UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: “Christianæ reipublicæ”

Il Santo Padre Clemente XIII prendeva atto, già ai suoi tempi, della diffusione di scritti, stampati e libri diretti a confondere la mente dei dotti e soprattutto dei semplici fedeli di Cristo, il gregge della Chiesa Cattolica, per deviarne il retto pensiero ed i princîpi della fede salvifica. La proliferazione di tali pestiferi libri era giustamente avvertita come minaccia all’integrità della fede, e quindi minaccia alla eterna salvezza dell’anima, per cui si stimolavano i Vescovi, in particolare, a vigilare onde arrestare la diffusione della mortale zizzania. Tale breve enciclica deve essere ricordata opportunamente nei nostri tempi, nei quali oramai i libri empi e malvagi vengono scritti e diffusi anche da chi si spaccia falsamente come difensore della Chiesa, in realtà sgretolandola e minandola ancor più profondamente. Bisogna rendersi conto che nei giorni attuali, nei quali non esiste alcuna garanzia su ciò che la stampa ed i mezzi di comunicazione diffondono a piene mani ed in modo virulento, gli unici scritti che possono dirigerci verso le eterne verità, sono quelli che ancora sono muniti di “imprimatur” e “nihil obstat” ecclesiastico, cioè i libri pubblicati fino alla metà del secolo scorso, antecedenti all’instaurarsi della falsa chiesa degli antipapi succedutesi dal 28 ottobre del 1958, con la soppressione del Santo Officio e dell’Index librorum annesso! Solo queste opere hanno garanzia di fede retta e salvifica da cui attingere a piene mani per l’edificazione del proprio spirito e per la crescita nelle virtù cristiane. Tutto quanto invece non ha garanzia ecclesiastica, anche nei mezzi di diffusione di massa e di comunicazione elettronica, è da evitare come la peste, anche da menti (oramai sempre di meno) educate cristianamente; infatti anche le persone che osservano norme igieniche corrette, al contatto con lebbrosi, appestati o con i loro umori, aliti ed escrementi, vengono colti dal morbo crudele dell’eresia e dell’incredulità, senza accorgersene se non quando è oramai tardi o quando poi occorre sottoporsi a dolorose e spesso inefficaci “terapie”. Da evitare, naturalmente tutti gli scritti di agnostici, atei, gnostici, massoni, acattolici, eretici e scismatici vari, soprattutto di coloro che si spacciano per cristiani, quest’ultimi ancor più insidiosi: ci riferiamo qui alla valanga di scritti di esponenti di ogni categoria del “novus ordo”, cioè della falsa chiesa dell’uomo della setta modernista-apostatica post-(s)concilio vaticana, ed agli esponenti dei falsi tradizionalisti gallicano-fallibilisti reduci da Ecône, nonché degli eretici sedevacantisti di sfumature varie, ma tutte spiritualmente tragiche. Attenzione, quindi, ascoltiamo il Santo Padre in questa enciclica e guardiamoci dal contaminarci lo spirito, perché da questo potrebbe dipendere la salvezza o la dannazione eterna dell’anima nostra.

Clemente XIII
Christianæ reipublicæ

La salvezza del popolo cristiano, della quale ricevemmo il mandato dal Principe dei Pastori e Vescovo della anime, Ci spinge a prestare attenzione perché la sfacciata e pessima licenziosità dei libri, emersa da segreti nascondigli e giunta a recare grave danno e di notevole ampiezza, non diventi tanto più dannosa quanto più si espande di giorno in giorno. L’esecrabile perversità dell’errore e l’audacia di uomini nemici, che in mezzo al frumento seminano zizzania in gran quantità con lo scritto e con la parola, soprattutto in questi giorni si sono estese a tal punto, che se non poniamo la falce alla radice e non stringiamo in fasci i cattivi germogli per gettarli nel fuoco, poco manca che le spine della malvagità, sviluppatesi, tentino di soffocare la piantagione del Signore degli eserciti celesti. Infatti, certi uomini scellerati convertitisi alle fandonie e non aderenti alla sana dottrina, da ogni parte invadono la rocca di Sion, e per mezzo del pestifero contagio dei libri, dai quali siamo quasi sommersi, vomitano dai loro petti veleno di aspidi a rovina del popolo cristiano; infangano le pure sorgenti della fede; sradicano le fondamenta della Religione. Resisi detestabili nei loro intenti, sedendo fra le insidie, di nascosto lanciano dalla faretra dardi con i quali dolosamente colpiscono i retti di cuore. Cosa vi è di talmente Divino, Santo e consacrato dall’antichissima pietà di tutti i tempi, da cui abbiano tenuto lontano le loro menti empie, e su cui non abbiano esercitato bellicosamente le loro lingue, taglienti come spade? Si lanciarono fin dall’inizio con alterigia contro Dio, e armati di doviziosa menzogna si sono irrobustiti contro l’Onnipotente. Suscitando dalle ceneri le follie degli empi tante volte demolite, non per ottusa incapacità d’ingegno, ma per sola decisione della loro volontà depravata, negano l’esistenza di Dio che parla di sé ovunque e appare ogni giorno davanti agli occhi; oppure descrivono Dio incapace ed ozioso, del quale non onorano la provvidenza e non temono la giustizia.

Con ripugnante licenza di pensiero, assolutamente pazza, sostengono mortale, o per lo meno minorata rispetto agli Angeli, l’origine e la natura dell’anima nostra, creata ad immagine del supremo Fondatore. Nell’universo delle cose create ritengono che non esista nessuna cosa all’infuori della materia, sia che la giudichino creata, sia eterna e non sottoposta a causa alcuna; oppure, costretti ad ammettere la coesistenza dello spirito con la materia, declassano tuttavia l’anima da questa celeste condizione, non volendo ammettere, in questa debolezza nella quale siamo immersi, alcunché di spirituale e d’incorrotto in forza del quale intendiamo, agiamo, vogliamo e con il quale prevediamo anche il futuro, contempliamo il presente e ricordiamo il passato.

Altri invece, benché capiscano molto bene che la debolezza dei ragionamenti umani deve essere ripudiata e che il fumo della sapienza umana deve essere respinto dall’occhio di una Fede illuminata, tuttavia osano giudicare con pesi umani i reconditi Misteri della Fede che superano ogni umana percezione: creatisi giudici della maestà, non temono di venire oppressi dalla gloria. Viene derisa la Fede dei semplici; sono sventrati gli arcani di Dio; le questioni sulle altissime verità sono discusse temerariamente; l’audace ingegno del ricercatore usurpa per sé ogni cosa; tutto indaga, nulla riservando alla fede, della quale nega il valore, mentre cerca la controprova nella ragione umana. Forse non ci si deve sdegnare anche con coloro che, con turpissima oscenità di fatti e di parole, con somma scelleratezza corrompono costumi severi e pudichi, suggeriscono detestabile leggerezza del vivere alle menti inesperte ed arrecano i massimi danni alla pietà? Che di più? Cospargono i loro scritti di una certa ricercata nitidezza e scorrevole fioritura di discorso e civetteria, in modo che quanto più facilmente saranno penetrati negli animi tanto più profondamente li potranno inquinare col veleno dell’errore. Così agli sprovveduti propinano il fiele del drago nel calice di Babilonia: questi, attratti ed accecati dalla soavità del discorso, non avvertono il veleno a causa del quale periscono. Chi infine non sarà colpito da acerbissima tristezza nel vedere che i terribili nemici, dopo aver superato qualsiasi limite di modestia e di rispettoso ossequio, stampando libri offensivi ora in modo aperto, ora in modo ambiguo, si lanciano contro la stessa Sede di Pietro, che il Redentore del forte Giacobbe pose come colonna ferrea e muraglia di bronzo contro i principi delle tenebre? I nemici forse sono spinti dal malvagio pensiero che, una volta stroncato il capo, più facilmente potranno far strage delle membra della Chiesa.

Pertanto, Venerabili Fratelli, che lo Spirito Santo pose quali Vescovi a reggere la Chiesa di Dio ed ammaestrò circa il singolare sacramento dell’umana salvezza, non possiamo, in così grande corruzione di libri, che eccitare, secondo quanto è il Nostro compito, lo zelo della vostra fedeltà, affinché – chiamati a partecipare della cura pastorale – applichiate in questa il vostro maggior sforzo possibile. Si deve lottare accanitamente, come richiede la circostanza stessa, con tutte le forze, al fine di estirpare la mortifera peste dei libri; non potrà infatti essere eliminata la materia dell’errore fino a quando gli elementi facinorosi di pravità non periscano bruciati. Fatti dispensatori dei Misteri di Dio ed armati della sua potenza per distruggere i luoghi fortificati, fate in modo che il gregge a voi affidato, redento dal sangue di Cristo, sia allontanato dai pascoli avvelenati. Se infatti è necessario tenersi lontano dalla compagnia degli uomini perversi, perché le loro parole spingono all’empietà ed il loro discorso si insinua come cancro, quale distruzione opererà la pestilenza di libri che, preparati in maniera acconcia e pieni di astuzia, durano perpetuamente, rimangono sempre con noi, con noi passeggiano, con noi restano in casa e penetrano nelle stanze, dove non è vietato l’ingresso ad alcun cattivo ed occulto autore?

Costituiti Ministri di Cristo fra le genti, per santificare il suo Vangelo, datevi da fare, lavorate e, per quanto è nelle vostre possibilità, con l’opera e con le parole tagliate le radici dell’inganno, ostruite le corrotte fonti dei vizi, suonate la tromba, perché le anime che passano non siano strappate dalla mano del custode. Lavorate in virtù del posto che avete, in virtù della dignità di cui siete insigniti, in forza della potestà che avete ricevuto dal Signore. Inoltre, poiché nessuno può e deve essere segregato dal partecipare a simile tristezza e, in così grande pericolo di fede e di religione, unica e comune è la motivazione di angustiarsi e di portare aiuto, dove sia il caso implorate l’avita pietà dei Principi cattolici; esponete la causa della Chiesa che geme, e spingete i suoi amorosi figli, per tanti motivi sempre egregiamente benemeriti verso di lei, a portare aiuto; e siccome non senza motivo portano la spada, dopo aver congiunte l’autorità del Sacerdozio e quella dell’Impero, frenino e distruggano energicamente gli uomini malvagi che combattono contro le falangi d’Israele. Conviene soprattutto, Venerabili Fratelli, che rimaniate fermi come muro, perché non sia posto fondamento diverso da quello costituito, e difendiate il santissimo deposito della Fede, a custodia della quale dedicaste con giuramento voi stessi durante la solenne iniziazione. Siano fatte conoscere al popolo fedele le volpi che demoliscono la vigna del Signore; si avvisi il popolo in modo che non si lasci trascinare dai nomi splendidi di certi autori, perché non sia abbindolato dalla cattiveria e dall’astuzia degli uomini verso l’inganno dell’errore; in una parola, detesti i libri nei quali si trovi qualcosa che offenda il lettore, o contrasti con la Fede, la Religione, i buoni costumi e non rispecchi l’onestà cristiana. In questo veramente ci congratuliamo gioiosamente con molti di voi che, aderendo alle istituzioni Apostoliche, quali valorosi vindici delle leggi ecclesiastiche, forti e vigilanti posero ogni zelo per allontanare tale peste, impedendo che gl’ingenui dormissero con i serpenti.

Certamente Noi, che abbiamo la cura di tutte le Chiese e della salvezza del popolo cristiano, non risparmiandoci fatica alcuna, Ci ripromettiamo in così grande pericolo di essere aiutati da voi. Frattanto, nell’umiltà del Nostro cuore non cesseremo d’invocare Dio perché aiuti voi dal suo santuario ad evitare l’astuzia degli uomini insidiosi, e perché possiate adempiere tutte le mansioni del vostro ministero.

In auspicio di tale desiderato evento, molto volentieri impartiamo a voi ed al vostro gregge l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 25 novembre 1766, nell’anno nono del Nostro Pontificato.

DOMENICA INFRA OTTAVA DI NATALE

DOMENICA INFRA OTTAVA di NATALE

Incipit 
In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus 
Sap XVIII:14-15.
Dum médium siléntium tenérent ómnia, et nox in suo cursu médium iter háberet, omnípotens Sermo tuus, Dómine, de coelis a regálibus sédibus venit [Mentre tutto era immerso in profondo silenzio, e la notte era a metà del suo corso, l’onnipotente tuo Verbo, o Signore, discese dal celeste trono regale.]

Ps XCII:1
Dóminus regnávit, decórem indútus est: indútus est Dóminus fortitúdinem, et præcínxit se.
[Il Signore regna, rivestito di maestà: Egli si ammanta e si cinge di potenza.]
Dum médium siléntium tenérent ómnia, et nox in suo cursu médium iter háberet, omnípotens Sermo tuus, Dómine, de coelis a regálibus sédibus venit [Mentre tutto era immerso in profondo silenzio, e la notte era a metà del suo corso, l’onnipotente tuo Verbo, o Signore, discese dal celeste trono regale.]

Oratio 
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, dírige actus nostros in beneplácito tuo: ut in nómine dilécti Fílii tui mereámur bonis opéribus abundáre.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, indirizza i nostri atti secondo il tuo beneplacito, affinché possiamo abbondare in opere buone, in nome del tuo diletto Figlio]

Lectio 
Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Gálatas.
Gal IV:1-7
Patres: Quanto témpore heres párvulus est, nihil differt a servo, cum sit dóminus ómnium: sed sub tutóribus et actóribus est usque ad præfinítum tempus a patre: ita et nos, cum essémus párvuli, sub eleméntis mundi erámus serviéntes. At ubi venit plenitúdo témporis, misit Deus Fílium suum, factum ex mulíere, factum sub lege, ut eos, qui sub lege erant, redímeret, ut adoptiónem filiórum reciperémus. Quóniam autem estis fílii, misit Deus Spíritum Fílii sui in corda vestra, clamántem: Abba, Pater.
Itaque jam non est servus, sed fílius: quod si fílius, et heres per Deum.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli: Omelie, Torino 1899, vol. I, Omelia IX]

“Fratelli, fintantoché l’erede è fanciullo, non differisce punto dal servo, benché sia padrone di tutto: ma sta sotto, tutori ed amministratori fino al tempo stabilito prima dal padre. Così noi pure: mentre eravamo fanciulli, eravamo tenuti in servitù sotto gli elementi del mondo. Ma quando venne il compimento dei tempi, Iddio mandò il Figliuol suo, fatto di Donna, soggetto alla legge, affine di riscattare quelli che erano sotto la legge, sicché fossimo adottati in figliuoli. E poiché siete figliuoli, Iddio ha mandato lo Spirito del Figliuol suo nei vostri cuori, che grida: Abba, Padre „ (Ai Galati, IV, 1-6).

Queste poche sentenze, che avete udite e che l’apostolo Paolo scriveva ai fedeli di Galazia, rispondono a meraviglia al mistero sì sublime e sì dolce, che abbiamo celebrato in questi giorni. Il Figlio di Dio fatto uomo! ecco il mistero del S. Natale, di cui festeggiamo l’ottava. Ora qual è il fine, il frutto principalissimo di questo mistero? Perché il Figlio di Dio si è fatto uomo? Affinché gli uomini diventassero Dei, vi risponde S. Agostino e con lui ad una voce tutti i Padri: affinché gli uomini diventassero figli di Dio, risponde S. Paolo nel testo sopra riportato. Bene a ragione pertanto la Chiesa in questa Domenica ci invita a meditare le parole dell’Apostolo, che vi ho recitate: in esse si chiude il frutto pratico della Incarnazione e del santo Natale; a me lo spiegarvele, a voi l’udirle. – Scopo di tutta la lettera di S. Paolo ai Galati è quello di mostrare che la legge mosaica con tutte le sue cerimonie e tutti i suoi sacrifici doveva cessare per dar luogo alla legge di Gesù Cristo; la legge di Mosè, dice S. Paolo, era il pedagogo, che doveva condurre a Gesù; venuto questo, l’ufficio del pedagogo non aveva più ragione di essere e naturalmente cessava. Per illustrar meglio questa idea fondamentale, Paolo ricorre ad una idea affine e tolta dalla legge stessa civile, evoluzione della legge naturale. Udite l’Apostolo. “Fintantoché l’erede è fanciullo, non differisce punto dal servo, benché sia padrone di tutto; ma sta sotto tutori ed amministratori fino al tempo stabilito prima dal padre. „ Vedete un fanciullo: egli è l’erede del padre suo e perciò veramente padrone di tutta la sua sostanza; ma finché è fanciullo, finché è nella minorità, non differisce dal servo: deve ubbidire all’aio: deve lasciar amministrare la sua sostanza al tutore, ai procuratori e restare in questo stato di dipendenza, lui padrone, finché sia spirato il tempo fissato dalla legge e dal padre ed egli acquisti il pieno e libero esercizio dei suoi diritti di figlio. Fino a quel tempo non vi è differenza tra il servo ed il figlio; tutta la differenza è questa: la condizione del servo è stabile, quella del figlio è temporaria. Noi, così ragiona S. Paolo, noi Ebrei, sotto la legge mosaica, noi Gentili, prima del Vangelo, eravamo come fanciulli, impotenti ad ogni cosa; eravamo tenuti in servitù, sotto gli elementi del mondo; eravamo cioè legati alle prescrizioni sì gravi e sì minute della legge di Mose; eravamo schiavi delle superstizioni gentilesche; eravamo come quei fanciulli, che prima di studiare ed apprendere le scienze, devono imparare le lettere dell’alfabeto. Insomma tutto il tempo, che corse da Adamo a Cristo, è un tempo di preparazione: l’umanità tutta è come un pupillo, un minore, che aspetta il tempo, in cui sarà emancipata: acquisterà la piena libertà di se stessa per opera di Gesù Cristo, sciogliendosi dalle fascio della sinagoga e dalle superstizioni e dagli errori del paganesimo. – E questa emancipazione dell’umanità quando avvenne? “Quando venne il compimento dei tempi, Iddio mandò il Figliuol suo, fatto di Donna, soggetto alla legge. „ Che cosa è questo compimento o pienezza del tempo, come dice il testo latino? Una cosa è piena quand’è compita e perfetta, e allora viene la pienezza dei tempi, quando i tempi sono maturi e compiute le cose: quando son giunti i tempi e i fatti annunziati dai profeti, quando tutto è disposto, Dio manda il Figliuol suo, cioè il Figliuol di Dio si fa uomo. Si dice che Dio, cioè Dio-Padre, che di sé, ab eterno, genera il Figliuol suo, lo manda sulla terra. Non dovete immaginare che il Padre mandi il Figlio, come un padre terreno manda i suoi figli, no; Dio-Padre non si può mai separare dal Figlio, con cui ha comune la natura, come non possiamo separare il pensiero dalla nostra mente; non lo manda con movimento materiale, che in Dio è impossibile: non lo manda a guisa di chi fa un comando: Dio-Padre manda il Figliuol suo, cioè fa sì che il Figliuolo, che ha una sola volontà con Lui, assuma la natura umana, ed essendo Dio eterno ed immutabile, cominci ad essere anche uomo. Il Figliuolo del Padre eterno si fa uomo, pigliando dalla donna la natura umana. E qui badate che S. Paolo dice che Gesù Cristo prese dalla Donna la natura umana per indicare, che non vi ebbe parte l’opera dell’uomo e che perciò Gesù Cristo nacque da una Vergine. — Il Figlio di Dio nacque da una Vergine e fu posto sotto la legge, s’intende, la mosaica. Certamente Gesù Cristo, anche in quanto uomo non era obbligato alla legge mosaica, essendo Egli sopra ogni legge; ma, benché non tenuto alla legge mosaica, volontariamente ad essa si sottopose e ne osservò scrupolosamente tutte le prescrizioni, dalla circoncisione alla celebrazione della pasqua. E per qual motivo Gesù Cristo volle sottoporsi alla legge mosaica, Egli che non ne aveva obbligo alcuno? Risponde S. Paolo: “Affine di riscattare quelli che erano sotto la legge, sicché fossimo adottati in figliuoli. „ Gesù Cristo pigliò sopra di sé tutto il peso della legge mosaica per due motivi secondo san Paolo: perché fossimo liberati noi da quella legge di servi ed acquistassimo tutti i diritti di figliuoli adottivi. — La legge mosaica era una legge di timore; a moltissime delle sue trasgressioni era inflitta la pena di morte: essa riguardava più il corpo che lo spirito, aveva ricompense terrene; era tal giogo che, diceva S. Pietro, non abbiam potuto portare noi, né i padri nostri (Atti, xv, 10). Ebbene Gesù Cristo la tolse sopra di sé, come tolse sopra di sé il peccato, e la chiuse per sempre, a quella sostituendo la sua legge. Quale? “La legge di figliuoli di adozione, „ che è il Vangelo. – Noi per natura siamo creature di Dio e perciò suoi servi, e come servi erano trattati i figli d’Israele, percossi terribilmente ogni qualvolta traviavano. Nella nuova legge, portata da Gesù Cristo, noi siamo elevati alla dignità di figli di Dio, e perciò da noi si esige più l’amore che il timore. – Siamo figli di Dio per adozione! Voi sapete che cosa sia l’adozione e i diritti ch’essa porta seco. Un uomo sceglie un giovane qualunque, lo dichiara suo figlio, lo tiene presso di sé, lo tratta, lo ama come se fosse suo figlio naturale e morendo gli lascia in eredità la sua sostanza e porta il nome del padre, che lo ha adottato. Ecco il figliuolo adottivo ed ecco la nostra dignità, di cui siamo debitori a Gesù Cristo. Egli senza merito nostro di sorta ci scelse di mezzo agli uomini, col santo Battesimo ci fece suoi figliuoli, ci accolse nella Chiesa, che è la sua famiglia ed il suo regno: ci ama come figli, ci fa partecipi di tutti i beni spirituali della sua Chiesa e ci darà l’eredità eterna del cielo. Ecco che cosa vuol dire essere figli adottivi di Dio! Ma non ho detto tutto, o cari. La nostra dignità di figli di Dio per adozione importa tra noi e Dio rapporti senza confronto maggiori di quelli che corrono tra il padre che adotta, ed il figlio che è adottato, e qui vi prego di porre ben mente alla cosa. Un uomo adotta un figlio, e questo si considera come se fosse veramente figlio dell’adottante e ne ha tutti i diritti. Ma ditemi: il padre adottante che cosa mette di proprio nella persona del figlio adottato? Perfettamente nulla. Il padre adottante ami pure il figlio adottato coll’amore più intenso; lo dica pure suo figlio, lo colmi di favori, di ricchezze finché vuole: quel figlio non sarà mai veramente figlio dell’adottante se non per virtù della legge e nell’apprezzamento comune; nelle vene di quel giovane adottato non scorrerà mai una stilla sola di sangue del padre adottante; sarà sempre vero che quel giovane ha avuto la vita da un altro uomo e che il vero padre dell’adottato non è, ne sarà mai colui che l’ha adottato, e forse la fisionomia, l’indole morale, le tendenze, il carattere e le abitudini lo mostreranno a chiare note. – Ben altra è l’adozione che noi abbiamo ricevuto da Dio. Egli nell’adottarci ha posto in noi ciò che ha di più intimo, la partecipazione del suo spirito, della sua vita stessa. Ce lo dice in termini S. Paolo: “E poiché siete figliuoli, Iddio ha mandato lo Spirito del Figliuol suo nei nostri cuori. „ Lo spirito di Gesù Cristo è lo stesso Spirito Santo, l’amore sostanziale del Padre e del Figlio, e Gesù Cristo lo spande nelle nostre anime con la grazia che ci santifica nel Battesimo, che si accresce nella Confermazione e particolarmente nella santa Eucaristia e in tutti i Sacramenti. E che è questa grazia, questo dono dello Spirito Santo? È una forza che emana da Dio stesso, che investe e penetra tutta l’anima, l’abbellisce, la trasforma e la rende simile a Dio. Vedete il ferro messo nel fuoco: esso è tutto penetrato dal fuoco, quasi trasformato nel fuoco, rimanendo pur sempre ferro. È una immagine dell’anima adorna della grazia di Dio. Essa è unita intimamente a Dio; è fatta bella della bellezza di Dio, come il fiore è bello della luce del sole; essa riceve in sé l’influsso della vita stessa di Dio, come il tralcio riceve la sua vita dalla radice e dal tronco della vite; per la grazia l’anima, restando pur sempre anima creata, partecipe della divina natura e porta in se stessa i lineamenti, la somiglianza di Dio e sente di avere tutto il diritto di dire a Dio: Padre nostro! Oh! sì: grida S. Giovanni, non solo possiamo dirci figliuoli di Dio, ma lo siamo realmente: “Ut filii Dei nominemur et simus.,, Quale dignità! quale grandezza, o carissimi! Figli di Dio! Dunque, come figli, dobbiamo rispettarlo, ubbidirlo, onorarlo con la nostra condotta, porre in Lui ogni fiducia, amarlo teneramente e sopra ogni cosa.

