelate, non hanno nulla che ripugni alla ragione, come sono, a cagione di esempio, le perfezioni di Dio, la creazione, i principii eterni della giustizia e della moralità: altre alle quali non solo mai giungerebbe l’uomo lasciato a sé stesso, ma che a che dopo rivelate non si possono intendere e si debbono solo credere piegando l’intelletto in ossequio della fede. Tali sono, a cagion di esempio, l’Unità e Trinità di Dio, l’Incarnazione del divin Verbo, la presenza reale di Cristo nel Sacramento, ed universalmente tutti quelli che chiamiamo misteri. Ora intorno alle verità di primo ordine, dicono alcuni, potremmo anche adattarci, ma quanto alle seconde, cioè ai misteri, chi potrebbe sottomettervisi? Queste non hanno scopo, non potendo tornar di verun giovamento il credere quello che non s’intende, senza dir poi che la ragione non può mancare a sé stessa come farebbe ammettendo contraddizioni. Di che s’impuntano fieramente e non vogliono saperne e rigettano tutto quello che ha del misterioso. E tuttavia credete voi che abbiano veramente ragione di così fare? Come hanno torto quei che ricusano la fede, così hanno torto marcio quei che ficcano di stenderla fino ai misteri. Il primo l’abbiamo veduto nel capo antecedente, l’altro il vedremo qui.

I. La mia ragione non può ammettere misteri. Cominciamo dai dritti sempiterni della povera umana ragione tanto debole da un lato, e tanto superba dall’ altro. E perché non può la vostra ragione ammettere i misteri? Abbiamo detto di sopra che noi per fede crediamo sull’ autorità di Dio che parla, dopo che abbiamo posto in sodo, con ogni genere di dimostrazione, che è veramente Iddio quello che ha parlato. Ma se è così, che importa che Dio parli cose intelligibili o non intelligibili? Iddio non è sempre infallibile nella sua parola? Non ha sempre gli stessi diritti sopra di noi? Non può esigere il sacrificio anche del nostro intelletto? Che vale adunque iI dire io non comprendo quello che Egli propone? Avete almeno compreso che è un Dio quello che lo propone? Se avete compreso questo, che non può non comprendersi, avete compreso quanto basta perché siate legato di mani e di piedi, e perché non possiate più fiatare in contrario, se pure non ignorate al tutto quello che sia Dio, la sua padronanza, la sua sapienza, la sua veracità. I vostri diritti son belli e buoni, ma credo che anche Dio possa avere qualche diritto sulle sue creature, e quando voglia farlo valere, come ha fatto nel nostro caso, credo che non avrete diritti contro di Dio. Questa ragione non ammette replica e basta da sé sola a sciogliere ogni difficoltà. – Ciononostante, per trattare con maggior condiscendenza la vostra difficoltà, perché dite che la vostra ragione rimane offesa dai misteri? Non v’avvedete che i miccini hanno già aperto gli occhi e già sanno quello che significano certe frasi, tolte ad imprestito da chi le ha inventate per darsi un po’ d’aria filosofica, quando appunto gli mancava la filosofia? Se il credere quello che non intendete offende la vostra ragione, potete andarvi a riporre, perché questo mondo sublunare non fa per voi. Qui ad ogni momento avrete da credere cose che non comprendete, e vi converrà toglierlo con pazienza, se già non vi mettete all’impresa di fabbricarvi un mondo a bella posta per voi, dove tutto sia chiaro ed intelligibile. E che? Comprendete voi tutti i misteri della natura che avete sempre sotto gli occhi? Di grazia, non credete voi che i venti soffino, benché sapete come essi soffiano; che la luce illumini, benché non ne conosciate l’intima natura; che esista l’etere, benché non apprendete di che sia costituito? Entrate in una famiglia, dove saranno forse sei figliuoli, l’uno savio, l’altro discolo, il terzo sempre gaio, il quarto sempre piangoloso; quegli intende tutto appena avete aperto bocca per parlare, l’altro, per quanto facciate, non in nulla, e sono tutti figliuoli di uno stesso padre, d’una stessa madre. Donde tanta diversità? Ne comprendete voi il mistero? Se siete mai entrato un poco innanzi nella fisica, nella metafisica, nella medicina, od in qualche altra scienza anche naturale, voi non potete ignorare che sono misteriosi nelle loro cagioni i fatti che abbiamo più comunemente sott’occhio, e tuttavia la ragione di nessuno rimane offesa ad ammetterli. Il celebre P. Lacordaire a un cotale che non poteva credere, fece questa interrogazione: sapete voi come avvenga che il fuoco, il quale strugge il burro, induri le uova? Eppur tuttoché non lo intendiate, credete benissimo