GNOSI TEOLOGIA DI sATANA -17- : GNOSI ED ISLAM (1)

GNOSI ED ISLAM (1)

“omnes dii gentium dæmonia”

[da E. Couvert: “La gnose universelle”, cap. II]

La storia critica delle origini dell’Islam, dopo tanti secoli, resta ancora da scrivere. Fino a tutti questi ultimi anni, gli islamologi si sono accontentati di dare un’apparenza erudita e sapiente, di offrire una veste dignitosa e credibile alle leggende diffuse dopo le origini dell’Islam dalle autorità musulmane per corrompere lungo i secoli gli infelici popoli del medio-Oriente e dell’Africa del Nord. Ciò facendo, questi storici sconsiderati e senza scrupoli hanno imposto detti popolari, pieni di menzogne ed imposture destinate a mantenere queste povere popolazioni in uno stato soporoso, inebetito, sia moralmente che intellettualmente. Riza Tewfik scriveva nel 1947 a Beyrut: « Ho constatato che la maggior parte degli storici orientali sono sprovvisti di qualsiasi senso critico e la storia – fin quasi all’inizio del XIX secolo – ha conservato da noi il suo carattere primitivo: quello di essere cioè platealmente aneddotico! Quanto ai commentari, essi hanno accumulato – nel nome della tradizione che considerano come verità mai dimostrate, ma evidenti per se stesse – un tasso di superstizione estrapolate dall’immaginario popolare. Essi ne hanno talmente abusato, che i commentari sono zeppi di questi stupidi aneddoti che, lungi dal chiarire il significato del testo, lo ottundono piuttosto; questo sconvolge l’intelligenza delle persone semplici, e distrugge la loro fede. » Si sono dovuti attendere questi ultimi venti anni per trovare storici liberi ed indipendenti dalle mode intellettuali capaci di produrre dei fori efficaci in questo muro di ufficiale e gratuito conformismo universitario. Per primo, il p. Gabriel Théry ha denunciato la falsificazione storica diffusa dagli islamologi; ma egli non ha osato farlo con il suo nome, che tuttavia era già sufficientemente autoritario in materia; egli si è contentato infatti dello pseudonimo di Hanna Zacharias (cosa che dimostra tra l’altro quale forte pressione eserciti il conformismo intellettuale anche su uomini realizzati, giunti alla sommità degli onori universitari!). Tuttavia la sana critica storica non conserverà granché delle sue ipotesi, se non questa giustissima ipotesi, che l’Islam cioè, diffondendosi tra le popolazioni cristiane dell’Oriente le ha condotte alla pratica del giudaismo ed all’osservanza della legge di Mosè. Il suo discepolo e successore Joseph Bertuel ha compiuto uno studio molto approfondito sulle origini dell’Islam. Egli resta prigioniero di diverse tesi di Hanna Zacharias. Tuttavia il primo, ha avuto il coraggio di « radiare Maometto dal numero dei grandi fondatori di religione, e di togliergli puramente e semplicemente la paternità del Corano », come egli stesso ha detto. Egli avrebbe potuto aggiungere semplicemente che Maometto non è mai esistito e che la sua legge e la sua esistenza è totalmente leggendaria. Ma allora perché aver conservato questa distinzione tra sure della Mecca e sure di Medina? È un rimaneggiamento artificiale del Corano, operato per ricollegare il testo del libro ad una leggenda secondo la quale il libro stesso non era stato umanamente scritto. Inoltre le ricerche storiche del Bertuel sono appassionanti: si può dire che, per primo, egli ha fatto un’opera degna di uno storico serio. Infine il frate Bruno Bonnet-Aymart, si è dedicato al compito faticoso ma fondamentale, di ritradurre seriamente il Corano. Si comprende così da questa dotta traduzione, che l’autore di questo libro era in realtà un uomo sapiente, addirittura un erudito che conosceva in profondità l’ebraico, l’aramaico, il greco. Questo erudito è stato tra l’altro capace di creare, a partire da una lingua araba solo parlata, una lingua scritta. Egli ha forgiato da se medesimo un vocabolario religioso necessario a trasmettere il suo insegnamento ed ha dato a questa lingua una struttura grammaticale sufficientemente complessa per esprimere delle nozioni religiose e giuridiche alle quali i grezzi nomadi arabi erano poco abituati. Il frate Bruno ha già estratto dalle sue traduzioni delle conclusioni notevoli, importanti al punto tale da capovolgono da cima a fondo tutta la storia dell’Islam fondata sulle sabbie mobili della pura leggenda. Non è certamente il caso di riprendere questo lavoro di primo ordine, ma solo di utilizzarne diverse sue conclusioni che possono essere poste alla base dell’intenzione di mostrare, attraverso la storia di questa falsa religione, la sua impregnazione di pensiero gnostico fin dalle origini, ed il ruolo che l’Islam ha giocato nel corso dei secoli nella trasmissione di questa gnosi, con i caratteri di sempre, riversata sull’Occidente cristiano.

Posizione del problema

Per comprendere le origini dell’Islam, bisogna aver presente al proprio spirito, la tela del fondo e delle vicende storiche sulle quali si è, per così dire, stampata la nuova religione. Dopo l’inizio dell’era cristiana, il vicino-Oriente venne scosso dalla lotta secolare tra l’impero romano ed il regno persiano. I Romani in realtà non hanno mai potuto abbattere questo impero dei Sassanidi, la guerra era endemica, interrotta da tregue e da paci provvisorie, ma sempre venne ripresa con alterne fortune da una parte e dall’altra. Alcuni imperatori romani vi persero addirittura la vita, tra essi ad esempio: Aureliano e Giuliano. Fu proprio la necessità di avvicinarsi al teatro delle operazioni che costrinse l’imperatore Costantino ad insediare la sua capitale a Bisanzio, divenuta poi Costantinopoli. – Ora in questa guerra ininterrotta, i Romani hanno fatto appello agli arabi e li hanno incorporati nelle loro legioni come ausiliari; i re sassanidi fecero altrettanto. Così già dall’inizio dell’era cristiana vi erano delle tribù arabe insediate in Siria, in Palestina, in Egitto, in modo più o meno sedentario e residenziale. Oltre il Giordano c’erano ad esempio i Nabatei. Questi erano stati legati con trattato di pace e di assistenza all’Impero romano che li utilizzava per proteggere i territori dell’Impero contro le altre tribù arabe rimaste nomadi e predatrici. Durante i primi secoli cristiani, questi arabi si convertirono al Cristianesimo. Uno di essi divenne nientemeno che imperatore a Roma: Filippo l’Arabo, imperatore e nello stesso tempo cristiano. M. F. Nau ci aveva già in precedenza presentati questo “Arabi cristiani della Mesopotamia e della Siria del VII ed VIII secolo”, cioè nell’epoca della nascita dell’Islam. Egli precisa pure che « il nome Allah non appartiene ai musulmani, ma è di proprietà degli Arabi cristiani. » Cosa successe pertanto nel VII secolo? Poco più o meno di quanto sarebbe successo due secoli dopo nella parte occidentale dell’Impero romano: qui i Germani, i Franchi, i Visigoti, i Burgondi, istallati sul territorio della Gallia, si staccarono dall’imperatore romano divenuto impotente e si proclamarono di fatto regni indipendenti, pur mantenendo un’alleanza teorica con l’impero. Si evitarono così invasioni, massacri di popoli, e si ebbero solo sporadiche battaglie contro le legioni romane rimaste fedeli all’imperatore. Nel vicino-Oriente, dopo l’ultima e più violenta delle guerre contro la Persia, l’indebolimento dei due belligeranti fu tale che i capi delle tribù arabe cristianizzate e installate in Siria, Palestina, Egitto, Mesopotamia, rivendicarono la loro autonomia e si attribuirono un potere sovrano, impadronendosi di città ed espellendo le legioni bizantine rimaste fedeli all’imperatore. L’operazione si compì nel giro di qualche anno, senza resistenza delle popolazioni, felici di sottrarsi agli scontri ed alle esigenze dell’amministrazione imperiale. Non si ebbero quindi propriamente delle invasioni, o delle guerre di conquiste, ma una semplice presa di potere da parte dei capi delle tribù già insediate in loco. Un fenomeno simile si produsse in Persia. L’ultimo dei Sassanidi, Cosroe II, aveva organizzato una grande spedizione in Egitto, al ritorno della quale le sue armate avevano saccheggiato e distrutto Gerusalemme nel 614, impadronendosi del legno della vera Croce. Dopo la riconquista di queste regioni da parte dell’imperatore Eraclio e dopo la morte di Cosroe II, il regno persiano cadde in una disastrosa crisi dinastica. Si generò in tal modo l’occasione di una specie di interregno contrastato ed oscuro, durante il quale i capi dei contingenti arabi presero egualmente il potere. – La redazione del Corano data proprio quest’epoca. Essa è legata alla presa di potere degli Arabi cristiani ai quali si indirizza appunto in particolare l’autore del libro. L’Abate Bertuel si pone questa obiezione: « Se questo autore fosse stato cristiano, le sue narrazioni si sarebbero svolte come delle lezioni che facilitavano, chiarivano il senso e la portata spirituale dei testi mediante la rivelazione del Nuovo Testamento. » Ma no, signore Abate! Il Corano non era destinato a convertire gli Arabi al Cristianesimo, poiché essi già lo erano, ma ad allontanarli dall’adorazione di Gesù-Cristo ed a ricondurli alla pratica del Giudaismo ed all’osservanza della legge di Mosè! L’autore del Corano non era dunque un cristiano, ma un eretico giudaizzante, che negava la Divinità di Gesù-Cristo. Soprattutto non bisogna richiamare il Nuovo Testamento per chiarire l’insegnamento della sua eresia, poiché egli stesso ne rigetta il fondamento che è la divinità di Gesù-Cristo. Vi ritorneremo ancora. – L’Abate Bertuel aggiunge poi questa riflessione: « Ci si domanda perché gli Arabi non si convertirono subito al Cristianesimo che avrebbe detto loro più chiaramente le cose e li avrebbe liberati radicalmente dall’apologetica giudaica … » Perché? Ma perché gli Arabi erano già cristiani e si trattava quindi di ricondurli ad un’apologetica giudaizzante, quella dell’Antico Testamento, la sola autentica agli occhi del Corano. Non c’è infatti Nuovo Testamento, poiché il Cristo non sarebbe che un profeta, successore di Mosè. La verità è che il libro del Corano è stato scritto in Siria, da un cristiano giudaizzante, per gli Arabi di Siria. Non c’è nulla in questo libro infatti che lo possa far ricondurre o faccia riferimenti all’Arabia. Non si menziona mai né la Mecca, né Medina, né la Kaaba. Il tempio che si menziona invece, non può essere che quello di Gerusalemme, che occorre ricostruire! Nel corso dei secoli seguenti, i Cristiani di Occidente hanno infatti sempre considerato i musulmani come cristiani eretici. Essi li chiamavano Mori, abitanti della Mauritania, l’Africa romana, oppure Saraceni, popolazioni della Siria, ma mai Arabi, quando si tratta di riferirsi ai musulmani! Anche Dante, nel secolo XIV, mette Maometto tra i Cristiani eretici: quest’ultimo si lacera il petto in due parti, perché ha diviso la Chiesa in due. San Giovanni Damasceno (morto nel 749) accusa il fondatore dell’islam  “di avere avuto colloqui con un certo monaco ariano” e pone la “superstizione degli Ismaeliti” tra le eresie cristiane. – Precisiamo ancora che gli Arabi non hanno conquistato il resto del bacino mediterraneo. Quando la popolazione sotto la loro dominazione è passata nella loro “superstizione”, credendo tuttavia di rimanere cristiana, essi sono partiti all’avventura, i Siriani sui loro navigli per piratare le coste occidentali e fornire di schiavi gli harem d’Oriente, i Mauri sulla Spagna per saccheggiare e razziare, per insidiarsi nelle città prosperose. Si è notato che nei contingenti islamizzati, gli arabi erano una infima minoranza diluiti tra molteplici apporti stranieri. In Spagna c’erano quasi unicamente berberi, Tuaregh, slavi che erano antichi schiavi dell’Europa centrale, formanti corpi di giannizzeri, giungendo alle posizioni più elevate nell’Islam, nonché molti cristiani convertiti spontaneamente o con la forza, ed infine i Mozarabi, indigeni rimasti cristiani ma più o meno arabizzati e quasi assimilati. Solo le popolazioni delle campagne e delle montagne hanno resistito per lungo tempo ed efficacemente all’invasione dell’Islam, i Fellahs d’Egitto, i Kabili di Algeria, i Cristiani delle montagne del nord della Spagna. – Infine l’esistenza di Maometto è rimasta, diversi secoli dopo la conversione dell’Islam, sconosciuta alle popolazioni convertite. In Spagna, durante tutto l’VIII secolo e l’inizio del IX, nessuna opera polemica tra Cristiani e musulmani menziona la persona di Maometto. Nel 857, Eulogio scrive: « Siccome mi trovavo al monastero di Leyre (nel nord della Spagna), io presi conoscenza del desiderio di istruirmi con tutti i libri che vi erano riuniti, leggendo quelli che mi erano sconosciuti. Improvvisamente in una piccola opera anonima, scoprii una storiella su di un profeta nefasto »: era Maometto! Egli riassunse questa storia nella sua « Apologetica dei Martiri », e la inviò poi a Giovanni da Siviglia che la rese nota. Alvarez de Cordou parla di Maometto nel suo « Indiculus luminosus ». Un monaco di Sens, Gautier, compone un poema su di lui. Hildebert, vescovo di Mans, compone un altro poema in sedici canti, intitolato « Historia Mahumeti », composto nel 1100, nel quale Maometto è presentato come un barone del Medio Evo, circondato di vassalli devoti, e che forniva l’opinione che della sua persona si facevano i cavalieri delle crociate. È dunque a giusto titolo che l’Abate Bertuel pone la questione che resta ancora oggi senza risposta: « il solo mistero che sussiste è puramente di ordine storico: perché e come, dopo un secolo e mezzo di oblio dell’apostolo arabo, i musulmani del IX secolo hanno “fabbricato” delle vite di Maometto che dovevano diventare il pensiero universale degli adepti dell’Islam? » – Tutte le considerazioni che svilupperemo sono destinate unicamente a decantare una storia disseminata di leggende inverosimili e che ci permettono infine di dare una spiegazione giustificata e ragionata dei molteplici elementi gnostici che affiorano dappertutto nel pensiero musulmano, a cominciare dallo stesso testo del Corano. [1 – Continua…]

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA – FEBBRAIO 2018

FEBBRAIO è il mese che la CHIESA DEDICA alla SANTISSIMA TRINITA’ [2018]

All’inizio del mese è bene rinnovare il Credo Cattolico, autentico e solo, il Credo Atanasiano, le cui affermazioni, tenute e tenacemente professate contro tutte le insidie ed eresie della gnosi: modernista … protestante … massonica … pagana … comunisto-liberista … noachide-mondialista, permettono la salvezza dell’anima per l’eterna felicità.

 IL CREDO Atanasiano

 (Canticum Quicumque * Symbolum Athanasium)

“Quicúmque vult salvus esse, * ante ómnia opus est, ut téneat cathólicam fidem: Quam nisi quisque íntegram inviolatámque serváverit, * absque dúbio in ætérnum períbit. Fides autem cathólica hæc est: * ut unum Deum in Trinitáte, et Trinitátem in unitáte venerémur. Neque confundéntes persónas, * neque substántiam separántes. Alia est enim persóna Patris, ália Fílii, * ália Spíritus Sancti: Sed Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti una est divínitas, * æquális glória, coætérna majéstas. Qualis Pater, talis Fílius, * talis Spíritus Sanctus. Increátus Pater, increátus Fílius, * increátus Spíritus Sanctus. Imménsus Pater, imménsus Fílius, * imménsus Spíritus Sanctus. Ætérnus Pater, ætérnus Fílius, * ætérnus Spíritus Sanctus. Et tamen non tres ætérni, * sed unus ætérnus. Sicut non tres increáti, nec tres imménsi, * sed unus increátus, et unus imménsus. Simíliter omnípotens Pater, omnípotens Fílius, * omnípotens Spíritus Sanctus. Et tamen non tres omnipoténtes, * sed unus omnípotens. Ita Deus Pater, Deus Fílius, * Deus Spíritus Sanctus. Ut tamen non tres Dii, * sed unus est Deus. Ita Dóminus Pater, Dóminus Fílius, * Dóminus Spíritus Sanctus. Et tamen non tres Dómini, * sed unus est Dóminus. Quia, sicut singillátim unamquámque persónam Deum ac Dóminum confitéri christiána veritáte compéllimur: * ita tres Deos aut Dóminos dícere cathólica religióne prohibémur. Pater a nullo est factus: * nec creátus, nec génitus. Fílius a Patre solo est: * non factus, nec creátus, sed génitus. Spíritus Sanctus a Patre et Fílio: * non factus, nec creátus, nec génitus, sed procédens. Unus ergo Pater, non tres Patres: unus Fílius, non tres Fílii: * unus Spíritus Sanctus, non tres Spíritus Sancti. Et in hac Trinitáte nihil prius aut postérius, nihil majus aut minus: * sed totæ tres persónæ coætérnæ sibi sunt et coæquáles. Ita ut per ómnia, sicut jam supra dictum est, * et únitas in Trinitáte, et Trínitas in unitáte veneránda sit. Qui vult ergo salvus esse, * ita de Trinitáte séntiat. Sed necessárium est ad ætérnam salútem, * ut Incarnatiónem quoque Dómini nostri Jesu Christi fidéliter credat. Est ergo fides recta ut credámus et confiteámur, * quia Dóminus noster Jesus Christus, Dei Fílius, Deus et homo est. Deus est ex substántia Patris ante sǽcula génitus: * et homo est ex substántia matris in sǽculo natus. Perféctus Deus, perféctus homo: * ex ánima rationáli et humána carne subsístens. Æquális Patri secúndum divinitátem: * minor Patre secúndum humanitátem. Qui licet Deus sit et homo, * non duo tamen, sed unus est Christus. Unus autem non conversióne divinitátis in carnem, * sed assumptióne humanitátis in Deum. Unus omníno, non confusióne substántiæ, * sed unitáte persónæ. Nam sicut ánima rationális et caro unus est homo: * ita Deus et homo unus est Christus. Qui passus est pro salúte nostra: descéndit ad ínferos: * tértia die resurréxit a mórtuis. Ascéndit ad cælos, sedet ad déxteram Dei Patris omnipoténtis: * inde ventúrus est judicáre vivos et mórtuos. Ad cujus advéntum omnes hómines resúrgere habent cum corpóribus suis; * et redditúri sunt de factis própriis ratiónem. Et qui bona egérunt, ibunt in vitam ætérnam: * qui vero mala, in ignem ætérnum. Hæc est fides cathólica, * quam nisi quisque fidéliter firmitérque credíderit, salvus esse non póterit.”

L’adorazione della Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, con il mistero dell’Incarnazione e la Redenzione di Gesù-Cristo, costituiscono il fondamento della vera Fede insegnata dalla Maestra dei popoli, la Chiesa di Cristo, casta Sposa del Verbo, verità unica ed infallibile, via di salvezza, fuori dalla quale c’è la dannazione eterna!

O uomini, intendetelo quanto questo dogma vi nobiliti. Creati a similitudine dell’augusta Trinità, voi dovete formarvi sul di lei modello, ed è questo un dover sacro per voi. Voi adorate una Trinità il cui carattere essenziale è la santità, e non vi ha santità sì eminente, alla quale voi non possiate giungere per la grazia dello Spirito santificatore, amore sostanziale del Padre e del Figlio. Per adorare degnamente l’augusta Trinità voi dovete dunque, per quanto è possibile a deboli creature umane, esser santi al pari di lei. Dio è santo in se stesso, vale a dire che non è in lui né peccato, né ombra di peccato; siate santi in voi stessi. Dio è santo nelle sue creature: vale a dire che a tutto imprime il suggello della propria santità, né tollera in veruna il male o il peccato, che perseguita con zelo immanchevole, a vicenda severo e dolce, sempre però in modo paterno. Noi dunque dobbiamo essere santi nelle opere nostre e santi nelle persone altrui evitando cioè di scandalizzare i nostri fratelli, sforzandoci pel contrario a preservarli o liberarli dal peccato. Siate santi, Egli dice, perché Io sono santo. E altrove: Siate perfetti come il Padre celeste è perfetto; fate del bene a tutti, come ne fa a tutti Egli stesso, facendo che il sole splenda sopra i buoni e i malvagi, e facendo che la pioggia cada sul campo del giusto, come su quello del peccatore. Modello di santità, cioè dei nostri doveri – verso Dio, L’augusta Trinità è anche il modello della nostra carità, cioè dei nostri doveri verso i nostri fratelli. Noi dobbiamo amarci gli uni gli altri come si amano le tre Persone divine. Gesù Cristo medesimo ce lo comanda, e questa mirabile unione fu lo scopo degli ultimi voti che ei rivolse al Padre suo, dopo l’istituzione della santa Eucarestia. Egli chiede che siamo uno tra noi, come Egli stesso è uno col Padre suo. A questa santa unione, frutto della grazia, ei vuole che sia riconosciuto suo Padre che lo ha inviato sopra la terra, e che si distinguono quelli che gli appartengono. Siano essi uno, Egli prega, affinché il mondo sappia che Tu mi hai inviato. Si conoscerà che voi siete miei discepoli, se vi amate gli uni gli altri «Che cosa domandate da noi, o divino Maestro, esclama sant’Agostino, se non che siamo perfettamente uniti di cuore e di volontà? Voi volete che diveniamo per grazia e per imitazione ciò che le tre Persone divine sono per la necessità dell’esser loro, e che come tutto è comune tra esse, così la carità del Cristianesimo ci spogli di ogni interesse personale ». – Come esprimere l’efficacia onnipotente di questo mistero? In virtù di esso, in mezzo alla società pagana, società di odio e di egoismo, si videro i primi Cristiani con gli occhi fissi sopra questo divino esemplare non formare che un cuore ed un’anima, e si udirono i pagani stupefatti esclamare: « Vedete come i Cristiani si amano, come son pronti a morire gli uni per gli altri! » Se scorre tuttavia qualche goccia di sangue cristiano per le nostre vene, imitiamo gli avi nostri, siamo uniti per mezzo della carità, abbiamo una medesima fede, uno stesso battesimo, un medesimo Padre. I nostri cuori, le nostre sostanze siano comuni per la carità: e in tal guisa la santa società, che abbiamo con Dio e in Dio con i nostri fratelli, si perfezionerà su la terra fino a che venga a consumarsi in cielo. – Noi troviamo nella santa Trinità anche il modello dei nostri doveri verso noi stessi. Tutti questi doveri hanno per scopo di ristabilire fra noi l’ordine distrutto dal peccato con sottomettere la carne allo spirito e lo spirito a Dio; in altri termini, di far rivivere in noi l’armonia e la santità che caratterizzano le tre auguste persone, e ciascuno di noi deve dire a sé  stesso: Io sono l’immagine di un Dio tre volte santo! Chi dunque sarà più nobile di me! Qual rispetto debbo io aver per me stesso! Qual timore di sfigurare in me o in altri questa immagine augusta! Qual premura a ripararla, a perfezionarla ognor più! Sì, questa sola parola, io sono l’immagine di Dio, ha inspirato maggiori virtù, impedito maggiori delitti, che non tutte le pompose massime dei filosofi. [J.-J. Gaume, Catechismo di Perseveranza]

Queste sono le feste del mese di FEBBRAIO

1 Febbraio S. Ignatii Epíscopi et Martyris    Duplex

2 Febbraio In Purificatione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis *L1*

Primo Venerdì del mese

3 Febbraio Sanctae Mariae Sabbato  –Fer. S. Blasii Epíscopi Martyris Simpl.

Primo sabato del mese

4 Febbraio Dominica in Sexagesima    Semiduplex II classis S. Andreæ Corsini 

                                                                             Epíscopi et Confessoris    Duplex

5 Febbraio S. Agathæ Virginis et Martyris    Duplex *L1*

6 Febbraio S. Titi Epíscopi et Confessoris    Duplex

7 Febbraio S. Romualdi Abbatis    Duplex

8 Febbraio S. Joannis de Matha Confessoris    Duplex

9 Febbraio S. Cyrilli Episc. Alexandrini Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

10 Febbraio S. Scholasticæ Virginis    Duplex

11 Febbraio Dominica in Quinquagesima    Semiduplex 2nd class In   

        Apparitione Beatæ Mariæ Virginis Immaculatæ  – Duplex majus

12 Febbraio Ss. Septem Fundatorum Ordinis Servorum B. M. V.    Duplex

14 Febbraio Feria IV Cinerum  – Feria privilegiata

15 Febbraio SS. Faustini et Jovitæ    Simplex

18 Febbraio Dominica I in Quadr    Semiduplex I classis

21 Febbraio Feria Quarta Quattuor Temporum Quadragesimæ    Feria privilegiata

22 Febbraio In Cathedra S. Petri Apostoli    Duplex II classis *L1*

23 Febbraio S. Petri Damiani Confessoris  Duplex  Feria Sexta Quattuor Temporum  Quadragesimæ    Feria privilegiata

24 Febbraio S. Matthiæ Apostoli    Duplex II classis *L1*Sabbato Quattuor Temporum  Quadragesimæ    Feria privilegiata

25 Febbraio Dominica II in Quadr    Semiduplex I classis

27 Febbraio S. Gabrielis a Virg. Perdolente Confessoris    Duplex

BUON ESEMPIO

BUON ESEMPIO

[E. Barbier: “I Tesoti di Cornelio Alapide”; S.E.I. Ed. Torino, 1930 – vol. I]

