DOMENICA II di QUARESIMA
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps XXIV:6; XXIV:3; XXIV:22
Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.
[Ricòrdati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]
Ps XXIV:1-2
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam.
[A te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]
Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.
[Ricòrdati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]
Orémus.
Deus, qui cónspicis omni nos virtúte destítui: intérius exteriúsque custódi; ut ab ómnibus adversitátibus muniámur In córpore, et a pravis cogitatiónibus mundémur in mente. [O Dio, che ci vedi privi di ogni forza, custodíscici all’interno e all’esterno, affinché siamo líberi da ogni avversità nel corpo e abbiamo mondata la mente da ogni cattivo pensiero.]
LECTIO
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses.
1 Thess IV:1-7.
“Fratres: Rogámus vos et obsecrámus in Dómino Jesu: ut, quemádmodum accepístis a nobis, quómodo opórteat vos ambuláre et placére Deo, sic et ambulétis, ut abundétis magis. Scitis enim, quæ præcépta déderim vobis Per Dominum Jesum. Hæc est enim volúntas Dei, sanctificátio vestra: ut abstineátis vos a fornicatióne, ut sciat unusquísque vestrum vas suum possidére in sanctificatióne et honóre; non in passióne desidérii, sicut et gentes, quæ ignórant Deum: et ne quis supergrediátur neque circumvéniat in negótio fratrem suum: quóniam vindex est Dóminus de his ómnibus, sicut prædíximus vobis et testificáti sumus. Non enim vocávit nos Deus in immundítiam, sed in sanctificatiónem: in Christo Jesu, Dómino nostro.”
Omelia I
[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie: Marietti ed. Torino, 1898 vol. II Omelia III]
“Vi preghiamo, fratelli, e vi esortiamo nel Signore, che come da noi avete ricevuto il modo, onde vi conviene camminare per piacere a Dio, così anche camminiate per vieppiù arricchirvi. Perché voi sapete quali precetti vi abbiamo dati a nome del Signore Gesù. Perché questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione, guardandovi dalla fornicazione; e sappia ciascuno di voi conservare la sua moglie con santità ed onore, non in passione di concupiscenza, come i gentili, i quali non conoscono Dio; e che nessuno, negli affari, soverchi e frodi il fratel suo, perché vi è un Signore, che punisce tutte queste cose, come già vi abbiamo detto e protestato, conciossiachè Iddio ci abbia chiamati, non alla immondezza, ma alla santificazione „ (I. Tessal. IV, 1-7).
Queste sì belle e sì pratiche sentenze noi leggiamo nella epistola prima di S. Paolo ai Tessalonicesi, e la Chiesa molto opportunamente ce le ripete e propone a meditare nella Messa della presente Domenica.- Questa prima lettera di S. Paolo ai Cristiani di Tessalonica, che oggidì chiamasi Saloniki, secondo ogni probabilità fu scritta da Atene, l’anno 53 od al più tardi il 54 dell’era nostra, e in ordine di tempo deve essere la prima delle quattordici lettere lasciateci dall’Apostolo. Paolo, cacciato da Filippi, passò a Tessalonica, e di là pure, dopo avervi stabilita una Chiesa, composta per la maggior parte di Gentili, cacciatone per opera dei Giudei, si riparò ad Atene, dove scrisse ai suoi cari Tessalonicesi la prima lettera, piena di pratiche esortazioni e riboccante di affetto paterno. – Veniamo alla spiegazione dei sette versicoli di questa lettera, che sopra vi ho riportati. – “Vi preghiamo, fratelli, e vi esortiamo nel Signore. „ Mi piace fermarmi alquanto su queste parole, perché contengono un bellissimo ammaestramento, particolarmente per noi, che esercitiamo il sacro ministero. Paolo era Apostolo, e fatto Apostolo da Cristo istesso, chiamato in modo meraviglioso ed investito di quel potere istesso che Gesù Cristo aveva ricevuto dal Padre: potere di legare e di sciogliere, di ammaestrare, di reggere, che trascende ogni altro potere terreno. Eppure questo grande Apostolo, quasi dimentico dell’alto suo ingegno, della sua dignità di Apostolo e degli allori delle sue conquiste in tutto l’Oriente, rivolgendosi ai neofiti di Tessalonica, esclama: “Fratelli!