UN’ENCICLICA al giorno toglie il MODERNISTA-APOSTATA di torno: “ UBI ARCANO DEI CONSILIO”

– UBI ARCANO DEI CONSILIO – 

DEL SOMMO PONTEFICE PIO XI

  “Pax Christi in regno Christi: è questo il sottotitolo vero di questa prima enciclica del Santo Padre Ambrogio Achille Ratti, S. S. Pio XI, appena insediatosi nella Sede Apostolica. Dopo una lucida analisi dei mali della società dell’epoca, in primis la lotta di classe, il nazionalismo esasperato, l’allontanamento da Dio, la famiglia e la scuola senza Dio, mali che coinvolgono stati, famiglie, e singoli, compresi i chierici in piena crisi morale e spirituale deputati alla guida dei fedeli, dà opportune indicazioni sul modo di restaurare la pace, la cui prima cura è la pacificazione degli animi, premessa indispensabile che può condurre agli effetti morali e materiali della vera pace. Il Pontefice indica, come già i suoi predecessori, il “Regno di Cristo”, ordinato secondo i principi evangelici e le direttive magisteriali della Chiesa Cattolica, come unica vera e duratura soluzione delle crisi evidenti in ogni ambito. L’invito è ancor più valido oggi, tempi in cui il marcio è arrivato a livello del naso, e non si intravedono soluzioni dopo averne tentate diverse, politiche, economiche, sociali in modo inconcludente, anzi con una caduta a capofitto nell’inferno materiale di cui già tutti sperimentiamo le conseguenze. Non ci illudiamo, non esistono altre soluzioni, e chi le dovesse proporre, sotto ogni bandiera e a qualsiasi titolo, è semplicemente un falso ingannatore. La pace, di cui tanto si parla al punto da giustificare assurde guerre per “imporre” una pace ingiusta, umiliante ed unilaterale utile a tenere buoni gli oppressi incatenati ai piedi degli oppressori, si può avere solo “restaurando tutto in Cristo”, secondo le parole di S. Pio X, ed “instaurando la pace di Cristo nel Regno di Cristo”, secondo il pensiero analogo di Pio XI. La lettera è impegnativa nella lettura, ma letta con attenzione e meditata, offre svariati punti di riflessione nei quali ritrovare l’anima cattolica, ormai oscurata dall’indifferentismo e dall’ecumenismo satanico-massonico, imposto da “quelli che odiano Dio e tutti gli uomini” che, dopo aver eclissato la Chiesa di Cristo ed averla sostituita con la brutta copia finanche della “sinagoga di satana”, per mezzo di burattini decrepiti, logori, demenziali e facilmente smascherabili da chi possiede ancora qualche bastoncello nella retina, o qualche neurone vitale nella corteccia cerebrale. Ma bando alle considerazioni e godiamoci finalmente uno scritto cattolico di un Santo Padre “vero”, liberamente operante … almeno negli scritti.

AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI ED AGLI ALTRI ORDINARI AVENTI PACE E COMUNIONE CON LA SEDE APOSTOLICA: SULLA QUESTIONE ROMANA

Ubi arcano Dei consilio ac nutu Nos, qui nullia sane meritis commendaremur, ad … ”

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Fin dal primo momento in cui, per gli imperscrutabili disegni di Dio, Ci vedemmo elevati, sebbene indegni, a questa cattedra di verità e di carità, abbiamo vivamente desiderato di rivolgere la parola del cuore a voi tutti, Venerabili Fratelli, e a tutti i diletti vostri figli dei quali voi avete il governo e la cura immediata. A questo desiderio si ispirava la solenne benedizione che, urbi et orbi, dall’alto della Basilica Vaticana, appena eletti, impartimmo ad un’immensa moltitudine di popolo: benedizione che voi tutti, da tutte le parti del mondo, unendovi al Sacro Collegio Cardinalizio, accoglieste con manifestazione di grata letizia: il che fu per Noi, nell’accingerci ad assumere d’improvviso il gravissimo officio, il più soave conforto dopo quello che Ci proveniva dalla fiducia nell’aiuto divino. Ora « la Nostra parola viene a voi » nell’imminenza del giorno natalizio di Nostro Signor Gesù Cristo ed all’inizio del nuovo anno, e viene come strenna festiva ed augurale, che il Padre manda a tutti i suoi figli. – Di più presto soddisfare il Nostro desiderio Ci impedirono finora molteplici ragioni. Fu dapprima la gara di filiale pietà, con la quale da tutte le parti del mondo, in lettere senza numero, Ci giungeva il saluto dei fratelli e dei figli, che davano il benvenuto e presentavano i loro primi devoti ossequi al novello Successore di S. Pietro. Si aggiungeva poi subito la prima personale esperienza di quella che S. Paolo chiamava « il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese ». E con le cure ordinarie vennero pure le straordinarie: quelle dei gravissimi negozi, che trovammo già avviati e che dovemmo proseguire, riguardanti i Luoghi Santi e le condizioni di cristianità e chiese fra le più cospicue dell’orbe cattolico; convegni e trattative che toccavano le sorti di popoli e nazioni, dove, fedeli al ministero di conciliazione e di pace da Dio affidatoci, cercammo di far risonare la parola della carità insieme con quella della giustizia, e di procurare la dovuta considerazione a quei valori e a quegli interessi, che, per essere spirituali, non sono i meno grandi né i meno importanti, anzi lo sono più e sopra tutti gli altri; le sofferenze inenarrabili di popoli lontani, falciati dalla fame e da ogni genere di calamità, per i quali, mentre Ci affrettavamo a inviare il maggior aiuto a Noi possibile nelle Nostre presenti angustie, invocavamo insieme l’aiuto del mondo intero: e infine le competizioni e le violenze scoppiate in seno allo stesso popolo diletto, dal quale avemmo i natali ed in mezzo al quale la mano di Dio collocò la Cattedra di Pietro: competizioni e violenze che parvero mettere in forse le stesse sorti del Nostro paese e che Noi non tralasciammo con ogni mezzo di sedare. – Non mancarono tuttavia straordinari avvenimenti che Ci portarono nell’animo la nota più lieta: il XXVI Congresso Eucaristico internazionale e le solennità trecentenarie della Sacra Congregazione di Propaganda. Furono quelle inesprimibili consolazioni e gioie spirituali, che mai avremmo immaginato potessero in tanta copia riversarsi sui primi inizi del Nostro Pontificato. Vedemmo allora quasi tutti i Porporati del Sacro Collegio e potemmo anche intrattenerci a privati colloqui con centinaia di Vescovi accorsi da tutte le parti della terra, quanti, nelle condizioni ordinarie, appena avremmo veduto in parecchi anni; a migliaia e migliaia vedemmo pure e paternamente benedicemmo larghe ed insigni rappresentanze dell’immensa famiglia che Iddio Ci ha affidata, proprio come dice la sacra pagina apocalittica, « di ogni tribù, lingua, popolo e nazione ». E con loro assistemmo a spettacoli veramente divini: vedemmo il divin Redentore sotto i veli eucaristici, quasi a riprendere il suo posto di Re degli uomini, delle città e dei popoli, venir portato in grandioso e veramente regale trionfo di fede, di adorazione e di amore, nel centro di questa Nostra Roma, in un immenso corteo, nel quale popoli e nazioni di tutte le parti del mondo erano rappresentati. Vedemmo lo Spirito di Dio ridiscendere nelle anime dei sacerdoti e dei fedeli e riaccendere in esse lo spirito di preghiera e di apostolato, come nella prima Pentecoste; e la fede vivace dei Romani di nuovo annunciarsi nell’universo mondo, con magnifica glorificazione di Dio ed edificazione delle anime. Ed intanto la Vergine santa, Madre di Dio e Madre nostra benignissima, Maria, Ella che già amorevolmente Ci aveva sorriso dai santuari di Częstochowa e di Ostrabrama, dalla taumaturgica grotta di Lourdes e dall’aerea cuspide della Nostra Milano, nonché dal piissimo santuario di Rho, degnavasi anche gradire l’omaggio del Nostro amore e della Nostra devozione, allorquando, riparati i gravissimi danni dell’incendio, restituivamo al venerabile santuario di Loreto la devota effige già prima presso di Noi preparata, da Noi benedetta ed incoronata. Fu quello uno splendidissimo trionfo di Maria, cui parteciparono in nobile gara, da Roma a Loreto, dovunque passò la sacra icona, le fedeli popolazioni, accorrendo da tutte le vicinanze, con una spontanea e luminosa affermazione di profonda religiosità, nella quale rifulsero il tenero affetto alla Santissima Vergine e il devoto attaccamento al Vicario di Gesù Cristo. – Per l’eloquenza di svariati avvenimenti, che Noi tramandiamo alla edificazione dei posteri, veniva sempre più chiarendosi alla Nostra mente quello che sembra rivendicare a sé le prime e più sollecite cure del Nostro apostolico ministero, e, per ciò stesso, quello che dovessimo dire con la prima solenne parola a voi rivolta.

Gli uomini, le classi sociali, i popoli, non hanno ancora ritrovato la vera pace dopo la tremenda guerra, e perciò ancora non godono di quell’operosa e feconda tranquillità nell’ordine che è il sospiro ed il bisogno di tutti: ecco la triste verità che da tutte le parti si presenta. Riconoscere la realtà e la gravità di tanto male ed indagarne le cause è la prima cosa e più necessaria a farsi da chi, come Noi, voglia con frutto studiare ed applicare i mezzi per combattere il male stesso efficacemente. È questo l’obbligo che la coscienza dell’apostolico officio Ci fa sentire imperioso e che Ci proponiamo di adempiere, sia ora con questa prima lettera enciclica, sia in appresso con tutta la sollecitudine del pontificale ministero. Purtroppo continuano nel mondo le stesse tristissime condizioni che formarono la costante ed angosciosa cura di tutto il pontificato del venerato Nostro antecessore Benedetto XV; e perciò Noi, come è naturale, facciamo Nostri gli stessi pensieri e propositi suoi a questo riguardo. Così possano essi divenire i pensieri ed i propositi di tutti, sì che, con l’aiuto di Dio e con la generosa cooperazione di tutti i buoni, se ne veggano presto copiosi i frutti nella riconciliazione degli animi. – Sembrano scritte per i nostri giorni le ispirate parole dei grandi Profeti: « Aspettammo la pace, ma non c’è alcun bene; il tempo della salvezza, ed ecco il terrore, l’ora del rimedio, ed ecco il timore. Aspettammo la luce, ed ecco le tenebre;  … aspettammo la giustizia, e non c’è; la salvezza, ma essa è ancora lontana da noi ». Si sono infatti deposte le armi fra i belligeranti di ieri, ma ecco nuovi orrori e nuovi timori di guerre nel vicino oriente: condizioni terribilmente aggravate in una grandissima parte di quelle sterminate regioni, dalla fame, dalle epidemie, dalle devastazioni che mietono innumerevoli vittime, massime fra i vecchi, le donne ed i bambini innocenti. Su tutto quanto, si può ben dire, l’immenso teatro della guerra mondiale le vecchie rivalità continuano, dissimulate nei maneggi della politica, palliate nella fluttuazione della finanza, ostentate nella stampa, in giornali e periodici di ogni fatta, penetrando ben anche nelle regioni, naturalmente serene e pacifiche, degli studi, delle scienze e dell’arte. – Quindi la vita pubblica ancora avvolta in una fosca nebbia di odî e di mutue offese, che non dà respiro ai popoli. Che se più gravemente soffrono le nazioni vinte, non mancano guai gravissimi alle vincitrici; le minori si dolgono di essere sopraffatte o sfruttate dalle maggiori; le maggiori si adontano e si lagnano di trovarsi malviste o insidiate dalle minori: tutte risentono i tristi effetti della passata guerra. Né quelle stesse nazioni che andarono esenti dall’immane flagello ne scansarono i mali, né ancora vanno libere dal risentirne gli effetti, come e più li risentono le antiche belligeranti. I danni del passato, tuttora persistenti, vanno sempre più aggravandosi per l’impossibilità di pronti rimedi, dopo che i ripetuti tentativi di statisti e politici, per curare i mali della società, a nulla hanno approdato, se pure non li hanno coi loro medesimi fallimenti aggravati. Tanto più perciò si rincrudisce l’angoscia delle genti per la minaccia sempre più forte di nuove guerre le quali non potrebbero essere che più spaventose e desolatrici delle passate; donde il vivere in una perpetua condizione di pace armata, che è quasi un assetto di guerra, il quale dissangua le finanze dei popoli, ne sciupa il fiore della gioventù e ne avvelena e intorbida le migliori fonti di vita fisica, intellettuale, religiosa e morale. – Altro, anche più deplorevole male, si aggiunge alle inimicizie esterne dei popoli per le discordie interne, che minacciano la compagine degli Stati e della stessa civile società. Primeggia la lotta di classe divenuta ormai il morbo più inveterato e mortale della società, quasi verme roditore, che ne insidia tutte le forze vitali: lavoro, industria, arte, commercio, agricoltura, tutto ciò insomma che conferisce al benessere e alla prosperità pubblica e privata. E la lotta appare sempre più irreconciliabile, mentre si combatte tra gli uni insaziabilmente avidi di beni materiali, e gli altri degli stessi beni egoisticamente tenaci: nonché fra i soggetti e le classi dirigenti, per la comune brama di godere e di comandare. Quindi le frequenti sospensioni del lavoro da una parte e dall’altra provocate; le rivoluzioni e sommosse, le reazioni e repressioni; il malcontento di tutti e il danno comune. – Si aggiungano le lotte dei partiti, non sempre ingaggiate per una serena divergenza di opinioni circa il pubblico bene e per la sincera e disinteressata ricerca di esso, ma per bramosia di prevalere ed in servigio di particolari interessi a danno degli altri. Onde il trascendere sovente alla congiura, all’insidia, alle depredazioni contro i cittadini e contro la stessa autorità e i suoi ministri; eccedere con minacce di pubblici moti o anche con aperte sommosse ed altri disordini, tanto più deplorabili e dannosi per un popolo chiamato a partecipare, in qualche maggior grado, alla vita pubblica ed al governo, come avviene nei moderni ordini rappresentativi, i quali, pur non essendo per sé in opposizione alla dottrina cattolica, sempre conciliabile con ogni forma ragionevole e giusta di regime, sono tuttavia i più esposti al sovvertimento delle fazioni. – Ed è ancor più doloroso notare come ormai il sovvertimento sia penetrato anche nel mite e pacifico santuario della famiglia, che forma il primo nucleo della società, dove i mali germi della disgregazione, già da tempo sparsi, sono stati più che mai fomentati nel tempo della guerra dall’allontanamento dei padri e dei figli dal tetto familiare e dalla tanto aumentata licenza di costumi. Così vedonsi bene spesso i figli alienarsi dal padre, i fratelli inimicarsi coi fratelli, i padroni coi servi e i servi coi padroni: troppo spesso dimenticata la stessa santità del vincolo coniugale e dimenticati i doveri che esso impone davanti a Dio e davanti alla società. – E come del malessere generale di un organismo, o di una sua notevole parte, si risentono anche le parti minime, così anche agli individui si propagano i mali che affliggono la società e la famiglia. Lamentiamo infatti il diffondersi di un’irrequietezza morbosa in ogni età e condizione; il disprezzo dell’ubbidienza e l’intolleranza della fatica passare in costume; il pudore delle donne e delle fanciulle conculcato nella licenza del vestire, del conversare, delle danze invereconde, con l’insulto aperto all’altrui miseria, reso più provocante dall’ostentazione del lusso. Di qui l’aumentarsi del numero degli spostati, che finiscono quasi sempre con ingrossare le file dei sovvertitori dei pubblici e privati ordinamenti. – Quindi non più fiduciosa sicurezza, ma trepida incertezza e sempre nuovi timori; non operosa laboriosità, ma indolenza e disoccupazione; non più la serena tranquillità dell’ordine, nel che consiste la pace, ma dappertutto un irrequieto spirito di rivolta. Ond’è che, illanguidite le industrie, diminuiti e ritardati i commerci, reso sempre più difficile il culto delle scienze, delle lettere e delle arti, e, ciò ch’è molto più grave, danneggiata la stessa civiltà cristiana, per inevitabile conseguenza, invece del tanto vantato progresso, si aggrava sempre più un regresso doloroso verso l’imbarbarimento della società. – A tutti i mali ricordati voglionsi aggiungere e porre in cima quelli che sfuggono all’osservatore superficiale, all’uomo del senso, il quale, come dice l’Apostolo, non comprende « le cose dello spirito di Dio », ma che pur costituiscono quanto hanno di più grave e profondo le odierne piaghe sociali. Vogliamo dire quei mali che trascendono la materia e la natura, toccando l’ordine più propriamente spirituale e religioso, cioè la vita soprannaturale della anime; e sono mali tanto più deplorabili quanto più lo spirito sovrasta alla materia. Infatti, oltre il rilassamento troppo diffuso dei cristiani doveri, che abbiamo accennato, Noi lamentiamo con voi, Venerabili Fratelli, che non siano tuttora restituite alla preghiera ed al culto non poche delle moltissime chiese cui la guerra volse ad usi profani; che restino ancora chiusi molti seminari, dove unicamente alla vita religiosa dei popoli si preparano e formano idonei duci e maestri; decimate quasi in tutti i paesi le file del clero, parte del quale o cadde vittima della guerra nell’esercizio del sacro ministero, o n’ebbe più o meno turbata la disciplina e lo spirito per le troppo violente e contrastanti condizioni di vita; ridotta in troppi luoghi al silenzio la predicazione della divina parola coi suoi necessari ed inestimabili benefici « per l’edificazione del corpo mistico di Cristo ». – I danni spirituali della terribile guerra si fecero sentire fino agli estremi confini del mondo e fin nelle più interne ed appartate regioni dei lontani continenti, perché anche i missionari dovettero abbandonare i campi delle loro apostoliche fatiche e purtroppo molti non poterono più tornarvi, interrompendo ed abbandonando magnifiche conquiste di elevazione morale e materiale, di religione e di civiltà. Vero è che queste grandi iatture spirituali non furono senza qualche prezioso compenso, mentre più chiaramente apparve, smentendo viete calunnie, quanto alta e pura e generosa ardesse nei cuori consacrati a Dio la fiamma della carità di patria e la coscienza di tutti i doveri; mentre più larghi si profusero i supremi benefìci del sacro ministero sui campi cruenti dove la morte mieteva a migliaia le vittime; mentre moltissime anime, deposti, in presenza di mirabili esempi d’abnegazione, gli antichi pregiudizi, si riaccostarono al sacerdozio ed alla Chiesa. Ma di questo andiamo unicamente debitori all’infinita bontà e sapienza di Dio, che anche dal male sa trarre il bene. – Fin qui abbiamo esposto i mali che affliggono la società ai nostri giorni; è tempo ormai di ricercarne le cause con tutto lo studio che Ci sarà possibile, pure avendone già toccate alcune.