 Graduale Ps XLIV:3; 44:2
Speciósus forma præ filiis hóminum: diffúsa est gratia in lábiis tuis.
[Tu sei bello fra i figli degli uomini: la grazia è diffusa sulle tue labbra.]
V. Eructávit cor meum verbum bonum, dico ego ópera mea Regi: lingua mea cálamus scribæ, velóciter scribéntis. [V. Mi erompe dal cuore una buona parola, al re canto i miei versi: la mia lingua è come la penna di un veloce scrivano.]

Alleluja Allelúja, allelúja
Ps 92:1.
Dóminus regnávit, decórem índuit: índuit Dóminus fortitúdinem, et præcínxit se virtúte. Allelúja.
[Il Signore regna, si ammanta di maestà: il Signore si ammanta di fortezza e di potenza. Allelúja]

Evangelium 
Sequéntia  sancti Evangélii secundum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc II:33-40
In illo témpore: Erat Joseph et Maria Mater Jesu, mirántes super his quæ dicebántur de illo. Et benedíxit illis Símeon, et dixit ad Maríam Matrem ejus: Ecce, pósitus est hic in ruínam et in resurrectiónem multórum in Israël: et in signum, cui contradicétur: et tuam ipsíus ánimam pertransíbit gládius, ut reveléntur ex multis córdibus cogitatiónes. Et erat Anna prophetíssa, fília Phánuel, de tribu Aser: hæc procésserat in diébus multis, et víxerat cum viro suo annis septem a virginitáte sua. Et hæc vídua usque ad annos octogínta quátuor: quæ non discedébat de templo, jejúniis et obsecratiónibus sérviens nocte ac die. Et hæc, ipsa hora supervéniens, confitebátur Dómino, et loquebátur de illo ómnibus, qui exspectábant redemptiónem Israël. Et ut perfecérunt ómnia secúndum legem Dómini, revérsi sunt in Galilaeam in civitátem suam Názareth. Puer autem crescébat, et confortabátur, plenus sapiéntia: et grátia Dei erat in illo. [In quel tempo: Giuseppe e Maria, madre di Gesù, restavano meravigliati delle cose che si dicevano di lui. E Simeone li benedisse, e disse a Maria, sua madre: Ecco egli è posto per la rovina e per la resurrezione di molti in Israele, e sarà bersaglio di contraddizioni, e una spada trapasserà la tua stessa anima, affinché restino svelati i pensieri di molti cuori. C’era inoltre una profetessa, Anna, figlia di Fanuel, della tribù di Aser, molto avanti negli anni, vissuta per sette anni con suo marito. Rimasta vedova fino a ottantaquattro anni, non usciva dal tempio, servendo Dio notte e giorno con preghiere e digiuni. E nello stesso tempo ella sopraggiunse, e dava gloria al Signore, parlando di lui a quanti aspettavano la redenzione di Israele. E quando ebbero compiuto tutto secondo la legge del Signore, se ne tornarono in Galilea, nella loro città di Nazaret. E il fanciullo cresceva e si irrobustiva, pieno di sapienza: e la grazia di Dio era con lui.]

OMELIA II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

Gesù posto in rovina e risurrezione di molti.

Ecce positus est hic in ruinam, et resurrectionem Multorum”. Ella è questa una parte della celebre profezia che fece il santo vecchio Simeone alla Vergine Madre allorché, in adempimento della legge di Mose, presentò il suo divin Figliuolo al Tempio, come ci narra San Luca dell’odierno sacrosanto Vangelo. “Questo pargoletto tuo figlio, le disse, sarà per molti causa di risurrezione e di salute, e per altri molti occasione di rovina e di morte” – “positus est hic in ruinam, et resurrectionem multorum”. Ma come, dirà forse alcun di voi, non è Egli Gesù, il nostro Salvatore, la nostra luce, la nostra vita? Come dunque può essere insieme cagion di nostra perdita, e di nostra rovina? A questa interrogazione, a questa difficoltà darò risposta e scioglimento del corso della presente spiegazione, se per poco d’ora mi favorite della gentile vostra attenzione. Gesù adunque è per molti causa di salute, e per molti altri occasione di rovina? Così è! Non sorprenda, uditori miei, che una stessa causa produca effetti diversi. La luce si fa candida nel giglio, pallida nella viola e nella rosa vermiglia, e pur è sempre la stessa luce. L’ape e la serpe da un medesimo fiore suggono l’umore stesso, e pur nel seno dell’ape quel sugo si cambia in miele, nel sen della serpe si cangia in veleno. La manna nel deserto per molti era cibo leggero e nauseante, e per altri era cibo avente in sé ogni squisito sapore. Così Gesù luce del mondo, fior nazzareno, manna dal ciel disceso, sempre buono, sempre uguale in se stesso, per la malizia degli uomini riesce diverso nei suoi effetti, e ciò in speciale maniera, o si riguardi la sua fede, o la sua legge, o i suoi sacramenti. Vediamolo a parte a parte. – La fede in Gesù Cristo è la sola che salva. Questa fede, che ha origine dal principio del mondo, allor che dopo la caduta dei nostri progenitori venne loro promesso un liberatore, fu quella che li salvò con la penitenza di tutta lor vita. Abele innocente, Seth temente Iddio, il giusto Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giobbe, Tobia, Davide, in una parola tutti i patriarchi e profeti e tutti quei personaggi santissimi, i nomi dei quali stanno nel libro della vita, e nell’antico Testamento, si sono salvati per la fede in Gesù Cristo, poiché non vi è altro Nome in cui si possa essere salvezza, e siccome noi ci salviamo per la fede in Cristo già venuto, così si salvarono essi per la fede in Cristo venturo, unendo alla loro fede le più eccellenti virtù. Tale essere deve la nostra fede, fede viva, operante, fede osservatrice della divina legge, seguace degli esempi del Redentore, ed Egli allora si potrà e si dovrà dire esser causa benefica di nostra resurrezione e salvezza, “positus est hic in resurrectionem multorum”. Udite com’Egli medesimo si esprime nel suo santo Vangelo. Io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me (e in Cristo non può dirsi che veramente creda chi con la fede non unisce l’opere buone da Lui prescritte) ancorché fosse morto per il peccato, risorga a nuova vita di grazia, e vivrà in eterno. Ego sum resurrectio et vita; “qui credit in me, etiamsi mortuus fuerit, vivet, et omnis qui credit et credit in me, non morietur in æternum” (Io. XI, 25, 26). – Che diremo ora di quelli sconsigliati, che spargono dubbi circa la cristiana credenza, bestemmiano quel che ignorano, e col carattere della fede in Gesù Cristo impresso nell’anime loro nel santo Battesimo, accoppiano vita e costumi da epicurei e da maomettani? Diremo non per insultarli, quel che di ciascun d’essi pronunzia l’Evangelista Giovanni: è già giudicato chiunque non crede, “qui non credit, iam judicatus est” (Io. III, 17): diremo che convien pregare il Padre dei lumi acciò rischiari la mente di quei che giacciono nelle tenebre e nelle ombre di morte. Diremo che un cuor retto, un animo non vizioso, un costumato cattolico, mai si rivolta contro la fede. Solo della fede è nemico un cuor guasto, uno spirito corrotto da ree passioni. E perché? Perché fede e peccato, fede e viziose abitudini, fede e sregolate passioni, sono tra loro in necessaria guerra; onde ne segue che chi non vuol abbandonare il peccato, e del peccato non vuol soffrire i rimorsi, si arma, si scaglia contro la fede, come sua nemica, per tentare se per questa via gli riesca di far tacere i latrati, e mitigare i rimorsi della rea coscienza. Ed ecco in ciò come Gesù Cristo, che per costoro esser doveva, per mezzo della sua fede, pietra fondamentale e causa di salute vien dalla loro incredulità trasformato in pietra d’inciampo ed occasione di rovina: “positus est hic in ruinam”, – va del pari con la fede di Gesù Cristo la santa sua legge. Anch’essa ha il suo principio dall’origine del mondo, anzi da Dio medesimo, che è la legge eterna. Tre leggi, direte voi, son note a tutti, una che chiamasi di natura, l’altra scritta, la terza Evangelica. No, miei carissimi, sono tre nomi diversi, ma una sola è la legge. In quella guisa ch’è sempre lo stesso uomo quel che bambino vagisce in cuna, quel che cresce in giovane adulto, quel che poi nella virilità arriva ad essere uomo perfetto; così la legge di natura scritta da Dio nel nostro cuore fu una legge bambina; passò ad essere una legge adulta quando dal dito di Dio fu scritta sulle tavole a Mosè; e finalmente fu legge perfetta, quando uscì dalla bocca dell’incarnata Sapienza Cristo Gesù, e si promulgò col suo santo Vangelo; ma è sempre una stessa legge nel suo principio, nel suo progresso e nella sua perfezione; ond’è che Gesù Cristo si protestò altamente che non era venuto al mondo per togliere la legge, ma per adempirla e perfezionarla “Non veni volvere legem, sed adimplere” (Io. V, 17). – In questa legge divina, e nell’osservanza della medesima sta la salute e la vita, e perciò a quel giovane, che domandò al redentore per qual mezzo poteva conseguire la vita eterna, rispose: “serva mandata” [osserva i comandamenti] (Matth. XIX, 17). Questi comandamenti li sapete dalla vostra infanzia. Adora ed ama il tuo Dio, non profanare il suo santo Nome, santifica le feste a Lui consacrate, rispetta, ubbidisci, soccorri i tuoi genitori, non togliere ai tuoi simili né roba, né vita, né arma, astieniti dal vizio impuro, dallo spergiuro, e dal desiderio perfino di tutto ciò che non è tuo, ma del tuo prossimo. Ecco la legge, ecco la via per andar salvi. Nella fedele osservanza di questa lege è riposta la nostra giustificazione e salute. “Factores legis iustificabuntur” (Ad Rom. II, 13). Sarà Gesù allora causa propizia del nostro risorgimento e della nostra salvezza, “positus est hic in resurrectionem”. – Or questa legge così cauta e salutare come da noi viene adempiuta? Ohimè un’altra legge regna nel cuore dell’uomo: le legge del peccato e della carnale concupiscenza, … oh quanti conta osservatori questa legge tiranna! Un’altra legge si fa ubbidire con minore efficacia: la legge del mondo perverso e perversore, che consiglia, che comanda odio ai nemici, vendetta degli affronti, oppressione degli umili, disprezzo dei maggiori. Legge del mondo che approva le usure e i monopoli, che autorizza la frode e la bugia nei contratti, che fa prevalere l’impegno alla giustizia, il danaro all’onestà, l’interesse all’anima e a Dio. E non è questo il secolo della pressoché universale depravazione della legge dell’Altissimo? Non sarà iperbole , se noi ripeteremo nell’amarezza dell’animo ciò a Dio rivolto diceva piangendo il Re Profeta: “Tempus faciendi, Domine”. Questo è il tempo, o Signore, in cui per le umane azioni non vi è più né regola né freno, e la vostra legge francamente si disprezza e si calpesta … “tempu faciendi, Domine, dissipaverunt legem tuam” (Ps. CXVIII). Qual meraviglia poi, se per questi prevaricatori della divina legge sia posto Gesù in loro spirituale ed eterna rovina? “Positus est hic in ruinam multorum”. – Finalmente Gesù nei suoi Sacramenti è causa di vita, e occasione di morte. Tra questi per esser breve, mi restringo ai due più frequentati, la Penitenza cioè, e l’Eucaristia. Rapporto al primo vi accostate al tribunale di penitenza in spirito di umiltà, e col cuore contrito (appressatevi pure con fiducia a questa salubre Probatica, e ne uscirete risanati. Sarà Cristo, per mezzo del suo ministro, il pietoso Samaritano, che col vino della sapienza e con l’olio della misericordia medicherà le vostre ferite, se foste morti alla grazia, Egli sarà il vostro risorgimento, “positus est in resurrectionem”. – Ma se invece senza esame, senza dolore, senza sincerità nelle accuse, senza proposito e volontà di lasciare il peccato e l’occasione dello stesso, vi presentaste ai piedi del Sacerdote, voi avrete il mal incontro. Il sangue adorabile di Gesù-Cristo, che con la sacramentale assoluzione s’applica all’anima vostra, si cangerà in materia di dannazione; discenderà sopra di voi questo sangue tremendo come disceso su gl’imperversati Giudei di rovina e di sterminio. – carissimi miei, tenetevi a mente questa figura, che parmi assai spiegante ed istruttiva. Ecco là nella prigione Giuseppe in mezzo a due carcerati: uno è il coppiere, l’altro il panettiere del faraone. Tutti e due han fatto un sogno, e ne domandano a Giuseppe l’interpretazione. Io, dice il primo, sognando premeva a mano un grappolo d’uva nella coppa del mio sovrano. Buon presagio, rispose il divino interprete, tu sarai rimesso in grazia del tuo signore, e ristabilito nel tuo impiego. E a me, soggiunge l’altro, pareva di portare un canestro pieno di pani e di ciambelle per la regia mensa, e mentre mi stava sul capo, una torva di corvi e di altri uccelli rapaci nol lasciarono vuota la cesta. Cattivo pronostico, rispose Giuseppe: tu sarai sospeso ad un legno, ed i corvi e gli avvoltoi si divoreranno le tue carni. Tanto disse e tanto avvenne! Applicate la figura, uditori miei. Siede sul sacro tribunale il sacerdote, interprete della divina volontà, e giudice da Dio costituito, portate ai piedi suoi un cuore come un grappolo del coppiere, premuto dal dolore e mutato in un altro cuore, cioè da cuor peccatore in cuore penitente, come l’uva di grappolo cangiata in vino. Consolatevi, voi avrete buone risposte, sarete ammessi al perdono, ritornerete in grazia del vostro Dio, risorti a nuova vita. – Se per l’opposto accostandovi al sacro ministro porterete solo in mente e nella memoria le vostre colpe, come il canestro sul capo del panettiere tanto da farne al confessore una fredda narrazione, ma senza dolore d’averle commesse, senza proposito di emendarvi, senza volontà di restituire la roba altrui, di abbandonare le occasioni pericolose, di adempiere le obbligazioni del proprio stato, guai per voi! O vi saran date giuste come da giuste ma funeste risposte, o se riceverete la sacramentale assoluzione, vi aggraverete di un nuovo e maggiore peccato e morendo in questo misero stato, i demoni faranno di voi orrido strazio; perché la sacramentale confessione, da Gesù Cristo istituita per salvarvi, l’avete praticata per perdervi, e l’abuso sacrilego che fatto ne avete, ha trasformato Gesù Salvatore in vostro nemico e in vostra rovina. Positus est in ruinam. – Lo stesso avviene nel Sacramento della santissima Eucaristia. Ogni fedele che con cuore e con l’anima monda, almeno da grave peccato, si pasce delle carni dell’Immacolato Agnello di Dio, riceve conforto, ristoro ed aumento di grazia santificante, e Gesù, che è pane di vita, vita gli dà spirituale ed eterna. – Se poi taluno ardisse mangiar questo divin pane con la coscienza rea di colpa mortale, si mangerebbe quest’indegno, dice l’Apostolo, il suo giudizio e la sua condanna. Osservate soggiunge l’Angelico, come lo stesso pane celeste per l’anime buone è cibo di vita, per le malvagie è cibo di morte. “Mors est malis, vita bonis: vide par is sumptionis quam sit dispar exitus”. – Si legge nel libro quinto dei Numeri, che se un marito per ragionevole sospetto temuto avesse della fedeltà della proprii consorte, era autorizzato dalla legge di Mosè a condurla innanzi al sacerdote. Questi, a depurare il dubbio, raccolta dal pavimento del Tabernacolo poca polvere e mescolatala con acqua, la dava a bere alla donna sospetta. Se questa era rea, quella bevanda, come fosse potentissimo veleno, la faceva sull’istante cadere morta ai piedi dei circostanti, se innocente, senza soffrire alcun nocumento ritornava a casa sua fra gli applausi dei congiunti e dei cittadini. Lo stesso, vedete, miei cari, lo stesso avviene, sebbene in modo invisibile, nella santa Eucaristica Comunione. Guai a quell’anima che conscia di peccato mortale dalla man del sacerdote riceve la sacra particola! Sarà questa per lei micidiale veleno. Buon per quell’altra che se ne pasce con cuore innocente e con un cuor purgato da vera penitenza; fra gli applausi degli Angeli avrà vita e salute e pegno di vita eterna: ed ecco come Gesù Cristo positus est in ruinam et resurrectionem multorum”. Ah dunque, miei cari, teniamoci ben stretti alla fede di Gesù Cristo, ch’è la sola che salva: osserviamo la sua legge, che è la necessaria condizione per salvarci: siam peccatori? Andiamo ai suoi piedi al tribunale di penitenza col cuore umiliato e contrito, e saremo giustificati: accostiamoci alla sacra mensa con le debite disposizioni, e Gesù sarà per noi cibo, vita, salute, seme d’immortalità, pegno della futura gloria, che per sua grazia ci conceda.

  Credo …

 Offertorium 
Orémus
Ps XCII:1-2
Deus firmávit orbem terræ, qui non commovébitur: paráta sedes tua, Deus, ex tunc, a sæculo tu es.
[Iddio ha consolidato la terra, che non vacillerà: il tuo trono, o Dio, è stabile fin da principio, tu sei da tutta l’eternità.]

Secreta 
Concéde, quǽsumus, omnípotens Deus: ut óculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis piæ devotiónis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat. [Concedi, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che questa offerta, presentata alla tua maestà, ci ottenga la grazia di una fervida pietà e ci assicuri il possesso della eternità beata.]

Communio 
Matt II:20
Tolle Púerum et Matrem ejus, et vade in terram Israël: defúncti sunt enim, qui quærébant ánimam Púeri. [Prendi il bambino e sua madre, e va nella terra di Israele: quelli che volevano farlo morire sono morti.]

Postcommunio 
Orémus.
Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii, et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur. [Per l’efficacia di questo mistero, o Signore, siano distrutti i nostri vizii e compiuti i nostri giusti desiderii.]

CALENDARIO LITURGICO della CHIESA CATTOLICA: GENNAIO

GENNAIO è il mese che la CHIESA dedica al Nome di Gesù, all’Epifania e al Battesimo di GESU’

… Balaam andò, e, il giorno dopo il suo arrivo, Balac lo condusse sopra un’alta montagna, d’ove si scuopriva l’armata di Israello. A quella vista Balaam, preso dallo spirito del Signore, si fa a benedire quel popolo che era venuto a maledire, e in cominciando a profetare esclama:

« Parola di Balaam figliuolo di Beor, parola di quell’uomo che ha chiuso l’occhio; parola di lui, che ha udito i parlari di Dio, che fa la dottrina dell’Altissimo, e vede le visioni dell’Onnipotente…. Io lo vedrò ma non ora: fisserò in lui lo sguardo ma non da vicino. Di Giacobbe nascerà una stella, e spunterà da Israele una verga e percuoterà i capi di Moab… da Giacobbe verrà il dominatore e sterminerà gli avanzi della città».

Una tradizione inalterabile comune ai Giudei e ai Cristiani, mantenutasi più di 3500 anni, ha sempre attestato che Balaam designava il Messia con quelle parole: Una stella nascerà da Giacobbe, una verga sorgerà da Israello. Le parole del profeta avevano risuonato per tutto l’Oriente; la memoria se n’era perpetuata d’età in età; e quando la stella apparve, i Magi, istruiti e dalla tradizione e dalla grazia, si misero in cammino per andare ad adorare Il glorioso germe d’Israello, che trovarono in Betlemme con la sua Madre divina, ed al quale offersero in dono oro, incenso e mirra. Seguendo l’orientale costume, tutt’oggi in vigore, di non psentarsi ai Re senza qualche tributo, i Magi deposero ai piedi del bambino Gesù misteriosi donativi. Coll’oro, confessarono la sua origine regale, il suo dominio sull’universo, il suo diritto alla sudditanza delle nazioni tutte: coll’incenso, emblemi dell’adorazione, del sacrificio, dell’annientamento della creatura innanzi a Dio venerarono la sua divinità: colla mirra, adoperata nelle imbalsamazioni, riconobbero la sua santa umanità. Ed ecco in questi regali un ammaestramento per noi pure giacché al Bambino di Betlemme noi tutti dobbiamo offrire l’oro della carità e dell’obbedienza assoluta, l’incenso delle nostre orazioni e della nostra fede, la mirra della mortificazione e dell’estinzione dei nocevoli appetiti. Ecco quali sono i tributi ch’Egli da noi richiede. – Furono i Magi le primizie del Gentilesimo, sicché fin dal loro arrivo a Betlemme comincia quell’epoca nuova di grazie e di benedizioni, in cui il Sole di verità e di giustizia illumina l’intero universo: epoca per sempre memorabile, di cui la Chiesa ha consacrata la ricordanza per mezzo della solennità dell’Epifania.

Le feste del mese di Gennaio 2018

1 Gennaio Die Octavæ Nativitatis Domini  Feria privilegiata *L1*

2 Gennaio Sanctissimi Nominis Jesu   Duplex II. classis *L1*

5 Gennaio 1° Venerdì

6 Gennaio In Epiphania Domini  Duplex I. clasis *L1* – 1° Sabato

7 Gennaio Dom. I post Epiphaniam Sanctæ Familiæ Jesu Mariæ Joseph    Duplex

13 Gennaio Commemoratio Baptismatis D. N. Jesu Christi    Duplex II. classis

14 Gennaio Dominica II post Epiphaniam  Semiduplex Dominica minor *I*

                        S. Hilarii Epíscopi Confessoris Ecclesiæ Doctoris

15 Gennaio S. Pauli Primi Eremitæ et Confessoris – Duplex

16 Gennaio S. Marcelli Papæ et Martyris – Semiduplex

17 Gennaio S. Antonii Abbatis    Duplex

18 Gennaio Cathedræ S. Petri    Duplex majus *L1*

19 Gennaio Ss. Marii, Marthæ, Audifacis, et Abachum martyrum    Simplex

20 Gennaio Ss. Fabiani et Sebastiani Martyrum    Duplex

21 Gennaio Dominica III Post Epiphaniam   Semiduplex Dominica minor *I*

                         S. Agnetis Virginis et Martyris

22 Gennaio Ss. Vincentii et Anastasii Martyrum    Semiduplex

23 Gennaio S. Raymundi de Peñafort Confessoris    Semiduplex

24 Gennaio S. Timothei Epíscopi et Martyris    Duplex

25 Gennaio In Conversione S. Pauli Apostoli    Duplex majus *L1*

26 Gennaio S. Polycarpi Epíscopi et Martyris    Duplex

27 Gennaio S. Joannis Chrysostomi Epíscopi Conf. et Eccl. Doc.   Duplex

28 Gennaio  Dominica in Septuagesima    Semiduplex 2nd class *I*

                            S. Petri Nolasci Confessoris

29 Gennaio S. Francisci Salesii Epíscopi Confessoris Ecclesiæ Doct. Duplex

30 Gennaio S. Martinæ Virginis et Martyris – Semiduplex

31 Gennaio S. Joannis Bosco Confessoris  – Duplex

MEDITAZIONI SULLA NATIVITA’ di N.S. GESU’ CRISTO

MEDITAZIONI …

[A. Carmagnola: Meditazioni, vol. I; S.E.I. ed. Torino, 1942]

… Sopra alcune parole di S. Paolo.