1. – Necessità del buon esempio. — 2. Eccellenza e vantaggio del buon esempio. — 3. Sublimi esempi di Gesù Cristo e dei Santi. — 4. Quanto sia vantaggioso il buon esempio dei superiori. — 5. Perché gli scandalosi criticano le persone edificanti. — 6. In che consiste il buon esempio. — 7. Ricompense dei buoni esempi.-
1. – Necessità del buon esempio. – S. Gregorio dice: « Insegna con autorità colui che predica prima con l’esempio, poiché non si ha confidenza in colui le cui opere contraddicono alle parole ». Pastori, padri di famiglia, maestri, magistrati, padroni, superiori, che forza avranno le lezioni, gli avvisi, le correzioni vostre, se mentre insegnate agli altri, non riformate voi medesimi? (Rom. II, 21). « Parlar bene e viver male è forse altra cosa, dice S. Prospero, che condannarsi di propria bocca? ». E S. Bernardo soggiunge: « Cosa mostruosa è l’accoppiare un’alta posizione ad una vita vituperosa; una bocca eloquente a mani oziose; molte parole a poco frutto; un volto grave ad un operare leggero; una grande autorità ad uno spirito incostante; una faccia seria ad una lingua frivola ». Chi insegna e non fa ciò che insegna, veniva dall’abbate Pastore (Vit. Pat.) rassomigliato ad un pozzo che fornisce acqua a chi ne vuole, che lava le immondezze, e non può purificare se medesimo. È ancora simile alle pietre che lungo le strade indicano ai viaggiatori il cammino che devono seguire ed esse intanto se ne rimangono sempre fisse al loro luogo: « Bisogna, secondo l’avviso di S. Paolo, che noi rinunciamo alle opere delle tenebre, e ci vestiamo delle armi della luce » (Rom. XIII, 12) : « poiché siamo fatti spettacolo agli occhi del mondo, degli Angeli, degli uomini » (I Cor. IV, 9). « Noi siamo debitori, scrive S. Bernardo, del buon esempio verso il prossimo, e della buona coscienza verso noi medesimi ». La stessa cosa già inculcava S. Paolo ai Tessalonicesi, esortandoli a camminare per la via del bene per edificare coloro che erano tuttora fuori della Chiesa (1 Thess. IV, 12). E scrivendo agli Ebrei, insiste che si esortino vicendevolmente al bene finché dura quello che la Scrittura chiama, Giorno d’oggi, affinché non avvenga che alcuno sedotto dal peccato dello scandalo, rimanga indurato nella seduzione della colpa (Hebr. IlI, 13). Bisogna predicare Gesù Crocifisso più con l’esempio che con le parole. Viviamo di buone opere, perchè invano possederemmo la terra, se non la coltivassimo; essa non ci porterebbe frutto. « Comandiamo con l’esempio, dice S. Atanasio, e persuadiamo con la lingua ». « Quando le nuvole sono piene, scaricano piogge su la terra », leggiamo nell’Ecclesiaste (Eccle. XI, 3). Queste nuvole figurano gli uomini che non cessano di dare buon esempio. Fecondati dalla grazia del Signore, essi fanno il bene, spandono la vita sul loro cammino, mitigano l’ardore delle passioni, irrorano le anime aride e fanno loro produrre frutti abbondanti ed eccellenti di vita. « Chi ha l’ufficio di ammaestrare e guidare ed educare alla virtù i popoli, deve mostrarsi santo in tutto, ed in nulla riprensibile. Infatti chi ha da biasimare i peccati altrui, dev’essere senza macchia; perciò lasci d’insegnare il bene, colui che non si cura di praticarlo ». Anzi v’ha ben di peggio per questo tale; perché, come bene osserva S. Giovanni Crisostomo, « malamente vivendo egli indica, per così dire, a Dio il modo con cui deve condannarlo. Severo giudizio toccherà a colui che si studia di parlare bene, ma non pensa a viver bene. Comandare e non eseguire è un atteggiarsi a ipocrita e buffone. Dio ci ha scelti perchè risplendessimo: noi dobbiamo essere modelli. Sia lo splendore della nostra vita una pubblica scuola ed esemplare d’ogni genere di virtù ». Chi non pratica le cose che va insegnando, non è utile agli altri; anzi nuoce loro e condanna se stesso, perché, come dice la Scrittura, il Signore ha imposto a ogni uomo il dovere di procurare la salute del prossimo col buon esempio (Eccli. XVII, 12).» Bisogna che la pubblica stima renda testimonianza delle nostre azioni», dice S. Ambrogio; perché, come soggiunge S. Tommaso, « non si può a meno che disprezzare le parole di colui che ha costumi spregevoli ». Quindi S. Agostino esclama: « O voi che siete cristiani, date al prossimo degli esempi che diano la vita non la morte ».
2.- Eccellenza e vantaggio del buon esempio. — Su quelle parole del Cantico: «Io sono il fiore dei campi ed il giglio delle valli» S. Bernardo lasciò scritto: « Anche i costumi hanno i loro colori e i loro odori : il colore agli occhi della coscienza, l’odore nella fama. Il colore viene all’opera tua dalla bontà e dalla purità d’intenzione, l’odore dall’esempio di modestia e di virtù. Il giusto è in sè un giglio candido, e per il prossimo, un giglio odoroso ». Che cosa è la rosa? è la grazia della primavera: Che cosa è il buon esempio? la grazia della virtù, o, come lo chiama S. Paolo, « una parola di vita che mena alla gloria » (Philipp. II, 16). Dagli atti del corpo si conosce l’anima: i movimenti dell’uno sono la voce dell’altra. Col buon esempio si stimolano coloro coi quali si vive, a vigilare sul loro esteriore ed interiore; su gli occhi, su la lingua, su le orecchie, su le mani, sui piedi, su la mente, sul cuor loro. L’uomo che edifica gli altri col suo esempio è, al dire di S. Bernardo, un serbatoio riboccante, un canale che mena in abbondanza le acque della virtù (Serm. in Cantic.). Ed il pagano Seneca già notava nelle sue Lettere che « breve ed attraente è la strada dell’esempio, lunga e disgustosa quella dell’insegnamento ». Nulla può paragonarsi al modello che offre il cristiano virtuoso. A lui ci è lecito applicare quel detto del real Profeta a Dio: «Nella vostra luce noi vedremo la luce » (Psalm. XXXV, 10); infatti alla luce dei buoni esempi l’uomo scorge la bellezza della virtù e si sente stimolato a praticarla. Può dirsi del buon esempio che, a somiglianza di Gesù Cristo, esso rischiara ogni persona che viene in questo mondo; e di colui, che coi buoni esempi esala il profumo delle virtù, si può ripetere ch’egli è la via, la verità, la vita. Come del sole il quale diffonde nel suo corso per ogni dove torrenti di luce (Eccle. I, 6), il buon esempio risplende di meravigliosa bellezza, riscalda, feconda, vivifica tutto ciò che avvicina: è, come dice il Crisostomo, un’argomentazione a cui non si può contrastare. Quindi S. Gerolamo vede nella vita dei Santi una interpretazione chiara e incontrastabile delle Scritture sante. Tertulliano chiama il cristiano, un compendio del Vangelo; e S. Gregorio vede un gran dottore in colui che splende di molta santità p. La luce che spandono i giusti riempie di gioia il cuore (Prov. XIII, 3) e sgomina e atterra il demonio, il mondo, le passioni, perché le tenebre non possono sostenere la luce, dice S. Bernardo. Gedeone nascose delle lampade in vasi di creta, ma all’ora del combattimento rompe i vasi, e con la luce che improvvisamente risplende, spaventa il nemico, lo vince e lo mette in fuga. Le sorgenti d’acqua viva zampillano continuamente per dissetare e rinfrescare quelli che se ne vogliono giovare; ma se alcuno non vuole approfittarne, non lasciano perciò di scaturire. Il medesimo avviene del buon esempio… Il Concilio di Trento chiama il buon esempio una specie di predicazione continua; e S. Agostino dice che « la vita del cristiano ha da essere una predica di salute, perché i buoni esempi mandano fuori una voce più sonora e più potente che qualunque tromba ». E Gesù Cristo disse: «Risplenda la luce vostra in faccia agli uomini, sì, che essi vedano le vostre buone opere e diano gloria al Padre vostro che è ne’ Cieli » (Matth. V, 16), Il buon esempio dissipa le tenebre, apporta viva luce, traccia la retta strada. La virtù e le buone opere sono chiamate luce, 1° perché sono nate per la luce divina e illuminano gli uomini; 2° perché hanno origine da Dio, vera luce. Il buon esempio, dice S. Paolo, apporta la pace e la felicità e a chi lo dà e a chi lo riceve (Philem. 7) : trae a conoscere, amare, servire e glorificare Dio, soggiunge S. Pietro (1 Petr. II, 12). Per il buon esempio si osservano, si fanno osservare i comandamenti divini, aggiunge la Sapienza, e quindi l’uomo conserva se stesso e gli altri, illesi da ogni male (Sap. XIX, 6).
3.- Sublimi esempi di Gesù Cristo e dei Santi. — Gesù Cristo ha dato, in ogni istante della sua vita, al mondo intero i più sublimi esempi d’ogni genere di virtù; perciò l’Apostolo ci sprona a rivestirci di Gesù Cristo (Rom. XIII, 14). Gesù Cristo è nostra forza, nostra vita, nostro sposo, nostro cibo, nostra bevanda, nostro padrone e padre e fratello, nostro coerede e nostra eredità, nostra dimora ed ospite ed amico, nostro medico e medicina, nostra salute, ricchezza, luce e gloria, il sacerdote per antonomasia, la sorgente della grazia, della vita e della verità (Ioann. XIV, 6); sorgente da cui scaturisce l’abbondanza delle acque divine che dissetano le anime dei fedeli; visita la terra, l’innaffia e la feconda. Imitiamolo con una santa vita, così che possiamo ripetere, con S. Paolo, a chi ci vede: « Siate imitatori miei, come io lo sono di Cristo » (I Cor. XI, 1). Inspiriamoci agli esempi del Redentore e saremo di edificazione al nostro prossimo. « Teniamo fisso lo sguardo, dice l’Apostolo, nell’autore della nostra fede » (Hebr. XII, 2). « Gesù Cristo cominciò a fare, poi a insegnare », ci dicono gli Atti Apostolici (Act. I, 1). Così deve regolarsi il cristiano affinché ognuno si specchi in lui con piacere, desideri stargli dappresso, intenderlo, imitarlo, ed affinché gli uomini, vedendolo, credano di vedere un altro Gesù Cristo. Il cristiano è degno di questo nome, a misura che imita e presenta in sè Gesù Cristo; fuori di questo, il nome che porta è una parola vana… Il Redentore attestò di S. Giovanni Battista, che egli era « una lampada ardente e splendida » (Ioann. V, 35). E S. Bernardo fa la seguente osservazione : Vana cosa è il risplendere solamente, ma nulla il solamente ardere; ma ardere e risplendere insieme è la perfezione. S. Giovanni Battista era una lampada ardente e splendente; e non prima splendente poi ardente, ma prima ardente e poi splendente. La sua luce proveniva dal fervore che l’infiammava, e non già il fervore nasceva dalla luce che diffondeva. Per ciò vanità ed errore è il brillare per io splendore dell’ingegno, ed intanto essere privo del fuoco della pietà. S. Gregorio Nazianzeno dice di S. Basilio, che la parola di lui era tuono, perchè la sua vita era folgore ». I Santi spandono il buon odore di Gesù Cristo; e questo è « odore di vita che risuscita i popoli », come si esprime S. Paolo (lI Cor. II, 15-16). Più si pestano gli aromi, e più spandono all’intorno grato odore; così, più Gesù Cristo, gli Apostoli, i Martiri, i Confessori, e tutti i Santi furono pigiati e pesti dalle tribolazioni e dalle persecuzioni, più abbondante sparsero il soave e divino odore del buon esempio e d’ogni virtù. Ad imitazione del grande Apostolo, tutti i Santi hanno fatto il bene non solamente innanzi a Dio e per Iddio, ma ancora in faccia agli uomini e per la salvezza loro (Il Cor. VIII, 21). S. Bernardo racconta del santo vescovo Malachia, che non muoveva membra senza che lo spingesse una ragione, e mirasse all’edificazione del prossimo. S. Luciano, prete e martire, convertì un gran numero di pagani con la modestia, serenità e pietà del suo sguardo. E di lui si narra, come essendo venuto alle orecchie dell’imperatore Massimiano per relazione di parecchie persone, che il volto suo inspirava tanto rispetto ed amore, che se egli l’avesse veduto si sarebbe fatto cristiano, gli fece velare il capo, per timore che quella vista convertisse lui e gli assistenti (Babon. Ann.). Udite S. Gregorio: In Abele contemplate uno specchio d’innocenza, in Enoch un modello di purità d’intenzione. Noè ci stimola col suo esempio a perseverare e non lasciarci mai cadere di speranza; Abramo ci addita fin dove deve spingersi la nostra obbedienza; Giobbe ci insegna la costanza nelle traversie; Mosè quale dev’essere la dolcezza e la mansuetudine. Così i Santi splendono, come stelle nel firmamento, per illuminarci e additarci la via delle buone opere, che è quella del Cielo. Quanti Santi Dio ha fatto, altrettanti astri splendenti ha creato per fugare le tenebre che avviluppano i peccatori (Lib. moral). Dopo ciò s’intende il senso di quelle parole di S. Paolo agli Ebrei: « Poiché siamo circondati da così gran numero di testimoni, liberiamoci di tutto ciò che ci pesa, spezziamo i legami del peccato, e corriamo mediante la pazienza, nell’arena che ci sta aperta dinanzi» (Hebr. XII, 1). Chi aspira alla santità, consideri la vita dei Santi, imiti i loro esempi, attinga al fuoco ed alla smagliante chiarezza di questi astri divini la luce dello spirito e la fiamma del cuore. A imitazione de’ Santi il cristiano procura, come dice S. Gregorio, di difendere con le parole il suo modo di vivere, e di far parere belle, con l’esempio della vita, le sue parole, non guardando in tutto questo alla sua gloria, ma a quella di Dio e alla salute del prossimo; e appunto perchè mira soltanto a questo doppio scopo, la gloria gli tien dietro e lo circonda, come dice S. Gerolamo di Santa Paola: Ella fuggiva la gloria, e la gloria la seguiva… «La vita del giusto, leggiamo ne’ Proverbi, somiglia al sole nascente il quale s’avanza e cresce fino alla pienezza del giorno » (Prov IV, 18). « Il cristiano persuade ancora prima di parlare, soggiunge il Crisostomo, a quel modo che lo splendore del sole fuga le tenebre al primo suo spuntare sull’orizzonte ». « I giusti sono gli angeli della terra, sono divinità provviste di corpo… L’occhio di Dio li contempla amoroso, dice l’Eaclesiastico, li esalta a misura che s’abbassano : e molti, dopo di averli osservati, cominciarono a onorare Dio » (Eccli. XI, 13). Il Papa Clemente VI nota, ad elogio di S. Tommaso d’Aquino, come egli fosse l’esemplare d’ogni virtù, perché ogni suo membro dava un insegnamento particolare : gli si leggeva la semplicità negli occhi, la bontà sul viso, l’umiltà nel suo modo di ascoltare; aveva la sobrietà nel gusto, la verità nella bocca; tutto all’intorno spandeva un profumo di virtù; irreprensibili ne erano le azioni, liberale la mano, grave il portamento, riserbato e grazioso il tratto, pietoso il cuore, splendido e acuto l’ingegno. La sua bontà era affettuosa, l’anima santa e ardente di carità. Fu, in una parola, il ritratto del cristiano esemplare, l’immagine vivente della virtù. S. Bernardo dice di S. Andrea apostolo, che « su la croce predicava Gesù Cristo crocefisso »; e Tertulliano, parlando dei primi cristiani, afferma che « coprivano di vergogna il vizio, con la sola loro presenza ».
4. – Quanto sia vantaggioso il buon esempio dei superiori. — Del Centurione sta scritto nel Vangelo, che credette lui e tutta la sua famiglia (Ioann. IV, 53). « L’anima mia, cantava il Salmista, servirà Dio e i miei posteri m’imiteranno » (Psalm. XXI, 31). Un pastore, un re, un magistrato, un padre di famiglia, un padrone, ecc. che danno buon esempio, procurano la gloria di Dio…, il trionfo della religione… la salute delle anime…; vedete Costantino…, Carlomagno…, S. Luigi.,. Portatevi a quella casa governata da un padre, da una madre edificanti… Che ordine, regolarità, felicità, ecc. Quanto disastrose non sono, al contrario, le conseguenze del cattivo esempio!
5. Perché gli scandalosi criticano le persone edificanti. — « Non vi prenda meraviglia, o fratelli, diceva S. Giovanni, se il mondo vi odia » (I Ioann. III, 13). Cinque sono i motivi che spingono i malvagi a criticare e condannare le persone edificanti. Il primo è la dissomiglianza de’ costumi; perchè se la somiglianza inclina all’amore, la difformità induce all’odio. II secondo è l’invidia… Il terzo è il dispetto che provano i mondani, vedendo i cristiani separarsi da loro e fuggire la loro compagnia. Il quarto è che non possono sostenere i rimproveri delle persone virtuose, poiché queste, con la loro vita, sono una severa condanna della malvagia condotta. Il quinto sta nell’opposizione che esiste tra i figli del secolo ed i santi; quelli son gonfi d’amor proprio, questi non si muovono che per amor di Dio.
6. In che consiste il buon esempio. — La perfezione del buon esempio si trova in quella esortazione di S. Paolo ai Romani: «Vestitevi di Gesù Cristo » (Rom. XIII, 14); e vestirsi di Gesù Cristo vuol dire, insegna il Crisostomo, rappresentare Gesù Cristo in tutte le nostre azioni con la santità e la mansuetudine (Homil. ad pop.). Sia dunque il cristiano un ritratto fedele, una viva immagine di Gesù Cristo; è questo per lui un sacro dovere solennemente contratto al fonte battesimale : là egli si è obbligato a rappresentare Gesù Cristo nella sua vita, nelle sue opere, nel suo esteriore, in tutto se stesso insomma. È cosa certa che tutti i cristiani dovrebbero essere altrettanti Cristi per l’imitazione e l’esempio; poiché ci avverte S. Gerolamo : « dover la vita e la conversazione del cristiano essere ordinata in modo che ne’ suoi gesti, nei portamenti, nelle azioni tutte traspiri la grazia celeste ». « Fate ogni cosa senza mormorazioni né dispute, scriveva il grande Apostolo ai Filippesi; affinché siate irreprensibili e sinceri figli di Dio, scevri di colpa in mezzo ad una nazione prava e perversa tra cui risplendete come luminari nel mondo, portando la parola di virtù » (Philipp. II, 14-16). S. Ambrogio così commenta queste parole: L’Apostolo avverte i cristiani e loro intima che ricordino la loro professione e vi corrispondano, affinché splendano tra gli increduli, come il sole e la luna in mezzo alle stelle, e servano con la vita, con le parole, con i costumi, di modello a chi li guarda (In Epl. ad Philipp.). «L’Apostolo, dice il Crisostomo, esorta i cristiani a gettare luce e splendore nelle tenebre del secolo, come altrettanti astri ». « Vuole, soggiunge S. Anseimo, che siano astri i quali, fissi nel Cielo, non sono punto solleciti di quello che avviene su la terra, ma intendono unicamente a compiere il loro corso e a illuminare il mondo ». Noi dobbiamo essere fari che rischiarano e guidano al porto i navigatori erranti nella notte e fra le tempestose vicende del mondo aiutarli ad evitare il naufragio e a tener la prora volta alla città santa: dobbiamo somigliare a quella donna dell’Apocalisse, immagine della Beata Vergine e della Chiesa, la quale è vestita di sole con la luna sotto i piedi ed una corona di dodici stelle attorno il capo (Apoc. XII, 1). Sia calma la voce, modesto il portamento, decente l’atteggiamento, circospetto il tratto, dimesso lo sguardo, la mente nutrita di buoni pensieri, l’anima al Cielo. Imitiamo i Tessalonicesi a cui lode S. Paolo scriveva: « Voi siete stati esempio a tutti i credenti nella Macedonia e nell’Acaia. Poiché da voi si divulgò la parola di Dio non solamente per la Macedonia e l’Acaia, ma di più per ogni luogo si propagò la fede che voi avete in Dio, tanto che non occorre che ne parliamo… Tutti raccontano il buon successo da noi ottenuto in mezzo a voi, e come vi convertiste dagli idoli a servire il Dio vivo e vero e ad aspettare il Figliuolo di lui dal Cielo (cui Egli risuscitò da morte), Gesù, il quale ci sottrasse all’ira che è per venire » (I Thess. I, 7-10). Dei Romani il medesimo Apostolo attestava che la loro fede era celebre su la bocca di tutto il mondo (Rom. I, 8); esortava il discepolo Timoteo ad essere esempio di carità, di fede, di castità ai fedeli, nei discorsi e nel tratto (I Tim. IV, 12); e animava gli Ebrei a vigilarsi vicendevolmente per provocarsi alla carità e alle buone opere (Hebr. X, 24). Finalmente suggeriva a Tito che si mostrasse modello di buone opere in tutto, con la dottrina, con la purità dei costumi, con la gravità (Tit. II, 7). Anche Socrate ordinava a’ suoi discepoli di acquistare e praticare queste tre virtù: 1° la prudenza; 2° il silenzio; 3° la modestia (Anton, in Meliss.). Quando per la prima volta si trattò di scegliere e stabilire de’ diaconi, gli Apostoli ammonirono i fedeli che cercassero e scegliessero di mezzo a loro sette persone d’integra fama, piene di Spirito Santo e di prudenza (Act. IV, 3). Il buon esempio richiede che noi viviamo in qualche modo come S. Bernardo il quale così ci fu dipinto da uno storico : La serenità brillava sul suo viso, la modestia regolava il suo portamento, la più consumata prudenza informava le sue parole: cauto nelle imprese, assiduo nell’orazione, pio nella meditazione, grande nella fede, fermo nella speranza, infiammato di carità, egli portava come speciale contrassegno un’umiltà profonda ed una pietà tenerissima. Prudente nei consigli, utile negli affari, lieto tra gli insulti, sempre pronto a far servigi, di costumi soavissimi, santo per i suoi meriti, egli era pieno di saggezza, di virtù e di grazia presso Dio e presso gli uomini. « Bisogna, dice S. Agostino, che gli adoratori e servi di Dio siano così mansueti, gravi, prudenti, pii, irreprensibili, immacolati, che chiunque li incontri li ammiri, e dica: Costoro son tutti dei ». Non per gli ornamenti del corpo, ma per quelli dell’anima, che sono la modestia e l’innocenza, noi dobbiamo distinguerci. A proposito di quella sentenza di Gesù Cristo, « portate nelle vostre mani lampade ardenti» (Luc. XII, 35), S. Gregorio scrive: « Noi abbiamo in mano lampade ardenti, quando per mezzo di buone azioni porgiamo agli altri luminosi esempi ». Udite ancóra S. Giovanni Crisostomo e S. Martino, il primo de’ quali ci dice che, « bisogna condurre una vita incolpata, affinché chi ci osserva, veda in noi e nella vita nostra uno specchio tersissimo. Potremmo quasi far a meno delle parole, se la nostra vita splendesse di santità ». Il secondo poi vorrebbe che dalla bocca nostra non uscissero che parole di pace, di castità, di carità, di religione; che il mondo vi trovasse ben di rado eco, e spesso vi risuonasse Cristo. Si possono anche applicare ai laici quelle prescrizioni che indirizzava al Clero il Concilio di Trento: «E assolutamente necessario che i chierici, chiamati al servizio del Signore, regolino così rettamente la vita ed i costumi loro, che e nel vestire, e nel trattare, tutto in essi spiri gravità, compostezza, religiosità, affinché quanti li osservano si sentano attratti dalle loro azioni a venerarli ».
7. Ricompense dei buoni esempi. — « Quelli che hanno la scienza, leggiamo in Daniele, rifulgeranno come la luce del firmamento, e quelli che insegnano a molti la giustizia, risplenderanno come stelle per tutta l’eternità» (Dan. XII, 3). Ora, il segno più incontrastabile e chiaro della vera scienza, ed il miglior mezzo d’istruire, consiste nel menare una vita esemplare… Per il buon esempio noi otteniamo quaggiù la pace, la grazia, una buona morte, e, nell’altro mondo, una felicità imperitura.

L’AGONIA DI GESU’: PRIMO VENERDI’ di Quaresima

[p. Umberto Banci: L’AGONIA DI GESU’, Libr. Pontif. F. Pustet Roma – 1935, impr.]

PRIMO VENERDÌ DI QUARESIMA

In nomine Patris et Filli et Spiritus Sancti. Amen.

Actiones nostras, quæsumus  Domine, adspirando præveni et adiavando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a Te semper incipiat et per Te cœpta finiatur. Per ChrIstum Dominum nostrum. Amen.

[Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia. Inspira, o Signore, le nostre azioni ed accompagnale col tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera e opera da Te sempre incominci e col tuo aiuto sempre si compia. Per Cristo nostro Signore. Così sia.]

INVITO

Già trafitto in duro legno/Dall’indegno popol rio

La grand’alma un Uomo Dio, / Va sul Golgota a spirar.

Voi, che a Lui fedeli siete, /Non perdete, o Dio, i momenti

Di Gesù gli ultimi accenti /Deh! venite ad ascoltar.

 PRIMA PAROLA DI GESÙ IN CROCE

Pater, dimitte ìllis, non enim sciunt quid faciunt.

[Padre, perdona loro, perché non sanno quel che fanno.]

(LUCA, cap. XXIII, v. 34).