E fin dall’inizio, Venerabili Fratelli, Ci sembra di udire il divino consolatore e medico delle umane infermità ripetere le grandi parole: «Tutti questi mali provengono dall’intimo ». Fu bensì firmata la pace fra i belligeranti con tutte le esteriori solennità; ma questa restò scritta nei pubblici istrumenti, non fu già accolta nei cuori, che ancora nutrono il desiderio della lotta e minacciano sempre più gravemente la tranquillità del civile consorzio. Troppo a lungo il diritto della violenza ebbe fra gli uomini l’impero, attutendo e quasi annientando i sensi naturali della misericordia e della compassione, che la legge della carità cristiana aveva sublimati; né  la pace fittizia, fissata sulla carta, ha risvegliato ancora tali nobili sentimenti. Di qui l’abito della violenza e dell’odio troppo lungamente intrattenuto e fattosi quasi natura in molti, anzi in troppi; di qui il facile sopravvento dei ciechi elementi inferiori, di quella legge delle membra, « repugnante alla legge dello spirito », che faceva gemere l’apostolo Paolo. – Gli uomini non più fratelli agli uomini, come detta la legge cristiana, ma quasi stranieri e nemici; smarrito il senso della dignità personale e del valore della stessa umana persona nel brutale prevalere della forza e del numero; gli uni intesi a sfruttare gli altri per questo sol fine di meglio e più largamente godere dei beni di questa vita; tutti erranti, perché rivolti unicamente ai beni materiali e temporali, e dimentichi dei beni spirituali ed eterni al cui acquisto Gesù Redentore, mediante il perenne magistero della Chiesa, ci invita. Ora, è nella natura stessa dei beni materiali che la loro disordinata ricerca diventi radice di ogni male e segnatamente di abbassamento morale e di discordie. Infatti da una parte non possono quei beni, in se stessi vili e finiti, appagare le nobili aspirazioni del cuore umano, che, creato da Dio per Iddio, è necessariamente inquieto, finché in Dio non riposi. Dall’altra parte (al contrario dei beni dello spirito, che quanto più si comunicano tanto più arricchiscono senza mai diminuire) i beni materiali quanto più si spartiscono fra molti, più scemano nei singoli, dovendosi di necessità sottrarre agli uni quello che agli altri è dato; onde non possono mai né contentare tutti egualmente, né appagare alcuno interamente, e con ciò diventano fonte di divisione ed insieme afflizione di spirito, come li sperimentò il sapiente Salomone: « vanità delle vanità … e un inseguire il vento ». E ciò avviene nella società non meno che negli individui. «Donde mai le guerre e le contese tra voi ? — domanda l’apostolo San Giacomo — Non forse dalle vostre concupiscenze? ». – Così la cupidigia del godere, la « concupiscenza della carne », si fa incentivo, il più esiziale, di scissioni non solo nelle famiglie, ma anche nelle città; la cupidigia dell’avere, la « concupiscenza degli occhi », diviene lotta di classe ed egoismo sociale; la cupidigia del comandare e del sovrastare, la « superbia della vita » si converte in concorrenze, in competizioni di partiti, in perpetua gara di ambizioni, fino all’aperta ribellione all’autorità, al delitto di lesa maestà, al parricidio stesso della patria. – Ed è questa esorbitanza di desideri, questa cupidigia di beni materiali, che diviene pure fonte di lotte e di rivalità internazionali, quando si presenta palliata e quasi giustificata da più alte ragioni di Stato o di pubblico bene, dall’amore cioè di patria e di nazione. Poiché anche questo amore, che è per sé incitamento di molte virtù ed anche di mirabili eroismi, quando sia regolato dalla legge cristiana, diviene occasione ed incentivo di gravi ingiustizie, quando, da giusto amor di patria, diventa immoderato nazionalismo; quando dimentica che tutti i popoli sono fratelli nella grande famiglia dell’umanità, che anche le altre nazioni hanno diritto a vivere e prosperare, che non è mai né lecito né savio disgiungere l’utile dall’onesto, e che infine, « la giustizia è quella che solleva le nazione, laddove il peccato fa miseri i popoli ». Onde il vantaggio ottenuto in questo modo alla propria famiglia, città o nazione, può ben sembrare (il pensiero è di Sant’Agostino) lieto e splendido successo, ma è fragile cosa e tale da ispirare i più paurosi timori di repentina rovina: « gioia cristallina, splendida, ma fragile, sulla quale sovrasta ancora più terribile il timore che improvvisamente si spezzi ». – Senonché della mancata pace e dei mali che conseguono dall’accennata mancanza, vi è una causa più alta insieme e più profonda; una causa che già prima della grande guerra era venuta largamente preparandosi; una causa alla quale l’immane calamità avrebbe dovuto essere rimedio, se tutti avessero capito l’alto linguaggio dei grandi avvenimenti. Sta scritto nel libro di Dio: « quelli che abbandonarono il Signore andranno consunti »; e non meno noto è ciò che Gesù Redentore, Maestro degli uomini, ha detto: « senza di me nulla potete fare »; ed ancora: « chi non raccoglie meco, disperde ». – Queste divine parole si sono avverate, ed ancora oggi vanno avverandosi sotto i nostri occhi. Gli uomini si sono allontanati da Dio e da Gesù Cristo e per questo sono caduti al fondo di tanti mali; per questo stesso si logorano e si consumano in vani e sterili tentativi di porvi rimedio, senza neppure riuscire a raccogliere gli avanzi di tante rovine. Si è voluto che fossero senza Dio e senza Gesù Cristo le leggi e i governi, derivando ogni autorità non da Dio, ma dagli uomini; e con ciò stesso venivano meno alle leggi, non soltanto le sole vere ed inevitabili sanzioni, ma anche gli stessi supremi criteri del giusto, che anche il filosofo pagano Cicerone intuirà potersi derivare soltanto dalla legge divina. E veniva pure meno all’autorità ogni solida base, ogni vera ed indiscutibile ragione di supremazia e di comando da una parte, di soggezione e di ubbidienza dall’altra; e così la stessa compagine sociale, per logica necessità, doveva andarne scossa e compromessa, non rimanendole ormai alcun sicuro fulcro, ma tutto riducendosi a contrasti ed a prevalenze di numero e di interessi particolari. – Si volle che non più Dio, non più Gesù Cristo presiedesse al primo formarsi della famiglia, riducendo a mero contratto civile il matrimonio, del quale Gesù Cristo ha fatto un « Sacramento grande », con erigerlo a santo e santificante simbolo dell’indissolubile vincolo che a Lui stesso lega la sua Chiesa. Ne rimase abbassata, oscurata e confusa nei popoli tutta quella elevatezza e santità di idee e di sentimenti, di cui la Chiesa aveva circondato fin dal suo primo formarsi questo germe della società civile, che è la famiglia: la gerarchia domestica, e con essa la domestica pace, andò sovvertita; sempre più minacciata e scossa la stabilità ed unità della famiglia; il santuario domestico sempre più frequentemente profanato da basse passioni e da micidiali egoismi, che tendono ad avvelenare ed inaridire le sorgenti stesse della vita, non soltanto della famiglia, ma anche dei popoli. – Non si volle più Dio, né Gesù Cristo, né la dottrina sua nella scuola, e la scuola, per triste ma ineluttabile necessità, divenne non soltanto laica e areligiosa, ma anche apertamente atea e antireligiosa, dovendo l’ignaro fanciullo presto persuadersi che nessuna importanza hanno per la vita Dio e la Religione, di cui mai sente parlare, se non forse con parole di vilipendio. Così, ed anche solo per questo, la scuola cessava di guidare al bene, ossia di educare, privata di Dio e della sua legge, e della stessa possibilità di formare le coscienze e le volontà alla fuga dal male, alla pratica del bene. Così veniva pur meno ogni possibilità di preparare alla famiglia ed alla società elementi di ordine, di pace e di prosperità. – Spente così od oscurate le luci dello spiritualismo cristiano, l’invadente materialismo non fece che preparare il terreno alla vasta propaganda di anarchia e di odio sociale degli ultimi tempi: donde, infine sfrenata, la guerra mondiale gettava nazioni e popoli gli uni contro gli altri, a sfogo di discordie e di odi lungamente covati, abituando gli uomini alla violenza ed al sangue, e col sangue suggellando gli odi e le discordie di prima. – La constatazione però di tanti e si gravi mali non deve toglierci, Venerabili Fratelli, la speranza e la cura di trovarne i rimedi, tanto più che i mali stessi già ne danno qualche indicazione e suggerimento. – Prima di ogni altra cosa, infatti, occorre ed urge pacificare gli animi. Una pace occorre, che non sia soltanto nell’esteriorità di cortesie reciproche, ma scenda nei cuori, ed i cuori riavvicini, rassereni e riapra a mutuo affetto di fraterna benevolenza. – Ma tale non è se non la pace di Cristo; « e la pace di Cristo regni nei vostri cuori », né altra potrebbe essere la pace sua che Egli dà, mentre Dio, com’Egli è, intuisce i cuori, e nei cuori ha il suo regno. D’altra parte Gesù Cristo ha ben diritto di chiamare sua questa vera pace dei cuori, Egli che per primo disse agli uomini « voi siete tutti fratelli » e loro promulgava, suggellandola nel suo sangue, la legge di universale mutua dilezione e tolleranza: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate a vicenda come io vi ho amati »; « Sopportate gli uni i pesi degli altri, e così adempirete alla legge di Cristo ». – Ne consegue immediatamente che la pace di Cristo dovrà bensì essere una pace giusta (come il suo profeta l’annuncia: « la pace, opera di giustizia »), essendo Egli quel Dio che giudica la giustizia stessa; non potrà però constare soltanto di dura ed inflessibile giustizia, ma dovrà essere fatta dolce e soave da una almeno uguale misura di carità con effetto di sincera riconciliazione. Tale è la pace che Gesù Cristo conquistava a noi ed al mondo intero e che l’Apostolo, con tanto energica espressione, in Gesù Cristo stesso impersona, dicendo: « Egli è la nostra pace »; perché, soddisfacendo alla divina giustizia, col supplizio della crocifissa carne sua, in se stesso uccideva ogni inimicizia, facendo la pace e riconciliando tutti e tutto in se stesso. Così è che nell’opera redentrice di Cristo, che pure è opera di divina giustizia, l’Apostolo stesso non vede che una divina opera di riconciliazione e di carità: « Dio riconciliava a sé il mondo in Cristo »; « a tal segno Iddio ha amato il modo, che ha dato il suo Figliuolo unigenito ». Il Dottore Angelico ha trovato la formula ed il conio per l’oro di questa dottrina, dicendo che la pace, la vera pace, è cosa piuttosto di carità che di giustizia; perché alla giustizia spetta solo rimuovere gli impedimenti della pace: l’offesa e il danno; ma la pace stessa è atto proprio e specifico di carità. – Della pace di Cristo, cosa del cuore e tutta di carità, si può e si deve ripetere quello che l’Apostolo dice del regno di Dio, che appunto per la carità signoreggia nei cuori: « Il regno di Dio non è questione di cibo e di bevanda », cioè la pace di Cristo « non si pasce di beni materiali e terreni », ma di spirituali e celesti. Né potrebbe essere altrimenti, dato che proprio Gesù ha rivelato al mondo i valori spirituali e rivendicato loro il dovuto apprezzamento. Egli ha detto: « Che cosa giova all’uomo guadagnare tutto il mondo, se poi danneggia l’anima sua? O che cosa darà l’uomo in cambio dell’anima sua? ». Egli è colui che diede quella divina lezione di carattere: «Non temete coloro che uccidono il corpo, e non possono uccidere l’anima, ma piuttosto temete colui che può mandare in perdizione e l’anima e il corpo »!. – Non che la pace di Cristo, la pace vera, debba rinunciare ai beni materiali e terreni: al contrario, tutti le sono da Cristo stesso formalmente promessi: « Cercate prima il regno di Dio, … e tutto ciò vi sarà dato in più ». Ma essa sovrasta al senso e lo domina: « La pace di Dio sorpassa ogni intelligenza », ed appunto  per questo domina le cieche cupidigie ed evita le divisioni, le lotte e le discordie alle quali l’ingordigia dei beni materiali necessariamente dà origine. – Infrenata la cupidigia dei beni materiali, rimessi nell’onore che loro compete i valori dello spirito, alla pace di Cristo, per naturale felicissimo accordo, si accompagna, con la illibatezza e dignità della vita, l’elevazione dell’umana persona, nobilitata nel Sangue di Cristo, nella figliuolanza divina, nella santità e nel vincolo fraterno che ci unisce allo stesso Cristo, nella preghiera e nei Sacramenti, mezzi infallibilmente efficaci di elevazione e partecipazione divina, nell’aspirazione all’eterno possesso della gloria e beatitudine di Dio stesso, a tutti proposto come meta e premio. – Abbiamo visto e considerato che precipua causa dello scompiglio, delle inquietudini e dei pericoli che accompagnano la falsa pace è l’essere venuto meno l’impero della legge, il rispetto dell’autorità, dopo che era venuta meno all’una ed all’altra la stessa ragion d’essere, una volta negata la loro origine da Dio, creatore e ordinatore universale. Orbene, il rimedio è nella pace di Cristo, giacché pace di Cristo è pace di Dio, né questa può essere senza il rispetto dell’ordine, della legge e dell’autorità. Nel Libro di Dio infatti sta Scritto: « Conservate la Pace nell’ordine »; «Gran pace avrà chi amerà la tua legge, o Signore »; « Chi osserva il precetto si troverà in pace ». E Gesù stesso più espressamente insegna: « Rendete a Cesare quel ch’è di Cesare », e perfino in Pilato Egli riconosce l’autorità sociale che viene dall’alto, come aveva riconosciuto l’autorità addirittura nei degeneri successori di Mosè, e riconosciuto in Maria e Giuseppe l’autorità domestica, loro assoggettandosi per tanta parte della sua vita. E dagli Apostoli suoi faceva proclamare quella solenne dottrina che, come insegna « doversi da tutti riverenza ed ossequio ad ogni potestà legittima », così proclama pure « potestà legittima non esservi se non da Dio ». – Se si riflette che i pensieri e gli insegnamenti di Gesù Cristo, sui valori interni spirituali, sulla dignità e santità della vita, sul dovere dell’ubbidienza, sull’ordinamento divino della società, sulla santità sacramentale del matrimonio e la conseguente santità vera e propria della famiglia; se si riflette, diciamo, che questi pensieri ed insegnamenti di Cristo (insieme con tutto quel tesoro di verità da lui recato all’umanità), furono da Lui stesso unicamente affidati alla sua Chiesa, con solenne promessa di indefettibile assistenza, affinché in tutti i secoli ed in tutte le genti ne fosse la maestra infallibile, non si può non vedere quale e quanta parte può e deve avere la Chiesa Cattolica nel portare rimedio ai mali del mondo e nel condurre alla sincera pacificazione. – Appunto perché per divina istituzione è l’unica depositaria ed interprete di quei pensieri e insegnamenti, la Chiesa sola possiede, vera ed inesauribile, la capacità di efficacemente combattere quel materialismo, che tante ruine ha già accumulate e tante altre ne minaccia alla società domestica e civile, e di introdurvi e mantenervi il vero e sano spiritualismo, lo spiritualismo cristiano, che di tanto supera in verità e praticità quello puramente filosofico, di quanto la rivelazione divina sovrasta alla pura ragione: la capacità ancora di farsi maestra e conciliatrice di sincera benevolenza, insegnando ed infondendo alle collettività ed alle moltitudini lo spirito di vera fraternità, e nobilitando il valore e la dignità individuale con l’elevarla fino a Dio; la capacità, infine, di correggere veramente ed efficacemente tutta la vita privata e pubblica, tutto e tutti assoggettando a Dio, che vede i cuori, alle sue ordinazioni, alle sue leggi, alle sue sanzioni; penetrando così nel santuario delle coscienze, tanto dei cittadini quanto di coloro che comandano, e formandole a tutti i doveri ed a tutte le responsabilità, anche nei pubblici ordinamenti della società civile, perché « sia tutto e in tutti Cristo ». – Per questo, per essere cioè la Chiesa, ed essa sola, formatrice sicura e perfetta di coscienze, mercé gli insegnamenti e gli aiuti a lei sola da Gesù Cristo affidati, non soltanto essa può conferire nel presente alla pace tutto ciò che le manca per essere la vera pace di Cristo, ma può ancora, più di ogni altro fattore, contribuire ad assicurare questa pace anche per l’avvenire, allontanando il pericolo di nuove guerre. Insegna infatti la Chiesa (ed essa sola ha da Dio il mandato, e col mandato il diritto di autorevolmente insegnarlo) che non soltanto gli atti umani privati e personali, ma anche i pubblici e collettivi devono conformarsi alla legge eterna di Dio; anzi assai più dei primi i secondi, come quelli sui quali incombono le responsabilità più gravi e terribili. – Quando dunque governi e popoli seguiranno negli atti loro collettivi, sia all’interno sia nei rapporti internazionali, quei dettami di coscienza che gli insegnamenti, i precetti, gli esempi di Gesù Cristo propongono ed impongono ad ogni uomo; allora soltanto potranno fidarsi gli uni degli altri, ed aver anche fede nella pacifica risoluzione delle difficoltà e controversie che, per differenza di vedute e opposizione d’interessi, possono insorgere. – Qualche tentativo si è fatto e si fa in questo senso, ma con ben esigui risultati, massime nelle questioni più importanti, che più dividono ed accendono i popoli. E non vi è istituto umano che possa dare alle nazioni un codice internazionale, rispondente alle condizioni moderne, quale ebbe, nell’età di mezzo, quella vera società di nazioni che fu la cristianità; codice troppo spesso violato in pratica, ma che pur rimaneva come un richiamo e come una norma, secondo la quale giudicare gli atti delle nazioni. – Ma v’è un istituto divino atto a custodire la santità del diritto delle genti; un istituto che appartiene a tutte le nazioni, che a tutte è superiore, e di più dotato di massima autorità, e venerando per pienezza di magistero, la Chiesa di Cristo: la quale sola appare adatta a tanto ufficio, sia per mandato divino, sia per la sua medesima natura e costituzione, per le tradizioni sue e per il prestigio, che dalla stessa guerra mondiale usciva, non soltanto non diminuito, ma piuttosto di molto aumentato. – Appare, da quanto siamo venuti considerando, che la vera pace, la pace di Cristo, non può esistere se non sono ammessi i princìpi, osservate le leggi, ubbiditi i precetti di Cristo nella vita pubblica e nella privata; sicché, bene ordinata la società umana, vi possa la Chiesa esercitare il suo magistero, al quale appunto fu affidato l’insegnamento di quei princìpi, di quelle leggi, di quei precetti. – Ora tutto questo si esprime con una sola parola: « il regno di Cristo ». Poiché regna Gesù Cristo nella mente degli « individui » con la sua dottrina, nel cuore con la sua carità, nella vita di ciascuno con l’osservanza della sua legge e l’imitazione dei suoi esempi. Regna Gesù Cristo « nella famiglia » quando, formatasi nella santità del vero e proprio Sacramento del matrimonio da Gesù Cristo istituito, conserva inviolato il carattere di santuario, dove l’autorità dei parenti si modella sulla paternità divina, dalla quale discende e si denomina; l’ubbidienza dei figli su quella del fanciullo Gesù in Nazareth; la vita tutta quanta s’ispira alla santità della Sacra Famiglia. Regna infine Gesù Cristo « nella società civile » quando vi è riconosciuta e riverita la suprema ed universale sovranità di Dio, con la divina origine ed ordinazione dei poteri sociali, donde in alto la norma del comandare, in basso il dovere e la nobiltà dell’ubbidire. Regna quando è riconosciuto alla Chiesa di Gesù Cristo il posto che Egli stesso le assegnava nella società umana, dandole forma e costituzione di società, e, in ragione del suo fine, perfetta, suprema nell’ordine suo; costituendola depositaria ed interprete del suo pensiero divino, e perciò stesso maestra e guida delle altre società tutte quante: non per menomare l’autorità loro, nel proprio ordine competente, ma per perfezionarle, come la grazia perfeziona la natura, e per farne valido aiuto agli uomini nel conseguimento del fine ultimo, ossia della eterna felicità, e con ciò renderle anche più benemerite e più sicure promotrici della stessa prosperità temporale. – È dunque evidente che la vera pace di Cristo non può essere che nel regno di Cristo: « La pace di Cristo nel regno di Cristo »; ed è del pari evidente che, procurando la restaurazione del regno di Cristo, faremo il lavoro più necessario insieme e più efficace per una stabile pacificazione. – Così Pio X, proponendosi di « restaurare tutto in Cristo », quasi per un divino istinto preparava la prima e più necessaria base a quella « opera di pacificazione », che doveva essere il programma e l’occupazione di Benedetto XV. E questi due programmi dei Nostri Antecessori Noi congiungiamo in uno solo: la restaurazione del regno di Cristo per la pacificazione in Cristo: « La pace di Cristo nel regno di Cristo »; e con ogni sforzo Ci studieremo di attuarlo, unicamente confidando in quel Dio, che nell’affidarCi questo sommo potere, Ci prometteva la sua indefettibile assistenza. – Per quest’opera a tutti Noi chiediamo aiuto e cooperazione, ma la chiediamo e l’aspettiamo innanzi tutto da voi, Venerabili Fratelli, cui il nostro duce e capo Gesù Cristo, che affidava a Noi la cura e responsabilità di pascere tutto l’ovile, chiamava a parte della Nostra universale sollecitudine; voi che « lo Spirito Santo ha posto a reggere la Chiesa », voi che fra i primi, insigniti del « ministero della riconciliazione, fate le veci di ambasciatori per Cristo », partecipi del suo magistero divino, « dispensatori dei misteri di Dio » e perciò chiamati « sale della terra e luce del mondo », maestri e padri dei popoli cristiani, « fatti sinceramente esemplari del gregge » per essere poi chiamati « grandi nel regno dei cieli », voi — diciamo — che siete come gli anelli d’oro per i quali « compaginato e connesso » tutto il corpo di Cristo, che è la Chiesa, sulla solidità della pietra sorge e si regge. – E dell’esimia operosità vostra Noi avemmo nuovo e recente argomento quando, per l’occasione già ricordata del Congresso Eucaristico internazionale di Roma e per le solennità centenarie della Congregazione di Propaganda, parecchie centinaia di Vescovi da tutte le parti del mondo si trovarono intorno a Noi riuniti sulla tomba dei Santi Apostoli. – E quell’incontro fraterno fra tanti pastori Ci fece pensare alla possibilità di un convegno almeno virtualmente generale dell’episcopato cattolico in questo centro della cattolica unità, per il vantaggio che potrebbe provenirne opportunamente al riassetto sociale, dopo così profondo scompiglio. La vicinanza dell’Anno Santo Ci infonde una dolce speranza di vedere effettuato il Nostro pensiero. – Che, se non osiamo espressamente includere nel Nostro programma la ripresa e la continuazione del Concilio Ecumenico che Pio IX, il Pontefice della Nostra giovinezza, poté bensì largamente preparare, ma di cui poté attuare solo una parte sebbene importante, è pur vero che anche Noi, come il pio condottiero del popolo eletto, attendiamo, pregando che il Signore, buono e misericordioso, voglia darCi qualche più chiaro segno del suo volere. Intanto, benché consapevoli che al vostro zelo non dobbiamo aggiungere stimoli, ma piuttosto tributare ben meritati encomî, tuttavia la coscienza dell’apostolico ufficio e dell’universale paternità Ci impone di chiedervi sempre più tenere e sollecite cure verso quelle parti della grande famiglia delle quali a ciascuno di voi è affidata l’immediata provvidenza. – Per le informazioni da voi dateCi e per la stessa pubblica fama, confermata anche dalla stampa e da altre prove, Noi sappiamo quanto dobbiamo con voi ringraziare il buon Dio per il gran bene che, secondo l’opportunità dei tempi, con l’opera vostra e dei vostri antecessori, si è venuto, in mezzo al clero e a tutto il vostro popolo fedele, saggiamente maturando e poi, giusta le circostanze, lodevolmente effettuando e moltiplicando largamente. – Intendiamo dire le svariate iniziative per la sempre più accurata cultura religiosa e santificazione degli ecclesiastici e dei laici; le unioni del clero e del laicato in aiuto delle missioni cattoliche nella loro molteplice attività di redenzione fisica e morale, naturale e soprannaturale, mercé la dilatazione del regno di Cristo; le opere giovanili con quella loro così ardente e salda pietà eucaristica e con la tenera devozione alla Beata Vergine, garanzia sicura di fede, di purezza, di unione; le solenni celebrazioni eucaristiche, che al divino Principe della pace procurano trionfali cortei veramente regali, ed intorno all’Ostia di pace e d’amore raccolgono le moltitudini dei diversi luoghi e le rappresentanze di tutte le genti e nazioni del mondo, mirabilmente unite in una stessa fede, adorazione, preghiera e fruizione dei beni celesti. – Intendiamo dire — frutto di questa pietà — il sempre più diffuso ed operoso spirito di apostolato che, con la preghiera, con la parola, con la buona stampa, con l’esempio di tutta la vita, con tutte le industrie della carità, cerca con ogni via di condurre anime al Cuore divino e di ridare al Cuore stesso di Cristo Re il trono e lo scettro nella famiglia e nella società; la « santa battaglia » su tanti fronti ingaggiata, per rivendicare alla famiglia ed alla Chiesa i diritti che da natura e da Dio loro competono nell’insegnamento e nella scuola; infine quel complesso di iniziative, di istituzioni e di opere presentate sotto il nome di «Azione Cattolica », a Noi tanto cara, e a cui abbiamo già rivolto sollecite cure. – Tutte queste forme ed opere di bene devono non solamente mantenersi, ma anche rafforzarsi e svilupparsi sempre più, secondo la condizione delle persone e delle cose. Senza dubbio esse sono ardue e vogliono da tutti, pastori e fedeli, sempre nuove prestazioni di opera ed abnegazione; ma, siccome certamente necessarie, esse appartengono ormai innegabilmente all’ufficio pastorale ed alla vita cristiana; giacché, per le stesse ragioni, ad esse si riconnette indissolubilmente la restaurazione del regno di Cristo e lo stabilimento di quella vera pace che a questo regno unicamente appartiene: « La pace di Cristo nel regno di Cristo ».