Mediteremo sopra queste parole di S. Paolo: Benignitas et humanitas apparuit Salvatoris nostri Dei: è apparsa la benignità e l’umanità del Salvator nostro Iddio (Tit., III, 4). C’immagineremo di vedere dinanzi a noi il Bambino Gesù, che nella grotta di Betlemme, adagiato sopra la paglia del presepio, in vita alla fiducia, al pentimento e all’amor suo, dicendo a ciascuno di noi: Præbe, fili mi, cor tuum mihi: Dammi, o figlio, dammi il tuo cuore. E adorandolo con i santi pastori, nell’atto che essi gli offrono i loro doni, noi gli daremo risoluti tutto ciò che egli ci chiede.

PUNTO 1°.

Da benignità del Bambino Gesù ispira fiducia.

Il Salvatore, venendo nel mondo, vi entrò non nella natura angelica, m a nella natura umana: Nusquam angelos apprehendit, sed semen Abrahæ (Hebr., II, 16). E pur prendendo la carne, la forma e la vita degli uomini, non volle venire nel mondo con statura perfetta e piena di maestà, ma come tenero bambino, pieno di benignità e piacevolezza, sicché per la sua nascita è apparsa al mondo, dice S. Paolo, la benignità e l’umanità del Salvatore nostro Iddio. Questo Bambino che viene a salvare il mondo è Dio: come angelo non ci avrebbe ispirata sufficiente fiducia, come Dio ci avrebbe atterriti. Perciò, oltre al non prendere la natura angelica, si spoglia ancora di ogni divina ed umana maestà e rivestendo la nostra misera carne si presenta a noi come la benignità e l’umanità per eccellenza. Sì, dice San Bernardo, perché tutto il mondo sa, avendolo la natura stessa insegnato a tutto il mondo, quanto sia grande la forza, quanto dolce l’attrattiva, che esercita sul cuore umano la vista di un delicato e caro bambino. Se Gesù Cristo non fosse nato così, alla semplice notizia dell’apparizione di Dio sulla terra gli uomini sarebbero fuggiti come Adamo colpevole, quando sentì la voce di Dio e presentì la sua presenza, e avrebbero tremato e disperato pensando alle offese fattegli e all’ingratitudine usatagli. Ma come fuggire, come tremare, come disperare dinanzi ad un debole e amabilissimo bambinello?

PUNTO 2°.

La benignità del Bambino Gesù adduce a penitenza.

L o stesso S. Paolo, il quale ci dice che per la nascita di Gesù è apparsa la benignità e l’umanità del Salvatore nostro Dio, ci insegna che la benignità di Dio ci alletta, ci spinge e ci vuol condurre alla penitenza dei nostri peccati: Ignoras quoniam benigniias Dei ad pœnitentiam te adducivi (Rom., II, 4). Gesù è nato bambino, perché noi, presentandoci a chiedergli perdono delle nostre colpe, non temiamo severi rimbrotti e una penitenza troppo grave; giacché, dice S. Bernardo, un tenero pargoletto senza più si placa e ci concede la sua grazia: Parvulus est, leviter placari potest; quis enim nesciat quia puer facile donat? (I Epiph.). D’altronde, anche cresciuto negli anni ed entrato nella sua vita pubblica, ha sempre fatto spiccare la sua benignità nell’accogliere i poveri peccatori e nel non esigere da essi altra penitenza che una vita scevra di peccato e feconda di buone opere. E nell’invitarci a seguirlo col prendere sulle nostre spalle il suo giogo ci ha assicurato che esso è lieve e soave. L’amore per Lui rende leggiere e dolcissime anche le penitenze più dure. Gesù Bambino dalla sua culla ci mostra la sua penitenza, perché uniamo la nostra alla sua. Non facciamogli più oltre ripetere quel vagito: ah! ah! hoc est: anima, anima, te quæro (S. Bern.): anima, anima peccatrice, te io cerco.

PUNTO 3°.

La benignità del Bambino Gesù domanda amore.

Gesù si è abbassato fino a nascere tenero Bambino sopra tutto per dimostrarci il suo amore immenso per ciascuno di noi, benché peccatore, benché iniquo, benché disertore, benché superbo. Filius Dei, dice S. Agostino, caro factus est propter te peccatorem, propter te iniustum, propter te desertorem, propter te superbum. No, non vi è altra cagione maggiore della sua venuta fra di noi sotto le sembianze di maschino bambinello all’infuori della manifestazione del suo amore: quæ maior est causa adventus Domini, nisi ut ostenderet dilectionem in nobis? La Chiesa, volgendosi a Gesù stesso, così canta: O autore beato del mondo, o Cristo di tutti Redentore, fu il tuo amore che ti indusse a prendere un corpo mortale: Amor coëgit te tuus — Mortale corpus sumere. Per questo ancora Egli volle nascere bambino, per essere più sicuro di acquistare l’amor nostro. Cosi, dice S. Bernardo, ha voluto nascere Colui che volle essere amato e non temuto: Sic nasci voluit, qui amari voluit, non timerì. Ah! Se sgraziatamente non l’abbiamo amato sin qui. diamoci ora ad amarlo come merita di essere amato. Amiamolo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutta la volontà, con tutte le forze; amiamolo di un amore generoso e costante. Chi non ama il Bambino Gesù sia da noi segregato, dice S. Paolo: si quis non amat Dominum nostrum Jesum Christum, anatema sit (I Cor., XVI, 22).

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… Sopra alcune parole di Isaia.

Prostrati in ispirito dinanzi al Santo Bambino Gesù nella grotta di Betlemme e adorandolo insieme con Maria, con Giuseppe e coi pastori ci diremo, per ben meditarle, quelle parole così consolanti del profeta Isaia: Questo Bambino è nato per noi; questo Figlio di Dio e di Maria è stato dato a noi; e porta sulle spalle il suo principato: Parvulus natus est nobis, filius datus est nobis, et factus est principatus eius super humerum eius (Is., IX, 1). C’immagineremo che Gesù Bambino dal suo presepio ci volga i suoi occhi misericordiosi, come per confermarci questa verità, che Egli è tutto per noi e vuol essere il re dei nostri cuori; e noi risponderemo dicendogli con tutto l’affetto: Diligam te, Domine, foriitudo mea: ti amerò, o Signore, mia forza (Ps., XVII, 1).

PUNTO 1°.

Il Santo Bambino è nato per noi.

Il Figlio di Dio è nato pargoletto per noi, per nostro spirituale vantaggio, per nostro salutare ammaestramento. Egli volle dirci nel modo più efficace: Se non vi farete anche voi bambini come me, non entrerete nel regno dei cieli. Nei bambini vi sono due doti: innocenza e semplicità. Così in Gesù Bambino. Si è dato dunque a noi Piccolino per apprenderci queste due condizioni necessarie alla nostra salute: innocenza e semplicità, virtù sommamente importanti per trattare come si deve con Dio e col prossimo. L’innocenza attira sopra di noi la compiacenza di Dio e la sua benedizione. Se sgraziatamente l’abbiamo perduta, dobbiamo riacquistarla con le lagrime della penitenza, ossia coll’essere sinceramente pentiti delle nostre passate colpe e col fare volontaria penitenza, o con l’accettare almeno per penitenza le tribolazioni che il Signore ci manda. – La semplicità poi, nelle nostre parole, nelle nostre azioni, in tutta la nostra condotta ci faccia procedere candidamente, con schiettezza e col cuore alla mano. Dinanzi a Gesù Bambino, bando alla prudenza umana e secolaresca, ingannatrice del prossimo e detestabile agli occhi di Dio.

PUNTO 2°.

Il Figlio di Dio e di Maria è stato dato a noi.

Il Bambino Gesù giacente nel santo presepio è il Figlio di Dio, che lo genera da tutta l’eternità nello splendore dei santi, ed è il Figlio di Maria, che lo ha generato nel tempo, nella povera capanna di Betlemme. L’Eterno Padre e Maria SS. Ci hanno dato questo Bambino, perché sia veramente nostro e lo abbiamo a possedere sempre, in questa vita e nell’eternità. – Bambino di valore infinito, perché Dio Egli stesso e donatoci dall’Eterno Padre e da Maria unicamente per amore. Oh immensa liberalità del nostro Padre celeste e della nostra SS. Madre! Eppure vi sono uomini, che non vogliono ricevere questo gran dono; sono coloro che chiudono il cuore all’amore di Dio per aprirlo all’amore delle creature. Che è di me, o caro Gesù? Vi costringerò ancora per tanto tempo a stare alla porta del mio cuore e a battervi per entrare ? Vi obbligherò ancora a ripetere: Aprimi, aprimi: aperi mihi? No, o caro Bambinello: libererò una buona volta il mio cuore dall’affetto alle creature, che non mi appaga, che anzi mi è di affanno e di tormento: Ho trovato in voi chi l’anima mia vuol amare con tutte le sue forze, vi terrò a me unito e non vi lascerò mai più allontanar da me: Inveni quem diligit anima mea, tenui eum, nec dimittam (Con., III, 4).

PUNTO 3°.

Il Santo Bambino ha sulle spalle il suo principato.

Il principato, che il Bambino Gesù ha sulle sue spalle, è primieramente l’anima di ciascuno di noi. Egli è venuto dal cielo in terra come un re a riacquistare il suo regno perduto, il regno delle anime, che a cagione del peccato di Adamo e dei peccati nostri era sfuggito dalle sue mani per cadere in quelle di satana. Che gran conto adunque ha fatto Gesù dell’anima nostra! Qua! conto ne facciamo noi? Deh! riflettendo che l’anima nostra è portata amorosamente in sulle sue spalle da Gesù e la riguarda come il suo principato, preghiamolo che in essa regni veramente da sovrano. Altro principato che sta sulle spalle del Santo Bambino è il fascio enorme dei peccati di tutti gli uomini. – E in questo peso così grave e ripugnante per Gesù ci sono anche i peccati miei! E sarò io così crudele da accrescerglielo ancora con nuovi peccati? Non cercherò anzi di alleggerirglielo col portare volentieri il giogo della sua santa legge e dei santi voti? Infine altro principato che sta sulle spalle a Gesù è la croce, che appena nato abbraccia con affetto per mezzo de’ suoi patimenti, affinché, nel vederlo noi ancora sì piccolo soffrire già cotanto per amor nostro, non ci rincresca di portare anche noi la croce delle tribolazioni per amor suo.

NASCITA DI GESU’

Nascita di Gesù Cristo.

[G. Bertetti: I TESORI DI S. TOMMASO D’AQUINO; S.E.I. Torino, 1918]

1. Il grande avvenimento (S. Th., 3*, q. 35, art. 6, 7, 8). — 2. Come la nascita di Gesù fu manifestata agli uomini (ibid., q. 36, art. 1-6).

1. Il grande avvenimento. — Gli altri uomini nascono soggetti alla necessità del tempo; Gesù Cristo invece, signore e dominatore di tutti i tempi, si elesse il tempo della nascita, come si elesse la Madre e il luogo: « Venuta la pienezza del tempo, ha mandato Dio il Figliuol suo, fatto di donna, fatto sotto la legge » (Gal., IV, 4). – Gesù Cristo veniva a ricondurci dallo stato di servitù a quello di libertà; e, siccome prese la mortalità nostra per darci la vita, così « si degnò d’incarnarsi quando appena nato sarebbe stato iscritto nel censo di Cesare e annoverato come suddito per la nostra liberazione » (S. BEDA, in Luc., 5). Tutto il mondo viveva allora sotto un solo sovrano: « se leggiamo la storia, troveremo che fino al 28° anno di Cesare Augusto ci fu discordia in tutta la terra, ma alla nascita del Signore cessò ogni guerra » (S. GEROLAMO, super Isa., 2) secondo la profezia (ISA., II, 4); nel tempo in cui un solo principe dominava nel mondo, nasceva Gesù Cristo, che « è la nostra pace » (Eph., II, 14) e che veniva a congregare i suoi in modo da formarne « un solo ovile e un solo pastore » (JOAN., X, 16). Volle nascere sotto un re straniero, perché s’adempisse la profezia di Giacobbe: « Non sarà tolto lo scettro di Giuda e il condottiero dalla sua coscia fin quando venga chi dev’essere mandato » (Gen., XLIX, 10); perché, come dice il Crisostomo, « finché il popolo giudaico era sotto il comando di re giudaici, quantunque peccatori, erano mandati dei profeti per suo rimedio: ora che la legge di Dio era tenuta sotto la potestà d’un re iniquo, nasce Gesù Cristo, perché quella grande e disperata infermità richiedeva un medico più valente. – Volle nascere nella stagione fredda per cominciar fin d’allora a patire per noi; e nel principio dell’inverno, quando il giorno comincia ad allungarsi, per dimostrare ch’Egli era venuto a far progredire gli uomini nella luce divina (Luc., 1, 79). – Volle nascere in Betlemme, dov’era nato Davide, perché dallo stesso luogo della nascita si dimostrasse adempiuta la promessa speciale fatta a Davide intorno a Cristo (2° Reg., 23, 1). Il nome di Betlemme significa « casa del pane », ed è lo stesso Gesù Cristo che disse: « Io sono il pane vivo disceso dal cielo » (JOAN., VI, 35, 51). Davide, nato in Betlemme, scelse Gerusalemme per costituirvi la sede del regno e per edificarvi il tempio di Dio, per farne insomma una città regale e sacerdotale nello stesso tempo. Così Gesù Cristo scelse Betlemme per la nascita e Gerusalemme per la passione, in cui principalmente si compì il suo sacerdozio e il suo regno. E anche a confutar la gloria degli uomini, che si vantano d’aver tratta la loro origine da illustri città e da esse vogliono esser massimamente onorati, Gesù Cristo volle invece nascere in una città oscura e soffrire l’ignominia i n una nobile città. La nascita di Gesù non ebbe alcun dolore, come non ebbe alcuna corruzione per la Madre: le recò anzi somma giocondità, perché nasceva l’uomo Dio nel mondo (ISA., XXXV, 2). Dalla sentenza che colpisce tutte le altre madri (Gen., III) « è eccettuata la Vergine madre di Dio, la quale senza macchia e senza danno concepì Cristo, senza dolore lo generò, senza violazione d’integrità rimase col verginal pudore intatto » (S. AGOST., in serm. de Assumpt.). – L a stessa Vergine, senza aiuto d’altra donna, ravvolse in panni il bambino e lo collocò nel presepio (Luc., II, 7).

  1. Come la nascita di Gesù fu manifestata agli uomini. — Non a tutti gli uomini in genere conveniva che fosse manifestata la nascita di Gesù: — 1 ° perché ne sarebbe stata impedita l’umana redenzione, che se gli uomini l’avessero conosciuto, « giammai avrebbero crocifisso il Signore della gloria» (la Cor., II, 8 ); — 2 ° sarebbe stato diminuito il merito della fede per mezzo della quale era venuto a giustificare gli uomini (Rom., III, 22), che se per manifesti indizi fosse stata conosciuta da tutti la nascita di Gesù, non ci sarebbe più stata ragion di fede, che è « dimostrazione delle cose che non si vedono » (Hebr., XI, 1); — 3 ° ne sarebbe venuta in dubbio la sua reale umanità: « se avesse fatto tutto in modo meraviglioso, avrebbe tolto ciò che fece in modo misericordioso » (S. AGOSTINO, ad Volusianum). Ma a nessuno sarebbe stata proficua la nascita di Gesù, se a tutti fosse rimasta occulta: a qualcuno dunque doveva esser manifestata. Appartiene poi all’ordine della divina sapienza il far pervenire i suoi doni e i suoi segreti non egualmente a tutti, ma ad alcuni in modo immediato, e per mezzo di questi agli altri (Act., X, 40). Maria e Giuseppe dovevano essere istruiti intorno alla nascita di Gesù, prima ch’Egli nascesse: perché spettava loro dimostrar riverenza e ossequio al Bambino: ma la loro testimonianza domestica intorno alla grandezza di Gesù sarebbe stata accolta con sospetto; ad altre persone estranee, la cui testimonianza non avrebbe potuto essere sospetta, doveva esser manifestato il grande avvenimento. – Da Gesù doveva venir la salvezza a tutti gli uomini senza distinzione (Coloss., III, 11): e a tutte le condizioni degli uomini fu manifestata la nascita di Gesù, affinché prefigurasse l’universalità della salvezza. « Israeliti furono i pastori, gentili i Magi, gli uni vicini, gli altri lontani, gli uni e gli altri ÙÙconcorrono tuttavia verso la medesima pietra angolare » (S. AGOSTINO, serm. de Epiph., 32); i magi furono sapienti e potenti, i pastori semplici e di vile condizione. Fu manifestato ai giusti, Simeone e Anna; fu manifestato ai magi peccatori. Fu manifestato a uomini e a donne, per farci intendere che nessuna condizione d’uomini è esclusa dalla salvezza cristiana. Essendo la nascita di Gesù ordinata all’umana salvezza mediante la fede, doveva esser manifestata in modo che la dimostrazione della sua divinità non pregiudicasse la fede nella sua umanità. Perciò Gesù Cristo manifestò la sua nascita non per se stesso ma per mezzo d’alcune altre creature: « i magi trovarono e adorarono il bambino Gesù per nulla dissimile da tutti gli altri bambini » (S. LEONE, serm. 4 de Epiph.,); ma questo bambino mostrava in sé la virtù della Divinità per mezzo delle creature di Dio. La manifestazione si fa per mezzo di cose famigliari a quelli cui si vuol fare la manifestazione. Or è evidente che per gli uomini giusti è cosa famigliare e consueta l’essere ammaestrati da interiore istinto dello Spirito Santo, senz’alcuna dimostrazione di segni sensibili, cioè con lo spirito di profezia. – Altri poi, dediti alle cose corporali, sono spinti alle cose intelligibili per mezzo di cose sensibili. I Giudei erano avvezzi a ricevere i divini responsi per mezzo d’Angeli, e per mezzo d’Angeli avevano ricevuto la legge (Act., VII, 53): invece i Gentili, e massime gli astrologhi, erano avvezzi a considerar il corso delle stelle. Perciò ai giusti, Simeone e Anna, la nascita di Gesù fu manifestata da interno istinto di Spirito Santo (Luc., II, 26); ai pastori e ai magi, come dediti a cose corporali, fu manifestata con visibili apparizioni. E poiché la nascita di Gesù non era puramente terrena ma in certo qual modo celeste, per mezzo di segni celesti agli uni e agli altri si rivela. Ai pastori, ch’erano giudei, si rivela per mezzo d’Angeli; ai magi, avvezzi alla considerazione dei corpi celesti, si rivela per mezzo d’una stella. I pastori ebbero la manifestazione nello stesso giorno della nascita (Luc.,II, 8); i magi giunsero presso Gesù il 13° giorno della nascita; i giusti Simeone e Anna ebbero la manifestazione i l 40° giorno della nascita (Luc., II, 22). Quest’ordine ha una ragione: i pastori significano gli apostoli e gli altri credenti fra i Giudei che ebbero la prima manifestazione della legge di Cristo e che non annoverarono fra loro « né molti potenti né molti nobili » (la Cor., 1, 26); poi la fede giunse alla moltitudine dei gentili, prefigurata nei magi, per giungere poi alla pienezza de’ Giudei prefigurata in Simeone e Anna.

SAN GIOVANNI APOSTOLO ED EVANGELISTA

SAN GIOVANNI, APOSTOLO ED EVANGELISTA

[Dom Guèranger: l’Anno Liturgico, vol I; Ed. Paoline, Alba – 1957 impr.]

L’Apostolo- Vergine.

Dopo Stefano il Protomartire, Giovanni, l’Apostolo e l’Evangelista, è il più vicino alla mangiatoia del Signore. Era giusto che il primo posto fosse riservato a colui che ha amato l’Emmanuele fino a versare il proprio sangue per il suo servizio, poiché, come dice il Salvatore stesso, non vi è amore più grande del dare la propria vita per coloro che si amano (Gv. XV, 13). D’altronde il Martirio è stato sempre considerato dalla Chiesa come il supremo slancio della carità, ed ha perfino la virtù di giustificare il peccatore in un secondo Battesimo. Ma dopo il sacrificio del sangue, il più nobile, il più coraggioso, quello che conquista soprattutto il cuore dello Sposo delle anime è il sacrificio della verginità. Ora, allo stesso modo che santo Stefano è riconosciuto come il tipo dei Martiri, san Giovanni ci appare come il Principe dei Vergini. Il Martirio è valso a Stefano la corona e la palma; la Verginità ha meritato a Giovanni prerogative sublimi che, mentre dimostrano il pregio della castità, pongono questo discepolo fra i più nobili membri dell’umanità. – Giovanni ebbe l’onore di nascere dal sangue di David, nella famiglia stessa della purissima Maria; fu dunque parente di nostro Signore, secondo la carne. Tale onore gli fu comune con san Giacomo il Maggiore, suo fratello e figlio di Zebedeo come lui; con san Giacomo il Minore e san Giuda, figlio d’Alfeo. Nel fiore della giovinezza, Giovanni seguì il Cristo e non si volse più indietro; la tenerezza particolare del cuore di Gesù fu tutta per lui, e mentre gli altri erano Discepoli e Apostoli, egli fu l’amico del Figlio di Dio. La ragione di questa rara predilezione fu, come afferma la Chiesa, il sacrificio della verginità che Giovanni offrì all’Uomo-Dio. Ora, è giusto mettere in risalto, nel giorno della sua festa, le grazie e le prerogative che sono derivate a lui dal sublime favore di questa amicizia celeste.

Il Discepolo prediletto.

Questa sola espressione del santo Vangelo: il Discepolo che Gesù amava, dice, nella sua mirabile concisione, più di qualsiasi commento. Pietro, senza dubbio, è stato scelto per essere il Capo degli Apostoli e il fondamento della Chiesa; è stato più onorato; ma Giovanni è stato più amato. Pietro ha ricevuto l’ordine di amare più degli altri; ha potuto rispondere a Cristo, per tre volte, che era proprio così; tuttavia, Giovanni è stato più amato da Cristo dello stesso Pietro, perché era giusto che fosse onorata la Verginità. La castità dei sensi e del cuore ha la virtù di avvicinare a Dio l’uomo che la possiede, e di attirare Dio verso di lui; è per questo che nel momento solenne dell’ultima Cena, di quella Cena feconda che doveva rinnovarsi sull’altare fino alla fine dei tempi, per rianimare la vita nelle anime e guarire le loro ferite, Giovanni fu posto accanto a Gesù stesso, e non soltanto ebbe questo insigne onore, ma nelle ultime effusioni dell’amore del Redentore, questo figlio della sua tenerezza osò posare il capo sul petto dell’Uomo-Dio. Fu allora che attinse, alla divina sorgente, la luce e l’amore; e tale favore, che era già una ricompensa, divenne il principio di due grazie speciali che presentano in modo particolare san Giovanni all’ammirazione di tutta la Chiesa.

