QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICADEL MESE DI SETTEMBRE (2020)
SETTEMBRE è il mese che la Chiesa dedica ai sette dolori della Madonna ed alla nascita della B. V. Maria
La santa Vergine era in piedi e non isvenuta, come la rappresentano i pittori. Ella si ricordava delle parole dell’angelo e sapeva la divinità di suo Figlio. E né nel capitolo seguente nè in nessun evangelista essa è nominata fra le sante donne che andarono al sepolcro: ella era sicura che Gesù Cristo non vi era più. « E se ne trae questa bella conclusione: « Il più grande spettacolo che fosse mai, che ha ripieni di stupore tutti gli Angeli del cielo e n’empierà tutti i santi in tutta l’eternità; questo mistero ineffabile, pel quale furono vinti i demoni e riconciliati gli uomini a Dio; finalmente questo prodigio stupendo di un Dio che patisce pe’ suoi schiavi e pe’ suoi nemici, non ebbe allora per testimonio che la santa Vergine. Gli Ebrei e i pagani non videro in esso altro che un uomo che odiavano o dispregiavano, appiccato alla croce. Le donne di Galilea non videro che un giusto che si faceva morire crudelmente. Maria sola, rappresentante la Chiesa, vide qui un Dio che pativa per gli uomini « Maria sola, per conseguenza, sentiva pietà di quei divini patimenti e ne divideva il dolore infinito, l’infinità. …
(A. Nicolas: La Vergine Maria secondo il Vangelo – Milano, presso C. Turati tip.-edit., 1857)
-381-
Fidelibus, qui mense septembri preces vel alia pietatis obsequia B. M. V. Perdolenti devote præstiterint, conceditur [A chi durante il mese di settembre, devotamente pregherà o compirà un esercizio di ossequio e pietà alla B. M. V. si concede]:
Indulgentia quinque annorum semel, quolibet mensis die;
Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo eidem pio exercitio quotidie per integrum mensem vacaverint
(Breve Ap., 3 apr. 1857; S. C . Indulg., 26 nov. 1876 et 27 ian. 1888; S. Pæn. Ap., 12 nov. 1936).
-382-
Fidelibus, qualibet ex septem feriis sextis utrumque festum B. M. V. Perdolentis immediate antecedentibus, si ad honorem eiusdem Virginis Perdolentis septies Pater, Ave et Gloria recitaverint, conceditur [Ai fedeli che per sette venerdì antecedenti la festa della BMV Addolorata, in onore della Vergine Addolorata reciteranno sette Pater, Maria, Gloria, si concede:]:
~Indulgentia plenaria suetis conditionibus, sequentia quotidie per integrum mensem devote reperita
(S. C . Indulg., 18 iun. 1876; S. Pæn. Ap., 1 aug. 1934).
Festa della Natività della Beata Vergine Maria: 8 settembre 2016
Novena a Maria Bambina
Santa Maria Bambina della casa reale di David, Regina degli Angeli, Madre di grazia e di amore, vi saluto con tutto il mio cuore. Ottenete per me la grazia di amare il Signore fedelmente durante tutti i giorni della mia vita. Ottenete per me una grandissima devozione a Voi, che siete la prima creatura dell’amore di Dio.
Ave Maria,…
O celeste Maria Bambina, che come una colomba pura nasce immacolata e bella, vero prodigio della saggezza di Dio, la mia anima gioisce in Voi. Oh! Aiutatemi a preservare nell’Angelica virtù di purezza a costo di qualsiasi sacrificio.
Ave Maria,…
Beata, incantevole e Santa Bambina, giardino spirituale di delizia, dove il giorno dell’incarnazione è stato piantato l’albero della vita, aiutatemi ad evitare il frutto velenoso della vanità ed i piaceri del mondo. Aiutatemi a far attecchire nella mia anima i pensieri, i sentimenti e le virtù del vostro Figlio divino.
Ave Maria,…
Vi saluto, Maria Bambina ammirevole, rosa mistica, giardino chiuso, aperto solo allo Sposo celeste. O Giglio di paradiso, fatemi amare la vita umile e nascosta; lasciate che lo Sposo celeste trovi la porta del mio cuore sempre aperta alle chiamate amorevoli delle sue grazie ed ispirazioni.
Ave Maria,…
Santa Maria bambina, mistica Aurora, porta del cielo, Voi siete la mia fiducia e speranza. O potente avvocata, dalla vostra culla stendete la mano per sostenermi nel cammino della vita. Fate che io serva Dio con ardore e costanza fino alla morte e così possa giungere all’eternità con Voi.
Ave Maria,…
Preghiera:
Beata Maria bambina, destinata ad essere la Madre di Dio e la nostra tenera Madre, provvedetemi di grazie celesti, ascoltate misericordiosamente le mie suppliche. Nei bisogni che mi opprimono e soprattutto nelle mie presenti tribolazioni, ho riposto tutta la mia fiducia in Voi.
O Santa bambina, i privilegi che a Voi sola sono stati concessi dall’Altissimo, i meriti che avete acquistato, mostrano che la fonte dei favori spirituali ed i benefici continui che dispensate sono inesauribili, poiché il vostro potere presso il cuore di Dio è illimitato. – Degnatevi attraverso l’immensa profusione di grazie con cui l’Altissimo Vi ha arricchito fin dal primo momento della vostra Immacolata Concezione, di esaudire, o celeste Bambina, le nostre richieste e staremo eternamente a lodare la bontà del vostro Cuore Immacolato.
[IMPRIMATUR: In Curia Archiep. Mediolani – 31 agosto 1931 Canon. CAVEZZALI, Pro Vic. Gen.]
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Ecco le feste del mese di SETTEMBRE
1 Settembre S. Ægidii Abbatis Feria
2 Settembre S. Stephani Hungariæ Regis Confessoris Semiduplex
3 Settembre S. Pii X Papæ Confessoris Duplex
4 Settembre
PRIMO VENERDI
5 Settembre S. Laurentii Justiniani Episcopi et Confessoris Feria
PRIMO SABATO
6 Settembre Dominica XIV Post Pentecosten II Septembris–Semidupl. Dom. minor
8 Settembre
In Nativitate Beatæ Mariæ Virginis Duplex II. classis *L1*
9 Settembre S. Gorgonii Martyris Feria
10 Settembre S. Nicolai de Tolentino Confessoris Duplex
11 Settembre Ss. Proti et Hyacinthi Martyrum Feria
12 Settembre
S. Nominis Beatæ Mariæ Virginis Duplex
13 Settembre Dominica XV Post Pentecosten III. Septem. Semid. Domin. minor
14 Settembre
In Exaltatione Sanctæ Crucis – Duplex II. classis *L1*
15 Settembre
Septem Dolorum Beatæ Mariæ Virginis Duplex II. classis
16 Settembre Ss. Cornelii Papæ et Cypriani Episcopi, Martyrum Feria
Feria Quarta Quattuor Temporum Septembris
17 Settembre Impressionis Stigmatum S. Francisci Feria
18 Settembre S. Josephi de Cupertino Confessoris Feria
Feria Sexta Quattuor Temporum Septembris
19 Settembre S. Januarii Episcopi et Sociorum Martyrum Feria
Sabbato Quattuor Temporum Septembris
20 Settembre Dominica XVI Post Pentecosten IV. Septem. Semid. Dom. minor
S. Eustachii et Sociorum Martyrum Simplex
21 Settembre
S. Matthæi Apostoli et Evangelistæ – Duplex II. classis
22 Settembre S. Thomæ de Villanova Episcopi et Confessoris Duplex
23 Settembre S. Lini Papæ et Martyris Semiduplex
24 Settembre Beatæ Mariæ Virginis de Mercede Feria
26 Settembre Ss. Cypriani et Justinæ Martyrum Feria
27 Settembre – Dominica XVII Post Pentecosten V. Septem. Semidup. Dom. minor
S. Cosmæ et Damiani Martyrum Semiduplex
28 Settembre– S. Wenceslai Ducis et Martyris Semiduplex
29 Settembre
In Dedicatione S. Michaëlis Archangelis – Duplex I. classis *L1*
30 Settembre S. Hieronymi Presbyteris Confessoris et Ecclesiæ Doctoris Duplex
SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALETORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMANAPOLI BARI CATANIA PALERMO
VISTO: Nulla osta alla stampa.
Torino: 22 giugno 1922.
Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.
VISTO: Imprimatur.
C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.
PARTE TERZA
“ La vita attiva, pericolosa senza la vita interiore,con questa assicura il progresso nella virtù.”
3.
La vita interiore base della santità dell’operaio apostolico
Siccome la santità non è altro che la vita interiore spinta fino alla strettissima unione della volontà con quella di Dio, ordinariamente, eccetto un miracolo della grazia, l’anima arriva a questo termine soltanto dopo di essere passata, con molti e penosi sforzi, per tutti i gradi della vita purgativa e illuminativa. Notiamo che è legge della vita spirituale, che nel corso della santificazione l’azione di Dio e quella dell’anima seguano un cammino inverso: le operazioni di Dio prendono di giorno in giorno una parte più importante, e l’anima agisce sempre di meno. Altra è l’azione di Dio nei perfetti, altra nei principianti: meno apparente in questi, essa provoca soprattutto e mantiene in loro la vigilanza e la supplica, offrendo loro anche il mezzo di ottenere la grazia per nuovi sforzi; nei perfetti invece Dio opera in modo più completo e talora esige soltanto un semplice consenso che unisce l’anima alla sua azione divina. – Il principiante, come anche il tiepido e il peccatore che Dio vuole avvicinare a sé, si sentono da principio portati a cercare Dio, poi a mostrargli sempre di più il loro desiderio di piacergli, finalmente a rallegrarsi di tutte le occasioni provvidenziali che loro permettono di detronizzare l’amor proprio per stabilire al suo posto il solo regno di Gesù Cristo. In tal caso l’azione divina si limita solo ad incitamenti e ad aiuti. Nei santi, quest’azione è assai più potente e più intera. In mezzo alle fatiche e ai patimenti, abbeverato di umiliazioni oppure oppresso dalla malattia, il santo, per così dire, non ha da fare altro che abbandonarsi all’azione divina, altrimenti sarebbe incapace di sopportare le agonie che, secondo i disegni di Dio, devono compiere la sua maturazione; in lui si avvera pienamente il testo: Deus subiecit sibi omnia, ut sit Deus omnia in omnibus (Dio sottomise a sé tutte le cose, affinché Dio sia tutto in tutte le cose – 1 Cor. XV, 28). Egli vive talmente di Gesù, che sembra vivere soltanto per mezzo di lui, come di se stesso affermava san Paolo: Vivo autem iam non ego; vivit vero in me Christus (Io vivo; ma non sono più io che vivo, è il Cristo che vive In me – Gal. II, 20). Soltanto lo spirito di Gesù è quello che pensa, che decide e che opera. Certo questa divinizzazione non possiede ancora l’intensità che avrà nella gloria, però questo stato riflette già i caratteri dell’unione beatifica. Non occorre dire che la cosa è ben diversa nel principiante, nel tiepido e anche nel semplice fervoroso. Al loro stato si adatta una serie di mezzi che del resto possono servire egualmente tanto all’uno che all’altro; ma il principiante, come un apprendista, stenterà molto, progredirà lentamente e in complesso farà un lavoro mediocre; il fervente invece, come abile operaio, farà presto e bene, e con poca difficoltà progredirà di più. Ma di qualunque categoria di apostoli si tratti, le intenzioni della Provvidenza a loro riguardo restano inalterabili. Dio vuole che sempre e per tutti le opere siano un mezzo di santificazione; ma mentre l’apostolato, per l’anima arrivata alla santità, non porta nessun pericolo serio, non esaurisce le sue forze e le offre molte occasioni di crescere in virtù e in meriti, abbiamo veduto con quanta facilità esso produce l’anemia spirituale, e perciò il regresso nella perfezione, nelle persone unite debolmente a Dio, nelle quali sono troppo poco sviluppati il gusto dell’orazione, lo spirito di sacrificio e soprattutto l’abitudine di custodire il cuore. Tale abitudine Dio non la nega mai a una preghiera assidua e alle ripetute prove di fedeltà; Egli la dà abbondantemente all’anima generosa che, ricominciando continuamente, a poco a poco ha trasformato le sue facoltà e le ha rese docili alle ispirazioni del Cielo e capaci di accettare allegramente contraddizioni e disdette, perdite e delusioni. Vediamo ora, da sei caratteri generali, come questa vita interiore, infiltrandosi in un’anima, la stabilisca nella vera virtù.
a) La premunisce contro i pericoli del ministero esteriore
Difficilius est bene conversari cum cura animarum propter exteriora pericula (È più difficile vivere bene quando si ha cura d’anime, per causa dei pericoli estemi (S. TOMM., 2a 2æ, q. 184, a. 8). Già abbiamo parlato di questi pericoli, nel capo precedente. Mentre l’operaio evangelico sprovvisto di spirito interiore ignora i pericoli che nascono nell’azione, e si trova così come un viaggiatore che attraversa senz’armi una foresta infestata dai briganti, l’apostolo vero li teme e ogni giorno prende le sue precauzioni contro di essi con un serio esame di coscienza, il quale gli rivela i suoi punti deboli. Se la vita interiore non desse altro vantaggio che quello di conoscere un pericolo continuo, già contribuirebbe assai a proteggere dalle sorprese della strada, perché un pericolo previsto è già mezzo evitato; ma ben maggiore è la sua utilità. Essa è per l’uomo di azione una completa armatura: Induite armaturam Dei, ut possitìs stare adversus insidias diaboli (Eph. VI, 11-17), armatura divina che gli permette non solo di resistere alla tentazione e di evitare le insidie del demonio: ut possitis resistere in die malo, ma anche di santificare tutte le sue azioni: et in omnibus perfecti stare. – Essa lo cinge con la purità d’intenzione la quale concentra in Dio i pensieri, i desideri, gli affetti, e gl’impedisce di traviarsi nella ricerca delle comodità,dei piaceri e delle distrazioni: Succincti lumbos vestros in veritate. – Essa lo riveste con la corazza della carità la quale gli dà un coraggio virile e lo difende contro le seduzioni della creatura e dello spirito mondano, come pure contro gli assalti del demonio: induti loricam iustitiæ. – Lo calza con la discrezione e con la riservatezza, affinché in tutti i suoi passi egli sappia unire la semplicità della colomba con la prudenza del serpente: calceati pedes in præparatione Evangelii. Il demonio e il mondo cercheranno d’illudere la sua intelligenza con i sofismi delle false dottrine, di snervare la sua energia adescandolo con massime rilassate; ma a tali menzogne la vita interiore oppone lo scudo della fede che fa risplendere agli occhi dell’anima lo splendore dell’ideale divino: in omnibus sumentes scutum fidei in quo possitis omnia téla nequissimi ignea extinguere. La conoscenza del proprio nulla, la sollecitudine per la propria salvezza, la convinzione di non potere nulla senza l’aiuto della grazia, e perciò la preghiera assidua, supplichevole e frequente, tanto più efficace quanto è più fiduciosa, sono per l’anima un elmo di bronzo contro il quale si spunteranno i colpi dell’orgoglio: galeam salutis assumite. – Così armato da capo a piedi, l’apostolo può dedicarsi senza timore all’azione, e il suo zelo infiammato dalla meditazione del Vangelo, fortificato dal Pane eucaristico, diventa una spada che gli serve ad un tempo per combattere i nemici dell’anima sua e per conquistare una moltitudine di anime a Gesù Cristo: gladium spiritus quod est verbum Dei.
b) Rinvigorisce le forze dell’apostolo
Come abbiamo detto, solamente il santo, in mezzo alle preoccupazioni degli affari e nonostante un abituale contatto con il mondo, sa custodire il suo spirito interiore edirigere sempre i suoi pensieri e le sue intenzioni verso Dio solo. In lui ogni dispendio di attività esteriore è così soprannaturale e infiammato di carità, che non solo non ne diminuisce le forze, ma gli dà necessariamente un aumento di grazia. Nelle altre persone, anche fervorose, dopo un tempo più o meno lungo dedicato alle occupazioni esteriori, la vita soprannaturale sembra che subisca qualche perdita; troppo preoccupate del bene da fare al prossimo, troppo assorbite da una compassione non abbastanza soprannaturale, per le miserie da sollevare, il loro cuore imperfetto sembra che innalzi verso Dio delle fiamme meno pure, oscurate dal fumo di molte imperfezioni. – Dio non castiga tale debolezza con una diminuzione della sua grazia e non si mostra rigoroso contro tali deficienze, purché vi siano stati sforzi seri di vigilanza e di preghiera durante l’azione, e l’anima si disponga, compiuto il suo lavoro, a ritornare vicino a Lui per riposarsi e per riprendere forza. Questo continuo ricominciare causato dall’intreccio della vita attiva con la vita interiore, rallegra il suo cuore paterno. Del resto, in coloro che lottano, tali imperfezioni diventano sempre meno profonde e meno frequenti di mano in mano che l’anima impara a ricorrere senza stancarsi a Gesù che essa trova sempre pronto a dirle: Ritorna a me, povero cervo ansante e assetato per il lungo cammino, vieni a trovare nelle acque vive il segreto di una nuova agilità per nuove corse; ritirati un momento dalla moltitudine la quale non ti può dare l’alimento di cui abbisognano le tue stanche forze: Venite scor-sum et requiescite pusillum (Venite In disparte in un luogo deserto e riposate un poco – MARC. VI, 31).). Nella calma, nella pace che gusterai vicino a me, non solo tu ritroverai ben presto il tuo vigore di prima, ma troverai anche i mezzi di fare di più, stancandoti di meno. Elia, accasciato e scoraggiato, si vide ravvivare le energie da un pane misterioso: così, o mio apostolo, nel compito invidiabile di mio corredentore che io ti assegnai, ti offro il mezzo, con la mia parola che è vita e con la mia grazia, cioè col mio Sangue, di rivolgere nuovamente la tua anima verso gli orizzonti eterni, di rinnovare nel tuo cuore e nel mio un patto d’intimità. Vieni, io ti consolerò delle tristezze e delle delusioni del tuo viaggio, e nel fuoco del mio amore tu ritemprerai l’acciaio delle tue risoluzioni: Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis et ego reficiam vos (Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi ristorerò – MATT. XI, 28).
c) Moltiplica le sue forze e i suoi meriti
Tu ergo, fili mi, confortare in gratia (Tu dunque, figlio mio, rafforzati nella grazia – Tim. II, 1).La grazia è una partecipazione alla vita dell’Uomo-Dio. La creatura possiede una certa misura di forza e in qualche senso si può anche qualificare e definire una forza; ma Gesù è la Forza per essenza: in Lui risiede la Forza del Padre, l’Onnipotenza dell’azione divina, e il suo Spirito si chiama Spirito di Forza. O Gesù – esclama san Gregorio Nazianzeno – in Voi solo risiede tutta la mia forza. Fuori di Gesù Cristo, dice san Gerolamo, io non sono altro che impotenza. – Il Dottore Serafico nel 4° libro del suo Compendìum Theologiæ, enumera i cinque caratteri principali che riveste in noi la forza di Gesù: il primo è d’intraprendere cose difficili e di affrontare risolutamente gli ostacoli: Viriliter agite et confortetur cor vestrum (Operate da forti e il vostro cuore si conforti – SALMO XXX). – Il secondo è il disprezzo delle cose della terra: Omnia detrimentum feci et arbitror ut stercora (Fil. III, 8). – Il terzo è la pazienza nelle tribolazioni: Fortis ut more dilectio (Cant. VIII, 6). Il quarto è la resistenza alle tentazioni: Tamquam leo rugiens circuit… cui resistite fortes in fide (1 Piet. V, 8-9). Il quinto è il martirio interiore, la testimonianza non del sangue, ma della vita stessa che grida a Gesù: Voglio essere tutta vostra. Esso consiste nel combattere le concupiscenze, nel domare i vizi e nel lavorare energicamente per l’acquisto delle virtù: Bonum certamen certavi (Ho combattuto la buona battaglia – 2 Tim. IV, 7). Mentre l’uomo esteriore fa assegnamento sulle sue forze naturali, l’uomo interiore invece vede in esse soltanto degli aiuti utili sì, ma insufficienti. Il sentimento della sua debolezza e la sua fede nella potenza di Dio danno a lui, come a san Paolo, la misura esatta della sua forza. Alla vista degli ostacoli che gli si parano dinanzi, egli con umile fierezza esclama: Cum enim infirmar, tunc potens sum (Perché quando sono debole, allora sono forte – II Cor. XII, 10). Senza la vita interiore, dice san Pio X, le forze non basteranno a sopportare con perseveranza le noie che porta seco ogni apostolato, la freddezza e lo scarso aiuto degli stessi buoni, le calunnie dei nemici, talora anche la gelosia degli amici e dei compagni di armi… Soltanto una virtù paziente, radicata nel bene e in pari tempo soave e delicata, può evitare o diminuire tali difficoltà (Enc. Ai Vescovi d’Italia, 11 giugno, 1905). – Per mezzo della vita di orazione, simile al succo che dalla vite scorre nei tralci, la forza divina scende nell’apostolo per fortificarne l’intelligenza, radicandolo sempre più nella fede. Egli progredisce perché questa virtù illumina con luce più viva la sua via; egli si avanza risoluto, perché sa dove andare e in che modo deve raggiungere la sua meta. Insieme con questa luce, egli riceve tale energia soprannaturale di volontà, che anche il carattere debole e volubile diventa capace di azioni eroiche. In tal modo il Manete in me (Rimanete in me – Giov. XV, 4), l’unione con l’Immutabile, con colui che è il Leone di Giuda e il Pane dei forti, spiega la meraviglia dell’invincibile costanza e della fermezza cosi perfetta che nell’ammirabile apostolo che fu san Francesco di Sales, si univano a una dolcezza e ad un’umiltà senza pari. Lo spirito e la volontà si fortificano per mezzo della vita interiore, perché ne è fortificato l’amore. Gesù lo purifica, lo dirige, lo accresce progressivamente, lo fa partecipe dei sentimenti di compassione, di generosità, di abnegazione e di disinteresse del suo Cuore adorabile. Se questo amore cresce fino a diventare passione, allora porta fino al massimo sviluppo e adopera a suo profitto tutte le forze naturali e soprannaturali dell’uomo. – È facile giudicare ora l’aumento di meriti che risulta dalle energie moltiplicate dalla vita di orazione, se non dimentichiamo che il merito non consiste tanto nella difficoltà che vi può essere nel compiere un atto, quanto piuttosto dall’intensità della carità che si porta nel compierlo.
d) Gli dà gioia e consolazione
Soltanto un amore ardente e incrollabile può essere come il sole di una vita, perché l’amore possiede il segreto di dilatare il cuore anche in mezzo ai gravi dolori e alle fatiche opprimenti. La vita dell’uomo apostolico è un intreccio di patimenti e di fatiche; se egli non ha la convinzione di essere amato da Gesù, quante ore tristi, inquiete e scure per lui, anche se il suo carattere è allegro, eccetto che il cacciatore infernale non gli faccia luccicare lo specchietto delle consolazioni umane e dei buoni risultati apparenti, per meglio attirare l’ingenua allodola nelle sue reti inestricabili. Soltanto l’Uomo-Dio può strappare all’anima quel grido sovrumano: Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra (II Cor. VII, 4). In mezzo alle mie prove interne, dice l’apostolo, la parte superiore del mio essere, come quella di Gesù al Getsemani, gode di una felicità che non ha nulla di sensibile, senza dubbio, ma è di tale realtà che, nonostante l’agonia della parte inferiore, non la muterei certamente con tutte le gioie umane. – Viene la prova, la contraddizione, l’umiliazione, il dolore, la perdita dei beni, anche quella delle persone care, e l’anima accetterà tutte queste croci con disposizioni ben diverse da quelle che aveva al principio della sua conversione. Di giorno in giorno essa cresce nella carità. Il suo amore potrà essere senza splendore, il Maestro la potrà trattare da anima forte, conducendola per le vie di un annientamento sempre più profondo o per l’arduo sentiero dell’espiazione per lei o per il mondo, poco importa! Favorito dal raccoglimento, alimentato dall’Eucaristia, l’amore continua a crescere, e la prova ne è quella generosità con cui l’anima si sacrifica e si abbandona; quello slancio che la spinge a correre, senza badare alla pena, alla ricerca delle anime verso le quali si esercita il suo apostolato con una pazienza, con una prudenza, con un tatto, con una compassione e con un ardore che spiega la penetrazione della vita di Gesù in lei: Vivit vero in me Christus. Il sacramento dell’amore dev’essere il sacramento della gioia: l’anima non può essere interiore se non è eucaristica e se non gusta a fondo il dono di Dio, se non gode della presenza, se non gusta la dolcezza dell’Essere amato che essa possiede e adora. La vita dell’uomo apostolico è una vita di preghiera. «La vita di preghiera, dice il santo Curato d’Ars, è la grande felicità di quaggiù. Oh! bella vita! bella unione dell’anima con Gesù! L’eternità non può bastare per comprendere tale felicita… La vita interiore è un bagno di amore in cui l’anima s’immerge… Essa è come affogata dall’amore… Dio tiene l’anima interiore, come la madre tiene la testa del suo bimbo nella sua mano, per coprirla di baci e di carezze ». – È pure un alimento della gioia il contribuire a far servire e a far onorare l’oggetto del proprio amore. L’uomo apostolico conosce tutte queste felicità. Mentre si serve dell’azione per accrescere il suo amore, egli sente nel tempo stesso crescere la sua gioia e la sua consolazione. Venator animarum, egli ha la gioia di contribuire a salvare anime che si sarebbero perdute, e perciò ha la gioia di consolare Dio dandogli cuori che sarebbero stati per sempre separati da Lui, la gioia insomma di sapere che procura a se stesso una delle più salde assicurazioni del progresso nel bene e della gloria eterna.
e) Raffina la sua purità d’intenzione
L’uomo di fede giudica l’azione ben diversamente da chi vive solo di vita esteriore: egli ne scorge non tanto l’aspetto apparente quanto piuttosto la parte che ha nel disegno di Dio e i suoi risultati soprannaturali. Perciò, considerando se stesso come un semplice strumento, conserva in sé l’orrore di ogni compiacenza nella sua capacità, perché fonda la speranza della sua riuscita sulla persuasione della sua impotenza e sulla confidenza in Dio solo. Così egli si fonda nello stato di abbandono. In mezzo alle difficoltà, quanta differenza tra il suo atteggiamento e quello dell’uomo apostolico che non conosce l’intimità con Gesù! Questo abbandono del resto non diminuisce per nulla il suo ardore per l’opera intrapresa. Egli agisce come se la buona riuscita dipendesse unicamente dalla sua attività, ma in realtà egli l’attende soltanto da Dio (S. Ignazio). Egli non prova nessuna pena nel subordinare tutti i suoi progetti e le sue speranze ai disegni incomprensibili di quel Dio che spesso, per il bene delle anime, si serve dei rovesci meglio che dei trionfi. Da ciò risulta in quest’anima uno stato di santa indifferenza così per l’insuccesso come per la buona riuscita. Essa è sempre pronta a dire: O mio Dio, Voi non volete che l’opera incominciata si compia; a Voi non piace che io mi limiti ad agire generosamente ma sempre in pace, a sforzarmi per raggiungere lo scopo prefisso, ma lasciando a Voi solo la cura di decidere se la riuscita vi procurerà maggior gloria che non l’atto di virtù che una disdetta mi darebbe occasione di fare. Sia mille volte benedetta la vostra santa e adorabile volontà e, con l’aiuto della vostra grazia, possa io calpestare i più piccoli sintomi di vana compiacenza quando Voi benedite i miei disegni, come pure umiliarmi e adorarvi quando la vostra Provvidenza crederà bene di distruggere il frutto delle mie fatiche. A dire il vero, il cuore dell’apostolo sanguina quando vede le tribolazioni della Chiesa, ma non vi è nulla di comune tra il suo modo di soffrire e quello dell’uomo che non è animato da uno spirito soprannaturale. Ne è prova il contegno e l’attività febbrile di questo, quando sopraggiungono le difficoltà, le sue impazienze e il suo abbattimento, la sua disperazione e talora il suo annientamento dinanzi a rovine irreparabili. Il vero apostolo invece si giova di tutto, dei trionfi e dei rovesci, per accrescere la sua speranza e per dilatare la sua anima nell’abbandono fiducioso nella Provvidenza. Non vi è particolarità del suo apostolato, la quale non diventi soggetto di un atto di fede; non vi è momento del suo lavoro perseverante, che non gli dia occasione di dare prova di carità, perché con l’esercizio della custodia del cuore egli arriva a compiere ogni cosa con una purità d’intenzione sempre più perfetta e, con l’abbandono, a rendere il suo ministero sempre più impersonale. – In tal modo ciascuna delle sue azioni riveste sempre di più i caratteri della santità, e il suo amore delle anime, prima mescolato con molte imperfezioni, purificandosi sempre più, finisce con non vedere più le anime se non in Gesù, con non amarle più se non in Gesù, e cosi per mezzo di Gesù le genera a Dio: Filioli mei, quos iterum parturio donec firmetur Christus in vobis (Figliuolini miei, 1 quali io porto nuovamente in seno fino a tanto che sia formato in voi Cristo – Gal. IV, 19).