„ Ora questa espressione sì cara e sì sublime è comune e non desta meraviglia; ma allorché Paolo la pronunciava con tanta effusione di cuore, nel mondo pagano risuonava affatto nuova e strana, e urtava di fronte tutti i pregiudizi sociali e religiosi, consacrati dal tempo. E non solo Paolo chiama col dolce nome di fratelli quei suoi discepoli di Tessalonica, ma li prega e li esorta. Egli poteva dire: Fratelli, io voglio, io comando per quella autorità che tengo da Cristo, e nessuno poteva farne lamento: ma dice: Vi prego e vi esorto, anzi vi preghiamo e vi esortiamo nel nome del Signore, perché nella lettera, fin dalle prime parole, si associa come eguali i due discepoli Silvano e Timoteo. Quale esempio per noi, che abbiamo qualche autorità nella Chiesa e per quanti hanno qualche potere nella società stessa civile! Come apparisce lo spirito di Gesù Cristo, che era Uomo-Dio, Signore e Maestro sovrano, eppure sedeva in mezzo ai suoi discepoli e li serviva con le sue mani come se fosse l’ultimo di tutti! L’autorità e il potere prima di Cristo erano in sostanza la forza materiale, che si esplicava in vari modi, ma sempre la forza materiale. L’uomo stava sopra l’uomo pronto a schiacciarlo se si mostrava riottoso: le eccezioni sono rarissime e si debbono a certe nature felici e privilegiate, che con la bontà del cuore temperavano la durezza dell’impero. Ed oggi pure, fuori dei paesi cristiani, è questo il carattere del potere: la forza, la sola forza materiale che piega sotto di sé gli uomini volenti o non volenti. Il Cristianesimo solo all’autorità ed al potere, che si svolgono in tutte le forme più svariate, ha dato il carattere della fratellanza e della paternità, e sotto il suo influsso a poco a poco smisero quella ruvidezza e durezza e, diciamolo pure, quella feroce prepotenza e tirannia, onde si informavano. Chi teneva il freno del potere comprese che gli uomini soggetti erano fratelli e ch’egli doveva essere non signore, ma padre. E come poteva essere altrimenti quando l’Uomo-Dio ci insegnava a chiamare col dolce nome di Padre il Signore d’ogni cosa, Pater noster? Quando il primo suo Vicario, S. Pietro, scriveva ai vescovi e preti: “Vi esorto a pascere il gregge di Dio, non sforzatamente, ma volontariamente, non signoreggiando, ma facendovi esempi del gregge? Trattiamo quelli che ci sono soggetti, come fratelli, senza fasto, senza arroganza, senza alterigia, con umiltà e dolcezza, più pregando ed esortando che imperando, e otterremo più assai con l’amore che accarezza, che con quell’autorità che umilia e offende. – E di che cosa prega e a che cosa esorta i suoi Tessalonicesi l’Apostolo? Che vogliano camminare in quel modo, che hanno imparato da lui, allorché fu in mezzo a loro. Voi lo sapete, la parola camminare, nelle sante Scritture assai volte, e qui pure, significa vivere od operare, e questo modo di esprimersi è familiare al nostro Apostolo. Noi pure l’usiamo talvolta, dicendo p. es.: Camminate dirittamente, camminate sulla via del dovere, od altre somiglianti espressioni. E non pure S. Paolo prega che i suoi figliuoli spirituali si tengano fermi sul buon cammino, che loro ha insegnato, ma prega che in esso vieppiù si arricchiscano — Ut abundetis magis —, che è quanto dire, procedano di bene in meglio e diventino ognor più virtuosi. Nella via della virtù, in generale, il non camminare innanzi è tornare indietro, e il non migliorare è peggiorare; avviene dell’uomo come dell’albero, che allorquando più non cresce e aumenta il suo volume, è vecchio e comincia il periodo che lo avvicina alla morte. Dio ci offre sempre ad ogni istante la sua grazia, e rispondendo fedelmente ad essa, noi dobbiamo necessariamente progredire nella virtù: se non progrediamo, egli è perché non usiamo debitamente della grazia, e questo è un arrestarsi, anzi un dar volta sul cammino della virtù. E qui l’Apostolo passa ad accennare in particolare ai Tessalonicesi ciò che egli aveva loro insegnato: “Voi sapete, dice egli, quali precetti vi abbiamo dati nel nome del Signore Gesù. „ Voi certo li ricordate, li avrete ancora presenti, ma non sarà superfluo, par che dica, ch’io ve ne rinfreschi la memoria. “È volontà di Dio la vostra santificazione — Hæc est voluntas Dei, sanctificatio vestra. „ Altrove l’Apostolo dice: “Iddio vuole che tutti gli uomini siano salvi, „ perché di tutti è Creatore e per tutti è morto Gesù Cristo: ma perché si salvino, è mestieri che siano santi, giacché in cielo non può entrare alcuno che sia immondo, e perciò Iddio, che vuole la salvezza degli uomini, vuole e deve volere la loro santificazione, che ne è il mezzo assolutamente necessario. Non vogliate sgomentarvi punto, o dilettissimi, allorché con S. Paolo vi dico: Dovete essere santi. Che è dessa la santità? Essa non è riposta in atti straordinari, in virtù impossibili o troppo difficili a praticarsi, no, no! Datemi un uomo, che serbi il suo cuore netto d’ogni macchia, che adempia esattamente i suoi doveri, che viva da vero Cristiano, ed io vi do un santo. Per essere santo non si domanda il dono di far miracoli o profezie, che assolutamente possono trovarsi anche in persone peccatrici, o compiere altre opere grandi, strepitose: basta osservare la legge divina e servire Iddio ciascuno nel suo stato: e chi non può far questo con l’aiuto della grazia, che a nessuno fa