Il Dottore.

Infatti, avendo voluto la divina Sapienza manifestare il mistero del Verbo, e affidare alla Scrittura i segreti che fin allora nessuna penna umana era stata chiamata a narrare, fu scelto Giovanni per questa grande opera. Pietro era morto sulla croce, Paolo aveva piegato il capo alla spada, gli altri Apostoli avevano anch’essi sigillato la propria testimonianza con il sangue. Rimaneva in piedi solo Giovanni in mezzo alla Chiesa; e già l’eresia, profanando l’insegnamento apostolico, cercava di annientare il Verbo divino, e non voleva più riconoscerlo come Figlio di Dio, consustanziale al Padre. Giovanni fu invitato dalle Chiese a parlare e lo fece, con un linguaggio celeste. Il suo divino Maestro aveva riservato a lui, mondo da ogni bruttura, il compito di scrivere con la sua mano mortale i misteri che i suoi fratelli erano stati chiamati solo ad insegnare: il Verbo, Dio eterno, e questo stesso Verbo fatto carne per la salvezza dell’uomo. Con questo si elevò come l’Aquila fino al Sole divino; lo contemplò senza restarne abbagliato perché la purezza dell’anima e dei sensi l’aveva reso degno di entrare in rapporto con la Luce increata. Se Mosè, dopo aver conversato con il Signore nella nube, si ritirò dai divini colloqui con la fronte risplendente di raggi meravigliosi, come doveva essere radioso il volto venerabile di Giovanni, che si era posato sul Cuore stesso di Gesù, dove – come dice l’Apostolo – sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col. II, 3)! Come dovevano essere luminosi i suoi scritti, e come divino il suo insegnamento! Cosicché quell’immagine sublime dell’Aquila descritta da Ezechiele e confermata da san Giovanni stesso nella sua Rivelazione, gli è stata applicata dalla Chiesa, insieme con il bel nome di Teologo che gli dà tutta la tradizione.

L’Apostolo dell’amore.

A quella prima ricompensa, che consiste nella penetrazione dei misteri, il Salvatore aggiunse per il suo Discepolo prediletto un’effusione d’amore inusitata, perché la castità, distogliendo l’uomo dagli affetti bassi ed egoistici, lo eleva ad un amore più puro e più generoso. Giovanni aveva accolto nel cuore i discorsi di Gesù: ne fece partecipe la Chiesa, e soprattutto rivelò il divino Sermone della Cena, in cui effonde l’anima del Redentore, che, avendo amato i suoi, li amò sino alla fine (Gv. XIII, 1). Scrisse delle Epistole, e lo fece per dire agli uomini che Dio è amore (Gv. IV, 8), che chi non ama non conosce Dio (Gv. IV, 8), che la carità esclude il timore (ibid. 18). Fino al termine della sua vita, fino ai giorni della sua estrema vecchiaia, insisté sull’amore che gli uomini si devono scambievolmente, sull’esempio di Dio che li ha amati; e come aveva annunciato più chiaramente degli altri la divinità e lo splendore del Verbo, così più degli altri si mostrò l’Apostolo di quella infinita carità che l’Emmanuele è venuto a portare sulla terra.

Il Figlio di Maria.

Ma il Signore gli riservava un dono veramente degno del discepolo vergine e prediletto. Morendo sulla croce, Gesù lasciava Maria sulla terra; ormai, da parecchi anni, Giuseppe aveva reso l’anima al Signore. Chi avrebbe vegliato dunque su un così sacro deposito? Chi sarebbe stato degno di riceverlo? Avrebbe Gesù mandato i suoi Angeli per custodire e consolare la Madre sua? Quale uomo sulla terra avrebbe potuto meritare tale onore? Dall’alto della croce, il Salvatore scorge il discepolo vergine: tutto è fissato. Giovanni sarà un figlio per Maria, Maria sarà una madre per Giovanni; la castità del discepolo l’ha reso degno di ricevere un legato così glorioso. Così – secondo quanto rileva eloquentemente san Pier Damiani – Pietro riceverà in deposito la Chiesa, Madre degli uomini; ma Giovanni riceverà Maria, Madre di Dio. Egli la custodirà come un suo bene, prenderà accanto a lei il posto del suo divino amico, l’amerà come la propria madre, e sarà come un suo figlio.

La gloria di S. Giovanni.

Circondato com’è di tanta luce, riscaldato da tanto amore, stupiremo che san Giovanni sia divenuto l’ornamento della terra, la gloria della Chiesa? Enumerate allora, se potete, i suoi titoli, enumerate le sue qualità. Parente di Cristo tramite Maria, Apostolo, Vergine, Amico dello Sposo, Aquila divina. Teologo santo, Dottore della Carità, figlio di Maria, è anche l’Evangelista per il racconto che ci ha lasciato della vita del suo Maestro e amico. Scrittore sacro per le sue tre Epistole, ispirato dallo Spirito Santo, Profeta per la sua misteriosa Apocalisse, che racchiude i segreti del tempo e dell’eternità. Che cosa gli è dunque mancato? La palma del martirio? Non lo si potrebbe dire, poiché se non ha consumato il suo sacrificio, ha tuttavia bevuto il calice del Maestro, quando, dopo la crudele flagellazione, fu immerso nell’olio bollente davanti a porta Latina, in Roma, nell’anno 95. Giovanni fu dunque Martire di desiderio e di intenzione, se non di fatto; e se il Signore, che lo voleva conservare nella sua Chiesa come un monumento della stima che ha per la castità e degli onori che riserba a tale virtù, arrestò miracolosamente l’effetto d’uno spaventoso supplizio, il cuore di Giovanni non aveva meno accettato il Martirio in tutta la sua estensione (morì presumibilmente ad Efeso sotto il regno di Traiano, 98-117 d. C.). – Questo è il compagno di Stefano accanto alla culla nella quale onoriamo il divino Bambino. Se il Protomartire risplende con la porpora del sangue, il candore virgineo del figlio adottivo di Maria non è forse più abbagliante di quello della neve? I gigli di Giovanni non possono sposare il loro innocente splendore allo splendore vermiglio delle rose della corona di Stefano? Cantiamo dunque gloria al neonato Re, la cui corte brilla di colori sì freschi e ridenti. Questa celeste compagnia si è formata sotto i nostri occhi. Dapprima abbiamo visto Maria e Giuseppe soli nella stalla accanto alla mangiatoia; subito dopo, l’armata degli Angeli è apparsa con le sue melodiose coorti; quindi son venuti i pastori con i loro cuori umili e semplici; poi, ecco Stefano il Coronato, Giovanni il Discepolo prediletto; e nell’attesa dei Magi, altri verranno presto ad accrescere lo splendore delle pompe, e ad allietare sempre più i nostri cuori. Quale nascita è mai quella del nostro Dio! Per quanto umile appaia, quanto è divina! Quale Re della terra, quale Imperatore ha mai avuto attorno alla sua culla onori simili a quelli del Bambino di Betlemme? Uniamo dunque i nostri omaggi a quelli che Egli riceve da tutti questi membri beati della sua corte; e se ieri abbiamo rianimato la nostra fede alla vista delle palme sanguinanti di Stefano, ridestiamo oggi in noi l’amore della castità, all’ardore dei celesti profumi che ci mandano i fiori della corona virginea dell’Amico del Cristo.

Vangelo della Messa (Gv. XXI, 19-24). – In quel tempo. Gesù disse a Pietro: Seguimi. Pietro, voltatosi, si vide vicino il discepolo prediletto da Gesù, quello che nella cena posò sul petto di lui, e disse: Signore, chi è il tuo traditore? Or vedutolo Pietro disse a Gesù: Signore e di lui che ne sarà? Gesù rispose: Se io voglio che resti finche io non torni, che te ne importa? Tu seguimi. Si sparse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non morrebbe. Gesù però non disse non morrà; ma: Se voglio che egli resti finch’io non tomi, che te ne importa ? È questo il discepolo che attesta tali cose, e le ha scritte: sappiamo che la sua testimonianza è verace. – Il brano del Vangelo di oggi ha impegnato molto i Padri e i commentatori. Si è creduto di vedervi la conferma del sentimento di coloro che hanno preteso che san Giovanni sia stato esentato dalla morte fisica, e che aspetti ancora nella carne, la venuta del Giudice dei vivi e dei morti. Non bisogna vedervi tuttavia, con la maggior parte dei santi Dottori, se non la differenza delle due vocazioni: quella di san Pietro e quella di san Giovanni. Il primo seguirà il Maestro, morendo come lui sulla croce; il secondo sarà preservato, raggiungerà una felice vecchiaia, e vedrà venire a sé il Maestro che lo toglierà a questo mondo con una morte pacifica. O diletto discepolo del Bambino che ci è nato, come è grande la tua felicità! quanto è meravigliosa la ricompensa del tuo amore e della tua verginità! In te si compiono le parole del Maestro: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. E tu non soltanto l’hai visto, ma sei stato suo amico, hai riposato sul suo cuore. Giovanni Battista ha timore di tendere le mani per immergere nel Giordano il suo capo divino; Maddalena, rassicurata da lui stesso, non osa sollevare il capo, e si ferma ai suoi piedi; Tommaso aspetta l’ordine per osar di mettere il dito nelle cicatrici delle sue piaghe: e tu, alla presenza di tutto il Collegio Apostolico, prendi accanto a lui il posto d’onore, appoggi il tuo capo mortale sul suo seno. E non soltanto godi della visione e del possesso del Figlio di Dio incarnato; ma, poiché il tuo cuore è puro, voli con la rapidità dell’aquila, e fissi con lo sguardo tranquillo il sole di Giustizia, nel seno stesso della luce inaccessibile in cui egli abita eternamente con il Padre e lo Spirito Santo. Questo è dunque il prezzo della fedeltà che tu gli hai mostrata conservando per lui, puro da ogni macchia, il prezioso tesoro della castità. Ricordati di noi, tu che sei il favorito del grande Re! Oggi, noi confessiamo la divinità del Verbo immortale che tu ci hai fatto conoscere; ma vorremmo anche avvicinarci a lui, in questi giorni in cui si mostra così accessibile, così umile, così pieno d’amore, sotto le vesti dell’infanzia e della povertà. Ma purtroppo i nostri peccati ci trattengono; il nostro cuore non è puro come il tuo; abbiamo bisogno d’un protettore che ci introduca alla mangiatoia del nostro Signore (Is. 1, 3). Per godere di questa felicità, o prediletto dell’Emmanuele, noi speriamo in te. Tu ci hai svelato la divinità del Verbo nel seno del Padre; portaci alla presenza del Verbo incarnato. Che per mezzo tuo possiamo entrare nella stalla, fermarci accanto alla mangiatoia, vedere con i nostri occhi e toccare con le nostre mani il dolce frutto della vita eterna. Ci sia concesso di contemplare i dolci lineamenti di Colui che è nostro Salvatore e nostro Amico, di sentire i battiti di quel cuore che ti ha amato e che ci ama; di quel cuore che, sotto i tuoi occhi, fu squarciato dal ferro della lancia, sulla croce. Ottienici di restare accanto alla culla, di essere partecipi dei favori del celeste Bambino, di imitare come te la sua semplicità. E infine, tu che sei il figlio e il custode di Maria, presentaci alla Madre tua che è anche la nostra. Ch’Ella si degni, per la tua preghiera, di comunicarci qualcosa di quella tenerezza con la quale veglia accanto alla culla del suo divin Figlio; ch’ella veda in noi i fratelli di Gesù che ha portato nel seno, che ci associ all’affetto materno nutrito per te, fortunato depositario dei segreti e degli affetti dell’Uomo-Dio. – Ti raccomandiamo anche la Chiesa di Dio, o santo Apostolo! Tu l’hai piantata, l’hai irrorata, l’hai adornata del celeste profumo delle tue virtù, l’hai illuminata con i divini insegnamenti; prega ora affinché tutte le grazie che tu hai arrecate, fruttifichino fino all’ultimo giorno; affinché la fede brilli di un nuovo splendore, l’amore di Cristo si riaccenda nei cuori, i costumi cristiani si purifichino e rifioriscano, e il Salvatore degli uomini, quando ci dice, con le parole del tuo Vangelo: Non siete più miei servi, ma miei amici, senta uscire dalle nostre bocche e dai nostri cuori una risposta d’amore e di coraggio la quale lo assicuri che lo seguiremo dovunque, come tu stesso l’hai seguito.

** * *

Consideriamo il sonno del Bambino Gesù in questo terzo giorno dalla sua nascita. Ammiriamo il Dio di bontà, disceso dal cielo per invitare tutti gli uomini a cercare fra le sue braccia il riposo delle loro anime, che si sottomette a prendere il proprio riposo nella loro dimora terrena, e che santifica con il sonno divino la necessità che ci impone la natura. Poco fa ci confortava vederlo offrire sul suo petto un luogo di riposo a san Giovanni e a tutte le anime che vorranno imitarlo nella purezza e nell’amore; ora vediamo Lui stesso dormire dolcemente nel suo umile giaciglio, o sul seno della Madre sua. –

Sant’Alfonso de’ Liguori, in uno dei suoi deliziosi cantici, celebra così il sonno del divino Bambino e la tenerezza della Vergine Madre:

Fermarono i cieli

La loro armonia,

Cantando Maria

La nanna a Gesù

Con voce divina

La Vergine bella,

Più vaga che stella

Diceva così:

Mio Figlio, mio Dio,

Mio caro Tesoro

Tu dormi, ed io moro

Per tanta beltà.

Dormendo, mio Bene,

Tua Madre non miri,

Ma l’aura che spiri

È fuoco per me.

O bei occhi serrati,

Voi pur mi ferite:

Or quando v’aprite,

Per me che sarà?

Le guance di rosa

Mi rubano il core;

O Dio, che si more

Quest’alma per Te!

II

Mi sforz’a baciarti

Un labbro sì raro:

Perdonami, Caro,

Non posso, più, no.

Si tacque ed al petto

Stringendo il Bambino,

Al Volto Divino

Un bacio donò.

Si desta il Diletto

E tutto amoroso

Con occhio vezzoso

La Madre guardò.

Ah Dio ch’alla Madre

Quegli occhi, quel guardo

Fu strale, fu dardo

Che l’Alma ferì.

E tu non languisci,

O dur’alma mia,

Vedendo Maria

Languir per Gesù.

Se tardi v’amai,

Bellezze Divine;

Or mai senza fine

Per voi arderò.

Figlio e la Madre,

La Madre col Figlio.

La rosa col giglio

Quest’alma vorrà.

Onoriamo dunque il sonno di Gesù Bambino; rendiamo i nostri omaggi al Neonato nello stato di volontario riposo, e pensiamo alle fatiche che l’attendono al risveglio. Crescerà questo Bambino; diventerà un uomo, e camminerà, attraverso tanti travagli, alla ricerca delle anime nostre, povere pecorelle smarrite. Che almeno, in queste prime ore della sua vita mortale, il suo sonno non sia turbato; il pensiero dei nostri peccati non agiti il suo cuore; e Maria goda in pace la gioia di contemplare il riposo di quel Bambino che deve più tardi causarle tante lacrime. Verrà presto il giorno in cui egli dirà: « Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli dell’aria i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo ». – Pietro di Celles dice eloquentemente nel suo quarto Sermone sulla Natività del Signore: « Cristo ha avuto tre posti dove posare il capo. Innanzitutto, il seno del suo eterno Padre; Egli dice: Io sono nel Padre, e il Padre è in me. Quale riposo più delizioso di questa compiacenza del Padre nel Figlio, e del Figlio nel Padre? In un mutuo e ineffabile amore, essi sono beati per l’unione. Ma, pur conservando quel luogo di riposo eterno, il Figlio di Dio ne ha cercato un secondo nel seno della Vergine. L’ha coperto dell’ombra dello Spirito Santo, e ha preso ivi un lungo sonno, mentre si formava in essa il suo corpo umano. La purissima Vergine non ha turbato il sonno del suo Figliuolo; ha tenuto tutte le forze dell’anima sua in un silenzio degno del cielo, e rapita in se stessa intendeva dei misteri che non è dato all’uomo ripetere. – Il terzo luogo di riposo del Cristo è nell’uomo; è nel cuore purificato dalla fede, dilatato dalla carità, elevato dalla contemplazione, rinnovato dallo Spirito Santo. Tale cuore offrirà al Cristo non già una dimora terrena, ma un’abitazione celeste, e il Bambino che ci è nato non rifiuterà di prendervi il suo riposo ».

 

SANTO STEFANO PROTOMARTIRE

26 DICEMBRE

SANTO STEFANO, PROTOMARTIRE

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, ed. Paoline, Alba – 1957 impr.]

Gesù e santo Stefano.

San Pier Damiani apre il suo Discorso sulla odierna solennità con le seguenti parole: « Abbiamo ancora fra le braccia il Figlio della Vergine, e onoriamo con le nostre carezze l’infanzia di un Dio. Maria ci ha condotti all’augusta culla; bella fra le figlie degli uomini, benedetta fra le donne, ci ha presentato Colui che è bello tra i figli degli uomini e più di tutti essi, colmo di benedizioni. Ella solleva per noi il velo delle profezie, e ci mostra i disegni di Dio compiuti. Chi di noi potrebbe distogliere gli occhi dalla meraviglia di questa nascita? Tuttavia, mentre il neonato ci concede i baci della sua tenerezza, e ci lascia nello stupore con sì grandi prodigi, d’improvviso Stefano, pieno di grazia e di forza opera cose meravigliose in mezzo al popolo (Atti VI, 8). Lasceremo dunque il Re per rivolgere lo sguardo su uno dei suoi soldati? No certo, eccetto che il Principe stesso ce lo ordini. Orbene, ecco che il Re, Figlio di Re, si leva egli stesso, e viene ad assistere alla battaglia del suo servo. Corriamo dunque ad uno spettacolo al quale egli stesso corre, e consideriamo questo porta-bandiera dei Martiri ». La santa Chiesa, nell’Ufficio odierno, ci fa leggere l’inizio d’un Discorso di san Fulgenzio sulla festa di santo Stefano: « Ieri, abbiamo celebrato la Nascita temporale del nostro Re eterno; oggi, celebriamo la Passione trionfale del suo soldato. Ieri il nostro Re, rivestito della carne, è uscito dal seno della Vergine e si è degnato di visitare il mondo; oggi, il combattente è uscito dalla tenda del suo corpo, ed è salito trionfante al cielo. Il primo, pur conservando la maestà della sua eterna divinità, ha assunto l’umile cintura della carne, ed è entrato nel campo di questo secolo per combattere; il secondo, deponendo l’involucro corruttibile del corpo, è salito alla magione del cielo per regnarvi per sempre. L’uno è disceso sotto il velo della carne, l’altro è salito sotto gli allori imporporati del suo sangue. L’uno è disceso da mezzo alla gioia degli Angeli, l’altro è salito da mezzo ai Giudei che lo lapidavano. Ieri, i santi Angeli, pieni di gaudio, hanno cantato: Giona a Dio nel più alto dei cieli! Oggi, hanno ricevuto giubilanti Stefano nella loro compagnia. Ieri, Cristo è stato per noi avvolto in fasce; oggi, Stefano è stato da lui rivestito della veste dell’immortalità. Ieri, una angusta mangiatoia ha ricevuto il Cristo bambino; oggi l’immensità del cielo ha ricevuto Stefano nel suo trionfo ». Così, la divina Liturgia unisce le gioie della Natività del Signore con l’allegrezza che le ispira il trionfo del primo dei suoi Martiri; e, per di più, Stefano non sarà il solo a ottenere gli onori di questa gloriosa Ottava. Dopo di lui celebriamo Giovanni, il Discepolo prediletto; gli Innocenti di Betlemme; Tommaso, il Martire della libertà della Chiesa; Silvestro, il Pontefice della Pace. Ma, in questa splendida scorta del Re neonato, il posto d’onore appartiene a Stefano, il Protomartire che, come canta la Chiesa, ha restituito per primo al Salvatore la morte che il Salvatore ha sofferto per lui. Così meritava di essere onorato il Martirio, questa sublime testimonianza che compensa pienamente Dio dei doni concessi alla nostra stirpe e sigilla con il sangue dell’uomo la verità che il Signore ha affidata alla terra.

Il martire, testimone di Cristo.