Dite dunque, Venerabili Fratelli, ai vostri cleri che conosciamo le loro generose fatiche su questi diversi campi, e che anche per averle da vicino vedute e condivise altissimamente le apprezziamo; dite che quando essi danno la loro cooperazione a voi uniti come a Cristo e da voi come da Cristo guidati, allora più che mai essi sono con Noi, e Noi siamo con essi benedicendoli paternamente. – Non occorre poi che vi diciamo, Venerabili Fratelli, quale e quanto assegnamento, per l’esecuzione del programma propostoci, Noi facciamo pure sul clero regolare. Voi sapete, al pari di Noi, quale contributo esso rechi allo splendore interno ed all’esterna dilatazione del regno di Cristo; esso, che di Cristo attua non soltanto i precetti ma anche i consigli; esso che, nel silenzio meditativo dei chiostri come nel fervore dell’operosità esteriore, attua in frutti di vita i più alti ideali della perfezione cristiana, tenendo vivo nel popolo cristiano il richiamo all’alto, con l’esempio continuo della rinuncia magnanima a tutto quello che è terreno e di privato comodo, per l’acquisto dei tesori spirituali e per la consacrazione intera al bene comune, con l’opera benefica, che arriva a tutte le miserie corporali e spirituali e per tutte trova un soccorso ed un rimedio. E in ciò, come ci attestano i documenti della storia ecclesiastica, i religiosi, per l’impulso della divina carità, avanzarono bene spesso a tal segno che, nella predicazione del Vangelo, diedero anche la vita per la salute delle anime e, con la propria morte propagando l’unità della fede e della cristiana fratellanza, sempre più dilatarono i confini del regno di Cristo. – Dite ai vostri fedeli del laicato che quando essi, uniti ai loro sacerdoti ed ai loro Vescovi, partecipano alle opere di apostolato individuale e sociale, per far conoscere e amare Gesù Cristo, allora più che mai essi sono « la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato » [55]. Allora più che mai sono essi pure con Noi e con Cristo, benemeriti essi pure della pace del mondo, perché benemeriti della restaurazione e dilatazione del regno di Cristo. Poiché solo in questo regno di Cristo si dà quella vera uguaglianza di diritti per la quale tutti sono nobili e grandi della stessa nobiltà e grandezza, nobilitati dal medesimo prezioso Sangue di Cristo; e quelli che presiedono non sono che ministri del bene comune, servi dei servi di Dio, degli infermi specialmente e dei più bisognosi, sull’esempio di Gesù Cristo Signor Nostro. – Senonché quelle stesse vicende sociali che crearono ed accrebbero la necessità della accennata cooperazione del clero e del laicato, hanno pure creato pericoli nuovi e più gravi. Sono idee non rette e non sani sentimenti, dei quali, dopo l’uragano della guerra mondiale e degli avvenimenti politici e sociali che le tennero dietro, l’atmosfera stessa si direbbe infetta, così frequenti sono i casi di contagio, tanto più pericoloso quanto meno prontamente avvertito, grazie alle apparenze ingannevoli che lo dissimulano, sicché gli stessi alunni del santuario non ne vanno immuni. – Molti sono, infatti, quelli che credono o dicono di tenere le dottrine cattoliche sull’autorità sociale, sul diritto di proprietà, sui rapporti fra capitale e lavoro, sui diritti degli operai, sulle relazioni fra Chiesa e Stato, fra religione e patria, fra classe e classe, fra nazione e nazione, sui diritti della Santa Sede e le prerogative del Romano Pontefice e dell’episcopato, sui diritti sociali di Gesù Cristo stesso, Creatore, Redentore, Signore degli individui e dei popoli. Ma poi parlano, scrivono e, quel che è peggio, operano come non fossero più da seguire, o non col rigore di prima, le dottrine e le prescrizioni solennemente ed invariabilmente richiamate ed inculcate in tanti documenti pontifici, nominatamente di Leone XIII, Pio X e Benedetto XV. – Contro questa specie di modernismo morale, giuridico, sociale, non meno condannevole del noto modernismo dogmatico, occorre pertanto richiamare quelle dottrine e quelle prescrizioni che abbiamo detto; occorre risvegliare in tutti quello spirito di fede, di carità soprannaturale e di cristiana disciplina, che solo può dare la loro retta intelligenza ed imporre la loro osservanza. Tutto questo occorre più che mai fare con la gioventù, massime poi con quella che si avvia al sacerdozio, perché nella generale confusione non sia, come dice l’Apostolo, « portata qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, per quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore ». Da questo apostolico centro dell’ovile di Cristo, il Nostro sguardo e il Nostro cuore, Venerabili Fratelli, si volgono anche a coloro che, purtroppo in gran numero, ignorando Cristo e la sua redenzione, o non integralmente seguendo le sue dottrine, non appieno mantenendo l’unità da Lui prescritta, ancora stanno fuori dell’ovile quantunque ad esso da Dio destinati e chiamati. Il Vicario del divin Pastore, vedendo le tante pecorelle sbandate, non può non ripetere e non far sua la parola, che nell’energica semplicità dice tutto l’ardore del desiderio divino: « bisogna che io le conduca »; non può non allietarsi nella soave profezia nella quale esultava il Cuore divino: « e udranno la mia voce e si farà un solo ovile e un solo pastore ». Voglia Iddio, come Noi con voi tutti e con tutti i credenti intensamente lo preghiamo, presto compiere la sua profezia e ridurre presto in atto la consolante visione. – Ecco intanto di questa religiosa unità brillarci innanzi un felice auspicio in quel mirabile fatto che voi non ignorate, Venerabili Fratelli, inaspettato a tutti, ad alcuni forse sgradito, a Noi certo ed a voi graditissimo: che cioè, in questi ultimi tempi i rappresentanti e reggitori di quasi tutti gli Stati del mondo, quasi ubbidendo ad un comune istinto e desiderio di unione e di pace, si sono rivolti a questa Sede Apostolica per stringere o rinnovare con essa concordia ed amicizia. Della quale cosa Noi andiamo lieti, non tanto per il cresciuto prestigio della santa Chiesa, quanto perché sempre più chiaramente appare, e da tutti si sperimenta, quale e quanta benefica virtù essa possiede per la felicità, anche civile e terrena, della società umana. Sebbene infatti la Chiesa, per divina volontà, intenda direttamente ai beni spirituali e sempiterni, tuttavia per una certa connessione di cose, tanto giova anche alla prosperità terrena degli individui e della società, che più non potrebbe se ad essa dovesse direttamente servire. – Non vuole dunque né deve la Chiesa, senza giusta causa, ingerirsi nella direzione delle cose puramente umane; ma neanche permettere e tollerare che il potere politico ne prenda pretesto, con leggi o disposizioni ingiuste, a ledere i beni di ordine superiore, ad offendere la divina costituzione di lei o a violare i diritti di Dio stesso nella civile società. – Facciamo dunque Nostre, Venerabili Fratelli, le parole che Benedetto XV, di f. m., pronunciava nell’ultima sua allocuzione tenuta nel Concistoro del 21 novembre dell’anno andato, a proposito dei patti chiesti ed offerti dai diversi Stati: «Non consentiremo mai che in questi Concordati si insinui alcunché di contrario alla dignità e alla libertà della Chiesa, poiché importa altamente alla stessa prosperità del civile consorzio, specialmente ai giorni nostri, che tali libertà e dignità rimangano salve e intatte ». – Appena occorre dire a questo proposito, con quanta pena all’amichevole convegno di tanti Stati vediamo mancare l’Italia, la carissima patria Nostra, il paese nel quale la mano di Dio, che regge il corso della storia, poneva e fissava la sede del suo Vicario in terra, in questa Roma, che da capitale del meraviglioso ma pur ristretto romano impero, veniva fatta da Lui la capitale del mondo intero, perché sede di una sovranità divina che, sorpassando ogni confine di Nazioni e di Stati, tutti gli uomini e tutti i popoli abbraccia. Richiedono però l’origine e la natura divina di tale sovranità, richiede l’inviolabile diritto delle coscienze di milioni di fedeli di tutto il mondo, che questa stessa sovranità sacra sia ed appaia manifestamente indipendente e libera da ogni umana autorità o legge, sia pure una legge che annunci guarentigie. – La guarentigia di libertà onde la Provvidenza divina, governatrice e arbitra delle umane vicende, senza danno, anzi con inestimabili benefìci per l’Italia stessa, aveva presidiato la sovranità del Vicario di Cristo in terra; quella guarentigia che per tanti secoli aveva opportunamente corrisposto al disegno divino di tutelare la libertà del Pontefice stesso, e al cui posto né la Provvidenza divina ha finora indicato, né i consigli degli uomini hanno finora trovato altro mezzo consimile, che convenientemente la compensi, quella guarentigia venne e rimane tuttora violata; onde si è creata una condizione di cose anormale, con grave e permanente turbamento della coscienza dei cattolici in Italia e nel mondo intero. – Noi dunque, eredi e depositari del pensiero e dei doveri dei Nostri venerati Antecessori, com’essi investiti dell’unica autorità competente nella gravissima materia e responsabili davanti a Dio, Noi protestiamo, com’essi hanno protestato, contro una tale condizione di cose, a difesa dei diritti e della dignità dell’Apostolica Sede, non già per vana e terrena ambizione, della quale arrossiremmo, ma per puro debito di coscienza, memori di dover morire e del severissimo conto che dovremo rendere al divino Giudice.  – Del resto l’Italia nulla ha o avrà da temere dalla Santa Sede: il Papa, chiunque egli sia, ripeterà sempre: «Ho pensieri di pace, non di afflizione: pensieri di pace vera, e perciò stesso non disgiunta da giustizia, sicché possa dirsi: la giustizia e la pace si sono baciate ». A Dio spetta addurre quest’ora e farla suonare; agli uomini savi e di buona volontà non lasciarla suonare invano: essa sarà tra le ore più solenni e feconde per la restaurazione del Regno di Cristo e per la pacificazione d’Italia e del mondo. – Per questa universale pacificazione più fervidamente Noi preghiamo ed a pregare tutti invitiamo, mentre ritornano, dopo venti secoli, il giorno e l’ora, in tutto il mondo così soavemente solenni, nei quali il dolce Principe della pace faceva l’umile e mansueto suo ingresso nel mondo e le « milizie celesti » cantavano: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà ».