mai difetto? Dunque, o cari, vi stia sempre innanzi agli occhi questa sentenza dell’Apostolo, che esprime tutta l’altezza della nostra vocazione: “Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione! „ In qual modo? L’Apostolo rammenta specialmente due cose dalle quali i Tessalonicesi dovevano con somma cura guardarsi e senza delle quali era impossibile la santificazione, e sono l’impudicizia e l’avarizia. Egli scriveva ad uomini che allora erano usciti dal paganesimo, che vivevano in mezzo al paganesimo, e queste due piaghe, della impudicizia ed avarizia, dovevano essere comunissime, e pur troppo in gran parte lo sono ancora nella nostra società cristiana. “Voi vi santificherete, continua l’Apostolo, guardandovi dalla fornicazione — Ut abstineatìs vos a fornicatione.„ – Con questa frase S. Paolo significa indubbiamente, non quel solo disordine che propriamente si chiama fornicazione, ma tutti i disordini, tutte le impudicizie, che sono vietate dal sesto e dal nono comandamento del decalogo. Altrove S. Paolo dice che il peccato della disonestà, sia in parole, sia in opere, tra cristiani, chiamati ad essere santi — Sicut decet sanctos —, non dovrebbe tampoco nominarsi — Nec nominatur —. Carissimi, lo domando a voi: È ciò che avviene tra noi? Questo peccato è ignoto tra noi, come voleva l’Apostolo? Rispondano le vostre coscienze. – Seguitiamo il testo. S. Paolo dopo aver detto che tutti dovevano serbarsi mondi dalla pece d’ogni impudicizia, discende ad una speciale raccomandazione, dicendo: “Sappia ciascuno di voi conservare la sua moglie con santità e onore, „ Evidentemente l’Apostolo suppone che quelli ai quali scrive, vivano in matrimonio, e meritamente, perché questo fu ed è lo stato comune degli uomini. Ebbene: agli uomini, ai mariti, intima l’Apostolo di conservare le loro mogli con santità ed onore, serbando loro fedeltà inviolabile, vegliando sopra di loro e rispettando le leggi eterne dell’onore, del pudore e la santità del Sacramento. Certamente per ciò che spetta il matrimonio e la sua santità, possono fallire le mogli come i mariti, ma è pur forza confessare che comunemente sono i mariti che falliscono più delle mogli, e perciò l’Apostolo ai mariti si rivolge e vuole ch’essi conservino, ciascuno, le mogli come vuole la santità e l’onore del matrimonio. E in vero, il marito non è egli il capo, il sostegno, la guida della moglie, come domanda la natura e insegna S. Paolo, dicendo: Caput mulieris vir? Adempia dunque il marito il suo ufficio di capo della moglie, la guidi, la corregga, la sostenga, affinché non venga meno giammai agli alti e delicati suoi doveri. Se bene si guarda, è manifesto che assai volte i falli delle mogli sono in gran parte conseguenze della condotta meno retta dei mariti. Sono essi che con la vita poco regolare, se non anche licenziosa, spingono sulla mala via le mogli, dimenticando i sacri doveri che ad esse li stringono. Sono essi che imprudentemente aprono la propria casa a persone che non dovrebbero mai porvi piede: sono essi che le conducono a feste, a balli, a teatri, a conversazioni, dove la loro onestà e fedeltà è messa a dura prova. Sono essi che con la noncuranza, con i modi aspri e rozzi, con le diffidenze irragionevoli, con i sospetti ingiuriosi, con i mali trattamenti fanno nascere e nutrono il disamore nelle povere mogli, e dal disamore alle cadute il passo è breve. Mariti, ricordate sempre la sentenza dell’Apostolo: “Ciascuno di voi sappia conservare la sua moglie con santità ed onore. „ L’amore vicendevole sincero, vivo, che apparisce nelle parole e più nelle opere, è il mezzo più efficace per assicurare la vicendevole fedeltà. Proseguendo lo stesso argomento, l’Apostolo tocca con mano maestra ed estrema riservatezza una verità che doveva riuscire pressoché nuova a quei Cristiani, poco prima ancora gentili. Egli li avverte, che nei mutui loro rapporti non devono seguire le basse e animalesche tendenze della natura, alla maniera dei Gentili, che non conoscono Dio e la santa sua legge — Non in passione desiderii, sicut et Gentes, quos Deum ignorant —, ma devono vivere conformemente alle sante leggi imposte dalla natura e dal Vangelo. In altri termini, scopo dell’Apostolo è di inculcare ai novelli Cristiani la grande verità morale, che fuori del matrimonio, tutte le relazioni coniugali tra i due sessi sono illecite e perciò condannevoli, e qui in altra forma esprime ciò che sì nobilmente insegna, nella lettera agli Ebrei e ch’io vi ripeto: “Sia in ogni cosa onorando il connubio ed il talamo senza macchia, che i fornicatori e gli adulteri li giudicherà Iddio„ (Capo XIII, 4). – Dopo aver messo in guardia i fedeli contro i pericoli della impudicizia, S. Paolo accenna all’altro