f.) È uno scudo contro lo scoraggiamento
L’apostolo che non comprende quale dev’essere l’anima del suo apostolato, non comprende questa frase di Bossuet: Quando Dio vuole che un’opera sia tutta di sua mano, riduce ogni cosa all’impotenza e al nulla, e poi agisce. Nessuna cosa ferisce tanto Dio, quanto l’orgoglio. Ora nella ricerca della buona riuscita, noi possiamo, per mancanza di purità d’intenzione, arrivare al punto di erigerci a divinità, a principio e fine delle nostre opere. Dio abbomina tale idolatria; perciò quando vede che l’apostolo manca di quella impersonalità che la sua gloria esige dalla creatura, lascia talvolta libero il campo alle cause seconde, e l’edificio non tarda a crollare. L’operaio, attivo, intelligente, generoso, si è messo all’opera con tutto il suo ardore; egli ha forse conosciuto i trionfi della buona riuscita, ne ha goduto e se n’è compiaciuto: era l’opera sua! la sua! Vorrebbe quasi far sue quelle parole famose: Veni, vidi, vici. Ma attendiamo un momento; un caso permesso da Dio; un’azione diretta di satana o del mondo vengono a colpire l’opera o la persona stessa dell’apostolo, e allora tutto va in rovina! Ma più deplorevole ancora è la rovina interiore, frutto dello tristezza e dello scoraggiamento di quel valoroso di ieri: quanto più esuberante era la gioia, tanto più profondo è lo scoraggiamento. Soltanto il Signore potrebbe rialzare quelle rovine: «Alzati, egli dice allo scoraggiato, invece di operare da solo riprendi il tuo lavoro con me, per mezzo di me e in me». Ma questa voce il disgraziato non la intende più; egli è così travolto dalla vita esteriore, che per intenderla ci vorrebbe un vero miracolo della grazia che egli non si può aspettare, per causa delle sue molte infedeltà. Soltanto una vaga convinzione della Potenza di Dio e della sua Provvidenza aleggia Sopra la desolazione di quello sventurato e non può bastare a dissipare la tristezza che lo inonda. Che spettacolo diverso nel vero sacerdote il cui ideale è di riprodurre in sé Gesù Cristo! Per lui la preghiera e la santità di vita rimangono i due grandi mezzi di azione sul cuore di Dio e sul cuore degli uomini. Egli si è sacrificato generosamente; ma il miraggio del trionfo gli è sembrato una prospettiva indegna di un vero apostolo. Arrivano le burrasche: poco importa quali siano le cause seconde che le hanno prodotte. In mezzo alle rovine, poiché egli ha lavorato soltanto con Gesù Cristo, ode in fondo al cuore ripetersi quello stesso Noli timere che durante la tempesta rendeva la pace e la sicurezza ai discepoli tremanti. Il primo risultato della prova è un nuovo slancio verso l’Eucaristia e un rinnovamento di intima divozione a Maria Addolorata. La sua anima, invece di lasciarsi schiacciare dal rovescio, esce ringiovanita di sotto il torchio: « sicutaquilæ iuventus renovabitur » (La tua giovinezza sarà rinnovata come quella dell’aquila – Ps. CII). Di dove gli viene quell’atteggiamento di umile trionfatore in mezzo alla sconfitta? Non bisogna cercarne il segreto altrove che in quella unione con Gesù e in quella fiducia incrollabile nella sua onnipotenza, che facevano dire a sant’Ignazio: Se la Compagnia venisse soppressa senza mia colpa, un quarto d’ora di colloquio con Dio mi basterebbe per ricuperare la calma e la pace. « Il cuore delle anime interiori è in mezzo alle umiliazioni e ai patimenti come uno scoglio in mezzo al mare » (Il CURATO D’ARS. — La maggior parte degli uomini di azione sono essi capaci di fare propri i sentimenti che il generale de Sonis esprime in questa bella preghiera riferita dall’autore della sua Vita?). Certamente l’apostolo soffre: la perdita di parecchie sue pecorelle sarà forse la conseguenza di ciò che ha reso inutili i suoi sforzi e che ha distrutto l’opera sua. Per questo vero pastore è una tristezza amara, ma che non può frenare l’ardore che lo spingerà a ricominciare da capo. Egli sa che la redenzione, applicata anche a un’anima sola, è un’opera grande che si compie soprattutto col dolore. La certezza che le prove sopportate generosamente aumentano i suoi progressi nella virtù e procurano a Dio una gloria maggiore, basta a sostenerlo. Egli poi sa che spesso Dio vuole da lui soltanto i germi della buona riuscita: altri verranno a raccogliere messi abbondanti e forse crederanno di potersene attribuire il merito; ma il Cielo saprà discernerne la causa nel lavoro ingrato e in apparenza sterile che le precedette. Misi vos metere quod non laborastis; alii laboraverunt et vos in labores eorum introistis (Vi ho mandati a mietere ciò che non avete lavorato; altri lavorarono e voi siete entrati nei loro lavori – Giov. IV, 38). Gesù Cristo, autore dei trionfi degli Apostoli dopo la Pentecoste, durante la sua vita pubblica volle soltanto lasciare dei germi, delle lezioni, degli esempi, e prediceva ai suoi Apostoli che loro sarebbe dato di fare opere più grandi che le sue: Opera quæ ego facio et ipse faciet et malora horum faciet (Giov. XIV, 12). Il vero apostolo scoraggiarsi! lasciarsi impressionare dai discorsi dei pusillanimi condannarsi al riposo dopo le disdette! Ma questo sarebbe non capire la sua vita intima e la sua fede in Gesù Cristo! Ape infaticabile, egli va allegramente a ricostruire i favi nell’alveare devastato.
In questi tempi infami, ove vigono le leggi ed usanze più turpi, ove l’abisso dell’empietà è pressoché infinito, ove la legge naturale è calpestata e quella divina derisa e dileggiata e ridicolizzata da ignobili e presuntuosi figuri servi del demonio e delle passioni più insane, leggere questa lettera del grande Leone XIII, è una boccata di ossigeno cattolica ancor più necessaria ora che ci è fatto obbligo di portare la museruola-mascherina, non quella che ci impedisce di respirare ossigeno e produce una ipercapnia nociva al corpo fisico, come tutti i medici ancora degni di questa nobile professione (rimasti ahimè in pochi) sanno perfettamente, bensì la mascherina dei cani muti citati da Isaia, che i finti prelati hanno ben accettato impersonando la figura dell’inerzia spirituale, della infingardia ed inettitudine dottrinale e dello zelo apostolico di cui non hanno nemmeno la più pallida memoria, presi come sono dall’orgoglio delle loro posizioni, onori e prebende. Vengano, questi scellerati servi della “bestia” e del “falso profeta” della sinagoga di satana, stabilizzatasi nelle chiesa dell’uomo del Vaticano II – il conciliabolo anatemizzato da più di mezzo secolo dalla bolla Execrabilis di Pio II – vengano ad abbeverarsi alla fonte della scienza divina qui mirabilmente esposta dal Sommo Pontefice, e si preparino, se non pentiti della loro servitù blasfema al loro signore dell’universo, quel lucifero al quale offrono un sacrilego sacrificio sugli altari rivoltati ignominiosamente verso il pubblico infedele, … si preparino a scendere nello stagno di fuoco preparato per il diavolo e per i suoi infami adepti… i mascherati “coronati” al ballo infernale con i compagni di loggia.
EXEUNTE IAM ANNO
LETTERA ENCICLICA DI SUA SANTITÀ LEONE PP. XIII
Sul declinare dell’anno in cui, per singolare dono e beneficio di Dio, abbiamo celebrato sani e salvi il cinquantesimo anniversario di sacerdozio, l’animo Nostro naturalmente ripercorre col pensiero i mesi trascorsi, e nel ricordo di tutto questo tempo grandemente si diletta. E n’ha ben donde: infatti un avvenimento che Ci riguardava solo personalmente, e che non era né grande per se stesso, né meraviglioso per la novità, suscitò tuttavia negli animi un insolito entusiasmo, venendo celebrato con tante e così luminose manifestazioni di esultanza e di congratulazione che non si poteva desiderare di più. La qual cosa certamente Ci tornò sommamente gradita ed amabile: ma ciò che soprattutto in essa apprezziamo è il significato delle dimostrazioni e la costanza nella fede apertamente professata. La concorde acclamazione, con la quale venimmo salutati da ogni parte, diceva chiaro ed aperto che da tutte le regioni le menti e i cuori sono rivolti al Vicario di Gesù Cristo; che, fra tanti mali dai quali siamo oppressi, gli uomini rivolgono fiduciosi gli sguardi alla Sede Apostolica, come ad una perenne e incontaminata fonte di salvezza; e che dovunque vige il nome cattolico, si rispetta e si venera, com’è doveroso, con ardente amore e somma concordia la Chiesa Romana, madre e maestra di tutte le Chiese.
Per queste ragioni nei trascorsi mesi più d’una volta levammo gli occhi al cielo, ringraziando Iddio ottimo ed immortale, che Ci aveva benignamente concesso una lunga vita e quel conforto delle Nostre pene, che più sopra abbiamo ricordato. Nello stesso tempo, appena Ci si offerse l’occasione, dichiarammo a chi di dovere la Nostra riconoscenza. Ora poi la chiusura dell’anno e del giubileo C’invita a rinnovare la memoria del beneficio ricevuto; e Ci torna molto gradito che la Chiesa tutta si unisca con Noi nel rinnovare il ringraziamento a Dio. Il Nostro cuore contemporaneamente domanda che attestiamo pubblicamente – e lo facciamo con la presente lettera – che come Ci furono di non lieve lenimento alle cure e ai travagli Nostri le molte prove di ossequio, di urbanità e di amore ricevute, così pure ne vivranno perenni in Noi la memoria e la riconoscenza. – Ma un più grave e santo dovere ancora Ci rimane. In questo trasporto di animi, esultanti nel rendere con inusitato ardore riverenza e onore al Romano Pontefice, Noi ravvisiamo la potenza e la volontà di Colui che suole spesso, e che solo può, trarre da minime cose il principio di grandi beni. Sembra infatti che il provvidentissimo Iddio abbia voluto, in mezzo a tanto traviamento d’idee, ravvivare la fede e offrirci insieme l’opportunità di richiamare il popolo cristiano all’amore di una vita migliore. Pertanto non resta che metter mano all’opera, affinché il seguito corrisponda al felice inizio, e attivarsi al massimo affinché i disegni di Dio vengano compresi ed attuati. Allora finalmente l’ossequio verso la Sede Apostolica sarà pieno e perfetto in ogni sua parte, quando, associato all’ornamento delle virtù cristiane, valga a condurre gli uomini alla salvezza: risultato che è il solo desiderabile e duraturo in eterno.
Dall’alto del ministero apostolico, in cui la bontà di Dio Ci ha collocati, prendemmo spesso il patrocinio della verità, e Ci studiammo di esporre principalmente quei punti della dottrina che Ci sembravano più adatti alla necessità, e più proficui al pubblico bene, affinché, conosciuta la verità, ognuno, vegliando e cautelandosi, fuggisse il soffio nefasto degli errori. Ora poi, quale padre amantissimo verso i suoi figliuoli, Noi vogliamo parlare a tutti i cristiani e con familiare discorso esortare ognuno di loro a intraprendere un tenore di vita cristiana. Infatti, per ben meritare il nome di cristiano, oltre alla professione della fede occorre l’esercizio delle virtù cristiane, dalle quali non solo dipende l’eterna salvezza dell’anima, ma anche la vera prosperità sociale e la tranquillità del consorzio civile. Se si esamina lo svolgersi della vita, non vi è chi non veda quanto i costumi pubblici e privati siano discrepanti dai precetti evangelici. Si adatta troppo bene alla nostra età quella sentenza dell’Apostolo Giovanni: “Tutto ciò che è nel mondo, è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita” (1Gv 2,16). I più, infatti, dimenticando il principio per cui nacquero ed il fine a cui sono chiamati, fissano tutti i loro pensieri e le loro sollecitudini nei vani e caduchi beni della terra; violentando la natura e scompigliando l’ordine stabilito, si rendono volontariamente schiavi di quelle cose che l’uomo dovrebbe, secondo ragione, dominare. – È poi naturale che con l’amore degli agi e dei piaceri si accoppi la cupidigia delle cose idonee a comprarli. Di qui quella sfrenata avidità di denaro che rende ciechi quanti invase, e corre tutto fuoco e a briglia sciolta a scapricciarsi, senza distinguere spesso il giusto dall’ingiusto, e non di rado con ributtante insulto alla miseria altrui. E così moltissimi, la cui vita nuota nell’oro, vantano a parole una fratellanza col popolo, che poi nell’intimo del cuore superbamente disprezzano. Allo stesso modo l’animo preso dalla superbia tenta di scuotere il giogo di ogni legge, calpesta ogni autorità, chiama libertà l’egoismo. “Come il puledro dell’onagro, ritiene di essere nato libero” (Gb XI,12). Gl’incentivi del vizio e i fatali allettamenti al peccato avanzano: intendiamo dire le licenziose ed empie rappresentazioni teatrali; i libri e i giornali scritti per fare apparire onesto il vizio e sfatare la virtù; le stesse arti, già inventate per le comodità della vita e l’onesto sollievo dell’animo, sono utilizzate quale esca per infiammare le passioni umane. Né possiamo spingere lo sguardo nel futuro senza tremare, vedendo i novelli germi dei mali che vengono di continuo deposti e accumulati in seno alla adolescente generazione. Vi è noto l’andamento delle pubbliche scuole: in esse non si dà luogo all’autorità ecclesiastica; e proprio nel tempo in cui sarebbe sommamente necessario informare con la più solerte cura gli animi ancor giovani alla pratica dei doveri cristiani, tacciono il più delle volte gl’insegnamenti della Religione. Gli adolescenti poi vanno incontro ad un pericolo maggiore, qual è una viziata dottrina; la quale sovente è tale che, più che ad istruire con la nozione del vero, serve ad infatuare la gioventù con i sofismi dell’errore. – Infatti nell’insegnamento delle scienze, moltissimi, trascurata la fede divina, amano filosofare col solo magistero della ragione; per cui, rimossi il solido fondamento e lo smagliante lume della fede, sono incerti in molte cose, e non distinguono il vero. Tale è il credere che quanto è nel mondo, tutto sia materiale; che gli uomini e gli animali abbiano identità d’origine e di natura; né mancano taluni che stanno in forse se vi sia, o no, un sommo Artefice del mondo e dominatore delle cose, Iddio; ovvero errano grandemente, a mo’ dei pagani, intorno alla sua natura. Donde è necessario che vengano alterati anche il concetto e la forma della virtù, del diritto e del dovere. E così mentre essi boriosamente vantano grandemente la supremazia della ragione e magnificano oltre misura l’acume dell’ingegno, scontano con l’ignoranza d’importantissime verità la pena dovuta alla loro superbia. Col pervertimento delle idee, si infiltra fin nelle vene e nel midollo delle ossa la corruzione dei costumi, e questa in tale gente non può venire sanata che con grandissima difficoltà: poiché da un lato i falsi principi alterano il giudizio dell’onestà, e dall’altro manca la luce della fede cristiana, che è principio e fondamento di ogni giustizia. – Per queste ragioni vediamo ogni giorno in qualche modo coi nostri occhi da quanti mali sia travagliata la società umana. Il veleno delle dottrine rapidamente invase la vita pubblica e privata: il razionalismo, il materialismo, e l’ateismo partorirono il socialismo, il comunismo, il nichilismo: altre e funeste pestilenze, le quali dovevano logicamente e inevitabilmente scaturire da quei principi. In verità, se si può rigettare impunemente la Religione Cattolica, la cui divina origine è chiara per segni tanto evidenti, perché non si dovrebbero respingere le altre forme di culto, che certamente mancano di tali prove di credibilità? Se l’anima non è per sua natura distinta dal corpo, e per conseguenza, se nella morte del corpo nessuna speranza ci resta di un’eternità beata, perché dovremo noi sobbarcarlo a fatiche e a travagli al fine di sottomettere il talento alla ragione? Il sommo bene dell’uomo sarà riposto nel godimento degli agi e dei piaceri della vita. E poiché non v’è alcuno che per istinto e impulso di natura non tenda alla felicità, a buon diritto ognuno spoglierebbe gli altri, secondo le sue possibilità, per procacciarsi con le cose altrui il godimento della felicità. Né vi sarebbe potere al mondo che avesse così poderosi freni da imbrigliare le impetuose passioni; conseguentemente ove venga ripudiata la somma ed eterna legge di Dio, è inevitabile che il vigore delle leggi s’infranga, e ogni autorità si svigorisca. Ne consegue necessariamente che la società civile si sconvolga fin dal profondo, e che i singoli membri siano spinti a perpetua lotta dalla loro insaziabile cupidigia, affannandosi gli uni a raggiungere gli agognati beni, e gli altri a conservarli. – Tale è certamente la tendenza dell’età nostra. Tuttavia vi è di che consolarci alla vista dei mali presenti, e sollevare l’animo a liete speranze per l’avvenire. Infatti “Dio creò tutte le cose perché esistessero, e fece sanabili le nazioni di tutto l’orbe” (Sap 1,14). Ma come questo mondo non può essere conservato se non dalla volontà e dalla provvidenza di Colui che l’ha creato, così pure gli uomini non possono essere risanati che dalla sola virtù di Colui che li ha redenti. – Infatti Gesù Cristo a prezzo del suo sangue riscattò una volta sola il genere umano, ma perenne e perpetua è l’efficacia di tanta opera e di sì gran beneficio: “e non c’è salvezza fuori di Lui” (At IV, 12). Pertanto quanti si affaticano per estinguere, a forza di leggi, la crescente fiamma delle passioni popolari, essi si affaticano sì per la giustizia, ma si debbono anche persuadere che con nessuno o con scarsissimo risultato consumeranno la fatica, ove persistano a ripudiare la forza del Vangelo e a non volere la cooperazione della Chiesa. La guarigione dei mali è riposta in questo che, mutato indirizzo, gl’individui e la società ritornino a Gesù Cristo e al retto cammino della vita cristiana. – Ora la sostanza e il perno della vita cristiana consistono nel non assecondare i corrotti costumi del secolo, ma nell’osteggiarli con virile fermezza. Questo ci insegnano le parole e i fatti, le leggi e le istituzioni, la vita e la morte di Gesù, “autore e perfezionatore della fede”. Dunque, per quanto il guasto della natura e dei costumi ci attiri altrove, lontano dalla meta, occorre che noi corriamo “alla tenzone che ci aspetta”, agguerriti e pronti con quel coraggio e con quelle armi con le quali Egli, “propostosi il gaudio, sostenne la croce” (Eb XII,1-2).
Gli uomini vedano pertanto e comprendano quanto sia lontano dalla professione della fede cristiana il seguire – come si fa oggi – ogni sorta di piaceri e rifuggire le fatiche, compagne della virtù e nulla rifiutare a se stesso di quanto piacevolmente e delicatamente alletta i sensi. ” Coloro che sono di Cristo hanno crocifisso coi vizi e le concupiscenze la propria carne” (Gal V, 24): dal che si rileva che non sono di Cristo coloro i quali non si esercitano né si abituano a patire, disprezzando le mollezze e la voluttà. L’uomo, mercé l’infinita bontà di Dio, fu restituito alla speranza dei beni immortali dai quali era precipitato; ma non può conseguirli, se non cercando di calcare le orme di Cristo, meditandone gli esempi, conformando a Lui il cuore e i costumi. Pertanto non è consiglio, ma dovere, né solamente per quelli che abbracciarono un genere di vita più perfetto, ma per tutti, “il portare nel corpo la mortificazione della carne” (2Cor IV, 10). Come potrebbe altrimenti rimanere salda la stessa legge di natura, la quale comanda all’uomo di vivere virtuosamente? Infatti col santo Battesimo si cancella la colpa che si contrasse nascendo, ma non per questo vengono recisi i rei germogli innestati dal peccato. Quella parte dell’uomo che è irragionevole, ancorché non possa nuocere a chi, mercé la grazia di Cristo, si oppone virilmente, tuttavia contrasta con il regno della ragione, turba la pace dell’animo e tirannicamente trascina la volontà lontano dalla virtù con tanta forza che, senza una lotta quotidiana, non possiamo né fuggire il vizio né compiere i nostri doveri. “Il santo Concilio riconosce e dichiara che nei battezzati rimane la concupiscenza, o stimolo, che, lasciata all’uomo per la battaglia, non può nuocere a chi non si arrende, ma anzi la respinge virilmente con la grazia di Gesù Cristo; chi debitamente combatterà, verrà coronato” . In questa battaglia vi è un grado di forza a cui non perviene che una virtù eccellente, cioè quella di coloro i quali, combattendo i moti contrari alla ragione, si avvantaggiarono a tal punto che sembrano condurre in terra una vita quasi celeste. – Per quanto sia di pochi una così rilevante perfezione, tuttavia, come la stessa antica filosofia insegnava, nessuno deve lasciare senza freno le proprie passioni, soprattutto coloro che utilizzando ogni giorno le cose terrene sono più esposti ai pericoli del vizio, a meno che qualcuno non pensi stoltamente che deve essere minore la vigilanza dove è più imminente il pericolo, o abbiano meno bisogno della medicina coloro che sono più gravemente ammalati. Quanto poi alla fatica che viene sostenuta in tale lotta, essa viene compensata, oltre che dai beni celesti e immortali, anche da altri grandi vantaggi, il primo dei quali è che, riordinati gli appetiti dell’uomo, moltissimo si rende alla natura della sua dignità primitiva. Infatti, con questa legge e con quest’ordine l’uomo venne creato affinché l’anima dominasse il corpo, e la cupidigia fosse governata dalla ragione e dal buon senso: da ciò deriva che il non darsi in preda alle tiranniche passioni sia la più sublime e desiderabile libertà. – Inoltre, senza quella disposizione di animo, non si vede che cosa ci si possa aspettare di bene nella stessa società umana. Potrà, per ventura, essere propenso a beneficare gli altri chi è abituato a prendere norma e misura di quanto deve fare, o fuggire, dall’amore di se stesso? Nessuno, che non sappia dominare se medesimo, e disprezzare per amore della virtù tutte le cose umane, può mai essere né magnanimo, né benefico, né misericordioso, né disinteressato. Non taceremo nemmeno che gli uomini – come è deciso dalla volontà divina – non possono raggiungere la salvezza senza fatica e senza pena. Infatti, se Dio concedette all’uomo la liberazione dalla colpa e il perdono dei peccati, glieli accordò con questa legge: che il suo Unigenito ne portasse la giusta e dovuta pena. E Gesù Cristo, pur potendo per altre vie soddisfare alla giustizia divina, volle piuttosto soddisfarla a prezzo di sommi tormenti, col dono della vita. E ai discepoli e seguaci impose questa legge suggellata col suo sangue: che la loro vita fosse una continua battaglia coi vizi dei costumi e dei tempi. Che cosa formò invitti gli Apostoli nell’addottrinare con la verità il mondo, e rinvigorì innumerevoli martiri nel dare testimonianza alla fede cristiana con la prova suprema del sangue, se non la disposizione dell’animo ossequiente senza timore a detta legge? Non scelsero di andare per altra via quanti ebbero a cuore di vivere cristianamente e di procacciare con la virtù il proprio bene; né per altra dobbiamo incamminarci noi, se vogliamo provvedere alla nostra e alla comune salvezza. – Pertanto, in mezzo a questa spudorata e dominante licenza, è necessario che ciascuno virilmente si difenda dagli allettamenti della lussuria; e poiché è tanto sfrontata l’ostentazione che si suol fare di una vita agiata ed opulenta, è anche necessario premunire l’animo contro il fascino del lusso e delle ricchezze, affinché il cuore, desiderando quelle cose che si dicono beni ma che non possono sfamarlo e sono fugaci, non venga a perdere un tesoro immarcescibile in cielo. Da ultimo, è altresì da deplorare che massime ed esempi dannosi abbiano avuto tanta forza da effeminare gli animi a tal punto che moltissimi oggi arrossiscono del nome e della vita cristiana, il che è proprio o di una profonda corruzione, o di una grande insipienza. Entrambe detestabili, entrambe tali che non può capitare all’uomo un male peggiore. Infatti, quale scampo rimarrebbe agli uomini, o in che cosa appoggerebbero essi la loro speranza, se tralasciassero di gloriarsi del Nome di Gesù Cristo e ricusassero di comportarsi a viso aperto e con fermezza secondo i precetti evangelici? È comune lamento che la nostra età è infeconda di uomini forti. Si richiamino in vigore i costumi cristiani, e con ciò saranno restituite fermezza e costanza alle umane capacità. – Ma a tanta grandezza e varietà di doveri la virtù dell’uomo non può bastare da sola. Quindi conviene che, come si domanda a Dio il pane quotidiano per alimento del corpo, così pure da Lui s’implorino la forza e il vigore per l’anima, affinché questa si consolidi nella pratica della virtù. Per cui, quella comune legge e condizione della vita, che dicemmo consistere in un perpetuo combattimento, va sempre congiunta con la necessità della preghiera, poiché, come con verità e grazia dice Agostino, la pia orazione trascende gli spazi del mondo e fa scendere dal cielo la misericordia divina. Contro gli assalti delle torbide passioni e contro le insidie del demonio dobbiamo, per non essere irretiti dalle sue frodi, chiedere i conforti e gli aiuti celesti, secondo il divino oracolo: “Pregate per non cadere in tentazione” (Mt XXVI, 41). Quanto maggiormente ne abbiamo bisogno, se in più vogliamo procurare la salvezza agli altri! Cristo Signore, l’Unigenito Figlio di Dio, fonte d’ogni grazia e virtù, ci comandò con le parole quanto per primo ci dimostrò con l’esempio, “trascorrendo le notti nella preghiera a Dio” (Lc VI, 12), e vicino al sacrificio “pregava più intensamente” (Lc XXII, 43). – Per la verità assai meno sarebbe da temere la fragilità della natura, né i costumi si pervertirebbero nell’ozio e nell’infingardaggine, se questo divino precetto non fosse così spesso per negligenza o per stanchezza trascurato. Infatti Dio è placabile con la preghiera; Egli vuole beneficiare gli uomini, e ha chiaramente promesso che a larga mano darà dovizia di grazie a chi gliene chiederà. Ché anzi Egli stesso ci invita, e quasi ci provoca con amorevolissime parole: “Io vi dico, chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi verrà aperto” (Lc. XI, 9). E affinché non temiamo di pregarlo con fiducia e familiarità, tempera la sua divina maestà con l’immagine e la somiglianza di un tenerissimo padre a cui nulla è più caro dell’amore dei figli: “Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a coloro che gliele domandano?” (Mt. VII,11). – Chi avrà meditato queste cose, non si meraviglierà se a Giovanni Crisostomo la preghiera sembra tanto efficace da reputarla paragonabile alla stessa potenza di Dio. Infatti, nello stesso modo in cui Dio con una parola creò l’universo, l’uomo con la preghiera ottiene da Lui ciò che vuole. Niente è più efficace per ottenere grazie, quanto le buone orazioni, poiché esse contengono quei motivi dai quali Iddio si lascia più facilmente placare e intenerire. Nell’orazione noi storniamo l’animo dalle cose terrene e, attratti col pensiero nella contemplazione del solo Dio, abbiamo coscienza dell’umana debolezza: pertanto riposiamo nella bontà e nell’amplesso di nostro Padre, e cerchiamo rifugio nella potenza del Creatore. Noi ci presentiamo con insistenza all’Autore di tutti i beni, come per mostrargli l’anima nostra inferma, le forze fiacche e la nostra indigenza; pieni di speranza imploriamo tutela e soccorso da Colui che solo può somministrare il rimedio alle nostre infermità e offrire conforto alla nostra miseria e alla nostra debolezza. Grazie a questa umile e modesta disposizione d’animo, necessaria da parte del credente, meravigliosamente Iddio si piega a clemenza; perché, come resiste ai superbi, “così dà grazia agli umili” (1Pt V, 5). – Sia dunque sacra a tutti la pratica dell’orazione: preghino la mente, l’anima, la voce, e concordi il vivere con il pregare; affinché la nostra vita, mercé l’osservanza delle leggi divine, appaia un continuo volo dell’anima a Dio. – Come tutte le altre virtù, così anche questa di cui parliamo venne generata e sorretta dalla fede divina. Infatti Dio è Colui che ci dà a intendere quali siano i veri e desiderabili beni; e ci fa conoscere la sua infinita bontà e i meriti di Gesù Redentore. Ma niente vien meglio in aiuto ad alimentare e crescere la fede quanto la pia pratica dell’orazione. Appare chiaro quanto sia stringente il bisogno di tale virtù, che in molti è rilassata e in altri addirittura spenta. Infatti da essa deve specialmente attendersi non solo la correzione dei costumi privati, ma anche la norma per giudicare di quelle cose, il cui conflitto non lascia gli Stati tranquilli e sicuri. Se il popolo è tormentato da una sete ardente di libertà, se dappertutto scoppiano minacciosi i fremiti dei proletari, se la snaturata ingordigia dei più ricchi non dice mai basta, e se vi sono altri sconci di tal fatta, a questo certamente non si può recare, come altra volta più diffusamente dimostrammo, un rimedio migliore e più sicuro della fede cristiana. – Qui cade in proposito rivolgere il pensiero e la parola a voi tutti, che Dio elesse a suoi cooperatori nell’amministrazione dei misteri e investì del suo divino potere. Ove si ricerchino le cause della privata e pubblica salute, non v’ha dubbio che, sia per il bene, sia per il male, influiscono assai la vita e i costumi degli ecclesiastici. – Si ricordino dunque di essere da Cristo chiamati “luce del mondo”; poiché “come la luce che irraggia tutto l’orbe, conviene che splenda l’anima del sacerdote” . Si ricerca nel sacerdote un lume non comune della dottrina, dato che è suo compito infondere negli altri la sapienza, estirpare gli errori, essere guida del popolo per gli sdrucciolevoli e incerti sentieri della vita. La dottrina poi vuole innanzi tutto avere per compagna l’innocenza della vita; massime perché nella riforma degli uomini si ottiene più con gli esempi che con la parola: “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone” (Mt V,16). Questa sentenza divina significa che nei sacerdoti la perfezione e la raffinatezza della loro virtù devono essere tali da servire da specchio a chi li osserva. “Nulla meglio ammaestra gli altri nella pietà e nel culto di Dio, come la vita e l’esempio di coloro che si dedicarono al divino ministero, poiché, essendo essi esposti agli sguardi in luogo più alto e sovrastante le cose del mondo, tutti si specchiano in loro, e da loro prendono il modello da imitare”. Per la qual cosa se tutti gli uomini debbono accuratamente guardarsi di cadere nei pericoli dei vizi, e di non correre con smodato amore dietro le cose caduche, appare ben chiaro con quanta più ragione debbano fare ciò con ogni scrupolosa cura e con costanza i sacerdoti. – Ma non è sufficiente non servire alle passioni: la santità del loro sublime grado domanda in più che si abituino a padroneggiare virilmente se stessi e a sottomettere a Cristo tutte le forze dell’anima, specialmente l’intelletto e la volontà, che sulle altre dominano. “Tu che ti prepari ad abbandonare tutto, ricordati che tra le cose da lasciare vi è l’amore di te stesso, anzi, sopra tutto rinnega te stesso”. Quando essi abbiano sciolto e liberato da ogni cupidigia il cuore, allora finalmente concepiranno un alacre e generoso zelo per l’altrui salute, senza neppure provvedere abbastanza alla propria: “Un solo guadagno, un solo vanto, una sola gioia essi debbono cercare nei loro fedeli, ed è di studiarsi di preparare in essi un popolo perfetto. A questo fine tutti debbono adoperarsi, mortificando anche la carne e il cuore, e non badando a fatiche e pene, a fame e sete, a freddo e nudità”. – Codesta impavida e sempre desta virtù, che si prodiga per il bene del prossimo in ardue imprese, viene mirabilmente alimentata e rinvigorita dalla frequente contemplazione delle cose celesti, e quanto più ad essa si dedicheranno, tanto meglio comprenderanno la grandezza e la santità del ministero sacerdotale. Comprenderanno quanto sia deplorevole cosa che tanti, redenti da Gesù Cristo, piombino nell’eterna rovina: con la meditazione dell’essere divino ecciteranno maggiormente se stessi e gli altri all’amore di Dio. – Ecco la via sicurissima della salvezza pubblica. Però bisogna stare molto attenti che nessuno si abbatta per la grandezza delle difficoltà o disperi della guarigione per la permanenza dei mali. L’imparziale ed immutabile giustizia di Dio riserba il premio alle buone opere, la pena alle malvagie: ma quanto alle nazioni, che non possono propagarsi oltre la cerchia del tempo, conviene che esse abbiano la loro retribuzione su questa terra. Non è cosa nuova, è vero, che prosperi successi allietino una nazione peccatrice, e ciò per giusta disposizione di Dio, il quale, non essendovi popolo al mondo che sia privo di ogni onestà, con siffatti premi talora ricompensa le lodevoli azioni; come successe al popolo romano secondo Agostino. Nondimeno è legge stabilita che il più delle volte alla prospera fortuna giovi il pubblico culto della virtù, massime di quella che è madre di tutte le altre, cioè la giustizia. “La giustizia solleva, il peccato deprime e immiserisce i popoli” (Pr 14,34). Non vale qui rivolgere l’attenzione alla trionfante ingiustizia, né ricercare se vi siano regni i quali, correndo prospera la cosa pubblica e secondo i loro desideri, covino tuttavia nelle intime viscere il germe dei mali. Questo solo vogliamo che s’intenda, e di questi esempi è ricca la storia: doversi presto o tardi pagare il fio delle ingiustizie, e tanto più severamente quanto furono più durevoli i misfatti. – Quanto a Noi, Ci è di gran conforto la sentenza dell’Apostolo Paolo: “Tutte le cose sono vostre; voi siete di Cristo; Cristo è di Dio” (1Cor III, 22-23). Il che significa che per arcana disposizione della provvidenza divina il corso delle cose mortali viene retto e governato in modo che quanto succede agli uomini è subordinato alla gloria di Dio, e parimenti portano alla salvezza le opere di coloro che seguono Gesù Cristo sinceramente e di cuore. – Di questi è madre e nutrice, guida e custode la Chiesa, la quale, come con intima e immutabile carità è unita a Cristo, suo Sposo, così si associa con Lui nelle lotte e partecipa della vittoria. Non siamo dunque né possiamo essere inquieti per la causa della Chiesa: ma temiamo vivamente per la salvezza di moltissimi, i quali, voltate superbamente le spalle alla Chiesa, errando per vie diverse, precipitano nella dannazione, e Ci angosciamo altresì per quegli Stati che siamo costretti a vedere lontani da Dio, e con stupida sicurezza addormentati sull’orlo del precipizio. “Niente può stare a fronte della Chiesa… Quanti la combatterono, altrettanti perirono. La Chiesa trascende i cieli. La sua grandezza è tale che, combattuta, vince; insidiata, supera gli agguati… lotta e non è abbattuta, si azzuffa nel pugilato e non è mai superata”. – Né soltanto non è mai superata, ma conserva intera quella virtù riformatrice della natura, principio di salute ch’ella perennemente attinge e deriva da Dio: resta immutabile pur nel mutare dei tempi. Se già divinamente rigenerò il mondo invecchiato nei vizi e perduto nelle superstizioni, perché non potrà richiamarlo, traviato, sul retto sentiero? Tacciano una buona volta i sospetti e gli odii: e la Chiesa, tolti di mezzo gli ostacoli, sia ovunque padrona dei propri diritti, poiché ad essa spetta conservare e diffondere i benefici procurati da Gesù Cristo. Allora si potrà conoscere, attraverso l’esperienza, fin dove giunga il potere illuminante del Vangelo, e quanto possa la virtù di Cristo redentore. – Questo stesso anno prossimo a finire ha mostrato, come dicemmo all’inizio, non pochi indizi che la fede torna a rivivere nei cuori. Voglia Dio che questa piccola scintilla cresca in gran fiamma, la quale, distrutte le radici dei vizi, sgombri sollecitamente la via al rinnovamento dei costumi e ad opere salutari. – Noi, preposti al governo della mistica nave della Chiesa in tempi così burrascosi, fissiamo la mente e il cuore nel divino Pilota che siede invisibile a poppa, governandone il timone. – Tu vedi, o Signore, come da ogni parte erompano impetuosi i venti ed il mare si arruffi, levando altissimi flutti. Deh, Tu che solo lo puoi, comanda ai venti e al mare. Rendi all’umana famiglia la vera pace, che il mondo non può dare, e la tranquillità dell’ordine. – Cioè gli uomini, mercé la tua grazia e il tuo impulso, facciano ritorno all’ordine dovuto, restaurando nei loro cuori la necessaria pietà verso Dio, la giustizia e la carità verso il prossimo e la temperanza verso se stessi, con pieno dominio della ragione sull’ingordigia. Venga il tuo regno; e quelli stessi che lontano da Te si affaticano invano nella ricerca della verità e della salute, intendano che è indispensabile che a Te si assoggettino e Ti servano. Sono connaturate nelle tue leggi la giustizia e una soavità paterna: e Tu stesso spontaneamente ci doni, mercé la tua grazia, la possibilità di osservarle. La vita dell’uomo sulla terra è combattimento, ma Tu stesso “sei spettatore della battaglia, aiuti l’uomo a vincere, se è scorato lo rinfranchi, e se è vincitore lo coroni”.