E di questa pace sia a tutti caparra la Benedizione Apostolica, che vogliamo scenda sopra di voi e sul vostro gregge, sul vostro clero e sui vostri popoli, sulle loro famiglie e sulle loro case, e rechi felicità ai vivi, pace e beatitudine eterna ai defunti. La quale Benedizione a voi, al vostro clero e al vostro popolo in attestato della nostra paterna benevolenza, con tutto il cuore impartiamo.

Dato a Roma, presso San Pietro il giorno 23 dicembre 1922, anno primo del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

DOMENICA VIII dopo PENTECOSTE

Introitus Ps XLVII:10-11.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua. [Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Ps XLVII:2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus. [Grande è il Signore, e degnissimo di lode nella sua città e nel suo santo monte.]

Ps XLVII:10-11 Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua. [Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Oratio

Orémus.

Largíre nobis, quǽsumus, Dómine, semper spíritum cogitándi quæ recta sunt, propítius et agéndi: ut, qui sine te esse non póssumus, secúndum te vívere valeámus. [Concedici propizio, Te ne preghiamo, o Signore, di pensare ed agire sempre rettamente; cosí che noi, che senza di Te non possiamo esistere, secondo Te possiamo vivere.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII:12-17

Fratres: Debitóres sumus non carni, ut secúndum carnem vivámus. Si enim secúndum carnem vixéritis, moriémini: si autem spíritu facta carnis mortificavéritis, vivétis. Quicúmque enim spíritu Dei aguntur, ii sunt fílii Dei. Non enim accepístis spíritum servitútis íterum in timóre, sed accepístis spíritum adoptiónis filiórum, in quo clamámus: Abba – Pater. – Ipse enim Spíritus testimónium reddit spirítui nostro, quod sumus fílii Dei. Si autem fílii, et herédes: herédes quidem Dei, coherédes autem Christi.

Omelia I

[Mons. Bonomelli. Omelie, vol. III, Torino, 1899].

Omelia XVII

Fratelli, noi non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne; perché se vivrete secondo la carne, voi morrete: ma se con lo spirito avrete mortificato la carne, vivrete. Perché, quanti sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figliuoli di Dio. E’ vero, voi non avete ricevuto di nuovo lo spirito di servaggio a timore; ma avete ricevuto lo spirito di adozione, nel quale diciamo: Abba! Padre! Poiché lo stesso Spirito rende testimonianza allo spirito nostro, che noi siamo figliuoli di Dio. Se poi siamo figliuoli, siamo altresì eredi: eredi cioè di Dio, ma coeredi di Cristo „ (Ai Romani, VIII, 12-17).

La dottrina contenuta in questi sei versetti, l’altezza delle idee, la forma del dire ed il contorno dei periodi vi dicono senz’altro, che questo tratto dell’Epistola appartiene all’Apostolo Paolo; e veramente si legge nel capo ottavo della sua lettera ai Romani. Questa lettera tra le quattordici lasciateci dall’Apostolo è la principale per la copia e profondità della dottrina dogmatica e morale ed anche per l’ampiezza dello svolgimento, e fra i sedici capi, onde consta la lettera, questo, a mio giudizio, tocca la massima altezza per ciò che spetta la natura e gli effetti della rigenerazione operata da Cristo. – Dopo aver toccata la felice condizione dei rigenerati in Cristo, raffrontati a quelli che vivono nella carne, afferma che in essi abita lo Spirito Santo, e che esso un giorno li risusciterà come già risuscitò Gesù Cristo. Qui o cari, comincia il testo, che devo interpretare e che domanda tutta la vostra attenzione. – “ Fratelli, noi non siamo debitori alla carne, per vivere secondo la carne. „ L’Apostolo, lo sapete, con la parola carne indica l’uomo vecchio, l’uomo del peccato, l’uomo corrotto, l’uomo schiavo delle passioni, le quali hanno la loro radice principalmente nella carne, e perciò lo chiama semplicemente carne: con la spirito significa l’uomo nuovo, l’uomo della grazia, l’uomo rigenerato nel battesimo, l’uomo che segue lo spirito di Cristo, e perciò lo chiama spirito. Il battesimo mette in noi la grazia, che cancella il peccato, depone in noi un germe nuovo, una forza, una vita nuova, che è la partecipazione della vita stessa di Cristo, ma non distrugge le conseguenze o pene del peccato, e lascia sussistere accanto al nuovo uomo il vecchio, accanto alla grazia la concupiscenza, accanto allo spirito di Cristo, la carne con le sue passioni, e ciò ad esercizio della virtù. Vedeste mai, o dilettissimi, spuntare una pianta gentile, una vaga rosa, un candido giglio in mezzo ad un terreno pantanoso? È un’immagine del cristiano, esso ha in sé la grazia di Gesù Cristo, pianta gentile che germoglierà la rosa ed il giglio; ma la terra, in cui sorge e tiene le radici, è un pantano, che spesso esala miasmi pestilenziali, è il nostro corpo, la nostra natura corrotta, nella quale si annidano le più sozze passioni. Che dobbiamo far noi? Ciò che fa l’industre giardiniere: e gli non guarda al pantano, non l’ama, non vi mette il piede, che vi s’imbratterebbe, non se ne cura, anzi ne torce lo sguardo, rimira e vagheggia con occhio di compiacenza la rosa ed il giglio e circonda la pianta di tutte le sue cure amorose. – Similmente noi pure, o dilettissimi. Gesù Cristo ha ha posto in noi, come dicevo, la sua grazia: col santo battesimo a Lui ci siamo dati e gli abbiamo fatta solenne promessa di vivere come Lui, di seguire il suo spirito e di combattere il mondo, il demonio e la carne. Che cosa dobbiamo noi alla carne? Quali benefici ci ha essa fatti? Quali benefici possiamo aspettarci? Nessun beneficio ci ha fatto, né ci può fare, ed ogni male passiamo da essa temere. Dunque “non viviamo secondo la carne: „ – “Debitores sumus non carni, ut secundum carnem vìvamus.” La carne ci invita, ci trae a seguire la vanità, ad accumulare ricchezze, a mangiare e bere senza misura, a poltrire nell’ozio, ad odiare chi ci ha offesi, a vendicarci, a sfogare le basse voglie del senso e andate dicendo; no, non seguitiamo la carne per questa mala via; essa non ha diritto alcuno che noi la seguitiamo, e mal per noi se lo facessimo. E perché? – Perché esclama S. Paolo, “se vivrete secondo la carne, morrete: „ “Si enim secundum carnem vixiritis, morìemini”. Termine ultimo ed infallibile delle malnate vostre passioni soddisfatte, sappiatelo bene, sarà la morte. Qual morte? La morte dell’anima e con quella dell’anima la morte altresì del corpo nell’eterna perdizione. Chi di voi non ha orrore della morte? Chi di v o i non la fugge a tutto potere? Che non fareste voi per sottrarvi al suo braccio di ferro? Ebbene: non vivete secondo la carne, combattete virilmente le sue malvagie passioni e non sarete preda della morte. – No, noi non vivremo secondo la carne, come ci intimate voi, o grande Apostolo: come dunque vivremo? secondo qual legge? Udite: ” Se con lo Spirito avrete mortificate le opere della carne, vivrete: „ Si autem spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis. Comprendeste, o cari? Armati dalla grazia divina, come d’una spada a due tagli, avvalorati dalla forza dello spirito in noi infuso mercé del battesimo e degli altri Sacramenti, dobbiamo rintuzzare le opere della carne, cioè le male cupidigie, che pullulano nella carne, ed allora vivremo, cioè avremo la vita eterna dell’anima e a suo tempo quella del corpo. Lo so, che il raffrenare e il castigare le perverse voglie della carne cagiona assai volte dolori acutissimi, e la natura nostra fieramente si rivolta, né sa rassegnarsi a certi tagli crudeli; ma se vogliamo vivere è forza sottomettersi: Si spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis. – Un infelice è minacciato di gangrena in un braccio, in un piede o in altra parte del corpo: si chiamano i più valenti chirurghi: esaminano, si consultano tra loro e dichiarano unanimi, essere necessario il taglio. L’infermo impallidisce e domanda ansioso se non v’è altro rimedio. No, rispondono gli uomini della scienza: o il taglio e prontamente, o la vita. – Il misero s’ arrende e lascia che il ferro penetri profondamente nelle carni, e recida senza pietà le parti cancrenose, vi dica Dio con quale atroce spasimo. – Quello sventurato trova, nella sua volontà e nel timore della morte e nel desiderio della vita temporale la forza bastevole per sottomettersi al ferro ed al fuoco, e soffrire strazi indicibili e talora inutilmente; e noi nella nostra volontà sostenuta e rinvigorita dalla grazia divina, nel timore della morte e nel desiderio della vita eterna non troveremo la forza necessaria per isvellere quella triste abitudine, per isbarbicare quel turpe amore, per recidere quella scellerata passione, che quasi cancro rode e va spegnendo la vita della misera anima? Che il timore della morte eterna e l’amore della vita eterna siano meno efficaci sul nostro cuore del timore della morte temporale e dell’amore della vita temporale? Se così fosse, noi saremmo pessimi ragionatori. – Se voi seguirete, così l’Apostolo, se voi seguirete non gli appetiti della carne, ma lo spirito, ossia la grazia di Gesù Cristo, non solo non morrete, non solo avrete la vita, ma quella vita che è propria dei figli di Dio. Perché quanti sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio: „ “Quicumque enim Spiritu Dei aguntur, ii sunt filli Dei”. Questa espressione dell’Apostolo è molto forte e in alcuno può far sorgere il timore, che corra pericolo la nostra libertà; se siamo mossi dallo Spirito di Dio, si dirà, è tolta la libertà nostra, e se questa è tolta, è tolta la ragione del merito e della pena, e tra noi ed i bruti non corre differenza alcuna. Non temete, o cari, che lo Spirito di Dio tolga o scemi la nostra libertà; Esso non solo la rispetta, ma la sorregge e l’aiuta, perché sta scritto, che dove è lo Spirito di Dio, ivi è la libertà. – Il vento agita e muove l’albero; il sole muove intorno sé la terra ed i pianeti; il pilota guida dove e come vuole la sua nave, il cocchiere i suoi cavalli: è forse così che Dio con il suo Spirito muove le nostre volontà? No, per fermo; se così le muovesse, la libertà nostra sarebbe annientata: 1’albero non può non muoversi sotto il soffio del vento, la terra ed i pianeti non sono liberi di seguire il sole, la nave non può resistere al pilota, ed i cavalli sono costretti ad ubbidire al freno. Come, dunque le nostre volontà sono mosse dalla grazia, eppure rimangono libere? Come! Un giorno vostro padre e vostra madre vi dissero: Figliuoli! voi non andrete nel tal luogo dove correreste pericolo; voi attenderete allo studio ed andrete alla scuola; voi non piglierete il tal cibo e la tal bevanda, ma quello che v i sarà dato ed all’ora per voi stabilita, e tutto ciò pel vostro bene. Se non lo farete, mal per voi; se lo farete, noi, vostri genitori ne gioiremo e ne avrete la giusta mercede. E voi che faceste? Pel timore del castigo, per l’amore dei vostri genitori, seguiste il consiglio, faceste il loro volere, vi lasciaste guidare dal loro spirito. Perdeste voi la vostra libertà? No, sicuramente. Potevate fare il contrario di ciò che vi era da essi consigliato o comandato? Chi ne dubita? E forse in parte lo faceste ed ora ne provate rimorso. Il somigliante avviene rispetto a Dio, Padre nostro. Ci fa conoscere ciò che dobbiamo sfuggire e ciò che dobbiamo fare: ci mostra la via del male e ci dice: Non camminate per questa; ci mostra la via del bene e ci dice: Ti metti per questa. Poi infonde nell’anima nostra la forza necessaria perché facciamo ciò che ci comanda, ma non ci costringe, e ci lascia, come dice la Scrittura santa, in mano del nostro libero arbitrio. Dio dunque si muove, come si può muovere una volontà libera; ci muove come voi potete muovere la libertà d’un amico, dei vostri figli mostrando loro la verità, eccitandoli, esortandoli, minacciandoli, pregandoli, allettandoli ed in cento altri modo studiandovi di far sì che le loro volontà seguano la vostra (corre una gran differenza tra la nostra azione e quella di Dio: noi non possiamo agire sugli altri che in modo esterno, dovechè Dio agisce esternamente ed internamente; esternamente illumina la mente ed internamente muove la volontà e la avvalora secondo i bisogni). Forse che voi costringete e fate violenza alla loro volontà? E ciò che fa Dio con noi con la sua grazia e voi potete comprendere, che essa non nuoce, ma giova alla libertà, come il vostro consiglio ed il vostro comando e i vostri eccitamenti giovano al bene de’ vostri figliuoli. – In quanto siamo mossi e guidati dallo Spirito di Dio, “siamo figli di Dio, „ scrive san Paolo: Quicumque Spiritu Dei aguntur, ii sunt fillii Dei”. È questa una dottrina altissima, che ha bisogno d’essere ben compresa, e a ben rischiararla, userò d’una similitudine. Un padre, modello d’ogni virtù, ha due figli: l’uno è la copia fedele del padre, come lui pio e virtuoso; l’altro è il rovescio, superbo, iracondo, invidioso, dissoluto, senza fede, viziosissimo. Sono entrambi figli dello stesso padre? Indubbiamente, perché entrambi da lui hanno ricevuta la vita e secondo 1’ordine naturale, rispetto alla vita umana, sono fratelli e fratelli, li dice il popolo. Ma secondo la vita morale sono essi fratelli e figli dello stesso padre? Certamente, no, e il padre nel suo dolore più volte va esclamando: Ah! tu non sei mio figlio; e il popolo lo conferma, ripetendo: Questo non è figlio di quell’ottimo padre. Che differenza passa tra i due figli? Il primo ha in sé non solo la vita naturale del padre, ma anche la parte migliore di lui, la vita morale: ha in sé lo spirito del padre, è mosso e guidato dallo stesso spirito, si dice ed è perfettamente suo figlio. Il secondo ha dal padre la vita naturale, come il fratello, ma non ha la parte migliore, la vita morale, non ha lo spirito del padre, non è mosso, né guidato dallo stesso spirito, e perciò si dice che per questo rispetto non è figlio del padre. Così noi tutti siamo opera di Dio creatore, tutti riscalda un Dio redentore, e come tali tutti egualmente siamo figli di Dio; ma se la nostra condotta non è quale si conviene ai figli di Dio, se lo Spirito di Dio non ci muove e non ci guida, a ragione si deve dire, che non siamo figli di Dio. Guardando alle opere nostre, ai pensieri, agli affetti, onde si informa il nostro spirito, troviamo noi d’essere simili a Dio e figli di Dio, perché mossi ed informati del suo Spirito? Se, si, rallegriamoci e ringraziamone il buon Dio; se, no, facciamo del nostro meglio per essere tali almeno in avvenire. – “E veramente, voi non avete ricevuto di nuovo lo spirito di servaggio a timore”; è questa la sentenza che segue la spiegata e la rincalza. Noi siamo figli di Dio, guidati dal suo Spirito; e come potrebbe essere altrimenti? dice l’Apostolo. Noi, uomini della nuova legge, discepoli di Gesù Cristo, non abbiamo ricevuto lo spirito della legge antica, lo spirito di quella legge e quello spirito era proprio, non di figli, ma di servi, non di figli che amano il padre, ma di servi che temono il padrone. Che vuol dir ciò, o carissimi? L’indole e lo spirito della legge mosaica era quello di incutere timore con le pene gravissime temporali e con esse frenare le passioni e metterle in orrore il peccato, onde quella legge riguardava soltanto le opere esterne e non poteva, se non indirettamente, esercitare l’azione sua sull’interno e formare i l cuore. Gli Ebrei servivano a Dio più per timore che per amore, erano più servi che figli; ma noi, dice S. Paolo, siamo informati ad un’altra scuola: lo spirito che abbiamo ricevuto, quello di figli adottivi di Dio; è tale spirito, che ci diritto di chiamare Iddio col dolce nome di Padre: “In quo clamamus: Abba, Pater”. Dio Padre, per opera dello Spirito Santo congiunse la Persona del Figliuol suo colla natura umana assunta, e lo congiunse per modo, che l’Uomo-Cristo è vero Dio; Gesù Cristo vero dio e vero Uomo, con la grazia, con la carità e soprattutto con la S. Eucaristia, congiunge gli omini a se stesso per guisa che formano con Lui, una cosa sola, vivono della sua vita, partecipano della sua stessa natura e diventano anch’essi figli, non naturali, che è impossibile, ma adottivi, e come tali possono chiamare Dio loro padre. Che cosa importi questa eccelsa dignità di figliuoli adottivi di Dio, lo spiegai in altra omelia, e perciò qui me ne passo. – E possiamo noi sapere se abbiamo veramente in noi lo Spirito di Dio e se siamo suoi figli? Sì, risponde S. Paolo: ” Per lo stesso Spirito rende testimonianza allo spirito nostro, che noi siamo figli di Dio. „ – Noi possiamo avere una certezza di fede come quella che abbiamo p. es. della presenza reale di Gesù Cristo nella S. Eucaristia, e questa è la massima ed esclude qualunque ombra, ancorché lievissima, di dubbio; perché il nostro assenso si appoggia all’autorità stesso di Dio, che non può né ingannare, né ingannarsi: e possiamo avere una certezza umana, che esclude pur questa ogni dubbio e che appoggia alla nostra ragione od alla testimonianza altrui; così io sono certo che ogni effetto suppone la sua causa e che esiste il Giappone, benché io non l’abbia veduto. Chi mai, che sia sano di mente, potrà dubitare di queste due verità? Ebbene: noi siamo certi, dice S. Paolo, d’essere figli di Dio. E d’onde questa certezza? A qual prova si appoggia? Alla testimonianza che lo Spirito di Dio ci rende internamente. E questa una certezza di fede (Il Concilio di Trento insegnò, che l’uomo giustificato non è tenuto a credere per fede di essere nel numero dei predestinati, e che nessuno sa con assoluta ed infallibile certezza di essere predestinato, se non lo conosce per via di speciale rivelazione. -Sess. VI, Can. 15, 16.-) se non vi è una speciale rivelazione di Dio, della quale qui l’Apostolo non fa cenno e che è fuori di questione, perché parla in generale di tutti i fedeli, dicendo : ” Perché lo stesso Spirito rende testimonianza allo spirito nostro, che siamo figli, di Dio. „ È questa dunque una certezza umana, maggiore o minore, secondo le persone e secondo le circostanze, che tiene, a così dire, il mezzo tra la certezza assoluta e la congettura. Ma in qual maniera poi lo Spirito Santo ci accerta che siamo figli di Dio e perciò adorni della sua grazia? Lo Spirito di Dio nella Scrittura santa e nell’insegnamento ordinario della Chiesa ci dice chiaramente, che chi crede le verità della fede, ed osserva la legge divina ed adempie come meglio può i propri doveri tutti, costui si santifica e si salva: ora, se interrogando schiettamente la nostra coscienza, essa ci dice che tutto questo noi abbiamo fatto e facciamo, noi abbiamo l’umana certezza d’essere nella sua grazia e di salvarci. Come siamo noi certi di godere l’amicizia di questa o quella persona? Come siamo noi certi che i genitori ci amano? Guardando alle opere loro e nostre, considerando il complesso delle cose tutte, noi teniamo con maggior o minore certezza di poter riposare sulla fedeltà degli amici e sull’amore dei nostri genitori, tantoché assai volte non ci si affaccia un’ombra sola di dubbio. Similmente, ragguagliata ogni cosa, possiamo dire dell’amicizia e dell’amore di Dio. – Alcuni provano angustie penose e grandi timori perché ignorano se sono in grazia di Dio od in peccato, se si salveranno o perderanno, e si sentono stringere il cuore. Nessuno sa con assoluta certezza se è degno d’odio o di amore, come insegna la S. Scrittura: il nostro cuore è un abisso e solamente l’occhio di Dio vi legge con tutta chiarezza; con tutto ciò a noi pure è dato leggervi alcun poco e tanto da poterne avere una cotale certezza, che ci procuri quella pace, che quaggiù è possibile . – Carissimi! volete voi sapere se siete veramente in grazia di Dio e per conseguenza suoi figliuoli? Sì, mi rispondete voi ad una voce e mi domandate : Come ottenere questa certezza sì desiderata e sì consolante? Raccoglietevi in voi stessi, nel santuario della vostra coscienza, e mettendovi faccia a faccia con essa, indirizzatele queste domande semplicissime: Credo io tutto ciò che insegna la Chiesa, madre mia? Se conoscessi d’aver commesso un peccato grave, me ne pentirei di cuore e sinceramente me ne confesserei? Se Dio, ora, in questo punto, mi comandasse un sacrificio grande, doloroso, sarei io pronto a farlo, sostenuto dalla sua grazia? Se in questo istante mi si offrisse un grande onore, un tesoro a patto di offendere Dio con un peccato mortale, avrei io il coraggio di respingere quell’onore e quel tesoro? Se la vostra coscienza vi risponde: Sì, consolatevi, la grazie di Dio è in voi e voi siete suoi figli. È una prova che ciascuno può fare in se stesso ogni qual volta gli piaccia (sono questi i segni che siamo in grazia di Dio indicati da S. Francesco di Sales. Iddio poi vuole che la nostra certezza sia sempre accompagnata da un po’ di timore per scuotere la nostra pigrizia. “Perpende, dulcissima filia, così S. Gregorio M. ad una pia dama di corte, quia mater negligentiæ solet esse securitas. Habere ergo in hac vita non debes securitatem, per quam negligens reddaris”). – Se siamo figli, siamo altresì eredi, eredi di Dio, ma coeredi di Cristo. „ Con questa sentenza si chiude la lezione della nostra Epistola. Se siamo figli di Dio e perciò nell’anima nostra simili a Lui, quale ne sarà la conseguenza? quale il frutto? “Saremo eredi di Dio. „ il Figlio di Dio, il figlio docile ed amorevole, che adempie tutti i suoi doveri, ha diritto alla eredità del padre: così noi, se adempiremo fedelmente i doveri nostri verso Dio, che ci ha adottati per sola sua bontà, saremo eredi suoi. Di quali beni saremo noi eredi? Di tutti i beni, onde risulta la eterna felicità, fonte dei quali è il possesso di Dio medesimo. – Direte: i figli,- siano essi naturali od adottivi, non ricevono la eredità che alla morte del padre; ora Dio, padre nostro, non muore mai, né puo’ morire: perché dunque i beni, che un giorno ci darà su in cielo, si chiamano eredità? Si chiamano eredità, per indicare i rapporti che passano tra Dio rimuneratore e gli uomini rimunerati, che sono appunto i rapporti tra padre adottante e i figli adottati. Oltreché, noi siamo fratelli di Gesù Cristo secondo la sua natura umana: Gesù Cristo, in quanto uomo, ricevette dal Padre tutti i beni, come Figliuol suo naturale, e questi beni si chiamano la sua eredità; il perché, per ragione di analogia, pure i nostri beni futuri si dicono eredità. Nell’ordine naturale i figli qui sulla terra ricevono l’eredità dopo la morte dei genitori; nell’ordine sovrannaturale i figli devono morire prima di riceverla dal Padre immortale; ad ogni modo, per avere questi beni deve sempre precedere la morte, e perciò si chiama eredità. Eredi di Dio! “Hæredes Dei!” Quale dignità! Quale grandezza è la nostra! Quei beni sono certamente un dono gratuito di Dio, se consideriamo la loro radice, che è la grazia, ma ci sono anche dovuti, se poniamo mente alla nostra prerogativa di figli di Dio e alle opere nostre, frutto della grazia. La eredità è dovuta ai figli per giustizia: poteva Iddio non adottarci; ma dopo l’adozione non può negarcela; Egli stesso ce ne ha dato il diritto. Eredi di Dio! Queste parole svegliano nella mente dell’Apostolo un”altra idea nobilissima e subito la nota, dicendo: “E coeredi di Cristo. „ Sì, siamo figli di Dio, e quindi eredi suoi; figli ed eredi di Dio, perché il Figlio di Dio si fece uomo e fratello nostro, e per Lui ed in Lui, Figlio naturale ed erede necessario della eredità paterna, noi pure siamo figli per adozione di Dio e suoi eredi. Tutto dunque abbiamo per Gesù Cristp e perciò a Lui si devono tutte le grazie, e la gloria di tanta grandezza. a cui siamo sollevati. – O poveri che mi ascoltate; che bagnate di sudore il vostro pane quotidiano, che non possedete un palmo di terra, che soffrite tutti i mali ed i dolori, che sono inseparabili compagni della povertà e della miseria, rallegratevi, gioite: levate i vostri occhi al cielo, esso è vostro. Iddio il padrone d’ogni cosa, ha un Figliuolo, unico Figliuolo: Egli ha diritto al possesso di tutti i beni del Padre suo; per eccesso di bontà Egli ha voluto associare voi tutti ai suoi diritti sulla eredità paterna; voi sarete suoi coeredi, a quest’unica condizione, che vi riuniate a Lui con la fede, con la speranza e con la carità, e dietro a Lui portiate quella croce ch’Egli per primo portò dinanzi a voi.