Per comprendere bene ciò, è necessario considerare il piano divino per la salvezza del mondo. Il Verbo di Dio è inviato per ammaestrare gli uomini; egli semina la sua divina parola, e le sue opere rendono testimonianza di lui. Ma, dopo il suo Sacrificio, sale nuovamente alla destra del Padre; e la sua testimonianza, per essere ricevuta dagli uomini che non hanno visto nè sentito quel Verbo di vita, ha bisogno d’una nuova testimonianza. Ora, questa nuova testimonianza, sono i Martiri che gliela renderanno; e la renderanno non già semplicemente con la confessione della bocca, ma con l’effusione del proprio sangue. La Chiesa s’innalzerà dunque per la Parola e il Sangue di Gesù Cristo; ma si sosterrà, attraverserà i tempi e trionferà di tutti gli ostacoli per il sangue dei Martiri, membra di Cristo; e questo sangue si mescolerà con quello del Capo divino, in uno stesso e identico Sacrificio. I Martiri rassomiglieranno in tutto al loro supremo Re. Saranno, come egli ha detto, « simili ad agnelli in mezzo ai lupi » (Mt. X, 16). Il mondo sarà forte contro di essi; al suo confronto, essi saranno deboli e disarmati; ma, in questa lotta impari, la vittoria dei Martiri sarà ancora più splendida e più divina. L’Apostolo ci dice che il Cristo crocifisso è la forza e la sapienza di Dio (I Cor. I, 24). I Martiri sono immolati, e tuttavia sono i conquistatori del mondo. Con una testimonianza che il mondo stesso comprenderà, attesteranno che Cristo che hanno confessato e il quale ha dato loro la costanza e la vittoria, è veramente la forza e la sapienza di Dio. È dunque giusto che siano associati a tutti i trionfi dell’Uomo-Dio, e che il ciclo liturgico li glorifichi, come la Chiesa stessa li onora ponendo sotto la pietra dell’altare le loro sante reliquie, onde il Sacrificio del loro Capo trionfatore non sia mai celebrato senza che essi siano offerti con Lui nell’unità del suo Corpo mistico. « La testimonianza » di santo Stefano. – La lista gloriosa dei Martiri del Figlio di Dio comincia da santo Stefano; vi risplende per il suo bel nome che significa l’Incoronato, divino presagio della sua vittoria. Egli dirige, sotto l’impero di Cristo, la bianca armata cantata dalla Chiesa, essendo stato chiamato per primo, prima degli stessi Apostoli, e avendo risposto degnamente all’onore dell’appello. Stefano ha reso una forte e coraggiosa testimonianza alla divinità dell’Emmanuele, davanti alla Sinagoga dei Giudei; ha urtato le loro orecchie incredule, proclamando la verità; e subito una gragnuola di pietre è stata scagliata contro di lui dai nemici di Dio divenuti anche i suoi nemici. Egli ha ricevuto quell’affronto restando dritto e senza vacillare; si sarebbe detto, secondo la bella espressione di san Gregorio Nisseno, che una neve dolce e silenziosa cadesse su di lui a falde leggere, o anche che una pioggia di rose scendesse mollemente sul suo capo. Ma, attraverso le pietre che s’incrociavano per recargli la morte, una luce divina giungeva fino a lui: Gesù, per il quale egli moriva, si manifesta al suo sguardo; e un’ultima testimonianza alla divinità dell’Emmanuele vibrava nella bocca del Martire. Quindi, sull’esempio del suo divino Maestro, per rendere il proprio sacrificio completo, il Martire pronuncia l’ultima preghiera per i suoi stessi carnefici: piega le ginocchia, e chiede che non sia loro imputato quel peccato. Così tutto è consumato; e il tipo del Martire è ormai noto alla terra per essere imitato e seguito per tutte le generazioni, sino alla fine dei secoli, fino all’ultimo compimento del numero dei Martiri. Stefano si addormenta nel Signore, e viene sepolto nella pace, in pace, fino a quando la sua sacra tomba non sarà rinvenuta, e la sua gloria si diffonderà nuovamente per tutta la Chiesa a motivo di quella miracolosa Invenzione, come per una resurrezione anticipata. Stefano ha dunque meritato di fare la guardia presso la culla del suo Re, come capo dei valenti campioni della divinità del celeste Bambino che noi adoriamo. Preghiamolo, insieme con la Chiesa, di facilitarci l’avvicinamento all’umile giaciglio in cui si trova il nostro sommo Signore. Chiediamogli di iniziarci ai misteri di quella divina Infanzia che dobbiamo tutti conoscere e imitare in Cristo. Nella semplicità della mangiatoia, egli non ha contato il numero dei suoi nemici, non ha tremato di fronte al loro furore, non si è sottratto ai loro colpi, non ha imposto il silenzio alla sua bocca. Ha perdonato al loro furore, e la sua ultima preghiera è stata per essi. O fedele imitatore del Bambino di Betlemme! Gesù non ha fulminato gli abitanti della città che rifiutò un asilo alla Vergine Maria nel momento in cui stava per dare alla luce il Figlio di David, nè arresterà il furore di Erode che presto lo cercherà per farlo morire; fuggirà piuttosto in Egitto, come un proscritto, dal cospetto del volgare tiranno. Attraverso tutte quelle apparenti debolezze mostrerà la sua divinità, e il Dio Bambino sarà il Dio Forte. Passerà Erode, e con lui la sua tirannia; Cristo invece resterà, sempre più grande nella sua mangiatoia dove fa tremare un re che è sovrano sotto la porpora tributaria dei Romani; più grande dello stesso Cesare Augusto, il cui impero colossale dovrà servire di sgabello alla Chiesa che sarà costituita da quel Bambino così umilmente iscritto nei registri della città di Betemme.-

(……) – Così, o glorioso Principe dei Martiri, fosti condotto fuori delle porte della città per essere immolato, e messo a morte con il supplizio dei bestemmiatori. Il discepolo doveva essere in tutto simile al Maestro. Ma né l’ignominia di quella morte, né la crudeltà del supplizio intimidirono la tua grande anima: tu portavi il Cristo nel Cuore, e con lui, eri più forte di tutti i tuoi nemici. Ma quale fu la tua gioia allorché, apertisi i cieli sul tuo capo, il Dio Salvatore ti apparve nella sua carne glorificata ritto alla destra del Padre, e gli occhi del divino Emmanuele incontrarono i tuoi! Quello sguardo di un Dio sulla sua creatura che deve soffrire per lui, della creatura verso il Dio per il quale si immola, ti rapì di te stesso. Invano le pietre crudeli piovevano sul tuo capo innocente: nulla poté distrarti dalla visione del Re eterno che alzandosi dal suo trono, muoveva incontro a te, con la Corona che ti aveva preparata da tutta l’eternità e che tu ricevevi in quell’ora. Chiedi dunque oggi, nella gloria in cui regni, che anche noi siamo fedeli, e fedeli fino alla morte, a quel Cristo che non si limitò a levarsi, ma è disceso fino a noi sotto le vesti dell’infanzia. – (……) – I Martiri sono offerti al mondo per continuare sulla terra il ministero di Cristo, rendendo testimonianza alla sua parola, e sigillando col proprio sangue tale testimonianza. Il mondo li ha misconosciuti; come il loro Maestro, hanno saputo risplendere nelle tenebre, e le tenebre non li hanno compresi. Tuttavia, parecchi hanno ricevuto la loro testimonianza, e sono nati alla fede da quel seme fecondo. La Sinagoga è stata respinta per aver versato il sangue di Stefano, dopo quello di Cristo; guai dunque a chiunque misconosce il merito dei Martiri! Ascoltiamo piuttosto le sublimi lezioni che ci offre il loro sacrificio; e la nostra religione verso di essi testimoni la nostra riconoscenza per il sublime ministero che essi hanno adempiuto e che adempiono ogni giorno nella Chiesa. La Chiesa infatti non è mai senza Martin come non è mai senza miracoli; è la duplice testimonianza che essa renderà sino alla fine dei secoli, e attraverso la quale si manifesta la vita divina che il suo autore ha posto in essa. – O Stefano, tu che sei il primo e il principe dei Martiri, noi ci uniamo alle lodi che ti inviano tutti i secoli cristiani! Ci felicitiamo con te per essere stato scelto dalla santa Chiesa per assiderti al posto d’onore, presso la culla del supremo Signore di tutte le cose. Come è gloriosa la confessione che tu hai resa fra i sassi mortali che laceravano le tue membra generose! Come è risplendente la porpora che ti ricopre come un trionfatore! Come son luminose le cicatrici delle ferite che ricevesti per il Cristo! Quanto è numerosa e magnifica l’armata dei Martiri che ti segue come suo capo, e che continua gloriosamente fino alla consumazione dei secoli! In questi giorni della Nascita del nostro comune Salvatore, noi ti preghiamo, o Stefano, di farci penetrare nelle profondità dei misteri del Verbo incarnato. Spetta a te, fedele custode del Presepio, introdurci presso il celeste Bambino che vi riposa. Tu hai reso testimonianza alla sua divinità e alla sua umanità; l’hai predicato, questo Uomo-Dio, fra le grida furenti della Sinagoga. Invano i Giudei si turarono le orecchie; bisognò che sentissero la tua voce risonante che denunciava il deicidio da loro commesso, condannando a morte Colui che è insieme il Figlio di Maria e il Figlio di Dio. Mostra anche a noi questo Redentore del mondo, non ancora trionfante alla destra del Padre, ma umile e dolce, nelle prime ore della sua manifestazione, avvolto in fasce e posto nella mangiatoia. Anche noi vogliamo rendergli testimonianza, annunciare la sua Nascita piena d’amore e di misericordia, far vedere con le nostre opere che è nato anche nei nostri cuori. Ottienici quella devozione al divino Bambino, che ti ha reso forte nel giorno della prova. Noi l’avremo, se siamo semplici senza timori, come sei stato tu, se abbiamo l’amore di questo Bambino; perché l’amore è più forte della morte. Non ci avvenga mai di dimenticare che ogni cristiano deve essere pronto al martirio, per il fatto stesso che è cristiano. La vita di Cristo che comincia in noi, vi si sviluppi mediante la nostra fedeltà e le nostre opere, di modo che possiamo giungere, come dice l’Apostolo, alla pienezza del Cristo (Ef. IV, 13). Ricordati, o glorioso Martire, ricordati anche della santa Chiesa, in quelle regioni in cui i disegni del Signore esigono che essa resista fino al sangue. Ottieni che il numero dei tuoi fratelli si completi con tutti quelli che sono provati, e che nessuno venga meno nella lotta. Che né  l’età né il sesso inclinino a vacillare, affinché la testimonianza sia piena, e la Chiesa colga ancora, nella sua vecchiezza, le palme e le corone immortali che hanno onorato i primi anni di cui tu fosti l’ornamento. Intercedi, affinché il sangue dei Martiri sia fecondo, come negli antichi giorni; affinché la terra ingrata non lo assorba, ma ne faccia germogliare ricche messi. Che l’infedeltà ritragga sempre più le sue tristi frontiere; che l’eresia si spenga e cessi di divorare, come lebbra, quelle membra il cui vigore costituirebbe la gloria e la consolazione della Chiesa. Che il Signore, tocco dalle tue preghiere, conceda ai nostri ultimi Martiri il compimento delle speranze che hanno fatto palpitare il loro cuore, nell’istante in cui curvavano il capo sotto la spada, o spiravano la propria anima fra i tormenti.

DISCORSO PER IL GIORNO DI NATALE

DISCORSO PER IL GIORNO DI NATALE

Sopra il mistero dì questo giorno.

[Billot: “Discorsi parrocchiali” – 2a Ed. Presso Simone Cioffi, in Napoli, 1840]

Invenietis infantem pannis involutum, et positura in præsepio. Luc. 1.

Strana cosa forse non è che non ci si diano altri segni che una stalla, una mangiatoia e dei pannolini per riconoscer Colui che hanno predetto i profeti, figurato i patriarchi, e le nazioni desiderato di vedere? É possibile che Colui che esser deve il liberatore del suo popolo comparisca legato come uno schiavo; Colui che esser deve la gioia dell’universo nasca in mezzo alle lacrime e al dolore; Colui finalmente che ricolmar ci deve d’ogni sorta di beni prenda la povertà per sua porzione? Non conveniva forse meglio alla sua grandezza comparire fra lo splendore e l’opulenza? Era sotto un’apparenza di possanza e di maestà che il popolo giudeo aspettava il suo Messia. Perciò questa nazione cieca ed incredula fu scandalizzata della povertà e delle umiliazioni di Gesù nascente. Ma quanto diversi sono i disegni di Dio! Se lo stato di Gesù nascente sembrava poco convenire alla sua gloria e alla sua grandezza, era ciò necessario per i nostri propri interessi. L’uomo perduto per lo peccato aveva bisogno di un salvatore: né bastava il riscattar l’uomo, conveniva ancora che 1’uomo imparasse a salvarsi da se stesso, applicandosi i meriti di un Dio salvatore colla pratica delle sue virtù. Il che viene ad insegnarci Gesù Cristo, servendoci di modello sin dalla sua nascita. Or quali esempi ci dà Egli? Esempio di povertà, esempio di patimento e di umiltà. Tali sono i tre rimedi che Gesù nascente oppone alle tre malattie che infetto avevano il genere umano, cioè alle tre cupidigie di cui parla s. Giovanni; la prima, che egli chiama cupidigia degli occhi o amor delle ricchezze -, 1’altra cupidigia della carne o amore dei piaceri; la terza superbia della vita. Gesù Cristo con la sua povertà apprende all’uomo a combattere l’amore delle ricchezze, primo punto; nei suoi patimenti Egli dà un rimedio contro 1’amor dei piaceri, secondo punto; nelle sue umiliazioni Egli insegna a preservarsi dalla superbia della vita, terzo punto.

Punto. Il peccato, che perduto aveva il primo uomo, aveva talmente corrotta la natura umana che con l’andar del tempo il mondo si ritrovò quasi interamente inondato di scelleratezze. L’ignoranza e la concupiscenza, tristi effetti del peccato originale, gettate avevano radici sì profonde che lo spirito dell’uomo, involto da dense tenebre, non seguiva che l’orrore e la menzogna; la volontà, trascinata dalle sue passioni, non cercava la felicità se non in ciò che poteva contentarla. Quindi la gran premura che egli aveva per i beni, i piaceri, gli onori della terra,cui attaccava tutto il suo cuore in pregiudizio dell’amore che doveva al suo Dio. Ma, cercando quei falsi beni, quei vani piaceri e quegli onori caduchi, egli s’allontanava dal bene supremo, che solo poteva renderlo felice. Aveva ei dunque bisogno di una guida che lo disingannasse dei suoi errori e che lo rimettesse nelle vie della giustizia. Or si è ciò che fa Gesù Cristo. Nasce Egli nella povertà per riformar le idee dell’uomo sopra le ricchezze della terra ed indurlo col suo esempio a disprezzarle e a meritare con questo disprezzo i beni eterni che gli sono destinati nel cielo. Ella è una povertà volontaria, una povertà estrema ed universale. No, fratelli miei, la povertà di Gesù Cristo non è 1’effetto del caso o della necessità, ma ella è di sua elezione. Siccome non è stato offerto! In sacrifizio a Dio suo Padre, se non perché l’ha voluto: Oblatus est quia ipse voluti (Imi. 58); così ancora, perché l’ha voluto, è nato in uno stato povero. Signore del cielo e della terra, non era Egli padrone di scegliere un luogo convenevole alla sua grandezza, di nascere in un palazzo magnifico ed in seno dell’opulenza? Colui che dispensa i tesori della terra, che provvede ai bisogni di tutte le creature, non poteva forse sovvenire a quelli della sua santa umanità? Non poteva Egli comandare ai suoi Angeli di servirlo? Sì, senza dubbio; ciò tutto poteva; ma dà la preferenza ad una povera stalla. Scelse la circostanza in cui Maria sul punto di sgravarsi deve trasferirsi a Betlemme in conseguenza degli ordini dell’imperatore, affinché costretta a ritirarsi in un presepio abbandonato vi metta al mondo il Salvatore degli uomini, e noi vedendolo esposto sin dalla sua nascita a tutti i rigori di un’estrema in digenza, imparassimo quale stima egli fece della povertà e quanto dobbiamo noi medesimi stimarla. Così è, o sapienza del mio Dio! ciò che gli uomini riguardano come effetto del caso è stato regolato nei vostri eterni decreti. Così voi censacrate lo stato di povertà con la preferenza che gli date a quello delle ricchezze, e dello splendore, in cui non dipendeva che da voi di nascere; ma, vi ripeto, qual povertà! dissi povertà estrema ed universale. Non uscite, fratelli miei, da Betlemme senza aver esaminate tutte le circostanze del mistero che fa l’ammirazione del cielo e lo stupor della terra. Che cosa vi vedete voi? una vile ed abbietta capanna, ricovero d’animali, esposta alle ingiurie dell’aria, agl’incomodi della stagione. Ecco nulladimeno il palazzo del padrone dei re; l’arbitro dei sovrani vi abita. Si è il soggiorno di colui cui serve la terra di sgabello e che abita nel più alto dei cieli. Una mangiatoia, ecco il trono, ecco la culla dove riposa Colui che prima di tutti i secoli è stato generato nel seno dell’eterno Padre ed assiso sta sopra i cherubini. Un poco di paglia, ecco il letto ove è coricato: una madre povera, che non ha se non alcuni panni per involgerlo, che manca di tutto il restante, che è abbandonata da tutto il mondo, e che non ha che lacrime a dargli per compatire la sua miseria. Qual indigenza! I principi della terra nascono in mezzo dell’opulenza, le loro culle ornate sono di tutto ciò che la natura ha di più magnifico e di più prezioso: sono attorniati da una folla di cortigiani, solleciti di rilevare con elogi pomposi lo splendor della loro nascita; ed il Re del cielo manca di tutto, vien rigettato da ognuno, fuorché da alcuni poveri pastori, che vengono a fargli la corte, non ha neppure i soccorsi che si danno ai fanciulli più poveri degli uomini. Che dico? Gli animali della terra hanno le loro tane, gli uccelli del cielo il lor nido per riposarsi e difendersi dagli incomodi delle stagioni; ed il Figliuol dell’uomo non ha dove riposar il suo capo: Filius hominis non habet ubi caput reclinet (Luc. 9). Che cosa ne pensate, cristiani miei? Non è questo forse un oggetto più che capace di recarci stupore grandissimo? Ma non è altresì una eloquentissima istruzione che vi dà Gesù Cristo nel distacco dai beni del mondo, e dell’amore che aver dovete per le povertà? Imperciocché se Gesù Cristo si è ridotto in questo stato d’indigenza, lo fece non solo per nostra salute, ma ancora per nostra istruzione, dice l’apostolo, affinché rinunciando ai desideri sregolati del secolo, viviamo secondo le regole della temperanza della giustizia e della pietà: Apparuit, gratia Dei salvatoris erudiens nos ut, abnegantes desiderici, saecularia, sorbrie et iuste et pie vivamus in hoc saeculo

( Tit. 2). – Si è questa cupidigia, questo attaccamento ai beni ch’Egli ha voluto sradicare dai nostri cuori: sapeva che le ricchezze erano di grande ostacolo alla salute e che l’uomo il quale erasi già perduto per la ricerca dei beni del mondo, si perderebbe ancora, se non insegnavagli a disprezzarli; e perciò li ha Egli stesso disprezzati, ha abbracciata la povertà, per apprendere all’uomo a stimarla, come la strada più sicura per andare al cielo. Questo Dio salvatore doveva un giorno annunziare un Vangelo tutto ripieno di massime di povertà, doveva dire agli uomini che non v’era beatitudine che per i poveri: Beati pauperes (Matth.V). Ma sapeva ancora che, se insegnava la sua dottrina senza metterla in pratica non 1’avrebbero gli uomini seguita, ben pochi avrebbero voluto mettersi nel numero dei suoi discepoli: la corruzione del cuore avrebbe fatto dare false interpetrazioni alle sue massime, e forse sarebbero state interamente disprezzate. Cosi pratica Egli il primo ciò che insegnar doveva agli uomini: Coepit Jesus facere et docere ( Act. 1). Ora, da che Gesù Cristo ci ha dato l’esempio, possiamo noi ricusare di seguirlo? E non è un volersi smarrire e perdersi il prendere una strada diversa da quella che ci ha Egli indicata? – Avvicinatevi dunque al presepio di Gesù Cristo, voi tutti che mi ascoltate, poveri e ricchi, grandi e piccoli, venite a udir questo divin Signore, che vi predica da quella cattedra di verità; voi v’imparerete da Lui ciò che dovete pensare sopra i beni del mondo, che con tanta ansietà ricercate; voi vi troverete, o ricchi del secolo, di che istruirvi e nello stesso tempo confondervi, e voi, o poveri, vi troverete onde aiutarvi a soffrire lo stato di povertà a cui vi ha la Provvidenza ridotti, – Il bambino coricato in quella mangiatoia è la Sapienza eterna, il Figliuolo di Dio. Egli è incapace d’ingannarsi e d’indurvi in errore; convien dunque ascoltarlo e profittare delle istruzioni che vi dà: Ipsum audite (Matth. XVII), Or che vi dice e quali istruzioni vi dà Egli? Già vi predica quanto vi predicherà un giorno, che non vi è vera felicità se non per i poveri di spirito, che a questi poveri appartiene il regno dei cieli: Beati pauperes spiritu , quoniam ipsorum est regnimi coelorum (Matth. V). Se voi non gli udite pronunziare parola alcuna, tutto ciò che lo circonda vi esprime i suoi sentimenti in un modo molto eloquente; la stalla, il presepio, i panni tengono un linguaggio che assai chiaramente condanna il desiderio insaziabile che avete per le ricchezze: Clamat stabulum, clamat praesepe, clamant panni (S. Bern.). – Ah! potrete voi, ricchi del secolo, resistere a questo linguaggio? Potete non temere, non tremare per la vostra salute, paragonando lo stato di opulenza in cui vivete, all’indigenza estrema cui è ridotto il vostro Dio? Non vi sembra già udire la fulminante sentenza che deve pronunziare nel suo Vangelo: Guai a voi ricchi: Vae vobis divitibus (Luc. VI)! Guai a voi che di nulla mancate, che avete tutti i vostri comodi in questo mondo: Vae vobis! E perchè? perché siete in uno stato tutto opposto a quello che ha scelto Gesù Cristo e che ci ha segnato come la strada sicura per arrivare al porto della salute. Che dovete dunque fare per preservarvi dalle sue minacce e per aver parte alle grazie che ci ha meritate conla sua nascita? Convien forse rinunziare a tutti i vostri beni ed abbandonare tutto ciò che possedete per ridurvi allo stato della miseria! No, cristiani miei, questo da voi non pretende Gesù Cristo. Chiama Egli al suo presepio i ricchi e i poveri, perché viene a salvare gli uomini tutti: vi chiama poveri pastori che custodivano le loro greggi nei contorni di Betlemme; vi chiama altresì dei re, che vennero sin dall’Oriente rendergli i loro omaggi. Ma in quali disposizioni comparvero quei re innanzi a Gesù Cristo? Lasciarono il loro paese e vennero ad offerirgli i loro beni con il loro cuore. Ecco ciò che da voi richiede; si è un distacco di spirito e di cuore dai beni che possedete, è un omaggio che voi far gli dovete pel superfluo di questi beni, soccorrendo i poveri che lo rappresentano, dovendo essere voi persuasi ch’Egli terrà come fatto a sé stesso tutto il bene che voi loro fate. Se Gesù Cristo venendo al mondo vi avesse richiesto qualche soccorso, chi di voi non si sarebbe recato a gran fortuna l’alloggiarlo, il sovvenirgli? Ora voi lo ricevete, il sovvenite, quando ricevete i poveri, quando date loro da mangiare nella loro fame, da bere nella loro sete: quando ignudi li rivestite, quando nelle loro malattie li soccorrete. A questa sola condizione potete voi sperare la beatitudine promessa alla povertà: Beati pauperes (Matth. V). Sì, fratelli miei, nell’opulenza voi potete esser poveri. Staccatevi dai vostri beni, possedeteli come se non li possedeste; fatene un uso santo: meriterete con ciò gli elogi di Gesù Cristo: Beati pauperes. Quanto a voi, o poveri di Gesù Cristo, misero scherno della fortuna, solo consolanti parole ho da dirvi, vedendovi in uno stato che Gesù Cristo ha consacrato con la sua scelta: la vostra povertà è un tesoro più stimabile che tutte le ricchezze della terra, se voi ne sapete far buon uso, cioè se voi pazientemente per Dio la sopportate, se voi con quella 1’unite che Gesù Cristo ha per voi sopportata. Ora che cosa evvi di più capace ad indurvi a questa perfetta rassegnazione che il considerare che Gesù Cristo ha preferito il vostro stato a quello dei ricchi; che Egli ha chiamato al suo presepio poveri pastori prima di chiamarvi dei re; in una parola, ch’Egli è nato povero, ha vissuto ed è morto nella povertà? Ma affinché la vostra povertà sia per voi una sorgente di salute, bisogna che sia volontaria come quella di Gesù Cristo. Imperciocché invano sareste voi ridotti all’ultima miseria, se mormorate contro la provvidenza, se siete ricchi di affetto per l’invidia che portate ai ricchi: voi non avrete giammai parte nel regno dei cieli, perché la vostra povertà, non essendo volontaria, è senza merito. Voi dovete all’opposto aspettarvi una povertà eterna che succederà all’indigenza che quaggiù soffrite. Ah! se siete miseri in questo mondo, fate almeno ogni sforzo per essere più felici nell’altro. Gesù Cristo nascendo povero v’insegna col suo esempio la stima che far dovete della povertà; vediamo come anche v’insegna a soffrire.