pericolo non meno grave, che viene dall’avarizia, e soggiunge: “Che nessuno, negli affari, soverchi e frodi il fratello suo. „ Dilettissimi! noi dobbiamo vivere in società, perché lo esige la stessa natura, ed abbiamo continuo bisogno gli uni degli altri: questi domandano il vostro lavoro per darvi in cambio la mercede: quelli chiedono la vostra merce e vi offrono il prezzo: è un incessante dare e ricevere, un comperare e vendere e un intrecciarsi di affari senza fine. Tutto questo si può e si deve fare, ma sempre secondo le norme della giustizia, stabilite dalla ragione e dal Vangelo di Gesù Cristo. Quanto è facile che in tanto agitarsi di affari d’ogni maniera, la malnata febbre dell’avarizia e talvolta anche la dura necessità, il bisogno tiranno, ci trascinino a violare le leggi della giustizia, ad opprimere il povero! Come, anche tra i Cristiani, spesso s’incontra di trovare uomini, che, abusando della buona fede, della ignoranza, della imprudenza del fratello, nei contratti lo ingannano e bruttamente lo frodano! Vi sono, è vero, le leggi che puniscono gli ingannatori e i frodatori; ma quante volte i tristi trovano modo di sottrarsi ai rigori della giustizia umana! Quante iniquità si coprono con la forza, con l’inganno, con le soperchierie, e le grida delle vittime non possono giungere alle orecchie di chi deve rendere giustizia, o giungono tardi o sono fors’anche soffocate dalle grida più forti dei prepotenti! Le leggi umane vi sono, lo so; ma quante volte si deve ripetere: “Ma chi pone mano ad esse? „ Le leggi sono freni umani e giovano, anzi sono necessarie al quieto vivere; ma si fermano agli atti esterni, si arrestano sulla soglia della coscienza. Fa d’uopo portare l’idea del dovere nel cuore, e di là informare gli atti esterni tutti: e questo lo fa la sola Religione. Ah! Le leggi umane senza la Religione valgono ben poco. Non sia mai, grida S. Paolo, che voi teniate mano con frodi e soprusi ad opprimere il fratello; che se lo faceste, o lo facessero altri a vostro danno, sappiate tutti che al di sopra della giustizia degli uomini vi è un’altra giustizia, infallibile, onnipotente, a cui nessuno può sfuggire, è la giustizia di Dio: “Vi è un Dio Signore, che punisce tutte queste cose, come già vi abbiamo detto e protestato — Vindex est Dominus de his omnibus, sicut prædiximus vobis et testificati sumus.,, Questo Dio, vindice d’ogni iniquità, a cui tutti dovremo un dì presentarci a render conto di tutte le opere nostre, che giudicherà gli stessi giudici, deve atterrire i malvagi, i soverchiatori e fraudolenti e confortare le loro vittime Non vi è pensiero, non verità, che più efficacemente di questa valga a raffrenare i tristi, a fiaccare le passioni e a sostenere ed avvalorare i grandi principii della onestà e giustizia sì privata come pubblica. Quando l’uomo al di sopra della giustizia umana, ch’egli può ingannare, o almeno spera di poter ingannare, vede lampeggiare la spada d’un’altra giustizia, eterna, infallibile, inesorabile, che spinge lo sguardo fino nei recessi del pensiero e dell’affetto, è quasi forzato a camminare sulla via del dovere e della virtù: quei Vindice supremo gli sta dinanzi ed il pensiero di Lui arresta la mano colpevole, che si stende contro il fratello, e spegne la colpa là dove nasce, nella mente e nell’affetto. S. Paolo chiude il suo insegnamento, ripetendo ancora la sentenza sopra spiegata: “Conciossiachè Dio ci abbia chiamati, non alla immondezza, ma alla santificazione, „ quasi volesse ribadirla a forza nell’animo dei fedeli. – E che questa sì sublime sentenza rimanga scolpita nei vostri cuori e ad essa siano sempre conformi i vostri pensieri, i vostri desideri, le vostre parole e le vostre opere!
Graduale Ps XXIV:17-18
Tribulatiónes cordis mei dilatátæ sunt: de necessitátibus meis éripe me, Dómine,
[Le tribolazioni del mio cuore sono aumentate: líberami, o Signore, dalle mie angustie.]
Vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea.
[Guarda alla mia umiliazione e alla mia pena, e perdònami tutti i peccati.]
Tractus Ps CV:1-4
Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus. [Lodate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua misericordia.]
Quis loquétur poténtias Dómini: audítas fáciet omnes laudes ejus?
[Chi potrà narrare la potenza del Signore: o far sentire tutte le sue lodi?]
Beáti, qui custódiunt judícium et fáciunt justítiam in omni témpore.
[Beati quelli che ossérvano la rettitudine e práticano sempre la giustizia.]
Meménto nostri, Dómine, in beneplácito pópuli tui: vísita nos in salutári tuo. [Ricórdati di noi, o Signore, nella tua benevolenza verso il tuo popolo, vieni a visitarci con la tua salvezza.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.