 Graduale Ps XXX:3

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias. [Sii per me, o Dio, protezione e luogo di rifugio: affinché mi salvi.]

Ps LXX:1 V. Deus, in te sperávi: Dómine, non confúndar in ætérnum. Allelúja, allelúja. V. O Dio, in Te ho sperato: ch’io non sia confuso in eterno, o Signore. Allelúia, allelúia

Alleluja Ps XLVII:2

Alleluja, Alleluja.

Magnus Dóminus, et laudábilis valde, in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. Allelúja. [Grande è il Signore, degnissimo di lode nella sua città e sul suo santo monte. Allelúia].

 

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. Luc XVI:1-9

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: jam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii hujus saeculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula. [In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli questa parabola: Vi era un uomo ricco che aveva un fattore, e questi fu accusato presso di lui di avergli dissipato i beni. Allora lo chiamò e gli disse: Che cosa sento dire di te? réndimi conto del tuo operato, perché ormai non potrai più essere mio fattore. Questi disse fra sé: Cosa farò poiché il padrone mi toglie la fattoria? Non posso zappare, mi vergogno di chiedere l’elemosina. Ma so quello che farò, affinché quando sarò cacciato dalla fattoria, possa essere accolto in casa altrui. Adunati quindi tutti i debitori del suo padrone, diceva al primo: Quanto devi al mio padrone? E questi: Cento orci d’olio. E il fattore: Prendi la tua obbligazione, siediti e scrivi: cinquanta. Poi disse a un altro: E tu, quanto devi? Cento staia di grano. E il fattore: Prendi la tua lettera e segna: ottanta. E il padrone lodò il fattore disonesto che aveva agito con astuzia, poiché i figli del secolo sono piú accorti, fra loro, dei figli della luce. E io dico a voi: fatevi degli amici con le ricchezze dell’iniquità, affinché, quando morrete, gli amici vi accolgano nelle loro eterne dimore.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Luca XVI, 1-9]

-Tre tribunali-

“Rendimi conto, economo infedele (così Cristo introduce a parlare nell’evangelica parabola un padrone mal soddisfatto del suo fattore), rendimi conto, servo malvagio, di tua condotta nell’amministrazione a te affidata de’ miei averi; perciocché tu più non avrai né impiego, né tempo a dissipare le mie sostanze!: redde rationem villicationis tuæ: iam enim non poteris villicare”. Atterrito da questa minaccia il tristo castaldo cominciò a pensare, e a dire fra sé: “Che farò quando dal mio Signore io venga rimosso dalla mia carica? Zappare? Io non ho forza. Mendicare? Io non ho faccia. So ben io quel che fare mi giova”; e chiamati i debitori del suo padrone, se l’intese con quelli, e provvide, sebbene ingiustamente, a’ suoi futuri bisogni. Cristiani uditori, saremo ancor noi citati un giorno innanzi al divino giudice, anche a noi sarà intimato quel “redde rationem villicationis tuæ”. Non potremo in quel dì pigliar tempo, e provvedere a noi stessi, come lo scaltro fattore. Il tempo che allora ci mancherà l’abbiamo adesso: Iddio ce l’accorda al presente, non ce lo promette in futuro. Anzi, notate finissimo tratto della sua immensa bontà, acciò al suo divin tribunale possiamo rendere buon conto di noi, Egli, dice il Crisostomo, Egli ha stabilito due altri tribunali: “tribunal mentis, tribunal poenitentiæ, tribunal iudicii[Homil. De poenit.]. Osservate con qual ordine. Il primo è piantato nel nostro cuore da Dio Creatore, il secondo nella sua Chiesa da Dio Redentore, il terzo al fin di nostra vita da Dio giudice; il primo è un tribunale di giustizia e di misericordia: il secondo di pura misericordia; il terzo di sola giustizia. Il primo è diretto acciò ricorriamo al secondo, il secondo affinché ci disponiamo al terzo. Guai se non usiamo bene de’ due primi, saremo irrevocabilmente condannati nel terzo. Uditemi attentamente.

I. Il primo tribunale collocato nel nostro cuore da Dio Creatore, egli è un tribunale di giustizia insieme e di misericordia; e primieramente di giustizia. – Appena gl’incauti nostri progenitori rompono il primo precetto, che sull’istante, presi da confusione e da rossore, si ritirano, si nascondono, si coprono di fronde e foglie. Chi li accusa? Chi li condanna? Non hanno ancor sentito la voce di Dio sdegnato nel terreno paradiso, perché dunque si turbano, si coprono, e si nascondono? E non lo vedete; chi li accusa, e chi li condanna è quel giudice inesorabile da Dio Creatore custodito nel loro cuore, che alza la voce, che li confonde, che fa provare tutto l’orrore, che fa sentire tutto il peso del loro delitto. Una più chiara prova ci somministrano le parole del grande Iddio dirette al loro primo figliuolo, invidioso Caino. Io leggo, o Caino nel tuo volto turbato un certo iniquo disegno. Ascolta, infelice, se tu opererai il bene ne avrai la ricompensa, se il male, ne porterai subito la pena. Il peccato, come un cane latrante alla porta del tuo cuore, ti farà provare i più fieri rimorsi : “Si bene egeris, recipies, sin autem male, statim in foribus peccatun aderit” [Gen. IV, 6], Così avvenne. Appena tinto del sangue dell’innocente fratello, un torbido orrore gl’invase la mente, un così strano e gelido spavento gli sconvolse l’animo, che profugo sulla terra temeva ad ogni passo incontrarsi in chi gli desse la morte. – È questo il tribunale della coscienza, “tribunal mentis”, in cui, come nel tribunale degli uomini, v’interviene il reo detenuto, gli accusatori che denunziano, il giudice, che condanna. Reo detenuto è il peccatore, che non può fuggire da sé stesso; accusatori sono 1’intelletto che gli fa conoscere, la memoria, che gli ricorda i suoi delitti; il giudice è la coscienza, giudice inesorabile, che parla contro chi non vorrebbe, che non si può far tacere, che dà sentenze, che pronunzia condanna. Tu tieni ingiustamente la roba altrui, dice ad uno, tu sei un ladro coperto, ma sei un ladro. Tu sei un disonesto, dice ad un altro, ti nascondi agli occhi del mondo, ma a te stesso nascondere non ti puoi. Tu sei in stato di dannazione, dice ad un terzo, se tu non lasci il peccato, se non ti penti, se non ti confessi, tu sei perduto. – Via, peccatori quanti mai siete, distraetevi pure dai reclami della rea coscienza, fate strepito per non sentirla, passate senza interrompimento dall’uno all’altro piacere, dal convito al giuoco, al passeggio, al ballo, al teatro, vi saprà ben seguire e mordere in ogni luogo, in ogni tempo il verme della sinderesi, e massime alla prima disgrazia che v’intervenga, o alla prima malattia che vi colga. Disingannatevi, dice il Crisostomo, ovunque possiate rivolgervi, porterete sempre con voi un giudice che la farà da carnefice per tormentarvi. – Questo tribunal di giustizia ne’ disegni di Dio pietoso è anche un tribunale di misericordia, fa Iddio con noi come medico sagace, che maneggia il ferro, adopra il fuoco per ridurre a sanità il povero infermo. Quelle fitte, peccatori miei cari, quelle spine, che vi trafiggono, sono dirette a farvi conoscere che il peccato non può farvi contento, che bisogna togliere la spina se volete che cessi il dolore. Ad una di queste spine deve la sua conversione il penitente Profeta: “conversus sum in aerumna mea, dum conficitur spina” [Ps. XXXI]. Sono spine, è vero, sono punture, ma sono grazie del misericordioso Signore, acciò afflitti e conturbati nel tribunale della vostra coscienza cerchiate rimedio alle vostre piaghe e pace al vostro cuore nel tribunale della penitenza.