CONSIDERAZIONE

Era quasi l’ora sesta del venerdì precedente la solennità della Pasqua ebraica, quando sul Calvario, alla vista del popolo ivi accorso, fu alzata la croce, dalla quale pendeva inchiodato Gesù. Nel tempio di Gerusalemme, invitato dallo squillo delle sacre trombe, si andava raccogliendo il popolo per l’uccisione dell’agnello. Ma è ormai giunto il momento che alla figura debba succedere la realtà, ed ecco che sul Calvario si immola il vero Agnello immacolato, venuto a togliere i peccati del mondo. E poiché durante la sua suprema immolazione fa udire ancora la sua voce, tu, anima cristiana, in questo, come negli altri venerdì della santa Quaresima, sacri in modo particolare all’agonia di Gesù, fatti un dovere di raccoglierti alcuni istanti ai piedi di quella croce dalla quale salla quale l’umanità del Salvatore, salterio vivente, fece udire i suoi ultimi canti. È cosa buona per noi lo star qui, aveva esclamato Pietro sul monte Tabor, rapito in estasi meravigliosa dinanzi a Gesù raggiante di splendore divino. Ma il Calvario, o anima cristiana, è per te più utile che non sia il Tabor; perché quella croce è stata e sarà sempre per l’umanità un libro divino nel quale noi impariamo a conoscere la grandezza e la miseria dell’uomo; una cattedra nello stesso tempo lugubre e gloriosa, che ci rivela il grande e profondo mistero del dolore cristiano ». Sì, anima cristiana, è cosa buona per te lo star qui, sul Calvario, dinanzi a Gesù trasfigurato dal dolore; quelle ultime parole, che tu udrai uscire dal suo labbro, compendiano, in una sintesi meravigliosa, la sua celeste dottrina. Loquere Domine digli dunque col giovanetto Samuele: « Parla pure, o Signore, poiché ecco il tuo servo sta qui ad ascoltarti ». [I Re, III, 10]

Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.

Gesù che fino allora, pur dinanzi a tante ingiustizie e straziato da tanti tormenti, aveva conservato un dignitoso silenzio, appena salito sulla croce apre le labbra ed incomincia a parlare. Era una cosa frequente che il crocifisso, in preda agli spasimi ed al delirio di una febbre cocentissima, con insulti e maledizioni sfogasse sui suoi carnefici la sua rabbia disperata ed impotente. Ma Gesù non impreca, non maledice; le sue prime parole sono una preghiera, che rivolge al Padre suo. E per chi prega Gesù? Lì ai suoi piedi, addolorate e piangenti, stanno raccolte le pie donne; vi è S. Giovanni, il discepolo prediletto, vi è Maria Santissima, la Madre addolorata, dal cui volto traspare il cordoglio che tormenta il suo cuore. Ma non è per loro che prega Gesù; anzi sembra nemmeno accorgersi della loro presenza. Sai a chi pensa Gesù in quel momento? A coloro che fino allora invano aveva cercato di raccogliere sotto le ali della sua misericordia; a coloro che col più orrendo dei delitti stanno ora provocando la divina giustizia. Non aveva Egli detto di essere disceso dal cielo non già per i giusti, bensì per i peccatori? Non è Egli il medico celeste che va in cerca dei malati, il pastore buono che lascia nel deserto le novantanove pecorelle, che sono al sicuro, per andare in cerca della pecorella smarrita? Dunque per i peccatori sono le sue preferenze, per i suoi nemici è la sua preghiera. E guarda in quale stato essi lo hanno ridotto! Il suo corpo porta i segni del loro odio; ha la testa coronata di spine, i capelli sparsi, annodati da grumi di sangue, il volto gonfio di lividure e solcato di lacrime e di sangue, le mani ed i piedi squarciati dai chiodi, le spalle ed il petto lacerati dai flagelli. Si è avverato alla lettera quanto aveva predetto il Profeta: Dalla pianta dei piedi fino alla sommità del capo noti è in Lui sanità, ma ferite, lividure, piaghe sanguinanti [Is. I, 6]. Guarda ora Intorno: a destra ed a sinistra di Gesù due famosi ladri si contorcono negli spasimi di uno stesso supplizio; sono stati messi lì perché il ricordo delle loro scelleratezze gettasse un’ombra d’infamia su Gesù, già tanto vilipeso ed infamato. Ed i suoi nemici sono lì, confusi tra la folla dei soliti sfaccendati, che la curiosità ha spinto sul Calvario; sono venuti a godersi i trionfi della loro perfidia. E mentre i crocifissori, indifferenti a quella scena di dolore, sono intenti a dividersi tra loro le spoglie dei crocifissi, essi, implacabili nel loro odio, hanno per la loro vittima parole di scherno e di bestemmia. Vah! Dicono crollando il capo, tu che distruggi il tempio di Dio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso; se sei Figliuolo di Dio scendi dalla croce. Ha salvato altri, esclamano i Principi dei Sacerdoti insieme agli Scribi ed agli Anziani, non può salvare se stesso! Se è il Cristo, re d’Israele, scenda dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio, lo liberi adesso, se gli vuol bene; imperocché ha detto: sono Figliuolo di Dio [Mt. XXVII, 42-43]. Ed i soldati ancora, offrendogli dell’aceto, soggiungono: Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso [Lc. XXIII, 37]. Così si insulta, si deride, si bestemmia Gesù, che agonizza. E nulla ti vieta di pensare che coloro, i quali trattavano così Gesù, siano i suoi beneficati, i guariti nelle anime e nei corpi! E Gesù li ode tutti questi oltraggi, che feriscono il suo cuore più che le spine ed i chiodi non strazino il suo corpo. Eppure le acque di tanta crudeltà non riescono ad estinguere l’amoroso incendio della sua carità; che anzi, prodigio ineffabile dell’amore di Dio, tanto più esso si accende, quanto più l’umana perfidia si ostina nell’ingratitudine. E prima che la voce del suo sangue, ben più innocente del sangue di Abele, gridi dalla terra al cielo, ed il Padre adirato segni in fronte ai fratricidi il marchio della sua maledizione, non appena il tremito convulso, che al momento della crocifissione dovette invadere tutto il suo corpo, gli permette di parlare, Egli, che già in cuor suo aveva perdonati tutti i suoi nemici, si affretta a sollecitare per loro anche il perdono del Padre suo: Padre, perdona loro. Ed affinché la sua domanda non sia respinta dalla divina giustizia ormai troppo offesa, li scusa nel miglior modo che può, adducendo la loro ignoranza: perché non sanno quello che fanno!

* * *

Quale sublime lezione per te, anima cristiana, per te che non sai perdonare una piccola offesa; che serbi rancore per ogni piccolo torto ricevuto. Pensa, anima cristiana, che non sarai mai degna di Gesù se di cuore tu non perdoni. Ed hai tanto bisogno della misericordia del Signore! E Gesù, asceso al cielo, sta sempre dinanzi al Padre suo, come dice l’Apostolo S. Paolo, ad interpellare per Noi [Ebr. VII, 25], a ripetere per te la sublime preghiera: Padre, perdona. Ma rileggi qui le parole di Gesù; esse ti diranno a quale condizione potrai ottenere il perdono. Se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno altrettanto forse i pubblicani? E se salutate solo i vostri fratelli, che fate di speciale? Non fanno pure così anche i gentili? Ma io vi dico: amateli i vostri nemici; fate del bette a coloro che vi odiano e pregate per coloro che vi perseguitano e calunniano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli [Mt. V, 44 e segg.]. E con queste parole, comprendilo bene, anima cristiana, Gesù non ti ha voluto suggerire un consiglio, ma ti ha voluto imporre un precetto. E forse questo il più grande dei suoi precetti, ma è una conseguenza necessaria di quella carità che è a fondamento della nuova legge; ed è diretto a colpire in te lo spirito di vendetta, l’odio, il risentimento; a distruggere ciò che in te vi è di umano per elevarti fino a Dio, il quale non è che carità: Deus caritas est! E dall’osservanza di questo precetto dipende la tua salvezza, perché sta scritto: Perdonate, e vi sarà perdonato. Ed affinché questo comando non ti cadesse di mente, ha voluto rammentartelo ogni qualvolta reciti la preghiera, che Lui stesso ti ha insegnata: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Né le tue offerte saranno a Dio gradite, né le tue preghiere saranno da Lui ascoltate quando non sei in pace col tuo prossimo. Se stai per fare l’offerta all’altare e ti sovviene che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, deponi la tua offerta davanti all’altare, e va a riconciliarti col tuo fratello e poi ritorna a fare la tua offerta [Mt. V, 23] … perché se perdonate agli uomini le loro mancanze, il Padre vostro celeste vi perdonerà i vostri peccati; ma se non perdonate agli uomini, nemmeno il Padre vostro perdonerà a voi le vostre mancanze giacché: Sarà misurato a voi con la stessa misura, con la quale avrete misurato [ Lc. VI, 38]. E prima di morire volle, col suo esempio, dare dalla croce a questo insegnamento la più autorevole conferma. L’hai proprio ora ascoltata la sublime preghiera: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno. Ti è difficile, anima cristiana, perdonare le offese, e più difficile ancora è per te amare i tuoi nemici? Ma Gesù non ha forse detto: Chi vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua? [Mt. XVI, 24]. Risolviti dunque a rinnegare questa natura guasta dal peccato; impegnati a soffocare i naturali risentimenti ed a maturare nel tuo cuore il sentimento del più generoso perdono, ed allora soltanto sarai degno di Gesù. Chi non porta la sua croce e così mi segue, non può essere mio discepolo [Lc. XIV, 27]. In alto dunque il cuore, sollevalo alle sublimi altezze della carità cristiana; prendila questa croce e guarda a Gesù; il suo esempio te ne renderà leggero il peso.

Breve pausa, poi si reciti la seguente:

PREGHIERA

O Gesù mio amabilissimo, ammiro e benedico la vostra carità infinita che lungi dal raffreddarsi rende sempre di nuovo ardore dinanzi all’ingratitudine nostra. No, non è col discendere dalla croce che potevate dimostrarmi la vostra divinità; la prova migliore me l’avete data con la vostra preghiera, perché solo un Uomo-Dio poteva pregare come avete pregato Voi. E quanto dovrei confondermi, o mio Salvatore, al pensiero che quando sulla croce invocaste il perdono sui vostri nemici, anch’io ero presente al vostro sguardo, perché purtroppo anche su di me si sono tante volte avverate le parole dell’Apostolo: Hanno crocifisso nuovamente in se stessi il Figliuolo di Dio, e lo hanno esposto all’ignominia [Ebr. VI, 6] . Vi ringrazio, o mio Salvatore, di avere anche per me implorato dal Padre vostro il vostro generoso perdono; veramente anch’io, quando vi ho offeso, oltraggiandovi e bestemmiandovi, non sapevo davvero che cosa mi facessi. E poiché so che Voi, o mio Gesù, non vi contentate di sole parole, vi offro tutte quelle pene che il mio prossimo mi cagiona, depongo qui ai piedi vostri tutti i miei risentimenti, ed in Voi e per Voi voglio amare i miei nemici; così potrò, con la certezza di essere esaudito, rivolgervi la preghiera: Dimitte nobis debita nostra; perdonatemi, o Signore, perché anch’io perdono. – O Maria Santissima, Voi che stando ai piedi della croce faceste vostri i desideri ed i sentimenti di Gesù, interponete la vostra materna intercessione presso il Divin Padre, affinché Egli, che ha sempre esaudito il suo e vostro Figlio diletto, ascolti quella voce che domanda perdono. Non guardate, o Vergine addolorata, alle mie colpe così gravi e così numerose, delle quali mi pento con tutto il cuore, ma guardate a quel sangue che anche per me è sparso; ascoltate la voce del vostro cuore materno ed allora son sicuro che non permetterete mai che sia abbandonato un figlio, sia pure indegno, ma sinceramente pentito. Così sia.

Pater, Ave e Gloria.

Di mille colpe reo,

Lo so, Signore, io sono:

Non merito perdono,

Né più il potrei sperar.

Ma senti quella voce,

Che per me prega, e poi

Lascia, Signor, se puoi,

Lascia di perdonar.

GRADI DELLA PASSIONE

1. V. Jesu dulcissime, in horto mœstus, Patrem orans,

et in agonia positus, sanguineum sudorem effundens;

miserere nobis.

R). Miserere nostri Domine, miserere nostri.

2. V. Jesu dulcissime, osculo traditoris in manus

impiorum traditus et tamquam latro captus et ligatus

et a discipulis derelictus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

3. V. Jesu dulcissime ab iniquo Iudæorum concilio

reus mortis acclamatus, ad Pilatum tamquam malefactor

ductus, ab iniquo Herode spretus et delusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

4. V . Jesu dulcissime, vestibus denudatus, et in

columna crudelissime flagellatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

5. V. Jesu dulcissime, spinis coronatus, colaphìs

cæsus, arundine percussus, facie velatus, veste purpurea

circumdatus, multipliciter derisus et opprobriis

saturatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

6. V . Jesu dulcissime, latroni Barabbæ postpositus,

a Judæis reprobatus, et ad mortem crucis injuste condemnatus;

miserere nobis.

R). Miserere etc.

7. V . Jesu dulcissime, tigno crucis oneratus, ad locum supplicii tamquam ovis ad occisionem ductus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

8. V. Jesu dulcissime, inter latrones deputatus,

blasphematus et derisus, felle et aceto potatus, et

horribilibus tormentis ab hora sexta usque ad horam

nonam in ligno cruciatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

9. V. Jesu dulcissime, in patibulo crucis, mortuiis et

coram tua sancta Matre lancea perforatus simul

sanguinem et aquam emittens; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V . Jesu dulcissime, de cruce depositus et lacrimis

mœstissimæ Virgiuis Matris tuæ perfusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V. Jesu dulcissime, plagis circumdatus, quinque

vulneribus signatus, aromatibus conditus et in

sepulcro repositus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V . Adoramus Te Christe, et benedicimus Tìbi.

R). Quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum.

OREMUS

Deus, qui prò redemptione

mundi nasci voluisti,

circumcìdì, a Judæis reprobavi

et Judæ traditore

osculo tradi, vinculis alligavi,

sic ut agnus innocens

ad victimam duci, atque

conspectibus Annæ, Caiphæ,

Pilati et Herodis

indecenter offevri, a falsis

testibus accusari, flagellis

et colaphis cædi, opprobriis

vexari, conspui, spinis

coronari, arundine percuti,

facie velari, vestibus

spoliari, cruci clavis af-

Jigi, in cruce levari, inler

latrones deputari, felle et

aceto potari et lancea vulnerari;

Tu Domine, per

has sanctissimas pœnas,

quas ego indignus recolo,

et per sanctissimam crucem

et mortem tuam libera

me a pœnis inferni et perducere

digneris quo perduxisti

latronem tecum

crucifixum. Qui cum Patre

et Spiritu Sancto vivis

et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

[1. V . O dolcissimo Gesù, triste nell’orto, al Padre con la preghiera rivolto, agonizzante e grondante sudore di sangue; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi, o Signore, abbi di noi pietà.

2. V . O dolcissimo Gesù, con un bacio tradito e nelle mani degli empi consegnato, e come un ladro preso e legato e dai discepoli abbandonato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

3. V . O Gesù dolcissimo, dall’iniquo Sinedrio giudaico reo di morte proclamato, e come malfattore a Pilato presentato, e dall’iniquo Erode disprezzato e schernito; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

4. V . O dolcissimo Gestì, delle vesti spogliato, e c rudelmente alla colonna flagellato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

5. V. O dolcissimo Gesù, di spine coronato, schiaffeggiato, con la canna percosso, bendato, di rossa veste rivestito, in tanti modi deriso e di obbrobri saziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

6. V. O dolcissimo Gesù, al ladro Barabba posposto, dai Giudei riprovato; ed alla morte di croce ingiustamente condannato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

7. V. O dolcissimo Gesù, del legno della croce gravato, e come agnello al luogo del supplizio condotto, per esservi immolato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

8. V. O dolcissimo Gesù, tra i ladroni annoverato, bestemmiato e deriso, di fiele e di aceto abbeverato, e con orribili tormenti dall’ora sesta fino all’ora nona nel legno straziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

9. V. O dolcissimo Gesù, sul patibolo della croce morto, ed alla presenza della tua santa Madre con la lancia trafitto versando insieme sangue ed acqua; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

10. V. O dolcissimo Gesù, dalla croce deposto, e dalle lacrime dell’afflittissima tua Vergine Madre bagnato;abbi di noi pietà

R). Pietà di noi ecc.

11. V. O dolcissimo Gesù, di piaghe coperto, da cinque ferite trafitto, di aromi cosparso, e nel sepolcro deposto; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

V. Ti adoriamo, o Cristo, e Ti benediciamo.

R). Poiché con la tua santa croce hai redento il mondo.

PREGHIAMO

O Dio, che per la redenzione del mondo volesti nascere, essere circonciso, dai Giudei riprovato, da Giuda traditore con un bacio tradito, da funi avvinto, come agnello innocente al sacrifizio condotto, ed in modo indegno ad Anna, Caifa, Pilato ed Erode presentato, da falsi testimoni accusato, con flagelli e schiaffi percosso, con obbrobri oltraggiato, sputacchiato, di spine coronato, con la canna percosso, bendato, delle vesti spogliato, alla croce con chiodi confitto, sulla croce innalzato, tra i ladroni annoverato, di fiele e di aceto abbeverato, e con la l’ancia ferito; Tu, o Signore, per queste santissime pene, che io indegno vado considerando, e per la tua croce e morte santissima, liberami dalle pene dell’inferno e, desiati condurmi dove conducesti il ladrone penitente con Te crocifisso. Tu che col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni nei secoli dei secoli. Così sia.]

CANTO DEL TEMPO DI QUARESIMA

Attende, Domine, et miserere, quia peccavìmus Tìbi.

R). Attende, Domine, et miserere, quia peccavimus Tibi.

V. Ad Te, rex summe,

omnium redemptor,

oculos nostros sublevamus

flentes; exaudi Christe,

supplicantium preces.

R). Attende etc.

2. V. Dextera Patris, lapis

angularis, via salutis,

janua cœlestis, ablue nostri

maculas delicti.

R). Attende etc.

3. V . Rogamus, Deus,

tuam majestatem, auribus

sacris gemitus exaudi; crimina

nostra placidus indulge.

R). Attende etc.

V. Tibi fatemur crimina

admìssa; contrito corde

pandimus occulta; tua, Redemptor,

pietas ignoscat.

R). Attende etc.

V. Innocens captus,

nec repugnans ductus, teslibus

falsis prò impiis damnatus,

quos re demisti Tu

conserva, Christe.

R). Attende etc.

OREMUS

Respice, quæsumus Domine,

super liane familiam

tuam, prò qua Dominus noster

Jesus Chris tus non dubitava

manibus tradì nocentium,

et Crucis subire tormentum.

Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculorum. Amen.

[R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

V. A Te, o Sommo Re, redentore universale, eleviamo i nostri occhi piangenti;  esaudisci, o Cristo, la preghiera di chi a Te si raccomanda. R). Ascolta ecc.

V. O destra del Padre, o pietra angolare, o via di salvezza, o porta del cielo, tergi le macchie del nostro peccato. R). Ascolta ecc.

V. Preghiamo, o Dio, la tua maestà, porgi le sacre orecchie ai gemiti, e perdona benigno i nostri delitti. R). Ascolta ecc.

V. A Te confessiamo i peccati commessi; con cuore contrito manifestiamo ciò che è nascosto; la tua pietà, o Redentore, ci perdoni. R). Ascolta ecc.

5. V. Imprigionato innocente, condotto non riluttante, da falsi testimoni per i peccatori condannato, Tu, o Cristo, salva coloro che hai redento. R). Ascolta ecc.

PREGHIAMO

Riguarda benigno, o Signore, a questa tua famiglia, per la quale nostro Signore Gesù Cristo non dubitò di darsi in mano ai nemici e di subire il supplizio di croce. Egli che vive e regna Teco nei secoli dei secoli. Così sia.]

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (14)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(14)