alla frittata: pensate adunque se debbano offendere la ragione i misteri divini proposti da un Dio! Io vi dirò di più: siccome questi misteri riguardano Iddio, la nostra ragione tanto non resta offesa da essi, che anzi prima ancora che si metta ad investigare le cose divine, già debba aspettarseli. Chi si getta attraverso un oceano per passarlo, deve spettarsi correnti e scogli e venti e burrasche, perché così lo richiede la natura del mare. Così chi si fa a considerare le cose di Dio, deve aspettarsi profondità, sublimità, immensità inarrivabili a mente umana, cioè misteri. – Se Dio, la sua natura, le sue perfezioni, le sue opere potessero esser comprese dall’uomo, sì che egli le adeguasse col suo intelletto, una delle due: o l’uomo sarebbe pari a Dio, o Dio scenderebbe fino alla meschinità dell’uomo. Dire il primo sarebbe un orgoglio pari a quello dello spirito reprobo che disse: Sarò simile all’Altissimo; l’altro sarebbe una bestemmia non ancora venuta in mente, che si sappia, a veruno dei demoni. Il perché la religione vera sarà sempre una religione di misteri, e tanto è falso che il mistero sia indizio di falsità, che anzi vi sarebbe subito da sospettare falsità dove non fosse mistero. – Né solo per ragione dell’oggetto che è Dio, diventa facile la credenza dei misteri, ma ancora (cosa veramente ammirabile!) per l’inclinazione soavissima che ad ammetterli Iddio ha collocata nella natura dell’uomo, dalla quale siamo portati naturalmente a tutto quello che è misterioso sino ad esserne passionati. E vaglia il vero, donde quell’avidità che hanno i giovanetti di essere messi a parte di cose occulte e segrete e di misteriosi avvenimenti? Donde l’ascoltarli con tanta avidità e farne tesoro quando anche sanno che sono finzioni, se non dall’allettamento che ha per noi il mistero? Donde sono sbucate le notturne congreghe, le divinazioni, i sortilegi e tante altre superstizioni perseguitate sì vivamente non solo dalla Chiesa, ma pur dalle leggi civili? Donde l’avventarsi a dì nostri con tanta furia a tutte le mirabilità del magnetismo, delle tavole parlanti, dello spiritualismo, se non per quel carattere misterioso che esse presentano? Noi abbiamo un affetto inestinguibile, al vero, ma come scambiamo spesso il reale coll’apparente, ne nasce l’errore; noi abbiamo un amor invincibile al bene, ma come ci atteniamo spesso all’ombra invece del corpo, ne nasce la colpa: similmente l’inclinazione che abbiamo al mistero fa sì che quando non abbiamo i veri ed i santi, ci appigliamo ai fallaci ed agli irreligiosi. – E ciò è sì vero, che nel secolo scorso in Francia, quando giunta al colmo l’incredulità, ed abolito il Cristianesimo, ed adorata la ragione, furono tolti di mezzo i santi misteri della fede, il popolo si precipitò con tanta furia nei misteri nefandi dei vizio e della superstizione, che non vi fu più modo di dar corso ai processi. Il Portalis testifica che, nella Biblioteca nazionale di Parigi, non si chiedevano più altri libri che di cabala e di magia; il Roubies, bibliotecario pubblico a Lione, mostrò al medesimo le prove autentiche di misteri abominandi che si celebravano periodicamente in notturne assemblee e di tanto orrore, che a petto di essi erano un nulla le più svergognate superstizioni del paganesimo. Ed ai nostri giorni negli Stati Uniti ed in Ginevra quelli che, per non ammettere la divinità di Cristo, negano il mistero dell’Incarnazione, si assidono intorno ad una tavola che loro parla; e credono colla miglior fede del mondo che gli Angeli, gli Arcangeli e Gesù Cristo stesso si trattengono in petto ed in persona con loro sin quando parlano da libertini. Tant’è; bisogna che il mistero santo e religioso occupi convenientemente il nostro spirito, o esso si gitterà ai misteri tenebrosi e svergognati del vizio e della superstizione. – E del dover essere così vi è una ragione chiarissima. Nel mistero vi ha alcun che di maraviglioso, e noi siamo tratti naturalmente quel che desta la meraviglia; nel mistero v’ha del grande e del sublime, e noi siam tratti naturalmente all’immenso ed all’infinito; nel mistero v’ha qualche cosa di augusto e di venerando, e noi, se non facciamo violenza alla nostra natura, siamo portati alla religione ed alla pietà. Non sappiamo spesse volte render ragione delle nostre tendenze, ma non possiamo sottrarci alla forza di quelle inclinazioni che Dio ci pose nel cuore. Il perché tanto è falso che la nostra ragione rimanga offesa dai misteri, che anzi se ne trova mirabilmente giovata e confortata.