Matt XVII:1-9
“In illo témpore: Assúmpsit Jesus Petrum, et Jacóbum, et Joánnem fratrem eius, et duxit illos in montem excélsum seórsum: et transfigurátus est ante eos. Et resplénduit fácies ejus sicut sol: vestiménta autem ejus facta sunt alba sicut nix. Et ecce, apparuérunt illis Móyses et Elías cum eo loquéntes. Respóndens autem Petrus, dixit ad Jesum: Dómine, bonum est nos hic esse: si vis, faciámus hic tria tabernácula, tibi unum, Móysi unum et Elíæ unum. Adhuc eo loquénte, ecce, nubes lúcida obumbrávit eos. Et ecce vox de nube, dicens: Hic est Fílius meus diléctus, in quo mihi bene complácui: ipsum audíte. Et audiéntes discípuli, cecidérunt in fáciem suam, et timuérunt valde. Et accéssit Jesus, et tétigit eos, dixítque eis: Súrgite, et nolíte timére. Levántes autem óculos suos, néminem vidérunt nisi solum Jesum. Et descendéntibus illis de monte, præcépit eis Jesus, dicens: Némini dixéritis visiónem, donec Fílius hóminis a mórtuis resúrgat.”
Omelia II
[Ibid.: vol. II om. IV]
“Gesù prese seco Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di lui, e li condusse in disparte, sopra un alto monte. E alla loro presenza fu trasfigurato, e il suo volto rifulse come il sole e le sue vesti divennero candide come la neve. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che parlavano con lui. Pietro, indirizzandosi a Gesù, gli disse: Signore, è bello starcene qui: se vuoi, facciamo qui tre tende: una a te, una a Mosè, una ad Elia. Mentre egli parlava ancora, una nube splendente lo ravvolse, e dalla nube venne tosto una voce, che diceva: “Questi è il Figlio mio, il bene amato, nel quale io mi sono compiaciuto: lui ascoltate. Udendo ciò, i discepoli caddero bocconi, e temettero assai. Ma Gesù, accostandosi loro e toccandoli, disse: Levatevi e non temete. E levando gli occhi, non videro alcuno, se non Gesù solo. Scendendo poi dal monte. Gesù diede loro questo comando: Non dite la visione ad alcuno, finche il Figliuol dell’uomo non sia risuscitato dai morti „ (Matt. capo XVII, 1-9).
Fin qui l’odierno Evangelo. Il fatto, o per parlare più esattamente, il miracolo della Trasfigurazione, che avete udito, deve avere un’alta importanza, perché non solo è narrato, quasi con le stesse parole dai tre evangelisti, S. Matteo, S. Marco e S. Luca, ma è riferito eziandio da S. Pietro II. c. I, 17, 18). Egli pure, quasi dimenticando l’indole d’una lettera brevissima, assume l’ufficio di evangelista e racconta la Trasfigurazione del divino Maestro. Il fatto avvenne, come quasi concordemente attesta la tradizione antica, sulla cima del Tabor in Galilea, poco lungi da Nazaret. È un monte, che solitario, a guisa di gigantesca piramide, solleva la superba sua fronte tutta arrotondata all’altezza di circa settecento metri: i suoi fianchi, nella parte inferiore, sono coperti di scarsi e poveri abeti e dalla sua vetta lo sguardo spazia liberamente dal Libano al Carmelo, al mare Mediterraneo, che appare come una macchia cerulea. – S’avvicinava il giorno nel quale Gesù Cristo doveva compire il suo sacrificio, e più volte ne aveva parlato ai suoi cari: ma quell’annunzio sì chiaro e ripetuto, ora non era da essi compreso, ed ora li gettava in una angosciosa costernazione. Per rincuorarli l’amabile Maestro ricordava loro la gloria, che ne sarebbe venuta. Un giorno, vedendoli più del solito afflitti e sconfortati, disse che alcuni tra di loro non sarebbero morti senza aver prima veduto il Figliuol dell’uomo nello splendore della sua gloria (Matt. XVI, 28). Era una promessa non oscura della sua Trasfigurazione che avvenne, come dice il sacro testo, sei giorni appresso. E qui comincia la narrazione del fatto. – “Gesù prese seco Pietro , Giacomo e Giovanni, fratello di lui, e li condusse in disparte, sopra un alto monte. „ Perché Gesù non volle che della sua Trasfigurazione fossero testimoni tutti gli Apostoli e i discepoli, ma solamente i tre nominati? Non ne avrebbero tutti ricevuto gran conforto? La loro fede non vi avrebbe attinto novello vigore per affrontare l’imminente prova delle umiliazioni, dei patimenti, della morte del Maestro? Certamente Gesù Cristo poteva disporre che il favore fosse comune a tutti i discepoli, nessuno escluso; ma chi aveva diritto di esigerlo? Questi favori non sono dovuti ad alcuno, e chi li riceve, ne sia grato, e chi non li riceve si umilii e adori i consigli di questa infinita Sapienza, che dà a ciascuno come vuole. Come nell’ordine naturale vi è differenza di beni, e lo esige l’armonia delle cose e il loro stesso vantaggio, così anche nell’ordine sovrannaturale si domanda la varietà dei doni celesti. Gli Apostoli non costituivano essi stessi un ceto particolarmente favorito da Gesù Cristo a preferenza di altri non chiamati all’apostolato? Così tra gli stessi Apostoli Gesù volle distinti Pietro e i due fratelli