16. La verginità

Della via della perfezione io ho avuto tempo e agio solo di richiamare alcune pietre miliari; è evidente che non ho potuto richiamare tutto, e il tempo limitato non mi ha consentito di trattare argomenti di estrema importanza e pertinenti all’argomento generale. Vi parlerò ora della verginità. – Vorrei spiegare il termine perché ha un significato preciso, specifico, che qui non sarebbe usato con proprietà. Io intendo parlare non della verginità ma della castità. Però, data la bellezza del nome, dato il fascino che anche le parole esercitano, invece di usare la parola castità, lasciatemi usare la parola verginità. Il termine verginità è caratteristico, è specifico, ma è tanto bello; lasciate che me ne serva; con la dichiarazione previa, tutto va a posto. La verginità è una strada che non è stata imposta a tutti, no; è strada di elezione, e pertanto diventa figlia di una libertà umana, di un atto sovrano della persona umana che abdica a qualche cosa che potrebbe avere, che potrebbe prendere, e fa tale cosciente e libera abdicazione. Badate che è un gesto sovrano questo. I sovrani di questo mondo cessano di essere sovrani quando abdicano; ma in questo caso lo si diventa quando si abdica, ossia è esattamente il rovescio. Presentato così l’argomento, comincio a dipanarlo. Che cosa vuol dire verginità? Verginità vuol dire una netta e stagliata superiorità sul mondo, su tutto il mondo. Mi direte: A quali condizioni e perché? Prima me ne sto in campo storico, perché la storia ha sempre da parlare e parla sempre bene. È la prima e l’ultima ad aprir bocca, la storia delle faccende umane, e per questo sa che cosa dice, tanto più quando i suoi protagonisti sono taluni. Guardate bene il contegno di Nostro Signore Gesù Cristo. Nostro Signore si è diportato da uomo, ha preso tutto come noi, salvo il peccato e quello che è antecedentemente o conseguentemente connesso col peccato: pertanto Egli non ha conosciuto, come uomo, quello che è il fomite della concupiscenza. Guardate come si è diportato. Ha preso 12 Apostoli; tra questi 12 Apostoli si delinea un primato di stima e di commissione, questo indica la persona di Pietro. Dalla tradizione sappiamo che Pietro aveva moglie, e lo sappiamo anche dal Vangelo, perché Nostro Signore è andato a guarirgli la suocera. La tradizione gli ha sempre affibbiato una figlia, santa, e il ricordo di questa figlia sta nella basilica di S. Pietro, perché nella cappella di testata della navata destra, in fondo, a fare pendant con quella di S. Leone Magno, c’è la cappella di S. Petronilla. Pietro riceve certamente la prerogativa del primato di stima e di commissione da parte di Gesù Cristo; e sapete che cosa Gesù Cristo ne ha fatto di Pietro! E come si vede benissimo in tutto l’Evangelo costruirsi questo primato che più tardi, in momenti solennissimi, prima a Cesarea di Filippo e poi sul lago di Tiberiade, viene esplicitamente confermato, ponendosi con quella commissione di primato la pietra definitiva e basilare della Chiesa. – Ma aveva il primato di stima e di commissione, Pietro, non ha avuto il primato di affetto. Il primato di affetto l’ha avuto un altro, Giovanni, l’Apostolo che è rimasto intatto, l’Apostolo vergine, la figura più spirituale, la più eterea, la più trascendente di tutto il collegio apostolico. E l’Evangelo non tace questo: egli è chiamato per antonomasia « il discepolo che Gesù prediligeva ». Nell’Ultima Cena la bontà del Signore permise un episodio perché rimanesse significativo. Siamo al banchetto pasquale dell’Ultima Cena; era un banchetto festoso, ricco; Gesù aveva voluto che lo preparassero sul serio, con tutti gli intingoli imposti dal cerimoniale. Nonostante tutto questo, Giovanni, a un certo punto, gli piglia il sonno e non lo manda via, comincia a scendere, comincia ad accoccolarsi un po’ e finisce con l’andare ad appoggiarsi a Nostro Signore, il quale né lo sveglia né lo manda via, lo lascia stare fintanto che non si sveglierà da sé. Gli era vicino; essergli vicino voleva dire essere il più caro di tutti. Dall’altra parte abbiamo motivo di ritenere che ci fosse Pietro perché infatti, se qualcuno vuol sapere qualche cosa da Gesù, si rivolge a Pietro perché glielo chieda. Così c’era vicino anche lui, ma quello non si è addormentato. Gesù rimane così in questo atteggiamento verso il discepolo vergine. E questo è l’unico che ha il coraggio di seguirlo; non fugge, gli va dietro e, approfittando del fatto che la sua casa probabilmente si trovava non lontano dalla casa del Sommo Sacerdote e che era conosciuto, entra dentro. Ha avuto del coraggio, questo giovanotto, perché è andato in bocca al lupo: c’è andato ed è restato, e non gli è successo niente di male. Poi è andato a occuparsi della Vergine Madre, l’ha accompagnata, lui, al Calvario ed è rimasto, spettatore unico del collegio apostolico, sul Calvario. Gesù compì in lui il massimo atto di fiducia: gli affidò la Madre e affidò lui a sua Madre, reciprocamente. Voi sapete che in quell’episodio la tradizione ha sempre visto il genere umano affidato alle mani materne della Madre di Dio. Allora bisogna dire che Giovanni in quel momento faceva da genere umano, il discepolo che non ha mai lasciato di essere vicino al Signore. Con Pietro, Giovanni camminò verso il sepolcro, la mattina di Pasqua; camminò a gran passi, a sbalzelloni. Ci arrivò prima di Pietro e, arrivato là, esitò e rimase fuori, aspettò che arrivasse Pietro, che giunse con passo più pacato ed entrò per il primo. L’altro gli andò dietro. Sul lago di Genezaret Giovanni ha sempre il suo ruolo di discepolo che Gesù prediligeva. Quando quella mattina avvenne l’incontro con il Signore, dopo la Risurrezione, secondo l’appuntamento dato da Gesù, gli Apostoli stavano a pescare sul lago e nella bruma mattutina videro un’ombra sulla spiaggia. Chi sarà? È stato lui, Giovanni, con la intuizione del discepolo affezionato e vergine, a riconoscerlo: « Dominus est ». Pietro, quando sente dire questo, non capisce più niente, si getta a nuoto per arrivare; ma chi l’ha conosciuto è Giovanni. Dopo un po’, giunti a terra, Pietro si sente intonare una musica che sembra non gli sia andata molto a genio, perché Gesù molto bonariamente gli fa fare la ritrattazione della triplice negazione. Prima domanda: « Pietro, mi ami tu? ». « Signore, sì che ti amo ». « Pietro, mi ami tu? ». « Sì che ti amo ». « Pietro, mi ami tu veramente? ». E quello s’impressiona, capisce che c’è un ritmo di rispondenza; tre volte l’aveva rinnegato, e capisce, tre volte deve ritrattare. « Ma Signore, tu lo sai che io ti amo ». Va bene allora. Come per dire: quello che è successo non ha rotto niente. E viene la riconferma: « Pietro, pasci i miei agnelli; pasci le mie pecorelle ». Sii il pastore dei miei agnelli e delle mie pecorelle, di tutto il gregge. E poi subito dopo, così per dosare le cose, perché quello non si mettesse troppo su, gli annunciò come sarebbe morto. Ho già avuto occasione di ricordare questa faccenda. Quella non gli andava tanto a genio al povero Pietro, e ce ne accorgiamo da questo particolare, particolare minimo ma espressivo in sommo grado. Dietro, mentre passeggiavano, veniva Giovanni. Pietro non era molto soddisfatto, si vede, e avrà pensato: almeno fossimo in due ad avere questo guaio! Si volta e vede Giovanni e chiede: « E costui? ». Sperava che Gesù dicesse: lo prenderanno, lo squarteranno, sta tranquillo, così sarete in due. No, no, Gesù dice: « E se Io voglio che costui rimanga fintanto che Io ritornerò, a te che importa? ». Non gli dà la soddisfazione. Pietro non ne parlò più. Questa frase però l’hanno raccolta gli altri, e Giovanni se la sentì ripetere tante volte. Nel suo Vangelo sentì il bisogno di fare la rettifica: « Gesù non gli disse che non sarebbe morto, ma: e se Io voglio che costui rimanga finché Io tornerò, a te che importa? ». Questo discepolo, Giovanni, fu il custode della Madre di Dio, dopo la sua prima missione in Giudea e in Samaria. Egli venne mandato in Samaria per dare la Cresima; dopo che il diacono Filippo aveva fatto un gran chiasso e ne aveva convertito una grande quantità, allora mandarono due, e di questi due uno era Giovanni, per andare a dare la Cresima a quelli della Samaria. Ma dopo il Concilio Giovanni scompare, non lo si ritrova più, se ne perdono le tracce; è a custodire la Madre di Dio. La tradizione dice che egli andò in Asia Minore e la portò con sé. Effettivamente in Asia Minore, proprio in questi anni, si sono scoperte le due chiese, vicine, 1abside dell’una combaciante con l’abside dell’ altra, una dedicata a Giovanni, una alla Madre di Dio. Ora, se si tiene conto di come costruivano le chiese allora, questo può essere ritenuto come la documentazione di una tradizione là fortissima e vigente nel secolo IV circa la permanenza della Madonna e di S. Giovanni a Efeso. La casa fu riscoperta a Capuna, su una collina, a pochi chilometri da Efeso. Poi la Vergine andò in Cielo. Allora Giovanni ritornò nella vita attiva, ma mantenne un carattere inconfondibile. Forse vi meraviglierete che io insista su questa parte storica, ma capirete adesso il perché. Non c’è nella storia della Chiesa primitiva il caso di un uomo che sia apparso ai contemporanei così etereo e che abbia avuto una venerazione così viva come Giovanni. Perché quest’uomo invecchia ma rimane sempre giovane spiritualmente. Difatti si diceva che non sarebbe morto. Quando ha passato gli ottanta anni, gli mettono le mani addosso per portarlo a Roma, lo immergono in una caldaia d’olio bollente, ma non muore, nonostante tutto. Quando Domiziano si convinse che i cristiani non volevano portargli via l’impero, si mise un po’ in pace e lasciò andare con la persecuzione. Allora liberò Giovanni. – Poi venne l’episodio di Patmos, e a Patmos la redazione dell’Apocalisse, la visione di Cristo; poi se ne ritornò in Asia Minore dove continuò il suo ministero. Il ministero di Giovanni è un ministero pacato, fatto tanto di parole che di silenzi, un ministero essenzialmente interiore. Da quello che noi sappiamo, egli ha tutto l’aspetto di un grande direttore spirituale dell’Asia Minore; non ha niente della caratteristica incendiaria di Paolo. È un’altra figura! E ‘ una figura eterea. Pare un disincarnato, Giovanni! E’ così! Invecchia, ma rimane sempre giovane; le forze, quando ha passato i cento anni, cominciano ad andar giù, ma egli continua così, disincarnato. La prima età ha guardato Giovanni come noi guardiamo, in certi tramonti meravigliosi e limpidi, una nuvoletta bianca che rimane sull’orizzonte, e poi la vediamo dorata dal sole che noi non vediamo più: essa riceve ancora i raggi del sole e s’indora laggiù, mentre noi il sole non lo vediamo più. La figura di Giovanni nella prima età è così: questo qualche cosa di disincarnato e pur umanissimo che sta all’orizzonte della Chiesa e che riceve i raggi del sole che noi non vediamo. – A Patmos aveva veduto un’altra volta il Signore. Aveva veduto tutti i destini dell’umanità e li aveva segnati. Aveva veduto l’epilogo di tutte le cose. Già prima egli era andato più in su di tutti gli scrittori del Nuovo Testamento col prologo del suo Evangelo, la più grande pagina che sia stata scritta nella storia umana; ma a Patmos in tutti i destini dell’umanità egli vede il Signore. Da allora rimase non solo disincarnato, ma lo si sarebbe detto estatico. Continuava a guardare da quella parte dove l’aveva veduto. E l’ultima parola che gli era rimasta sulle labbra nel chiudere l’Apocalisse fu la parola che rimase sulle sue labbra per tutta la vita che trascinò ancora, sempre disincarnato, sempre estatico, ed è questa: « Veni, Domine Iesu! ». È l’ultima parola con la quale si chiude l’Apocalisse; vieni, Signore Gesù, vieni presto! Non poteva più parlare a lungo, gli ultimi anni, perché ormai era ridotto a una piccola fiamma che ardeva ma prossima a estinguersi. Lo portavano nella adunanza dei fedeli, ed egli che non poteva più tenere le catechesi ripeteva soltanto: « Figliolini, vogliatevi bene l’un l’altro ». Una volta gli dissero: « Maestro, ma perché dici sempre la stessa cosa? ». Rispose: « Perché se avrete fatto questo, veramente sarete col Signore Gesù, se vi vorrete bene l’un l’altro ». E lo scrittore del II secolo che ci riporta il fatto dice: « Digna Johannis hæc sententia »: è stato un modo di parlare degno di Giovanni. Egli rimane come l’Apostolo vergine, che sovrasta la prima età, disincarnato, estatico, altissimo, come una figura di eternità, egli che incoraggiò la Chiesa, che creò la prima grande scuola, la scuola di Efeso, dalla quale usciranno tutti i primi grandi scrittori, scuola che continuò coi discepoli suoi: Papia, Policarpo di Smirne, e arrivò fino a Ireneo: la prima grande scuola cristiana che egli illuminò con la sua luce calda, eterea. – L’apostolo vergine rimane come un simbolo nella storia della Chiesa. La Chiesa, a poco a poco, ha chiesto e poi ha imposto ai suoi ministri di seguire Giovanni l’Evangelista nel celibato. Ha chiesto ai suoi ministri il celibato, non perché fosse assolutamente necessario, ma l’ha chiesto, e non se ne potrebbe fare a meno: l’ha chiesto e l’ha imposto a tutti. È rimasto fuori il gruppo dei greci, approfittando del tempo in cui esso era costume e tradizione ma non ancora legge grave. E guardate cosa hanno combinato! Uno scisma. E tutta la fascia che va dall’Artide al Mediterraneo mostra che lo scisma non ha avuto un’idea e che ha perduto la forza di imporsi anche socialmente e socialmente redimere. La Chiesa ha indicato Giovanni al sacerdozio perché la Chiesa ha veduto che il servizio al mondo lo si fa solo seguendo Giovanni. Non si possono servire completamente i propri fratelli se non c’è la verginità. Ecco la storia. E allora la prima condizione per entrare a servizio della Chiesa Cattolica è questa: la verginità, la castità: senza questa i fratelli non si salvano. Ho detto che la verginità è la superiorità sul mondo! E fin qui ho parlato in nome della storia. Ora lasciamo la storia e torniamo al ragionamento. Perché la verginità è la superiorità sul mondo? Perché chi l’ha, non per paura o neghittosità ma per volontà propria, è certamente un dominatore della vita; plana su tutti gli altri. Vediamo più intimamente perché è una superiorità. Vi prego di osservare una colleganza che è nell’uomo, e questa determinerà la testimonianza della superiorità. Non è vero quel che dice Freud che l’istinto sessuale sia quello che domina la vita; è vero solo che è quello che può avere influenza su tutta la vita materiale; ma ricordiamoci bene che, se questo può avere una influenza su tutta una impostazione della vita materiale, la vita materiale poi finisce col condizionare quella spirituale. E allora si vede anche come, per altri titoli, il collegamento si protragga. Perché? Perché la via che non è di verginità mette l’uomo in una situazione morale di dover fare come proprio l’interesse materiale di coloro che lo seguono nella generazione e nella vita. E questo crea tutta una quantità di appigli materiali; non c’ è mai libertà; sono vincoli onesti, che possono, certo, essere onesti, ma sono vincoli. Quando un uomo ha una famiglia, non è padrone di disporre della propria vita come vuole, ha dei doveri. Solo un uomo che non ha quei vincoli è libero da certi doveri e pertanto può donarsi e può donare; può morire, può consumarsi, può essere povero, perché allora non impone agli altri la sua povertà, è libero di essere povero, cioè di essere ancora più libero. È questa verginità che crea le due classi del mondo: quella di chi anche onestamente ha onesti doveri, la cui onesta dedizione deve condizionarsi a una quantità di ragioni puramente materiali, e quella di chi non si condiziona a situazioni d’ordine puramente materiale: è l’indipendenza. Che se poi si va a guardare interiormente, non è difficile vedere come la verginità integra escluda tutta una sequenza interiore che diventa grave per l’uomo, che lo lega, gli aumenta i bisogni, gli riduce tutto, e questo glielo fa anche se egli sta nella via dell’onestà che è quella dell’onesto matrimonio; ma glielo fa in modo infinitamente più grave e profondo se sta nella via del peccato perché gli conturba tutto. Là sta il principio di ogni squilibrio, che incatena sentimento, istinto, fantasia, crea problemi, il principio che mette in contrasto una cosa con l’altra dentro l’uomo. Due classi: eccovi la superiorità, la grande superiorità! Però vi sono delle condizioni, e le condizioni sono quelle della verginità piena, perché quello che io vado dicendo è che la verginità piena non condiziona semplicemente la parte materiale di noi, ma condiziona la mente, il sentimento e la fantasia; dà il distacco pieno, la esenzione non dalla tentazione ma dalla colpa, perché quello che conta è la esenzione dalla colpa, non dalla tentazione; perché chi può guardare dall’alto il male che lo insidia alle calcagna, lo guarderà sempre dall’alto, anche se quello insidia. Egli è sempre al disopra, è sempre signore, sempre vittorioso. Miei cari amici, giacché una strada la si percorre, percorriamola tutta: intera, dignitosamente! Se abbiamo fatto 90, facciamo 100. Perché perdere il vantaggio per poco? Se occorre gettare giù qualche cosa di viscido del sentimento, qualche cosa di ricorrente nella mente e nell’abitudine, anche di non peccaminoso ma di impiastricciato, un affetto che non è più al suo posto, giacché ci siamo, facciamo piazza pulita! – Dal momento che nella verginità si è fatto il più, si capisce quanto sia decoroso fare il meno e arrivare al completo, e che tutto sia chiaro, che tutto sia pulito; se è necessario sfogliare ancora un po’ sto carciofo perché non abbia più punte, sfogliamolo ancora un po’, leviamole tutte le punte a questo carciofo, e facciamo in modo che non abbia da pungere niente. Voi capite che quando si è fatto il sacrifico del più, lo si può fare del meno, si può farne il sacrificio in quella tale modestia che compone l’atmosfera giusta affinché la verginità vi respiri bene, quella modestia che è cautelata, che è prudente, moderata, contenuta, che è sovrana padrona di sé e di quanto la circonda. Certo ci vuole una custodia sui sensi interni e sui sensi esterni, ma la verginità è coronata. – Voi sapete che la Sacra Scrittura ci parla di tre aureole speciali che saranno nella vita eterna rispondenti a tre situazioni. Ma la prima è quella della verginità. Giovanni stesso, quando vede la celeste Sion, vede l’Agnello; ma « sequuntur Agnum virgines quocumque ierit »; vede che l’Agnello è seguito dai vergini. L’eternità porterà per sempre lo stigma della verginità del tempo. La verginità porta via qualche cosa, certo; quello per cui gli uomini non rimangono in una certa solitudine, glielo porta via. Bisogna ricordarcelo questo; la verginità porta via qualche cosa, porta via per sacrificare al Signore; ma il fatto che porta via serve a dare all’umiltà di chi la osserva una indicazione preziosa, e cioè che a quel posto bisogna mettere sempre un’altra cosa, altrimenti rimane un vuoto. E questo spiega perché talvolta vi sono delle anime verginali che a un dato momento pare che rotolino su sé stesse, senza far niente di male, forse, ma rotolano su sé stesse come le trottole. La ragione è questa: che la verginità porta via qualche cosa, e se al posto di quella non ci si mette qualche altra cosa, viene a mancare il peso che fa l’equilibrio, e allora comincia il movimento della trottola. E cosa ci si deve mettere? La vita soprannaturale. Bisogna metterci l’amore di Dio, il dovere, una missione, anche nascostissima. Bisogna metterci il livello soprannaturale. Allora state tranquilli che di trottole non ce ne saranno, e voi avrete le figure più complete che si possano pensare al mondo. Avrete i più coraggiosi, i più moderni, i più materni, e parrebbe una contraddizione; avrete i più fini, i più forti, avrete gli intelletti più alti e le soluzioni più radicali. Badate che, a quanto è stato dato a noi di sapere, l’intelletto più alto del genere umano è stato S. Tommaso d’Aquino. La guglia! Nessuno è penetrato in cielo col suo pensiero, al di fuori si capisce delle rivelazioni soprannaturali. La guglia. S. Tommaso! Un colosso alto un po’ più di due metri, che pesava più di un quintale e mezzo, per cui gli avevano dovuto fare un taglio nella tavola perché potesse collocare l’epa; però alla fine della famosa tentazione di Roccasecca fu miracolosamente da Dio liberato per sempre dalla comune condizione degli uomini, e allora filò diritto in cielo con la mente. Senza Roccasecca non si capirebbe S. Tommaso d’Aquino. S. Tommaso, ammalatosi in viaggio verso il Concilio di Lione, a Fossanova, lo misero a letto. Era malato, e dal letto, per ripagare i buoni monaci Cistercensi che lo ospitavano, cominciò a spiegare il Cantico dei Cantici. Accanto al suo letto fra Guglielmo da Tucco, suo segretario, prendeva gli appunti. Un bel modo di morire! Fino all’ultimo respiro ha spiegato ai buoni monaci che si assiepavano intorno al suo letto il Cantico dei Cantici, il cantico degli sponsali eterni fra l’anima e Dio, fra l’umanità redenta e Dio, simboleggiata dal canto fra Dio e Israele suo popolo. Se quel tale vuoto che la verginità lascia viene riempito da elementi soprannaturali, avrete le figure più complete. E quando avrete da risolvere delle cose a questo mondo, mandate a chiamare quelle figure, perché gli altri non ce la faranno. Ricordatevi che la verginità dà: questo almeno portatevelo con voi: dà la verginità, quando è autentica! La verginità autentica, quella spirituale, ha la freschezza che non tramonta mai. Non avete mai incontrato voi delle persone che, vecchissime, hanno ancora il sorriso dei bambini? Non perché ci sia dell’artificio, no. Perché? Dio ha i suoi disegni. – Si incontrano talvolta delle persone vecchissime che hanno un fascino straordinario, che sono disincarnate. Si sente qualche cosa; cosa sarà? Chi è pratico capisce che cos’è! La verginità vera impedisce che si diventi veramente vec-chi. Si muore giovani quando c’è la verginità integra, quella spirituale, perché tiene talmente aperte le finestre sull’eterno azzurro che non vi sono mai ombre crepuscolari; ci potranno essere temporali, ma ombre del crepuscolo no; c’è sempre una luce che irradia e lascia quello che la natura dà ai bambini. I bambini scoprono sempre qualche cosa di nuovo; sempre; è la gioia dell’infanzia scoprire qualche cosa di nuovo. Vedete, il risultato è questo. Tra l’altro, non avendo mai toccato il fondo, c’è sempre del nuovo per i vergini, sempre tutto nuovo. E poi la verginità dà l’entusiasmo, il dono delle piccole cose. Il giorno in cui si sono spenti gli entusiasmi, un uomo è diventato vecchio. Nella verginità questo non succede. E poi la verginità dà la irradiazione dei missionari. Voi dovete far del bene agli altri; ma non sapete che razza di predica fate voi soltanto con la verginità? Non si traduce, non si sa che linguaggio abbia, e chi lo può dire? Non si può fissare in un codice; però quelli che vi avvicinano sentiranno in voi qualche cosa che non sentono negli altri. La irradiazione di un vergine! Voi volontari siete per questa strada. Questo è il ricordo che vi lascio. Dovete arrivare alla perfezione; ci potete arrivare; se mettete a posto l’orazione, ci arriverete certamente. Ora siccome la vostra via di perfezione caratteristica, che vi distingue, è quella che io ho chiamato della verginità, sappiate che cosa è questa strada! Sappiate che cosa porta questa strada a voi e a me. E possiate tutti essere come Giovanni l’Evangelista, i disincarnati, non inumani ma disincarnati. In alto, da illuminare nella luce crepuscolare la vita degli altri che non vedono più il sole. Così, come Giovanni l’Evangelista! – E così sia!

DOMENICA DI SETTUAGESIMA [2018]

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps XVII:5; 6; 7
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.  [Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]
Ps 17:2-3
Díligam te, Dómine, fortitúdo mea: Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus.
[Ti amerò, o Signore, mia forza: Signore, mio firmamento, mio rifugio e mio liberatore.]
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam. [Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.

Oratio
Orémus.
Preces pópuli tui, quǽsumus, Dómine, cleménter exáudi: ut, qui juste pro peccátis nostris afflígimur, pro tui nóminis glória misericórditer liberémur. [O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo: affinché, da quei peccati di cui giustamente siamo afflitti, per la gloria del tuo nome siamo misericordiosamente liberati.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

1 Cor IX:24-27; X:1-5

Fratres: Nescítis, quod ii, qui in stádio currunt, omnes quidem currunt, sed unus áccipit bravíum? Sic cúrrite, ut comprehendátis. Omnis autem, qui in agóne conténdit, ab ómnibus se ábstinet: et illi quidem, ut corruptíbilem corónam accípiant; nos autem incorrúptam. Ego ígitur sic curro, non quasi in incértum: sic pugno, non quasi áërem vérberans: sed castígo corpus meum, et in servitútem rédigo: ne forte, cum áliis prædicáverim, ipse réprobus effíciar. Nolo enim vos ignoráre, fratres, quóniam patres nostri omnes sub nube fuérunt, et omnes mare transiérunt, et omnes in Móyse baptizáti sunt in nube et in mari: et omnes eándem escam spiritálem manducavérunt, et omnes eúndem potum spiritálem bibérunt bibébant autem de spiritáli, consequénte eos, petra: petra autem erat Christus: sed non in plúribus eórum beneplácitum est Deo.

Deo gratias.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli; Nuovo saggio di Omelie, Marietti ed. Torino, 1899 – VOL I. Omelia XXI.]

“Non sapete voi, che coloro, i quali corrono nell’arringo, bensì tutti corrono, ma uno solo riporta il pallio? Correte per modo che lo riportiate. Ora chiunque combatte nella palestra, si contiene in tutto: e quelli per ottenere una corona corruttibile, ma noi per una corona incorruttibile. Io pertanto corro per guisa, che non sia come alla ventura: combatto, non quasi battendo l’aria. Anzi reprimo il mio corpo e lo riduco in servitù, affinché dopo aver predicato agli altri, io stesso non diventi reprobo. Perché, o fratelli, io non voglio che ignoriate come i padri nostri furono tutti sotto la nube e tutti passarono il mare, e tutti furono per Mosè battezzati nella nube e nel mare e tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale e bevvero tutti la stessa spirituale bevanda: perché tutti bevvero della pietra spirituale, che li seguiva; la pietra poi era Cristo: ma nei più di loro non si compiacque Iddio. „ –