II. Il tribunale di penitenza, posto da Dio Redentore nella sua Chiesa, è tribunale di misericordia. Ne’ tribunali terreni la confessione del peccato si trae addosso la pena, confessarsi reo e condannarsi è la cosa stessa. Tutto il contrario nel tribunale della penitenza. Chi si discolpa moltiplica il suo reato: chi si accusa, chi si condanna, resta assoluto e prosciolto: “Si nosmetipsos diiudicaremus, non utique iudicaremur” [I Cor. XI, 31]. – È sempre stato questo 1′ ordinario costume del nostro Iddio, che è la stessa bontà e la stessa giustizia, di condannar chi si scusa, e di perdonar chi s’incolpa. Si scusa Adamo, e dice: “la donna, che dato mi avete, fu la cagione del mio trascorso”. Si scusa Eva, e ne ascrive la causa al serpente. Scuse in faccia di un Dio veggente? Fuori del terren Paradiso! Si scusa Aronne e dell’idolo da lui innalzato alle falde del Sinai, ne fa carico alla turba tumultuante, e viene escluso perciò dal metter piede nella terra promessa. Si scusa Saul, e di sua trasgressione al divino comando ne incolpa il popolo; e Samuele gli annunzia la perdita del regno temporale, a cui si aggiunse poi la perdita del regno eterno. In somma, reo che si scusa dinanzi a Dio, non l’indovina. Per l’opposto chi si umilia, chi si confessa colpevole disarma la divina giustizia, e ottiene grazia e perdono. .- “Peccavi , dice Davide , peccavi Domine”, e Natan profeta l’assicura che il suo peccato è rimesso, “Dominus quoque transtulit peccatum tuum” [ II Reg. XII, 13]. Si dichiara massimo peccatore il Pubblicano, si batte il petto cogli occhi a terra e se n’esce giustificato dal tempio. Si protesta il prodigo indegno del nome di figlio, e viene accolto con festa dal buon genitore. Si confessa, a finirla, il buon ladro meritevole del suo supplizio, ed ottiene da Gesù moribonde e perdono e promessa di paradiso. – Ecco come 1’umile confessione delle proprie colpe placa la giusta collera di Dio offeso, e ciò in tutti i tempi, massime però nel tribunal di penitenza, in cui la sincera confessione dell’uomo ravveduto e compunto acquista soprannatural vigore, e maggior merito per l’efficacia del Sacramento, in modo, dice S. Isidoro, che se siete infermi vi risana, se in disgrazia di Dio, vi giustifica, se meritevoli di castigo vi perdona, perché nella sacramental Confessione ha collocata la sua sede la divina misericordia: “in confessione locus misericordiæ”. Aggiustiamo dunque, fratelli carissimi, in questo tribunale di misericordia i nostri conti con Dio, se vogliamo incontrar bene al tribunale, a cui appena morti dovremo comparire, tribunale di pura giustizia.

III. Così è, a quel finale giudizio presiede la sola giustizia di Dio, e la misericordia è da quello affatto lontana: “Judicium sine misericordia”. Dura la divina misericordia finché dura la vita: finita questa, si chiude la porta della divina clemenza per non aprirsi mai più. A quel tremendo tribunale non ci accompagnano se non le nostre opere o buone o malvagie. Portiamo con noi il nostro processo, da cui dipende la nostra eterna sorte. Quivi, a nostro modo di intendere, ognun di noi sarà posto nelle bilance di rigorosa giustizia: se, come Baldassarre, saremo trovati mancanti, una sentenza irrevocabile, una condanna di eterno supplizio sarà il giusto castigo, che ci renderà eternamente infelici. – Ah, mio Dio! Dunque se io vi comparisco davanti col peccato nell’anima, sarò da voi rigettato in eterno? E in quel finale giudizio sarà dalla spada della vostra giustizia recisa per sempre la via della pietà e della misericordia? “Numquid in æternum proiiciet Deus …aut in finem misericordiam suam abscìndet?! [Ps. LXXVI, 7-8] Ah mio Signore! E non ci dite voi per bocca di un vostro profeta, che in mezzo all’ira vi ricorderete della misericordia? Appunto, di me sta scritto, “cum iratus fueris misericordiæ recordaberis” (Habac. II, 5), e ben me ne ricordo di quella misericordia usata con voi in tutto il corso della vostra vita: mi ricordo della mia pazienza in sostenervi per tanto tempo peccatori: mi ricordo dell’abbondanza delle mie grazie, e dell’ostinazione dei vostri rifiuti. Quanti lumi ho fatto balenare alla vostra mente, quanti impulsi ho fatto sentire al vostro cuore, quanti stimoli alla vostra coscienza per svegliarvi dal mortale letargo delle vostre viziose abitudini? La mia misericordia è quella, che colla voce delle mie ispirazioni, e con quella dei miei ministri vi chiamava al tribunale di penitenza; affinché in quello saldaste i debiti colla mia giustizia, e non aveste in questo a provarne i rigori, questi e mille altri sono i tratti della clemenza usata con voi, e al rammentarli in quest’istante si accende di maggior fiamma il giusto mio sdegno. Itene dunque maledetti per sempre. Voi non siete più miei, Io non sono più vostro; “Vos non populus meus, et ego non ero vester (Osea I, 9 ). – Miei cari, se vogliamo in quel tribunale schivar la sentenza di eterna morte, profittiamo del primo tribunale, che Dio Creatore ha posto nel nostro cuore, ricorriamo al secondo della penitenza, che Dio Redentore ha stabilito nella sua Chiesa. L’avviso è del Crisostomo : “Si volumus a tribunali iudicii particularìs absolvi, duo reliquia iudicia frequentemus” [Hom. de Pœnit.].

Credo …

Offertorium

Orémus Ps XVII:28; XVII:32

Pópulum húmilem salvum fácies, Dómine, et óculos superbórum humiliábis: quóniam quis Deus præter te, Dómine? [Tu, o Signore, salverai l’umile popolo e umilierai gli occhi dei superbi, poiché chi è Dio all’infuori di Te, o Signore?]

Secreta

Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera, quæ tibi de tua largitáte deférimus: ut hæc sacrosáncta mystéria, grátiæ tuæ operánte virtúte, et præséntis vitæ nos conversatióne sanctíficent, et ad gáudia sempitérna perdúcant. [Gradisci, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che noi, partecipi dell’abbondanza dei tuoi beni, Ti offriamo, affinché questi sacrosanti misteri, per opera della tua grazia, ci santífichino nella pratica della vita presente e ci conducano ai gaudii sempiterni.]

Communio Ps XXXIII:9 Gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus: beátus vir, qui sperat in eo. [Gustate e vedete quanto soave è il Signore: beato l’uomo che spera in Lui.]

Postcommunio

Orémus. Sit nobis, Dómine, reparátio mentis et córporis cæléste mystérium: ut, cujus exséquimur cultum, sentiámus efféctum. [O Signore, che questo celeste mistero giovi al rinnovamento dello spirito e del corpo, affinché di ciò che celebriamo sentiamo l’effetto.]

TERTULLIANO

TERTULLIANO

[G. Panzini. “Compendio storico dei Padri della Chiesa, Napoli, 1905]

Tertulliano (Quinto Settimio Plorenzio). Uno dei più illustri Dottori della Chiesa, nacque a Cartagine, capitale dell’ Africa, verso il 160, era figlio di un Centurione delle truppe proconsolari. Era stato pagano ed si era abbandonato alla vita dissoluta. Lo confessa egli stesso, e dice che non restava al mondo che per farne penitenza. I suoi sregolati costumi non gli impedirono di rendersi esperto in tutte le scienze, e particolarmente nella giurisprudenza romana. Studiò la lingua latina e la greca. La costanza dei Martiri nei più crudeli tormenti, il potere che avevano i Cristiani di cacciare i demoni e di fare ammutolire gli oracoli dei falsi dèi, e finalmente il timore dei giudizi di Dio persuase Tertulliano ad abbandonare i suoi errori per abbracciare il Cristianesimo. S’ignora il tempo e le circostanze della sua conversione; ma è certo ch’egli era già Cristiano, e da qualche tempo, allorché scrisse la sua dotta Apologia, nel principio del Secolo III. Da quest’Opera si rileva ch’egli era sin d’allora bene istruito nella religione. Aveva moglie, come apparisce da due libri, ch’egli le indirizza. Non si può dubitare ch’ella non sia stata Cristiana, perché in uno dei libri suddetti l’avverte che se Dio lo chiamasse a sé prima di lei, ed ella volesse rimaritarsi, era obbligata a sposare un Cristiano, poiché S. Paolo a questa sola condizione solamente permetteva le seconde nozze. Egli meritò, separatosi già dalla moglie, per la sua dottrina e virtù morali d’essere innalzato al Sacerdozio, ma non si sa 1’anno della sua Ordinazione. Tertulliano trovandosi a Cartagine, scoprì 1’eresia, che Prassea seminava contro la fede della Trinità. Prassea vedendosi scoperto, ritrattò il suo errore. Questa è l’unica cosa che sappiamo di lui mentre era Cattolico. – Tertulliano aveva un ingegno vivace, ardente e sottile. Benché egli parli poco vantaggiosamente dei propri studi, i suoi libri provano a sufficienza che aveva studiato tutte le scienze. L’elocuzione sua è un po’ dura, ma sovente accompagnata da una nobiltà, da una vivacità e da una forza che destano meraviglia. Si vede ch’egli aveva molta lettura di S. Giustino e di S. Ireneo. Tertulliano disgraziatamente non perseverò sino alla fine; l’invidia, dice S. Girolamo, e qualche male trattamento ricevuto dai compagni, lo precipitarono negli errori di Montano e spregiò le censure della Chiesa. Si crede da alcuni che fosse tratto in quel partito da Proclo, famoso Montanista, che aveva gran riputazione d’ eloquenza e di virtù. Tertulliano aveva anche una severità naturale, che lo portava sempre al maggior rigore; e quindi non è da stupirsi ch’egli sia stato sedotto da una setta di eretici, che vantava di menar una vita più austera e di custodire una continenza più esatta che i medesimi Cattolici: ma ad onta di ciò egli continuò a recare grandi benefici al Cristianesimo, combattendo tutte le eresie. D’altronde non ostante questi errori nei quali cadde, e che portarono la rovina della sua grand’anima, i libri che scrisse nel seno della Chiesa, non cessano di essere un prontuario di profonda teologia, ed Egli sarà sempre uno dei più rinomati Apologisti della Religione Cristiana. Tertulliano morì nel 245.

OPERE

Non v’ha quasi scritto di Tertulliano, in cui non s’incontrino opinioni poco esatte, o almeno espressioni dure e singolari. Spira nondimeno tanta devozione da tutto ciò ch’egli ha composto, essendo Cattolico, e tanta forza e sublimità e penetrazione in quelle Opere nelle quali prende a difendere la verità, anche dopo la sua diserzione, che la lettura può esserne sempre utile: ma fa d’uopo avere di molti lumi per distinguere i buoni raziocini dai meno esatti, dei quali talvolta usa servirsi. – Possono essere divise in tre classi le Opere di Tertulliano: 1. Quelle che ha composto contro i Pagani. 2. Quelle nelle quali combatte contro gli Eretici. 3. Finalmente quelle che destinò all’istruzione dei Fedeli. Le di lui opere di pietà sono: 1.° I trattati del Battesimo, della Penitenza, dell’Orazione, della Pazienza, contro gli spettacoli, e dell’ ornamento delle donne. – 2.° Il trattato delle prescrizioni. Le varie sètte di eretici antiche e recentemente nate, che disonoravano il nome Cristiano ai tempi di Tertulliano, lo indussero a scrivere questo Trattato. Questa voce è tolta dalla giurisprudenza, ed è una ragione di non procedere a trattare del merito delle pretese altrui, fondate sul quieto possesso d’ un gran numero di anni. – 3. La sua “Apologia per la Religione Cristiana contro i Pagani”. È questa la più celebre e la più importante Opera di Tertulliano. Egli ha trattato la materia profondamente, a dato un colpo fatale all’Idolatria. Duolsi dapprima che vengano condannati i Cristiani senza essere uditi; nel tempo che la libertà di difendersi viene accordata anche ai maggiori scellerati. Egli è quindi ben chiaro, dice egli, che l’odio è al nostro nome. La confessione di Cristiano basta per farci condannare; ella sola ci espone all’odio pubblico; e l’odio di questo nome è sì cieco nella maggior parte degli uomini, che dicendo bene d’uno di noi vi mescolano sempre rinfacciamenti del nome: È una buona persona il tale: ma è un peccato che sia Cristiano ecc. Vi è nel suo Apologetico una parte sì sublime che stimo necessità trascriverla interamente. “Io ne chiamo in testimonio, (dice egli) i vostri atti, o voi che presiedete tutti i giorni al giudizio degli accusati; qual seduttore, qual ladro, qual assassino, qual sacrilego, è egli iscritto come Cristiano nei vostri registri ? O allorché i Cristiani compariscono in questa qualità davanti a voi, chi tra di loro è trovato colpevole di questi delitti? È dei vostri che rigurgitano le prigioni e le miniere; è dei vostri che s’ingrassano gli animali; è fra i vostri che gli appaltatori dei massacri reclutano incessantemente quei branchi di rei destinati ai vostri divertimenti. Colà nessun Cristiano, o per essere solo Cristiano. Se egli è incolpato di un altro delitto, da quell’istante non è Cristiano. Noi soli dunque siamo innocenti. Perché sorprendersene, quando è per noi una necessità di esserlo? Sì, ella è per noi una necessità. Istruiti da Dio, noi conosciamo perfettamente la virtù, che un maestro perfetto ci rivela, e la pratichiamo fedelmente per ordine, e sotto gli sguardi di un giudice formidabile. Tra voi essa è insegnata dall’uomo. Voi non potete dunque né come noi conoscerla, né come noi praticarla: tutto vi manca, e la pienezza della verità, e la terribile sanzione del dovere. Che è la sapienza dell’ uomo per mostrare ciò, che è veramente utile? Che è la di lui autorità per condannarlo? l’una s’inganna sì facilmente, come facilmente si disprezza 1′ altra. Ed in realtà qual è il precetto più completo, quello che dice: tu non ucciderai, o quello che proibisce eziandio la collera? Qual è il più perfetto di vietar 1’adulterio, o la semplice concupiscenza degli occhi, le azioni cattive, e puranco le parole maligne? Di proibire l’ingiuria, e d’inibire eziandio di vendicarla? e ancora sappiate, che ciò che sembra tendere alla virtù nelle vostre leggi, esse lo hanno ricevuto da una legge più antica, dalla legge divina. Tuttavia che è in sostanza 1’autorità delle leggi umane, che 1’uomo elude celando il suo delitto, e che affronta volontariamente, o per necessità? Considerate inoltre la brevità del supplizio, che la morte termina, qualunque egli siasi. Per noi che dobbiamo essere guidati da un Dio che tutto vede, e che sappiamo che le sue punizioni sono eterne, noi abbracciamo solo la virtù, e perché perfettamente la conosciamo, e perché non sono vi ombre dense abbastanza per nascondere il delitto, ed a motivo della grandezza del supplizio, lungo non solo, ma eterno. Noi temiamo il supremo Giudice, noi temiamo Iddio, e non il Proconsole, (Capp. XXXVI, XXXVII, XXXVIII). 4. I due libri ai Gentili, dei quali il soggetto è lo stesso, che quello dell’Apologia. Libri che scrisse nel medesimo tempo, vale a dire in uno dei primi anni del 3.° secolo. – 5. Il libro della testimonianza dell’anima, che tratta della medesima materia, poiché non fa che stendere ciò che aveva detto nell’Apologia in poche parole a proposito della testimonianza, che 1’anima rende naturalmente all’esistenza di un Dio solo. Anche lo scopo n’è il medesimo, cioè la difesa della Religione Cristiana. Le altre opere di Tertulliano sono per la maggior parte state composte dopo la sua caduta. Debbonsi distinguere quelle nelle quali attacca la Chiesa Cattolica, da quelle nelle quali combatte gli eretici relativamente ad alcune verità, su delle quali i Montanisti e i Cattolici erano d’accordo. Queste ultime contengono cose pregevolissime. Così: 1. Il Trattato contro Marcione, merita d’ essere guardato come un tesoro d’antica Teologia — 2. Il Trattato contro Prassea, in cui Tertulliano difende la fede della Trinità SS.a a fronte di quell’eretico, che, dopo d’avere abiurato il suo errore, vi ricadde di nuovo. Gli scritti di Tertulliano condannati dalla Chiesa sono: i libri della Monogamia, dove condanna come illecite le seconde nozze — della Pudicizia, dove sostiene, che chi ha violato le leggi della castità non può essere riconciliato con Dio – quello dell’Anima, in cui dice ridicole cose della di lei natura. Quello del Pallio, e prende a dimostrare che aveva avuto ragione di lasciare la veste romana per assumere il pallio filosofico. V’ha molta erudizione in quest’Opera, non vi è cosa contro la Chiesa, ma non vi si trova tutta la gravità e saviezza che si vorrebbe aspettare da un uomo di riputazione sì grande. Nei libri della Corona e della Fuga egli insegna contro il sentimento dei Cristiani che non era permesso ai soldati cristiani di portare sul capo una corona d’alloro, né di fuggire la persecuzione. Scrisse finalmente sei libri intitolati dell’estasi, il soggetto dei quali si è di sapere se i Profeti veri conservavano sempre la libertà dello spirito e del giudizio, come dicevano i Cattolici contro Montano. Questi sei libri sono perduti, come anche la risposta ch’egli fece a S. Apollonio, che li aveva confutati. Tertulliano pretendeva che Dio per un effetto mirabile della sua provvidenza, avesse di nuovo mandato lo Spirito Santo, e riempitene i suoi servi come aveva promesso loro per bocca di Gioele; ch’Egli aveva preparato questo rimedio contro l’incredulità degli eretici e la debolezza dei Cattolici ch’egli chiama psichici, cioè, carnali. Tertulliano si divise finalmente dai Montanisti, e fece Assemblee particolari; vi erano ancora suoi seguaci a Cartagine 200 anni dopo, e Dio si servì di S. Agostino per farli rientrare in grembo alla Chiesa Cattolica. – Abbiamo varie edizioni delle sue Opere. Quelle di Rigault e Pamilins sono le più stimate.