Con l’animo sollevato da queste considerazioni verso una lieta e salda speranza, Noi amorosamente nel Signore impartiamo a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero e a tutto il popolo cattolico l’Apostolica Benedizione, auspice dei celesti doni e testimone della Nostra benevolenza.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno del Natale di Nostro Signore Gesù dell’anno 1888, undecimo del Nostro Pontificato.
La Chiesa ci fa leggere in questo tempo nel Breviario il principio del libro dell’Ecclesiaste: « Vanità delle vanità, dice l’autore sacro, tutto è vanità. Si dimentica ciò che è passato, e le cose. che debbono ancora venire non lasceranno ricordi presso quelli che verranno più tardi. Io ho vedute tutte le cose che avvengono sotto il sole, ed ecco che sono tutte vanità e afflizione dell’anima. I perversi difficilmente si correggono e infinito è il numero degli insensati » (7° Nott.). « Dopo che Salomone poté contemplare la luce della vera sapienza, dice S. Giovanni Crisostomo, uscì in questa esclamazione sublime e degna del cielo: « Vanità delle vanità, tutto è vanità! ». A vostra volta, se volete, potete rendere simile testimonianza. È vero che nei secoli passati, Salomone non era tenuto ad una diligente ricerca della sapienza, poiché l’antica legge non considerava vanità il godimento dei beni superflui; tuttavia, malgrado questo stato di cose, si può vedere quanto siano vili e dispregevoli. Ma noi, chiamati a virtù più perfette, saliamo a cime più alte, ci esercitiamo in opere più difficili. Che dire di più se non che ci è stato comandato di regolare la nostra vita su virtù celesti, che non hanno nulla di materiale e che sono tutta intelligenza? » (2° Nott.). Queste virtù celesti sono per eccellenza, le tre virtù teologali: « fede, speranza, carità » che l’Orazione ci fa chiedere a Dio affinché noi « non amiamo se non quello che Egli ci comanda ». Ed è per questo motivo che la Chiesa fa leggere in questo giorno [‘Epistola di S. Paolo ai Corinti, che ha per oggetto la fede in Gesù Cristo, fede che agisce mediante la carità e che ci fa mettere, come già Abramo, la nostra speranza nel divino Salvatore. Infatti solo per questa fede operante e confidente, le anime coperte dalla lebbra del peccato vengono guarite come ci mostra il Vangelo. I dieci lebbrosi che rappresentano in qualche modo le trasgressioni fatte dagli uomini ai dieci comandamenti, scorgono il loro divino Medico e, ponendo subito in Lui ogni speranza: « Maestro, abbi pietà di noi! » gridano. La fede loro è operante, perché quando Cristo li mette alla prova dicendo: « Andate, mostratevi ai sacerdoti », essi vanno senza esitare e, andando, sono guariti. Ma questa guarigione è confermata da uno solo di quelli che tornò indietro per mostrare la sua riconoscenza a Gesù. « Quando uno di essi si vide guarito, tornò sui suoi passi, glorificando Dio ad alta voce e cadendo con la faccia a terra ai piedi di Gesù, lo ringraziò ». Gesù allora gli disse: « Va, la tua fede ti ha salvato ». Questo mostra che è la fede in Gesù che salva le anime. Ora se è la fede in Gesù che salva le anime, la Chiesa ha precisamente da Gesù la missione di far penetrare nelle anime questa fede mediante la predicazione e la lettura. Questo passo del Vangelo ci indica anche l’espulsione dei Giudei che sono stati ingrati verso Colui che era venuto per guarirli, mentre i Gentili gli sono stati fedeli. Dei dieci lebbrosi infattinove erano Giudei e uno solo non lo era, ed è a questo solo — che era Samaritano, e tornò indietro a ringraziare il Salvatore — che Gesù dice: La tua fede t’ha salvato. Da ciò si vede non essere soltanto ai figli d’Abramo secondo il sangue che è stata fatta questa promessa, ma ancora a tutti coloro i quali sono suoi figli perché partecipi della sua fede in Gesù Cristo. Infatti è per questa fede che la promessa di vita eterna fatta ad Abramo si estende a tutti i popoli. Così l’Orazione della III Profezia del Sabato Santo dice che « col Battesimo, Dio, moltiplicando i figli della promessa stabilisce Abramo, suo servo, padre di tutte le genti secondo la profezia ». « Fate, soggiunge la quarta Orazione, che tutti i popoli della terra diventino figli d’Abramo e partecipino della grandezza toccata in sorte al popolo d’Israele». I Gentili occupano dunque il posto dei Giudei. « I nove, commenta S. Agostino, gonfi d’orgoglio, credevano di umiliarsi col ringraziare; e non ringraziando sono stati riprovati e rigettati dall’unità che si trova nel numero dieci (vi erano dieci lebbrosi), mentre l’unico che ringrazia è approvato dall’unica Chiesa. — Così per il loro orgoglio, i Giudei perdettero il regno dei cieli dove regna la più grande unità; mentre il Samaritano, sottomettendosi al re col suo ringraziamento, ha conservata l’unità del regno per la sua devozione piena di umiltà» (Mattutino). I Giudei entreranno in massa nel regno dei cieli alla fine del mondo, allorché crederanno in Gesù, ed è a ciò cui fa allusione l’Introito quando essi chiedono che la loro esclusione dalla Chiesa non sia irrevocabile: « Ricordati, o Signore, della tua alleanza, non abbandonare le anime dei poveri alla fine.Perché, o Dio, ci hai rigettati? Perché la tua collera si è accesa contro le pecore del tuo ovile? ». E la Chiesa chiede a Dio « d’essere propizio al suo popolo, e, placato dal sacrificio che gli viene offerto, di perdonare la sua ingratitudine » (Secr.). Quanto ai Gentili, essi dicono a Gesù che ripongono in Lui tutta la loro speranza (Off.) perché si è fatto loro rifugio di generazione in generazione (All.) e li nutre del suo pane celeste, come fece per gli Ebrei nel deserto, allorché dette la manna che conteneva ogni sapore ed ogni dolcezze (Com.).
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps LXXIII: 20; 19; 23 Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te.
[Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le anime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]
Ps LXXIII: 1
Ut quid, Deus, reppulísti in finem: irátus est furor tuus super oves páscuæ tuæ?
[Perché, o Signore, ci respingi ancora? Perché arde la tua ira contro il tuo gregge?]
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te.
[Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]
Oratio
Orémus. Omnípotens sempitérne Deus, da nobis fídei, spei et caritátis augméntum: et, ut mereámur asséqui quod promíttis, fac nos amáre quod præcipis.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, aumenta in noi la fede, la speranza e la carità: e, affinché meritiamo di raggiungere ciò che prometti, fa che amiamo ciò che comandi.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti S. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
[Gal. III: 16-22]
“Fratres: Abrahæ dictæ sunt promissiónes, et sémini ejus. Non dicit: Et semínibus, quasi in multis; sed quasi in uno: Et sémini tuo, qui est Christus. Hoc autem dico: testaméntum confirmátum a Deo, quæ post quadringéntos et trigínta annos facta est lex, non írritum facit ad evacuándam promissiónem. Nam si ex lege heréditas, jam non ex promissióne. Abrahæ autem per repromissiónem donávit Deus. Quid igitur lex? Propter transgressiónes pósita est, donec veníret semen, cui promíserat, ordináta per Angelos in manu mediatóris. Mediátor autem uníus non est: Deus autem unus est. Lex ergo advérsus promíssa Dei? Absit. Si enim data esset lex, quæ posset vivificáre, vere ex lege esset justítia. Sed conclúsit Scriptúra ómnia sub peccáto, ut promíssio ex fide Jesu Christi darétur credéntibus”.
[“Fratelli: Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua discendenza. Non dice la scrittura: E ai suoi discendenti, come si trattasse di molti; ma come parlando di uno solo: E alla tua discendenza; e questa è Cristo. Ora, io ragiono così; un’alleanza convalidata da Dio non può, da una legge venuta quattrocento anni dopo, essere annullata, così da rendere vana la promessa. Poiché, se l’eredità viene dalla legge, non vien più dalla promessa. Ma Dio l’ha donata ad Abramo in virtù d’una promessa. Perché dunque la legge? È stata aggiunta in vista delle trasgressioni, finché non venisse la discendenza a cui era stata fatta la promessa, e fu promulgata per mezzo degli Angeli per mano di un mediatore. Ora non si dà mediatore di uno solo, e Dio è uno solo. Dunque la legge è contraria alle promesse di Dio? Niente affatto. Se fosse stata data una legge capace di procurarci la vita, allora, sì, la giustizia verrebbe dalla legge. Ma la Scrittura ha racchiuso tutto sotto il peccato, affinché la promessa, mediante la fede in Gesù Cristo, fosse data ai credenti»”.
Omelia I
[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]
UNO SGUARDO AL CROCIFISSO
S. Paolo aveva insegnato ai Galati che la giustificazione non dipende dalla legge di Mosè, ma dalla fede in Gesù Cristo, morto per noi in croce. Ma Gesù Crocifisso. dipinto tanto vivamente dall’Apostolo ai Galati, era stato ben presto dimenticato da essi, lasciatisi affascinare da coloro che insegnavano dover noi attendere la nostra salvezza dalla legge. S. Paolo, rimproverata la loro stoltezza, nota come Gesù, morendo sulla croce, maledetta dalla legge, libera i Giudei dalla maledizione, e conferisce a tutti, Giudei e Gentili, che si uniscono nella fede in Gesù Cristo, lo Spirito promesso. Passa poi a far osservare come vediamo nell’epistola di quest’oggi, che la promessa dei beni celesti, fatta ad Abramo e alla sua discendenza. cioè al Cristo, nel quale si sarebbero unite tutte le nazioni a formare un solo popolo, essendo incondizionata, fatta ad Abramo direttamente da Dio, e da Dio confermata, aveva tutto il carattere d’un patto irremissibile. Non poteva, quindi, venir indebolita o modificata dalla legge di Mosè venuta 430 anni dopo, con un contratto temporaneo. La legge, del resto, non escludeva la promessa, dal momento che essa non poteva giustificare e dare la vita, come fa la promessa. E neppure fu inutile; perché, facendo conoscere i numerosi doveri da compiere, senza porgere l’aiuto necessario, metteva l’uomo nella condizione di dover sperimentare tutta la propria debolezza e di sentir la necessità d’un Redentore; e di riconoscere, per conseguenza, che le celesti benedizioni non possono essere effetto della legge, ma della promessa, e che non si ottengono che con la fede in Gesù Cristo. Gesù Cristo, che morendo in croce, adempie le promesse fatte da Dio, sarà l’argomento di questa mattina. – Gesù Cristo Crocifisso, così presto dimenticato dai Galati, fermi la nostra attenzione. Consideriamo come il Crocifisso:
1. È il centro dei cuori
2. È la nostra guida,
3. È la causa della nostra salvezza.
1.
La legge mosaica non ci dà l’eredità né le benedizioni promesse, Essa è stata aggiunta in vista delle trasgressioni,finché non venisse la discendenza a cui era stata fatta la promessa. La legge aveva lo scopo di indicare le trasgressioni e di far sentire il peso dei peccati, risvegliando così e tenendo desta l’aspirazione al Salvatore, senza la grazia del quale era impossibile l’osservanza dei precetti. L’eredità e le benedizioni noi le abbiamo in Gesù Cristo, che muore per noi sulla croce. Dopo la risurrezione di Lazzaro, i pontefici e i farisei, che volevano sbarazzarsi di Gesù, radunato il consiglio, si pongono la domanda: «Che facciamo? Poiché quest’uomo opera grandi meraviglie. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui». E Caifa, il pontefice di quell’anno, consiglia di disfarsene: «Conviene che un uomo muoia per il popolo» (Joan. I, 47). Che cosa si aspettavano costoro dalla morte di Gesù? Forse di seppellirne col corpo anche la memoria? Accecati dall’odio, questi orgogliosi che si vantavano di aver per padre Abramo, non avevano voluto riconoscere l’unica sua discendenza, cioè il Cristo, al quale erano state fatte tutte le promesse. Ragionando da veri insensati, confessano che Gesù compie dei miracoli, e invece di trarne la conseguenza: — Con questi miracoli egli prova che è veramente il Messia promesso, l’inviato di Dio, — concludono: — Sopprimiamolo: con la sua soppressione scompariranno anche i seguaci. — E lo sopprimono con la morte di croce. – Ma l’uomo propone e Dio dispone. Gesù Cristo aveva detto: «E io, quando sarò innalzato da terra, tutto trarrò a me (Joan. XII, 32). – Quando egli è innalzato sulla croce gli animi di buona volontà si rivolgono a Lui. Non è solamente il discepolo prediletto con la Madre e un gruppo di pie donne, che sono attratti a colui che muore sul patibolo. Uno dei due ladroni, che gli stanno di fianco, crocifisso come Lui, riconosce il Messia, che non vollero riconoscere i Giudei, e, rivolgendosi a Lui, lo pregò: «Signore, ricordati di me quando giungerai nel tuo regno. E Gesù gli rispose: Ti dico in verità; oggi sarai con me in Paradiso ». (Luc. XXIII, 42-43). Gesù è spirato sulla croce, e continua a conquistare anime e a piegare i cuori. Il centurione, che stava di rimpetto a Gesù crocifisso, proclama la sua divinità e dà gloria a Dio. Coloro che erano andati al Calvario per vedere il supplizio di Gesù, riconoscono l’ingiustizia commessa contro di Lui, ed esprimono il loro dolore percuotendosi il petto. Sulla croce Gesù inaugura il regno dell’amore che conquisterà tutti i popoli della terra. E la Chiesa può cantare solennemente: «Dio regnò dal legno» (Vexilla Regis). – Gli Apostoli, mandati alla conquista di coloro che erano sotto il giogo di Satana, presentano Gesù Crocifisso. armati di nient’altro che del crocifisso partirono alla conquista dei popoli i loro successori. Armati di quest’unica arma compiono ancora oggi le loro conquiste i missionari tra gente barbara e selvaggia. – Il Crocifisso cerca con lo sguardo e con l’anima colui che sta per partire da questo mondo: davanti al Crocifisso si reca a cercar il balsamo lenitore chi è provato dal dolore: nelle piaghe del Crocifisso cerca il suo porto di salvezza chi è agitato dalle tentazioni: baciando il Crocifisso, trova la rassegnazione e la pace chi muore per la mano della giustizia terrena. Il Crocifisso è veramente la pace, il gaudio la vita dei Cristiani; è il centro dei loro cuori.
2.
Se fosse stata data una legge capace di procurarci la vita, allora, si, la giustizia verrebbe dalla legge. Ma Dio non volle dare alla legge antica il potere di comunicare all’uomo la vita della giustizia. E così, l’uomo non deve cercare la sua salute nelle opere della legge. Deve cercarla, mediante la fede e la carità, in Gesù Cristo, salito sulla croce a immolarsi per tutti, a esser «guida e luce nella via dell’esilio». – Le inclinazioni degli uomini non sono, senza dubbio, un incitamento alla virtù. Gli uomini desiderano le ricchezze, e Gesù Cristo, che fu poverissimo durante la sua vita, sulla croce è spogliato dell’unica veste. Gli uomini bramano gli onori, la gloria. Gesù, che aveva rifiutato di esser fatto re durante gli anni della sua vita pubblica, sulla croce sopporta con animo mansuetissimo i disprezzi che gli si fanno da parte di tutti, dopo esser stato percosso, sputacchiato, da vili sgherri e dalla plebaglia. È là come l’aveva dipinto Isaia: «Come tu fosti lo stupore di molti, così il tuo aspetto sarà senza gloria tra gli uomini e la tua faccia tra i figli degli uomini» (Is. LII, 14). La disubbidienza spopolò il cielo d’una gran quantità di Angeli, e portò la rovina del genere umano. Gesù Cristo, che nella bottega di Nazaret passò la vita nell’ubbidienza a Maria e a Giuseppe, sulla croce ubbidisce ai carnefici, ai giudici iniqui, che un giorno saranno da Lui giudicati. Raramente noi ci manteniamo calmi nei contrasti, nelle pene. Ci ribelliamo, e dichiariamo ingiuste le afflizioni che ci provano. Gesù sulla croce, dissanguato dai flagelli, con le mani e i piedi trapassati da chiodi, con spine confitte nel capo, agnello senza macchia, sopportò il peso della pena dovuta ad altri, e tace. – Duro è per noi dimenticare le offese ricevute, amare coloro che ci fanno del male. Ma diventerebbe leggero, se dessimo uno sguardo a Gesù, che dalla croce, perdona a suoi offensori, li scusa, prega per loro. – Il Beato Vincenzo Maria Strambi, era stato incaricato dal Papa Pio VI di predicare una missione al popolo di Roma nella vastissima Piazza Colonna. Una sera, nella foga dell’orazione, gli venne a mancare la voce. Riusciti inutili gli sforzi per farsi sentire, prese nelle mani Crocifisso, e lo mostrò al popolo, additandone le piaghe grondanti sangue, e, come poté, disse: «Popolo mio, io non posso più parlare; questo crocifisso parlerà per me». E il crocifisso parlò veramente al cuore dei Cristiani, poiché nessuno partì da quella piazza senza di aver concepito il proposito d’una vita migliore. – Se noi amiamo Gesù Crocifisso, ogni volta che gli diamo uno sguardo parlerà al nostro cuore con parola ora ammonitrice, ora esortatrice, che ci farà progredire sempre più nella via del bene.
3.
Quando Gesù pende in croce, popolo, sacerdoti, senior e perfino il brigante che gli è crocifisso a fianco concordi nello scherno atroce : «Scenda dalla croce » (Matth. XXVII, 40-44). Se Gesù avesse voluto, sarebbe certamente sceso dalla croce. Poche ore prima solamente, aveva dato prova del suo potere, quando con due parole: «Sono io», dimostrò tanta potenza, che i soldati mandatigli incontro « diedero indietro e stramazzarono per terra» (Joan. XVIII, 6). Egli pende in croce, ma è sempre quel Gesù «potente in opere e in parole» (Luc. XXIV, 19) che guariva le malattie corporali e spirituali, che ridava la vita ai corpi e alle anime. Egli pende in croce come un malfattore, ma dalla croce dà la vita eterna al ladrone che gli sta vicino; e, spirando in croce, apre i sepolcri, da cui risorgono i morti addormentati nel Signore. Egli muore in croce, e la sua morte segna l’adempimento della promessa… data ai credenti. – Col peccato il giogo di satana era stato posto sul collo degli uomini, e nessuna forza umana avrebbe potuto scuoterlo. Gesù Cristo sulla Croce compì quello che nessun uomo avrebbe potuto compiere. Egli carica sopra di sé le colpe di tutti gli uomini; si presenta a Dio in abito di peccatore, e chiede che su Lui si compia la giustizia che doveva compiersi sui mortali. L’offerta è gradita al Padre, la sostituzione è accettata. Pene esterne e interne lo avvolgeranno come in un mare, e tutto sarà suggellato con la morte. Ma con questa morte il decreto di condanna è stracciato, il potere di satana è infranto. «Nel paradiso (terrestre) germogliò la morte; sulla croce la morte fu tolta » (S. Giov. Cris. In Epist. ad Eph. Hom. 20, 3). satana si era servito del frutto proibito per introdurre nel mondo il suo regno; per mezzo dell’albero della Croce Gesù Cristo prende la rivincita su satana. Sulla croce Gesù sta non come un giustiziato, ma come un conquistatore, che, conquiso e debellato il suo nemico, dall’alto del trono proclama la vittoria; e annuncia ai popoli tutti della terra la liberazione dalla schiavitù, la fine del regno della maledizione e il principio del regno della grazia. – Dall’alto della croce Gesù ci dice con le sue piaghe che il prezzo del riscatto è di valore così grande che nessuno, per quanto gravi siano i Suoi peccati, ne va escluso; dall’alto della croce, con le braccia aperte, Gesù ci dice tutta la sua brama di vederci vicini a Lui, di poterci abbracciare. – Non dimentichiamo, come i Galati, l’immagine del Crocifisso; ma frequentemente «si dia uno sguardo alla croce, su cui, per mezzo del gran delitto dei Giudei, ebbe compimento la volontà di Dio misericordioso, il quale volle che fosse ucciso il suo unico Figlio per la nostra salvezza ».
Graduale
Ps LXXIII:20; 19; 22.
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum: et ánimas páuperum tuórum ne obliviscáris in finem. [Signore, abbi riguardo al tuo patto: e non dimenticare per sempre le ànime dei tuoi poveri.]
Exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam: memor esto oppróbrii servórum tuórum. Allelúja, allelúja [V. Sorgi, o Signore, e difendi la tua causa e ricordati dell’oltraggio a Te fatto. Allelúia, allelúia].
Alleluja
Ps LXXXIX: 1 Dómine, refúgium factus es nobis a generatióne et progénie. Allelúja.
[O Signore, Tu fosti il nostro rifugio in ogni età. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam. Luc XVII: 11-19
“In illo témpore: Dum iret Jesus in Jerúsalem, transíbat per médiam Samaríam et Galilaeam. Et cum ingrederétur quoddam castéllum, occurrérunt ei decem viri leprósi, qui stetérunt a longe; et levavérunt vocem dicéntes: Jesu præcéptor, miserére nostri. Quos ut vidit, dixit: Ite, osténdite vos sacerdótibus. Et factum est, dum irent, mundáti sunt. Unus autem ex illis, ut vidit quia mundátus est, regréssus est, cum magna voce magníficans Deum, et cecidit in fáciem ante pedes ejus, grátias agens: et hic erat Samaritánus. Respóndens autem Jesus, dixit: Nonne decem mundáti sunt? et novem ubi sunt? Non est invéntus, qui redíret et daret glóriam Deo, nisi hic alienígena. Et ait illi: Surge, vade; quia fides tua te salvum fecit.”
[“In quel tempo andando Gesù in Gerusalemme, passava per mezzo alla Samaria e alla Galilea. E stando por entrare in un certo villaggio, gli andarono incontro dieci uomini lebbrosi, i quali si fermarono in lontananza, e alzarono la voce dicendo: Maestro Gesù, abbi pietà di noi. E miratili, disse: Andate, fatevi vedere da’ sacerdoti. E nel mentre che andavano, restarono sani. E uno di essi accortosi di essere restato mondo, tornò indietro, glorificando Dio, ad alta voce: e si prostrò per terra ai suoi piedi, rendendogli grazie: ed era costui un Samaritano. E Gesù disse: Non sono eglino dieci que’ che son mondati? E i nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse, e gloria rendesse a Dio, salvo questo straniero. E a lui disse: Alzati, vattene, la tua fede ti ha salvato”]
OMELIA II
[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]
Sul frequente uso della confessione.