Fin qui l’epistola propria di questa Domenica, detta di Settuagesima. Si chiama Domenica di Settuagesima, perché è la settima Domenica, che precede la Domenica di Passione, con cui si aprono i grandi misteri della passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo. Il tratto che vi ho recitato, si trova in fine del capo nono ed in principio del capo decimo della prima lettera ai Corinti, scritta da S. Paolo la primavera dell’anno cinquantesimosesto dell’era nostra, prima della Pentecoste (capo XVI, 6-8). È una calda esortazione ad assicurare la corona eterna per non essere simili a quegli Israeliti che morirono nel deserto, senza poter entrare nella terra promessa. – Udiamola e facciamone tesoro. “Non sapete voi, che coloro, i quali corrono nell’arringo, bensì tutti corrono, ma uno solo porta il pallio? „ Corinto era la città principale dell’Acaia, fiorente di commerci e di arti e celebre eziandio per dissolutezza di costumi; tantoché era passata in proverbio in tutto l’Oriente. In quel gran centro Paolo aveva fondata una chiesa numerosa e, partitone per la sua missione apostolica e stabilitosi per qualche tempo in Efeso, di là scrisse due lettere ai Corinti. – Presso questa città si celebravano i grandi giuochi, detti istmici, ai quali accorreva pressoché tutta la Grecia. Erano giuochi di corse, comuni in Grecia, nei quali i vincitori ricevevano la corona ed il loro nome era glorioso presso i concittadini. S. Paolo, sì pronto e sì felice nell’approfittare d’ogni cosa per istruire i fedeli e chiarire la verità, coglie il destro da questi giuochi notissimi e sì cari ai Corinti, per inculcare ciò che gli sta a cuore. Voi, così egli, sapete bene che nei vostri famosi giuochi sono moltissimi quelli che discendono nell’arena e si lanciano al corso per toccare la meta: ma quanti sono coloro che colgono la corona? Uno solo: gli altri corrono indarno. Noi pure Cristiani abbiamo il nostro arringo da correre e la nostra corona da guadagnare: il nostro arringo è la vita intera, che la Provvidenza ci accorda quaggiù sulla terra, arena di combattimenti e luogo di prova: la nostra corona è la conquista del cielo, il possesso di Dio stesso. “Correte tutti, esclama S. Paolo, per guisa, che riportiate il pallio. „ Nessuno si arresti, nessuno sia pigro, nessuno venga meno al dovere: corriamo tutti affine di raggiungere la meta. “Ora chiunque combatte nella palestra, si contiene in tutto. „ Quelli che scendevano nella palestra sia per la corsa, sia per battersi col cesto, con le mani o in qualsiasi altro modo, mettevano somma cura in prepararsi alla prova, esercitando le membra, ungendosi, astenendosi da certi cibi e pigliandone altri con non lieve loro sacrificio. Insomma quei lottatori si condannavano a non poche privazioni e a dure fatiche per riportare la corona; una corona corruttibile, di nessuno o poco valore per sé, e uno solo poteva guadagnarla. E sì tanto pativano e tanto facevano per sì povera mercede, argomenta qui l’Apostolo, e noi Cristiani che non dobbiamo fare per cogliere la nostra corona? A differenza di quei lottatori, dei quali un solo poteva averla, noi tutti e ciascuno di noi può e deve averla ed incorruttibile. A somiglianza adunque di quegli antichi atleti e per una causa incomparabilmente più nobile della loro, rifiutiamo al nostro corpo tutto ciò che può impedirgli o rendergli difficile il correre e vincere in questo arringo della vita cristiana: mortifichiamo i nostri occhi, le nostre orecchie, la nostra lingua, la nostra gola, i nostri pensieri, il nostro corpo tutto: stacchiamoci dall’amore sregolato delle cose terrene, affinché leggeri e spediti possiamo correre la via del cielo e vincere i nemici che vi incontreremo: il mondo, la carne, il demonio. “Sei soldato dappoco, grida il Crisostomo, se credi di poter vincere senza battaglia, di trionfare senza combattimento. E ad ogni sforzo, gagliardamente combatti, ti getta intrepidamente nel folto della mischia. Poni mente al patto, bada alle condizioni: ricorda il patto della tua milizia, le condizioni, con le quali vi entrasti „ (Serm. dei Martiri), E qui S. Paolo, con un rapido passaggio, che in lui non è raro, mette innanzi l’esempio di se stesso: “Io corro per guisa, che non sia come alla ventura: combatto, non quasi battendo l’aria. „ È sempre l’immagine dei lottatori istmici od olimpici, che comparisce sotto la penna dell’Apostolo, il quale è lieto di non fare com’essi facevano assai volte, correndo nello stadio e battendosi fieramente tra loro per soccombere senza mercede e senza gloria. Egli, l’Apostolo delle genti, ha uno scopo sicuro, una meta nobilissima, a cui tende, uditelo: “Io reprimo il mio corpo e lo riduco in servitù, affinché dopo aver predicato agli altri, io stesso non diventi reprobo. Egli signoreggia con lo spirito il suo corpo, nel quale si annidano tutte le passioni: lo raffrena, lo punisce col digiuno, con la veglia, con la penitenza, col portare la sua croce per averlo ubbidiente e strumento docile alle opere sante; che se ciò non facesse, egli stesso, ancorché apostolo, non sarebbe senza timore della sua salute e di perdersi dopo aver predicato agli altri (Domandano i teologi, se S. Paolo era certo della sua predestinazione eterna: io lo credo, appoggiato alle sue parole della lettera ai Rom. VIII, 38, 39. Come dunque poté dire che aveva timore d’essere tra i reprobi, se non assoggettava il suo corpo? Si può dire che era certo di essere predestinato, facendo ciò che doveva fare, come condizione richiesta, come esecuzione dei disegni della Provvidenza). – Carissimi figliuoli! se l’Apostolo temeva di essere nel numero dei reprobi se non avesse mortificato il suo corpo e ridottolo a servitù, che dobbiamo noi dire e temere di noi stessi, sì indulgenti con esso e sì facili a secondarne le tendenze! Ohimè! il Vangelo e le Lettere apostoliche, ad ogni pagina, e con le più forti espressioni, ci predicano la gran legge, la suprema necessità della mortificazione del corpo, qual condizione assoluta della salvezza, e pochi sono coloro, che l’intendono, e ciò che più importa, che la praticano! Mettiamoci ben nell’animo questa verità incontrastabile: se vogliamo essere salvi, dobbiamo mortificare il corpo. Prosegue l’Apostolo, confermando la ragionevolezza del suo timore e la necessità di mantenersi fedele alla vocazione cristiana. Noi, par che dica l’Apostolo, siamo stati chiamati alla fede, io poi anche alla gloria dell’apostolato: noi siamo stati battezzati, illuminati, santificati coi Sacramenti, nutriti nel grembo della Chiesa. Sono benefici preziosissimi; ma tutto questo basta ad assicurarci della eterna nostra salvezza? Potremmo ancora dopo tutti questi insigni favori perderci miseramente? Sì, pur troppo, risponde S. Paolo. – Io non voglio che ignoriate, o fratelli, sono sue parole, come i padri nostri furono sotto la nube, e tutti passarono il mare e tutti furono per Mosè battezzati nella nube e nel mare. „ Più ancora, soggiunge S. Paolo: “Tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale. „ Eppure non tutti, ma pochissimi, due soli poterono entrare nella terra promessa: il somigliante può avvenire a noi ancora, figliuoli del Vangelo. Non occorre illustrare quelle frasi dell’Apostolo, furono sotto la nube, furono battezzati in Mosè, nella nube e nel mare e mangiarono lo stesso cibo spirituale, perché tutti vi scorgono un cenno alla nube, che il giorno copriva Israele e la notte si mutava in colonna di fuoco: al passaggio del mar Rosso e alla manna, onde si nutrì nel deserto. La nube, che la notte si mutava in fuoco e più ancora il passaggio del mar Rosso, erano simbolo del Battesimo, che è detto il Sacramento della luce: e come Israele passò sano e salvo sulla riva opposta del mar Rosso e l’esercito egiziano con Faraone rimase sepolto sotto i flutti, così dalle acque del Battesimo esce rigenerata l’anima nostra e in essa rimangono sommersi i peccati. Il cibo poi di cui si nutrirono gli Israeliti – che è la manna, si dice spirituale, perché raffigurava il cibo delle anime per eccellenza, la santa Eucaristia. – E non solo gli Israeliti si nutrirono dello stesso cibo, ma “bevvero la  stessa spirituale bevanda, „ ossia la stessa acqua miracolosa, che Mosè fece sgorgare dalla pietra: acqua miracolosa, che figurava la grazia divina, o meglio, la bevanda celeste del sangue adorabile di Gesù Cristo. Quell’acqua, dice l’Apostolo, scaturiva dalla pietra, la qual pietra simboleggiava Cristo, che doveva venire a suo tempo e che a nostro modo di dire pellegrinava col popolo israelitico, da cui traeva la sua origine secondo la carne. Dilettissimi, non lo dimentichiamo giammai: la sola grazia di Dio, i suoi doni più eletti, i suoi favori più insigni, da sé soli, non ci salvano, come i miracoli più strepitosi non condussero il popolo d’Israele nella terra dei suoi padri: ma ci salvano se la nostra corrispondenza a quei doni e favori si unisce costantemente, perché quel Dio che ci ha creato senza l’opera nostra, senza l’opera nostra non vuole salvarci.

Graduale
Ps IX:10-11; IX:19-20

Adjútor in opportunitátibus, in tribulatióne: sperent in te, qui novérunt te: quóniam non derelínquis quæréntes te, Dómine, [Tu sei l’aiuto opportuno nel tempo della tribolazione: abbiano fiducia in Te tutti quelli che Ti conoscono, perché non abbandoni quelli che Ti cercano, o Signore]

Quóniam non in finem oblívio erit páuperis: patiéntia páuperum non períbit in ætérnum: exsúrge, Dómine, non præváleat homo. [Poiché non sarà dimenticato per sempre il povero: la pazienza dei miseri non sarà vana in eterno: lévati, o Signore, non prevalga l’uomo.]

Tractus Ps CXXIX:1-4

De profúndis clamávi ad te. Dómine: Dómine, exáudi vocem meam. [Dal profondo ti invoco, o Signore: Signore, esaudisci la mia voce.]

Fiant aures tuæ intendéntes in oratiónem servi tui. [Siano intente le tue orecchie alla preghiera del tuo servo.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? [Se baderai alle iniquità, o Signore: o Signore chi potrà sostenersi?]

Quia apud te propitiátio est, et propter legem tuam sustínui te, Dómine. [Ma in Te è clemenza, e per la tua legge ho confidato in Te, o Signore.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Gloria tibi, Domine!

Matt XX:1-16

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Simile est regnum coelórum hómini patrifamílias, qui éxiit primo mane condúcere operários in víneam suam. Conventióne autem facta cum operáriis ex denário diúrno, misit eos in víneam suam. Et egréssus circa horam tértiam, vidit álios stantes in foro otiósos, et dixit illis: Ite et vos in víneam meam, et quod justum fúerit, dabo vobis. Illi autem abiérunt. Iterum autem éxiit circa sextam et nonam horam: et fecit simíliter. Circa undécimam vero éxiit, et invénit álios stantes, et dicit illis: Quid hic statis tota die otiósi? Dicunt ei: Quia nemo nos condúxit. Dicit illis: Ite et vos in víneam meam. Cum sero autem factum esset, dicit dóminus víneæ procuratóri suo: Voca operários, et redde illis mercédem, incípiens a novíssimis usque ad primos. Cum veníssent ergo qui circa undécimam horam vénerant, accepérunt síngulos denários. Veniéntes autem et primi, arbitráti sunt, quod plus essent acceptúri: accepérunt autem et ipsi síngulos denários. Et accipiéntes murmurábant advérsus patremfamílias, dicéntes: Hi novíssimi una hora fecérunt et pares illos nobis fecísti, qui portávimus pondus diéi et æstus. At ille respóndens uni eórum, dixit: Amíce, non facio tibi injúriam: nonne ex denário convenísti mecum? Tolle quod tuum est, et vade: volo autem et huic novíssimo dare sicut et tibi. Aut non licet mihi, quod volo, fácere? an óculus tuus nequam est, quia ego bonus sum? Sic erunt novíssimi primi, et primi novíssimi. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia, il quale andò di gran mattino a fissare degli operai per la sua vigna. Avendo convenuto con gli operai un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. E uscito fuori circa all’ora terza, ne vide altri che se ne stavano in piazza oziosi, e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quel che sarà giusto. E anche quelli andarono. Uscì di nuovo circa all’ora sesta e all’ora nona e fece lo stesso. Circa all’ora undicesima uscì ancora, e ne trovò altri, e disse loro: Perché state qui tutto il giorno in ozio? Quelli risposero: Perché nessuno ci ha presi. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti dunque quelli che erano andati circa all’undicesima ora, ricevettero un denaro per ciascuno. Venuti poi i primi, pensarono di ricevere di più: ma ebbero anch’essi un denaro per uno. E ricevutolo, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora e li hai eguagliati a noi che abbiamo portato il peso della giornata e del caldo. Ma egli rispose ad uno di loro, e disse: Amico, non ti faccio ingiustizia, non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi quel che ti spetta e vattene: voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso dunque fare come voglio? o è cattivo il tuo occhio perché io son buono? Così saranno, ultimi i primi, e primi gli ultimi. Molti infatti saranno i chiamati, ma pochi gli eletti.]

Omelia II

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. I, Marietti ed. Torino, 1899 – Omelia XXII.]

Questa parabola, d’una naturalezza ammirabile, racchiude uno dei più profondi misteri della nostra fede, qual è la distribuzione della grazia dalla parte di Dio, e la corrispondenza col merito relativo da parte degli uomini. Esporre la parabola versetto per versetto, come siamo soliti fare, richiederebbe troppo tempo: perciò, mutando metodo, oggi esporrò tutta insieme la dottrina nascosta sotto il velame della parabola, riserbando un commento speciale agli ultimi due versetti. E per spianarci la strada alla spiegazione della parabola, ricordatevi che il padre di famiglia rappresenta Iddio, la vigna rappresenta la Chiesa, i lavoratori sono gli uomini, la giornata è la vita dell’umanità sulla terra, od anche la vita di ciascun uomo; la sera è il termine dei tempi; il danaro è la mercede del lavoro, ossia il premio della vita eterna. Ora poniamo mano allo svolgimento della dottrina cattolica, che Gesù Cristo volle insegnarci con questa parabola. – Iddio crea e colloca gli uomini sulla terra e vuole che qui, nel tempo, si santifichino e meritino la vita beata nella eternità. Ma perché gli uomini possano operare la propria santificazione nel tempo e meritare la vita beata nella eternità, che cosa si domanda? Dalla parte di Dio si domanda che conceda ad ogni uomo la grazia, che lo prevenga, che lo illumini, che lo muova e lo trasformi in suo figliuolo adottivo. E dalla parte dell’uomo che cosa si domanda? Si domanda, che accolga questa grazia, la secondi e cooperi fedelmente. Allora Iddio a questo uomo, che ha fatto fruttare la grazia con le opere compiute in vita, perché fedele alle sue promesse e alla sua giustizia, dà la vita eterna con il possesso di se medesimo. Ondeché la vita eterna, il possesso del cielo è frutto della grazia divina, ed insieme delle opere e dei meriti dell’uomo. Ora vi domando, o carissimi: Dio è egli obbligato a dare la grazia all’uomo, senza della quale non può far nulla? Certamente, no. Che  dovere avrebbe egli Iddio di dare la sua grazia all’uomo? Quali meriti vi possono mai esser  in lui, quali diritti da poter dire, a Dio: “Voi mi dovete dare la vostra grazia; io ho il diritto, io, miserabile creatura, d’essere adottato da voi come figliuolo?” Nell’uomo adunque non vi è, né vi può essere diritto o merito di sorta per avere la grazia: la fede e la ragione lo proclamano. Ma se l’uomo non ha diritto di avere la grazia in forza dei suoi meriti, che devono essere effetti della grazia istessa, ha forse diritto di averla appoggiato alle esigenze della sua natura? Posto che Dio ha creato l’uomo col bisogno dell’aria per respirare, del cibo e della bevanda per sfamarsi e dissetarsi e ristorare le forze naturali, ne segue il diritto da parte dell’uomo di avere l’aria, il cibo e la bevanda; diritto non fondato nei meriti, ma nelle esigenze della natura. La cosa corre forse così anche quanto alla grazia? La natura è ella creata per modo che richieda quale elemento necessario la grazia, tantoché, posta la esigenza della natura nostra, ne venga qual conseguenza necessaria il diritto alla grazia? No, no, dilettissimi. Dio poteva creare la natura senza la grazia, perché questa è tal bene a cui la natura non ha, né potrà mai avere, diritto alcuno. Hai tu, uomo, diritto di avere le ali per volare o d’essere re? No, per fermo. Come potresti avere diritto d’avere la grazia, che ti unisce a Dio e d’essere figlio suo adottivo? Non parliamo adunque dei diritti della natura in ordine alla grazia divina, che sta al di sopra d’ogni nostra esigenza. Ma Dio, unicamente per sua bontà, vuol dare agli uomini tutti la sua grazia, e la promette nel modo più solenne. Posta questa promessa solenne di Dio, gli uomini hanno essi il diritto di averla? Sì, l’hanno, appoggiati non ai propri meriti, che non ne hanno; non alla natura, che non ha con la grazia proporzione o nesso necessario, ma alla promessa di Dio, che è fedele, e purché adempiano le condizioni che Egli ha imposte. Dio, che ha promesso a tutti la sua grazia, adempiendo le condizioni da Lui stesso stabilite, è egli forse obbligato a darla a tutti e a ciascuno nella stessa misura, nello stesso tempo e nello stesso modo? No, certo. Egli vuol salvi tutti, e perciò a tutti deve dare la sua grazia, per quanto è da Lui; ma le vie, il tempo, la qualità, l’intensità, tutto è riservato al suo sovrano volere e nessuno ha diritto di chiedergliene ragione. Questo fu e sarà sempre per noi sulla terra un mistero impenetrabile, che umilia il nostro orgoglio, che ci obbliga a maggior gratitudine, se più degli altri abbiamo ricevuto, che non ci dà ombra di ragione di lamentarci, se meno abbiamo ricevuto. Ora potete comprendere il significato della parabola: il padrone di casa o padre di famiglia chiama a lavorare nella sua vigna tutti quelli, senza eccezione, che trova per le vie e per le piazze: non uno è escluso, e a tutti è promessa la mercede. Ma li chiama tutti insieme, alla stessa ora, allo stesso modo? No. Chiama gli uni in sul far del mattino, altri a tre ore, altri a sei ore, altri a nove, a dieci, ad undici ore del giorno, cioè in sul fare della sera. Quegli uomini potevano accusare di ingiustizia il padrone? Potevano dirgli: Dovevi chiamarci tutti all’aprirsi del giorno, alla terza od all’undecima ora? Sarebbe folli a il pensarlo. Egli ha promesso di chiamar tutti, e tutti chiama; ma chiama a quell’ora che gli piace e nessuno può muoverne lamento. Chiama gli Ebrei per i primi; chiama dopo i gentili; chiama Pietro, Andrea e gli altri Apostoli nei primi giorni della sua predicazione; chiama Paolo più tardi, più tardi ancora Cornelio, Timoteo, Dionigi e andate dicendo: questi chiama ancor bambino, quegli fanciullo, quell’altro giovane e adulto e molti perfino quante volte decrepiti, sul letto del dolore, gli ultimi istanti di vita! Egli è padrone della sua grazia; a tutti dà ciò che è necessario; con alcuni largheggia, con altri profonde i suoi tesori; a chi dà cinque talenti, a chi due, a chi uno; questo vuol semplice fedele, quello sacerdote, quell’altro Pontefice; è padrone dei suoi doni e dà a ciascuno, come dice S. Paolo, come vuole: Divìdens singulis prout vult. Chi mai oserebbe chiedergliene il perché? Nessuno. – Dunque, chiamati a qualunque ora, popoli ed individui, in qualunque modo, per qualunque mezzo, rispondiamo sempre: “Eccoci pronti ad entrare nella vigna del Signore”, e, imitando la generosità degli ultimi lavoranti, quanto alla mercede, non patteggiamola e rimettiamoci alla munificenza del padrone. Lavoriamo, ciascuno, secondo i doni ricevuti e il tempo che ci è concesso, anzi, se ne abbiamo perduto, coll’intensità del lavoro riscattiamone la brevità, come insegna S. Paolo, Redìmentes tempus. – Una difficoltà presenta la parabola là dove si dice, che tutti i lavoratori ebbero la stessa mercede, un danaro, quelli che lavorarono un’ora sola, come quelli che lavorarono il giorno intero, portandone il peso e l’arsura. Come ciò? La ragione naturale non vuole che la mercede sia in ragione del lavoro? Lavoro più lungo e più grave domanda maggior mercede. E la Scrittura non insegna che Iddio renderà a ciascuno secondo le opere sue? (Matt. XVI, 27). Come dunque vuolsi intendere questa mercede data a tutti egualmente? Ecco la risposta che mi sembra la migliore, anzi l’unica. — La mercede, che il padre di famiglia dà a tutti eguale, rappresenta la vita eterna. In che sta riposta la vita eterna? Nella visione beatifica di Dio. E questa è data a tutti indistintamente quelli che si salvano? Senza dubbio! Il premio o mercede adunque, in quanto che tutti possiedono lo stesso bene, che è Dio stesso, è eguale per tutti. Ma il modo e la misura di godere di questo bene sarà uguale? No: esso risponderà ai meriti maggiori o minori di ciascuno. Mille persone contemplano quel magnifico edificio, che è il duomo di Milano: l’oggetto contemplato è lo stesso per tutti; ma il conoscimento e il gusto del bello sarà diverso in ciascuno secondo l’ingegno, l’attitudine e la coltura. Il somigliante avverrà a tutti i beati in cielo possessori tutti dello stesso bene, variamente ne godranno. Il Vangelo nella eguaglianza della mercede data ai lavoranti volle esprimere la eguaglianza del possesso di Dio, non la disuguaglianza del goderne. E bene a ragione il padre di famiglia rispose a quelli che si lagnavano: Non vi faccio ingiuria: vi do ciò che vi spetta: a tutti do ciò di cui siete capaci, ciò che basta per essere perfettamente felici; che volete di più? Oltre di che quelli che lavorarono meno poterono benissimo in quel breve tempo coll’intensità del lavoro compensare il tempo e pareggiare i primi e meritare egual mercede. Forse a taluno si affaccerà una difficoltà: se il godimento della felicità eterna sarà diverso in ragione della grazia e della cooperazione alla grazia, non spunterà nell’animo il desiderio di più alto loco e quindi un senso penoso di gelosia e d’invidia? Giammai, carissimi, perché ciascuno avrà tutto ciò che corrisponde alle proprie forze e non potrà nemmeno concepire il desiderio di maggior felicità. Ad una lauta mensa seggono molti convitati e diverso è il bisogno del cibo in ciascuno, in chi più, in chi meno. Quando tutti sono sazi secondo la loro natura, è impossibile il desiderio di maggior cibo o di maggior bevanda e perciò è impossibile nei beati desiderio qualsiasi di maggior godimento. Il Vangelo si chiude con due sentenze, che è prezzo dell’opera sviluppare: ” Così saranno ultimi i primi e primi gli ultimi: che molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti. „ È chiaro che la prima sentenza, compendio in parte della parabola, si riferisce agli Ebrei ed ai gentili: quelli furono chiamati i primi, perché a loro fu data la legge e i profeti e perché Gesù Cristo e gli Apostoli a loro annunziarono prima la verità; ma, eccettuati pochi, la respinsero: al loro luogo sottentrarono i gentili, che ignoravano la legge ed i profeti, e così quelli che vennero dopo furono i primi: e poiché alla fine dei tempi si convertiranno anche gli Ebrei, così i primi verranno ultimi. Nulla di più chiaro. L’altra sentenza: “Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti „ è alquanto più difficile. Pensano alcuni che questa sentenza non si leghi con la parabola, e non senza fondamento, perché dalla parabola appariscono non solo chiamati tutti nelle varie ore del giorno, ma anche tutti eletti, perché a tutti, non uno eccettuato, è data la mercede. Come dunque dobbiamo intendere quella sentenza? Molti sono chiamati, cioè tutti, perché tutti sono i molti e perché questa parola è usata anche per significar tutti (Ai Rom. v, 15): tutti sono chiamati, ma gli eletti, cioè le anime privilegiate, più perfette, che si levano alle altezze supreme della virtù e della santità, non sono molte, son poche. Carissimi! Non vogliate turbarvi, udendo queste parole: “Sono pochi gli eletti, „ quasi che siano pochi coloro che si salvano. Noi non sappiamo il numero degli eletti, né ci gioverebbe il saperlo; sappiamo solamente che Iddio vuol salvi tutti, tutti gli uomini, e che volendoli salvi, deve dare loro la grazia necessaria; che non la rifiuta mai a chi dal canto suo fa quel che può fare, e chi si perde, si perde unicamente perché ha voluto perdersi, e ciò ne basti a nostro conforto.

Credo …

Offertorium

Orémus
Ps XCI:2

Bonum est confitéri Dómino, et psállere nómini tuo, Altíssime. [È bello lodare il Signore, e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Secreta
Munéribus nostris, quæsumus, Dómine, precibúsque suscéptis: et coeléstibus nos munda mystériis, et cleménter exáudi. [O Signore, Te ne preghiamo, ricevuti i nostri doni e le nostre preghiere, purificaci coi celesti misteri e benevolmente esaudiscici.]

Communio
Ps XXX:17-18

Illúmina fáciem tuam super servum tuum, et salvum me fac in tua misericórdia: Dómine, non confúndar, quóniam invocávi te. [Rivolgi al tuo servo la luce del tuo volto, salvami con la tua misericordia: che non abbia a vergognarmi, o Signore, di averti invocato.]

Postcommunio

Fidéles tui, Deus, per tua dona firméntur: ut eadem et percipiéndo requírant, et quæréndo sine fine percípiant. [I tuoi fedeli, o Dio, siano confermati mediante i tuoi doni: affinché, ricevendoli ne diventino bramosi, e bramandoli li conseguano senza fine.]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (13)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(13)