J.-J. Gaume: IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (15)

CAPITOLO XXIX

DISEGNO D’UNA BIBLIOTECA CLASSICA CRISTIANA

Allevare i giovinetti nello spirito della società, di cui essi sono i figliuoli e di cui esser devono i continuatori, tale è la prima legge che il buon senso indica ad ogni popolo. Allevare cristianamente i membri d’una società cristiana, è l’applicazione necessaria di questa gran legge. L’educazione si fa colla trasmissione delle idee; la trasmissione delle idee si fa colla parola scritta o parlata. La parola scritta, la sola di cui qui ci occupiamo, si fa coi libri che si pongono in mano al giovinetto, dei quali lo si forza a nutrirsi durante più anni, che gli sono spiegati con cura, che gli si presentano come modelli, che è obbligato di sapere a menadito, in guisa di riprodurli nel suo linguaggio, e d’invocarli al bisogno come confermazione dei suoi pensieri e dei suoi giudizii. Tutti i popoli capirono l’influenza decisiva di questa parola scritta, sui destini dell’avvenire. I cristiani parteciparono come gli altri, dirò più degli altri, a questo buon senso che fa dipendere le idee ed i pubblici costumi dall’insegnamento dato alla gioventù. Gelosi di conservare intatto il sacro deposito della religione, essi allontanarono con un’estrema sollecitudine dalle labbra delle generazioni nascenti la tazza, per splendida che fosse, la quale contenere potente veleno. Questa condotta ò una legge, alla quale bisogna che noi ritorniamo sotto pena di perire. Ora, lo vedemmo, i soli libri classici, messi in mano alla gioventù dai padri nostri, sono: le Sacre Scritture, gli Alti dei martiri, e le opere dei Padri e dei Dottori della Chiesa. L’ammirabile loro sapienza si mostra qui sotto due aspetti ben gloriosi. Cristiani prima di tutto, e riconoscendo l’esistenza di una letteratura cristiana, come si riconosce, aprendo gli occhi, l’esistenza del sole, essi volevano che i loro figliuoli destinati ad essere cristiani come i padri loro, imparassero dapprima la lingua e la letteratura della società cristiana. Di più, sapevano che l’educazione è il tirocinio della vita. Per loro, la vita era cosa seria. Essa era una lotta continua, una lotta gigantesca, una lotta a morte contro il male. Sotto pena di essere vinto ed infelice di qua e di là dalla tomba, ogni cristiano deve essere un eroe. Nessuna cosa pareva loro più propria a fare dei loro figliuoli tanti eroi, quanto i possenti insegnamenti usciti dalla bocca di Dio stesso; quanto gli eroici esempi dei loro avi; quanto i sublimi incoraggiamenti di quegli immortali dottori, di quei Santi dell’Oriente e dell’Occidente che parlano colla triplice autorità della scienza, dell’eloquenza e della virtù. Cinquanta generazioni, come il mondo non ne vide mai, sono il glorioso monumento della giustezza del loro calcolo. – Fortemente nutriti del sugo cristiano, i loro adolescenti ottenevano il permesso di percorrere il mondo pagano, d’interrogare i suoi uomini, le sue arti, i suoi monumenti, i suoi costumi e le sue leggi. I nuovi ebrei potevano allora visitare l’Egitto, non solo senza correre pericolo di diventare suoi schiavi, ma ancora con la giusta fiducia d’impadronirsi delle sue ricchezze, per farle servire all’ornamento del tabernacolo. Così si trovavano conciliali e l’integrità dello spirito cristiano, ed il compiuto sviluppo della scienza. È chiaro: per i nostri padri tutto cominciava, tutto finiva colla religione. Tale è, per mille motivi, il cammino al quale bisogna imperiosamente ritornare. – Dapprima, pei popoli, quali essi siano, la religione è tutto. Il libro che la insegna deve essere il primo nelle mani del fanciullo, e l’ultimo nelle mani del vecchio. Tranne nei nostri tempi moderni, che non sono caduti nel caos se non per averla sconosciuta, sempre e dappertutto questa verità fu compresa e praticata. – Fra gli Ebrei, la Bibbia era tutto. Con la tradizione che la spiega, essa compone la scienza nazionale. Difesa sino al sangue, essa è rispettata come l’arca santa, amata come la patria. Fra i Maomettani, la legge del Profeta, accompagnata da qualche commento, è il libro unico. In questo libro il fanciullo impara a leggere, il giudice cerca la ragione delle sue sentenze, l’uomo d’ogni condizione e d’ogni età la sua regola di condotta. Libro sacro! Quando i fanciulli sono giunti a conoscerne un capitolo, è un avvenimento, che si celebra con una pubblica festa. Posto su d’un ricco veicolo, circondato da faci, il libro nazionale è portato in trionfo nelle vie, seguito dai fanciulli e dai maestri, salutato con rispetto dai parenti e dalla intera popolazione: la gioia è nel cuore della società, di cui questa manifestazione annuncia la perpetuità dello spirito che l’anima. Dopo lo studio d’ogni capitolo, la festa ricomincia. – Ora, per le nazioni cristiane, l’Evangelio è lutto: esso è la loro vita intellettuale, morale, domestica, civile, politica, letteraria, artistica, scientifica; in questo immenso oceano di luce esse devono vivere come il pesce nel mare. La Chiesa cattolica, loro madre, non cessa di proclamare questa grande verità. Non una vi ha delle sue solenni adunanze, in cui essa non collochi su d’uno splendido trono il libro degli oracoli religiosi e sociali. Pure, bisogna dirlo, da più secoli l’Evangelio è nulla, o quasi nulla nella nostra pubblica educazione. Come stupirsi ch’esso sia più nulla o quasi nulla nelle idee e nei costumi? Come stupirsi, in altri termini, che noi cessiamo d’essere cristiani? O ritornare a resipiscenza, o morire. Di più, lo stato presente del mondo non permette, a questo proposito, né ritardo né concessione. La rapida formazione di due grandi unità, quella del bene e quella del male, regine dell’avvenire senza rivali, non è più un problema per nessuno. Innalzato all’ultima sua potenza, il male si formula oggidì con una negazione assoluta. Una negazione assoluta non può combattersi se non da un’affermazione egualmente assoluta. Il Cattolicesimo, il Cattolicesimo in tutta la sua integrità, il cattolicismo professato da martiri, può solo lottare contro la società del male. Ma una cosa sola può ricondurre in tutto il suo vigore ed in tutta la sua purezza il Cattolicesimo in seno all’Europa, cioè un’educazione fortemente cattolica. – Simile educazione non è possibile se non con classici cristiani. Per conseguente, noi supplichiamo che si voglia ben ripigliare per evangelio, in fatto di educazione, la condotta dei secoli cristiani. Ciò posto, ecco le nostre idee ed il nostro disegno. – Pei popoli cristiani, noi l’abbiamo detto, l’Evangelio è tutto. Tutto deve uscire di là, tutto deve ricondurre colà. Intorno a questo divino perno deve evidentemente girare tutto quanto il sistema della educazione. Ora, l’Evangelio è un centro posto in mezzo al mondo, al quale riescono per due correnti opposte i secoli che lo precedono ed i secoli che lo seguono. Per iniziare il fanciullo alla conoscenza dell’Evangelio, noi gli facciamo studiare nel più bello fra i libri la preparazione quattro volte secolare di questo gran fatto. I magici racconti della Bibbia, non già in un latino del secolo 18°, ma nel latino primitivo e consacrato della Volgata, diventano il primo libro della sua vita di collegio, come furono il primo libro della sua vita di famiglia. Di più, l’Evangelio è un codice, ed il fanciullo lo studia. Ogni codice vuol essere spiegato. Le opere dei Padri ne sono il commento verbale il più perfetto, ed il fanciullo se ne nutrisce. Gli Atti dei Martiri e dei Santi ne formano la spiegazione pratica, ed il fanciullo la conosce; e la sua vita diviene evangelica. Tale è il principio che ci ha servito di bussola. Quanto al nostro disegno, eccolo in poche parole:

1° Supponendo che si mantenga la divisione per classi, tutti i classici, sino alla quarta inclusive, debbono essere cristiani. È d’uopo tutto quel tempo, almeno coll’attuale metodo d’insegnare le lingue, per insegnare convenientemente il latino cristiano ed iniziare allo studio della lingua greca cristiana. Inoltre esso è necessario per nutrire fortemente di Cristianesimo le giovani generazioni, uscite troppo spesso da famiglie poco cristiane e destinate a vivere in una società che è ancor meno cristiana.

2° Partendo dalla terza sino alla rettorica, i classici possono essere cristiani e pagani. In questo momento lo studio del paganesimo offre minor pericolo, poiché, secondo il detto di Tertulliano, lo spirito ed il cuore dei fanciulli sono sodamente temprati alle fonti cristiane. D’altra parie, questo tempo basta per studiare e per leggere gli autori profani, in quanto lo richiede l’esame del baccellierato.

3° Quanto alla scelta particolare dei classici cristiani, noi diremo solo qui, che fu deciso, dopo maturo esame e molti consigli, che l’esecuzione letteraria di questo importante lavoro sia affidata ad uomini, i cui lumi e la cui esperienza offrono al clero ed ai laici tutti i pegni di fiducia che si possono desiderare. Possiamo inoltre affermare che nel suo complesso tale scelta è buona, ottima; e lo possiamo affermare senza essere accusati di vana pretensione. Da un lato noi la troviamo indicata anticipatamente da tutta la tradizione cristiana; dall’altro lato essa è formalmente raccomandata dalla Chiesa.«L’uomo essendo inclinato al male sin dalla puerizia, dice il 5° Concilio generale del Laterano, l’educazione della gioventù è cosa della maggiore importanza. Perciò noi decretiamo e regoliamo che tutti i maestri di scuola ed i professori siano tenuti non solo d’insegnare ai fanciulli ed ai giovani la grammatica, la retorica ed altre cose simili, ma eziandio che siano obbligati ad istruirli nella religione, ed a far loro conoscere gli inni sacri, i salmi e le vite de Santi; di più, è loro proibito, nei giorni festivi, di insegnare a quelli altra cosa, tranne ciò che spella alla religione ed ai buoni costumi (Conc. Laler. V, sess. VIII, an. 1512). Più tardi noi sentiamo il santo Concilio di Trento, questo grande ristoratore della Chiesa e della società, esprimersi in termini non meno formali sulla necessità dello studio classico della Scrittura, non solo nei seminari, ma ancora nei collegi o pubblici ginnasi. I motivi sui quali si appoggia l’augusta assemblea sono gli stessi da noi esposti nel corso di quest’opera: lo studio del codice sacro è necessario alla difesa ed all’accrescimento della fede, alla conservazione ed alla propagazione della sana dottrina; in una parola, se non si nutre di Cristianesimo la gioventù, la società cesserà d’essere cristiana (Sess. V). Tale è il giudizio dell’immortale Concilio. – Il lettore vedrà che noi non siamo novatori: i novatori sono quelli che introdussero il paganesimo nell’educazione; né uomini d’immaginazione e discepoli del nostro senso privato : gli uomini d’immaginazione sono quelli che credono conservare cristiane le generazioni da essi saturate di paganesimo ed alle quali lasciano ignorare il cristianesimo; i discepoli del senso privato sono quelli che, spregiando e la pratica costante delle età di fede ed i precetti della Chiesa universale, impongono le loro teorie siccome regole infallibili. Si concederà pure, amiamo sperarlo, che i l bisogno il più imperioso del tempo nostro quello sia di rendere cristiana la educazione, e per conseguenza di familiarizzare di buon’ora le nascenti generazioni con le idee, con gli uomini, con i fatti, con gli esempi, con le massime, con gli scritti, in cui trovasi con maggiore abbondanza e purezza il sugo vivificatore del Cristianesimo. Finalmente, quando la scelta dei classici sarà conosciuta, si concederà, lo speriamo, che la indicata biblioteca sia tale da raggiungere questo scopo necessario. – Ma non si mancherà di chiederci perché noi la pubblichiamo, mentre già si pubblicano classici cristiani? Non è forse ciò un voler fare un libro a fianco ad un libro parimente buono? Ecco in due parole la risposta. Noi pubblichiamo siffatta biblioteca, perché cosa indispensabile il dare all’insegnamento un seguito logico che assicuri il buon esito dello studio, graduando il lavoro, ed uno sviluppo sufficiente per nutrire di Cristianesimo tutte le facoltà della gioventù, dal suo entrare in collegio sino al suo uscirne. – Ora, i saggi comparsi sinora, sebbene utili in sé, sebbene concetti colle più lodevoli intenzioni, ci sembrano lungi dal soddisfare alla doppia condizione. Da un lato essi si limitano ad alcuni tratti isolati, che annegati in mezzo ai libri pagani, non possono dare alcun serio risultato né sotto il riguardo letterario, né sotto il riguardo morale. I pregevoli autori di quegli opuscoli non tennero conto abbastanza, almeno così ci sembra, dell’esistenza benissimo distinta delle due lingue latine. S’essi l’avessero riconosciuta, come non avrebbero essi visto che, facendo camminare di pari passo lo studio del latino cristiano e lo studio del latino pagano, il giovinetto non imparerebbe altro che un gergo, barbara composizione dell’idioma cristiano e dell’idioma pagano? Non è forse ciò un voler fare studiare in pari tempo l’italiano e lo spagnolo, per esempio? Questo miscuglio, sgraziato nel risultato, accresce singolarmente la difficoltà nella pratica. Quale confusione ancor più deplorevole non deve produrre nello spirito del giovinetto lo studio simultaneo delle idee pagane e delle idee cristiane? Dove sarà per esso la pietra di paragone che gli farà discernere la vera virtù, la vera gloria, la vera saggezza, da quella che non ne ha che l’apparenza? Prima di lasciargli frequentare i pagani, aspettate (come vuole san Basilio) ch’egli sia fortemente cristiano. – Considerato sotto un altro riguardo, questo miscuglio di Cristianesimo e di paganesimo è un sistema all’atto logoro. Al punto in cui siamo, non vi sono più oggidì nella educazione, nonché in religione, in politica, in filosofia ed in tutto il rimanente, se non due sistemi in piedi: il sistema cristiano ed il sistema pagano; cattolicesimo o socialismo; tutto o nulla. Uomini e cose, tutto ciò che non è , tutto ciò che non sarà francamente l’uno o l’altro, o non conta più, o è morto prima d’essere nato. D’altra parte, i trattati o brani, di cui si tratta, mancano di gradazione logica. Infatti, essi offrono a studiare, ad esempio, S. Girolamo prima di S. Gregorio. L’opposto deve avere luogo. L’immortale pontefice è il tipo della bella latinità cristiana. Soltanto dopo averlo bene studiato si può, senza pericolo pel gusto letterario, passare a S. Girolamo, il cui stile rammenta ancora spessissimo la forma pagana. I l dottore di Betlemme deve essere la transizione tra la lingua cristiana e la lingua pagana. Tale è i l posto ch’egli occupa nella nostra biblioteca.

CAPITOLO XXX

VANTAGGI PARTICOLARI DI QUESTA BIBLIOTECA

Facendo rientrare logicamente, gradualmente, compiutamente il Cristianesimo nella educazione, noi facciamo rientrare negli animi il gusto del bello, poiché, amiamo dirlo di nuovo, il bello è lo splendore del vero. Questo scopo, oggidì sì desiderevole, è raggiunto in modo tanto più certo in quanto tutti i nostri classici sono, sotto il punto di vista meramente letterario, al di sopra d’ogni paragone. Ci sia permesso d’insistere su questo punto importante. L’influenza del paganesimo fu tale che un gran numero di persone perdettero il gusto del bello in fatto di letteratura cristiana, ancor più che non in fatto di pittura e di architettura. Ora, lo ripetiamo; la Sacra Scrittura, gli Atti dei Martiri e le opere dei Padri, tali sono i modelli che noi proponiamo alla gioventù.

La Scrittura. Se l’eccellenza dello stile dei libri sacri su quanto noi abbiamo di più perfetto fra i migliori scrittori di ogni tempo, potesse essere dubbia agli occhi di qualcheduno, o prevenuto, o superficiale, o indifferente, noi lo preghiamo di meditare il seguente passo di un autore non sospetto. Ecco il paragone che Sterne fa tra l’eloquenza profana e l’eloquenza Sacra: « V’hanno, dice il celebre scrittore inglese, due sorta di eloquenza, una delle quali appena ne merita il nome. Essa consiste in un numero fisso di periodi acconciati e compassati, e di figure artificiali, in diamantate di paroloni pretensiosi. Questa eloquenza abbaglia, ma rischiara poco l’intendimento. Ammirata, affettata dai semi-dotti, il cui giudizio è così falso come ne è viziato il gusto, essa è del tutto estranea agli scrittori sacri. Se fu sempre riguardata come al di sotto dei grandi uomini di ogni secolo, quanto (a più forte ragione) dovette sembrare indegna di quegli scrittori che lo spirito d’eterna sapienza animava nelle loro veglie, e che dovevano raggiungere quella forza, quella maestà, quella semplicità che l’uomo solo non raggiunse mai! « L’altra sorta di eloquenza è affatto contraria a quella che ho censurato, e caratterizza veramente le Sacre Scritture. La sua eccellenza non deriva da un linguaggio lavorato e recato da lungi, ma da un misto meraviglioso di semplicità e di maestà: doppio carattere così difficilmente riunito, che ben raramente si trova nelle composizioni puramente umane. Le sacre pagine non sono caricate di ornamenti superflui ed affettati. L’Essere Infinito, avendo voluto acconsentire a parlare il nostro linguaggio per recarci la luce della rivelazione, si compiacque dotarlo di quelle forme naturali e graziose, che penetrar dovevano nelle nostre anime. – « Osservate che i più grandi scrittori dell’antichità, vuoi greci, vuoi latini, perdono infinitamente delle grazie del loro siile quando sono tradotti nelle nostre lingue moderne. La famosa apparizione di Giove nel libro I di Omero, la sua pomposa descrizione d’una tempesta, il suo Nettuno che fa crollare la terra e che la squarcia per metà sino al suo centro, la bellezza dei capelli della sua Pallade; tutti questi passi, in una parola, ammirati di secolo in secolo, appassiscono e spariscono quasi del tutto nelle traduzioni latine. Si leggano le traduzioni di Sofocle, di Teocrito, di Pindaro stesso: vi si troverà egli altro se non alcune vestigia leggiere delle grazie che ci rapirono negli originali? Concludiamo con dire che la pompa dell’espressione, la soavità dei numeri e la frase musicale costituiscono la maggior parte delle bellezze dei nostri classici autori, mentre quelle delle nostre Scritture consistono piuttosto nella grandezza, delle cose stesse che non in quella delle parole. Le idee vi sono così sublimi di loro natura, che devono sembrare sublimi per necessità nel loro modesto abbigliamento: esse brillano attraverso le più deboli e le più letterali traduzioni della Bibbia ». Quale eloquenza più degna delle anime serie e dei popoli cristiani!