Giacomo e Giovanni: questi soli volle testimoni della prima risurrezione operata della figlia di Giairo, capo della sinagoga: questi soli vorrà seco nel Getsemani, allorché darà principio alla sua passione, e. questi conduce seco sul monte. Pietro doveva essere il primo suo Vicario nel governo della Chiesa, Giacomo il primo martire tra gli Apostoli, e Giovanni il suo diletto, perché vergine e futuro custode della Madre sua. Era dunque conveniente che loro accordasse tanto favore, che poi a suo tempo, in modo indiretto, allorché fosse manifestato, a tutti avrebbe giovato, di tutti rinvigorendo la fede. Gesù, coi tre Apostoli, pervenuto sul monte, scrive S. Luca, si pose a pregare, Dum orabat; e mentre pregava, ad un tratto “Fu trasfigurato alla loro presenza, ed il suo volto rifulse come il sole e le sue vesti divennero candide come la neve. „ Questa descrizione è quasi identica anche nelle parole nei tre Evangelisti. Come avvenne codesta Trasfigurazione? La persona divina del Verbo ha assunta e fatta propria la natura umana in guisa che questa è determinata, posseduta e penetrata tutta nell’anima e nel corpo della stessa Persona divina, come il ferro rovente dal fuoco, la nube dal sole, che l’investe, il corpo dall’anima, che l’informa. Il perché l’umanità di Gesù Cristo doveva sempre apparire sfolgoreggiante di luce divina e avvolta nella gloria, se Dio con l’infinita sua virtù non ne avesse impedita la manifestazione per dar luogo all’esercizio della fede. In quell’istante Gesù Cristo sollevò, per nostro modo d’intendere, un lembo del velo, che ricopriva il mistero della sua unione personale, e i raggi della sua divinità sfavillarono da tutto il suo corpo, investirono le sue vesti stesse e apparve tutto sfolgoreggiante di gloria. Il suo volto e i lineamenti della sua sembianza, in tanto raggiare di luce, rimasero pur sempre per modo da poter essere riconosciuti dagli Apostoli, come rimarranno quelli dei beati nella gloria. Di questa trasformazione meravigliosa di Gesù Cristo, se poniamo ben mente, noi pure ne abbiamo una pallida immagine in ciò che talora accade sotto dei nostri occhi. Fate che ad una persona di cuore delicato, di sentimenti elevati, di forme graziose e leggiadre improvvisamente sia data una novella faustissima, che la ricolmi di gioia; voi la vedrete quasi in un lampo trasformarsi, spianarsi la fronte e le labbra, il viso tutto quasi radiante, gli occhi balenare un sorriso, una luce soave e blanda, onde tutta la persona sembra circonfusa; è la gioia interna che trabocca al di fuori, e si manifesta in tutti i modi, e che si comunica quasi riflesso a tutti i presenti. È questa una immagine lontanissima di ciò che là sul Tabor avvenne in Gesù Cristo e che nel gran dì della risurrezione avverrà nei corpi gloriosi dei beati. “Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che parlavano con Lui. „ Mosè rappresenta la legge ed Elia i profeti, e poiché in Gesù Cristo quella e questi avevano il loro pieno compimento, così era conveniente che quei due sommi personaggi apparissero e quasi attestassero, lui essere l’aspettato Salvatore del mondo. E qui è da notare una cosa degna di osservazione: sono due soli i personaggi dell’antico Patto ch’ebbero l’onore insigne di vedere Iddio come lo si poteva vedere sulla terra, e sono appunto Mosè ed Elia, e l’uno e l’altro compariscono qui a fianco di Gesù e favellano con Lui. Non si potrebbe dire che quella visione antica dei due sommi profeti era la visione anticipata, in figura, dell’Uomo-Dio, che doveva venire nella pienezza dei tempi? Ciò non sembra inverosimile. Mosè ed Elia parlavano con Gesù. „ E di che cosa parlavano? Qui S. Matteo non dice, né accenna punto di che cosa parlassero, ma S. Luca (c. IX, 31) lo esprime con bastevole chiarezza, scrivendo che ragionavano della dipartita di Gesù, ossia della morte, che stava per compiere in Gerusalemme. Ecco l’argomento del loro parlare, argomento, che assommava in sé tutta la missione di Gesù Cristo, ed era insieme una nuova lezione e un nuovo rincalzo alla fede dei tre Apostoli presenti. Certi uomini, che amano muovere questione su tutto e che, sempre studiando, non giungono mai alla scienza, domandano come mai gli Apostoli poterono conoscere che quei due personaggi erano veramente Mosè ed Elia? O li conobbero per una illustrazione particolare, od essi medesimi si manifestarono con segni o parole, o Gesù Cristo lo disse loro: ciò si suppone chiaramente, ancorché gli Evangelisti non lo dicano in termini. Mentre Gesù favellava con Mosè ed Elia, e mostrava d’essere il termine della legge e dei profeti e d’essere il Signore dei viventi come dei morti, Pietro, in un impeto di gioia, non sapendo ciò che si diceva, come notano san Luca e S. Marco, rivolto a Gesù, gli disse: “Signore, è bello starcene qui. Se vuoi, facciamo