“Ite, ostendite vos sacerdotibus. Luc. XVII.
Quel che Gesù Cristo disse a quei lebbrosi di cui si parla nell’odierno vangelo, è ciò, fratelli miei, che Egli c’incarica di dire ai peccatori coperti della lebbra del peccato, di cui quelli erano figura. Peccatori, che gemete sotto il peso di una malattia molto più funesta che la lebbra del corpo, poiché questa non gli toglie la vita, laddove il peccato dà la morte all’anima, volete voi essere guariti da questa malattia mortale, che vi ha fatto perdere la vita della grazia? Andate a scoprirla ai medici, che Gesù Cristo ha stabiliti per guarirvi, dichiarate i vostri peccati ai sacerdoti ch’Egli ha rivestiti della sua autorità per rimetterveli: Ite,ostendite vos sacerdotibus. Egli è vero che Gesù Cristo, supremo medico delle nostre anime, potrebbe benissimo guarirvi da se stesso senza inviarvi ai suoi ministri, come guarì un lebbroso del Vangelo nel momento che questi gliene ebbe fatta domanda, e come guarì anche quelli di cui abbiam parlato. Ma notate, fratelli miei, che sebbene il Salvatore accordasse la guarigione a quei lebbrosi, pure esigette da essi che, per ubbidire alla legge, andassero a mostrarsi a chi doveva dichiararli esenti dalla macchia legale, che avevano contratta. Egli voleva con questo, come osservano i santi Padri, farci conoscere qual sarebbe in appresso il potere dei sacerdoti della nuova legge, i quali non dovevano solamente, come quelli dell’antica, discernere i lebbrosi da coloro che tali non erano, e dichiararli esenti da una macchia legale; ma dovevano purificare i peccatori dalla lebbra e dalla macchia del peccato. Si è questo potere ammirabile, che Gesù Cristo ha lasciato ai sacerdoti nella persona degli Apostoli, allorché disse loro: A quelli cui rimetterete i peccati saranno rimessi, a quelli cui li riterrete saranno ritenuti. Con questo Egli ha stabiliti i sacerdoti giudici della causa dei peccatori, di modo che le sentenze, che essi pronunciano sulla terra siano ratificate nel cielo. Bisogna dunque, peccatori, che volete esser assolti dai vostri peccati, vi presentiate al tribunale di questi giudici; bisogna vi indirizziate a questi medici, se volete esser guariti dalle vostre malattie. Voi non potete sottrarvi alla loro giurisdizione, senza far contro la volontà di Gesù Cristo, che avrebbe loro dato un potere inutile di legarvi o sciogliervi, se non foste obbligati a sottomettervi al loro giudizio. Ma, oltre la legge, che vi obbliga a mostrarvi ai sacerdoti per dichiarare i vostri peccati, quanti vantaggi ve ne derivano! – Ed è appunto per questo motivo d’utilità, che io prendo quest’oggi ad esortarvi che vi accostiate spesso al sacro tribunale della penitenza. Vediamo quali sono i vantaggi di una buona e frequente confessione: primo punto; qual è il danno di coloro che si allontanano dalla confessione: secondo punto.
I. Punto. Non conviene dissimularlo! fratelli miei, la confessione è un giogo che ha il suo peso; ella è un rimedio, la cui amarezza ripugna alla natura; reca pena il confessarsi reo, dichiarare ad un mortale ciò che si ha di più segreto, palesar cose di cui si arrossisce e che si vorrebbe poter nascondere a se stesso. Ma senza esaminare ciò che v’è di duro e di penoso in questo giogo, queste pene e queste amarezze non sono forse molto raddolcite dai vantaggi che vi si trovano? Infatti, quanti beni non procura la confessione ai peccatori, ed ai giusti? Ai peccatori, ella è un mezzo tanto efficace quanto facile per rientrare in grazia con Dio; ai giusti, ella è un aiuto per crescere in virtù e perseverar nella grazia. Niuno v’ha tra voi, fratelli miei, che questo soggetto non interessi, e che non debba essere animato da questi motivi a fare un frequente uso della confessione. Ripigliamo. – Quanto è mai deplorabile lo stato di un peccatore! nemico di Dio, egli ha perduto il diritto, che aveva al cielo; schiavo del demonio, egli è una vittima destinata alle vendette eterne. Ah! come potete voi, o peccatori, rimaner un sol momento in quello stato, sul punto in cui siete di cader ad ogni istante nell’inferno se foste sorpresi dalla morte? Come non ricorrete voi al rimedio, che può preservarvi dalla morte eterna? Questo rimedio è la confessione; rimedio efficace, che per la virtù datagli da Gesù Cristo può cancellare il vostro peccato, riconciliarvi con Dio, ristabilirvi nei diritti che avete perduti, e procurarvi la pace di una buona coscienza. Tali sono per i peccatori i vantaggi di una confessione ben fatta. – Sì, fratelli miei, quantunque i vostri peccati fossero moltiplicati sopra le gocce d’acqua che sono nel mare, sopra i grani di sabbia che sono nella terra, essi sono tutti cancellati con una buona confessione; il Signore non se ne ricorderà più, dice il profeta: sebbene foste più neri del carbone, aggiunge egli, voi diverrete più bianchi della neve. Anatema, dice il santo concilio di Trento, a chiunque dicesse che v’è qualche peccato irremissibile, poiché Gesù Cristo ha dato ai suoi Apostoli ed ai Sacerdoti loro successori un potere, che non è limitato ad alcun genere di peccato. Tutto ciò che voi sciorrete sopra la terra, disse loro, sarà sciolto nel cielo: Quodcumque solventi» super terram, erit solutum et in cœlis. Benché foste voi fratricidi come Caino, adulteri come Davide, ingiusti come Acab, empi come Manasse, in una parola, benché avreste commessi tanti peccati come tutti gli uomini insieme, essi saranno tutti cancellati col sangue di Gesù Cristo, che vi sarà applicato con questo Sacramento; tutti i vostri nemici saranno sommersi, annegati in questo mar rosso uscito dalle fontane del Salvatore; le chiavi che Gesù Cristo ha confidate alla sua Chiesa chiuderanno l’inferno, che era aperto per inghiottirvi, vi apriranno il cielo, che vi era chiuso; di schiavi del demonio che eravate, voi diverrete figliuoli di Dio, suoi amici. Questo tenero Padre, come quello del fìgliuol prodigo, vi riceverà nella sua casa, vi darà il bacio di pace, vi renderà la vostra prima veste, vi metterà l’anello in dito; cioè vi arricchirà di tutti i tesori delle grazie e delle virtù che avevate perdute per lo peccato. – Ecco un vantaggio della confessione che vi prego di ben osservare. Il peccato mortale, dando la morte all’anima, le fa perdere non solamente la grazia santificante, che è la sua vita soprannaturale, ma ancora tutto il merito delle buone opere, che essa può aver acquistato: quand’anche avesse ella accumulati tanti tesori di merito come tutti i santi insieme, il peccato le toglie tutte le ricchezze: oh perdita degna di essere pianta con lagrime di sangue! Ma consolati, anima sfortunata, ecco un mezzo efficace di riparare le tue disgrazie. Il Sacramento della penitenza ti fa ricuperare quella grazia santificante che tu avevi perduta e riconduce seco tutti i meriti che l’accompagnavano. Questo è ciò che ci promette il Signore per uno dei suoi profeti quando dice che ci renderà quei belli anni, che la ruggine ed i vili insetti avevano rosicchiati e distrutti: Reddam vobis annosquos comedit locusta, bruchus et rubigo. (Joel. II). Cioè, secondo la spiegazione di s. Girolamo, un’anima la quale rientra in grazia con Dio ricupera tutti i meriti delle buone opere, che aveva fatti altre volte in istato di grazia. Queste buone opere, che erano mortificate per il peccato, come dicono i teologi, riprendono una nuova vita per la penitenza; di modo che le azioni virtuose, che non sarebbero state contate per nulla se il peccatore fosse morto in istato di peccato, saranno eternamente ricompensate in cielo, se muore nello stato della grazia, che ha ricuperata: reddamvobis. Felice riparazione, fratelli miei, che, facendoci conoscere la bontà di Dio per lo peccatore, ci fa vedere nello stesso tempo qual è la virtù e l’efficacia del Sacramento della penitenza; l’anima vi è liberata dalla schiavitù del peccato e del demonio, e vi ricupera la sua primiera bellezza. – Quindi, quella pace, quell’allegrezza di una buona coscienza, che si prova dopo una confessione ben fatta; siccome un infermo tormentato dai dolori di un tumore trovasi molto alleggerito quando questo sia stato aperto, e se ne sia fatto uscire tutto il veleno; così il peccatore gode di un dolce riposo interiore, quando non sente più dentro di sé quel veleno mortale, che infettava l’anima sua. Sgravato dal peso dei suoi delitti, egli gusta una pace che sorpassa tutte le allegrezze del mondo. Quale allegrezza per un prigioniero già condannato alla morte, quando gli si annuncia che gli è fatta grazia! Quale allegrezza per un infermo, che si è veduto alle porte della morte, e che ricupera la sanità più perfetta; per un figliuolo, che aveva incorsa la disgrazia del migliore dei padri, da cui aveva tutto a temere, e che ne possiede tutta la tenerezza! Quale soddisfazione per un mercante, che aveva perdute in un naufragio tutte le merci di cui era carica la sua nave, e che ritrova in un momento tutte le sue ricchezze! Tale è mille volte più grande e ancora deve essere l’allegrezza d’un peccatore riconciliato col suo Dio. Non è più tormentato questo peccatore dai rimorsi della coscienza, che gli rimproverava il suo delitto, e gli faceva sentire il rischio in cui era di cadere in una infelicità eterna; ma egli è sicuro, quanto si può essere in questa vita, che gode della libertà dei figliuoli di Dio, che possiede l’amicizia del suo Dio, e che se egli muore in quel felice stato, prenderà possesso nel cielo del posto che gli è stato destinato e che aveva perduto. Ah quanto è consolante questo pensiero! Io ne chiamo in testimonio la vostra esperienza, fratelli miei. Quando è che voi avete gustato più soave riposo, pace e piacere? Non è forse in quei giorni felici, in cui con il cuore penetrato dal dolore avete confessate le vostre colpe ai piedi del ministro di Gesù Cristo, il quale vi ha detto da parte sua quelle consolanti parole: Andate in pace: Vadein pace. Non vi sembrava forse all’uscir dal tribunale della riconciliazione d’esservi alleggeriti di un peso molto grave? Siete voi stati giammai più tranquilli e più contenti che nei primi momenti dopo la vostra riconciliazione? Perché dunque non vi servite di un mezzo cosi efficace per procurarvi tutti i vantaggi di cui abbiamo parlato, giacché questo mezzo è si facile? Mentre finalmente, di che si tratta per ottenere il perdono delle vostre colpe? Si tratta di confessarle con cuor contrito ed umiliato, e la vostra grazia è sicura. Qual differenza tra il tribunale della misericordia di Dio e quello della giustizia degli uomini! In questo la confessione del reo lo fa condannare, in quello lo fa assolvere: in questo si producono testimoni, si tormenta il reo per trarre la prova di un delitto; e quando il delitto è provato, si condanna alla morte o al supplizio che ha meritato; ma nel tribunale della penitenza non v’è altro testimonio che il reo, egli è il suo proprio accusatore, e tosto che si accusa, ode pronunciare un giudizio favorevole, un giudizio che lo libera dalla morte per dargli la vita. Possiamo noi forse lamentarci che il perdono è accordato a dure condizioni, o piuttosto una grazia di un si gran prezzo, non sorpassa tutta la pena, che provare possiamo nel dichiararci colpevoli? Ah! se i rei detenuti nelle prigioni potessero così facilmente rompere la loro catena; se con la sola confessione dei loro delitti potessero mettersi in libertà e preservarsi dai supplizi, cui devono essere condannati, ben tosto quei luoghi d’orrore e di miseria sarebbero aperti per farne uscire tutti i colpevoli; niuno sarebbevi, che non confessasse il suo mancamento, che non si riputasse felice di potere ad una condizione così facile ricuperare la sua libertà. E pure, fratelli miei, qual differenza tra il loro stato e quello del peccatore, che è sotto l’impero del demonio. Qual differenza tra i supplizi, a cui la giustizia degli uomini condanna i colpevoli, e i tormenti che la giustizia di Dio riserba ai peccatori! Gli uomini possono tutti al più condannar i colpevoli a perdere una vita temporale per via di dolori, che non sono di gran durata; ma il peccatore merita di essere condannato ad una morte eterna, a supplizi che sorpassano infinitamente pel loro rigore e per la durata tutto ciò che si possa soffrire quaggiù di più doloroso. Si può, torno a dirvi, trovar più duro ed amaro un mezzo così facile di preservarsi da quei supplizi come è quello di fare la confessione dei suoi delitti? – Se per essere liberato dalla morte eterna che merita il peccatore, Dio gli domandasse d’intraprendere cose difficili, di fare penosi viaggi, di soffrire lunghi e crudeli supplizi, di dare tutti i suoi beni ed anche la vita; oimè! egli nulla domanderebbe che non fosse molto da meno della grazia, che gli accorderebbe; ed il peccatore non dovrebbe esitare neppure un momento a sottomettersi a tutto per evitare un’infelicità eterna. Ma noi fratelli miei, Dio non esige tanto da voi: un vivo pentimento, una confessione sincera delle vostre colpe, fatta ai piedi dei suoi ministri disarma la sua collera, vi apre il seno delle sue misericordie. Da qual riconoscenza non dovete voi essere penetrati verso questa divina misericordia sì facile a perdonare? E con qual premura non dovete voi, servirvi del mezzo che essa vi offre per avere il perdono? –Noi leggiamo nella Scrittura che Naaman, generale delle armate del re di Siria, essendo venuto in Israele per essere guarito dalla lebbra, il Profeta Eliseo gli fece dire di lavarsi sette volte nel Giordano. Quel signore riguardò questa risposta come un segno di disprezzo, e se ne ritornò acceso di collera: era forse d’uopo, esclamava egli, di lasciar la mia patria? I fiumi che la innaffiano non sono forse migliori dell’acqua del Giordano? E che! (gli dissero i suoi servi) se il Profeta vi avesse domandato qualche cosa di più difficile per essere guarito, voi l’avreste dovuto fare: si rem grandem dicisset tibi Propheta, certe facere debueras (IV Reg. V). Con quanto più forte ragione dovete voi adempire un precetto così facile, come quello di lavarvi nel Giordano per essere guarito dalla vostra lebbra: quanto magisquia nunc dixit tibi, lavare et mundaberis (Ibid.) Di voi parla, o peccatori, lo Spirito Santo in questo esempio: se per essere purificati dalla lebbra del peccato, di cui voi siete infetti, Dio esigesse da voi cose difficili, dovreste voi esitare ad ubbidirgli? Ma no, quel che domanda è facile; egli ci comanda di lavarvi in questa piscina misteriosa, di cui l’Angelo del Signore non fa solamente scorrere le acque a certi tempi, come in quella di Gerusalemme, ma che vi è aperta in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Perché ricusate voi di tuffarvi in essa? Avete voi a dolervi come quel paralitico della piscina di Gerusalemme? Da trent’otto anni io non ho alcuno, diceva egli, per fare scorrere su di me le acque medicinali. Vi mancano forse, fratelli miei, ministri del Signore pronti a ricevervi ogni qual volta vorrete accostarvi ai sacri tribunali della Penitenza? – Andate dunque ad immergervi in questa piscina per essere purificati da tutte le vostre macchie; mostratevi al sacerdote tali quali voi siete: ite ostendite vos sacerdotibus (Luc. XVII). Rivelate tutte le vostre vie, come lo fa reste a Dio medesimo: Revela Domino viam tuam (Psal. XXXVI). Questi Angeli del Signore, questi ministri della sua autorità faranno scorrere su di voi le acque salutevoli della grazia che vi laveranno da tutte le vostre iniquità; essi vi diranno da parte del loro maestro, ciò che disse egli a quel lebbroso del Vangelo: volo mundare (Matth. VIII). Siete guariti. La sentenza che pronunceranno in vostro favore, opererà nel momento quel che essa significa, voi uscirete da questo secondo battesimo bianchi come la neve: conſestim mundata est lepra eius. Ammirabile genere di guarigione, fratelli miei, ove basta scoprire il suo male al medico per esserne liberato! Oh! se si potesse così facilmente guarire dalle malattie del corpo, chi non godrebbe ben tosto di una sanità perfetta? La guarigione delle malattie della vostr’anima, dipende dalla confessione che voi ne farete al ministro di Gesù Cristo vostro medico. Esiterete a profittare di un mezzo così pronto e così efficace per ottenerla? Voi troverete in questa piscina non solamente un rimedio che vi guarirà dal vostro peccato, ma ancora un preservativo contro il peccato, sia nelle grazie abbondanti che vi si ricevono per la virtù del Sacramento, sia nei buoni avvisi che vi darà un caritatevole confessore, il quale vi servirà di guida nelle vie della salute. Muniti di questi potenti aiuti, voi cadrete più di rado e vi rialzerete più prontamente, accostandovi spesso al sacro tribunale, voi vi ricorderete più facilmente dei vostri peccati, sarete più sicuri di fare una buona confessione, la quale sovente è difettosa per difetto di esame, allorché ci confessiamo di rado. Ma il gran vantaggio che voi troverete nella frequente confessione, si è la sicurezza di una buona morte; poiché, o voi sarete sorpresi dalla morte, o voi avrete il tempo di pensarvi. Se voi siete sorpresi dalla morte, confessandovi spesso, avete maggior speranza di trovarvi in istato di grazia in quell’ultimo momento, che coloro i quali nol fanno che di rado. La morte, benché subitanea per voi, non sarà improvvisa per la precauzione che prenderete di conservare la grazia di Dio. Se voi avete il tempo di pensarvi, riceverete i Sacramenti in buona disposizione per l’ottimo abito che avete avuto durante la vita di ben riceverli. E qual motivo di sperare che Dio in conseguenza della vostra assiduità ad accostarvi ai Sacramenti durante la vita, non permetterà che voi ne siate privi alla morte! Quanti vantaggi, fratelli miei, e quanti motivi fortissimi per indurre i peccatori alla frequente confessione. – Voi poi, o giusti, benché non siate esposti alla medesima disgrazia che i peccatori, la confessione vi è ugualmente utile per fortificarvi nella pratica delle buone opere, avanzar in virtù, accrescere il vostro merito, e perseverare nella grazia del Signore. Chi è giusto, lo divenga ancora di più, dice lo Spirito Santo, e chi è santo, si santifichi di più. Ora, si è colla confessione frequente che voi diverrete sempre più giusti, sempre più santi. E come ciò? Perché la confessione vi purificherà dalle macchie le più leggiere, che i più giusti ancora contraggono in questa vita. Perciocchè il Sacramento della Penitenza, dice il Concilio di Trento, ha la virtù di cancellare le colpe veniali; ricevendo la remissione di queste colpe veniali, voi sarete liberati in tutto, o in parte dalla pena temporale che dovreste soffrire nel Purgatorio, voi aggiungerete nuovi gradi alla grazia santificante, di cui la vostr’anima è adorna; questa nuova grazia vi dà diritto a certi aiuti particolari che vi faranno superare tentazioni difficili, che vi renderanno facile la pratica delle più eroiche virtù. Accostandovi al tribunale della Penitenza voi esaminerete i vostri difetti per correggervene, vi umilierete alla vista delle vostre debolezze, diverrete più vigilanti sopra di voi medesimi, crescerete nell’amore di Dio, in fervore nel suo servigio per i buoni proponimenti che formerete di evitare sino la minima apparenza di male. Più spesso vi confesserete, più rinnoverete questi buoni proponimenti di evitare sino le colpe le più leggiere, evitando le colpe leggiere per mezzo degli aiuti che il Sacramento vi procura, vi eviterete il pericolo di perdere la grazia di Dio col peccato mortale, quindi renderete certa la vostra perseveranza nel bene, la vostra perseveranza finale che deve decidere della vostra felicità eterna. Di qual utilità non è dunque la confessione per i giusti medesimi, come per i peccatori? Ve diamo ora quali sono gli svantaggi di coloro che se ne allontanano.
II. PUNTO. Un gran numero di peccatori si accosta di rado al Sacramento della Penitenza, perché, dicono essi, la Chiesa non obbliga a confessarsi più spesso che una volta all’anno. Altri se ne allontanano, perché non vogliono correggersi dei loro malvagi abiti, lasciar le occasioni del peccato; il che per altro convien fare per una buona confessione. Ma gli uni e gli altri, sono in un accecamento deplorabile, e non vedono i mali che cagiona questo allontanamento. Ora, fratelli miei, per distruggere questi pregiudizi io dico, che, sebbene la Chiesa abbia determinato il precetto della confessione ad ogni anno per tutti i fedeli dell’uno e dell’altro sesso, non convien dire che non si possa, né si debba fare più frequente nel corso di un anno. La Chiesa, interprete delle volontà del suo divino Sposo che le ha lasciata l’autorità di giudicare i peccatori, e che ha voluto sottomettere i peccatori tutti a quest’autorità, obbliga tutti i suoi figliuoli per soddisfare al precetto del divin Maestro di accostarsi una volta all’anno al suo tribunale; perché egli è certo che il precetto obbliga per lo meno qualche volta durante la vita; e se essa non avesse imposto ai peccatori quest’obbligo per ogni anno, molti avrebbero passata tutta la loro vita senza avervi soddisfatto. Ma benchè l’adempimento di questo precetto non possa differirsi più di un anno, molte altre ragioni obbligano i peccatori a confessarsi più frequentemente. Il peccatore non deve differire la sua conversione, perché differendola, i suoi peccati si moltiplicano, i suoi malvagi abiti si fortificano; e si espone al pericolo dell’impenitenza finale, che è la morte nel peccato. Ora, tali sono i danni che provengono dall’infrequenza delle confessioni. Ed in vero, che cosa può ritener il peccatore, ed impedirlo dal cadere nell’abisso del peccato? È la grazia di Dio, è la considerazione dei mali, ove il suo peccato lo conduce; sono i rimproveri che si fa egli medesimo al tribunale della coscienza sopra i disordini della sua vita; sono gli avvisi di un confessore zelante per la sua salute. Ora il peccatore che si accosta di rado al sacro tribunale, si priva delle grazie del Sacramento, degli avvisi di un confessore, non rientra quasi giammai in se stesso per rimproverarsi i suoi disordini, e correggersene. Fa d’uopo stupirsi, se egli accumula peccati sopra peccati, e se diventa lo schiavo dei suoi abiti malvagi? Quantunque Dio non ricusi la sua grazia ad alcun peccatore, sia per convertirsi, sia per evitar il peccato, Egli vuole che questo peccatore faccia dal canto suo degli sforzi per avere certe grazie che producono la sua conversione, e che l’impediscono di pervertirsi di più; egli vuole che ricorra ad un mezzo di salute che esso gli ha somministrato per santificarsi, che sono i Sacramenti da Lui lasciati alla sua Chiesa. Questi Sacramenti sono come i canali, per dove egli fa scorrere sulle anime il sangue adorabile che è uscito dalle sue piaghe per lavare i peccatori. Questi sono gli strumenti che egli ha messi, per così dire, tra le mani di questi peccatori, per operare la loro santificazione; sono i rimedi che loro ha dati per guarirsi dalle loro malattie, e preservarsi da nuove cadute. E perciò Egli ha attaccate a questi segni di salute certe grazie particolari che corrispondono al fine per cui gli ha istituiti; grazie che non dà comunemente a coloro che si allontanano da queste sorgenti di salute. E quindi che accade ai peccatori che trascurano il rimedio della Penitenza? ciò che accade ad un infermo, il quale non vuol prendere un rimedio che un valente medico gli ha apparecchiato, sia per guarirsi, sia per impedire che la sua malattia non faccia più grandi progressi, e non lo conduca al sepolcro. Questo peccatore privo delle grazie particolari annesse al Sacramento della penitenza, esposto alle tentazioni del nemico, abbandonato alla sua propria inclinazione che lo strascina verso il male, soccomberà alle tentazioni; seguirà l’allettamento della sua passione; un peccato che ne attira un altro col suo peso, lo fa cadere di abisso in abisso; egli ammassa, accumula l’iniquità; i suoi malvagi abiti prendono tutti i giorni nuove forze; finalmente diventa incorreggibile. Se il peccatore rientrasse in se stesso, per vedere il triste stato della sua anima, i rimorsi della sua coscienza lo ricondurrebbero al dovere, ed è il vantaggio che gli procurerebbe l’uso del Sacramento della Penitenza. Mentre prima di presentarvisi, bisogna che il peccatore ricerchi ben bene le sue piaghe, investighi i nascondigli della sua anima, esamini i suoi mancamenti, e conosca le sue malattie per mostrarsi al sacerdote tal quale egli è; questa vista non può che cagionargli confusione, e fargli sentire rimproveri amarissimi; bisogna di più che esso detesti i suoi mancamenti, e che con la spada del dolore che deve concepire, apra l’ulcera che infetta la sua anima: questa detestazione, questo orrore che concepisce del peccato, gli cangia il cuore, facendogli cangiar d’oggetto, facendogli odiare ciò che amava, amare ciò che odiava. Finalmente bisogna mostrar la sua lebbra al ministro di Gesù Cristo, dichiarargli sinceramente, ed interamente tutte le sue colpe; e la confusione che accompagna questa dichiarazione, umilia il peccatore, gli fa prendere la risoluzione di non più cadere in quelle colpe; risoluzione che è fortificata dai buoni avvisi che riceve da un zelante confessore che gli impone penitenze salutevoli per espiare i suoi peccati, che gli propone mezzi per non più ricadervi, che gli offre gli aiuti delle sue preghiere per ottenergli la perseveranza. Ora, il peccatore che si allontana dal sacro tribunale, si priva di tutti questi aiuti, che sono come altrettanti ripari che l’impediscono di abbandonarsi al disordine. Egli non fa alcun esame di coscienza, non concepisce alcun dolore de’ suoi peccati, non è commosso dai mali che il suo delitto gli attira. Non è forse ancora per evitar la discussione che gli converrebbe fare delle sue colpe, l’umiliazione che avrebbe di accusarle, per sottrarsi ai terrori della sua coscienza che non vuole accostarsi al tribunale della confessione? Non è forse ancora per il timore delle ammonizioni che gli farebbe un caritatevole confessore, che ricusa di presentarsi a lui? Fa d’uopo stupirsi che egli seguiti ciecamente il torrente delle sue passioni, che viva a seconda de’ suoi desideri, non avendo più freno che lo ritenga, guida che lo rimetta sulla strada? E ciò che accresce il suo male si è, che il poco uso che egli ha fatto del rimedio salutevole, lo mette in un tale stato che lo converte in veleno anche allora quando vuol soddisfare all’obbligo di confessarsi nel tempo che gli è dalla Chiesa prescritto. Perciocchè è egli facile di adempiere come conviensi ad un obbligo che non si adempie che per necessità? In che guisa questi peccatori, i quali non si confessano che una volta all’anno nel tempo di Pasqua, esaminano i loro peccati? Il numero n’è sì grande che ne perdono la memoria e non se ne ricordano che in generale. Essi si contentano di una rivista superficiale. Quindi viene che le loro confessioni sono più presto fatte che quelle di coloro che si confessano sovente e che tralasciano, per colpa loro e per loro negligenza di frequentar i Sacramenti, un gran numero di peccati: il che rende le loro confessioni nulle e sacrileghe. Qual dolore hanno questi peccatori dei loro peccati? Qual proponimento di correggersi? Se ne può giudicare dal piccolo cangiamento che si vede nella loro condotta. Siccome non vanno al tribunale della penitenza che per una specie di necessità o di convenienza; siccome non cercano che salvare le apparenze e conservarsi la riputazione di aver fatto il loro dovere di Cristiano, così non mettonsi troppo in pena del restante. Se un confessore vuole loro imporre una penitenza salutevole, o provarli con qualche dilazione, essi disputano sul genere di penitenza che loro si prescrive: se vengono rimandati per qualche tempo, minacciano di non più ritornare: come se il ministro di Gesù Cristo dovesse rendersi colpevole di sacrilegio per dar loro un’assoluzione, che a nulla loro servirebbe…- Fa d’uopo dunque stupirsi, se questi, peccatori che si confessano di rado, che differiscono di Pasqua in Pasqua, sono sì malvagi Cristiani? L’esperienza lo fa purtroppo vedere, sono questi i meno assidui agli altri doveri della religione; gli uni si abbandonano all’intemperanza; gli altri all’impurità; questi sono ingiusti usurpatori del bene altrui; quelli vendicativi. Qual è la cagione di tanti disordini? La negligenza a frequentar i Sacramenti. Ma, diranno essi, coloro che vi si accostano spesso, non vivono meglio di noi, cadono nei medesimi disordini che noi; non è dunque la frequente confessione che ritiene i peccatori, e che rende gli uomini più santi. A questo io rispondo, 1.º esser falso che coloro i quali si confessano. sovente, siano d’ordinario così sregolati come quelli che non lo fanno che di rado; le loro ricadute, come l’ho detto, sono più rare, e si rialzano più prontamente con l’aiuto che trovano nel rimedio della penitenza. 2.º Se vi sono peccatori che uniscono una vita sregolata al frequente uso della confessione, sono coloro che abusano del rimedio, e che lo convertono in veleno per le malvage disposizioni che vi apportano, o per difetto di dolore, o per difetto di esame, e di sincerità nell’accusarsi. Quantunque efficace sia il rimedio della penitenza, egli non profitta che per quanto vien bene applicato. Ora, non vi sarà un mezzo tra servirsi male del rimedio, e non usarne affatto? Si è di riceverlo con le disposizioni che lo rendano efficace: basta, o peccatori, che voi ve ne accostiate con queste disposizioni, cioè con quella sincerità che deve accompagnare la dichiarazione delle vostre colpe, e ne proverete l’utilità. Ma se voi trascurate di farlo, sapete voi a qual male vi espone la vostra negligenza? A morir nello stato del peccato, a cader negli orrori della morte eterna. Mentre, poiché voi restate mesi ed anni interi nei legami del peccato, non potete voi forse esser sorpresi dalla morte, non potete voi essere colpiti da una morte subitanea, o da qualche malattia, che togliendovi l’uso dei sensi, vi rendano, impossibile il ricevere i Sacramenti? Quanti ne avete veduti che sono stati sorpresi in tal modo, per i quali si è chiamato un confessore che, o non si è trovato, o è giunto troppo tardi, permettendolo così Iddio per punire la loro negligenza a confessarsi più spesso? Ecco forse ciò che vi accadrà, peccatori che mi ascoltate: credete voi, che, se Dio vuol togliervi da questo mondo con una morte improvvisa, Egli sceglierà il tempo che voi sarete in istato di grazia, che questa morte accadrà precisamente nel tempo di Pasqua, quando vi sarete confessati? Qual temerità sarebbe la vostra di fidarvi ad un tratto sì straordinario della grazia di cui vi rendete sì indegni. Non dovete voi forse piuttosto temere, che, se siete sorpresi dalla morte, lo sarete in istato di peccato, poiché la più gran parte della vostra vita si passa in questo infelice stato? Forse vi assicurate sopra qualche atto di contrizione che produrrete allora, o che avrete prodotto prima in mancanza del confessore? È vero, che un atto di contrizione perfetta, cioè prodotto da un puro amor di Dio può cancellare tutti i peccati, benché enormi siano, ed in gran numero. Ma sapete voi che l’atto di una perfetta contrizione essendo il più eroico di tutti, è l’effetto di una grazia particolare, che i più gran Santi medesimi, non credevano meritare? E voi vi fiderete a questa grazia, voi che resistete a tante altre che vi stimolano di andar alla sorgente, che sono i Sacramenti? Ma supponiamo che voi alla morte abbiate tutta la libertà di confessarvi: io dico che il Sacramento, di cui non avete profittato durante la vita, a nulla vi servirà allora; che avendolo profanato durante la vita, voi lo profanerete in morte a cagion delle malvage disposizioni che saranno le medesime in voi. Ora, se voi morite nell’impenitenza finale, qual sarà il vostro rammarico nell’Inferno di aver trascurato un mezzo di salute così efficace, e così facile come la confessione? Ma non sarà più tempo; voi non avrete più ministri di Gesù Cristo che possano liberarvi dai mali che vi opprimeranno in quelle prigioni di fuoco, ove sarete rinchiusi; non vi sarà più confessione, più misericordia, più perdono a sperare da voi. Procurate, o peccatori, di evitare una disgrazia egualmente grande, quanto che irreparabile: profittate dell’occasione favorevole che avrete di riconciliarvi con Dio ogni qual volta l’avete offeso. Ma guardate di non abusarvi della bontà che Dio ha nel ricevervi a penitenza per oltraggiarlo; sarebbe in voi l’effetto della più nera ingratitudine se la facilità del rimedio fosse per voi una occasione di caduta. Cominciate dunque dal giorno d’oggi a mettervi nelle disposizioni, in cui dovete essere per profittarne; cioè, lasciate al presente il peccato, le occasioni del peccato; rinunciate ai cattivi abiti; il ministro di Gesù Cristo non discioglie che chi vuol lasciare le sue catene. Provatevi dunque prima di presentarvi, preparatevi anticipatamente ad accettare le prove, alle quali il confessore vorrà mettervi; non cercate di quegli uomini che lusingano; non fuggite coloro che vogliono con una giusta dilazione accertarsi del vostro ritorno a Dio: non lasciate quelli che per vostro bene si spaventano delle vostre cadute, e ve ne domandano una penitenza proporzionata: e quindi prendete per pratica, 1º di confessarvi una volta ogni mese; 2.º se voi avete avuta la sventura di perdere la grazia con un peccato, guardatevi ben bene di non passare i giorni interi nell’inimicizia di Dio; 3.º se voi siete infermi, ricorrete al medico della vostr’anima prontamente e senza dilazione; non siate del numero di quelli, cui si teme in un’ultima malattia di parlare di Sacramenti e di confessore; siate i primi a richiedere con calore questi preziosi soccorsi: la vostr’anima, dice Gesù Cristo, vale più che il vostro corpo; aiutate dunque l’una piuttosto che l’altro; e se il Cielo ricusa al vostro corpo la sua guarigione, almeno accorderà Egli alla vostr’anima un riposo eterno all’uscire dalla sua prigione, Io ve lo desidero. Così sia.