15. L’obbedienza

L’amore di Dio, quello d’acciaio, cioè serio, domanda l’obbedienza. Parliamone, partendo dall’esempio di Nostro Signore Gesù Cristo. Perché è stato l’esempio di Lui più marcato, quello della obbedienza. S. Paolo, riassumendo tutta la figura di Nostro Signore, gli pone sulle labbra queste parole: « In capite libri scriptum est de me ut faciam, Deus, voluntatem tuam»; in testa al libro (Salmo XL, 8-9) sta scritto che io faccia, Signore, la tua volontà (Ebrei X, 7). In realtà Nostro Signore si è sempre difeso contro gli attacchi dei suoi nemici dicendo due cose, cioè che Egli non cercava la propria gloria, che Egli faceva la volontà del Padre. Quando stava al pozzo di Samaria discorrendo con la samaritana, sopraggiunsero i discepoli che erano andati a cercare qualche cosa da mangiare, e gli parlavano del cibo; ma egli rispose: « Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato ». E anche nel momento supremo della passione lasciò che la natura che aveva assunta agisse nel senso che le era proprio, cioè paventasse il male: « Padre, se è possibile, passi da me questo calice. Tuttavia faccio non la mia ma la tua volontà ». – Nostro Signore ha dato prova di obbedienza. Come Dio, Egli non poteva obbedire; come uomo, sì, Egli poteva obbedire; era nella sua natura umana di poter obbedire, e per questo ha potuto obbedire. Se non ci fosse stata l’umana natura, a Lui non sarebbe stato possibile obbedire; ma è la divina Persona responsabile giuridicamente della sua obbedienza. È qui dove si vede che l’Incarnazione e l’obbedienza sono essenzialmente legate. Vi ho voluto ricordare questo perché l’esempio di quello su cui ora dobbiamo accuratamente meditare viene dall’alto; c’è stata l’Incarnazione del Verbo per poter dare tale esempio. – Il fatto che viene così dall’alto e che vi sia stata l’Incarnazione del Verbo per potere far sì che noi avessimo questo esempio vi dice l’importanza dell’argomento. – Questa obbedienza l’ha chiesta Nostro Signore. Egli l’ha chiesta ai discepoli, agli Apostoli, a tutti. Egli ha chiesto semplicemente di seguirlo; non ha chiesto soltanto l’obbedienza esecutiva, ossia che noi piegassimo la volontà nostra alla sua, ha comandato anche l’obbedienza intellettuale, che noi piegassimo la nostra mente alla sua parola. Quando si parla di obbedienza, bisogna sempre ricordare questo particolare, perché la forma più sottile della disobbedienza obbediente è quella di mancare nel campo dell’intelletto; si eseguisce, ma si giudica al contrario di quello che si eseguisce e si compie pertanto una continua distorsione, una innaturale divisione; e questo mina essenzialmente l’ordine che l’obbedienza, come tale, dovrebbe conservare, costituire, ricomporre. Nostro Signore ha chiesto l’obbedienza intellettuale e l’obbedienza intellettuale consiste nell’accettare la verità, quella che è sulla parola, sulla testimonianza, sulla autorità. L’obbedienza intellettuale è quella che raddrizza, se c’è bisogno, che costituisce, valorizza l’obbedienza puramente esecutiva. Generalmente Nostro Signore Gesù Cristo, quando doveva operare un miracolo, prima chiedeva un atto di obbedienza: « Credi nel Figlio di Dio? », cioè accetti, pieghi la tua intelligenza alla verità che io ti propongo e che è questa: che Io, che tu vedi uomo, sono il Figlio di Dio? Egli ha chiesto sempre questa obbedienza intellettuale. È qui dove voi potete vedere che l’atto di fede di cui abbiamo parlato non è altro che una forma di obbedienza intellettuale. – Si direbbe che della sua obbedienza al Padre Gesù abbia voluto lasciare un’impronta in tutta quanta la vita della Chiesa, perché a rinfrescarne l’esempio tutti i giorni Egli, in un certo senso, obbedisce alla voce dei sacerdoti. Perché quando noi sacerdoti consacriamo, Egli ritorna presente sotto le apparenze del pane e del vino, e siamo noi liberamente a decidere di pronunciare quelle parole divine, siamo noi a decidere liberamente di mettere quella intenzione senza la quale a niente varrebbe pronunciare le parole della Consacrazione. Quando noi pronunciamo quelle parole Egli diventa presente. Ed è così che la stessa SS. Eucaristia, nella quale è continua, reale, vera, personale, sostanziale la presenza del nostro divin Salvatore, in fondo è sempre come una potente eco di quel primo atto di obbedienza col quale Gesù si piegò per primo al Padre facendosi uomo e col quale, nella veste e nella sostanza di uomo, Egli non ha fatto altro che eseguire la volontà del Padre suo che è nei Cieli. Questo è l’esempio, questa è la volontà di Nostro Signore Gesù Cristo. – Ora però noi dobbiamo leggere più a fondo nel mistero dell’obbedienza. E la ragione è questa. Se vi insisto è perché nel mistero dell’obbedienza c’è tutto il mistero della perfezione. Questi Santi Esercizi sono stati condotti sotto questa insegna: noi dobbiamo aspirare alla perfezione. Ora guardate che l’obbedienza è il grande segreto della perfezione appunto perché è l’elemento condizionante l’amore di Dio che è il culmine della perfezione. Noi dobbiamo ragionare sulla intima essenza della obbedienza. Vi prego di osservare. Noi siamo piccoli, siamo solo parzialissimamente potenti. Nel più di quanto ci si presenta come oggetto di considerazione, noi siamo incapaci e impotenti. Noi siamo dei piccoli che vivono in un grandissimo ordine: non dimentichiamolo mai. L’ordine non è fatto soltanto dal cosmo, con la luna, col sole, con le lontane galassie, quell’ordine spaziale, spazialmente immenso, ma pure infinitamente piccolo. Viviamo in un altro ordine fatto di cose spirituali, che supera tutti i confini dello spazio. Noi siamo piccoli chiamati a vivere in un ordine immenso, ma noi riceviamo tutto da quest’ordine, tutto da Dio, anche l’ordine cosmico che viene così a condizionare la nostra vita. Noi non solo siamo dei piccoli, ma siamo dei condizionati. Dobbiamo accettare quello che siamo; non accettare ciò che siamo sarebbe non solo rivolta sciocca, ma insipienza tragica, contraddizione dolorosa e dannosa; non ci farebbe nessun onore, non darebbe corpo a nessuna fierezza, ci renderebbe semplicemente ridicoli. Noi siamo i piccoli, siamo i condizionati del grande ordine. È evidente l’ontologica necessità d’inserirci in questo ordine che è prima di noi e del quale abbiamo bisogno per continuare a vivere. È ovvio che noi ci inseriamo nell’ordine. Come si chiama l’atto così logico, così ovvio, così naturale, d’inserimento? Si chiama obbedienza. Se volete potete anche cambiare nome; questo non ha importanza; ma noi dobbiamo accettare qualche cosa, perché siamo condizionati nell’essere, restii a sopravvivere a quest’ordine. È della nostra natura che vi sia un’obbedienza. Perché è della nostra natura, che vi sia un’obbedienza? Perché è della nostra natura l’essere piccola e il dover ricevere. Pertanto l’atto del ricevere completo, dignitoso, si chiama obbedire. È il cosmo stesso che ci attesta questo, è la struttura stessa dell’essere, dell’esistere, della vita che ci dà contezza piena di tutto questo. Noi non possiamo fare diversamente. Perché il fare diversamente diventerebbe atto violento contro di noi, sarebbe un assassinio fatto contro noi stessi. Tutto io devo dire, perché non crediate che l’obbedire sia qualche cosa di aggiunto alla nostra natura e che persino la contrasti obbligandola a deporre la sua naturale fierezza. No, è una parte della nostra natura l’obbedire, come la bocca, il naso, le orecchie; come i nostri capelli, come le ossa delle quali è strutturata la nostra forza, la nostra situazione nella statica, come qualunque altra parte della nostra natura. Noi siamo fatti di obbedienza. E’ vero che possiamo disobbedire; Dio ci ha lasciati liberi; ma allora non siamo più completi, non siamo più nell’ordine, non siamo più quello che dobbiamo essere e non prepariamo più quello che dobbiamo essere. È così. Questa è la prima ovvia ragione, ontologica, che fa capire l’obbedienza. Io non ho detto ora a chi dobbiamo obbedire, parlo dell’obbedire e basta, senza affatto riferirmi, in questo momento, a chiunque. Non accettare l’obbedienza vuol dire non accettare quello che si ama. Traducete: vuol dire rinnegare noi stessi. Questa è la prima ragione.

– Ce n’è poi un’altra, una ragione ontologica per cui dobbiamo obbedire e per cui si vede la ragione intima della obbedienza intellettuale, quella con la quale si piega la nostra facoltà emotiva, la volontà, la nostra facoltà esecutiva, ma si piega anche il colmo dell’essere nostro, l’intelletto. Si avrà l’obbedienza più vera, la più meritoria, quella che innerva l’altra e senza la quale l’altra obbedienza diventa facilmente ipocrita. Osservate, siamo forse noi gli autori della verità? Noi non siamo gli autori della verità; la verità è obbiettiva e pertanto viene dal di fuori. Noi non abbiamo fatto la realtà dell’uomo: che l’uomo sia così fatto di anima e di corpo, con quelle potenze, con quelle caratteristiche, con quelle qualificazioni, non l’abbiamo fatto noi. Pertanto non possiamo creare noi la definizione dell’uomo. Non vi pare che sarebbe ridicolo se tentassimo di farlo? Noi possiamo semplicemente accettare la definizione dell’uomo, cioè obbedire a una regola di verità che è fuori di noi. Noi non dobbiamo creare il mondo; il mondo è quello che è. Noi non possiamo forgiare la realtà e dire: il mondo è un triangolo. No, nel mondo ci sono dei triangoli e cose riducibili a triangoli, dato che il triangolo è una figura geometrica perfetta; ma il mondo non è un triangolo, anche se io lo dico. Io debbo obbedire, lo vedete. Io ho gli anni che ho; è inutile che dica che ne ho trenta di meno. Il mio stato anagrafico è quello che è, io non lo posso alterare; dirvi una bugia, farei una commedia. Io debbo dipendere dalla realtà, debbo obbedire alla realtà: la realtà che s’identifica con la verità perché « ens et verum convertuntur » come « ens et bonum convertuntur » come « verum et bonum convertuntur ». La realtà è quella che è. Io devo dipendere dalla realtà, la debbo accettare intellettualmente. Io non posso dire che l’essenza è distinta dalla esistenza, se è vero invece che l’essenza è identica all’esistenza. Perché la realtà è quella che è. Io posso blaterare quanto voglio, ma la realtà resisterà sempre al mio blaterare. Io devo obbedire alla realtà. Guardate come l’obbedire è nella nostra costituzione di essere creati: perché noi non siamo il principio di noi stessi né il principio di nessuna cosa. La verità per noi è una derivazione. La ragione per cui dobbiamo dipendere è perché siamo stati creati, perché se fossimo il principio delle cose, saremmo anche il principio della verità; e questo non è. Pertanto noi dobbiamo dipendere. – Agli uomini, in quel margine in cui gli uomini sono lasciati liberi da Dio, Dio ha detto: arrangiatevela a fare come volete. Ed è in questo piccolo margine che noi possiamo fare della democrazia, ma solo in questo piccolo margine. Il cosmo è gerarchico, non è democratico. L’ordine religioso ha la dipendenza della via gerarchica. Proviamoci a imporre una costituzione a Dio! – Ci si è provato l’illuminismo, ci si è provato l’enciclopedismo. L’illuminismo, l’enciclopedismo, il voltairianesimo, che cosa sono? Non sono altro che una costituzione ridicolmente imposta a Dio. Naturalmente è una costituzione rimasta lettera morta, perché a Dio non se ne impongono di costituzioni. L’ordine tra creatura e Creatore, cioè l’ordine religioso, è essenzialmente gerarchico. Stiamo attenti a non fare delle sciocchezze, a non lasciarci entrare nell’anima l’idea che bisogna fare anche qui un po’ di democrazia. Mettiamo ai voti il primo, il secondo e soprattutto il sesto comandamento e cerchiamo di aggiustarli come ci piace. Non diciamo sciocchezze! Perché noi potremmo provarci a far passare in Parlamento la legge che non si muore più. Beh, facciamola, vediamo che cosa succede. Ricordate il famoso decreto del Sindaco di Peretola? C’erano troppi gobbi a Peretola, e un bel giorno il Sindaco ha fatto il decreto che non dovessero nascere più gobbi. I gobbi sono continuati a nascere e forse nascono ancora a Peretola. Io non lo so. Comunque il decreto del Sindaco di Peretola è rimasto l’elemento proverbiale per parlare della commedia dell’impossibile e dell’incredibile. Ricordiamo bene che la democrazia sta in quel piccolo campo che Dio ha lasciato agli uomini perché agiscano a loro modo. Ma, al di là e al di sopra di quel piccolo campo, non esiste più. Questa è la ragione per cui la Chiesa, che è la realizzazione sociale dell’ordine religioso nel mondo, per divina volontà e positiva costituzione divina è essenzialmente gerarchica; e il portare qualunque elemento che volesse toccare la disposizione gerarchica della Chiesa sarebbe rovinare perfettamente il disegno di Gesù Cristo, contaminare essenzialmente la Chiesa e rendersi ridicoli nel voler portare là dove Dio ha segnato un ordine un altro ordine fatto sulla misura delle nostre grettezze. – La Chiesa, la quale imita Dio, in taluni punti della sua vita lascia degli ordinamenti democratici, ma li lascia entro determinati limiti. Voi vedete che negli Ordini religiosi in genere la costituzione è sempre democratica, perché in tutti gli Ordini religiosi sono gli inferiori che eleggono i loro superiori. In modo diverso avviene per qualche Ordine, come ad es. per i Gesuiti, per le Congregazioni monastiche, per i Benedettini dove l’Abate una volta eletto è sempre Abate. Così è della Chiesa. La Chiesa non può far niente, non può mutare niente. Il Papa non può diventare un sovrano costituzionale, il Vescovo, che è definito nella sua caratteristica dalla divina istituzione, non può diventare un principe di carattere costituzionale, perché questo altererebbe la costituzione della Chiesa. E non sarà mai che i fedeli possano discutere gli ordini del loro Vescovo; non sarà mai che i fedeli e i Vescovi possano discutere gli ordini del Romano Pontefice. Ricordiamoci bene quanto ho richiamato spiegando questa seconda ragione ontologica dell’obbedienza, perché dobbiamo essere convinti, in questa universale visione, che noi non siamo il principio dell’ordine. Ecco perché l’ordine è gerarchico. Noi non siamo il principio dell’essere, della verità e del bene. Ecco perché l’ordine religioso è gerarchico, ecco perché la Chiesa che, per costituzione divina, è la traduzione sociale dell’ordine religioso del mondo, è gerarchica. – Vedete le grandi ragioni dell’obbedienza? Ma vi prego di osservarne una terza, una ragione ontologica. L’obbedienza diventa il più grande sussidio che abbiano gli uomini nella vita morale. Cioè, in quell’ordine in cui gli uomini sono liberi, — perché nell’ordine in cui sono liberi e possono fare in un modo o in un altro, incide talmente la loro piccolezza che li espone a non avere saggezza — l’obbedienza è il più grande ausilio che abbiano. Con l’obbedienza io acquisto quello che non ho. Se sono disobbediente, sono incompleto; con la obbedienza acquisto tutto quello che non ho. Si devono osservare le leggi, almeno quelle che sono passate al vaglio della esperienza e sono veramente la saggezza dei popoli; quelle fondamentali, quelle tradizionali, quelle istituzionali, quelle ben fatte, uguali in tutti i codici: nel codice Napoleonico come nel codice di Giustiniano. Sono sempre le stesse, e se si cambiano quelle, Dio ce ne guardi e liberi, allora sì che la politica salta; ma quelle per fortuna non cambiano; fino adesso in genere nessuno ha avuto il coraggio di toccarle, per grazia di Dio. – Ora, che cosa acquisto io, osservando le leggi? Quando io obbedisco alle leggi, mi completo. Supponiamo che io non abbia mai avuto tempo di studiare diritto. Il diritto supremo è lo strumento umano regolatore fra gli uomini; è molto più importante sapere il diritto che non la fisica, perché è il diritto che regola gli uomini. Se ne sanno anche un po’ meno di certe cose, state tranquilli che campano lo stesso; ma se il diritto lo sanno un po’ meno e lo applicano meno, non campano. Se io obbedisco alle leggi, mi completo come se avessi studiato il diritto. Io obbedisco al medico: è come se io mi fossi laureato in medicina. Io obbedisco all’architetto: è come se avessi studiato architettura. Vorrei che vedeste questo: io obbedisco; bene, è come se conoscessi tutto l’ordine nel quale vivo. Io obbedisco a una legge: mi completo; è come se io sapessi tutto il passato, tutte le prospettive, tutto l’avvenire, tutta la situazione presente di questa legge. E’ necessario che noi vediamo questo aspetto ontologico della obbedienza. Noi ci completiamo. Noi diciamo: i bambini debbono obbedire, anche i giovani debbono dar retta ai vecchi. Perché? Ma perché così si completano, non possono sapere tutto. Si completano nella volontà, perché alle volte la volontà è debole, non ce la fa; è soltanto con l’obbedienza che riescono a ingranarsi e a prendere la buona strada. – Potrei continuare fino a domani, ma debbo finire. Badate che la obbedienza è la nostra ricchezza. Ecco, forse bisogna trovarsi al punto in cui non si ha più da obbedire a nessuno per capire che cosa voglia dire l’obbedienza. Credetelo pure. Quando si ha solo da comandare e quasi sempre solo da comandare, allora si capisce che cosa sia il « bonum obœdientiæ », come sia tranquilla l’anima quando si ha soltanto da obbedire e come difficilmente riesce ad esserlo quando ha solo da comandare. Vi ho detto tutto questo perché capiate che obbedire non è una vergogna, è semplicemente una grande furbizia, oltre a essere una grande tranquillità, condizione della santità e dell’amore di Dio. È veramente il fondamento della pace la obbedienza. Il nostro orgoglio dice di no; ma non crediamo al nostro orgoglio. Il nostro orgoglio è la causa del 99% degli inutili dolori della nostra vita. Non diamo retta al nostro assassino che è il nostro orgoglio. – Ma a chi si obbedisce? A tutti, ma a uno solo, a Dio. Perché io obbedisco alle leggi? Perché è Dio che dà la forza alle leggi, a qualunque legge civile e morale. Perché obbedisco ai superiori? Perché è Dio che ha voluto che al mondo ci fossero dei superiori costituendo la Chiesa, la società civile, volendo la società; e società non esiste senza autorità e senza legge. Pertanto Dio ha voluto l’autorità e la legge. Obbedire ai genitori in quello che a loro compete, perché è Dio che li ha costituiti tali. Obbedendo alle tradizioni e ai regolamenti, io obbedisco a Dio. Perché a un uomo, a qualunque uomo, da solo, non ci sarebbe mai ragione di obbedire; non dobbiamo fare gli uomini più grandi di quel che sono, attribuendo alla loro persona, in quanto tale, ciò che non ha. E anche quando si accetta una preminenza magisteriale, si accetta quello che dice il maestro perché è maestro, si sa che sa. Questa non è la vera obbedienza, è l’accettazione libera, di cui liberamente ci si convince. Là c’è la saggezza, là c’è un tesoro, e allora si attinge a quel tesoro; e là si obbedisce a Dio. – Ma si deve obbedire in tutte le circostanze, perché le circostanze sono quelle che mi vengono dalla volontà di Dio. Se oggi mi dovessi trovare a fare 5 o 6 ore insieme con una persona fastidiosissima, potrei anche tentare di fare qualche sforzo per cercare di esimermi; questo è onesto; ma supposto che non ci si riesca, che cosa vuol dire? Vuol dire che Dio vuole che io mi subisca quella persona fastidiosa. Ed ecco che i fatti mi parlano della volontà di Dio. Se oggi piove, io devo accettare che piova; è inutile che stia a fare il muso perché piove. È la volontà di Dio che piova e basta, tutto finisce lì. I fatti. Voi credete che si obbedisca solo ai superiori? Si obbedisce a tutto, anche ai fatti. Io vado per la strada, sento uno che fa un gran rumore. Beh, cosa posso fare? Posso toccarlo con una bacchetta magica quel rumore, farlo scomparire? No. Il mio dovere è di stare lì; non posso toglierlo, è dunque la volontà di Dio che non vuole che lo tolga. C’è poco da fare. Io obbedisco a Dio accettando i fatti. Questa non è la stupida passività indiana. Io posso reagire contro i fatti fino a cercare di rimuovere l’ostacolo; ma quando non posso reagire o reagendo è lo stesso, vuol dire che Dio vuole che non lo smuova. Non ho niente da fare. – O si obbedisce a tutti o non si obbedisce a nessuno. Perché si obbedisce a uno solo che è Dio. Ai fatti, ai regolamenti, alle persone si obbedisce perché tutti, nella loro quota, sono rappresentanti della divina volontà, portatori della divina volontà. Ma siccome a Dio, Autore della divina volontà, si obbedisce con l’intelletto, perché principio della verità, voi capite perché occorre sempre che ci sia l’obbedienza intellettuale. Dio vuole che noi obbediamo perché così gli diamo una prova di amore. Nell’obbedienza Dio non ci ha dato l’incarico di misurare la ragionevolezza degli ordini, no, perché non è quello l’oggetto; l’oggetto sta nell’accettare con amore la sua volontà e non la ragionevolezza degli ordini. Pertanto non è giusto misurare la ragionevolezza degli ordini, salvo il caso in cui è ammesso discutere, come è ammesso in democrazia. La democrazia rivela sé stessa in questo, poiché lascia discutere intellettualmente, mentre esecutivamente deve essere obbedita, perché la legge accettata dal Parlamento io in coscienza la devo osservare anche se la posso criticare. La democrazia mi consente di dire : questa legge non va bene; però devo obbedire. Badate che, salvo l’ambito della democrazia, non si distingue la obbedienza esecutiva dalla obbedienza intellettuale. Naturalmente anche in democrazia la critica non deve essere sciocca. Criticherà chi può: una certa abituale e ristrettissima distinzione tra l’obbedienza intellettuale e quella esecutiva può essere soltanto in un limitato settore, per limitate persone della democrazia politica. Dunque non è umiliante obbedire, perché l’essenza dell’obbedire è che Dio vuole che facciamo la sua volontà. Non si può obbedire con riserva, perché l’essenziale è che io accetto Dio. Quando c’è di mezzo Dio, vogliamo stare a badare al resto? La via della santità passa di qui; non sperate che vi sia santità senza obbedienza.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (12)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(12)

14. L’amore di Dio

Poiché non è possibile realizzare la perfezione cristiana senza l’amore di Dio, la carità verso Dio, è necessario che noi ne parliamo. E così, accanto allo spirito di fede, accanto allo slancio della speranza, bisogna mettere l’ordine della carità. Naturalmente io parlo dell’amore di Dio sotto il profilo di questi Santi Esercizi. Ne parlo cioè in quanto per realizzare pienamente la perfezione bisogna realizzare pienamente l’amore di Dio nella nostra vita: questo è il punto di arrivo. Ma guardate un po’, non è soltanto un punto di arrivo, è uno strumento per arrivarci. Pertanto l’amore di Dio va considerato, non solo come quello che realizziamo ora; ma quando avremo fatto tutto, lo avremo realizzato perfettamente. Bisogna realizzarlo giorno per giorno; esso è termine ed è via nello stesso tempo; lo si raggiunge avendolo; lo si aumenta usandone. Allora vi prego di tener presente le seguenti considerazioni.