qui tre tende: una a te, una a Mosè ed una ad Elia. „ In quell’istante Pietro, rapito fuor di sé per la dolcezza di quella visione, dimenticava ogni cosa, non solo le reti, i compagni, la missione a cui Cristo stesso l’aveva destinato: non pensava che a godere di quel glorioso spettacolo. Similmente noi pure, in cielo dimenticheremo le pene, i beni e le gioie tutte della terra per bearci della vista di Dio; ma finché viviamo quaggiù, dobbiamo porci ben addentro nell’animo, che la vita presente, come quella di Gesù e degli Apostoli, è vita di privazioni, di dolori d’ogni maniera, e che nella speranza delle gioie eterne del cielo dobbiamo attingere la forza per superare le amarezze, onde più o meno sono pieni i giorni di questa vita mortale. La vista, le gioie sì brevi del Tabor erano ordinate da Cristo a sostenere gli Apostoli nelle aspre prove del Calvario: la speranza della eterna ricompensa e quelle poche stille di gioia, che Dio talvolta lascia cadere nelle anime che lo servono, valgono a tenerle salde nella via della virtù, sempre seminata di spine! “Pietro parlava ancora, ed ecco una nube splendente li ravvolse. „ E cosa singolare! … una nube nel deserto guida e difende il popolo, e nella nube Dio si manifesta: una nube riempie il tempio di Salomone allorché ne fa la solenne dedicazione: una nube copre il Sinai, e nella nube Dio parla a Mosè, e una nube passa innanzi ad Elia, allorché Dio gli si mostra: una nube toglie Gesù alla vista degli Apostoli e dei discepoli, allorché lascia la terra, e qui pure una nube avvolge Gesù, Mosè , Elia e i tre Apostoli. Essa è simbolo della maestà divina e forse per essa Gesù Cristo volle temperare i raggi della sua gloria e renderli tollerabili agli Apostoli. “E tosto dalla nube (si udì) una voce che diceva: Questi è il Figlio mio, il bene amato, nel quale mi sono compiaciuto. „ Non è mestieri il dire, che quella voce, che usciva dalla nube è la voce dell’eterno Genitore, perché dice di Gesù Cristo: ” Questi è il Figlio mio. „ Chi parla è adunque il Padre eterno. Ma Dio Padre favella Egli forse come gli uomini? Ha una voce come l’abbiamo noi? No, sicuramente. Come si dice che Dio viene, che cammina, che si sdegna, che stende la sua mano, che ha orecchi, occhi, lingua e via dicendo, così si dice che Dio parla. Quel suono, quella voce, non è propriamente suono e voce di Dio Padre, ma così si esprime perché ad uomini sensibili non si potrebbe altrimenti far conoscere. Gesù Cristo adunque, sul quale si fece udire quella voce, è veramente il Figlio di Dio, il Verbo consostanziale del Padre e il Figlio di Maria, consostanziale alla Madre. L’unità della Persona divina in Gesù Cristo, Dio-uomo, non poteva essere più chiaramente espressa. “Questi, che vedete, uomo come voi, questi è il Figlio mio, il mio diletto, nel quale trovo tutte le mie compiacenze, che solo è oggetto adeguato del mio amore. „ – “Lui ascoltate. „ Questa espressione s’era udita sulle rive del Giordano, allorché Gesù ricevette il Battesimo per mano del Precursore, e qui si ripete ancora: “Lui ascoltate. „ Tutto l’insegnamento di Cristo si appoggia alla sua Autorità, alla sua missione divina: tolta o messa in dubbio la sua Autorità divina, l’intero suo insegnamento crolla e rovina, come un edificio senza fondamento; la sua dottrina discende al livello delle dottrine di Socrate, di Platone, di Pitagora, è dottrina umana. È per questo che Cristo è sempre inteso a mostrare la sua missione divina, la sua divina Autorità: a questo principalmente sono rivolti i suoi discorsi, le sue opere, i suoi miracoli. In sostanza tutta la vita, tutte le parole e tutte le opere di Gesù Cristo si riducono a questa proposizione semplicissima: “Io sono il Figlio di Dio, Io sono Dio: dunque credete tutto ciò che vi insegno; „ proposizione, che equivale a quest’altra, che suona dalla nube del Tabor: “Questi è il Figlio mio diletto; Lui ascoltate. „ Egli parlò agli Apostoli nella sua umanità; parla a tutti i credenti nella sua Chiesa, continuatrice dell’opera di Lui; parla nel suo Vicario, il Romano Pontefice: si mutano i mezzi, gli strumenti, ma la parola e l’Autorità è sempre la stessa. Dunque ascoltiamo questa parola, ubbidiamo a questa Autorità: Ipsum audite. – “Ciò udendo, gli Apostoli caddero bocconi e grandemente temettero. „ La presenza intima di Dio, lo splendore della sua gloria, ancorché sempre velato, fa trasalire in modo ineffabile le anime e le riempie d’un certo timore, misto a gioia, a sensi di ammirazione e di gratitudine. Dinanzi all’Infinito, che si rivela anche per un solo istante, noi ci sentiamo nulla. “Ma Gesù, loro accostandosi e toccandoli, disse: Sorgete, e non vogliate temere. „ A quella vista, a quella voce, che usciva dalla nube, gli Apostoli erano caduti con la faccia sul suolo, temendo e adorando l’infinita