II. I misteri, continuano, involgono contraddizioni, ed allor… Non andate oltre. Se voi faceste questa difficoltà ad un putto di dieci anni ben ammaestrato nel catechismo, vi accoglierebbe con una risata, e poi vi risponderebbe che non sono contrari alla ragione, ma superiori: e che però la contraddizione non è reale ma solo apparente. Vedetelo in un esempio: Se, parlando del mistero della SS.Trinità, si dicesse che vi è un Dio solo e che vi sono tre Dei, questa sarebbe una vera contraddizione, e quindi un vero impossibile, perché non si può verificare tutto insieme che Dio sia un solo e che siano tre gli Dei: ma se si dica solamente quel che dice la fede, che Dio è uno solo, sebbene questo Dio solo sussista in tre Persone, non vi è contraddizione veruna. La divinità è una sola sebbene in tre Persone. Resta solo in ciò il mistero che non comprendiamo come Dio possa avere una triplice sussistenza. Ma perché non lo comprendiamo, può forse la nostra ragione Dire che non sia possibile? Per affermarlo bisognerebbe prima che avessimo tale cognizione della natura divina e di tutte le sue proprietà, che potessimo dire tutto quello che le conviene, e tutto quello che le disdice. Il che, come ognun vede, sarà sempre impossibile alla nostra limitatissima capacità, e quindi sempre falsissimo che essa trovi delle contraddizioni nel mistero. E quello che io vi ho detto di questo mistero, e voi applicatelo a tutti gli altri. Non comprendo come Gesù Cristo possa essere tutto insieme e Uomo e Dio: si, ma avete voi mai letto nel profondo dell’essenza di Dio tutte le maniere onde una Persona divina può congiungersi ad una creatura? Non comprendo come Gesù Cristo possa trovarsi sotto le specie sacramentali nella Eucaristia: sì, ma avete scrutati tutti i segreti della sapienza e potenza divina per definire tutti i modi di esistere che essa può dare ad un corpo? Non comprendo come la Madonna possa essere tutto insieme e Vergine e Madre: sì, ma avete voi dunque penetrati tutti i segreti della infinita virtù di Dio, perché possiate accertare che non si stende a quell’effetto? Definite prima tutto ciò e poi potrete parlare. Non vedete che per poter dire che il mistero è impossibile, e contraddittorio, vi bisognerebbe conoscere prima l’essenza, l’infinità, l’onnipotenza, l’immensità di Dio, e che essendo ciò impossibile, perché l’uomo finito non è capace dell’infinito, sarà anche eternamente impossibile il trovare ed il dimostrare nel mistero una contraddizione?

III. Se non che replicano tuttavia: Qual motivo può aver avuto Iddio a porporci dei misteri da credere? Quello che non s’intende non può produrre in noi nessun bene. Poteva dunque guidarci per altra via. Questa domanda sarebbe ridicola, se non fosse sacrilega.Imperocché e chi siamo noi, che domandiamo a Dio perché abbia fatto così? Non basta che ciò sia ordinato da un’infinita sapienza,perché debba curvarlesi prontamente dinanzi ogn’intelletto?E tuttavia non è così difficile il rintracciarne delle ragioni molto soddisfacenti. L’uomo si è perduto per la colpa onde nonvolle credere a Dio là nel paradiso terrestre: è dunque convenientissimomodo di espiazione, che ora creda a Dio senza comprenderequello che crede. In questo modo è mirabilmente ragguagliatala pena alla colpa. Inoltre, qual è il sacrifizio più grandeche l’uomo possa fare alla divinità? Non sono le vittime chepuò scannare, né le oblazioni che può offrire. Per l’intellettol’uomo si differenzia dai bruti ed emula l’angelica natura: or dunquenell’esercizio della fede sacrifichi quello che ha di più splendido,di più angusto, cioè il suo intelletto, e questo sarà sacrifiziodegno dell’uomo, e meno indegno di Dio. Finalmente qual è ilbene che noi aspettiamo come ultimo e preziosissimo frutto dellanostra religione? Il veder Dio faccia a faccia e goderlo svelato:ma dunque quale disposizione è più proporzionata a tal premio, chequella della fede, per cui ora si comincia a credere con merito quello che un giorno si