Prima considerazione. Che cos’è l’amore di Dio? Cerchiamo di avere qualche idea semplice e chiara. L’amore è essenzialmente un atto di volontà, né più né meno. Quindi è un atto che si compie nella sfera dell’anima, il suo livello è l’anima. Esiste anche un amore sensitivo, ma è un’altra cosa, appartiene al numero delle passioni filosofiche; l’amore sensitivo, che è vibrazione del sentimento, vibrazione che porta ad avvicinare, ad appetire, può essere utile, come è utile il sego sullo scalo per far scivolare la nave quando deve essere varata. Ma questo non è l’amore. L’amore è un atto di volontà. E quale atto di volontà? È un atto appetitivo della volontà, ossia l’atto col quale la volontà vuole qualcosa e il bene di qualcosa. Amare una persona nel senso dignitoso e netto, senza complicanze di carattere diverso, volere bene a quella persona, volere il bene di quella persona. Amore di Dio che cosa vuol dire? Vuol dire volere Dio, tendere a Dio, volere Lui e volere il bene suo. Intendiamoci, non è che noi glielo possiamo dare, ma Lui, che è sommo Bene, diventa termine del movimento dell’anima nostra. Questo è amare Dio, ridotto così, schematicamente, semplicemente, con termini inequivocabili. Vi prego di averli presenti. Quello che io chiamo amore, cioè amore sul serio, amore non ridicolo, amore non contaminato da sentimenti e da attività che sono perfettamente impropri, accezioni assolutamente contaminanti. L’amore di Dio è questo. Il discorso non è finito. Per quale motivo si deve amare Dio? Come per l’atto di fede, ci vuole un motivo. Quale è il motivo dell’amore di Dio? È il bene stesso che è in Dio. Dio lo si ama perché è Lui il Sommo Bene. E pertanto il sommo appetibile. È la caratteristica delle virtù teologiche, che hanno per motivo Dio stesso. Nella virtù della fede è Dio rivelante il motivo dell’atto di fede; nell’atto di speranza è Dio promettente e fedele il motivo dell’atto di speranza; nell’atto d’amore è Dio Sommo Bene. Naturalmente nella dizione: Dio Sommo Bene, ci possono entrare tutte le manifestazioni con le quali Dio ha mostrato il suo amore per noi, la sua paternità e tutto quello che rientra nell’amore di Dio. – E’ per questo che l’amore di Dio è una virtù teologica. Perché non ha soltanto per oggetto Dio, ma ancora Dio per motivo unico e adeguato. Notate bene che l’amore perfetto di Dio non esclude un motivo di ordine secondario, esclude solo che quest’ultimo motivo sia primario e determinante; non esclude cioè che Dio, che si ama primamente e per sé, perché è bene in sé stesso, in secondo luogo lo si ami anche perché è bene per noi. Ma capite che se si amasse Dio soltanto perché è bene per noi, l’amore non sarebbe più puro. Sapete la distinzione che c’è tra l’amore di benevolenza e l’amore di concupiscenza. Parlo di concupiscenza in senso filosofico, non morale, evidentemente. L’amore di benevolenza si ha quando si ama una cosa per sé stessa. Ed è per questo che l’amicizia deve sempre essere di un amore di benevolenza; se non è fatta d’amore di benevolenza, è finita. – Invece l’amore di concupiscenza si ha quando una cosa si ama perché ne viene bene a noi. Quando si ama di un amore di concupiscenza, chi è che si ama? L’amante ama sé stesso. Uno vuol bene ai cuscini perché gli salvano le ginocchia, cioè vuol bene a sé stesso. Vi prego di osservare che i tre quarti dell’amore, a questo mondo, sono amori di concupiscenza; in questo senso che sono società di mutuo sfruttamento. Di amori di benevolenza ce ne sono piuttosto pochi, questo senza affatto voler diminuire i nostri simili. Molti matrimoni sono fatti d’amore di concupiscenza, è vero? Infatti durano poco. Perché l’uno ama l’altra? Perché gli viene bene. L’altra ama l’uno perché le viene bene. È fatto così questo amore di concupiscenza; è soggetto ai quarti lunari, c’è e non c’è, viene e non viene, non ha una consistenza solida. Ecco, il motivo di concupiscenza non può essere mai il primo motivo dell’amore di Dio; non può esserlo mai perché l’amore di Dio sarebbe degradato, perderebbe di essenza teologica. Noi in realtà non ameremmo Dio ma noi stessi. Non si fermerebbe a Dio il nostro amore; ritornerebbe sopra di noi e, in fondo, finiremmo con l’avere la religione di noi stessi, non la religione di Dio. Riflettete quanto sia importante decifrare, definire il motivo vero, primo, per cui si deve amare Dio. Però Dio è il più umano di tutti, non esclude che più giù, come piccola e umile appendice al primo motivo, ci possa essere anche il secondo: noi lo amiamo perché viene bene anche a noi. E lo possiamo dire questo, perché ce lo ha insegnato Lui: ci ha insegnato Lui a desiderare la vita eterna, e pertanto ci ha autorizzato a metterci anche un po’ di questo, ma sotto, in secondo piano, anche in terzo, in quarto. – C’è stata nel ‘600 una donnetta, una vedovella, una certa Guyon, che si era messa a spifferare certe sentenze sul perfetto amor di Dio che escludeva i motivi secondari; e c’è cascato anche il suo confessore, che era, nientemeno, l’Arcivescovo di Cambrai, Fénelon, il grande Fénelon. Ma le faccende sono andate male per il Vescovo e per la vedovella. Perché c’è stata la condanna di Roma. Questa storia dell’amore puro di Dio è una concezione errata; Dio stesso ha voluto che noi volessimo il nostro bene. E allora un posticino, recondito, più in giù, lo si può lasciare. Vedete la discrezione, l’equilibrio umanissimo della Chiesa! Le teorie dell’amore puro furono condannate; e là si vide la grande virtù di Fénelon, e fu il più grande gesto che egli ha fatto. Quando arrivò la condanna, fu lui che montò sul pulpito della Cattedrale di Cambrai e lesse al popolo la sua condanna dicendo: « Non potrei essere il vostro Vescovo se non incominciassi a inginocchiarmi davanti a chi è il mio superiore ». E fece fare poi un ostensorio, nel cui piede si vedeva un angelo che calpestava un suo libro nel quale era contenuto qualche riflesso delle teorie della Guyon. Questo ho voluto dirvi perché a nessuno di voi venga in mente che questo amore di Dio abbia una maschera spaventosa; no. È un atto di virtù teologica, ma è umano. Non esclude che al secondo posto si ami Dio anche per il nostro bene, perché il nostro fine, la nostra felicità e la nostra corona sarà Dio stesso. – Ma come si fa a prendere questa volontà e mandarla verso Dio? Come si fa praticamente a tenere questo arco teso verso l’infinito? Perché dire che costituzionalmente l’amore di Dio è questo, si fa presto, ma a realizzarlo! Perché quando si passa dal dire teorico al fare pratico, potrebbe sembrare che niente ci sia di più difficile che prendere la volontà e spingerla avanti, come se fosse un missile. Come si fa? Veniamo al concreto. Ce l’ha detto Nostro Signore Gesù Cristo come si fa. Per amare Dio e volere Dio, si fa quello che vuole Dio. Ecco il modo col quale questa volontà tende concretamente, praticamente, obbiettivamente verso Dio. Gesù ha detto: « Non chi dice: Signore, Signore, ma chi fa la volontà del Padre ». E pertanto Gesù ci ha insegnato come si fa ad amare Dio e ha confermato che il primo dei precetti è questo: « Ama Dio con tutta la tua mente, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze ». Ossia saranno gli atti buoni della tua mente, della tua anima conformi alla divina volontà; sarà il pieno uso di tutte le tue forze secondo quella divina volontà che realizzerà l’attenzione, la gettata della volontà verso Dio. E questo mi pare che sia abbastanza semplice, e sicuro, perché ce l’ha detto Nostro Signore Gesù Cristo. Ma, arrivati a questo punto, noi dobbiamo preoccuparci di scendere a qualche dettaglio più pratico, perché la cosa diventi afferrabile nei dettagli dei fatti e non lasci in ombra qualche cosa che è di somma importanza. L’amore di Dio per realizzarsi deve passare attraverso gli atti concreti e conformi alla divina volontà. Ma questo impone al nostro amore di Dio di andare a passare da certe parti, e se da quelle parti non ci si passa, non si arriva lassù. E qui viene qualche cosa di duro, come ho già detto: « Chi non prende la croce e non mi segue non è degno di me ». E Gesù ha detto di sé stesso: « Io amo il Padre perché faccio la volontà del Padre » e l’ha detto a proposito della passione. Nell’orto degli Olivi ha detto: « Passi da me, se è possibile, Padre, questo calice; però non la mia, ma la tua volontà ». « È un battesimo, aveva detto un’altra volta, del quale ardo di essere battezzato », e questo battesimo era la sua croce. Ossia l’amore di Dio deve passare per il cammino della croce. Gesù continua, e il secondo comandamento è simile al primo: « Ama il prossimo tuo come te stesso ». Se l’amore di Dio non passa attraverso il prossimo, perde la strada, e a Dio non ci si arriva. Ecco, questo è il punto. Noi non amiamo Dio se non amiamo quello che vuole Dio, e Dio vuole che amiamo il nostro prossimo. Il nostro amore verso Dio è autentico quando è passato attraverso l’amore del nostro prossimo. È necessario vedere il carattere completivo dei due oggetti nei quali si ripartisce l’atto teologico della carità e dell’amore: Dio e il prossimo. Notate bene, sono tutt’e due atti di carità perché hanno lo stesso motivo. Il prossimo lo si deve amare per amore di Dio, cioè per lo stesso motivo per cui si ama Dio; e pertanto anche l’amore del prossimo è virtù teologica perché ha lo stesso motivo per cui si ama Dio. Ma se non si vede il carattere completivo dell’uno rispetto all’altro, ci si sfasciano nelle mani tutt’e due, ci si sfascia l’amore di Dio. Perché non si illuda di amare Dio chi non ama il prossimo, e non si illuda di amare il prossimo chi non ama Dio. La proposizione è reversibile, e capite perché. Se il prossimo si ama per amore di Dio, allora ce la si fa ad amare; ma se non lo si ama per amore di Dio, io vi sfido tutti a dire quanto dura. Perché, che volete mai? una parte del nostro prossimo si presenta qualche volta, a cominciare dall’esteriore, scostante: come si fa ad amarlo? Ci vuole altro! Se si ama Dio, ci si riesce, e ci vuole tutta; ma se non si ama Dio, è garantito che non ci si riesce. Sono tutte storie quelle che vanno predicando qua e là sull’umanitarismo; sono tutte sciocchezze alle quali non credono neanche loro. – Quelli che non vogliono sentir parlare nemmeno di Dio, tanto meno di amor di Dio, ridacchiano tranquilli, ma perché non amano sul serio, amano perché fa loro comodo, finché una persona abbastanza presentabile, abbastanza simpatica, abbastanza vicina. Nossignori; si deve amare anche chi è antipatico, anche chi ci ha fatto del male, i nostri avversari, i nostri nemici, i nostri assassini, anche quelli si devono amare. – Un giorno quei farisei sofisti che Gesù aveva sempre tra i piedi, gli hanno chiesto: « Ma chi è il nostro prossimo? ». Speravano che Egli, dopo aver parlato tanto del prossimo, facesse una certa cernita, e naturalmente ci mettesse loro, e poi tutti quelli che essi non amavano li escludesse. Guardate che cosa ha combinato Gesù. Ha raccontato una parabola in cui, a far la parte dell’amante del prossimo, ci ha messo un loro nemico, uno dei loro pessimi nemici, un samaritano, e a fare la parte di amato come prossimo ci ha messo un giudeo. Quelli si devono essere tagliati la lingua fra i denti. Ma Gesù ha dato loro questa risposta: Signori giudei, vostro prossimo sono i peggiori uomini che esistano al mondo, cioè i samaritani, e per farveli andar giù anche meglio, la parte bella la faccio fare a un samaritano, non a voi. Anche il peggiore degli uomini bisogna amare. – Costa, sapete, costa. Andate un po’ nel mondo, impicciatevi di tante e tante cose, vedrete come costa. Fintanto che il prossimo si vede in una comunità ordinata, anche lì ci vuole un po’ d’amore di Dio sul serio per resistere. Ma quando vi saltano fuori dei campioni, delle facce così false, dei filibustieri, dei mentitori, dei rivenditori di menzogne, delle vere canaglie negli affari, degli avversari politici, è garantito che bisogna tirar fuori l’amore di Dio e attaccarcisi con tutte e due le mani, altrimenti non ci si riesce. – Allora, che cosa è interessante qui, per arrivarci e perseverare? Fare la volontà di Dio e accettarla. Voi vedete come l’atto d’amor di Dio ha bisogno della obbedienza. Senza l’obbedienza, si sfascia l’amor di Dio nella nostra vita. Perché se non c’è questa accettazione, questo continuo piegarsi al Nostro Creatore, al nostro Padre che sta nei cieli, non si ama Dio. L’amore ha bisogno dell’obbedienza, ed è per questo che si deve fare un discorso speciale sulla virtù dell’obbedienza. Perché bisogna che nell’anima di nessuno rimanga l’equivoco che uno possa credere di amare Dio distruggendo in sé il principio della subordinazione a tutto quello che, in un modo o nell’altro, nelle persone, nei fatti, nelle leggi, nelle tradizioni, nei costumi, ci porta l’eco della divina volontà. Però se l’amore di Dio per realizzarsi ha bisogno dell’obbedienza, ha bisogno anche di un’altra cosa, ha bisogno del distacco dai beni terreni, perché è più che evidente, nella sua logica intuitiva, che un atto col quale si va verso Dio comporti l’allontanarci dalla terra. Se è atto di congiunzione tra due punti che sono distanti, avvicinarsi all’uno equivale allontanarsi dall’altro. Com’è possibile amare Dio, se non si distacca il cuore dai beni terreni? E allora l’esercizio del distacco del cuore dai beni terreni — che è certo la più grandiosa realizzazione della nostra esistenza, in quanto ci dà la vera libertà, la vera fierezza, la vera intoccabilità e la vera extraterritorialità dal mondo — diventa condizione necessaria per la sincerità dell’amore di Dio. Perché se il mio cuore se ne rimane terra terra, se io amo disordinatamente le creature, non arrivo a Dio, vado in direzione opposta. Il polo mio non è quello, io sono bell’e extrapolato, se non mi sono distaccato sufficientemente dalle creature. Voi sapete che questo distacco dalle creature non significa che si debbano disprezzare, non usare, non amare, vuol dire che devono essere ricercate non più di quello che possono essere ricercate, per amore di Dio, come ponti per arrivare a Dio, non come strade diversive da Dio. Il distacco del cuore dalle creature non vuol dire che si debbano odiare o che si debba loro negare l’amore che meritano; ma questo deve essere un mezzo per arrivare a Dio, non un tiranno sopra di noi che venga a escludere l’amore di Dio; ma queste cose terrene devono rimanere strumenti, non padroni. E pertanto il distacco del cuore dai beni terreni non è disumano, ma è soltanto un mettere ordine. Quello che è strumento deve rimanere strumento. Il mio vestito non è il padrone, è il mio vestito. Non sono io il servo del mio vestito, è il vestito che deve servire a me. È uno strumento. Se io metto tutta la gioia nel mio vestito, sono uno scemo, perché sono io che faccio da servo al mio vestito e non viceversa. È uno strumento il danaro; sta sotto, io devo star sopra. Questo deve essere il mio strumento, non il mio padrone; se comanda, se è il mio valore e la mia gioia, se apre e chiude la porta del mio cuore, se fa a me i giorni belli e brutti, se mi fa la faccia bella e brutta, se mi spinge più in là che di qua, se mi dà ordini, se mi fa diventare iracondo, violento, interessato, e io come un cagnolino eseguo tutti questi suoi ordini, sono il ridicolo, ridicolissimo servitore del mio servo. Capite che cosa vuol dire avere il cuore distaccato dai beni terreni? Non vuol dire né il disprezzo né il non uso; vuol dire tenerli al loro posto di strumenti, non di padroni. E se sono cose più nobili, come le persone, anche allora devono stare al loro posto di archi del ponte per arrivare a Dio, non di sponda alla quale io devo arrivare. Se invece di fare da archi per portarmi a Dio, fanno da sponda, allora debbo ricordarmi che il Signore ha detto: « Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me ». Tutte le cose possono essere amate per quel che sono, per quel che valgono obbiettivamente, per quella che è la loro funzione. Il distacco del cuore dai beni terreni, la povertà di spirito non è una grande rivoluzione, un atto di violenza, un gran saccheggio, una strage degli innocenti, una calata di barbari, un sacco di Roma. Niente di tutte queste cose; è semplicemente che le cose facciano quello che hanno da fare; il tappeto faccia da tappeto, io ci cammino sopra. Ricordatevi che come l’amore di Dio deve passare attraverso l’amore del prossimo, altrimenti non è degno; come deve passare attraverso la obbedienza, perché la obbedienza è quella che ci permette di fare la volontà di Dio, così deve avere come base di lancio il distacco del cuore dai beni terreni. Altrimenti noi diciamo di amare Dio, ma non è vero; ameremo noi stessi, ci illuderemo, ci metteremo davanti qualche idolo scrivendovi sopra: Dio Padre; ma è un idolo, non Dio. Questo è in concreto amare Dio. Io non vi ho parlato di sospiri: amore, amore! Sospiri languidi, infinito di qui, infinito di là, tesoro di qui, tesoro di là. Beh, se vi vengono bene, ditele pure quelle parole; ma c’è molto pericolo che queste parole facciano perdere la strada. Ecco quello che noi dobbiamo dire, con assoluta fermezza, prima di concludere la nostra meditazione: attenti! l’amore di Dio va difeso da tutte quelle modanature dolciastre di cui facilmente cerchiamo di circondarci per avere l’illusione di trovare in quelle Dio, mentre in quelle troviamo semplicemente la soddisfazione dei nostri istinti. Attenti, l’amore di Dio è una cosa di acciaio, è una cosa forte, è una cosa rude. Di natura sua, non è volto alla dilettazione. Qualche volta la porta anche; e se la porta, ringraziamone il Signore; ma non è affatto vero che dobbiamo averle le dolcezze, le esperienze superne che fanno parte della nostra patria futura. – Ricordatevi che Lutero si è rotto il collo per avere sbagliato qui; da tipo pazzoide e squilibrato com’era, s’è gettato alla mistica, lui, un frate agostiniano. E della mistica si è messo a ricercare la dilettazione divina, i gaudi del paradiso. E’ per questo che vi dico: l’amore di Dio, nel suo concetto e nella sua pratica va difeso dal sentimentalismo. L’amore di Dio è tanto più meritorio quanto più viene a essere, così permettendolo il Signore, nei momenti della nostra prova, spoglio di ogni consolazione interiore. La famosa notte oscura è uno di quei momenti a cui mi permetto di richiamare quelli che hanno letto i mistici: ma la notte oscura non occorre essere mistici per averla provata. La notte oscura sta anche al di qua del livello della mistica. Quando proprio le papille sono tutte cauterizzate e non si sente più nulla, quando pare di essere diventati sordi e non si avverte più, quando è notte fonda, senza luna e senza stelle, quando non c’è più niente che vibri, morti con una sopravvivenza puramente cerebrale, allora è la notte oscura. Oh, non occorre essere mistici per aver provato la notte oscura. Però v’avverto che sono i momenti di notte oscura quelli in cui si ama Dio sul serio. Quando non c’è proprio nessun diletto, quando tutto è volontà nuda e cruda. Allora veramente si ama Dio. S. Teresa, dopo essere entrata nel suo tirocinio, è stata per 18 anni nella notte oscura. In quegli anni ha provato persino a non credere all’esistenza di Dio. I 18 anni, come piacque a Dio, finirono, e quando finirono, essa era S. Teresa. Da allora il cammino dell’anima sua è stato trionfale, perché si è aperto, fino alla fine della vita, in una forma che è accaduta poche volte nella storia della Chiesa. Ma badate 18 anni! Viene freddo, sapete! Che cosa avremmo fatto noi? Per 18 anni, niente! Che queste mura non dicano niente, che questo altare non dica niente, che Dio non dica niente, che quel tabernacolo non dica niente, che il Crocifisso non dica più niente, niente per 18 anni. È proprio una gran santa quella! Sapete, gli spagnoli dicono che Santa Teresa si è preso un quarto del cervello di ogni donna; metà se l’è preso la Madonna, l’ultimo quarto è da dividersi fra tutte le altre. Io non accetto questo proverbio spagnolo, ma è una forma paradossale per fare l’elogio di una delle donne più grandi che abbia conosciuto il genere umano. Dico il genere umano. Anche come letterata, essa fa testo nella letteratura spagnola. Ma quei 18 anni! – Arrivare così a questo amore, difenderlo, spogliarlo da ogni cosa eterogenea e distante, liberarlo da ogni contaminazione, proteggerlo da ogni ombra, purificarlo da ogni sospetto, poterselo portare in mano per l’ultimo giorno e poter dire: Dio, Signore, Padre, io ti amo! Perché agli altri possiamo anche raccontare qualche storia, in fatto di amore, ma a Dio non possiamo raccontare storie; e allora la vita deve essere tesa a una serenità austera, ma che la innerva, che le dà fierezza, grandezza, decoro e dignità, purché si arrivi a questo atto ultimo che riassume la vita, l’amore di Dio. Il resto passerà; si spegnerà la nostra fede quando vedremo Dio; si spegnerà la nostra speranza, quando l’avremo raggiunto; ma non si spegnerà mai l’eterna carità. E pensare che questa ce la stiamo facendo ora. E allora facciamocela!

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (11)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(11)

13. L’orazione

Per quanto già abbia sommariamente parlato di uno degli strumenti fondamentali della perfezione cristiana, che sono il Sacrificio e i santi sacramenti, io debbo parlare di uno strumento che a quelli è connesso e che è dirimente, perché in un certo senso, non per la dignità e per il valore, ma per la logica, direi che li precede. É la orazione. La orazione non è il primo strumento della santificazione, della nostra perfezione, perché il primo strumento sono i santi sacramenti e il santo Sacrificio; però deve ritenersi che molto meno si attinge dal Sacrificio e dai sacramenti se non c’è l’orazione nella vita; vorrei dire che, secondo l’ordine di natura, non di dignità, in un certo senso l’orazione è il primo strumento della nostra perfezione. Dobbiamo parlare della orazione sotto un determinato profilo, cioè in quanto e come essa serve alla perfezione più completa della nostra vita. Credo che bisogna formulare questo principio: noi progrediamo nella perfezione, risolviamo le nostre questioni spirituali, questioni esterne e questioni interne, nella stessa proporzione con cui siamo impregnati di orazione. Ricordo che quando ero piccolo credevo che i Santi fossero tali perché stavano inginocchiati tutto il giorno con le mani alzate. Avevo visto qualche immagine in cui erano rappresentati così ed ero convinto che per essere santi bisognava stare tutto il giorno inginocchiati con le braccia alzate, ragion per cui disperavo di poterlo diventare. Vedete che idea della santità! Però dopo tanti anni ritorno a dire che la prima intuizione che ho avuta da bambino era più giusta di tutte. A parte le ginocchia che non ce la farebbero, a parte le braccia che non ce la farebbero, a parte sto fratel-corpo che non ce la farebbe a stare così, la verità è che i santi si fanno con la grande orazione. – Noi oggi studiamo la orazione non in sé stessa, per sé stessa, ma in quanto serve alla perfezione. Voi l’avrete studiato tante volte; ma io debbo dirvi con assoluta certezza che quando si tratta di via della perfezione, con l’orazione risolviamo tutto, è certo: sormontiamo tutti gli ostacoli, è certo; realizziamo tutte le nostre soprannaturali mire, compatibilmente con la sottomissione ai disegni della divina volontà. E Gesù Cristo l’ha detto, questo, e l’ha detto chiaro quando ha parlato della infallibilità della preghiera. – La preghiera è sempre efficace. Non sempre ottiene l’oggetto per cui preghiamo; noi siamo così corti che possiamo domandare a Dio il nostro danno o il danno di tutti. Perché ci sono delle orazioni che, se Dio le accogliesse, sarebbero a danno nostro, a danno dei nostri fratelli, a danno di tutta la comunità; noi guasteremmo tutto con le nostre preghiere; se Dio sempre le accogliesse, squinterneremmo tutto; ma Dio questa brutta figura non ce la fa fare, e allora cambia l’oggetto. Domandi questo che ti fa male, prendi quest’altro che ti fa bene! – Ma quando si tratta della perfezione, siccome la perfezione è un oggetto giusto, saremo sempre ascoltati, anche se, trattandosi di mezzi di perfezione, Dio può benissimo cambiarli facendoci passare per una strada un po’ più diretta o un po’ più nascosta o per una strada meno evidente alla nostra intelligenza ma di cui Lui sa e conosce con infinita certezza la maggiore efficacia. Quando si tratta di perfezione, siccome non sempre giudichiamo bene dei passaggi e degli elementi intermedi, Dio li può sostituire; ma sull’oggetto generale della perfezione Dio ci ascolta sempre, se abbiamo la persistenza della preghiera. Questo è l’annuncio più bello che io vi devo fare in questi Esercizi. Siamo partiti dicendo: studiamo la perfezione cristiana, perché la perfezione cristiana non è una chimera, è una proposta che Gesù Cristo ha fatto agli uomini. Questa sera sono in grado di dirvi che la questione può essere risolta con certezza. Tutti possiamo arrivare alla perfezione, purché la orazione entri dentro da impregnarla tutta, da farla tutta quanta vibrare, da costituirla tutta in una luce nuova senza violentarla. Vedete, come si facevano i cornicioni? Come facevano a far sostenere anche sbalzi di due o tre metri? Mettevano un mattone che sporgesse qualche centimetro, e su quello comprimevano; e poi un altro mattone che sporgesse qualche centimetro, e su quello comprimevano: a questo modo i cornicioni sporgevano di qualche metro; erano fatti di mattoni che sporgevano ciascuno per qualche centimetro. Anche nella vita spirituale Dio ci ha dato questa risorsa. Noi non dobbiamo affrontare le questioni in blocco, non affrontarle per il loro peso, per il loro volume. Basta che ne risolviamo una piccola parte iniziale; con quella si rimette a posto tutto. Ci saranno passioni: orazione, e vanno a posto tutte; istinti indiavolati: orazione e anche quelli sono domati; sentimenti mezzo matti: orazione e li mette a posto; passato subcosciente e incosciente, temperamenti fatti a rovescio, sensibilità che sono clamorose: non temete, orazione, e va tutto a posto bene. Ma orazione, ricordiamo, a un certo modo. Come vedete, io uso la parola orazione piuttosto che la parola preghiera, perché la prima: orazione è quella meditativa, quella mentale, quella della quale io ho avuto modo di dirvi che, a nutrirla e a sussidiarla bene, può diventare, senza varcare il limite dell’ordinario, contemplativa; quando cioè la intuizione intellettuale vede senza bisogno di troppo raziocinio e, vedendo, penetra senza variarne la proporzione, come se la luce la imbevesse, la pace la componesse e l’illuminazione suprema tutta la impregnasse. È la meditazione la grande orazione. Quand’è che le ruote della orazione mentale si muovono? Quand’è che la orazione mentale può arrivare a quella posizione di quiete contemplativa? Quando è preparata. Come la si prepara? Badate che è nella preparazione il segreto della sua risposta. Io conosco molta gente che dice: Mi metto a fare la meditazione e la testa è sempre fuori, oppure è come un arancio secco; spremo, spremo, spremo, non viene fuori niente. Beh, questo potrà essere anche spiegabile per tante circostanze contingenti e non abituali. Però, perché generalmente accade questo? Perché non c’è preparazione alla orazione. E come si fa questa preparazione? Ve ne dico gli elementi: quanto più essi entreranno nella nostra vita, tanto più diventeremo dei contemplativi senza per niente diventare dei distratti. Io conosco delle persone che fanno la meditazione tutto il giorno, e sono persone che vivono con gli occhi aperti; l’abitudine è diventata tale che tutto il giorno, dalla mattina alla sera, sono in contemplazione. Nessuno se ne accorge né se ne può accorgere, ma praticamente essi ci sono dalla mattina alla sera. Questo spiega tutto. – Badate, è la preparazione che tiene il segreto della meditazione, perché chi crede che il lavoro della meditazione, dell’orazione mentale comincia nel momento in cui si fa il segno della santa Croce, si dicono quelle due preghiere, si apre un libro e si comincia a leggere, sbaglia. Può essere che gli vada bene, sì, ma può essere che non gli vada bene. – La preparazione è fatta di un avvistamento dell’argomento prima, ed è per questo che è assolutamente necessario che per la meditazione che si fa il mattino l’avvistamento del tema sia fatto la sera prima. Non pare, ma è questo il primo elemento germinativo della meditazione. Deponete un germe, un fermento nell’animo, lasciate che lo afferri il subcosciente, che lavora sempre anche quando noi dormiamo, e vedrete che cosa potrà essere domani. Io credo che molti non facciano alcun caso a questo, mentre è tanto importante. Avvistare prima e permettere poi che quella officina sotterranea che in noi si chiama subcosciente, che Dio ha mirabilmente costruito e di cui noi non conosciamo le leggi, ma di cui conosciamo soltanto la esistenza e di cui talvolta comprendiamo gli effetti, agisca per noi. Siamo furbi, mettiamo a profitto anche il dormire. Perché in questo caso viene a profitto anche il dormire. Ora guardate di quali altri elementi si può avvantaggiare la preparazione. Si avvantaggia del silenzio; per questo c’è da raccomandare di osservare il massimo silenzio il mattino prima di fare la meditazione, salvo quelle parole che sono necessarie per la cortesia, per l’urbanità, per l’ufficio. È questo silenzio, anche non meditativo ma silenzio, che lascia filtrare qualche cosa, che prepara alla meditazione del mattino. Ma non basta; c’è anche una preparazione più “a longe”, ed è ogni argomento spirituale che si tratta nella giornata. Non parrebbe, vedete, che il parlare di argomenti spirituali, il far volgere il discorso a qualche cosa di spirituale, il fare la lettura spirituale debba servire alla orazione; ma non è così. È come lasciar acceso in sordina un motore che non si spegne mai; è l’abitudine, durante la giornata, di spingere le constatazioni e le cose che si vedono, anche le più umane, le più modeste, le più materiali, le più ordinarie a considerazioni di fede: cosa che non costa ed è facilissima. Questo è veramente lasciare il motore in sordina sempre acceso. Se ne prende l’abitudine anche senza parlare, perché tante volte si è in mezzo a gente con la quale non si possono fare discorsi spirituali, perché se si facessero si annoierebbe o si otterrebbe l’effetto contrario; bisogna essere discreti con gli altri. Ma con sé stessi, questa abitudine di fare considerazioni spirituali su tutto e di portare tutto, a un certo momento, a una considerazione di fede, sfruttando tutte le cose che si vedono, è sempre possibile. Si vedono immagini della Vergine, immagini dei Santi, un luogo sacro, si ode un suono di campana, si vede una persona buona il cui solo apparire è un buon esempio che dà. Tante cose: sempre considerazioni di fede. Tutto questo crea l’ambiente a longe di cui si beneficia quando ci si mette a fare la orazione mentale. Non solo è una preparazione, ma in questo modo, perfezionandosi senza per niente trasformare la propria vita, facendo quel che si deve, giocando, studiando, facendo il proprio dovere con serenità e con letizia, si può riuscire a cambiare tutta la giornata in un atteggiamento di continua presenza a Dio. – Voi riconoscete facilmente gli uomini che vivono sempre alla presenza di Dio. Non ne parleranno mai, per discrezione, ma sono diversi dagli altri. Ci sono degli uomini dei quali non si sa dire il perché, ma sono diversi dagli altri. Perché sono diversi dagli altri? Perché c’è sempre in loro una lampada accesa; eppure li vedete praticissimi, attentissimi ai loro doveri, socievoli, pronti allo scherzo, alla letizia, all’allegria; proprio quelli sono i motori dell’allegria, perché possono darla agli altri sino a contagiarli tutti. Non si saprebbe dire che cosa c’è in loro. C’è una vita profonda che esternamente non si vede, ma che dal fondo riecheggia; è la preparazione all’orazione mentale. – Ora parliamo di quella non mentale, della preghiera propriamente detta. In realtà la distinzione tra orazione mentale e orazione vocale non è una distinzione adeguata, è una distinzione equivoca, perché qualunque orazione detta vocale deve essere un pochino mentale, altrimenti non è orazione. La distinzione è fatta così, come per sgranare l’argomento in diversi bocconi, non perché esista una sostanziale diversità. Invece è da affermarsi la almeno analoga identità e forse la univoca identità. A ogni modo è certo che la orazione detta vocale è meno impegnativa, è più immediata, costringe meno la nostra capacità raziocinante, disturba meno la nostra inventiva, mette meno in moto tutte le nostre riserve, e pertanto è più facile. Difatti c’è molta gente che arriva a quella vocale; quanto a quella mentale, ne ha paura e quando deve fare la meditazione, dorme e amen, ha risolto il problema così. Ma quella vocale è necessaria. Nella alimentazione materiale ci sono dei cibi che danno 600 oppure 650 calorie ogni 100 grammi. Ma se vivrete continuamente di cibi che danno 600, 650 calorie ogni cento grammi, vedrete che cosa vi succede. Ci vogliono anche gli altri cibi, dei cibi che diano solo 30, 40, 50 calorie ogni 100 grammi. Così nella alimentazione spirituale è necessaria anche la preghiera vocale, senza tener conto di quanto essa è necessaria nella vita di comunità. Quand’è che la comunità cristiana si ritrova? Si ritrova per la preghiera vocale. La preghiera mentale non è un fatto comunitario; comunitario potrà essere l’enunciato, la predica, come la sentite voi; ma se sentiste solo e non faceste altro, sarebbe inutile aver predicato; il bello viene dopo, ciò che succederà nella vostra testa. – Ma la preghiera vocale è essenziale alla vita della comunità cristiana, ed è non meno essenziale alla vita individuale. La preghiera vocale è come quella pioggerella fine, non violenta, che non fa le ampolle per terra; quella pioggia che penetra e che ci vuole per attivare le semenze senza distruggere i virgulti e senza portar via i fiori. Ci vuole la preghiera vocale; è necessaria, è più facile della preghiera mentale; si può insinuare in tutti gli angoli, è un po’ come i motoscooter che si infilano tra le macchine e per questo, quando le strade sono tortuose, passano sempre avanti alle automobili. Ora questa preghiera vocale di che cosa è fatta? Ecco, siccome deve impregnare la vita anche questa, perché resta, come l’altra, condizione per la perfezione da raggiungersi, bisogna studiarla dal punto di vista il più raggiungibile da tutti. Tenete presente che la preghiera vocale non è soltanto quella fatta a formule; quella precede, perché ha le formule divine della orazione tolte dalla Sacra Scrittura, le formule santissime tolte dalla veneranda antica tradizione della Chiesa, e quelle precedono tutte le altre; ma con Dio si può fare un dialogo anche senza formule. Con Dio si può parlare mediante i silenzi, perché Dio capisce anche i silenzi illuminati da una intenzione, i silenzi che non dicono nulla, ma uniscono l’anima a Dio. Anche i silenzi fanno parte del dialogo col Padre che sta nei cieli. E quante volte i silenzi servono mirabilmente, i silenzi aperti e illuminati da una precisa intenzione. Poi il dialogo fatto col Signore verte su tutto. Con gli uomini noi non potremmo parlare di tutto, perché riderebbero. Dio che ci ha creato è l’unico che non ride; con Lui possiamo parlare di tutto quello che abbiamo nell’anima, con una semplicità da bambini. Non abbiamo niente da nascondere a chi ci conosce da tutta l’eternità, e possiamo parlare con quelle modanature che non terremmo con gli altri. Con gli altri dovremmo cercare modanature a seconda dell’altezza della nostra cultura, delle nostre abitudini, intonate al nostro abituale contegno. Con Dio non occorre questo, siamo dispensati. Il dialogo col Signore può essere su qualunque cosa, la più immediata, sto per dire la più senza senso, perché con Dio si può parlare senza mettere troppo in moto il potere raziocinante. L’immediatezza: è questa preghiera che può riempire tutti gli angoli della nostra giornata, questa preghiera che riduce ogni questione a un consiglio di bambini; e questa preghiera fa sì che la orazione si possa attuare sempre, senza sforzo; e allora, fatta così, realizza veramente la presenza di Dio nella nostra vita. E quando piove a questo modo, le sementi germinano. – A questo modo si impone all’evidenza che il primo sblocco delle nostre difficoltà è quello di parlarne con Dio; il primo epilogo di qualsiasi questione si fa col parlarne con Dio. E state tranquilli che quando questo accade, si è con certezza sulla via della perfezione. Come le anime semplici arrivano alla perfezione? Perché c’è tanta gente alla quale nessuno ha insegnato l’ascetica, eppure è sulla via della perfezione? E ce n’è di perfezione, ce n’è di grazia di Dio! Perché hanno avuto la orazione, e con questa hanno trovato tutto. Se occorresse fare delle rivelazioni, Dio le farebbe; ma non c’è bisogno che Dio faccia delle rivelazioni con nubi, con Angeli e altre cose; non occorre affatto, perché Dio ha modo di parlare alle anime; e le anime non se ne accorgono, ed è bene che non se ne accorgano, ma è Lui che detta. E questo accade molto più di quanto non si creda. Perché? Perché hanno l’orazione. Quale orazione? Talvolta non sanno dire altro che l’Ave Maria: Ave Maria! Ave Maria! Rosari su Rosari! Non state a osservare che non hanno cominciato dalle forme cerebrali; non importa; hanno messo il cuore nel dire l’Ave Maria, e nella seconda Ave Maria ce ne hanno messo un po’ di più. E il resto com’è stato? Mah, non si sa come è stato, però alla perfezione ci sono arrivati, il che vuol dire che la amministrazione del loro intelletto è stata, agli effetti della perfezione, maggiore di quella che forse può avere un grande teologo. Hanno avuto l’orazione e con quella hanno trovato tutto.