1° Punto. Gesù, nascendo, soffre nella sua anima e nel suo corpo: nell’anima per la vista degli oggetti che l’affliggono, nel corpo per i rigori cui egli si sottopone. Patimenti interiori, patimenti esteriori di Gesù Cristo; ecco, o cristiani, il nuovo esempio che vi dà il Salvatore ed il rimedio che vi presenta per guarire quest’amor del piacere che vi perde. Non giudichiamo, fratelli miei, di questo bambino appena nato come degli altri fanciulli, la cui anima, involta, per così dire, nella materia, è incapace di conoscenza e di riflessione. – Gesù Cristo viene al mondo con tutte le cognizioni d’un uomo perfetto; dell’infanzia non ha che la piccolezza del corpo, ma la sua anima unita alla divinità è illuminata da una estensione di cognizioni, la quale gli scopre ciò che è, ciò che sarà, il presente, il passato e l’avvenire. Egli sa che è il padrone del cielo e della terra, il Signore di tutti i re, e ridotto si vede all’ultima indigenza, negletto e rigettato dagli uomini; sa che è la santità stessa e si vede rivestito della figura umiliante di un peccatore; quale impressione fare non doveva un tale stato sopra l’anima di Gesù Cristo? Eppure questa non era la maggiore delle sue pene, poiché questo stato di indigenza e di umiliazione era di sua scelta, ed essendo la volontà umana di Gesù Cristo sommessa a quella di Dio, Egli l’accettava volentieri, come un rimedio necessario per guarirci dalle nostre debolezze e dalle nostre infermità; si credeva anzi in qualche modo compensato della sua povertà, delle sue umiliazioni e dei suoi patimenti, se apprendervi poteva la pratica delle virtù,, di cui dava l’esempio. – Ciò che affliggeva dunque il cuore di Gesù Cristo e che faceva l’oggetto del suo dolore, era il peccato degli uomini, che veniva ad espiare; era l’abuso di tante grazie che veniva loro meritare. Imperciocché non c’immaginiamo, osserva qui s. Bernardo, che le lacrime che Gesù Cristo sparge nel suo presepio siano prodotte dalla medesima cagione che quelle degli altri fanciulli. Questi piangono sopra le loro miserie senza conoscerle; Gesù Cristo piange sopra le nostre, e con le sue lacrime vuol lavare i nostri peccati, dice s. Ambrogio: Meæ lacrymae Meæ debita lavarunt. – Le offre a Dio suo Padre, aspettando che il suo sangue siasi formato nelle sue vene per essere sparso per la redenzione degli uomini. Sebbene bambino, penetra all’avvenire il più lontano, vede tutti i peccati degli uomini, le ingiurie fatte al Padre suo, il disprezzo della legge, la perdita delle anime, la sfrenatezza delle passioni, in una parola, tutti i pensieri, le parole, le azioni malvagie di tutti gli uomini che vissuto avevano sin allora, e che vivere dovevano sino alla fine del mondo. Sa che il sangue che deve spargere è più che bastante per riparare tutti questi mali: vede nulladimeno che questo sangue sarà inutile a molti, che i suoi benefizi verranno pagati d’ingratitudine e che sarà costretto a condannare alle fiamme eterne un gran numero di quelli che viene a riscattare. Qual soggetto di dolore per un cuore sì sensibile e sì generoso come quello di Gesù Cristo! Ma qual istruzione cavare noi dobbiamo dalle lacrime di Gesù Cristo, e che cosa vuol Egli insegnarci col dolore cui s’abbandona sin dalla sua entrata in questo mondo? Piangendo sui nostri peccati, vuol insegnarci a piangerli noi medesimi e gemere a somiglianza di Lui e per la medesima cagione; senza questo le sue lacrime, benché efficaci siano per calmare lo sdegno del Padre suo, non ci sarebbero di alcun vantaggio; perché il suo dolore non può esserci salutevole se non con l’unione del nostro col suo. Comprendete, fratelli miei, questo mistero, e la vista di un Dio nascente nelle lacrime e patimenti ci distacchi per sempre dai vani piaceri del mondo; c’inspiri quella santa tristezza che opera la salute, come dice l’Apostolo. Di più Gesù Cristo ci dice: beati quelli che piangono, perché saranno consolati; guai all’opposto a voi che ridete, che avete tutte le vostre contentezze in questo mondo, perché i vostri piaceri si cangeranno in dolori amari, che non finiranno giammai. – Ah! fratelli miei, potremmo noi essere insensibili ad un linguaggio sì penetrante, come le lacrime di Gesù Cristo? Possiamo noi, sapendo di essere peccatori, rallegrarci, mentre vediamo piangere l’innocente? Possiamo noi ricercare le vane allegrezze del secolo , mentre Gesù Cristo le ha espressamente condannate? Imperciocché conviene così ragionare, dice s. Bernardo: o Gesù Cristo s’inganna, o il mondo la sbaglia: ora è impossibile che la divina sapienza s’inganni; dunque è il mondo che è nell’errore; dunque sono quelli che piangono che prendono il miglior partito. Ma, oh durezza del nostro cuore! esclama ancora qui s. Bernardo: ben lungi dal piangere i nostri peccati con Gesù Cristo, noi li richiamiamo con piacere alla memoria, dimoriamo tranquillamente nello stato di peccato, senza cercare di uscirne per mezzo di una sincera penitenza. Che dico? noi diamo a Gesù Cristo nuova materia di piangere aggiungendo nuovi peccati ai nostri antichi mancamenti; inutili rendiamo i patimenti di un Dio nascente, abbandonandoci alle vane allegrezze del mondo, ricercando piaceri da cui Egli ha voluto staccarci. No, mio Dio, non sarà così; io amo meglio gemere e piangere con Voi sopra la terra per aver parte alle delizie del vostro regno che rallegrarmi e godere col mondo per piangere eternamente coi reprobi nell’inferno; amo meglio fare una penitenza che non dura se non qualche tempo e che mi sarà utile, che fare una penitenza eterna, la quale a nulla mi servirà. Io aggiungerò a questa penitenza, a questo dolore interiore dei miei peccati le mortificazioni salutevoli di cui sin dal vostro nascere Voi mi avete dato l’esempio. – Benché il peccato sia perdonato all’uomo per i meriti e patimenti di un Dio Salvatore e per il dolore interiore che l’uomo concepirne deve, la giustizia di Dio esige nondimeno una soddisfazione per la pena che è dovuta al peccato; ed ancorché ciò non fosse, non sarebbe egli necessario all’uomo un preventivo che lo tenesse dal ricadere? Ora questo preventivo si è quella pena del peccato che Gesù Cristo porta sin dalla sua nascita e che vuole che noi portiamo con Lui. Quali pene infatti, quali rigori non sostiene Gesù Cristo nella stalla ove è nato? Un corpo sì delicato e sì tenero come il suo, esposto ai rigori della stagione, tremante di freddo, al mezzo della notte, coricato sopra un poco di paglia, in una mangiatoia, appena coperto di pochi panni in cui sua Madre l’ha involto, e privo d’ogni altro soccorso; ecco come il Figliuolo di Dio ha voluto trattare il suo corpo innocente, perché è rivestito dall’apparenze del peccato. Che ne pensate voi, o cristiani sensuali e delicati, che procurate a vostri corpi tutto ciò che può lusingarli, che inventate ogni giorno mille mezzi per difendere questa carne di peccato da tutto ciò che può incomodarla? Si è dunque l’innocente che de solo soffrire nel mentre che il colpevole è risparmiato? Voi avete mille volte trasgredito la legge del vostro Dio: i vostri corpi sono stati imbrattati con piaceri brutali, con eccessi d’intemperanza, cui vi siete abbandonati; e invece di far loro espiare con la mortificazione i peccati di cui sono stati i complici e gli strumenti, voi li trattate con delicatezza, loro accordate mille superfluità, vi spaventate al solo nome di un digiuno, di un’astinenza che vi è comandata, cercate con vani pretesti di dispensarcene; ben lungi dal dare a Dio qualche soddisfazione volontaria, voi non volete neppur accettare quelle che vi vengono imposte; in una parola, tutto ciò che chiamasi incomodo, raffrenamento, mortificazione, vi fa orrore. – Ah! potete voi senza arrossire avvicinarvi al presepio del vostro Salvatore e sostenere il confronto della vostra morbidezza con i rigori che Egli patisce? Potete voi non conoscere l’estrema opposizione che si trova tra una stalla esposta ai rigori della stagione e quelle abitazioni che sì agiate vi rendete con tanta cura, inaccessibili a tutto ciò che può incomodarvi; tra i poveri panni onde Egli è coperto e il lusso dei vostri abbigliamenti; tra la paglia ov’è coricato e la morbidezza de’ vostri letti; tra la fame ch’Egli dura e la delicatezza ed abbondanza dei vostri banchetti? E se deve esservi conformità tra il discepolo ed il maestro, potete voi lusingarvi della qualità di discepoli di Gesù Cristo? Riconoscete dunque l’estremo bisogno che avete di portare nel vostro corpo la mortificazione di Gesù Cristo, non solamente per espiare i peccati da voi medesimi, ma ancora per preservarvi da nuove cadute; mentre voi ben sapete per una trista esperienza che una delle cagioni più ordinarie dei disordini che regnano nel mondo è la cura eccessiva che si ha del corpo, 1’attenzione a lusingar la carne ed accordarle tutto ciò ch’ella domanda. Ed ecco perché il Salvatore del mondo, che veniva a riscattarci ed istruirci, dichiarossi particolarmente sin dalla sua nascita e in tutto il corso della sua vita contro il viver effeminato e sensuale, che è la cagione della perdita degli uomini. Trattò il suo corpo con rigore per insegnarci a trattar il nostro nello stesso modo e a sottometterlo alla legge di Dio. Non ci chiede, è vero,  di portar la mortificazione a quel grado di rigore cui la portò Egli; ma vuole che facciamo almeno quanto dipende da noi, avuto riguardo al nostro stato e alla nostra fiacchezza: che rinunciamo non solo ai piaceri vietati, ma che ci priviamo ancora di molti di quelli che ci crediamo permessi, per non esporci ad oltrepassare i limiti della temperanza cristiana : Ut, abnegantes sæcularia desideria, sobrie vivamus (Tit.2). – Vuole, in una parola, che noi facciamo penitenza; ma una penitenza severa e proporzionata al numero e all’enormità delle colpe da noi commesse; vuole che soffriamo in ispirito di penitenza le pene annesse al nostro stato, che ci umiliamo alla vista di quanto Egli ha fatto per noi e del poco che noi facciamo per Lui; vuole che noi gli facciamo il sacrificio delle nostre passioni e dei nostri cuori per supplire a ciò che la debolezza non ci permette di fare! Ah! possiamo noi ricusare questi cuori ad un Dio che li ha riscattati a sì caro prezzo, che ce li chiede con i suoi sospiri o con le sue lacrime? Finiamo d’istruirci coll’esempio dell’umiltà che Egli ci dà sin dalla sua nascita. Terzo ed ultimo punto.

III. Punto. Quantunque trovi l’uomo in se stesso il motivo della sua umiliazione, egli è nulladimeno sì gonfio di superbia che non pensa se non ad innalzarsi. Questa brama d’innalzamento che fece cader dal cielo l’angelo ribelle perdette altresì l’uomo nel paradiso terrestre. L’angelo fu precipitato dall’alto del cielo nel profondo dell’abisso perché volle uguagliarsi a Dio. L’uomo altresì fu scacciato dal paradiso terrestre e privato dei doni dell’innocenza perché si lasciò falsamente persuadere dal tentatore che, mangiando del frutto vietato, diverrebbe simile a Dio: Eritis sicut dìi. Questa superbia che impadronissi del cuor e del primo uomo nell’istante di sua caduta, si comunicò altresì ai suoi discendenti: fu per soddisfarla che veduti si sono uomini sì gonfi di sé stessi e sì avidi di gloria che portarono l’accecamento e l’insolenza sino al punto di farsi rendere onori divini. Tale fu l’origine dell’idolatrìa, che sparse sì lungi le sue tenebre nell’universo che il numero degli dei uguagliava quasi quello degli uomini. Fu dunque per riparar un sì gran disordine che Dio formò Egli stesso il disegno di rendersi simile all’uomo, il quale aveva preteso di rendersi simile a Dio, affine di apprendere all’uomo a tenersi nello stato di dipendenza e di abbassamento come gli conviene. – Tale è, fratelli miei, la grand’istruzióne che Gesù Cristo ci dà nel presepio. Ma qual umiltà in questo Salvator bambino! Oh quanto è ella opportuna confondere 1’orgoglio dell’uomo! Io non posso per esprimerla servirmi di parole più energiche di quelle di cui servesi s. Paolo per farci conoscere le umiliazioni del Verbo incarnato. Ascoltiamo parlare su questa materia quel grande apostolo che aveva meditato profondamente questo mistero, e pesiamo ben bene la forza delle sue espressioni. Gesù Cristo, dic’Egli, il quale, essendo l’immagine di Dio , non ha creduto che esser uguale a Dio fosse per Lui usurpazione, si è umiliato: non basta ciò dire, si è annientato sino a prendere la figura di uno schiavo, essendosi fatto simile agli uomini, ed essendosi ritrovato nella condizione dell’uomo: Exinanivit semetipsum, formam servì accìpiens, in similitudinem hominum factus et habitu inventus ut homo (Philip. 2). Il Figliuol di Dio annientato! qual espressione, fratelli miei! e può dirsi qualche cosa di più forte? Per comprendere questa profonda umiliazione, converrebbe comprendere la distanza infinita che v’era tra Dio e l’uomo; tra Dio, che è la stessa onnipotenza e l’uomo, che non è che fiacchezza; tra Dio , che è il Signore per eccellenza e il padrone dell’universo, e l’uomo, che non è che uno schiavo; tra Dio, che è la sapienza infinita, e1’uomo, che non è che tenebre; in una parola, tra Dio, che è tutto, e l’uomo, il quale è nulla. Venite adunque, uomini vani e superbi, venite a contemplare questo bambino che è nel presepio, venite ad ammirare il mistero che la fede in esso vi scopre: voi vi vedrete la maestà suprema ridotta ad uno stato di schiavo, l’immensità di un Dio rinchiuso nella piccolezza di un bambino, la santità stessa rivestita dell’apparenza di un peccatore, la Sapienza eterna, il Verbo di Dio, che osserva il silenzio Colui che comanda a tutta la natura, fatto ubbidiente ai voleri delle sue creature, che ubbidirà non solamente ad una Vergine Madre, ad un uomo giusto, ma ancora a peccatori, ad empi giudici, a carnefici scellerati. Quale abbassamento, quale umiliazione per un Dio! Evvi Egli niente di più capace per confondere la superbia di quegl’uomini che non cercano che d’innalzarsi su degli altri, ed occultano con tanto artifizio quello che sono per comparir quello che non sono? Come mai osate voi, cenere e polvere, disputare sopra vane precedenze alla vista d’un Dio coricato in un presepio, vestito della forma di schiavo? come osate voi, peccatori ipocriti, adornarvi del manto della virtù per attirarvi gli applausi degli uomini, mentre vedete un Dio, la santità stessa, rivestito delle sembianze di colpevole per venir esposto agli obbrobri e ai disprezzi dei peccatori? Ah! se la vostra superbia non si spezza contro il presepio di un Dio, è un prodigio in qualche modo si incomprensibile, come quegli abbassamenti di cui si stupiscono il cielo e la terra. Imparate a tenervi nel centro del vostro nulla, sappiate che se voi non divenite simili a questo bambino che adorate, non entrerete giammai nel regno dei cieli. Imparate da me, già vi dice, come lo dirà sempre, che sono mansueto ed umile di cuore: Discite a me quia mitis sum et humilis corde. Apprendete che colui che si umilia sarà innalzato , e colui che s’innalza sarà umiliato. Potete voi ricusare di arrendervi ad un esempio sì toccante come quello che egli vi dà ? Si è abbassato per innalzarvi. Non dovete voi altresì abbassarvi per innalzarvi a lui? Ed è in questo che Egli vi permette di diventare a Lui simiglianti; e se il delitto dell’angelo o del primo uomo fu di voler ugualiarsi a Dio, sarà in voi una virtù il diventare simili a Gesù Cristo umiliato. Ecco in che dobbiamo noi, fratelli miei, ammirare la sapienza e la bontà di Dio, il quale si è in tal modo abbassato sino a noi per esser nostro modello. Non è dato all’uomo di arrivare alle perfezioni di Dio, come sono la sua onnipotenza, la sua previdenza, le quali son piuttosto l’oggetto della nostra ammirazione che della nostra imitazione, dice s. Bernardo; ma Dio ha sposata la nostra natura per darci in essa esempi di virtù che fossero proporzionate alle nostre forze, come l’umiltà, la povertà e la pazienza. Entriamo dunque nei sentimenti di questo divin bambino, che è ad uno stesso tempo e nostro salvatore e nostro modello, Hoc sentite in vobis, quod est in Christo Jesu (Philip. 2).

Pratiche. Non contentiamoci di rendergli i nostri omaggi nel suo presepio e di ringraziarlo di esser venuto al mondo per la nostra salute; ma procuriamo di esprimere in noi i tratti di questo divin originale. Il Signore, che altre volte ci ha parlato per i suoi profeti, ci parla in quest’oggi per mezzo del suo proprio Figliuolo: ci mette innanzi agli occhi il Maestro che dobbiamo seguire; rendiamoci docili alle istruzioni che Egli ci dà e che fu il primo Egli stesso a praticare; imitiamo la sua povertà con il distacco dai beni del mondo e con la pazienza a soffrir quella cui ridotti ci ha la previdenza, ed uniamola a quella che Egli ha sofferto per noi. Se noi siamo nell’opulenza, onoriamo la povertà di Gesù Cristo con le nostre liberalità verso i poveri, soccorriamoli contro il rigore della stagione, portiamo su di noi la mortificazione di Gesù Cristo con la rinuncia ai piaceri sensuali e con le pratiche di penitenza che il nostro stato e la nostra fiacchezza permettere ci possono; umiliamoci finalmente ad esempio di Gesù Cristo, reprimendo la brama di comparire e innalzarci, e sopportando pazientemente le umiliazioni e i dispregi. Scacciamo sopra tutto il peccato dai nostri cuori dove chiede Egli di abitare e dove vuole di bel nuovo nascere. Guai a quelli che avranno, come i Giudei, la durezza di non aprirgli la porta; ma felici coloro i cui cuori servirangli di cuna con la santità della loro vita, con la purezza dei costumi e con la pratica delle virtù. Godranno in questo mondo della pace, ch’Egli ha apportato agli uomini di buona volontà e nell’altro della gloria che ha loro meritata.  Così sia.

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA-APOSTATA DI TORNO: A QUO PRIMUM

Benedetto XIV
A quo primum

Il popolo che doveva accogliere il Messia come suo liberatore dalla schiavitù del demonio, e farlo conoscere a tutti i popoli della terra perché anch’essi venissero liberati dalle catene di satana, fallì miseramente nell’espletamento della propria missione, essendosi consegnato alle suggestioni gnostiche e pagane, preferendo alla gloria di Dio, il “vitello d’oro” del deserto, e tanti secoli di preparazione accurata da parte dei profeti, non servirono a far riconoscere il Messia atteso, che fu anzi messo a morte vigliaccamente. Tale disconoscimento vige tuttora sempre più ostinato, e l’odio per il Messia si è riversato sui popoli cristiani in modo sempre più feroce. I Sommi Pontefici hanno sempre cercato, nel corso della storia, di arginare la marea montante di quest’odio profondo fin quando Sisto V, spinto da una misericordia dimostratasi poi imprudente, iniziò a demolire la diga eretta e resistita fino ai suoi immediati predecessori: da quel momento in poi i “marrani” hanno, con pazienza e scaltrezza, minato la Chiesa Cattolica nei suoi fondamenti fino ad insidiarvi la “sinagoga di satana” dal 26 ottobre del 1958! In questa breve enciclica, Papa Benedetto XIV richiama al popolo polacco alcuni principi che la Chiesa cattolica aveva già attuato in passato per difendersi dalle malefiche infiltrazioni, misure che sono state solo dei pannicelli caldi che hanno sortito nel tempo effetti modesti o nulli, fino ad assistere oggi alla devastazione ed all’apparente totale rovina  della Chiesa di Cristo. Ma con la certezza che Dio “irridebit eos”, leggiamo con serena fiducia la lettera “A quo primum” di Papa Lambertini.

Da quando la suprema bontà di Dio si compiacque di porre le fondamenta della nostra Santa Religione Cattolica nel Regno di Polonia, evento che si compì verso la fine del decimo secolo, durante il papato del nostro Predecessore Leone VIII e per opera del sovrano Miecislao e della cristiana sua moglie Dambrowka, secondo quanto racconta Dlugoss, autore dei vostri Annali (lib. 2, p. 94); fin da quell’epoca la pia e devota Nazione Polacca con tanta costanza perseverò nell’intrapreso culto della Santa Religione, tanto ebbe in dispregio ogni genere di sette religiose, sebbene nessun tentativo queste tralasciassero per introdursi in codesto Regno, per elevarsi a fede comune e per spargervi i semi dei loro errori, delle eresie o di aberranti opinioni; tanto più tenacemente la costanza dei Polacchi si oppose ai tentativi di quelle sette e offrì più luminose testimonianze della sua fedeltà.

1. Sicuramente ciò è del tutto conforme al nostro proposito e da ritenere di per sé del massimo valore. Non solo infatti perdura quella gloriosa memoria di Martiri, di Confessori, di Vergini, di Uomini insigni per fama di santità, ai quali toccò in sorte di nascere, di essere educati e di morire nel Regno di Polonia (memoria che è annoverata tra i fasti della Santa Chiesa); ma altrettanto memorabili sono i molti Concili e i Sinodi ivi celebrati e condotti a felice conclusione, per cui con somma gloria fu riportata vittoria sui Luterani, i quali esperirono ogni modo ed ogni via pur di penetrare e di trovare ricetto in codesto Regno. In verità già allora nel grande Concilio Petrocoviense (che fu celebrato al tempo del grande Predecessore e Concittadino nostro Gregorio XIII, e presieduto dal presule Lipomano, Vescovo di Verona e Nunzio Apostolico) a maggior gloria di Dio fu soppressa la libertà di coscienza che cercava adito e dimora in quel Regno; allora infine furono raccolte in ampio volume le Costituzioni Sinodali della provincia Gnesnense, in cui sono trascritti tutti gli utili e sapienti provvedimenti previsti e presi dai Vescovi polacchi affinché nei Popoli affidati al loro governo la Religione Cristiana non fosse contaminata dalla perfidia Giudaica, tenuto conto che la qualità dei tempi comporta che sia i Cristiani, sia anche i Giudei convivano nelle stesse città e villaggi. Ciò conferma con luminosa evidenza (già lo si è detto) quanto merito abbia la Nazione Polacca nell’aver sempre cercato di conservare integra e protetta la Santa Religione tramandata, tanti secoli innanzi, dai suoi Antenati.

2. Anche se molti sono i capitoli delle Costituzioni di cui testé facemmo menzione, di nessuno vi è ragione di dolerci, tranne che dell’ultimo: al punto che siamo costretti ad esclamare con voce di pianto: “È mutato l’ottimo aspetto“. E invero, sia per i fatti che a Noi furono esposti da serie e fededegne persone, esperte di vicende polacche, sia per le rimostranze di coloro che vivono nel Regno e che spinti da sacro zelo fecero ricorso a Noi e a questa Santa Sede, siamo venuti a sapere quanto costì si sia moltiplicato il numero dei Giudei, al punto che non pochi luoghi, città e villaggi che, come appare dai ruderi, erano prima opportunamente protetti da mura e che, come appare dalle antiche Tavole o dai Regesti, erano popolati da un grande numero di abitanti Cristiani, si trovano ora diroccati, sconci per l’abbandono e lo squallore e tuttavia gremiti di un gran numero di Giudei e quasi del tutto deserti di Cristiani. Abbiamo appreso inoltre che nello stesso Regno un certo numero di Parrocchie (i cui fedeli sono sensibilmente diminuiti e di conseguenza il reddito di esse si è contratto) sono già prossime ad essere abbandonate dai loro Parroci. Inoltre, ogni traffico di utili merci, quale quello dei liquori e anche del vino, è gestito dagli stessi Ebrei, i quali sono ammessi ad amministrare il reddito pubblico; per di più essi posseggono osterie, poderi, villaggi, beni per cui, conseguito il potere padronale, non solo fanno lavorare senza posa, esercitando un dominio crudele e disumano, i miseri uomini Cristiani addetti alle attività agricole e li costringono al trasporto di pesi immani; ma anche infliggono pene; coloro che sono sottoposti alle staffilate, ne riportano il corpo piagato. Come può accadere che quegli infelici dipendano dall’autorità dell’uomo Giudeo, quali sudditi sottomessi al cenno e al volere del Signore? Come può essere che nell’infliggere queste pene si lasci loro far uso di una funzione propria del Ministro Cristiano, al quale appartiene la facoltà di punire? Ma poiché questi, per non essere allontanato dall’incarico, è costretto ad eseguire gli ordini del padrone Giudeo, così gli ordini tirannici finiscono per essere rispettati.