vedrà svelatamente per ricompensa? Anchequeste sole ragioni bastano ad appagare chi con sincerità cerchiil vero. – Né seguita poi quello che affermano gli irreligiosi, che dal mistero non se ne ritragga veruna cognizione.. Imperocché i misteri sono come quella nuvola maravigliosa che guidava il popolo d’Israele nel deserto, la quale se era tutta tenebre da un lato, dall’altra poi spandeva una vivissima a luce. Così i misteri, mentre sono da una parte il nostro intelletto, e servono per esercizio allanostra fede, dall’altra lo illustrano con sovrane verità. In primo luogo, tuttoché non si comprenda quello che forma il mistero,non è da credere che, sotto quelle parole che lo annunziano, non siracchiuda una cognizione. Da quella sacra caligine sempre si traeuna verità sublimissima. Io non intendo come nel mistero. Della SS. Trinità, un Dio sussista in tre Persone distinte, né come nell’Incarnazione due nature sussistano in una sola Persona: mafrattanto ho queste due notizie intorno a Dio ed a Gesù Cristo:notizie di tanto pregio che mi fanno conoscere di Dio, della sua grandezza ed immensità più che non ne seppero naturalmente ipiù profondi pensatori che abbia avuto il mondo.Inoltre, ammessi che siano sulla divina parola i misteri spargonosulle altre verità una vivissima luce. Stando sempre all’esempioallegato, appena posto in sicuro che Dio è Uno e Trino, sispiega come il divin Figliuolo, assumendo la nostra umanità, abbiapotuto dare al Padre una piena soddisfazione. Le grandezzedivine di Cristo, il suo sacerdozio, il suo sacrifizio, i suoi meriti, itesori di confidenza che dobbiamo avere in Lui, la fonte donde ciperverranno tutte le grazie ed altre innumerabili verità che daquel mistero discendono, restano illustrate mirabilmente, sì che ilnostro intelletto se ne appaga. Dite lo stesso della presenza realedi Gesù Cristo nella Eucaristia. Noi non intendiamo come Gesùstia nell’Ostia, ma una volta creduto questo mistero sulla paroladi Gesù, ci si discoprono tutte le ricchezze dell’amor divino versodi noi, tutte le degnazioni, tutte le finezze di Gesù e l’esaltamentonostro e la incomparabile dignità in lui. E quello che si dicedi questi misteri, intendetelo pure di tutti. Sono essi una caliginesacra, è vero; ma una caligine da cui partono raggi di tantaluce, che a petto loro sono tenebre tutte le umane scienze. -E per verità i Padri di santa Chiesa ed i sacri Dottori, contemplandoa lungo quei santi misteri, ne traggono torrenti di vivaluce. Mettete S. Agostino e S. Ilario a speculare sovra il misterodella Trinità sacrosanta, e vi addenseranno volumi sopra volumidi verità al tutto maravigliose; S. Tommaso vi farà lo stesso sulladivina Eucaristia; S. Cirillo e S. Attanasio sulla divina Incarnazione;S. Ambrogio e S. Bernardo sulla Verginità di Maria, e cosìdi tutti i divini arcani, tutti i santi Dottori, mostrando col fatto diquanta luce siano fecondi i misteri, tuttoché oscuri, della santafede. -Sapete quello che solo si richiederebbe in chi muove tante difficoltà contro i misteri, per vedersele tutte sciolte in un punto?Un poco di buona fede, e che si cercasse sinceramente la verità.Ma il fatto è ben altrimenti: si grida contro i misteri, perché ciò sipuò fare senza parerne un animale; ma non sono i misteri quelli nella nostra religione principalmente dispiacciono, sono invece i comandamenti. Si dice che la ragione, la grande, la nobileragione, non consente che si credano tali veri, ed è invece la carne, l’ignobil carne, che non consente che si ammettano tali precetti.Ed io do in pegno l’esperienza di tutti i savii, che, dove Iddio si contentasse di abrogare un paio di comandamenti, per esempio,il sesto ed il settimo, questi nostri filosofi ammetterebbero dibuon grado duecento misteri: ed appena conceduto quel poco dilibertà al senso., la lor ragione non avrebbe più di che turbarsi, esarebbe ristabilita pienamente la pace fra tutti i miscredenti ed i fedeli.Il solo male è che Dio non accetta la condizione.