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (10)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(10)

12. La legge dell’amore

Inserirsi pienamente nell’ordine soprannaturale è condizione essenziale per raggiungere la perfezione. Ho detto le diverse condizioni per inserirsi pienamente nell’ordine soprannaturale. Alcune le ho dipanate, un’altra l’ho lasciata da dipanare, vi ho accennato soltanto per compiutezza d’elenco, ed è questa: il nostro comportamento morale coerente a quell’ordine. – Si tratta di questo. A Dio, il quale oltre l’ordine della creazione ci ha dato l’ordine soprannaturale e la Redenzione, noi dobbiamo dare qualche cosa. Questo è estremamente logico. A Dio che ci ha dato più della vita e del cosmo in nostro uso, ma che ci ha aperto un mondo infinitamente più grande di noi, che ci ha prospettato un più vasto orizzonte, dobbiamo dare, col nostro contegno morale, qualche cosa di più. È qui dove si vede la valutazione degli uomini onesti che sanno. Molti non sanno. Ma quelli che sanno debbono trarre una conclusione, semplice, spontanea, la cui logica è evidente. A Dio bisogna dare qualche cosa di più di quello che la semplice morale umana forse sarebbe disposta a concedere. È questo di più che importa mettersi bene in testa. La formula stessa: qualche cosa di più, è una formula che indica generosità. E allora ci rimanga nella mente che noi diamo questo di più in quanto entriamo in una formula di generosità, dove non si fanno i piccoli conti, dove non si aguzza l’ingegno per poter definire fino a quale punto si riesca a fare il proprio comodo senza offendere Dio. Questi discorsi non hanno più posto e ragione. A Dio si deve dare di più. Si deve di più per una ragione ontologica che è quella della proporzione. Inseriti nella grazia col Battesimo, noi non siamo più per Iddio semplici creature, noi siamo figli, e allora il livello morale deve alzarsi, dal piano dei servi deve arrivare al piano dei figli. C’è stato un cambiamento ontologico nella nostra situazione; ci deve essere un pari cambiamento ontologico nel nostro comportamento morale. Dal piano dei servi al piano dei figli. Tutti capiscono che non è lo stesso piano, e del resto anche fra gli uomini la differenza fra i due piani è evidentissima e generalmente si presenta come alquanto odiosa. Ma qui siamo con Dio. A Dio bisogna dare quello che corrisponde alla dignità di figli che Lui ci ha data. – Dove possiamo prendere per dare a Dio nel margine che egli ha lasciato a nostra discrezione? Il margine che ha lasciato a nostra discrezione è quello in cui siamo liberi di scegliere tra il più e il meno; perché veramente ci muoviamo con l’intera responsabilità, e pertanto con la nostra imputabilità e col nostro intero merito. Dobbiamo restituire. Che cosa restituiremo? Nel momento in cui moriremo restituiremo la vita che Dio ci ha dato; tanto se la prenderebbe ugualmente. Ma è nella nostra libera elezione che noi abbiamo la capacità di poter fare una restituzione dignitosa, una di quelle restituzioni che avvengono non per naturale svolgimento delle cose. Accade che talvolta gli uomini superbi accettino, cioè si pieghino a Dio nel momento in cui muoiono, perché allora si curvano, piegano la schiena davanti a Dio. Che merito c’è? C’è un’altra ragione perché noi dobbiamo dare di più. E ‘ per la nostra assimilazione a Gesù Cristo. Dite un po’: dobbiamo lasciarlo solo sul Calvario? Solo sulla croce a offrirsi per tutti gli altri e a perdonare a quelli che lo insultano? Dobbiamo lasciarlo solo? Ma che faccia avremmo noi? Che dignità ci rimarrebbe, non dico di cristiani ma di uomini, se sul Calvario lo lasciassimo solo? E ‘ ovvia la ragione. Noi dobbiamo dare a Gesù Cristo, a Dio nostro Padre e nostro Salvatore, più di quello che esige la semplice morale umana. Mi pare tanto evidente! – Ora veniamo al pratico. Il di più dove ci viene descritto? Nell’Evangelo. E tutto l’Evangelo forza i limiti della morale umana, perché esso odia la morale consuetudinaria, che è stata insegnata dai saggi, dagli uomini onesti fuori del Cristianesimo. – Prendiamo la morale mosaica e vediamo che arriva a certi limiti e a quei limiti si ferma. Il Vangelo questi limiti li forza tutti. Non sarebbe pedagogico richiamare del Vangelo tutto quello che induce il di più; pertanto io mi soffermo su alcuni punti che sono estremamente caratteristici, sono tali che, assolti quelli, è assolto tutto il resto. – Il punto certamente più caratteristico è quello dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. Nostro Signore ha detto: « Chi vuole essere con me, chi vuole venire dietro di me, prenda la sua croce e mi segua ». Quando egli diceva queste parole, aveva dinanzi l’ombra della propria croce; gli altri forse non hanno capito niente perché, per quanto già ci fosse stato un annuncio della Passione del Signore, essi erano assolutamente riottosi su questo punto e non ne volevano sentir parlare. Basta ricordare la reazione di Pietro: « Dove vai tu, vengo anch’io ». Erano riottosi, non avevano le orecchie aperte a sentir parlare di croce. Io penso che quando Gesù ha detto quella frase, gli apostoli non abbiano capito niente; a ogni modo l’ha detta sapendo che l’avrebbero capita poi, dopo il commento che Egli ne avrebbe fatto con la sua vita. Comunque rimane che Gesù ha detto che chi vuole andare dietro di Lui deve prendere la croce. La croce è una caratteristica del più che noi dobbiamo restituire al nostro Salvatore. Leviamoci dalla testa che la via della perfezione sia una via asfaltata, senza ostacoli, senza salite e senza discese, in piano, in mezzo ai boschi d’estate per avere fresco, senza ombre d’inverno per goderci il sole. No, la via della perfezione non è questa. Bisogna scuotere l’anima nostra da un certo preconcetto che disegni l’avvenire un po’ con la liturgia del Natale, un po’ con la liturgia della Pasqua, un po’ col canto dei fringuelli e così via. Una composizione di colori, tutti ben dosati, in rapporti tonali armonici, se non perfetti, e poi molta luce, e per di più il gaudio delle cose eterne, e poi tante belle consolazioni spirituali, e poi tanti sorrisi e tante belle cose col sorriso di ritorno. No, questa non è la via della perfezione. La via della perfezione è quella della croce. Gesù ha detto che la via che conduce alla vita è stretta e che la porta è angusta: metafora di commento alla via della croce. – Noi non possiamo prescindere da questo concetto, che la via della perfezione deve essere necessariamente una via della croce. Questa non è un’affermazione spaventosa, perché io non ho detto che sulla croce ci si rimanga attaccati tutta quanta la vita. Nostro Signore sulla croce c’è stato tre ore e poi è morto. Ma la croce ci deve essere nella vita e non la si deve respingere; la si deve accettare, e bisogna anche un po’ cercarla: e non vi sembri violento questo, non vi sembri sadismo, perché il cercarla fa un po’ da contrappeso alla voglia di scappare quando c’è, e così si tiene l’equilibrio; ma anche perché il cercarla anche quando non c’è, dà la misura della nostra generosità e del nostro amor di Dio. Voi sapete che i sacrifici si distinguono in diverse categorie. C’è un sacrificio che è legato all’adempimento di qualche dovere, perché tutti i doveri costano in qualche momento. Ci sono dei doveri che sono piacevoli, ma non resistono ad essere sempre piacevoli, e talvolta debbono diventare spiacevoli anche per il fatto che, se non si rovesciano loro, ci rovesciamo noi; ma possono diventare anche pesanti e talvolta dolorosi, di dolore anche lancinante. E allora il sacrificio bisogna farlo. Ma c’è un altro ordine di sacrifici: vi sono dei sacrifici che non sono direttamente collegati coi nostri doveri, e tra questi possiamo scegliere. Qualcuno è leggero, ma non dobbiamo eleggerne il numero maggiore possibile, dobbiamo orientare la nostra simpatia verso le cose che ci piacciono meno, che ci soddisfano meno e costano di più. Noi possiamo dire d’aver raggiunto una buona quota nel cammino della perfezione quando saremo così snodati da essere quasi nella santa indifferenza per quello che ci piace di più e quello che ci piace di meno, per quello che ci costa di più e quello che ci costa di meno, tali da fare con la stessa facilità le cose che ci costano di più e quelle che ci costano di meno, tali da fare con lo stesso sorriso le cose che ci sono antipatiche e quelle che ci sono simpatiche. – Allora si arriva a quello che gli asceti chiamano lo stato di indifferenza, che non è lo stato d’inedia, d’ignavia, d’assenza del sentimento, tutt’altro; è lo stato della positiva e volitiva perfetta padronanza di sé stessi. Ma a questo stato non si arriva se non in molti anni, e bisogna cercare di far pendere la scelta dalla parte delle cose che non piacciono e che costano piuttosto che dalla parte delle cose che sono di nostro gusto e di nostra simpatia e che sono fatte per riempirci di gloria, di diletto, che costituiscono un perenne diversivo. Non dico che, almeno in partenza, debbano essere eliminati tutti i diversivi della nostra vita; non sarebbe certo una buona norma per chi è ai primi passi e per chi di passi ne ha fatti pochi: bisogna essere umani. Però man mano che si va avanti, diminuisce il bisogno di mettere il diversivo nella vita, salva si capisce la ragione della sanità. Perché, specialmente quando si debbono fare i conti con questi poveri mezzi di cui disponiamo noi esseri umani, possiamo benissimo volere, ma talvolta abbiamo un frate asino che strepita e che a un certo momento, in certe situazioni non tratteniamo più, non controlliamo più. E talvolta, bisogna dirlo, il lavoro consuma non la vita ma il sistema nervoso, e si arriverà a un certo punto in cui ci sarà qualche cosa in noi che è diventato la nostra penitenza costante, che noi non teniamo più in mano. – Ma quando si arriva a questo stato, che è di malattia, stato patologico, allora avverrà la nostra ascesi, la grande ascesi. Allora bisogna pure mettere tra i casi possibili situazioni che non dipendono più da noi, ma che si debbono semplicemente subire; e può essere che soltanto nel fatto di subirle vi sia un immenso merito. Perché qualche volta ci sono delle paralisi che non sono affatto colpa, ma sono semplicemente croci che si aggiungono, costituiscono una umiliazione che Dio permette perché sia maggiore il merito della nostra vita. – Ma qui entriamo in una casistica marginale. Io dovevo accennarvi almeno, perché devo anche supporre che qualcuno dei miei ascoltatori potrebbe trovarcisi un giorno. E allora prenda coraggio; ci sarà sempre una soluzione, perché una soluzione c’è sempre per tutto. Ci possono essere delle soluzioni più su, delle soluzioni più giù, vi sono delle soluzioni che possono sembrare anche così, da meschinelli. – Ma le soluzioni possono sempre salvare la ragione della perfezione anche nella peggiore delle situazioni, perché anche quando non si vince trionfando, si vince perdendo; anche quando non si vince conquistando, si vince cedendo a Dio tutto quello che si ha, buono o cattivo che sia. – Comunque è certo che la via della croce bisogna abbracciarla e che accanto ai sacrifici che si devono accogliere, perché sono insiti, connaturati, immanenti nell’esercizio del proprio e semplice stretto dovere, ce ne sono altri che si possono scegliere. Il limite della sufficienza non è un limite degno dell’amore. Quando Gesù ha voluto fare un dono al suo Vicario e dargli un onore, gli ha profetizzato il martirio: « Quando sarai vecchio, stenderai le mani, e un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorresti ». Pietro se ne sarebbe ricordato, e quando è venuto il momento, non ha voluto che la croce fosse rizzata nel modo normale, ha chiesto e ottenuto che la croce fosse capovolta. Così è andato in croce, e così l’annuncio del Salvatore si è adempiuto: nella sua libera elezione egli ha voluto morire rovesciato, con la testa in giù. Non si sentiva dì fare da controfigura al suo Salvatore. Il dono che ha fatto Gesù Cristo al suo primo Vicario, badate, è stata una croce, e glielo ha detto per tempo affinché la vedesse per tutta la vita. Non che gli apparisse l’ultimo “giorno e che per tutta la vita se ne stesse giubilando di primavera, ma che la vedesse tutta la vita, perché fosse in grado di accettarla tutta la vita, di volerla tutta la vita. – Io non so molto dell’intimo di Pietro, ma forse non vado lontano dal vero dicendo che la sua conclusione, la preghiera fatta: rovesciate questa mia croce e mettetemi con la testa in giù, non era altro che il frutto di una meditazione durata tutta la vita. Ci è arrivato preparato dignitosamente e con la ferma volontà di volerla e accettarla, ma di toglierle la somiglianza con Gesù Cristo; non se ne sentiva degno. E forse la sua ultima preghiera è proprio la rivelazione di una contemplazione e di una accettazione che è stata costante per tutta quanta la sua vita. Il dono di Cristo al suo Vicario è stata la croce. Non esattamente una croce d’oro, ma una croce autentica; non una croce sul petto, una croce dietro le spalle. – Ora voi capite che non è possibile che noi allontaniamo la croce dalla nostra vita cercando di imbottire tutte le pareti. Non dobbiamo allontanarla, certi che quando essa compare, quando già si delinea, è quello il momento di Dio. È quello il momento del massimo amore nostro per Lui. Il Vangelo è questo: Vangelo concreto, Vangelo austero, Vangelo duro. – Tra le cose che Gesù ci ha detto nel Vangelo ne prendo una che pare l’ultima, ma che è riassuntiva, perché se si riesce a fare quella, si fa tutto il resto. E questa non me la invento affatto. C’è un apostolo, cugino di Gesù Cristo, che ha scritto una lettera, è la Lettera Cattolica di S. Giacomo. Vi pregherei di leggerla. Perché questa lettera non indugia, come avrebbe fatto S. Giovanni, sulla carità, che è certamente il centro della elevazione morale cristiana; questa indugia invece su un’altra parte, indugia sulla lingua. E come dice che la lingua è l’università di tutte le iniquità, dice anche che è il concentrato di tutte le verità e virtù. Un apostolo che la sapeva lunga, e non soltanto perché era cugino di Gesù Cristo ma per molti altri motivi, ed era divinamente ispirato, ha richiamato i cristiani su quel punto. – Del resto quel che si vede di più negli uomini è che la lingua non la sanno tenere a posto. L’argomento è interessante, è un rigoroso, un forte argomento che va trattato con grande acutezza, ed è per tutti questi motivi che io l’ho messo qui davanti. Nel di più che dobbiamo dare a Dio c’è anche questo: che dobbiamo tenere la lingua a posto. Voi sapete bene che se si riesce a tenere la lingua a posto vuol dire che abbiamo tutte le virtù, perché questa arriva per ultima, non per prima. Quando si arriva a non giudicare più il proprio prossimo, a non prendersi più la soddisfazione di starsi a sentire, quando si arriva al punto di non rivelare quello che si sa di meno onorevole del nostro prossimo, di non pronunciare più nessuna parola forte, di contenere sempre la parola nei limiti dell’onesto e dell’utile al prossimo, togliendone tutto quello che può per il prossimo diventare incitamento non solo al male, ma a situazioni meno nobili e meno sicure, è garantito che noi abbiamo raggiunto la stabilità della virtù. – Quando dieci anni fa io stavo pensando a una norma riassuntiva da dare ai miei cappellani di fabbrica, dopo aver pensato e ripensato, ho concluso col dire così: « Io vi chiedo due sole cose, il resto sono sicuro che vien da sé; datemele, vi chiedo poco. Vi chiedo di non fumare mai e vi chiedo di non dire mai male del vostro prossimo, chiunque esso sia. Se mi date solo questo, io sono contento, ne ho abbastanza ». Sono passati dieci anni e debbo dire che in sostanza mi hanno dato tutte e due le cose, forse perché sono stato discreto nel chiedere. Ho pensato che bisogna levarsela questa sigaretta dalla bocca, perché non credo che i nostri fratelli, e parlo a voi sacerdoti, abbiano di noi stima quando ci vedono sul loro piano, con le loro stesse debolezze; bisogna che ci vedano su un piano più alto, dove ci ha messo Nostro Signore Gesù Cristo. Ci devono vedere più in su, bisogna che vedano in una forma tangibile che noi non abbiamo le loro stesse abitudini e che di qualche abitudine, che per loro può essere onesta se contenuta entro certi limiti, noi sappiamo essere al di sopra. È un errore credere che per essere vicini ai nostri fratelli dobbiamo assumere i loro difetti o, se non i loro difetti, i loro usi umanissimi e i loro divertimenti. – Poi ho chiesto loro di non dir mai male del prossimo, salvo ben inteso quando c’è un dovere da compiere, quando devono dare rapporti doverosi; e allora devono dire le cose come sono, allora è dovere d’ufficio, non è la propria voglia, il proprio orgoglio, la propria soddisfazione; allora non si parla in funzione della persona propria ma in funzione di un incarico. Quando si parla per dovere, viene quella naturale castigatezza, quella connaturale prudenza, sovente quella discrezione che tutela noi nella virtù. – Non dire mai male di nessuno. Quando arriveremo a non lasciar mai uscire dalle nostre labbra una parola oziosa, quella parola oziosa della quale parla l’Evangelo; quando arriveremo a non giudicare più nessuno, riservandoci di giudicare soltanto se gualche volta avremo l’ufficio di giudici; quando saremo arrivati a non prendere più nessuna soddisfazione a danno del nostro prossimo, allora potremo dire d’aver salito alcune rampe della scala che porta a Dio e di aver fatto un cammino lungo nella via della perfezione. Nostro Signore Gesù Cristo ci ha detto che saremo giudicati anche di una parola oziosa. S. Giacomo vi ha fatto il commento. E allora, dovendo parlare del di più che dobbiamo dare a Gesù Cristo perché ci ha portato in un ordine soprannaturale, come vedete ho preso un po’ di là e un po’ di qua. Ho preso la legge dell’amore che è la croce. E poi ho preso quest’altra, tante volte trascurata massima evangelica, che sembra un epilogo, ed è effettivamente un epilogo. Però è una di quelle porte strette che, se si vogliono passare, bisogna diventare piccoli per forare, e diventando piccoli, ci si entra; si prendono le nostre giuste proporzioni, quelle che Dio ci vuol vedere addosso per guardarci con sguardi di compiacenza. Non sarà in sé stesso la pienezza della carità e della grazia il dominio sulla lingua, però è certo che per poterlo possedere bisogna avere e la pienezza della carità e la pienezza della grazia. E ‘ uno di quegli elementi di controllo, di quei traguardi che sembrano più materiali degli altri; però, materiali come sono, a volerli toccare si deve fare tutto e avere tutto. Si deve avere la pazienza, la discrezione, l’umiltà, il dominio di sé, la chiarezza intellettuale, la verità nell’anima, la semplicità, tutto. Se questo non c’è, si parla, si parla strabocchevolmente, si rompono i timpani del nostro prossimo, come i fiumi che fanno delle vere alluvioni. Ma se la lingua la tenete a posto, non c’è alcun dubbio, domani vi si canonizzerà.