maestà di Dio: non osavano nemmeno levare gli sguardi. In quella si dileguò la nube, cessò la voce, disparvero Mosè ed Elia, Gesù ritrasse in se stesso la luce che lo avvolgeva, e avvicinatosi agli Apostoli, con voce piena di affetto, non solo li chiamò, ma li toccò con la mano e li confortò a non temere e levarsi. Vedete, o cari, bontà del divino Maestro! Stende la mano ai diletti discepoli e li rialza! Egli la stende a quanti sono caduti, sempre, in ogni luogo, perché questo è l’ufficio suo, ufficio di Salvatore e Mediatore. “E levando gli occhi, non videro alcuno, fuorché solo Gesù. „ E facile immaginare lo stupore degli Apostoli e ciò che dovettero sentire in cuore e dire a Gesù Cristo dopo quella splendida testimonianza della sua divina origine. Essa rimase altamente impressa nei loro animi sì che Pietro, nell’ultima sua lettera, scritta in Roma poco prima del suo martirio, la narrava ai fedeli come la prova massima della fede, che aveva predicato. “Scendendo poi essi dal monte, Gesù comandò loro, dicendo: Non dite a nessuno la visione, finché il Figliuol dell’uomo non sia risuscitato.„ Il fine della Trasfigurazione sul Tabor, non vi è dubbio, era quello di fortificare gli Apostoli nella fede e prepararli a superare lo scandalo della passione, ch’era vicina. Perché dunque, non solo non ammettere a quello spettacolo grandioso gli altri Apostoli, ma divietare ai tre di manifestarlo? È superfluo ripetere qui ciò che dissi sopra, vale a dire che Gesù Cristo è padrone dei suoi doni, e nessuno può dirgli: Perché li concedi a questi e a quelli, e a me li rifiuti? Nondimeno parmi che si possa seguire la sentenza di S. Girolamo, il quale è di parere, che Gesù vietasse ai tre Apostoli di manifestare la visione al popolo, non mai ai loro compagni e fratelli nell’apostolato. Il popolo, le turbe, alle quali si fosse per avventura narrata la visione del Tabor, forse non l’avrebbero creduta: forse, la cosa giunta agli orecchi degli scribi e farisei, implacabili nemici di Cristo, sarebbe stata occasione di ire più cupe, di più feroci persecuzioni; perciò Gesù volle che il fatto rimanesse occulto fuori della cerchia dei dodici Apostoli: fu un atto di riserbo, di prudenza, simile a tanti altri di questo genere, che troviamo nel Vangelo. Permettete, o cari, che metta fine a questa omelia con una considerazione generale, suggeritami da S. Gregorio M. e dal fatto della Trasfigurazione che vi ho spiegato, e che si riflette su tutta la vita di Gesù Cristo. Scorrendo la vita di Gesù Cristo, noi vediamo che ad ogni suo atto di abbassamento od umiliazione, prima o poi, risponde un lampo di gloria: essa è il compenso della umiliazione ed insieme il conforto della nostra fede nella sua divina Persona. Gesù nasce in una grotta, nel silenzio della notte, nello squallore della povertà estrema: gli Angeli e la stella in cielo, i pastori ed i Magi sulla terra ne mostrano la grandezza. Gesù, sulle rive del Giordano, quasi fosse un peccatore, chiede il battesimo, e i cieli si aprono sopra di Lui e una manifestazione della augusta Trinità lo fa conoscere al popolo. Gesù annunzia che va a Gerusalemme per soffrire e morire in croce, e sei giorni dopo sulla vetta del Tabor si ammanta di gloria e riceve la testimonianza dal Padre, dalla legge e dai profeti. Gesù, poco prima di darsi in mano ai nemici, angosciato al pensiero della morte, esclama: Padre, salvami, e una voce come di tuono risponde: Io lo glorificherò —. Gesù, carico di obbrobri, abbandonato da tutti, morto sulla croce, è calato nel sepolcro: ma Dio strappa dal sepolcro quel corpo, lo circonda di gloria e lo riempie di vita e di giovinezza eterna. È la gloria, che risponde alla umiliazione, il Tabor che risponde al Calvario.
Credo …
Offertorium
Orémus Ps CXVIII:47; CXVIII:48
Meditábor in mandátis tuis, quæ diléxi valde: et levábo manus meas ad mandáta tua, quæ diléxi. [Mediterò i tuoi precetti che ho amato tanto: e metterò mano ai tuoi comandamenti, che ho amato.]
Secreta
Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quaesumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [Guarda, o Signore, con occhio placato, al presente sacrificio, affinché giovi alla nostra devozione e salute.]
Communio
Ps V:2-4 – Intéllege clamórem meum: inténde voci oratiónis meæ, Rex meus et Deus meus: quóniam ad te orábo, Dómine. [Ascolta il mio grido: porgi l’orecchio alla voce della mia orazione, o mio Re e mio Dio: poiché a Te rivolgo la mia preghiera, o Signore.]
Postcommunio
Orémus.
Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut quos tuis réficis sacraméntis, tibi etiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas. [Súpplici Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché, a quelli che Tu ristori coi tuoi sacramenti, conceda anche di servirti con una condotta a Te gradita.]