3. Oltre alle pubbliche cariche che, come or ora dicemmo, sono ricoperte dai Giudei (la gestione di osterie, di villaggi, di poderi, dal governo dei quali beni tanti danni ricadono sugli uomini Cristiani) si aggiungono altri assurdi fatti che, se rettamente valutati, possono recare maggior danno e iattura a coloro cui furono fatti conoscere. È una cosa assolutamente riprovevole che gli stessi Giudei siano accolti nelle case dei Magnati con l’incarico di amministrare sia gli affari domestici, sia quelli economici (e ciò comporta il titolo di sovrintendente della casa), per cui trovandosi a coabitare in una stessa casa con i Cristiani, con pervicacia impongono e ostentano sopra di questi una sorta di dominio. Ormai, in verità, nelle città e nelle campagne non solo è dato vedere in ogni dove i Giudei frammisti ai Cristiani, ma si aggiunge l’assurdo che i primi per nulla si vergognano di tenere in cassa anche Cristiani di ambo i sessi addetti come famiglie al loro servizio. Inoltre gli stessi Giudei, essendo dediti all’esercizio della mercatura e dopo che in tal modo accumularono una grande somma di danaro, con la smodata pratica dell’usura prosciugano censo e patrimoni dei Cristiani: e benché essi prendano a prestito danaro dagli uomini Cristiani con pesante ed eccessivo tasso d’interesse e con la garanzia delle loro Sinagoghe, risulta chiaro ad ogni osservatore che quel prestito è da loro contratto per questa ragione: dopo aver ottenuto dai Cristiani una somma di danaro e dopo averla investita nell’attività commerciale, non solo da essa traggono tanto guadagno, quanto sarebbe bastevole ad estinguere il prestito ed insieme ad accrescere, in tal modo, le proprie ricchezze; ma nello stesso tempo quanti sono i loro creditori, altrettanti sono considerati Patroni delle loro Sinagoghe e di loro medesimi.

4. Il famoso monaco Radulfo, sospinto una volta da eccesso di zelo, a tal punto s’infiammò contro i Giudei che nel secolo dodicesimo, in cui visse, percorse la Gallia e la Germania e, predicando contro gli stessi Giudei, in quanto nemici della nostra Santa Religione, infiammò anche i Cristiani a tal segno che li distrussero fino allo sterminio: e questo fu il motivo per cui i Giudei furono massacrati in gran numero. E che cosa mai si ritiene che quel monaco farebbe o direbbe oggi se fosse tra i vivi e se vedesse ciò che accade attualmente in Polonia? A questo eccessivo e furente zelo di Radulfo si oppose quel grande San Bernardo, che nella sua Epistola 363, inviata al Clero e al Popolo della Gallia Orientale, così lasciò scritto: “Non si deve perseguitare gli Ebrei, non si deve ucciderli, ma nemmeno cacciarli. Interrogateli circa le Divine pagine. Ho inteso la profezia che nel Salmo si legge circa i Giudei: Dio mi pose sopra ai miei nemici, dice la Chiesa, non perché li uccidessi, neppure quando si dimenticano del mio Popolo. Senza dubbio le vive scritture ci rappresentano la Passione del Signore. Perciò gli Ebrei sono dispersi in tutte le terre e, fin tanto che non avranno espiato la giusta pena per l’immane delitto, siano testimoni della nostra Redenzione“. Poi, nella epistola 365 ad Enrico, Arcivescovo di Magonza, così egli scrive: “Forse che ogni giorno la Chiesa non trionfa sui Giudei o convincendoli o convertendoli e quindi con più frutto che se in un sol tratto e insieme li annientasse con la punta della spada? Forse che vanamente è stata composta quella universale preghiera della Chiesa che viene innalzata a favore dei perfidi Giudei, dall’alba fino al tramonto, affinché il Dio e Signore strappi il velame dai loro cuori, in modo che dalle loro tenebre siano condotti alla luce della verità? Se infatti fosse vana la speranza che essi, increduli quali sono, diverranno credenti, superfluo e vano parrebbe pregare per essi“.

5. Contro Radulfo anche l’Abate cluniacense Pietro, nello scrivere a Ludovico Re dei Franchi, lo esortò a non permettere che si compissero eccidi di Giudei. E invero al tempo stesso lo incitò a rivolgere l’attenzione verso di loro per i loro eccessi e a spogliarli dei loro beni, o carpiti ai Cristiani o accumulati con l’usura, e a trasferire il loro danaro in uso e beneficio della Santa Religione, come si può leggere negli Annali del Venerabile Cardinale Baronio “nell’anno di Cristo 1146“.

Noi pure, non meno in questa questione che in tutte le altre, abbiamo assunto la stessa norma di comportamento che tennero i Romani Pontefici Nostri Predecessori. Alessandro III, minacciando gravi pene, proibì ai Cristiani di prestare servizio continuato alle dipendenze di Giudei: “Non si offrano ai Giudei in assiduo servizio per alcuna mercede“. Il motivo di ciò è esposto dallo stesso Alessandro III con le parole che seguono: “Perché i costumi dei Giudei e i nostri non concordano affatto; gli stessi (ossia i Giudei) facilmente attraggono gli animi delle persone semplici alla loro perfida superstizione con la continua convivenza e con l’assidua familiarità“; così si legge nel Decretale: Ad hæc, de Judæis. Innocenzo III, dopo aver spiegato per qual motivo i Giudei erano accolti dai Cristiani nelle loro città, ammonisce che il metodo e la condizione di tale accoglienza devono essere regolati in modo che essi non ricambino il beneficio con il maleficio. “Coloro che per misericordia sono ammessi alla nostra familiarità, ci ripagano con quella ricompensa che erano soliti offrire ai loro ospiti, secondo un proverbio popolare: un sorcio in bisaccia, un serpente in grembo e fuoco nel seno“. – Lo stesso Pontefice, aggiungendo che è conveniente che i Giudei siano asserviti ai Cristiani e non già che questi prestino orecchio a quelli, così prosegue:”Che i figli di una donna libera non siano al servizio dei figli di un’ancella, ma come servi riprovati da Dio, in quanto tramarono crudelmente per farlo morire, si riconoscano almeno servi di coloro che la morte di Cristo rese liberi, e quelli servi per effetto del loro operato“. Queste parole si trovano nel suo Decretale: Etsi Judaeos. In altri Decretali ancora: Cum sit nimis sotto lo stesso titolo De Judaeis et Saracenis affinché i Giudei non siano assunti in pubblici impieghi, prescrive: “Sia vietato preferire i Giudei in pubblici uffici, poiché in tale veste sono dannosi soprattutto ai Cristiani“. – Anche Innocenzo IV, mentre scriveva al Santo Ludovico Re dei Franchi che aveva intenzione di espellere i Giudei dai confini del suo Regno, approva una tale decisione poiché essi non rispettavano affatto quelle disposizioni che erano prescritte dalla Sede Apostolica nei loro confronti: “Noi, con tutti i nostri sentimenti aspirando alla salute delle anime, concediamo a Te, con l’autorità dettata dalle circostanze, la facoltà di cacciare i predetti Giudei o per opera tua o di altri, soprattutto perché non rispettano (come ci risulta) gli Statuti promulgati contro di essi dalla predetta Sede“. Così si legge presso Rainaldo (Anno di Cristo 1253, n. 34).

6. Se poi si chiede quali siano quelle cose che dall’Apostolica Sede sono proibite ai Giudei che vivono dentro le stesse città in cui abitano i Cristiani, diciamo che si permettono ad essi quelle stesse facoltà che oggi nel Regno di Polonia sono loro concesse e che da noi sono esposte più sopra. Evidentemente per acquisire tale verità non vi sarà bisogno di una vasta lettura di libri. È sufficiente scorrere il titolo dei Decretali De Judaeis et Saracenis, dei Romani Pontefici Nostri Predecessori Nicola IV, Paolo IV, San Pio V, Gregorio XIII e Clemente VIII. Le Costituzioni sono a disposizione e sono custodite nel Bollario Romano. Voi infatti, Venerabili Fratelli, per comprendere chiaramente tali questioni non avete neppure la necessità di affrontare l’impegno della lettura. Vi soccorrono tutte le prescrizioni e le decisioni prese nei Sinodi dei vostri predecessori; poiché essi certamente non omisero di inserire nelle loro Costituzioni tutte quelle disposizioni che – per quanto riguarda l’attuale materia – furono sancite ed ordinate dai Romani Pontefici.

7. Tuttavia il colmo della difficoltà consiste in ciò che o dilegua la memoria delle Sanzioni Sinodali, oppure viene negletta l’esecuzione di esse. Su di voi, pertanto, Venerabili Fratelli, incombe l’onere di rinnovarle. Ciò richiede la natura del vostro ufficio: che insistiate con solerzia nella applicazione di esse. In questa impresa, come è bene e giusto, cominciate dagli uomini Ecclesiastici, per i quali è doveroso mostrare agli altri la via comportandosi rettamente, e con l’esempio far luce ad altri ancora. Per grazia della Divina pietà, a Noi giova sperare che il buon esempio degli Ecclesiastici ricondurrà sul retto sentiero i Laici che si sono sviati. Invero, quelle disposizioni da voi poterono essere accolte e annunciate tanto più facilmente e fiduciosamente in quanto (in base al contributo recato da affidabili e capaci informatori) mi giunse notizia che né i vostri beni né i vostri diritti sono stati da voi concessi in appalto ai Giudei; che nessun affare intercorre con essi, né quello di dare danaro in prestito né di riceverlo; che in breve Voi siete del tutto liberi e immuni da ogni traffico con essi.

8. Il criterio e il metodo prescritti dai Sacri Canoni per esigere la dovuta obbedienza dai ribelli, nei processi della massima importanza e specialmente attuali, consistono nell’applicare le Censure e, inoltre, nel provvedere che tra i casi riservati siano da ascrivere anche coloro che si suppone possano minacciare un esiziale scisma religioso. Certamente vi è noto che il Sacro Concilio Tridentino provvide alla stabilità della vostra giurisdizione allorché a Voi stessi attribuì il diritto d’intervento in casi riservati; né quei casi restrinse soltanto ai pubblici delitti, ma li estese e li ampliò anche ai più gravi ed atroci, purché non siano soltanto affari privati. – Più volte dunque dalle Congregazioni di questa nostra alma Urbe, in vari Decreti e in Lettere Encicliche, fu deciso e deliberato che fra i casi più gravi ed atroci si dovessero annoverare quelli verso cui gli uomini sono più proclivi e che sono il flagello, ad un tempo, sia della disciplina Ecclesiastica sia della salute delle Anime che sono affidate alla cura del Vescovo; come Noi abbiamo diffusamente dimostrato nel nostro trattato De Synodo Dioecesana (Lib. 5, cap. 5).

9. A questo fine non sopporteremo che da parte Nostra si faccia desiderare cosa che sia d’aiuto per Voi e per risolvere le difficoltà che senza dubbio incontrerete se Voi dovrete procedere contro quegli Ecclesiastici che si sono sottratti alla Vostra giurisdizione. Noi al Venerabile Fratello Arcivescovo di Nicea e costà Nostro Nunzio abbiamo assegnato gli opportuni incarichi circa la stessa questione, perché prenda i necessari provvedimenti nei limiti delle facoltà a lui attribuite. Ad un tempo vi promettiamo che Noi, quando si presenterà l’occasione, con ogni premura e con ogni energia non tralasceremo di trattare questa questione anche con coloro che possono fare in modo che dal nobile Regno Polacco siano cancellate una macchia e una ignominia di tal natura. Inoltre voi, Venerabili Fratelli, invocate anzitutto la protezione da Dio, che è l’artefice di ogni bene, con la più fervente commozione del cuore. – E ancora da Lui implorate con le vostre preci l’aiuto per Noi e per questa apostolica Sede; e mentre vi abbracciamo con pienezza di carità, amorevolmente impartiamo alle Vostre Fraternità e ai Greggi affidati alle Vostre cure l’Apostolica Benedizione.

Dato da Castel Gandolfo, il giorno 14 giugno 1751, undicesimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA IV AVVENTO

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Exod XVI :16; 7
Hódie sciétis, quia véniet Dóminus et salvábit nos: et mane vidébitis glóriam ejus [Oggi saprete che verrà il Signore e ci salverà: e domattina vedrete la sua gloria.]
Ps XXIII:1
Dómini est terra, et plenitúdo ejus: orbis terrárum, et univérsi, qui hábitant in eo. [Del Signore è la terra  e quanto essa contiene; il mondo e e tutti quelli che vi abitano.]
Hódie sciétis, quia véniet Dóminus et salvábit nos: et mane vidébitis glóriam ejus

[Oggi saprete che verrà il Signore e ci salverà: e domattina vedrete la sua gloria.]

Oratio  
Excita, quǽsumus, Dómine, poténtiam tuam, et veni: et magna nobis virtúte succúrre; ut per auxílium grátiæ tuæ, quod nostra peccáta præpédiunt, indulgéntiæ tuæ propitiatiónis accéleret: [O Signore, Te ne preghiamo, súscita la tua potenza e vieni: soccòrrici con la tua grande virtú: affinché con l’aiuto della tua grazia, ciò che allontanarono i nostri peccati, la tua misericordia lo affretti.]
Letture della IV di AVVENTO

Lectio
Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Corinthios
1 Cor IV:1-5
Fratres: Sic nos exístimet homo ut minístros Christi, et dispensatóres mysteriórum Dei. Hic jam quaeritur inter dispensatóres, ut fidélis quis inveniátur. Mihi autem pro mínimo est, ut a vobis júdicer aut ab humano die: sed neque meípsum judico. Nihil enim mihi cónscius sum: sed non in hoc justificátus sum: qui autem júdicat me, Dóminus est. Itaque nolíte ante tempus  judicáre, quoadúsque véniat Dóminus: qui et illuminábit abscóndita tenebrárum, et manifestábit consília córdium: et tunc laus erit unicuique a Deo.

OMELIA I

Omelia VII.

[Mons. Bonomelli: Omelie, vol. I – Omelia VII; Torino 1899]

“Così ognuno faccia stima di noi come di ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio. Del resto nei dispensatori si richiede che ciascuno sia trovato fedele. Quanto a me poco mi importa d’essere giudicato da voi o da tribunale umano; anzi neppur io giudico me stesso. Perchè in coscienza io non mi sento colpevole di cosa alcuna, ma non per questo sono giustificato. Colui che mi giudica è il Signore. Perciò non giudicate prima del tempo, finché non venga il Signore, che metterà in luce le cose nascoste nelle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori, ed allora ciascuno avrà, la sua lode da Dio „ (I. Cor. IV, 1-5).

Sono questi i primi cinque versetti del capo quarto della prima lettera di S. Paolo ai Corinti, che si legge nella Messa di questa Domenica. I fedeli della Chiesa di Corinto, che S. Paolo aveva fondato, erano sossopra per molte cause, come apparisce dalla stessa lettera. Non fate le meraviglie, o cari, che vi fossero dei disordini anche nella primitiva Chiesa: dove sono uomini ivi sono anche le debolezze e le passioni umane. La causa principale dei dissidi della Chiesa di Corinto era il parteggiare che facevano quei fedeli, chi per l’uno e chi per l’altro. Viveva in Corinto un certo Apollo, sacerdote d’ingegno, di molta eloquenza e virtuoso. Alcuni dicevano: Noi stiamo con Apollo; ed altri rispondevano: E noi stiamo con Paolo; ed altri protestavano di seguire Pietro; ed altri infine, quasi a troncare ogni questione, dichiaravano d’essere discepoli di Gesù Cristo. Erano gare deplorevoli, che dividevano gli animi e che non è raro vedere anche ai giorni nostri. Spesso noi vediamo certi fedeli, anche buoni e pii, che, scambiando le persone con la religione, si legano a quelle più che alla religione stessa: seguono l’uomo più che Gesù Cristo, il ministro più che Colui, del quale il ministro non è che ministro. – L’Apostolo per togliere quel disordine, parla del giudizio che si deve fare dei ministri di Dio. L’argomento riguarda noi sacerdoti e voi, laici, e si raccomanda assai alla nostra attenzione. – “Così ognuno faccia stima di noi come di ministri di Dio. „ A Corinto, come or ora vi dicevo, vi era un grave dissidio tra i fedeli, per il diverso apprezzamento che si faceva dei sacri ministri, parteggiando chi per questo e chi per quello. Voi, o Corinti, diceva l’Apostolo, siete divisi a cagione di noi, ministri di Cristo. Ma in nome del cielo, come dovete voi giudicarci? Unicamente per quello che siamo. Considerate in noi, non l’ingegno, non la scienza, non l’eloquenza, non le altre doti naturali, ma solamente l’ufficio e il potere, che teniamo di ministri di Cristo e di dispensatori dei misteri di Dio. Con la parola dispensatori dei misteri di Dio, S. Paolo significa i misteri della fede, le verità sovraumane del Vangelo, o i Sacramenti, fonti della grazia, e più probabilmente l’una e l’altra cosa insieme. Qui ci si porge un grande ammaestramento, che vuolsi attentamente considerare. Assunti all’altissimo onore di annunziarvi le eterne verità, uscite dalla bocca di Gesù Cristo, e di dispensare i santi Sacramenti, mezzi infallibili della grazia divina, nella virtù e nella santità della vita noi dobbiamo camminare innanzi a voi, o fedeli, e rendere rispettabile e venerando l’ufficio che esercitiamo. È nostro dovere, e guai a noi, se veniamo meno; sarà terribile il giudizio che ci attende. Che se per nostra grande sventura nella nostra condotta non rispondiamo all’altezza dell’ufficio che teniamo, voi, o cari, non dovete mai dimenticare, che noi siamo pur sempre ministri di Gesù Cristo e dispensatori dei misteri di Dio. Un liquore prezioso è sempre prezioso, sia che lo teniate chiuso in un vaso di cristallo o in un vaso d’oro, e un diamante è sempre diamante, sia desso legato in oro finissimo o in vile metallo. Quali che siano le nostre doti di mente e di cuore; siamo buoni o cattivi, assai istruiti o poco istruiti, voi dovete sempre ricordare, che siamo ministri di Cristo, e che i nostri difetti e le nostre colpe non possono né togliere, né diminuire la nostra dignità, perché veramente non è nostra, ma di Gesù Cristo. Al di sopra delle nostre povere persone dovete fissare gli occhi in Colui che ci manda e al quale si deve onore, tutto l’onore nei suoi rappresentanti, anche più indegni. Sublime, divina è la nostra dignità; ma noi non siamo Angeli; siamo fratelli vostri, soggetti come voi alle stesse passioni, e se col manto della carità dovete coprir tutti indistintamente, dovete compatire pur noi, perché noi pure ne abbiamo bisogno e siamo fratelli vostri. È verità che facilmente si dimentica dai laici e che li dovrebbe rendere più giusti, più caritatevoli verso dei sacerdoti erranti. È un fatto, che non so spiegare a me stesso: in generale si compatiscono con grande facilità i falli dei laici, e somma è la severità che si usa con i sacerdoti. Lo comprendo, o fratelli: i falli nostri sono assai più gravi dei vostri: ma è pur vero altresì che maggiore è la necessità che noi abbiamo della carità vostra. Come potremo noi con frutto esercitare il nostro ministero se voi senza pietà gettate in pasto ad un pubblico, avido di scandali, le nostre colpe? Se non noi, il ben pubblico esige che maggiore sia la carità vostra col Clero. E fossero almeno sempre vere le colpe che ci si appongono! Quante volte sono a studio ingrandite, anzi inventate per disonorarci! E poi chi non vede un’altra ingiustizia, che si commette sì spesso contro il Clero? Un prete sarà caduto in una colpa, se volete, gravissima: che si fa? che si dice? Subito si grida: “Vedete chi sono i preti, chi sono i religiosi!” La colpa di uno diventa colpa di tutti. Non è questa una imperdonabile ingiustizia? Pecca un prete, hanno peccato tutti i preti! E perché non si adopera la stessa misura con i laici, con ogni altro ceto di persone? E se la colpa d’un uomo di Chiesa la si vuole colpa di tutti gli uomini di Chiesa, perché non si tiene la stessa regola col bene ch’essi fanno? Perché se un prete, un religioso compie un’opera buona e generosa non si dice egualmente: Vedete chi sono i preti, chi sono i religiosi? Ah! il male che si fa da un prete o da un religioso è male di tutto il clero, il bene poi è solo di colui che lo fa! E questa è giustizia? – Del resto, soggiunge S. Paolo, nel dispensatore dei beni altrui, che cosa si richiede? Una cosa sopratutto si richiede e basta, ed è che sia fedele, cioè adempia fedelmente i voleri del padrone. Questa è la sostanza. Dunque, dice S. Paolo, anche in noi, ministri di Cristo, badate a questo, cioè se adempiamo il nostro dovere, annunziando la parola di Dio, dispensando i Sacramenti, visitando gli infermi e compiendo tutti gli altri uffici del ministero: tutto il resto a voi poco importa. Voi avete il diritto di esigere che il sacerdote sia fedele nel suo ufficio verso di voi; quanto al resto non è cosa che vi riguardi, né avete diritto di occuparvene. S. Paolo procede e conferma la stessa verità. – “Quanto a me poco mi importa d’essere giudicato da voi o da tribunale umano. „ Voi fate differenza tra ministro e ministro, e questo preferite a quello: di ciò non mi curo, e non mi curo dei vostri giudizi favorevoli o sfavorevoli, o di qualsiasi tribunale terreno. L’Apostolo scrisse, non tribunale terreno, ma “giorno umano”, alludendo al giorno del Signore per eccellenza, che è il giorno del giudizio finale. Continua l’Apostolo: “Sì poco mi curo dei giudizi umani, che non mi do pensiero nemmeno di giudicare me stesso. “Neque meipsum judico”. Quale linguaggio degno dell’Apostolo delle genti! Egli non cura le lodi, né teme i biasimi del mondo: non giudica delle sue doti, delle sue intenzioni; intende ad una sola cosa, ad adempire cioè il ministero ricevuto da Gesù Cristo. Ecco il modello perfetto del sacerdote, che, quando occorra, deve sfidare le ire dei tristi, disprezzare le loro lodi e una sola cosa aver sempre dinanzi agli occhi, l’adempimento del proprio dovere. “Perché in coscienza non mi sento colpevole di cosa alcuna. „ Non mi curo, non mi do pensiero, nemmeno di giudicare me stesso, “perché la coscienza, così l’Apostolo, non mi rimorde di nulla quanto all’esercizio del mio ministero. — Felici quelle anime, che, interrogando diligentemente se stesse, possono rispondere con l’Apostolo: “Non sento in coscienza d’essere colpevole! „ È la più cara testimonianza, il più dolce conforto ohe l’uomo possa avere anche in mezzo alle tribolazioni più gravi. Vediamo di meritare questa, che è la mercede del giusto sulla terra e la forza che ci tiene saldi nelle prove sì amare della vita. Sembra strano ciò che S. Paolo soggiunge: Sento in coscienza di non essere colpevole: “con tutto ciò non sono giustificato. „ – “Il non avere rimorsi, quanto all’esercizio del mio ministero, scrive l’Apostolo, non vuol dire ch’io sia giusto, inescusabile, santo, no”. Ben è vero che non si commette mai peccato se non quando sappiamo, od abbiamo coscienza di commetterlo; è verità chiarissima; ma potrebbe accadere di non porre mente al male che facciamo, e ciò per colpevole negligenza, o di non ricordarci al presente del male già commesso con piena deliberazione, e in tal caso il non avere rimorsi non vorrebbe dire che siamo innocenti e giusti, né ci varrebbe di scusa dinanzi a Dio. Pur troppo moltissimi sono quelli, che vivono immersi in ogni sorta di peccati e non sono molestati dal più lieve rimorso. La distrazione, la trascuratezza, in cui vivono, il callo che hanno fatto ad ogni disordine, l’abitudine inveterata di non ascoltare le grida della coscienza, fanno sì che più non sentono i rimorsi. Forseché costoro, perché non sentono i rimorsi, si potranno dire giusti? Certamente, no. Possiamo essere gravemente ammalati e non sentire dolori; così possiamo essere colpevoli e non sentire rimorsi, e ciò non varrà a scolparci innanzi a Dio. Il nostro giudizio non è sicuro, insegna S. Paolo: il solo giudizio di Dio è infallibile, e a Lui rimettiamoci: “Qui judicat me, Dominus est.,, È questa, o carissimi, una verità di sommo conforto per tutti, ma particolarmente per quelli, i quali, esercitando un ufficio, non raramente sono fatti segno a biasimi ingiusti e ad apprezzamenti erronei. Quante volte gli uomini biasimano a torto quel padre e quella madre, quasi trascurati nella educazione dei loro figli! Accarezzano sospetti ingiuriosi a carico di quella persona, condannano l’opera di quel padrone, di quel servo, la condotta di quel prete, di quel parroco, giudicando dalle apparenze! Spesso chi sta in alto diviene bersaglio delle più gravi accuse, delle più nere calunnie ed è impotente a difendersi. Sono pene acerbe, agonie di spirito, che Dio solo conosce. È pur dolce allora il potersi gittare dinanzi a Lui, che tutto conosce, aprirgli il cuore ed effondere l’anima e dirgli: Signore, Voi conoscete tutto; voi conoscete la mia rettitudine, la mia innocenza; mi abbandono nelle vostre braccia paterne. — “Dominus est qui judicat me.,, Credo che tra di voi, che m’ascoltate, non vi sia pur uno che un giorno non abbia sentito il bisogno di dire: “Il Signore sa ch’io sono innocente; Egli solo mi ha da giudicare”. S. Paolo applica a tutti in genere la dottrina stabilita, e dice a modo di conseguenza: “Perciò non giudicate prima del tempo, finché non venga il Signore. „ Noi pure, è vero, possiamo giudicare le cose e le persone in quanto si manifestano con le parole o con le opere e possiamo dire: Questa è buona, questa è cattiva: ma giudicare le cose e le persone in sé, nella loro mente e nella loro coscienza, è riserbato a Dio solo. Quante volte un atto esterno, che giudichiamo buono e lo è in se stesso, è cattivo per l’intenzione di chi lo fa, e quello che reputiamo cattivo, è buono per la retta intenzione dell’operante! Dio solo legge nelle coscienze e perciò non giudichiamo gli altri nel loro interno. Quali veramente siano le opere dell’uomo lo conosceremo allorché verrà Dio e farà il gran giudizio. “Egli illuminerà le cose tenute nelle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori, „ come insegna l’Apostolo. Nel presente ordine di cose noi vediamo solo ciò che apparisce; a nessuno di noi è dato di penetrare nelle menti e nei cuori se non tanto quanto essi si aprono volontariamente mediante la parola; parola che non è sempre mezzo sicuro della verità. – I cuori, le menti, le coscienze umane sono avvolte in fitte tenebre, che saranno pienamente rischiarate soltanto in quel dì, che il Giudice supremo verrà sulla terra. Che avverrà allora, o dilettissimi? Udite. Un valente artefice, chiuso in una stanza a tutti inaccessibile, lavora, ponete, una statua di cristallo; per il corso di molti anni, con pazienza ammirabile, vi si travaglia intorno e non vi è un punto solo della statua, che non sia lavorato. Compiuta l’opera sua in quel recesso impenetrabile, al lume d’una lampada, un bel dì la trae fuori e la espone al pubblico sotto la luce del mezzodì, sotto i fulgori del sole di luglio. Ad un tratto voi vedete quella statua, cesellata in ogni parte, e se vi è un solo punto, in cui il cesello abbia fallito, voi lo rilevate tosto. Non è vero che allora in un istante voi vedete il lavoro di molti e molti anni, compiuto occultamente, ignoto a tutti? Ecco una immagine del giudizio divino. Nel corso della nostra vita, che si svolge nelle tenebre di questo secolo, al fioco lume della ragione, avvalorato dal lume della fede, nel fondo della nostra coscienza, impenetrabile ad ogni occhio mortale, noi abbiamo lavorato la nostra statua, compiuta l’opera nostra, che rimarrà eterna. In quel momento, che avverrà il giudizio, l’opera condotta a termine nel corso di tanti anni, sarà posta sotto la luce infinita, che raggia dal volto di Gesù Cristo, e tutto sarà perfettamente manifesto il nostro lavoro, bello o brutto ch’esso sia. Allora saranno svelate le coscienze, rischiarate tutte le tenebre, fatto il giudizio e data a ciascuno la lode che gli si dee, come dice S. Paolo. E chiaro adunque, o carissimi, che nella presente vita ciascuno di noi va scrivendo sul libro della coscienza la sentenza che Cristo leggerà e pronunzierà nel giorno del giudizio e che con lui leggeremo e pronunceremo noi pure. — Figliuoli carissimi! badiamo bene a tutto ciò che pensiamo, vogliamo, diciamo e facciamo in vita, perché tutto si scrive nel libro indistruttibile della nostra coscienza e tutto rimarrà a nostra gloria od a nostra infamia eterna.