Orémus Ps XXXIII:15-16 In te sperávi, Dómine; dixi: Tu es Deus meus, in mánibus tuis témpora mea. [O Signore, in Te confido; dico: Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono le mie sorti.]
Secreta
Popitiáre, Dómine, pópulo tuo, propitiáre munéribus: ut, hac oblatióne placátus, et indulgéntiam nobis tríbuas et postuláta concedas.
[Sii propizio, o Signore, al tuo popolo, sii propizio alle sue offerte, affinché, placato mediante queste oblazioni, ci conceda il tuo perdono e quanto Ti domandiamo.]
Da quali contrassegni debba distinguersila vera Religione dalle bugiarde.
I. Veggiamo sorte al mondo più religioni. Tutte per loro padre vantano Dio, mentre è certissimo che una solamente può essere a Lui figliuola: L’altre gli son tutte ribelli. Come faremo noi dunque a ravvisare quest’unica fortunata dalla vil turba dell’altre? Miriamole tutte in viso, ma fissamente. E quella che vedremo all’Altissimo più conforme, quella sia la nata da Lui.
II. Ora a noi Dio risplende singolarmente per l’aggregato di quei tre famosi attributi, potenza, sapienza e bontà, che come sono il meglio di quanto può concepirsi da mente umana (Hugo de s. Vict. 1. 2. de sacr. p. 3. c. 19), così giustamente son da noi presi di mira, in più di queste nostre dimostrazioni, per desiderio di colpire nel segno. Quella fede adunque la quale in sé più chiaramente possegga questi tre pregi, dovrà più giustamente venire riconosciuta qual parto nobile del gran Padre de’ lumi: dacché, come Egli non può in sé ricettare verun errore, così né anche può tramandarlo fuori di sé. A questi tre capi ridurremo frattanto per brevità tutti i vari segni che ci distinguono la vera religione dalle fallaci. Riconosceremo il suo divino potere nella forza de’ miracoli, nella fortezza de’ martiri, e in quant’altro a ciò si appartiene di segnalato. Riconosceremo il suo divino sapere nella dottrina celeste da lei recataci, dottrina tutta opposta a quella che insegnano le altre sette, che è sì obbrobriosa. E riconosceremo la sua divina bontà nella virtù che professano i suoi seguaci, e virtù provata qual invitto diamante sotto ad ogni martello, benché implacabile.
III. Rimane solo il premettere un’avvertenza di gran rilievo, ed è, che quanto sarebbe gran fallo in un matematico l’appagarsi nelle sue dimostrazioni di un’evidenza morale, tanto sarebbe in un morale aspirare a quell’evidenza che chiamasi matematica. Come diverse son le materie di cui si tratta, così diversi sono anche i generi delle pruove. Satis de re dictumest, ubi explicabitur quantum rei feri materia, dice il filosofo (Arist. eth. 1. 1. metaph. 1.1. cult.). Certitudo mathematica non in omnibusrebus quærenda est (Eppoi forsechè la matematica è essa sola il tipo della scienza vera e perfetta,io non lo credo: reputo anzi in contrario, che la certezza matematica, anziché assoluta e sovranamente perfetta, è ipotetica, perchéposata su certe definizioni e concetti propedeutici accolti senza previa discussione, e per di più non va scevra di oscurità, come ne fanno fede le contese dei matematici stessi intorno a certe definizioni ed alla natura delle quantità infinitesimali!). La fede è richiesta da Dio negli uomini come ossequio, come obbedienza. Adunque non doveva ella portarsi con dichiarazioni tanto sensibili agl’intelletti, anche pertinaci, che non fosse merito il credere. Doveva il credere essere un tributo giusto, ma volontario, da noi renduto alla prima verità di buon grado. Però in esso ha Dio mescolato talmente il chiaro col fosco, che i fedeli avessero qualche motivo di dubitare, qualor audaci volessero ribellarsi a ciò che insegna la chiesa, e gl’infedeli n’avesser infiniti ad arrendersi, qualor attenti volessero darvi mente: e così giustamente poi si rendesse, l’ultimo giorno alla credenza il suo guiderdone, e giustamente alla incredulità il suo supplizio: Qui crediderit, salvus erit: qui veronon crediderit, condemnabitur(Marc. XVI. 16). Tale fa appunto il sentimento di Ugone da s. Vittore. Quia fideles semper habent locumunde dubitare possunt, et infideles unde crederevalent, ìuste et fidelibus prò fide datur præmium,et infidelibus prò infidelitate supplicium.
IV. Quindi avviene, non dover noi fondar la credenza nostra su quelle ragioni umane che ci dimostrano, la nostra fede esser vera. Dobbiamo fondarla sulla veracità infallibile di quel Dio, da cui ci fu rivelata si bella fede. Sulle ragioni umane abbiamo a fondare quel giudizio prudente e pratico il qual ci detta, esserpiù che credibile, aver Dio fatta una tale rivelazione. – Testimonia tua credibilia facta sunt nimis (Ps. XCII. 5). Giudizio che può alterarsi in chi non ripensi più alle dette ragioni, o ripensandovi, voglia cavillarle e combatterle con sofismi non sussistenti: ma non può alterarsi in chi tra sé le consideri a ciel sereno.
V. Però, com’è follia riputare per buona una religione, per questo solo, perché si bevve col latte; cosi è gran fallo alzare nella sua mente un tribunale sofistico che non voglia in materia di religione passare per legittima altra prova che l’evidenza, non soggetta a contrasto. Convien sospettare, dov’è ragionevole sospettare, e convien saper sicurarsi, dove è ragionevole sicurarsi. Altrimenti tanto sarà contra ragione il credere tutto, quanto il dubitare di tutto. Il vedere di notte, non è virtù dell’occhio umano, è fiacchezza. Così è fiacchezza il presumere di vedere ciò che dee credersi. Basti a noi l’avere per marchio della vera fede un aggregato di testimonianze vivissime, tali e tante, che tutte insieme (come da principio si disse) non si congiungono in alcuna fede non vera. Sicché l’avere a quell’unica conceduti Dio quei gran segni particolari di verità, è un argomento infallibile, che gli è accetta anche unicamente, e che unicamente vien da lui proposta a’ mortali, perché l’abbraccino. Chi richiede il vantaggio per sottomettere la sua mente orgogliosa, o cerca una religione la qual non abbia misteri eccedenti i sensi, e per conseguente professisi senza fede; o per lo meno la cerca per una via che non ha mai fine, qual è l’esaminare ad uno ad uno tutti gli articoli che egli crede, e così chiarirsene: certo di non pervenire mai per tal via al termine della quiete da lui bramata ma d’aggirarsi di dubbio in dubbio, di disputa in disputa, senza mai concludere nulla, spendendo però nel ricercare il vero culto divino tutta quella vita che da Dio gli fu conceduta ad esercitarlo. Facciasi ciò che mai piace. Il credere, perché sia credere, ha da esser volontario: e però chi crede ha sempre, se egli vuole, a poter non credere: Multa potest facerehomo nolens, dice s. Agostino, credereautem non potest, nisi volens (Tract. 56 in Ioan.). Posto ciò, chiunque si accorge di avere in capo un cervello altero, conviene che contentisi di abbassarlo; non ricordarsi che l’ingegno, come il mercurio, sublimato è veleno, precipitato è rimedio.
VI. Datemi uno spirito ragionevole, che non si ritiri a bello studio dal vero, ma gli esca incontro, e che, ritrovatolo, non trapassi di là dal segno per impeto concepito nel contraddire, come trapassa di là dal segno un dondolo per l’impeto concepito nell’incontrarlo; ed io gli farò vedere in faccia alla Religione Cattolica raggi così splendenti, che sarà costretto ad abbassar le palpebre, ed a confessare: Questa è la dottrina che merita unicamente d’esser creduta, mentre dall’Onnipotente vien confermata con suggelli di note così cospicue, che se ella fosse bugiarda converrebbe dir, che Dio stesso ci avesse indotti di suo consiglio in errore.
VII. E ciò meravigliosamente potrà giovare ai fedeli ed agli infedeli: ai fedeli per infervorarli di vantaggio nella risoluzione di credere questa dottrina celeste: essendo le prove della sua credibilità somiglianti ad un cammino acceso, a cui la fede, che è cieca, è vero che non vede, ma si riscalda: e agl’infedeli, per disporgli a domare l’orgoglio del loro spirito; dacché la sola umiltà è quella che fa la strada alla fede di Cristo. In mansuetudinesuscipite insitum, verbum, quod potest salvareanimus vestras (Iac. 1. 21). Questa parola innestata che ha da salvarci, è qualsisia verità soprannaturale: verità che dalla ragion naturale, pianta selvaggia, non si può apprendere, salvo che per innesto. Ora a tanto ci vuole mansuetudine d’intelletto: altrimenti l’innesto non terrà mai: Esto mansuetus ad audiendumVerbum Dei, ut intelligas (Eccli. V. 13). Ma questo medesimo non vi toglie ogni scusa? Se il Signore, affine di darvi ad intendere bene la sua parola, vi addimandasse ingegno altissimo, spiritoso, svegliato, potreste rispondergli, che la natura non vi fu cortese di tanto. Ma egli non vuole altro da voi, che docilità. E questa è vero che viene assai da natura, ma più viene ancor da virtù (S.Th. 2. 2. q. 49. art. 5. ad 3).
SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALETORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO
VISTO: Nulla osta alla stampa.
Torino: 22 giugno 1922.
Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.
VISTO: Imprimatur.
C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.
PARTE TERZA
“ La vita attiva, pericolosa senza la vita interiore,con questa assicura il progresso nella virtù.”
1.
Le opere di zelo, mezzo di santità per le anime che fanno vita interiore,diventano per le altre un pericolo per la loro salvezza
a) MEZZO DI SANTITÀ. — A quelle anime che Dio associa al suo apostolato, chiede formalmente che non solo si conservino, ma che progrediscano nella virtù: ne troviamo la prova in ogni pagina delle Epistole di san Paolo, a Tito e a Timoteo, e nelle apostrofi dell’Apocalisse ai Vescovi dell’Asia. D’altra parte già lo abbiamo stabilito come principio, che le Opere sono volute da Dio. Dunque il vedere nelle opere, prese in sé, un ostacolo alla santificazione e affermare che, pure emanando dalla volontà divina, esse rallenteranno per forza il nostro cammino verso la perfezione, sarebbe un’ingiuria, una bestemmia contro la Sapienza, la Bontà e la Provvidenza di Dio. – Non si può evitare questo dilemma: o l’apostolato, sotto qualunque forma, se è voluto da Dio, non solo non ha in sé, come effetto, il potere di alterare l’atmosfera di soda virtù in cui si deve trovare un’anima sollecita della sua salute e del suo progresso spirituale, ma anzi costituisce sempre per l’apostolo un mezzo di santificazione, qualora venga esercitato nelle condizioni richieste. Oppure la persona scelta da Dio come sua cooperatrice, e perciò obbligata a rispondere alla chiamata divina, avrebbe diritto di portare come scuse legittime della sua negligenza nel santificarsi, l’attività, le pene e le sollecitudini date a favore dell’opera comandata. Ora, per conseguenza dell’economia del disegno divino, Dio PER RIGUARDO A SE STESSO, deve dare all’apostolo scelto da Lui, le grazie necessarie per effettuare l’unione di occupazioni assorbenti, non solo con la sicurezza della salute, ma anche con l’acquisto delle virtù pratiche fino alla santità. – Gli aiuti che diede a san Bernardo, a san Francesco Saverio, Egli li deve, nella misura necessaria, al più modesto degli operai evangelici, al più umile religioso insegnante, alla più ignorata delle suore infermiere. Questo è un vero DEBITO DEL CUORE DI Dio verso lo strumento che sceglie, e non esitiamo a ripeterlo; e ogni apostolo, se adempie le condizioni richieste, deve avere una confidenza assoluta nel suo rigoroso diritto alle grazie che sono necessarie per un dato genere di lavoro, le quali gli danno come un’ipoteca sul tesoro infinito degli aiuti divini. – Chi si dedica alle opere di carità, dice Alvarez de Paz, non deve pensare che queste gli chiuderanno la porta della contemplazione e lo renderanno meno capace di dedicarsi a questa; deve invece ritenere come certo che esse ve lo disporranno in modo ammirabile. Non soltanto la ragione e l’autorità dei Padri c’insegnano tale verità, ma anche l’esperienza quotidiana, perché vediamo certe anime le quali si dedicano alle opere di carità verso il prossimo, confessioni, prediche, catechismi, visite agli infermi ecc., innalzate da Dio ad un grado così alto di contemplazione, che ben si possono paragonare agli antichi anacoreti (Tom. III, lib. V). – Con le parole « grado di contemplazione », l’illustre gesuita, come anche tutti i maestri della vita spirituale, intende il dono dello spirito di orazione il quale caratterizza la sovrabbondanza della carità in un’anima. I sacrifici richiesti dalle opere, dalla gloria di Dio e dalla santificazione delle anime attingono un tale valore soprannaturale, una tale fecondità di meriti, che l’uomo dato alla vita attiva può, se vuole, innalzarsi ogni giorno a un grado superiore nella carità e nell’unione con Dio, insomma, nella santità. Senza dubbio in certi casi in cui vi è pericolo grave e prossimo di peccato formale, particolarmente contro la Fede e la virtù angelica, Dio VUOLE che si abbandonino le opere; ma eccetto tali casi, Egli, mediante la vita interiore, ai suoi operai provvede il mezzo di rendersi immuni e di progredire nella virtù. Un detto paradossale di santa Teresa, così giudiziosa e spiritosa, ci aiuterà a spiegare il nostro pensiero. « Da quando sono Priora, dice la santa, occupata in molte cose e obbligata a viaggi frequenti, commetto assai più mancanze; eppure, poiché combatto generosamente e mi spendo unicamente per Dio, sento che mi avvicino sempre di più a Lui ». La sua debolezza si manifesta più spesso, che nel riposo e nel silenzio del chiostro; la santa lo vede, ma non si turba. La generosità tutta soprannaturale della sua abnegazione e i suoi sforzi più vivi di prima nel combattimento spirituale, le danno in compenso occasioni di vittorie che largamente controbilanciano le sorprese di una fragilità che esisteva anche prima, ma allo stato latente. La nostra unione con Dio, dice san Giovanni della Croce, risiede nell’unione della volontà nostra con la sua e si misura soltanto da essa. Invece di vedere, per un falso concetto della spiritualità, la possibilità del progresso nell’unione con Dio soltanto nella tranquillità e nella solitudine, santa Teresa giudica invece che appunto l’attività imposta veramente da Dio ed esercitata nelle condizioni da Lui volute, alimentando il suo spirito di sacrificio, la sua umiltà, la sua abnegazione, il suo ardore e il suo zelo per il regno di Dio, viene ad accrescere l’unione intima della sua anima col Signore vivente in lei per animare le sue fatiche e per incamminarla verso la santità. La santità infatti risiede prima di tutto nella carità, e un’opera di apostolato, degna di questo nome, è carità in azione. San Gregorio dice: Probatio amoris exhibitio est operis; l’amore si prova con le opere di abnegazione, e Dio chiede ai suoi operai questa prova di generosità. – Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore; tale è la forma di carità che Gesù domanda all’apostolo come prova della sincerità delle ripetute proteste di amore. San Francesco d’Assisi non crede di poter essere amico di Gesù Cristo, se la sua carità non si dedica alla salvezza delle anime: Non se amicum Christi reputabat, nisi animas foveret quas ille redemit (S. BONAVENTURA, Vita s. Franc., c. IX). E se Gesù Cristo considera come fatte a sé le opere di misericordia anche corporali, è perché in ciascuna di esse scopre un’irradiazione di quella stessa carità (Matth. XXV, 40) che anima il missionario o sostiene l’anacoreta nelle privazioni, nei combattimenti e nelle preghiere del deserto. La vita attiva si dedica alle opere di abnegazione; essa cammina per i sentieri del sacrificio e segue Gesù operaio e pastore, missionario, taumaturgo che cura e guarisce tutti e provvede, sempre tenero e infaticabile, a tutti i bisognosi della terra. La vita attiva ricorda e fa vivere in sé quelle parole del Maestro: Io sono in mezzo a voi come un servo (Luc. XXIII, 27); Il Figliuolo dell’Uomo non è venuto per essere servito, ma per servire (Matt. XX, 28). Essa batte le vie della miseria umana dicendo la parola che illumina, seminando intorno a sé una messe di grazie che fioriscono in benefìci di ogni sorta. Con la sua fede illuminata, con gli intuiti del suo amore, essa scopre nel peggiore dei miserabili, nel più meschino dei derelitti, il Dio nudo, piangente, disprezzato da tutti, il gran lebbroso, il misterioso condannato che la giustizia eterna perseguita e abbatte sotto i suoi colpi, vede l’uomo del dolore che Isaia vide coperto di orribili piaghe, nella porpora tragica del suo sangue, così disfatto e straziato dai chiodi e dai flagelli, che si contorceva come un verme che si calpesti. Così, esclama il Profeta, lo abbiamo veduto e non lo abbiamo riconosciuto (Is. LIII, 2 e 5). Ma tu, o vita attiva, tu ben lo riconosci, e con le ginocchia a terra, con gli occhi inondati di pianto, tu lo servi nella persona dei poveri! – La vita attiva rende migliore l’umanità; fecondando il mondo con le sue generosità, con le sue fatiche, con i suoi sudori, getta il seme dei suoi meriti per il cielo. Vita santa e premiata da Dio il quale dà il paradiso al bicchiere d’acqua del povero, come ai volumi del dottore, come ai sudori dell’apostolo. Egli canonizza nell’ultimo giorno, davantialla terra e al cielo insieme riuniti, tutte le opere di carità (Lumière et fiamme di P . LEON, O. F . M. Capp. Si noti bene che si tratta, in questa citazione, di una vita attiva piena di spirito di fede, fecondata dalla carità e derivante da un’intensa vita interiore.).
b) PERICOLO PER LA SALVEZZA. — Quante volte, purtroppo, nei ritiri spirituali privati da me diretti, potei constatare che le opere le quali dovevano essere per i loro organizzatori mezzi di progresso, divenivano strumenti di rovina dell’edificio spirituale! Un uomo di azione, invitato al principio degli esercizi spirituali, a esaminare la sua coscienza ed a cercare la causa dominante del suo stato disgraziato, si giudicava benissimo dandomi questa risposta, a prima vista incomprensibile: «Il dedicarmi agli altri è stata la mia rovina! Le mie naturali disposizioni mi facevano provare della gioia nel sacrificarmi, della felicità nel rendere servizi. Aiutato dall’apparente riuscita delle mie imprese, satana per lunghi anni mise tutto in opera per illudermi, per eccitare in me il delirio dell’azione, per disgustarmi di ogni lavoro interiore e finalmente per trascinarmi nel precipizio ». Lo stato anormale, per non dire mostruoso, di quell’anima, è presto spiegato: l’operaio di Dio, tutto inteso alla soddisfazione di sfogare la sua attività naturale, aveva lasciato estinguere la vita divina, quel divino calorico che, condensato entro di lui, rendeva fecondo il suo apostolato e difendeva la sua anima dal freddo glaciale dello spirito della natura. Egli aveva lavorato, ma lontano dal sole vivificante: Magnæ vires et cursus celerrimus, sed præter viam (Spiegamento di forze, corsa rapidissima, ma fuori di strada – S. AGOSTINO, in Psalm.. XXXI).). In pari tempo le sue opere, sante per se stesse, si erano rivoltate contro l’apostolo come un’arma pericolosa a maneggiarsi, arma a doppio taglio, la quale ferisce chi non sa più servirsene. Contro questo pericolo, san Bernardo metteva in guardia il Papa Eugenio III quando gli scriveva: Io temo che in mezzo alle vostre occupazioni che sono innumerevoli, disperando di poterne mai vedere la fine, voi lasciate indurire la vostra anima. Voi agireste più prudentemente con SOTTRARVI A TALI OCCUPAZIONI, anche solo per qualche tempo, che non con permettere che esse vi conducano infallibilmente dove voi non vorreste. E dove direte forse voi: ALL’INDURIMENTO DEL CUORE. Ecco dove vi possono trascinare quelle MALEDETTE OCCUPAZIONI, HÆ OCCUPATIONES MALEDICTÆ, se ancora continuate, come faceste da principio, ad abbandonarvi interamente ad esse, senza riservare per voi nulla di voi medesimo (S. BERNARDO, De Consid., l. II, c. VI). Che cosa vi è di più augusto e di più santo, che il governo della Chiesa? Che cosa vi è di più utile per la gloria di Dio e per il bene delle anime? Eppure maledette occupazioni, esclama san Bernardo, se esse impediscono la vita interiore di chi si applica ad esse. Che espressione è questa: maledette occupazioni! Essa vale un libro intero, tanto colpisce e obbliga a riflettere. Contro di essa si vorrebbe quasi protestare, se non fosse caduta dalla penna così esatta di un Dottore della Chiesa! di un san Bernardo!
2.
L’uomo di azione senza la vita interiore
Basta una frase per caratterizzarlo: forse non è ancora tiepido, ma tale diverrà fatalmente. Ora essere tiepido e di una tepidezza non di sentimento o di fragilità, ma di volontà, vuol dire venire a patti con la dissipazione e con la negligenza abitualmente acconsentite o non combattute, venire a patti col peccato veniale deliberato, il che vuol dire togliere all’anima la sicurezza della salute eterna, disporla, anzi condurla al peccato mortale (Dall’insegnamento di san Tommaso, risulta che quando un’anima compie un atto buono in sé, ma senza quel grado di terrore che Dio ha il diritto di attendersi da lei nello stato in cui si trova, quell’atto dispone a diminuire in un certo senso il grado di carità che essa possiede. I testi: Maledetto colui che fa l’opera di Dio con negligenza, e: Perché tu sei tiepido… comincerò a rigettarti dalla mia bocca, si spiegano così. Di più, ogni peccato veniale, senza diminuire lo stato di grazia, ne diminuisce però il fervore: cosi esso dispone al peccato mortale. Ora, senza una vita interiore seria, molti peccati veniali non combattuti, spesso anche non avvertiti, sono tuttavia imputabili all’anima dissipata o vile che dimentica il Vigilate et orate. Si trova cosi in san Tommaso la spiegazione della frase maledette occupazioni della pagina precedente e di ciò che si dirà in questo capitolo – Vedi S. TOMM., la 2æ, q. 52 a. 3). – Tale è la dottrina di sant’Alfonso sulla tepidezza, dottrina così bene illustrata dal suo discepolo il P. Desurmont (1e retour continuel à Dieu,). Ora come mai, senza la vita interiore, l’uomo di azione cade necessariamente nella tepidezza? Diciamo necessariamente, e ci basta, per provarlo, la parola di un Vescovo missionario ai suoi sacerdoti, parola tanto più terribilmente vera, perché emana da un cuore ardente di zelo per le Opere e da uno spirito naturalmente opposto a tutto ciò che abbia l’apparenza di quietismo. Dice dunque il cardinale Lavigerie: «Bisogna persuadersi bene che per un apostolo non vi è via di mezzo tra la santità completa, almeno desiderata e cercata con fedeltà e con coraggio, oppure la perversione assoluta ». Ricordiamo anzitutto il germe di corruzione che la concupiscenza mantiene nella nostra natura, la guerra senza tregua che ci fanno i nostri nemici interni ed esterni, i pericoli che da ogni parte ci minacciano. Poi cerchiamo di figurarci quello che avviene di un’anima che si dà all’apostolato, senza essere abbastanza premunita ed armata contro i suoi pericoli. N… sente svegliarsi in sé il desiderio di darsi all’azione; è però senza esperienza. La sua inclinazione all’apostolato ci permette di credere che abbia dell’ardore, una certa foga nel carattere, e possiamo immaginarci che trovi piacere nell’azione e forse anche nella lotta. Supponiamo che sia di una condotta corretta, che sia pio e anche devoto; ma di una pietà più di sentimento che di volontà, di una divozione che non è il riflesso di un’anima risoluta a cercare unicamente il beneplacito di Dio, ma piuttosto una pia usanza, residuo di lodevoli abitudini. La meditazione, se pure la fa, è per lui una specie di fantasticheria, e la lettura spirituale è un esercizio di curiosità che non influisce sulla sua condotta. Può essere pure che satana lo porti a gustare, per l’illusione di un senso artistico che la povera anima scambia con la vita interiore, le letture che trattano delle vie sublimi e straordinarie dell’unione con Dio, e ad ammirarle con entusiasmo. Ma in complesso vi è poco, e forse nulla, di vera vita interiore in quell’anima alla quale rimangono, sia pure, molte buone abitudini, molte doti naturali e un certo desiderio leale, ma troppo vago, di restare fedele a Dio. Ecco dunque il nostro apostolo che pieno di desiderio di darsi all’azione, si abbandona con zelo al ministero nuovo per lui. Ben presto, in forza delle stesse circostanze che fanno nascere quelle nuove occupazioni (e chiunque è abituato all’azione mi comprenderà), ben presto nascono per lui mille circostanze che lo costringono sempre di più a una vita esteriore, mille attrattive per la sua ingenua curiosità, mille occasioni di cadute dalle quali possiamo credere che fino allora lo aveva difeso in parte l’atmosfera tranquilla del focolare domestico, del seminario, della comunità, del noviziato, o almeno la tutela di una saggia guida. Non solo la crescente dissipazione o la curiosità pericolosa di conoscere tutto, le impazienze o le suscettibilità, la vanità o la gelosia, la presunzione o l’abbattimento, la parzialità o la denigrazione, ma l’invasione progressiva delle debolezze del cuore e di tutte le forme più o meno subdole della sensualità sforzeranno a una lotta senza tregua quell’anima male preparata ad assalti così violenti e continui; perciò saranno frequenti le ferite. Ma verrà anche soltanto il pensiero di resistere, a quell’anima dalla pietà superficiale, mentre è tutta intesa alla soddisfazione già troppo naturale di spendere la propria attività e la propria capacità per una causa eccellente? satana intanto sta in agguato, perché ha già adocchiato la sua preda; e non solo non si oppone a quella soddisfazione, ma la eccita a tutto potere. Arriva però un giorno in cui si intravvede il pericolo: l’Angelo custode si è fatto udire e la coscienza protesta. Bisognerebbe riprendersi, esaminarsi nella calma di un ritiro spirituale, prendere la risoluzione di attenersi a un regolamento che non si abbandonerà più, anche a costo di trascurare occupazioni divenute tanto care. Ahimè! è già tardi! L’anima, ora che ha gustato il piacere di vedere i suoi sforzi coronati dei più lusinghieri risultati, esclama: Domani, domani! Oggi è impossibile: manca il tempo, perché devo continuare quella serie di discorsi, scrivere quell’articolo, organizzare quel sindacato, quella società di beneficenza, preparare quella rappresentazione, fare quel viaggio, sbrigare la corrispondenza… Come è felice di rassicurarsi con tutti quei pretesti! Poiché il solo pensiero di mettersi in faccia alla propria coscienza le è divenuto insopportabile. È giunto il momento in cui satana può attendere a suo agio all’opera di rovina in un cuore che si fa così bene suo complice. Il terreno è preparato: agire era divenuto una passione per la sua vittima, ed egli gliene dà la febbre; dimenticare il tumulto degli affari e raccogliersi le pareva impossibile, il demonio gliene ispira l’orrore e non manca di ubriacare per di più quell’anima con nuovi progetti che le dipinge abilmente con il bel motivo della gloria di Dio e del gran bene delle anime. – Ecco ora quest’uomo, fino a poco fa pieno di abitudini virtuose, che da una debolezza ad un’altra sempre più grave, arriva a mettere il piede sopra il pendio così sdrucciolevole, che non potrà più fermarsi nella sua caduta. Davvero disgraziato, avendo una vaga coscienza che tutto il suo agitarsi non è secondo il Cuore di Dio, per far tacere i rimorsi, si slancia più perdutamente nel turbine. Le colpe si accumulano fatalmente: quello che prima turbava la coscienza retta di quell’anima, ora non è più altro che uno scrupolo da disprezzarsi. Volentieri va proclamando che bisogna saper vivere secondo le esigenze dei tempi, lottare con i nemici con le stesse loro armi, e perciò decanta le virtù attive e mostra disprezzo per quella che essa chiama una pietà di un’altra epoca. Le sue istituzioni del resto sono più prospere che mai, e tutti lo dicono; ogni giorno vede fiorire nuovi buoni risultati, e l’anima illusa esclama: «Dio benedice la nostra opera»; ma domani forse, su lei piangeranno, per causa di gravi cadute, gli Angeli del cielo! – Come mai quest’anima è caduta in uno stato così deplorevole! Per INESPERIENZA, PRESUNZIONE, VANITÀ, IMPREVIDENZA E VILTÀ. Senza considerare la scarsità dei suoi mezzi spirituali, si è lanciata alla ventura in mezzo ai pericoli. Esaurite le sue provviste di vita interiore, si trova nelle condizioni del navigante temerario che non ha più la forza di lottare contro corrente e si lascia trascinare verso l’abisso. Fermiamoci un momento a misurare con lo sguardo il cammino percorso e la profondità del precipizio: andiamo con ordine e contiamo le tappe.
Prima tappa. L’anima da principio ha perduto, a poco a poco, se pure l’ebbe mai, la precisione e la forza delle convinzioni sulla vita soprannaturale, sul mondo soprannaturale e sull’economia del disegno e dell’azione di Nostro Signore, riguardo alla relazione della vita intima dell’operaio evangelico con le opere. Essa non vede più tali opere se non attraverso un miraggio ingannatore. La stessa vanità fa abilmente da piedestallo alla pretesa buona intenzione. «Che cosa volete, Dio mi ha dato il dono della parola, e io lo ringrazio», diceva ai suoi adulatori un predicatore pieno di vana compiacenza e vuoto di vita interiore. L’anima cerca più se stessa che Dio: riputazione, gloria, interessi personali occupano il primo posto, e quel Si hominibus placerem, servus Christi non essem (Se ancora piacessi agli uomini, non sarei servo di Gesti Cristo (Gal. I, 10), diventa per lei una parola vuota di senso. Senza contare l’ignoranza dei princìpi, LA MANCANZA DI UNA BASE SOPRANNATURALE, la quale è il carattere di questa prima tappa, ora ha come causa, ora come conseguenza immediata, la dissipazione, la dimenticanza della presenza di Dio, l’abbandono delle giaculatorie e della custodia del cuore, la mancanza di delicatezza di coscienza e di regolarità di vita: la tepidezza è vicina, se già non è venuta.
Seconda tappa. L’uomo soprannaturale è schiavo del dovere e perciò, avaro del suo tempo: ne regola l’impegno e vive seguendo un regolamento; egli comprende che altrimenti vi sarà il predominio della natura, la vita comoda e a capriccio dal mattino alla sera. L’uomo di azione, senza una base soprannaturale, non tarda a farne l’esperienza. La mancanza di spirito di fede nell’impiego del tempo lo conduce ad abbandonare la lettura spirituale; del resto, se legge ancora, non studia più: il preparare lungo la settimana l’omelia della domenica è cosa che stava bene per i Padri della Chiesa… egli preferisce, eccetto che non ci sia di mezzo la vanità, improvvisare, e improvvisa sempre, così almeno crede, con rara fortuna… Ai libri egli preferisce le riviste; non ha più spirito di ordine, ma va svolazzando. Alla legge del lavoro, a questa gran leggedi preservazione, di moralità e di penitenza, egli si sottrae sciupando le ore di libertà e con la voglia sfrenata di procurarsi delle distrazioni. – Egli trova faticoso e puramente teorico tutto ciò che legherebbe la sua libertà di movimento; il tempo non gli basta per tante opere e doveri sociali e neppure per quello che egli stima necessario per la sua salute e per le sue ricreazioni. Veramente, gli dice il demonio, è troppo il tempo dedicato agli esercizi di pietà, meditazione, ufficio, messa, atti del ministero… bisogna allargare un poco. E invariabilmente egli incomincia ad abbreviare la meditazione, a farla irregolarmente e forse, purtroppo, a poco a poco arriva a sopprimerla del tutto. Il punto indispensabile per restare fedeli all’orazione, cioè l’alzarsi a ora fissa, è tanto più logicamente abbandonato, perché va a letto molto tardi, e non senza motivo. – Ora, nella vita attiva, abbandonare la meditazione è lo stesso che abbassare le armi di fronte al nemico. «Eccetto un miracolo, dice sant’Alfonso, senza la meditazione si finisce con cadere nel peccato mortale ». E san Vincenzo de1 Paoli: «Un uomo senza meditazione non è capace di nulla, neppure di rinunziare a sé in qualsiasi cosa: è la vita animale pura e semplice ». Certi autori citano queste parole di santa Teresa: « Senza meditazione, uno diventa ben presto o un bruto o un demonio. Se non fate meditazione non avete bisogno del demonio che vi getti nell’inferno, ma vi buttate da voi. Datemi invece il più gran peccatore: se egli fa meditazione anche soltanto un quarto d’ora al giorno, si convertirà; se poi persevera, egli è sicuro della sua salute eterna ». L’esperienza delle anime sacerdotali o religiose dedicate all’azione, è sufficiente per stabilire che un operaio apostolico il quale, sotto pretesto di occupazioni o di stanchezza, oppure per noia o per pigrizia o per illusione, riduce facilmente la sua meditazione a dieci o a quindici minuti, invece di attenersi a mezz’ora di meditazione seria per attingervi lo slancio e la forza necessaria nella sua giornata, cade fatalmente nella tepidezza di volontà. Evidentemente non si tratta più d’imperfezioni da evitarsi: sono i peccati veniali che si moltiplicano, e l’impossibilità in cui si è caduti, di vigilare alla custodia del cuore, nasconde la maggior parte di tali colpe alla coscienza: l’anima si è messa nello stato di non vedere più. E come potrebbe combattere quello che non discerné più come difettoso? La malattia di languore è già molto avanzata ed è la conseguenza di questa seconda tappa che è caratterizzata dall’abbandono della MEDITAZIONE e di ogni REGOLAMENTO.
Tutto è già maturo per la terza tappa il cui sintomo è la negligenza nella recita del BREVIARIO. La preghiera della Chiesa, che doveva dare al soldato di Gesù Cristo la gioia e la forza di sollevarsi di quando in quando e di trovare in Dio il mezzo di elevarsi sopra il mondo visibile, diventa un peso. La vita liturgica, sorgente di luce, di gioia, di forza, di meriti e di grazie per lui e per i fedeli, non è più altro che l’occasione di un dovere ingrato che si compie di mala voglia. La virtù intima della religione è gravemente ferita; la febbre dell’azione ha contribuito a inaridirla. L’anima non vede più il culto di Dio, se non è legato a chiassose manifestazioni esteriori; il sacrificio personale e oscuro, ma cordiale, della lode, della supplica, del ringraziamento, della riparazione, non le dice più nulla. Poco fa, durante la recita delle sue preghiere vocali, essa ripeteva con legittimo vanto, come se avesse voluto gareggiare con un coro di monaci: anch’io in conspectu Angelorum psallam tibi (In presenza degli Angeli a te canterò inni {Salmo CXXXVII, 2). Il santuario di quell’anima, prima imbalsamato dalla vita liturgica, è divenuto una pubblica piazza dove regnano il chiasso e il disordine. La sollecitudine esagerata per l’azione, e la dissipazione abituale moltiplicano le distrazioni che del resto sono sempre meno combattute. Non in commotione Dominus (Dio non è nel rumore (III Re, XIX, 11). La vera preghiera non c’è più: precipitazione, interruzioni non giustificate, negligenza, sonnolenza, ritardi, rinvio all’ultimo momento, con pericolo di lasciarsi vincere dal sonno… e forse omissioni di quando in quando, mutano il rimedio in veleno e il sacrificio di lode in una litania di peccati che forse non saranno più soltanto veniali!
Quarta tappa. Tutto si concatena: l’abisso chiama l’abisso. I SACRAMENTI! Si ricevono e si amministrano come una cosa rispettabile si, ma non si sente più palpitare la vita che essi contengono. La presenza di Gesù nel santo Tabernacolo o al tribunale di penitenza non riesce più a far vibrare fino al midollo dell’anima la fede. ANCHE LA MESSA, il sacrificio del Calvario, è un giardino chiuso; l’anima certamente è ancora lontana dal sacrilegio, vogliamo sperarlo, ma non sente più il calore del Sangue divino. Le sue consacrazioni rimangono fredde, le sue comunioni tiepide, distratte, superficiali; una familiarità irriverente, l’abitudine e forse il disgusto già la insidiano. L’apostolo così deformato vive fuori di Gesù e non è più favorito di quelle parole intime che Gesù dice soltanto ai suoi amici. – Tuttavia di quando in quando l’Amico celeste gli manda un rimorso, un raggio di luce, una chiamata; egli aspetta, bussa, chiede di entrare: Vieni a me, povera anima ferita, ma vieni dunque e io ti guarirò: Venite ad me omnes… et ego reficiam vos (Matt. XI, 28); perché Io sono la tua salvezza: Salus tua ego sum (Ps. XXXIV). Io sono venuto a salvare quello che era perduto: Venit Filius hominis quærere et sàlvum facete quod perierat (Luc. XIX, 10). Questa voce cosi soave, così tenera, così discreta, così premurosa, procura dei momenti di commozione, delle velleità di fare meglio; ma essendo la porta del cuore appena socchiusa, Gesù non può entrare, e questi buoni movimenti dell’anima tiepida non hanno nessun effetto. La grazia passa invano e si rivolge contro l’anima stessa. Forse anche, nella sua misericordia, per non accumulare tesori d’ira, Gesù cesserà di parlare: Time Jesum transeuntem et non revertentem (temi Gesù che passa e non ritorna). – Andiamo ora più innanzi e penetriamo nell’intimo di quest’anima che stiamo descrivendo. La parte che hanno i pensieri, è preponderante nella vita soprannaturale, come nella vita morale e intellettuale. Quali sono i pensieri che la occupano e a quale corrente obbediscono! Tali pensieri, umani, terreni, vani, superficiali, egoistici, convergono sempre più verso l’Io o verso le creature, spesso anche con l’apparenza di abnegazione e di sacrificio. A tale disordine nell’intelletto, corrisponde il disordine nella fantasia. Nessuna facoltà umana dev’essere repressa più di questa; ma di reprimerla non vi è neppure l’idea, e perciò con la briglia sul collo essa si dà a una corsa pazza e va in tutti i traviamenti, in tutte le pazzie. La progressiva soppressione della mortificazione degli occhi permette alla pazza di casa di trovare pascolo un po’ dappertutto. Il disordine continua la sua strada e dall’intelletto e dalla fantasia scende nelle affezioni. Il cuore non si pasce più che di chimere. Che cosa sarà di quel cuore dissipato che non si cura quasi più del regno di Dio in lui e che è divenuto insensibile ai colloqui intimi con Gesù, alla sublime poesia dei misteri, alle severe bellezze della liturgia, agli inviti e alle attrattive del Dio dell’Eucaristia, insensibile insomma alle influenze del mondo soprannaturale? Si concentrerà in se stesso? Questo sarebbe un suicidio. No! esso sente bisogno di affezione; ma non trovando più la sua felicità in Dio, amerà la creatura. Esso è in balia della prima occasione e vi si getta imprudentemente, perdutamente, senza darsi forse pensiero dei voti più santi né del maggior interesse della Chiesa e neppure della sua riputazione. Supponiamo pure che la prospettiva dell’apostasia ancora lo turbi, e profondamente, ma già lo spaventa di meno lo scandalo delle anime. Certamente, per grazia di Dio, l’andare così fino al fondo è una rara eccezione; ma chi non vede che il disgusto di Dio e l’accettazione del piacere illecito può trascinare il cuore alle maggiori disgrazie? Dall’animalis homo non intelligit (L’uomo animalo non percepisce lo cose che sono dello spirito di Dio (I Cor. II, 14), si giunge per forza al qui nutriebantur in croceis amplexati sunt stercora (Coloro che erano allevati nella porpora, hanno abbracciato il fango – Ger. LAMENT. IV, 5). L’illusione ostinata, l’accecamento della mente, l’indurimento del cuore vanno progredendo, e c’è da aspettarsi tutto. Per colmo di sventura la volontà si trova non già distrutta, ma ridotta a uno stato di debolezza e di fiacchezza, che equivale quasi all’impotenza. Provatevi a domandargli non già di reagire energicamente, questo sarebbe inutile, ma di tentare soltanto uno sforzo, ed egli vi darà questa risposta disperata: Non posso. Ora in tal caso non essere più capace di uno sforzo vuol dire andare in completa rovina. Un empio famoso osò dire che egli non poteva ammettere la fedeltà ai loro voti e ai loro obblighi in certe anime che per la loro azione vivono mescolate alla vita del secolo. «Esse camminano, soggiungeva, sopra una fune tesa, e le loro cadute sono inevitabili ». A tale ingiuria contro Dio e la Chiesa, bisogna rispondere senza esitare, che tali cadute si evitano SICURAMENTE quando si sappia valersi del prezioso bilanciere della vita interiore, e che soltanto all’abbandono di questo mezzo infallibile bisogna attribuire le vertigini e i passi falsi e scandalosi verso il precipizio. – L’illustre gesuita P. Lallemant risale alla causa iniziale di simili cadute quando dice: Molti uomini apostolici non fanno nulla unicamente per Dio, ma cercano in tutte le cose se stessi e mescolano sempre segretamente i loro interessi con la gloria di Dio, nelle loro migliori imprese. Essi passano cosi la loro vita in questa mescolanza di natura e di grazia; finalmente poi viene la morte e allora soltanto aprono gli occhi, vedono la loro illusione e tremano all’avvicinarsi del terribile giudizio di Dio (P . LALLEMANT, Direct. Spirit.). Lungi da me il pensiero di annoverare tra gli apostoli che predicano se stessi, lo zelante e valente missionario, l’illustre sacerdote Combalot, ma non mi pare fuori di proposito il citare le sue parole in punto di morte. «Abbiate fiducia, caro amico, gli diceva il sacerdote dopo di avergli amministrato gli ultimi sacramenti; voi avete serbato l’integrità della vostra vita sacerdotale, e le vostre migliaia di prediche vi scuseranno dinanzi a Dio dell’insufficienza di vita interiore che voi deplorate. — Le mie prediche! Oh! a che luce le vedo ora! Le mie prediche! Ah! se Nostro Signore non me ne parla Lui per il primo, non comincerò io certamente! ». Alla luce dell’eternità, quel venerando sacerdote vedeva nelle sue migliori opere di zelo, delle imperfezioni che gli turbavano la coscienza e che egli attribuiva ad una deficienza di vita interiore. – Il cardinale du Perron, in punto di morte, dimostrava il suo pentimento di aver atteso, durante la sua vita, più a perfezionare la sua intelligenza con gli studi, che non la sua volontà con gli esercizi della vita interiore (idem): O Gesù, Apostolo per eccellenza, chi mai si è prodigato come Voi nella vostra vita mortale? Oggi Voi vi date più abbondantemente ancora con la vostra vita eucaristica senza abbandonare tuttavia il seno del Padre! Fate che noi non dimentichiamo mai che Voi non accetterete le nostre fatiche, se non sono animate da un principio davvero soprannaturale e se non hanno le loro radici nel vostro Cuore adorabile!
[G. SBUTTONI: da s. PIETRO A PIO XII. Editrice A.B.E.S. Bologna, 1953)
Dall’anno 1000 ai giorni nostri:
CAPO VI.
DALLA RIFORMA ALLA RIVOLUZIONE (2)
4 – LA MASSONERIA
D. Quali rapporti esistono tra la Massoneria e la Chiesa!
— La Massoneria è uno dei nemici che più ha tentato di prevalere contro la Chiesa e questa l’ha condannata con 8 Encicliche, 3 Bolle ed un Breve. – Pochissimi avversari hanno dovuto subire la continua, aperta lotta di nove Papi e la spietata guerra di tutto il Clero cattolico per oltre duecento anni.
D. Quali sono i documenti di condanna?
— I seguenti:
— Clemente Xll: Enc. « In eminenti» (4 maggio 1738).
— Benedetto XIV: fine. « Providas » (18 maggio 1751).
— Pio VII: Bolla « Ecclesiam a Jesu Christo » (13 nov. 1821).
— Leone Xll: Bolla « Quo graviora » (13 marzo 1825).
— Pio VIII : Enc. « Traditi humilitati nostra » (24 maggio 1829).
— Gregorio XVI: Enc. « Mirari vos » (15 agosto 1843).
— Pio IX: Enc. « Qui pluribus » (9 nov. 1846) : Alloc. « Singulari quidam » (9 die. 1854); Alloc. « Maxima quidem laetitia » (9 luglio 1862); Breve « Ex epistola» (26 ott. 1865) diretta a Mons. Darbój; Enc. « Etsi multa luctuosa » (21 nov. 1873).
— Leone XIII: Enc. « Quo apostolici » (28 dicembre 1878);
Enc. « Humanum genus» (20 aprile 1884).
D. Perchè queste condanne piene e inequivocabili?
— Per la natura della Massoneria stessa.
D. Che cos’è la Massoneria?
— È un’associazione segreta internazionale basata su una dottrina di libero esame, che rigetta ogni soprannaturale e pretende di trovare nella sola « ragione » umana la regola della vita personale sociale.
D. Qual è tu sua tattica?
— Perconseguire il suo fine essa opera nella società subdolamente, infiltra i suoi elementi nelle associazioni e nei partiti più diversi, si accaparra elementi che vi fanno parte; praticamente cerca di essere una forza occulta ed incontrollabile per manovrare a suo beneplacito le leve della società.
D. Quale la sua caratteristica?
— L’ambiguità, per cui si presta ed aderisce a tutte le situazioni spirituali (salvo quella del Cattolico, perchè essa è « a priori » ribelle al soprannaturale e al dogma).
D. Da dove la sua forma di attrazione?
— Dal suo « mistero » e dalla sua «religiosità» universalistica, oltre che dalla sua attività e potenza politica ed umanitaria.
D. Dov’è più settaria ed anticristiana?
— Nei paesi latini. Comunque essa è, dovunque e sempre, la negazione della Religione rivelata e la sostituzione dell’uomo a Dio: è la catalizzazione in termini eriti di religiosità irreligiosa della ribellione moderna al Cristianesimo, della incredulità e della miscredenza razionalista che ha voluto mettere il mondo moderno in rivolta contro Dio.
PER QUESTO PAPI E I.A CHIESA NON HANNO POTUTO NON CONDANNARLA.
D. Ha essa qualche cosa di fìsso?
— Pur nella disintegrazione individualistica d’ogni principio dottrinale ha questo di fisso, che attrae soprattutto i giovani: il suo simbolismo e la sua gerarchia.
D. Quali sono i sìmboli massonici?
— Sono riti, cerimonie, emblemi, segni ecc. tolti dalla Bibbia, dal Cristianesimo, dai « misteri » pagani e dalle antiche Corporazionimurarie. Ma è una derivazione puramente materiale e artificiale, chevuole indubbiamente essere un mezzo pedagogico ed istruttivo, unsistema di allegorie inteso ad illustrare ed inculcare leaspirazioni della Massoneria.
[Ma soprattutto è il culto del baphomet-lucifero che si manifesta apertamente nei riti dal 30° livello in poi – ndr.-]
D. Qual è la gerarchia!
— Tutti i riti massonici constano di tre gradi:
1) apprendista,
2) compagno.
3) maestro,
che potrebbero corrispondere sia alle tre fasi a iniziazione dei misteri antichi, sia alle tre « vie» dell’ascetismo cristiano (« via» purgativa, illuminativa, unitiva), e sono accompagnati da simboli diversi: il libro della Bibbia, la stella fiammeggiante (a 5 punte invertita, di lucifero), la scala teologica, il teschio da morto, il tetragramma giudaico, ecc..
D. Qual è la cerimonia per introdurre un nuovo aspirante!
— Il « neofita » rimane chiuso nel « gabinetto di riflessione » a compilare il «testamento». (gli fanno compagnia un teschio, simbolo della morte, ed un tozzo di pane, simbolo della vita. Nel testamento deve rispondere a tre domande: « Che cosa dovete all’umanità, alla patria, a voi stesso ». Poi l’aspirante subisce la cerimonia del « battesimo massonico »: il Venerabile, mascherato, incrocia le spade sul capo dell’iniziando, mentre uno dei due assistenti incappucciati gli fa sentire la fredda lama del pugnale sulla pelle in corrispondenza del cuore. Il neofita in ginocchio gli presta giuramento. I padrini lo assistono.
D. Che ha davanti il massone, superato il periodo di « apprendistato » (Massonerìa Azzurra)?
— Ha davanti la lunga scala di 33 gradi:
1) una selezione di gradi fino al 18° « Rosa Croce » (Massonerìa Rossa)
2) un numero variabile di gradi di perfezione che portano al 30° o « Cavaliere Kadosh » (Massoneria Nera)
3 ) infine gli ultimi tre:
31° o « Grande Ispettore Inquisitore »;
32° o « Principe del real segreto »:
33° o «Grande Ispettore Generale».
Questi ultimi gradi costituiscono la Massoneria Bianca.
D. Qual è l’organo supremo della Massoneria in ogni singolo Stato?
— Il «Grande Oriente» (nome di origine incerta; forse perché la luce viene da oriente?), al quale fanno parte tutte le Logge dello Stato.
D. Che cos’è la « Loggia »?
— È la sezione locale e sede della riunione della relativa comunità massonica.
D. Che cos’è il «tempio »?
—- E ‘ il luogo di riunione.
D. Da chi dipende, ogni loggia?
— Da un «maestro del seggio».
D. Che cosa, costituisce l’insieme di più logge?
— La « grande loggia », retta da un Venerabile.
D. Come si chiama il capo delle Grandi Logge, riunite in Grande Oriente!
— Gran Maestro o Sovrano.
D. Da che cosa è circondata dunque l’attività massonica?
— Da tenebre e mistero, per cui la Costituzione Italiana ha pronunciato la sua condanna con l’art. 31: « Sono proibite le associazioni segrete ».
D. In Italia è unita e compatta la Massonerìa?
— No. Vi è quella di Piazza del Gesù o di rito scozzese e quella di Palazzo Giustiniani, tra loro in lotta. Quando infatti il 15 maggio 1949 si doveva addivenire ad una « Costituente Massonica», che doveva fondere in un unico organismo i vari gruppi, non se ne poté constatare che il clamoroso fallimento. Non per questo tuttavia essa si presenta meno insidiosa e meno pericolosa.
D. Con quale sigla si è sempre presentata la Massonerìa?
— Con questa: « A. G. D. G. A. D. U. » che vuol dire: «Alla gloria del Grande Architetto dell’Universo». Fino dal sec. XVIII questa misteriosa sigla apriva di rigore ogni documento massonico o compariva nelle camiture delle logge.
D . Quando sorse la Massonerìa!
— Le sue vere origini sono avvolte nel mistero.
D . Che afferma il massone Rebold?
— In « Histoire des Trois Grandes Loges », pag. 670, 697, afferma che essa « è sorta da un’antica e celebre corporazione di arti e mestieri fondata in Roma da Numa Pompilio nel 715 a. C. – La lista dei Grandi Maestri risalirebbe al 292 a. C. ad un certo Albano grande « Venerabile » e primo « Grande Ispettore » massonico.
D. È ciò attendibile?
— È evidentemente umoristico o per lo meno leggendario. Come è ugualmente leggendario assegnare alla massoneria origini giudaiche, anche se l’influenza degli ebrei nella moderna massoneria è effettivamente preponderante.
D. Qual è il parere dei migliori studiosi in materia?
— È che le origini massoniche vanno ricercate nelle « Corporazioni murarie » medioevali. Fin dal sec. XII una forte corrente migratoria, seguendo le linee di diffusione dello stile gotico dall’ « Ile de France » in tutta Europa, portò in Inghilterra numerosi artigiani ed operai « muratori » (macons) che si costituirono all’uso medioevale in numerose « logge » riunite in una « gilda » o corporazione.
D. Quando fiorirono le « massonerie corporative » o « gilde murarie »?
— Durante tutto il Medio Evo fino alla rivoluzione protestante ed erano quindi sopra tutto organizzazioni a carattere « sindacale » per i muratori massoni. A poco a poco però la Massoneria corporativa si trasformò — alla fine del ‘600 ed ai primi decenni del ‘700 — in « Massoneria Speculativa ».
D . Come avvenne tale trasformazione?
— Avvenne sotto l’influsso di cause politiche ed ideologiche.
D. Che cosa vi influì « politicamente »?
— Vi influirono le lotte fra gli Stuart, il Parlamento inglese e la casa d’Orange. Gli Stuart cercarono l’appoggio dei membri delle Corporazioni massoniche, facendone uno strumento politico e trasferendo segretamente l’organico massonico nell’esercito per dominare l’apparato militare.
D. Che cosa trasformò « ideologicamente » la Massoneria professionale nell’organizzazione moderna a contenuto filosofico?
— Fu l’introduzione di teorie umanitarie internazionalistiche a sfondo religioso naturalistico, sorte in alcuni circoli inglesi sotto la denominazione di « logge Rosa-Croce ».
D. Cosi dunque qual è la data di nascita della massoneria moderna?
— È il 1717, allorché le quattro logge di Londra si fondono in un’unica Grande Loggia sotto un Grande Maestro.
D. A quando risale la prima condanna pontificia?
— A 21 anno dopo (1788) da parte di Clemente XII.
D. Che cosa intendevano queste logge?
— Conservando le antiche cerimonie e proponendo come scopo la costruzione simbolica del Tempio della nuova Umanità, queste logge intendevano tenere uniti i loro membri inun deismo generico [in realtà satanico-luciferino – ndr. -], superiore ad ogni confessione religiosa e spregiatore di ogni Rivelazione. Rendevano onore al « Grande Architetto dell’ Universo » prescindendo assolutamente da ogni concetto soprannaturale, in aperta opposizione al Cristianesimo e sopra tutto al Cattolicesimo.
D. Che le giovò?
L ‘ ambiente del sec. XVIII, saturo di stanchezza, snervato dall’indifferenza religiosa, dilaniato nell’unità, disintegrato dal libero esame, inaridito dalla critica.
D. Che cosa s’affermò in simile ambiente?
— L a nuova filosofia razionalista e, in sostanza, miscredente.
I n questo ambiente la Rivelazione appare ormai come inammissibile; la « ragione » è unica fonte di conoscenza, e. in definitiva, unica sorgente di verità anche sul terreno religioso.