Graduale 
Ps 144:18; 144:21
Prope est Dóminus ómnibus invocántibus eum: ómnibus, qui ínvocant eum in veritáte. [Il Signore è vicino a quanti lo invocano: a quanti lo invocano sinceramente.]
V. Laudem Dómini loquétur os meum: et benedícat omnis caro nomen sanctum ejus. [Signore: e ogni mortale benedica il suo santo nome.

Alleluja

Allelúja, allelúja,
V. Veni, Dómine, et noli tardáre: reláxa facínora plebis tuæ Israël. Allelúja [Vieni, o Signore, non tardare: perdona le colpe di Israele tuo popolo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia  sancti Evangélii secundum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc III:1-6
Anno quintodécimo impérii Tibérii Cæsaris, procuránte Póntio Piláto Judæam, tetrárcha autem Galilaeæ Heróde, Philíppo autem fratre ejus tetrárcha Ituraeæ et Trachonítidis regionis, et Lysánia Abilínæ tetrárcha, sub princípibus sacerdotum Anna et Cáipha: factum est verbum Domini super Joannem, Zacharíæ filium, in deserto. Et venit in omnem regiónem Jordánis, praedicans baptísmum pæniténtiæ in remissiónem peccatórum, sicut scriptum est in libro sermónum Isaíæ Prophétæ: Vox clamántis in desérto: Paráte viam Dómini: rectas fácite sémitas ejus: omnis vallis implébitur: et omnis mons et collis humiliábitur: et erunt prava in dirécta, et áspera in vias planas: et vidébit omnis caro salutáre Dei.”  [Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, essendo governatore della Giudea Ponzio Pilato, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della regione Traconítide, e Lisània tetrarca di Abilene, essendo sommi sacerdoti Anna e Càifa: la parola del Signore venne nel deserto su Giovanni, figlio di Zaccaria. E costui andò nelle terre intorno al Giordano, predicando il battesimo di penitenza in remissione dei peccati, come sta scritto nel libro del profeta Isaia: Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore: appianate i suoi sentieri: saranno colmate tutte le valli, e i monti e i colli saranno abbassati: i sentieri tortuosi saranno rettificati e quelli scabrosi appianati: e ogni uomo vedrà la salvezza di Dio.]

OMELIA II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Luca III, 1-6)

Via del Piacere.

L’odierno Evangelio mi porta col veloce pensiero alle sponde del Giordano. Seguitemi, ascoltatori devoti. Ecco innanzi a noi il divin precursore Giovanni, che per comando di Dio predica il battesimo della penitenza per la remissione de’ peccati. Non già che quel battesimo avesse in sé una tale virtù, ma perché era una preparazione per arrivare alla remissione dei peccati, col partecipare de’ meriti del Redentore. Predica dunque la penitenza il Battista, e la predica quasi più con la presenza, che con la voce, più coll’esempio, che con le parole. Osservatelo pallido nel volto, smunto nelle membra, mezzo coperto di rozze spoglie d’agnelli, e di ruvida pelle di cammello: il suo vitto son le locuste del campo e poco miele della selva, la sua bevanda è l’acqua del fiume o del fonte. Comincia la sua predica intimando alle turbe accorse ad ascoltarlo a preparare la via del Signore, “parate viam Domini”. A questo fine fu mandato il Battista nella Giudea, e a questo stesso oggetto io vengo a voi, miei dilettissimi; e vi dico, se volete per la prossima solennità preparare la via del Signore, acciò egli venga a voi, abbandonate le strade del mondo, tornate addietro dalle vie del peccato e del seducente piacere. L’uscir da queste lubriche vie, sarà lo stesso che disporre i retti sentieri, pei quali l’aspettato Salvatore del mondo venga a rinascere nel Vostro cuore: parate, dunque, “parate viam Domini, rectas facite semitas eius”. Per animarvi in questo salutare intraprendimento, io vi farò vedere in una maniera facile e sensibile, quanto la via del mondano piacere sia ingannevole, e quanto dannosa, tanto per la vita presente, che per la vita futura. Se riesco a disingannarvi, io benedirò il Signore, e voi mi saprete grado del vostro disinganno. Di grazia ascoltatemi attentamente. – La via del piacere, (com’io me la figuro) comincia con una porta grandiosa, alta, magnifica, a modo di superbo arco trionfale. La struttura che la rende stupenda è tutta a colonne, a statue vagamente disposte, e a vasi d’ogni forma la più leggiadra. Sull’architrave sui capitelli stanno alati genietti, e di questi chi sparge fiori, chi suona cetre, chi spiega vesti preziose, chi fa le monete d’oro e d’argento, e chi sul limitare di questa porta col riso sulle labbra, col cenno grazioso delle mani invita ad entrare i passeggeri. Entriamo dunque, uditori: la porta è bella, la strada sarà migliore. “Adagio, dite voi, adagio, tanti inviti, tanti allettamenti fan nascere un ragionevole sospetto, che qualche inganno si nasconda sotto così lusinghevoli apparenze”. Ottimamente, queste è pensare e riflettere da uomini prudenti, … facciamo dunque così, vediamo qual sorte hanno incontrata coloro che sono entrati per questa porta, e si sono avviati per questa strada. Si possono questi considerare distinti in due schiere. Molti sono entrati, e non sono più usciti, altri non pochi sono tornati indietro. Quei che sono entrati senza più uscire, sono primieramente tutti gli uomini che passeggiavano su questa terra ai tempi di Noè innanzi il diluvio. Correvano questi velocemente la via del piacere, e del piacere più sordido e più fangoso. “Omnis quippe caro corraperat viam suam” (Gen VI, 12). Gridava intanto Noè dai palchi della sua arca: “ciechi, insensati, tornate indietro, se proseguite, Iddio sdegnato vi coglierà nel più bello del vostro cammino, sarete fra non molto sommersi in un diluvio di acque micidiali; ma gl’ingannati, rapiti dal dolce delle impure loro voglie, sordi al loro bene, sordi al loro male, sordi alle divine minacce, conobbero troppo tardi e senza rimedio il proprio errore, e la fallacia della via da essi battuta. – Spingete ora lo sguardo entro quella porta da noi immaginata: Vedete voi quella lunga, lunghissima strada, che dall’una e dall’altra parte vi presenta un funesto spettacolo di ventiquattromila Ebrei pendenti da altrettanti patiboli? mirateli se potete senza orrore, e poi dite: ecco quanto loro costò un brutale piacere, contro il divieto di Dio e di Mosè, con le donne Madianite “Occisi sunt viginti quatuor millia . . . in patiboli” (Num XXV, 9 e 4). E chi son eglino quegl’infelici stesi su quel campo, sparso di tronche membra e di teste recise, inondato di tanto sangue, ancor tiepido, ancor fumante? Poco avanti fra canti e suoni, sazi dalla crapula ed allegri dal vino, menavano danze e carole intorno a un lido d’oro, ed ora trucidati dalle spade levitiche in numero di quasi ventiquattro mila, c’insegnano che l’allontanarsi da Dio, che il piacer della gola, e gli estremi del gaudio e dell’allegria, vanno a finire in lutto ed in sterminio. – Passeggia per questa strada Sansone allettato dalle lusinghe di Dalila, e sebbene dai propri genitori richiamato ad uscirne, non dà ascolto, persiste nel suo cammino, e i suoi piaceri gli fan perdere la libertà, la vista, la riputazione e la vita. Anche Ammone, figlio di Davide, entra in questo sentiero, rapito dall’avvenenza dì Tamar, e il sozzo incestuoso piacere gli tira addosso un nembo di pugnalate, mentre sedeva a lauto banchetto. Anche i sordidi vecchioni tentatori della casta Susanna corrono la stessa via; e dopo aver sedotte molte figlie d’Israele, s’incontrano finalmente in questa santa matrona, che eroicamente ributtandoli, coll’esecrazione di lutto il popolo, restano sepolti sotto una tempesta di pietre. Di mille altri potrei mostrarvi lo stesso. Per amor di brevità fermiamoci qui, e ditemi uditori miei, non è egli vero che questa strada è fatale per chi vi entra? Le notizie fin qui son molto cattive. Vediamo se si sono trovati contenti almeno quei che ne uscirono! – Il primo che mi viene avanti egli è un re vestito di ruvido cilizio, con un tozzo di pane alla mano, sparso di cenere, e bagnato di lacrime. Ah, sì, lo ravviso, questi è Davide penitente, che abbandonata la via del piacere, si va protestando che odia e abbomina questa strada d’iniquità: “viam iniquam odio habui(Ps. CXVIII, 128). Un altro mi si presenta. È questi un giovane rabbuffato, pallido, smunto, lacero, mezzo ignudo. Nol conoscete? Egli è il Prodigo, che ritorna da quelle remote contrade che ha corso per qualche tempo affianco delle meretrici “vivendo luxuriose”, ed ora a passo avanzato si conduce ai piedi del suo buon padre, a pregarlo che voglia ammetterlo per l’ultimo de’ suoi servitori. E questa donna, nobile all’aspetto e al portamento, che si strappa dal crine le gioie e i vani ornamenti, ella è la Maddalena, che pentita dei suoi traviamenti, corre a lavare di lacrime i piedi al divin Redentore. Una turba immensa, a finirla, sgombra da questa strada, turba di gente d’ogni età, d’ogni sesso e d’ogni clima, ed hanno tutti il pianto sul volto, il digiuno a fianco, il flagello alla mano per vendicare in sé stessi i loro errori nella via seducente dell’iniquità e della perdizione, confessando altamente d’esserne stanchi e pentiti, “lassati sumus in via iniquitatis, et perditionis” (Sap. V, 7). – Che dite ora, miei riveriti ascoltanti? Le notizie da ogni parte son pessime, e senza ricorrere ad antichi esempi, l’esperienza ci fa vedere sovente di queste scene volubili, che dopo una vista dilettevole si cangiano in prospetti di orrore. Voi come più pratici del mondo ne potete narrare a me. Quanti amatori del secolo, gente data al bel tempo, ai giuochi, alle gozzoviglie, agli amori, sono passati dalle delizie alle miserie, dai piaceri agli affanni, dagli onori all’avvilimento, da uno stato comodo allo spedale, o a morir sulla paglia! – Concedo: la strada del piacere è larga, amena, spaziosa, lo dice il Vangelo, “spatiosa est via”, ma dice altresì che conduce alla perdizione. Or se una via piana, fiorita, deliziosa vi portasse ad un precipizio, avreste voi sì poco senno da incamminarvi per quella? E non sapete ch’è proprio dei traditori il far precedere le lusinghe, i vezzi, gli allettamenti per riuscire negl’iniqui disegni, ed ingannare gl’incauti? Caino vuol tradire Abele, ed in aria di buon fratello l’invita a diporto, a spaziarsi in un campo. Gioabbo con un saluto, con una carezza al mento di Amasa gli pianta un pugnale nel fianco. Assalonne per vendicarsi d’Ammone l’invita a sontuoso banchetto. Triffone vuol disfarsi del temuto Gionata Maccabeo, e gli offre il comando della sua armata. Giuda tradisce il suo divino Maestro e si serve d’un bacio. In somma quel che gli uomini praticano cogli uccelli, e coi pesci, usano i traditori a sedurre gl’incauti ad ingannar gl’innocenti. – Ma se voi non siete irragionevoli, non sarà una gran pazzia lasciarvi tirar nella rete per un meschino piacere? – Sarà dunque pazzia per voi, giovane mio, l’associarvi con quella brigata di scostumati compagni, che vi traggono al giuoco per spogliarvi, che vi portano alle crapule, ai furti, alle case sospette, alle ree amicizie per non avere il rossore d’esser soli nei bagordi e negli stravizzi, o per voltarne tutta la colpa a voi. – Sarà pazzia per voi lasciarvi tirar dalla gola e imbandire la mensa de’ rubati polli, vendemmiare l’altrui vigna e bere alla salute di chi in coltivarla vi ha speso danari e sudori, per poi temere e tremare per continua paura, di venir ricercato da ministri di giustizia, d’essere scoperto per ladro, ed in pericolo d’infamia, di prigionia e di galera. – E non sarà maggior pazzia per voi, o figlia incauta se vi lasciate adescare dalle dolci lusinghe, dall’amorose parole, dai seducenti biglietti, dai donativi, dalle promesse anche giurate di matrimonio di quei traditori che insidiano la vostra onestà, ed han per costume vantarsi della vostra debolezza e della loro riuscita? Non sarete la prima, se vi fidate, se vi arrendete, ad essere abbandonata alla vostra confusione, costretta a ritirarvi per nascondere il vostro fallo, a passare i giorni amari in mesta solitudine, a piangere inutilmente la vostra caduta e la vostra stoltezza, e bestemmiare l’empio traditore, che intrepido giura di non conoscervi, insensibile alle vostre lacrime, insultante alla vostra infamia, infamia che porterete fino alla tomba. – Vedete, miei dilettissimi, che non v’ho parlato sin qui se non di temporali infortuni, i quali sono gli effetti infallibili degli smodati piaceri. Or che diremo quando la fede c’insegna che la via del piacere conduce all’eterna perdizione? Così è, miei cari, conviene disingannarsi. Gli amatori del mondo e dei fallaci suoi beni, dopo aver gustato per pochi giorni il dolce delle proprie soddisfazioni, vanno, quando non se l’aspettano, a piombare negli abissi infernali. “Ducunt in bonis dies suos, et in punctu ad inferno, descendant” (Iob. XII, 13). Ci descrive con una ingegnosa parabola la cecità e stoltezza di costoro S. Giovanni Damasceno. – Un cert’uomo faceva viaggio in un deserto, quando all’improvviso si vede venir incontro una feroce pantera. Spaventato a questa vista si dà a precipitosa fuga, e nel fuggire agitato e contuso, cade senz’avvedersene dall’orlo d’un precipizio profondissimo: se non che, com’è proprio di chi cade, stender le braccia, fortunatamente si appiglia ad un albero piantato poco sotto il margine del precipizio stesso. Qui si tiene stretto, e va respirando. Osserva però che la pantera non cessa di minacciarlo, e che l’albero, su cui si è salvato dal peso della persona, va declinando al basso, e gli si stacca da terra or l’una, or l’altra radice. Abbassa finalmente lo sguardo, e mira con raccapriccio in fondo del precipizio un enorme dragone, che a bocca spalancata, e artigli aperti sta aspettando la sua caduta. In questa situazione di tanto orrore, in mezzo a tanti oggetti di spavento, leva gli occhi in alto, e osserva in cima di quella pianta un favo di miele, che per l’abbondanza spande su quelle foglie il dolce liquore. A questa vista esulta di giubilo, e allegro e contento non conosce più il suo pericolo, si dimentica della minacciosa pantera, dell’albero che declina, delle radici che si staccano, del dragone che l’attende, e invece, chi il crederebbe? Col riso in bocca è tutto intento a raccogliere colla punta del dito quelle gocce di miele, e le assapora con gusto, e se ne pasce con gioia, e si stima felice. La parabola, uditori, vi sorprende? Cesserà la sorpresa in sentirne l’applicazione: l’uomo appena comparso in questa valle di pianto, che si può chiamare un deserto, in qualità di viaggiatore, viene minacciato dalla morte come da rabbiosa pantera. Fugge egli in certo modo l’incontro, ma cade nel comune pericolo di morte, che ad ogn’istante può coglierlo. Si salva egli, diciamo così, sull’albero del proprio corpo. Quest’albero, questo corpo in ogni giorno, in ogni stagione va declinando con il peso degli anni. Si staccano le radici con le infermità, col mancar della vista, col cadere dei denti, col debilitarsi le forze. Intanto al fondo dell’abisso lo sta aspettando il dragone infernale, ed egli in mezzo a tanti pericoli dimentico della morte, della caducità della vita, del baratro su cui sta pendente, e del dragone d’inferno, che per le sue colpe ha diritto, e brama d’attenderlo, s’occupa tutto a raccogliere alcune stille di miele or da questo, or da quel sensuale piacere, e solo intento ad appagare i suoi sensi, a soddisfare le sue voglie, si crede al colmo della contentezza e della felicità. – O uomo miserabile, o cieco e insensato figliuolo di questo secolo! Quel che ora non temi, sarà un giorno il soggetto delle tue lacrime e dell’inutile tuo pentimento. Al termine della strada del piacere, sta il letto della tua morte. Dalla sponda di questo darai un’occhiata alla via che hai corsa; pensa se sarai contento d’averla battuta. Deh! per tuo bene intraprendi in questi sacri giorni la via del Signore; questa è la sola che può condurti all’ eterna salvezza.

Credo …

Offertorium

Orémus
Luc 1:28
Ave, María, gratia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

Secreta
Sacrifíciis pæséntibus, quǽsumus, Dómine, placátus inténde: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno alle presenti offerte: affinché giovino alla nostra devozione e alla nostra salvezza.]

Communio
Is VII:14
Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium: et vocábitur nomen ejus Emmánuel. [Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio: e si chiamerà Emanuele.]

Postocommunio

Orémus.
Sumptis munéribus, quǽsumus, Dómine: ut, cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Assunti i tuoi doni, o Signore, Ti preghiamo, affinché frequentando questi misteri cresca l’effetto della nostra salvezza.]