Il Cristianesimo rivelato non ha nessun valore ; la Chiesa ancormeno. I dogmi sono catene di errori imposti all’ignoranza.
D. Che cosa produce questo ambiente filosofico e sociale?
— Questo ambiente filosofico e sociale, questo secolo razionalista e scientifico, miscredente e deista, dà pieno sviluppo alla massoneria.
D. In quali paesi era ed è tuttora fiorente e potente?
— In Inghilterra, Francia e Stati Uniti.
In Inghilterra essa favorì il rapido propagarsi delle idee razionaliste dell’Illuminismo e servì come difesa delle posizioni dell’imperialismo inglese. Nel 1772 le logge erano 160; oggi sono oltre 4.400. – In Francia, fattasi autonoma, si sviluppò intorno alla Rivoluzione francese ed intorno alla potenza napoleonica (massone fu il Bonaparte). Nel 1847 la Francia ebbe oltre 1200 logge; oggi ne ha 450. Alla massoneria francese si ricollegano quelle del Belgio, Romania, Svizzera, America del Sud, e, in parte, dell’Italia.
(Gli Stati Uniti sono la più grande potenza massonica. La Federazione degli Stati nacque nelle « logge », propugnata da Coxe e Franklin. Dalla gran loggia di Boston il 6 dicembre 1773 parte il segnale della rivolta. Attualmente la massoneria negli S. U. conta 18.000 logge con 3.500.000 fratelli.
D. E in Italia?
— Lasciata in balìa di se stessa, fino quasi a consumarsi nelle lotte interne, ora sembra risvegliarsi e iniziare approcci internazionali per giungere al riconoscimento ufficiale del « Grande Oriente Americano ». Almeno così fa la nostra massoneria scozzese in contrasto con quella di Palazzo Giustiniani. Questa di Casa Giustiniani, raccogliendo gran parte, se non tutto, il culturame comunistoide, sembra diventare un’appendice di Mosca.
[Ovviamente non è qui il caso di aggiornare i numeri spaventosamente cresciuti in Italia e nel mondo, e le infiltrazioni ben conosciute perfino in Vaticano, ove la sinagoga adorante il “signore dell’universo”, cioè il baphomet-lucifero, si è sostituita alla Chiesa Cattolica conservandone l’aspetto esterno usurpato, ma rivoltandone tutta la dottrina e la liturgia, oggi vera e propria ritualità satanica – n.d.r. -].
APPENDICE II.
LA QUESTIONE DI GALILEO
GALILEO GALILEI, una delle più grandi figure d’ogni tempo, fu sommo scienziato e scrittore, nato u Pisa nel 1564, compì gli studi umanistici a Firenze e quelli scientifici nella città natale, dote insegnò dal 1589 al 1602; ìndi passò a Padova. – Nel 1610 si stabilì a Firenze in qualità dì matematico e filosofo del granduca. E’ autore dell’invenzione dell’ orologio a pendolo, del termometro, del cannocchiale, del microscopio. Si deve principalmente a lui il grande sviluppo preso dalla fisica. Accrebbe la vasta fama di cui godeva quando scoprì le macchie solari e dimostrò che la luna è ricoperta di monti e che la via lattea non è che un ammasso gigantesco di stelle. Nel 1611 si recò a Roma, dove ricevette onori anche dal Papa Paolo V, che manifestò per lui una benevolenza particolare. Ma quando, in base alle sue indagini astronomiche, egli propugnò il sistema copernicano, sembrò a qualche teologo che simile concezione fosse contraria alla sacra Scrittura. Si citava al riguardo il versetto del salma 103, dove è detto: « Tu hai fissato la terra sulle sue basi » e le parole di Giosuè: « Non muoverti, o sole, da Gabaon ». L’errore di Galileo fu di appoggiare le sue affermazioni sulla S. Scrittura. Egli sosteneva che essa non può errare, ma che potevano errare bensì i suoi interpreti, ai quali spetta di conciliare le loro spiegazioni conì risultati certi della scienza. Di qui divampò una lotta vivace. La finale fu che Galileo venne accusato di eresìa davanti al tribunale dell’Inquisizione a Roma. Il tribunale nel 1618 riprovò il sistema Copernicano, che, come è noto, insegna che la terra simuove attorno al sole, e proibì di diffonderlo. Nel marzo dello stesso anno, la Congregazione dell‘Indice, proibì i libri che contenevano tale dottrina. Gli scritti di Galileo non vennero espressamente condannati, né all’insigne scienziato furono vietati gli studi nel campo astronomico, a cui poté attendere tranquillamente a Firenze. – Eletto papa Urbano VIII, grande ammiratore di Galileo, questi, nell’aprile del 1624, fu ricevuto più volte, e sembra con molta cortesìa, dal Pontefice. Usando prudenza, lo scienziato avrebbe potuto continuare a lavorare a favore del sistema copernicano. Ma purtroppo gli fece difetto la diplomazia. Nel febbraio del 1632 pubblicò il « Dialogo sopra i due massimi sistemi », opera scritta con splendore di stile e con fine umorismo (ma priva di rigore e dimostrazioni scientifiche di un qualche valore), ma che urtò la suscettibilità della Congregazione del S. Ufficio e che procurò all’autore un nuovo processo e una nuova condanna. Nonostante la grave età, egli dovette lasciare Firenze, e recarsi a Roma,per subirvi il processo. Conviene dire però che gli furono usati i massimi riguardi. Durante i giorni del processa, abitò nel palazzo del Procuratóre del S. Ufficio, dove, com’egli attesta, trovò agevolezze insolite e squisite attenzioni, e, quando fu colpito da una leggera indisposizione, fu condotto nel palazzo del Niccolini, ambasciatore, di Toscana. Dopo la condanna, il Papa gli diede facoltà di abitare nel palazzo della Trinità dei Monti, in Roma, con libero accesso ai vasti giardini adiacenti. – In seguito, dietro richiesta dello stesso Galilei, fu condotta a, Siena, presso l’arcivescovo Piccolomini, e finalmente nella propria villa di Arcetri, vicino a Firenze, dove, morì a 77 anni nel 1642. – Egli rimase sempre fedele, alla Chiesa: prima di morire fece chiedere al Papa la benedizione apostolica. I documenti del processo escludono nel modo più assoluto ciò che qualcuno ha in passato asserito, cioè che il Galilei, durante l’interrogatorio di Roma, sia stato sottoposto alla tortura (anzi il processo fu una truffa alla verità, organizzato a mo’ di farsa da giudici compiacenti che non avevano alcun titolo, senza che comparissero i Gesuiti dell’Indice che avevano ben compreso l’eresia atomistica del libello galileano. La teoria eliocentrica d’altra parte non ha mai avuto nessuna prova concreta né dimostrazione di alcun tipo, tranne la sigla del TG1 ed i trucchi scenografici e fotografici della NASA – ndr. -]
Per un’idea più chiara e veritiera dell’affare Galilei rimandiamo al seguente articolo:
Per valutare giustamente questa spinosa questione, occorre tener presenti alcune circostanze storiche. In quel tempo si temevano, e non a torto, le audacie dottrinali dei protestanti circa la libera interpretazione della S. Scrittura. I teologi si erano impennati a sostegno delle frasi della Bibbia, che apparivano in contrasto con il sistema copernicano, il quale del resto ancora non era stato scientificamente provato [né lo sarà mai!]. D’ altra parte Galileo errò nel volere entrare nel campo della interpretazione scritturale. Il tribunale, che certo agì con molto rigore, volle salvare il principio de « la Bibbia è senza errori » [l’inerranza biblica è dogma di fede tridentino! – ndr.-], temendo che si rinnovasse in Italia ciò che era avvenuto in Germania per opera di Lutero.
SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE – TORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMANAPOLI BARI CATANIA PALERMO
VISTO: Nulla osta alla stampa.
Torino: 22 giugno 1922.
Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.
VISTO: Imprimatur.
C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.
PARTE SECONDA
Unione della vita attiva e della vita interiore
4.
Vita interiore e vita attiva si chiamano a vicenda
Come l’amore di Dio si rivela con gli atti della vita interiore, così l’amore del prossimo si manifesta con le operazioni della vita esteriore e perciò, non potendosi separare l’amore di Dio e l’amore del prossimo, ne risulta che queste due forme di vita non possono stare l’una senza l’altra (vitam diligendus est proximus, ac per hoc, sic non possuinus sine utraque esse vita, sicut et sine utraque dilectione esse nequaquam possumus – S. IBID., Different, lib. II, XXXIV, n. 135). Perciò, dice il Suarez, non vi può essere uno stato correttamente e normalmente ordinato per giungere alla perfezione, il quale non partecipi in una certa misura dell’azione e della contemplazione (Concedendum ergo est nullum esse posse vitæ studium recte institutum ad perfectionem obtinendam, quod non aliquid de actione et de contemplatane participet – SUAREZ, de Relig. trac., 1. I, cap. V, n. 5). L’illustre gesuita non fa altro che commentare l’insegnamento di san Tommaso. Coloro che sono chiamati alle opere della vita attiva, dice il Dottore Angelico, avrebbero torto a credere che questo dovere li dispensi dalla vita contemplativa; questo dovere non ne accresce e non ne diminuisce la necessità. Perciò le due vite non solo non si escludono a vicenda, ma si chiamano, si suppongono, si mescolano e si completano, e se si deve dare una parte maggiore all’una delle due, bisogna darla alla vita contemplativa che è la più perfetta e la più necessaria (GOFFREDO, Vita S. Bern., I, c. V e III). Perché sia feconda, l’azione ha bisogno della contemplazione; questa quando giunge a un certo grado d’intensità, diffonde sulla prima qualche cosa della sua sovrabbondanza, e così l’anima va ad attingere direttamente nel cuore di Dio le grazie che razione deve distribuire. – Perciò nell’anima di un santo, l’azione e la contemplazione, fondendosi in perfetta armonia, danno alla sua vita una meravigliosa unità. Tale era, per esempio, san Bernardo, l’uomo più contemplativo e inpari tempo più attivo del suo secolo. Di lui unsuo contemporaneo fa questa magnifica descrizione: in lui l’azione e la contemplazione si accordavano così bene, che egli pareva nel tempo stesso tutto dedito alle opere esteriori e intanto tutto assorto nella presenza e nell’amore del suo Dio(S. TOMM., 2a 2æ, q. 182, a. 1 ad 3). Commentando quel testo scritturale: Pone me ut signaculum super cor tuum, ut signaculum super brachium tuum – Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio – Cant. VIII, 6), il F. Saint-Jure descrive molto bene i rapporti tra le due vite; riassumiamo le sue riflessioni. Il cuore significa la vita interiore, contemplativa; il braccio, la vita esteriore, attiva. Il sacro testo nomina il cuore e ilbraccio per mostrare che le due vite possono allearsi e andare perfettamente d’accordo nella medesima persona. Il cuore è nominato per il primo, perché è un organo più nobile e più necessario che il braccio; così pure la contemplazione è assai più eccellente e più perfetta, e merita più stima che non l’azione. – Il cuore batte notte e giorno, e un momento di fermata in questo organo essenziale porterebbe alla morte. Il braccio invece che è soltanto parte integrante del corpo umano, si muove solo a intervalli. Così noi dobbiamo di tanto intanto dare un po’ di tregua al nostro lavoro esteriore, ma non sospendere mai la nostra applicazione alle cose spirituali. Il cuore dà la vita e la forza al braccio, per mezzo del sangue che gli manda, altrimenti questo membro si paralizzerebbe. Così la vita contemplativa, vita di unione con Dio, con i lumi e la continua assistenza che l’anima riceve da questa intimità, vivifica le occupazioni esteriori ed essa sola ècapace di comunicare loro, insieme con un carattere soprannaturale, una reale utilità. Senza di essa, tutto è languido, sterile, pieno d’imperfezioni. L’uomo disgraziatamente troppo spesso separa quello che Dio ha unito, perciò questa perfetta unione è molto rara, e poi per effettuarsi esige un complesso di precauzioni che spesso si trascurano: non intraprendere nulla di superiore alle proprie forze; vedere in tutto abitualmente, ma semplicemente, la volontà di Dio; non impegnarsi nell’azione se non quando Dio lo vuole e nella misura esatta in cui lo vuole da noi, e con il solo desiderio di esercitare la carità; offrirgli fin dal principio il nostro lavoro e durante il lavoro ravvivare spesso con santi pensieri e con ardenti giaculatorie la nostra risoluzione di agire soltanto per Lui e per mezzo di Lui; ancora durante il lavoro, qualunque sia l’attenzione che si richiede da noi, conservarci sempre nella pace, perfettamente padroni di noi medesimi; per la riuscita, rimetterci unicamente a Dio e non desiderare di essere liberati dalla fatica se non per ritrovarci soli con Gesù Cristo. Tali sono i sapientissimi consigli dei maestri della vita spirituale, per giungere a questa unione. Qualche volta le occupazioni si moltiplicheranno tanto, da richiedere tutte le nostre energie, senza che possiamo in nessun modo liberarci dal nostro peso e neppure alleggerirlo. La conseguenza ne potrà essere la privazione, per un tempo più o meno lungo, del godimento dell’unione con Dio, ma questa unione non ne soffrirà, se noi non lo vogliamo. Se tale stato si prolunga, BISOGNA SOFFRIRNE, GEMERNE E SOPRATTUTTO TEMERE CHE DIVENTI ABITUDINE. L’uomo è debole e incostante; trascurata la sua vita spirituale, ben presto ne perde il gusto; assorbito dalle occupazioni materiali, finisce con sentirne piacere. Invece se lo spirito interiore esprime la sua vitalità latente con gemiti e sospiri, questi continui lamenti che vengono da una ferita la quale non si chiude nemmeno in mezzo ad un’attività assorbente, costituiscono il merito della contemplazione sacrificata, o meglio l’anima mette in effetto quella meravigliosa e feconda unione della vita interiore e della vita attiva. Stimolata da questa sete di vita interiore, che essa non può soddisfare a suo agio » ritorna con ardore, appena lo può, alla vita di orazione. Il Signore le prepara sempre alcuni istanti di conversazione; Egli vuole però che essa vi sia fedele e le concede di poter compensare eoi fervore la brevità di quei momenti felici. In un testo le cui parole sono tutte degne di essere meditate, san Tommaso riassume molto bene tale dottrina: Vita contemplativa, ex genere suo, maioris est meriti quam vita activa. Potest nihilominu8 uccidere ut aliquis plus mereatur aliquid exter-num agendo: pitta si propter abundantiam divini amoris, ut Eius voìuntas impleatur, propter Ipsius gloriam, interdum sustinet a dulcedine divinæ contemplationis ad tempus separati (La vita contemplativa è in sé più meritoria che la vita attiva. Può tuttavia accadere che un uomo meriti di più, facendo un atto esteriore: per esempio se per causa dell’abbondanza di amore, per compiere la volontà di Dio, per la sua gloria, si tollera qualche volta di stare privo, per qualche tempo, della dolcezza della divina contemplazione – 2a 2æ, q. 18, a. 2). Notiamo l’abbondanza di condizioni che il santo Dottore suppone, perché l’azione diventi più meritoria della contemplazione. La molla interna che spinge l’anima all’azione non è altro che la sovrabbondanza della sua carità: Propter abundantiam divini amoris; non si tratta dunque né dell’agitazione né del capriccio né del bisogno di espandersi. E difatti è un dolore per l’anima: Sustinet, per essere privata delle dolcezze della vita di orazione (Dolcezza che avendo la sua sede soprattutto nella parte superiore dell’anima, non sopprime punto le aridità, perciò: Exsuperat omnem sensum. La logica della fede pura, arida e fredda in sé, basta alla volontà per infiammare il cuore con una fiamma soprannaturale con l’aiuto della grazia. Sopra il suo letto di morte, a Moulins, santa Giovanna di Chantal, ima delle anime più provate nell’orazione, lasciava alle sue figliuole, come testamento, il principio di cui essa era vissuta per logica della fede: la maggiore felicità quaggiù è di potersi trattenere con Dio.), a dulcedine divinæ contemplationis… separati. Perciò essa sacrifica soltanto provvisoriamente: Accidere… interdum… ad tempus, e per un fine affatto soprannaturale: ut Eius voluntas impleatur, propter Ipsius gloriam, una parte del tempo riservato all’orazione. – Quanta sapienza e quanta bontà nelle vie del Signore! Che meravigliosa direzione Egli dà all’anima con la vita interiore! Conservata in mezzo all’azione e intanto generosamente offerta, questa pena profonda di dover consacrare tanto tempo alle opere di Dio e così poco al Dio delle opere, trova il suo conforto. Per lei infatti scompaiono tutti i pericoli di dissipazione, di amor proprio, di affezioni naturali; invece di nuocere alla libertà di spirito e all’attività, questa disposizione di animo dà loro un carattere più serio. Essa è la forma pratica dell’esercizio della presenza di Dio, perché l’anima trova nella GRAZIA DEL MOMENTO PRESENTE, Gesù vivo che si offre a lei, nascosto sotto il lavoro da compiere: Gesù lavora con lei e la sostiene. Quante persone sotto il peso del lavoro dovranno a questa pena salutare ben compresa, a questo desiderio sacrificato, eppure mantenuto, di avere più tempo di stare presso il santo Tabernacolo, a quelle comunioni spirituali quasi continue, dovranno, dico, la fecondità della loro azione e nel tempo stesso la sicurezza dell’anima loro e il progresso nella virtù!
5.
Eccellenza di questa unione
L’unione delle due vite, contemplativa e attiva, costituisce il vero apostolato, opera principale del Cristianesimo, come dice san Tommaso: Principalissimum officium (3a p. q. 67, a. 2 ad 1). L’apostolato suppone anime capaci di entusiasmarsi per un’idea, di consacrarsi al trionfo di un principio. Se l’effettuazione di questo ideale diventa soprannaturale per lo spirito interiore, se il nostro zelo, nel suo scopo, nel suo focolare e nei suoi mezzi, è animato dallo spirito di Gesù, noi avremo la vita in sé più perfetta, la vita per eccellenza, poiché i teologi la preferiscono anche alla semplice contemplazione: Præfertur simplici contemplationi (San Tommaso). L’apostolato dell’uomo di orazione è la parola conquistatrice, col mandato di Dio, con lo zelo delle anime, col frutto delle conversioni: Missio a Deo, zélus animarum, fructificatio auditorum (San Bonaventura). È il vapore della fede, dalle salutari esalazioni: Zélus, id est vapor fidei (Sant’Ambrogio). L’apostolato del santo è la semina del mondo. L’apostolo getta alle anime il frumento di Dio (P. Leon, passim, op. cit.). È l’amore in fiamme che divora la terra, l’incendio della Pentecoste irresistibilmente propagato attraverso i popoli: Ignem veni mittere in terram (Io sono venuto a gettare il fuoco sulla terra – S. Luc. XII, 19). – La sublimità di questo ministero consiste nel provvedere alla salute degli altri, senza pregiudizio per l’apostolo: sublimatur ad hoc ut aliis provideat. Trasmettere le verità divine alle intelligenze, non è questo un ministero degno degli Angeli? Contemplare la verità è cosa buona, ma il comunicarla agli altri è meglio ancora; riflettere la luce è qualche cosa di più che il riceverla; rischiarare è meglio che risplendere sotto il moggio. Con la contemplazione l’anima si nutre, con l’apostolato si dà: Sicut maius est illuminare quam lucere solum, ita maius est contemplata aliis tradere quam solum contemplari (S. TOHM., 2a 2æ, q. 188, a. 6). – Contemplata aliis tradere: in questo ideale di apostolato, la vita di orazione resta la sorgente: tale è il pensiero evidente di san Tommaso. Questo testo, come pure le parole dello stesso santo Dottore citate alla fine del capitolo precedente, condanna chiaramente l’americanismo i cui partigiani sognano una vita mista in cui l’azione soffocherebbe la contemplazione. Esso infatti suppone due cose: 1° che l’anima viva già abitualmente di orazione e ne viva abbastanza da dover dare soltanto il superfluo; 2° che l’azione non debba sopprimere la vita di orazione, e che, pure dandosi agli altri, l’anima debba praticare la custodia del cuore, in modo da non correre nessun serio pericolo di sottrarre l’esercizio della sua attività all’influenza di Gesù Cristo. La parola scultoria del P. Matteo Crawley, l’apostolo della Consacrazione delle famiglie al Sacro Cuore di Gesù, traduce esattamente il pensiero di san Tommaso: L’apostolo è un calice pieno fino all’orlo, della vita di Gesù Cristo e la cui sovrabbondanza si riversa sulle anime. Questa unione dell’azione, con tutto il suo dispendio di zelo, e della contemplazione, con le sue sublimi elevazioni, produsse i più grandi Santi, san Dionigi, san Martino, san Bernardo, san Domenico, san Francesco d’Assisi, san Francesco Saverio, san Filippo Neri, sant’Alfonso, tutti ardenti contemplativi e in pari tempo grandi apostoli. Vita interiore e vita attiva! Santità nelle opere! Unione potente, unione feconda! quanti prodigi di conversione voi operate! O Dio, date alla vostra Chiesa molti apostoli, ma ravvivate nel loro cuore, infiammato dal desiderio di sacrificarsi, una sete ardente della vita di orazione. Date ai vostri operai questa azione contemplativa e questa contemplazione attiva; allora l’opera vostra si compirà, i vostri operai evangelici riporteranno quelle vittorie che voi annunziaste loro prima della vostra gloriosa Ascensione.
[G. SBUTTONI: da s. PIETRO A PIO XII. Editrice A.B.E.S. Bologna, 1953)
DALL’ANNO 1000 AI GIORNI NOSTRI
CAPO VI.
DALLA RIFORMA ALLA RIVOLUZIONE (1)
PREAMBOLO
Il Seicento e il Settecento
Secolo di guerra il primo; secolo di decadenza l’altro. Grande, il Seicento nostro, cattolico, italiano, romano. Nella pietà, nella scienza, nelle arti: l’arte più ricca, più fastosa e più libera, che dà un volto magnifico alla Roma nostra trionfante — la Roma delle cupole e delle fontane, la Roma di Piazza S. Pietro — è l’arte del Seicento.
La Chiesa ha trionfato nella guerra a morte che le ha dichiarato il protestantesimo; ha salvato i paesi latini e germanici del sud: ha compensato con le conquiste missionarie l’apostasia europea — Ma il trionfo segna solo una, pausa.. L’assedio continua. Si stringe sempre più serrato contro la Chiesa e Roma, su tutti i settori. Politicamente, il Papato è sequestrato dalla vita internazionale ed è ridotto ad un monarcato italiano. Nei paesi protestanti si sviluppano i potenti movimenti intellettuali e sociali di intonazione anticattolica che si infiltrano, con la stampa e con le applicazioni settarie, anche nei paesi cattolici e segnatamente in Francia; dottrine eretiche, anticattoliche e, addirittura, anticristiane, si diffondono con il giansenismo, con la massonerìa, con l’enciclopedismo. La soppressione dei Gesuiti — richiesta dalle stesse corti cattoliche — segna nel 1773 un momento decisivo nella lotta immane. – L’offensiva anticattolica mira sopra tutto a togliere alla Chiesa i giovani e i laici — gli uomini, s’intende — lasciandole, con degnazione, il « sesso debole ». il ritornello dice che la Chiesa è morta e che le restano, a piangere, le donne anzi, le donnette, le donnicciole e… gli spiriti deboli. Gli « esprits forts » sono fuori e contro la Chiesa, gettata sempre più da parte con il tuo soprannaturale dinnanzi all’affermarsi sempre più accentuato del valore «sapremo » della ragione astratta; motivo per cui il sec XVII e detto « secolo dei lumi », onde il termine « ILLUMINISMO ». – Il vocabolo c illuminismo » manifesta l’intento generoso, ma, nel modo, ingiusto, di rischiarare le menti e tutti i settori della cultura, che si credevamo sommersi, nelle nebbie dell’ ignoranza o della superstizione indotte nel mondo dalla « fourberie monacale »: ha dunque senso polemico contro la precedente concezione ilei mondo. Il vocabolo «ideologia» manifesta invece il metodo seguito: sottoporre a contrailo critico, mediante accurata analisi scientifica delle idee, tutto il sapere, scartando ciò che non risulti razionalmente fondato: e « fondato » si giudica soltanto ciò che sia dimostrato con il metodo delle scienze naturali. – Il cànone fondamentale del movimento è la fede assoluta nella ragione umana che da sola vale a costituire la verità, a risolvere ogni problema. Da questo punto di vista, Illuminismo ha per padre Cartesio, il quale ha la fama di aver trovato per primo il filo metodico per aggirarsi nel labirinto del pensiero umano. – Le costruzioni metafisiche sono giudicate chimere da questo movimento, chiùso a ogni luce dell’al di là, scettico e irriverente, aperto solo all’idolo della scienza, nella quale la ragione aveva il sita pieno dominio.
L’Illuminismo come filosofia e religione, si scosta gravemente dalla concezione metafisica classica, che è l’unica vera metafisica, e dal Cristianesimo, che è l’unica vera religione.
« Lascienza del sec. XVII » aveva posto le sue basi con Galileo e raggiunto un alto grado di sviluppo con Keplero e Newton. La natura che durante i secoli precedentiera sempre apparsa all’uomo come un qualche cosa di misterioso e disordinato, quasi animata da forze libere e capricciose, svelava ora il segreto del suo ordine e delle sue armonie; l’uomo nel possesso della legge si sentiva dominatore e padrone di ciò die solo pochi secoli prima lo atterriva e gli si imponeva nella ignoranza e nella superstizione. E il segreto di questo rovesciamento era, fondamentalmente, l’abbandono del procedimento filosofico e l’introduzione del punto di vista meccanicistico nell’indagine scientifica. La tradizioue, la voce del passato, ogni autorità esteriore dei filosofi, dei teologi, della Rivelazione, della Chiesa, viene estromessa o, che è lo stesso, accettata se è nella misura in cui coincide con la ragióne scentifica (antistoricismo o meglio antitradizionalismo). Si svilisce lostudio della storia come inutile, anzi come insidioso veicolo di pregiudizi e di errori, proclamando l’autonomìa e la sufficienza della ragione personale. Si sogna di disincrostare l’uomo dalle perniciose superstrutture indotte dalla civiltà dei secoli passati, per ricondurlo al primitivo stato vergine selvaggio. Questo atteggiamento è gravido di rivoluzione filosofica, religiosa, politica: la Rivoluzione francese scoppiò forse contro gl’intendimenti degli illuministi, ma certo è figlia legittima dell’illuminismo.
Il Culto della Natura è un altro corollario dell’illuminismo e coincide con il culto della ragione. La natura è intesa come realtà autosufficiente, retta da leggi immutabili che lutto spiegano senza postulare l’intervento di Dio… il quale, soppressa la « metafisica », non hapiù modo di imporsi come causa prima cosmogonica e pertanto come nozione essenziale di una scienza integrale. Il meglio che l’illuminismo produsse in fatto di religione è il Deismo. Quanto alla fede cristiana e schernita come « abitudine domenicale », superstizione e l’impostura* (Reimarus). L’essere privilegialo, fra gli esseri di natura, è l’OMO. La natura stessa si prospetta (dia fine come un dintorno dell’uomo e come « tregnum hominis ». Va da se che l’illuminismo razionalistico prescinde, quando non esclude, dall’elevazione dell’uomo allo stato soprannaturale, dai contributi che la teologia rivelata reca all’antropologia e da tutti i sussidi che la rivelazione fornisce all’attività teoretica e pratica dell’uomo. In particolare esso proclama la naturale e totale bontà dell’uomo, negando il dogma del peccato originale, combattendo la coscienza del peccato e della decadenza, come il desiderio ili grazia purificante ed elevante, la Redenzione e le istituzioni liturgiche sacramentarie delle religioni positive e della Chiesa. Volendofare un bilancio dei pregie dei difetti dell’illuminismo, si può. tra i pregi, annoverare in particolare il magnifico incremento della scienza, il senso dell’universale solidarietà umana (postulato — conservato forse senza volerlo — del Cristianesimo), la reazione contro le ingiustizie sociali (relitto delle corporazioni medioevali) e lo sviluppo delle scienze economico-sociali. Ma la massa delle conquiste resta paurosamente inferiore al bilancio dei guasti, operati dall’illuminismo, i cui princìpi, profondamente anticristiani, trovarono larghissima accoglienza in Europa, e scatenarono la lotta contro la Chiesa (Giansenismo, Gallicanesimo, Enciclopedismo, massoneria ecc.), spronarono il vasto movimento di riforme sociali, determinando infine la Rivoluzione Francese. L’illuminismo era alieno dalle violenze, ma la storia, da esso istruita, gli scappò di mano. Il romanticismo, la restaurazione, le guerre mondiali, l’irrazionalismo contemporaneo non valsero a debellarlo; tanto è vero che costituisce tuttora per tanta parte l’impianto della società occidentale. Lo stesso Marxismo sovietico non è una reazione all’illuminismo, pur lottando contro questa società; che anzi dell’illuminismo è una forma, invero assai scadente.
D. Da che cosa sono contrassegnati i due secoli che vanno dalla Riforma tridentina alla Rivoluzione francese?
— Sono contrassegnati da una scissione che si va operando lentamente ma fatalmente tra la Chiesa e lo Stato e dal trionfo di dottrine filosofiche, che non impugnano soltanto questa o quella verità, ma la sostanza stessa del Cristianesimo, anzi l’intero edificio religioso.
D. Quali sono i principali errori teologici e filosofici di questo periodo?
— Il Giansenismo, il Gallicanesimo, l’Enciclopedismo, la Massoneria
1 – IL GIANSENISMO
D. Che cos’è il Giansenismo?
— È l’eresia di Cornelio Giansenio, il quale, partendo dalle posizioni di Baio, secondo cui il peccato originale avrebbe corrotta radicalmente ed intrinsecamente la natura umana, con il pretesto di seguire le orme di S. Agostino, afferma che Adamo, e con lui ogni uomo, con il peccato originale ha perduta la libertà, quindi l’uomo per ogni atto buono ha bisogno della grazia efficace che determini intrinsecamente la volontà. Questa determinazione però non toglierebbe la libertà. Il duplice amore di Baio qui diventa duplice dilettazionevittrice, l’una terrena che scaturisce dalla natura umana corrotta, e quindi determinante al peccato, l’altra celeste, che scaturisce dalla grazia efficace e quindi determinante al bene e alla vita eterna. L’una e l’altra rendono l’uomo non padrone dei propri atti meritori.
D. Che segue da questo errore base del Giansenio?
— Ne segue che l’uomo è schiavo della dilettazione terrestre o della celeste e perciò viene capovolta tutta l’economia cristiana della redenzione.
D. In che modo è capovolta tutta l’economia cristiana della redenzione?
— In quanto, secondo Giansenio, nello stato attuale, non c’è altra grazia che la efficace, alla quale l’uomo non può resistere, e questa Dio la dà non a tutti, ma solo a chi vuole, a coloro che predestina al paradiso, mentre tutti gli altri sarebbero predestinati all’inferno.
D. Che nasce da simile dottrina?
— Nasce un tetro pessimismo ed un asfittico rigorismo, che invano si cerca di mitigare con una sentimentale rassegnazione. Questo atteggiamento sentimentale ha favorito l’influsso esercitato da Giansenio sul pensiero, sull’arte e sulla vita del sec. XVIIe XVIII specialmente oltr’Alpe.
D. Giunse il Giansenismo in Italia?
— Sì. benché assai attenuato; quasi come reazione al lassismo morale, ed incontrò il favore in qualche ecclesiastico di tendenza rigoristica, come il domenicano Concina. il card. Enrico Noris, il vescovo di Pistoia Scipione Ricci.
D. Quale fu il maggior focolaio di Giansenismo ?
— Il convento femminile di Port-Royal, presso Parigi.
D. Oltre la lotta dei Papi, che cosa si oppose al Giansenismo?
— Da devozione al S. Cuore di Gesù, dopo le celebri apparizioni del Redentore a s. Margherita Alacoque (1673), si contrappone alla glaciale spiritualità giansenistica.
2 – IL GALLICANESIMO
D. Che cos’è il Gallicanesimo?
— È il movimento d’indipendenza dal potere spirituale del Papa che nella chiesa di Francia si delineò con la Prammatica Sanzione di Bourges (1438), fiori con la Dichiarazione sotto il regno di Luigi XIV e si spense con il Concilio Vaticano.
D. A chi cosa mirava la Prammatica Sanzione !
— Nella mente di Carlo VII re di Francia (1 luglio 1438) mirava a regolare le relazioni fra lo Stato e la Chiesa. Vi si affermava la superiorità dei Concili ecumenici sul Papa, venivano aboliti il diritto di appello alla s. Sede, i giudizi ecclesiastici fuori del regno, e si ristabilivano le nomine alle maggiori cariche ecclesiastiche per mezzo del suffragio del clero e del popolo. La Prammatica Sanzione fu abolita da Luigi XI nel 1461.
D. Dove si erano già palesati indizi di spirito gallicano?
— Nella polemica tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII, ma fondamentalmente il Gallicanesimo trae origine dalla nota « teoria conciliare », sostenuta durante lo Scisma d’Occidente (tanto favorito dai Cardinali francesi) e sancita nel Concilio di Costanza, secondo la quale il Concilio Ecumenico sarebbe superiore al Papa.
D. Chi diede occasione alla controversia gallicana?
— Fu Luigi XIV, il quale, non solo estese ad alcuni territori, da lui conquistati, la «regalia temporale» (cioè il diritto concesso dai Papi ai re di Francia di amministrare i beni ecclesiastici delle sedi vacanti, con relativo godimento dei frutti, ma si arrogò altresì il diritto alla « regalia spirituale », già condannata da Papi e Concili.
D. Alla ferma opposizione del Papa che cosa contrappose!
— La cosiddetta « DICHIARAZIONE DEL CLERO GALLICANO », compilata purtroppo dal famoso oratore Bossuet, vescovo di Meaux, votata nell’assemblea del clero francese del 1682.
D. Come si può riassumere ?
— In queste quattro proposizioni:
1) S. Pietro e i successori non ricevettero da Gesù Cristo alcun potere sui re; i re nelle cose temporali sono indipendenti anche dal Papa, perciò la Chiesa non può possedere nulla senza il consenso del re.
2) 1 Concili ecumenici sono superiori al Papa.
3) L’autorità del Papa è limitata dalle leggi della Chiesa Universale, e in Francia anche dalle abitudini e istituzioni della chiesa gallicana.
4) Le definizioni del Papa, anche in materia di Fede, sono intangibili soltanto quando sia sopravvenuto il consenso della Chiesa Universale.
D. Che avvenne di queste proposizioni?
— Furono-condannate da Innocenzo XI e, in seguito, ritirate dallo stesso Luigi XIV (1693),
D. Resistette ancora il gallicanesimo?
— Nel ‘700 sì, ma nell’800, con il Concilio Vaticano del 1870, è completamente vinto.
D. Lo spirito gallicano si manifestò anche fuori della Francia?
— Sì, in Germania con il FEBRONlANESIMO (sistema di Febronio), che lascia al Papa il solo Primato d’onore, subordina il Papa al Concilio ecumenico e appoggia l’autonomia delle chiese nazionali, riconoscendo vasti poteri agli Stati in materia ecclesiastica. – Fu condannato da Clemente XIII (1764).
I ) . Dove pure si manifestò !
— In Austria con il GIUSEPPIN1SMO, cioè con l’intromissione di Giuseppe II, inteso a sottrarre i vescovi all’influenza della s. Sede, per assoggettarli allo Stato: pretese persino di dettare leggi di culto, per cui fu detto «imperatore sagrestano».
3 – L’ENCICLOPEDISMO
P. Che cos’è l’Enciclopedismo!
— È il movimento promosso da una schiera di filosofi miscredenti, quali Diderot, D’Alembert, Voltaire, Holbach, Rousseau, che tanto contribuì a distruggere la fede in Dio e nella spiritualità dell’anima e i principi fondamentali della morale cristiana.
D. Quale fu lo spirito informatore dell’opera degli Enciclopedisti’!
— Fu un razionalismo illuministico e un naturalismo volto ad abbattere la cosiddetta superstizione (cioè religione positiva e rivelata! e a criticare le vecchie istituzioni politiche.
D. Chi preparò il terreno agli Enciclopedisti?
— Le nuove dottrine filosofiche esaltanti la ragione come fonte « unica » della conoscenza e la natura come « principio universale » delle cose, in sostituzione del Dio trascendentale della teologia cattolica.
D. Chi sono i principali maestri delle nuove dottrine filosofiche ?
— CARTESIO in Francia è il padre dell’idealismo (— spiegazione della realtà nell’idea), perfezionato in Germania da KANT;
— SOCINO in Italia, per scalzare dalle fondamenta l’antica fede, fa rivivere tutti gli errori di Ario, Pelagio, Nestorio e Calvino:
— CHERBUBY in Inghilterra fa un passo più avanti e con il Deismo viene a escludere tutte le dottrine rivelate che non hanno originenella natura e prepara il naturalismo di ANDERSON, il quale negandoanche l’esistenza di Dio, veniva a distruggere tutta la religione.
— A ciò s’aggiunse il materialismo (= spiegazione della realtà nella materia) che insegna che la materia esiste da tutta l’eternità e perciò è Dio. (Panteismo gnostico).
D. Chi tra gli enciclopedisti fece più scuola?
— VOLTAIRE, che adoperò tutto il suo ingegno a demolire, con il sarcasmo, il Cristianesimo;
— e ROUSSEAU, di Ginevra, il quale, per la ricostruzione della società, pone tre cose:
1) la bontà « originaria » dell’uomo,
2) l’uguaglianza degli uomini,
3) la sovranità del popolo, al quale viene attribuito il diritto perpetuo alla rivolta.
D . Che produssero questi principi?
— Scatenarono l’odio feroce delle masse contro l’ordine religioso e sociale, contro Dio e i monarchi, contro le persone e gl’istituti preesistenti.
D. Che nacque da quest’odio?
— Quel periodo di travaglio sociale, di guerre, di rivoluzioni, di cui sentiamo tutt’ora le tragiche conseguenze, e che cesserà soltanto quando la società avrà ritrovato il punto fermo e sicuro della concordia, della giustizia, della carità, della libertà ben intesa, del mutuo rispetto, conforme agl’insegnamenti della dottrina di Cristo.
Preminenza, riguardo a Dio, della vita interiore sulla vita attiva.
In Dio vi è la vita, ogni vita; Egli è la stessa vita. Ora l’Essere Infinito non manifesta questa vita nel modo più intenso nelle sue opere esteriori, come per esempio nella creazione, ma in quelle che la teologia chiama operazioni ad intra, in quell’attività ineffabile il cui termine è la generazione eterna del Figlio e la continua processione dello Spirito Santo: qui vi è per eccellenza la sua opera essenziale ed eterna. – Consideriamo la vita mortale di Gesù Cristo, esecuzione perfetta del disegno divino: trent’anni di raccoglimento e di solitudine, poi quaranta giorni di ritiro e di penitenza preludono alla sua breve carriera evangelica; e quante volte ancora noi lo vediamo, nelle sue corse apostoliche, ritirarsi sulla montagna o nel deserto per pregare: Secedebat in desertum et orabat(Si ritirava nel deserto e pregava – S. Luc. V, 16), oppure passare la notte nell’orazione: Pernoctans in oratione Dei(Si ritirò sulla montagna per pregare e passò tutta la notte in orazione di Dio – S. Luc. VI, 12). Cosa più significante ancora, Marta desidera che il Signore, condannando il preteso ozio di sua sorella, proclami la superiorità della vita attiva; ma la risposta di Gesù: Maria optimam partem elegit(Maria ha scelto la parte migliore – S. Luc. X, 42), consacra la preminenza della vita interiore. Che cosa ne dobbiamo conchiudere, se non il proposito ben fermo di farci sentire la preponderanza della vita di orazione sulla vita attiva? – Dopo il Maestro, gli Apostoli, fedeli al suo esempio, si riserveranno dapprima l’ufficio della preghiera e poi, per darsi al ministero della parola, lasceranno ai diaconi le occupazioni più esteriori: Nos vero orationi et ministerio verbi instantes erimus (E noi ci dedicheremo interamente alla preghiera e al ministero della parola – Atti VI, 4). – I Pontefici alla loro volta, i santi Dottori, i Teologi affermano che la vita interiore è in sé superiore alla vita attiva. Pochi anni fa, una donna di gran fede, di virtù e di carattere, Superiora generale di una delle più importanti Congregazioni insegnanti dell’Aveyron, fu invitata dai suoi superiori ecclesiastici a favorire la secolarizzazione delle sue religiose. Bisognava sacrificare le opere alla vita religiosa, oppure abbandonare quelle per conservare questa? Perplessa, non sapendo come conoscere la volontà di Dio, parte segretamente per Roma, ottiene un’udienza da Leone XIII, gli espone i suoi dubbi e l’insistenza che le viene fatta a favore delle opere. L’augusto vegliardo, raccoltosi per qualche momento, le dà questa risposta categorica: «Prima di tutto il resto, prima di tutte le opere, conservate la vita religiosa a quelle tra le vostre figliuole che posseggono davvero lo spirito della loro vocazione e l’amore della vita di orazione. Se non potete conservare insieme con questo anche le opere, Dio saprà suscitare in Francia altre operaie, se occorre. In quanto a voi, con la vostra vita interiore, soprattutto con le vostre preghiere e con i vostri sacrifizi, sarete più utili alla Francia restando davvero religiose, anche lontane da lei, che non rimanendo in patria prive dei tesori della vostra consacrazione a Dio». – In una lettera indirizzata a un Istituto esclusivamente insegnante, Pio X espresse chiaramente il suo pensiero con queste parole: Sappiamo che va diffondendosi un’opinione secondo la quale voi dovreste dare il primo posto all’educazione dei fanciulli e il secondo posto soltanto, alla professione religiosa: così vorrebbero lo spirito e i bisogni del tempo. Noi NON VOGLIAMO ASSOLUTAMENTE che tale opinione abbia il più piccolo valore per voi e per gli altri Istituti religiosi che, come il vostro, hanno per scopo la rieducazione. Resti dunque stabilito per quanto vi riguarda, che la vita religiosa importa assai più che la vita ordinaria, e che se avete gravi obblighi verso il prossimo per il dovere di i/nse* gnare, ben più gravi sono gli obblighi che vi legano a Dio (Il lasciare l’abito religioso per continuare un’istituzione, non è cosa biasimata da Pio X, purché si mantengano 1 mezzi per conservare in tutto lo spirito religioso). – La ragione di essere della vita religiosa, il suo scopo principale, non è forse l’acquisto della vita interiore?
Vita contemplativa – dice san Tommaso – simpliciter melior est… et potior quam activa(La vita contemplativa è migliore della vita attiva e le è preferibile.). – San Bonaventura accumula i comparativi per mostrare l’eccellenza della vita interiore: Vita sublimior, securior, opulentior, suavior, stabilior (Vita più sublime, più ricca, più sicura, più soave e più stabile.).
Vita sublimior.
La vita attiva si occupa degli uomini, la vita contemplativa invece ci fa entrare nel dominio delle più sublimi verità, senza distogliere i suoi sguardi dallo stesso principio di ogni vita: Principium quod Deus est quæritur. Essendo più sublime, essa ha un orizzonte e un campo di azione assai più esteso: Martha in uno loco torpore laborabat circa aliqua, Maria in multis locis caritate circa multa. In Dei enim contemplatione et amore videi omnia; dilatatur ad omnia, eomprehendit et complec-titur omnia, ita ut eius comparatone Martha sollicita dici possit circa panca (Marta in un solo luogo si dedicava corporalmente a poche cose. Maria con la carità lavorava in più luoghi e in diverse occupazioni. Contemplando e amando Dio, essa vede tutto, si estende a tutto, comprende e abbraccia tutto. Si può dunque dire che, in confronto di Maria, Marta si turba per poche cose – RICCARDO DA S. VITTORE, in Cant., 8).
Vita securior.
In essa vi sono meno pericoli. Nella vita quasi esclusivamente attiva, l’anima si agita, diventa febbricitante, disperde le sue energie e con ciò s’indebolisce. Vi è un triplice difetto: Sollicita es(Marta, Marta, tu ti affanni e t’inquieti per molte cose; eppure una sola è necessaria – S. Luc. X, 41, 42).): sono le sollecitudini del pensiero, sollicitudinis in cogitata; Turbaris: ecco i turbamenti che nascono dalle affezioni, turbationis in affectu; finalmente Erga plurima: moltiplicazione di occupazioni, e perciò divisione nello sforzo e nelle azioni, divisionis in actu. — Una sola cosa invece s’impone per formare la vita interiore, cioè l’unione con Dio: Porro unum, est necessatium. Il resto è e non può essere che secondario e si fa soltanto in virtù di questa untone e per rafforzarla di più.
Vita opulentior.
Con la contemplazione si trovano tutti i beni. Venerunt mini omnia bona pariter eum illa (Con essa mi sono venuti tutti i beni – Sap. VII, 11).). Essa è la parte più eccellente di tutte: Optimam partem elegit(Essa ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta – S. Luc. X, 42). 2). In essa si fanno più meriti, perché essa aumenta nello stesso tempo lo slancio della volontà e il grado dì grazia santificante, e fa agire l’anima per un principio di carità.
Vita suavior.
L’anima che vive davvero di vita interiore, si abbandona al beneplacito di Dio, accetta con lo stesso cuore paziente tanto le cose piacevoli quanto le penose e arriverà fino al punto di mostrarsi lieta nelle afflizioni, fortunata di portare la sua croce.
Vita stabilior.
La vita attiva, per quanto sia intensa, termina quaggiù; predicazioni, scuole, lavori di ogni sorta, tutto finisce alle porte dell’eternità. La vita interiore invece non ha tramonto: Quæ non auferetur ab ea. Per lei la dimora su questa terra non è altro che una continua ascesa verso la luce, ascesa che la morte rende immensamente più radiosa e più rapida. – Per riassumere tutte le eccellenze della vita interiore, possiamo applicarle queste parole di san Bernardo: « In essa l’uomo vive più puro, cade più di rado, si rialza più prontamente, cammina più sicuro, riceve più grazie, riposa più tranquillo, muore più fiducioso, è purificato più presto e riceve una ricompensa più grande» (S. BERNARDO, Hom. Simile est.. De bono relig.).
2.
L’azione dev’essere soltanto l’effusione della vita interiore
Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste (S. Matt. V, 48). Fatte le debite proporzioni, il modo di agire di Dio dev’essere il criterio e la regola della nostra vita esteriore e interiore. Ora sappiamo che è proprio della natura di Dio il dare, ed è un fatto constatato, che Egli sparge a profusione i suoi benefici su tutti gli esseri e più particolarmente sulla creatura umana. Così da migliaia, se non da milioni di secoli, tutto l’universo è oggetto di quella inesauribile prodigalità che si espande continuamente in benefizi. Dio intanto non s’impoverisce mai, e la sua inesauribile munificenza non può per nulla diminuire le sue infinite ricchezze. – Ma all’uomo, Dio non si accontenta di concedere beni esteriori, gli manda il suo Verbo. E anche qui, in questo atto di somma generosità che è il dono di se stesso, Dio non abbandona nè può abbandonare nulla dell’integrità della sua natura. Dandoci suo Figlio, Egli lo conserva sempre in se stesso: Sume exemplum de summo omnium Parente Verbum suum emittente et retinente (Prendete esempio dal Creatore di tutte le cose, il quale manda il suo Verbo e nel tempo stesso lo tiene con sé – S. BERNARDO, lib. II de Consid,, e. III). Per mezzo dei Sacramenti, e specialmente per mezzo dell’Eucaristia, Gesù Cristo viene ad arricchirci delle sue grazie; Egli le versa su noi senza misura, perché è un oceano sconfinato che ribocca su noi, senza mai esaurirsi: De plenitudine eius nos omnes accepimus (Noi tutti abbiamo ricevuto dalla sua pienezza – Giov. I, 16). Cosi, in un certo modo, dobbiamo essere noi, uomini apostolici, che abbiamo il nobile compito di santificare gli altri: Verbum tuum considerano tua, quæ si proceda, non recedat(Il vostro Verbo è la vostra considerazione; essa si allontani da voi senza uscirne – S. BERNARDO, Hb. II de Consid., c. III).; il nostro verbo è lo spirito interiore che la grazia ha formato nelle nostre anime. Questo spirito dunque dia vita a tutte le manifestazioni del nostro zelo, ma come continuamente viene speso a vantaggio del prossimo, così viene continuamente rinnovato con i mezzi che Gesù ci offre: la nostra vita interiore sia il tronco pieno di buon succo, e le nostre opere ne siano la fioritura. Un’anima di apostolo dev’essere essa per la prima inondata di luce e infiammata di amore, affinché riflettendo questa luce e questo calore, possa illuminare e riscaldare gli altri. Quello che essi videro, che contemplarono con i loro occhi, quello che quasi toccarono con mano, lo insegneranno agli uomini (I S. Giov. I, 1). La loro bocca verserà nei cuori l’abbondanza delle dolcezze celesti, dice san Gregorio. Possiamo intanto stabilire questo principio: LA VITA ATTIVA DEVE PROCEDERE DALLA VITA CONTEMPLATIVA, TRADURLA E CONTINUARLA DI FUORI E DISTACCARSENE IL MENO POSSIBILE. – I Padri e i Dottori proclamano tale dottrina. Priusquam exserat proferenlem linguam, dice sant’Agostino, ad Deum levet animam sitientem ut eructet quod biberit, vel quod impleverit fundat(Prima di permettere alla sua lingua di parlare, l’apostolo deve innalzare a Dio la sua anima assetata, per poter poi esalare ciò che ha bevuto e diffondere quello di cui si sarà riempito – S. AGOSTINO, Doct. Christ. I, IV). – Prima di comunicare, dice lo Pseudo-Dionigi (PSEUDO-DION., Cæl. hier,, c. III), bisogna ricevere, e gli Angeli superiori trasmettono agli inferiori soltanto quei lumi di cui ricevettero la pienezza. Il Creatore ha stabilito quest’ordine universale riguardo le cose divine: colui che ha la missione di distribuirle, vi deve partecipare per il primo e riempirsi prima abbondantemente delle grazie che Dio vuol dare alle anime per mezzo suo; allora, e soltanto allora, a lui sarà permesso di farne parte agli altri. Tutti conoscono quell’avviso che san Bernardo dà all’uomo apostolico: [Se sei saggio, sii un serbatoio e non un canale: Si sapis, concham te exhibebis, non canaìem (S. BERNARDO, Serm. 1 8 in Cant.). Il canale lascia scorrere l’acqua che riceve, senza serbarne una goccia; il serbatoio invece si riempie, poi senza vuotarsi versa il di più che sempre si rinnova, nei campi che rende fertili. Quanti sì dedicano all’azione e non sono mai altro che canali! e mentre si sforzano di fecondare i cuori, essi restano all’asciutto! Canales multos hodie habemus in Ecclesia, conchas vero perpaucas (Vi sono oggi nella Chiesa molti canali, ma pochissimi serbatoi (S. BERNARDO, ibid.), soggiungeva con amarezza il santo Abate di Chiaravalle. – Ogni causa è superiore al suo effetto, perciò si richiede maggior perfezione per poter perfezionare gli altri, che non per poter semplicemente perfezionare se stesso (S. TOMM., Opusc. de perf, vit. Spirt.). Come la madre non può allattare il bambino se non nella misura in cui alimenta se stessa, cosi i confessori, i direttori spirituali, i predicatori, i catechisti, i professori, devono prima assimilare la sostanza con cui nutriranno poi i figli della Chiesa (Oportet quod prædicator sit imbutus et dulcoratus in se, et post aliis proponat – S. BONAVENTURA, Illus. EccL, Serm. 17). La verità e l’amore divino sono elementi di questa sostanza, e soltanto la vita interiore può fare della verità e della carità divina un nutrimento capace di dare la vita.
3.
La base, il fine e i mezzi di un’istituzione devono essere penetrati dalla vita interiore
Dobbiamo dire un’Istituzione degna di questo nome, perché certune ai nostri giorni non meritano tale titolo: sono opere organizzate con un’apparenza di pietà, ma con lo scopo reale di procurare ai loro fondatori, con gli applausi del pubblico, una fama di capacità non comune, e per la cui riuscita sarebbero adoperati, all’occorrenza, tutti i mezzi, anche quelli meno giustificabili. Altre opere meritano certamente maggiore stima; esse vogliono il bene; il loro fine e i loro mezzi sono irreprensibili. Eppure, perché i loro organizzatori avevano poca fede nella potenza di azione della vita soprannaturale sulle anime, nonostante mille sforzi, i loro risultati furono nulli o quasi. Per precisare quella che dev’essere un’istituzione, sarà meglio lasciare la parola ad un uomo il quale con il suo apostolato illustrò un’intera regione, e ricordare la lezione che ricevetti da lui negli inizi del mio ministero sacerdotale. Volevo fondare un patronato per i giovani e, dopo di aver visitato i Circoli cattolici di Parigi e di alcune altre città della Francia, le Opere cattoliche di Val-des-Bois ecc., andai a Marsiglia per studiare le istituzioni per la gioventù del santo sacerdote Allemand e del venerando canonico Timon-David. Mi piace ricordare con quale commozione il mio cuore di sacerdote novello accolse le parole di quest’ultimo. – « Banda, teatro, proiezioni, cinematografo ecc., io non biasimo nulla di tutto questo. Da principio anch’io avevo creduto tali cose indispensabili: ma sono soltanto stampelle che si adoperano in mancanza di meglio; più vado avanti, e più diventano soprannaturali il mio fine e i miei mezzi, perché vedo sempre più chiaramente che qualunque istituzione costruita su ciò che è umano, è destinata a morire, e soltanto l’istituzione che mira ad avvicinare gli uomini a Dio mediante la vita interiore, è benedetta dalla Provvidenza. « Gli strumenti musicali da molto tempo sono sul solaio, il teatro mi è diventato inutile, eppure l’istituzione è più prospera che mai. Perché? Perché i miei sacerdoti e lo vediamo, grazie a Dio, molto meglio che da principio, e la nostra fede nell’azione di Gesù e della grazia è centuplicata. – «Credetemi, non esitate a mirare in alto più che sia possibile, e sarete meravigliato dei risultati. Mi spiego: Non abbiate soltanto come ideale l’offrire ai giovani un certo numero di distrazioni oneste che distolgono dai piaceri illeciti e dalle relazioni pericolose, e neppure il verniciarli semplicemente di Cristianesimo col farli assistere macchinalmente alla Messa e con far loro ricevere qualche volta, e in modo appena passabile, i Sacramenti. « Duc in altum(Avanzate in alto mare – Luc. V, 4). Abbiate prima di tutto la nobile ambizione di ottenere, a qualunque costo, che un certo numero di giovani prendano la risoluzione energica di vivere da Cristiani ferventi, cioè con la pratica della meditazione del mattino, con l’abitudine della Messa quotidiana se è possibile, con una breve lettura spirituale e, naturalmente, con frequenti e fruttuose Comunioni. Mettete tutte le vostre cure per infondere in questo gregge scelto un grande amore di Gesù Cristo, lo spirito di preghiera, di sacrificio, di vigilanza sopra se stessi, insomma, di sode virtù. Sviluppate con la stessa cura nelle loro anime la fame dell’Eucaristia; poi eccitate questi giovani all’azione sui loro compagni. Formatene degli apostoli franchi, generosi, ardenti, buoni, seri, senza devozione gretta, pieni di tatto e che non cadano mai, col pretesto di zelo, nel brutto sbaglio di spiare i compagni. Prima di due anni voi mi direte se vi è ancora bisogno della banda e del teatro per ottenere una messe copiosa ». – « Comprendo, — risposi io; — questa minoranza dev’essere il fermento; ma che cosa si dovrà fare per gli altri che non si possono portare a questo livello? per la maggioranza, per quei giovani di ogni età e anche per gli uomini ammogliati che apparterranno al circolo progettato, che cosa si dovrà fare? ». – « Dare loro una fede salda con corsi di conferenze preparate seriamente, le quali occuperanno parecchie delle loro serate invernali. I vostri Cristiani ne usciranno abbastanza armati non solo per rispondere vittoriosamente ai loro compagni di lavoro, ma anche per resistere all’azione più perfida del giornale o del libro. Il far nascere nei giovani convinzioni incrollabili che essi all’occorrenza sapranno affermare senza rispetto umano, sarà già un risultato molto apprezzabile: però bisognerà condurli più lontano, fino alla pietà, a una pietà vera, fervorosa, convinta e illuminata ». – « E dovrò fin da principio aprire la porta a chiunque si presenti?». – « Il numero è da desiderarsi soltanto se gli elementi raccolti sono bene scelti. L’aumento del vostro circolo deve risultare soprattutto dall’influenza di quel nucleo di apostoli dei quali Gesù, Maria e voi, come loro strumento, sarete il centro ». – « Il locale sarà modesto; dovrò dunque aspettare che i nostri mezzi ci permettano di fare di più?». – « Da principio le sale spaziose e comode possono, come un tamburo, attirare l’attenzione sulla nascente istituzione; ma vi ripeto, se sapete mettere, come base della vostra società, la vita cristiana ardente, integrale, apostolica, il locale strettamente necessario basterà sempre per dare posto anche a tutti gli accessori voluti dal funzionamento di un Circolo. Oh! come potrete allora constatare che il rumore fa poco bene e che il bene fa poco rumore! come vedrete allora che il Vangelo ben compreso fa diminuire la lista delle spese senza pregiudicare i risultati, anzi! Ma prima di tutto, dovrete pagare di vostra persona, ma non tanto per preparare faticosamente recite per il teatro o accademie ginnastiche, quanto piuttosto per accumulare in voi la vita di orazione; poiché dovete persuadervi bene, che la misura con cui voi per il primo vivrete di amore di Gesù Cristo, è la stessa misura con cui potrete accenderlo negli altri ». – «Insomma, voi basate tutto sulla vita interiore!» – « Sì, mille volte sì; perché così invece di lega si ottiene oro fino. Del resto credete alla mia esperienza: a ogni istituzione, parrocchia, seminario, catechismo, scuola, circolo militare ecc., si può applicare ciò che dico per le istituzioni giovanili. Quanto bene produce in una grande città un’associazione cristiana la quale viva davvero nel soprannaturale! Essa agisce come un lievito potente, e soltanto gli Angeli possono dire quanto essa sia feconda di frutti di salute! – «Ah! se tutti i sacerdoti, i religiosi e anche le persone di azione conoscessero la potenza della leva che tengono nelle loro mani, e prendessero come punto di appoggio il Cuore di Gesù e la vita di unione con questo divin Cuore, solleverebbero la nostra patria: sì, la solleverebbero nonostante gli sforzi di Satana e dei suoi satelliti» (Lo zelante canonico che così mi parlava e della cui conversazione ho voluto conservare un esatto ricordo, sviluppò il suo pensiero in alcuni dei suoi bellissimi libri: Méthode de direction (les ceuvres de jeunesse, 2 voll.; Traité de la confession des enfants et des jeunes gens, 3 voll.; Souvenirs de l’oeuvre ou vie et mori de quelques Congréganistes, in vendita presso l’Oeuvre de la jeunesse, Timon-David, 30, e du Canuta, Marsiglia; oppure presso i Fratelli Mignar, rue Saint-Sulpice, Parigi.).