Gli Atti dei Martiri. Dopo la Scrittura, nulla vi è più degno d’ammirazione e di rispetto degli Atti dei Martiri. Se i libri sacri sono dovuti all’ispirazione di Dio stesso, le risposte dei martiri agli interrogatori dei giudici furono, giusta la promessa del Salvatore, dettate dallo Spirito Santo. Sotto il punto di vista puramente letterario, esse presentano lo stesso genere di bellezze della Bibbia. La semplicità delle parole e l’eloquenza delle cose ne formano i l continuo e sublime carattere. In faccia ai padroni del mondo, armati di sofismi, di minacce, di promesse, seguiti da un lungo corteggio di littori, di proconsoli, di prefetti, di giudici, di carnefici e di belve feroci, voi scorgete uomini del popolo, donne, fanciulli, poveri schiavi ridurre al nulla, colla semplicità, colla fermezza, colla chiarezza del loro linguaggio, i sofismi dei filosofi, le questioni capziose dei magistrati, i discorsi patetici dei parenti afflitti. A misura che il coraggio del martire s’innalza all’eroismo, il suo carattere si spiega, la sua parola sfavilla in tratti della più sublime eloquenza. Diventando più stringente, il dialogo diventa più vivo, più interessante. E la grandezza della causa che si discute, ed il contrasto tra la forza del tiranno e la debolezza della vittima, tra la brutalità ed il furore dell’ uno, e l’innocenza e la calma dell’altra, tutto ciò commuove alle lacrime i cuori i più freddi, cioè tutto il dramma finisce col raggiungere la più alta poesia. Sublimità e semplicità, unzione e vigore, grazia ed ingenuità, rapidità che trascina e particolarità commoventi, tali sono le doti letterarie che caratterizzano il racconto di quelle tenzoni senza esempio nei fasti del mondo. Da ciò viene che gli Atti de’Martiri, come tutto quello che è veramente bello di fondo e di forma, godono del privilegio di appassionare i fanciulli medesimi e di fare le delizie dei più grandi uomini dei secoli i più celebri. Fra mille esempi potrei recare quello di Santa Teresa; ma tutti lo conoscono. Fra mille testimonianze, citerò solo quella del celebre Giuseppe Scaligero. « La lettura degli Atti dei Martiri, dice quel dotto critico, è sì commovente, che lo spirito non può mai sfamarsene. Ognuno può averlo provato secondo il grado di sensibilità e d’intelligenza di cui egli è dotato; ma per me, confesso che nulla mai lessi nella Storia ecclesiastica, a più forte ragione nella storia profana, che abbia eccitato nel mio cuore moti sì straordinari ad una e sì violenti, che nel lasciare cotal libro non conosco più me stesso (Annot. ad Euseb., Hist. Eccl.) ».

I santi Padri. Quasi sulla stessa linea della Scrittura ispirata da Dio, delle risposte dei martiri dettate dallo Spirito Santo, compaiono i Padri della Chiesa. I loro scritti sono i monumenti i più insigni del Cristianesimo ed i più bei titoli di gloria del genio dell’uomo. Gli insegnamenti, le parole di quegli uomini, se pure si deve dar questo nome a quegli esseri eccezionali che paiono innalzarsi sino al cielo per contemplarvi la verità, sono ben meno gli insegnamenti e le parole di semplici particolari, che non gl’insegnamenti e le parole della Chiesa universale. Ivi i cristiani d’ogni secolo e d’ogni stato possono imparare ciò che si deve rigettare, ciò che si deve conservare, ciò che si deve odiare, ciò che si deve amare, ciò che si deve evitare, ciò che si deve fuggire, ed anche ciò che si deve ammirare sotto il punto di vista puramente umano della poesia e dell’eloquenza. A giusto titolo pertanto quei geni incomparabili, quei grandi uomini, da Dio suscitati per essere insieme i custodi e gli interpreti del Testamento del suo Figliuolo, sono chiamati nella storia gli specchi della eterna luce, gli organi dello Spirito Santo, i troni della sapienza, gli araldi dell’impero di Dio, le colonne della religione, i vendicatori della verità, i modelli della virtù, i duci del popolo cristiano, i maestri del genere umano, le faci della Chiesa, i fari dell’universo. Ma ciò che bisogna notare qui, si è che gli scritti dei Padri non solo sono fonti di sapienza divina, ma anche tesori di eloquenza e d’erudizione d’ogni genere. Su questo punto non v’ha che una voce nel mondo veramente dotto. Persino gli uomini i più classici del secolo il più appassionato pei Greci e pei Romani pagarono il tributo di loro ammirazione al letterario ingegno dei Padri della Chiesa.: « – Un Padre della Chiesa, un Dottore della Chiesa! grida Labruyère: quali nomi! quale tristezza nei loro scritti! quale aridità! quale fredda divozione! E forse quale scolastica! – dicono coloro che non li hanno mai letti. Ma piuttosto quale stupore per tutti coloro che si sono fatta un’idea dei Padri della Chiesa sì lontana dal vero, se vedessero nelle loro opere maggiore Unitezza e delicatezza, maggiore polito e spirito, maggiore ricchezza di espressione e maggiore forza di ragionamento, tratti più vivi e grazie più naturali, che non se ne notano nella più parte dei libri di questo tempo, i quali sono letti con gusto, i quali danno rinomanza e vanità ai loro autori! Qual piacere di amare la religione e di vederla cresciuta, sostenuta, spiegata da sì bei geni e da sì sodi spiriti, specialmente quando si viene a conoscere che, per la copia delle cognizioni, per i principi della più pura filosofìa, per la loro applicazione ed il loro sviluppo, per la giustezza delle conclusioni, per la dignità del discorso, per la bellezza della morale e dei sentimenti, nulla v’è, ad esempio, che paragonar si possa a Sant’Agostino se non forse Platone e Cicerone! (Caratteri, t. 1; Degli Spiriti forti, p. 153.) ». Non voglio cavillare col mio autore; pure sarei tentato di chiedere a Labruyère dove abbia veduto che Platone e Cicerone siano paragonabili a Sant’Agostino per la copia delle cognizioni, pei princìpi della più pura filosofia, per la bellezza della morale e dei sentimenti? Iddio perdoni al Rinascimento, di cui qui vedesi l’influsso sugli animi i più sodi. Da tali considerazioni generali sul merito letterario dei nostri classici cristiani passiamo a qualche osservazione particolare. Faremo notare dapprima che il numero di siffatti scrittori è assai piccolo. L’esperienza dimostra che il mezzo d’imparare una lingua non è già di studiare molti libri, ma di studiarne uno buono, e di studiarlo a fondo, in modo che il pensiero dell’autore e la forma del suo pensiero ritornino naturalmente e senza sforzo allo spirito, quando bisogna pensare, scrivere o parlare. Come da per tutto, qui pure si verifica la massima: Timeo doctorem unius libri. Poscia i nostri classici, già sì poco numerosi, si riducono quasi all’unità; poiché, dopo aver servito allo studio della lingua latina, servono ancora allo studio della lingua greca. Noi amiamo credere che nessuno dubiti dell’immenso vantaggio che ne deriva. Da un lato, il giovinetto vi trova grande facilità per imparare il greco, poiché è anticipatamente in relazione cogli autori dei quali già conosce tutti i pensieri; dall’altro lato è quasi impossibile che non conservi gli insegnamenti che gli si danno, sotto forme diverse, durante tutto il corso dei suoi studi. Finalmente i libri indicati come soggetti di lettura latina e greca daranno, se utile si crede, tutta la desiderabile varietà al lavoro del giovinetto. In pari tempo che gli faranno conoscere il modo dei vari autori, lo obbligheranno ad acquistare una seria cognizione delle letterature greca e latina. Ecco il nostro pensiero: Noi desideriamo che si appianino al possibile le difficoltà che s’incontrano nel cammino del discepolo; che sia liberato dal lavoro sì lungo, sì fastidioso e quasi sempre sì ingrato e talvolta sì pericoloso, di sfogliettare i dizionari. Basta per ciò dargli a viva voce sia il senso preciso di una parola, sia la spiegazione di una cosa ch’egli cercherebbe a lungo senza sicura speranza di trovarla egli stesso. Nulla pare più conforme di ciò al cammino della Provvidenza nello studio delle lingue, né più efficace per farvi rapidi progressi, preservandolo dal doppio flagello della nausea e della noia. Nondimeno, siccome si dovrebbe temere che tale metodo rendesse pigro l’intendimento, questo pericolo si sfugge facendo fare al giovinetto letture greche e latine, ch’egli solo deve capire e di cui è obbligato a rendere conto. – Aggiungeremo ancora (tanto oggidì ci pare necessario di cristianizzare l’educazione) che bisogna insegnare cristianamente anche gli autori pagani. Ecco come riuscirvi. Invece di darli, come troppo sovente si fece dopo il Rinascimento, per modelli finiti di virtù reali, bisogna avere cura di far notare l’imperfezione della loro sapienza, della loro forza, della loro prudenza, della loro temperanza, delle loro intenzioni e dei loro sensi, paragonando tutte queste cose con gl’insegnamenti della fede. Suppongo, ad esempio, che si spieghi il trattato De Amicitia di Cicerone. Per far risaltare l’inferiorità dell’amicizia naturale, si leggeranno i precetti di carità quali sono esposti nel catechismo del Concilio di Trento, oppure si mostreranno i veri caratteri di questa virtù, spiegando il 13° capitolo di San Paolo, nella prima ai Corintii. Parimente, quanti vantaggi pel discepolo, se alla lettura dei Commentarli di Cesare si unisse la spiegazione delle guerre sante di Giosuè, di Davide e dei Maccabei! Da un lato, il fanciullo vede e la giustizia che deve presiedere alla guerra, e la Provvidenza e la forza del braccio di Dio; dall’altro, gli errori dei grandi capitani del paganesimo, i quali per una vana gloria o per un vile interesse si credevano in diritto di sguainare la spada e di recare la desolazione per tutto l’universo. Quali sapienti, quali santificanti confronti da stabilire tra gli eroi della Grecia e di Roma, ed i grandi imperatori e i grandi capitani cristiani: Teodosio, Carlo Magno, San Luigi, San Stefano d’Ungheria, Vasco de Gama, Albuquerque e molti altri! Finalmente la superiorità del Cristianesimo spiccherà di per sé, se il professore avrà cura, quando s’imbatte in un sentimento od in un principio erroneo di un autore pagano, di provarlo alla pietra di paragone dell’Evangelio. Così, quando Cicerone si loda di per sé, o quando prodiga lodi altrui, bisogna dimostrare che quella lode è falsa, indegna di un’anima cristiana, che cercar deve per ricompensa non già l’adulazione, ma la vita eterna, e deporre tutte le sue corone ai piedi di Colui, da cui proviene ogni dono perfetto. Così ancora, quando Cicerone nei suoi Officii dice che nessuno deve vendicarsi, a meno che non sia provocato, o che non abbia ricevuto un insulto; qual magnifico campo aperto al professore per dimostrare la superiorità della legge cristiana, e per spiegare agli occhi dei giovinetti i grandi dettami del Calvario! – Ecco pel fondo. Che dirò io della forma? Facendo ammirare la frase numerosa di Cicerone, il maestro avrà cura di dire che tutta quella abbondanza di parole, che tutta quella pompa asiatica, oltre ad essere lontana dal convenire ad ogni argomento, è spesso indegna del cristiano, il quale sa che l’eloquenza ben più si trova nelle cose che non nelle parole, e che la parola fu data all’uomo, non già per procacciargli vane lodi, ma per servire alla gloria di Dio ed al vantaggio del prossimo. – Questo semplice saggio ci sembra bastare per far capire che cosa noi intendiamo per « insegnamento cristiano degli autori profani ». Ci si permetta di fare qui una osservazione di alta importanza. Non solo sui discepoli i classici cristiani possono esercitare il più salutifero influsso, ma ben anche sui maestri. Quasi sempre echi dei due mondi, gli autori cristiani, e specialmente gli Atti dei Martiri, aprono agli occhi dei professori un immenso orizzonte; essi danno loro così il mezzo naturale di sviluppare tutti i loro tesori di erudizione cristiana e pagana, o li obbligano a farne ampia provvigione, per potere soddisfare alle spiegazioni rese necessarie sia dal testo stesso dell’opera, sia dalle domande degli scolari. Per grande che sia, un tal vantaggio è però soltanto secondario. Mentre il continuo studio degli autori pagani inaridisce il cuore e talvolta lo corrompe, falsifica il giudizio, altera il gusto, e rende incompiuto l’uomo; lo studio degli autori cristiani nutre il cuore e lo santifica, forma il giudizio, purifica il gusto, rende pratico l’uomo, e di necessità ne fa un essere utile alla società. Diciamo, per finirla, che lo studio delle lingue vive diventando ognora più generale, e sembrandoci esso entrare nei consigli della Provvidenza sui tempi attuali, crediamo di rendere un vero servigio, osiamo dire, all’Europa intera, facendo dei nostri classici latini e greci altrettanti classici francesi, inglesi, tedeschi, italiani e spagnoli. Tradotti in tutte codeste lingue, non solo ne agevolano lo studio, ma nutrono ancora tutta la gioventù europea dello stesso pensiero, l’abbeverano dell’acqua medesima, la cibano dello stesso pane, la vivificano nello stesso battesimo. Ora, un tal pensiero è eminentemente bello, eminentemente sociale, poiché è eminentemente cristiano. O non rimane più alcun mezzo di ricondurre l’Europa a. quella forte unità di fede che per dieci secoli le valse la possanza, la pace, la gloria; a quei princìpi tutelari d’obbedienza e di abnegazione, senza di cui nessuna società è possibile; o bisogna concedere che il mezzo proposto sia il solo veramente efficace. Sia esso adoperato francamente ed universalmente, e ben tosto saranno uccisi il socialismo, il comunismo e tutti quegli errori spaventosi che minacciano di ricondurci al caos. Voi. avrete resa cristiana l’educazione: l’educazione — noi dimenticate — è la società, è l’avvenire, poiché essa è l’uomo tutto quanto di qua di là dalla tomba.

FINE DELL’OPERA

SAN PANTALEONE MARTIRE

SAN PANTALEONE MARTIRE

27 LUGLIO.

Nel 103 Diocleziano emanò l’editto con cui dava principio alla decima e più terribile persecuzione dei cristiani, durante la quale l’intero mondo romano si trovò immerso nel sangue cristiano. Nicomedia, nell’Asia Minore, vide parecchie migliaia di questi eroi versare il sangue per la fede. Uno dei più illustri fu S. Pantaleone, nato da padre ricco e pagano e da madre cristiana, alla quale però la morte immatura tolse la gloria di istruire il figlio nella vera religione. Pantaleone era uno dei più celebri medici di Nicomedia, caro allo stesso imperatore, quando venne da Dio chiamato alla luce della fede. Incontratosi con Ermolao, sacerdote Cristiano, fu da questi invitato a trattenersi con lui. « Ho una sola ambizione, disse Pantaleone, quella di giungere a guarire tutte le infermità ». Ermolao, approfittando di sì retto ideale, gli annunziava Colui che con un solo cenno risanava ogni sorta di malattie. Il giovane medico, grandemente ammirato, volle essere completamente istruito nella fede e pochi giorni dopo riceveva il Santo Battesimo. Cristiano! sarà il nome che d’ora in poi lo distinguerà. Pantaleone ne intende la gloria, la santità, e la vita che a tal nome deve corrispondere. Imitare Gesù, essere un altro Gesù che ama i fratelli, i poveri, gli afflitti, li consola e li soccorre: ecco il proposito che animerà la sua vita. Distribuì ogni avere ai poveri, rendendosi povero anch’egli, e si dedicò tutto al servizio dei malati che visitava e guariva nel nome santo di Gesù. Intanto l’editto era gettato, la persecuzione infieriva per tutto l’Impero e Pantaleone veniva accusato come cristiano. Condotto allo stesso imperatore non esitò un istante. Confessò d’essere veramente cristiano, e contento di dare il sangue per la fede; che la sua religione gli proibiva di sacrificare ai loro dèi falsi e bugiardi e che perciò non avrebbe bruciato né incenso né altra cosa. Messo alle torture, fu da Dio miracolosamente protetto, e convertì gli stessi carnefici. – Disteso sul cavalletto, torturato e bruciato con torce non ne sentì il menomo danno; gettato in una caldaia di piombo liquefatto, questo, appena toccato dal martire, si raffreddò; si pensò allora di farlo morire annegato e legatogli una grossa pietra al collo, lo gettarono in mare, ma, simile ad un fuscello, la pietra apparve galleggiante liberamente sull’acqua, permettendo al martire di tornare alla riva. L’imperatore, sempre più esasperato, lo fece esporre alle fiere, e queste andarono a cadere mansuete ai suoi piedi, fra l’entusiasmo di tutto il popolo che assisteva. – Pantaleone fu allora sottomesso al supplizio della ruota, ma ne uscì ancora illeso. Diocleziano ricorse al mezzo estremo: lo fece legare ad un olivo, e mandò alcuni carnefici a decapitarlo. Ma un altro strepitoso miracolo doveva glorificare il nostro martire. La spada appena toccato il collo dell’eroe, divenne molle come cera, i carnefici si gettarono ai suoi piedi convertiti, e l’albero si ricoprì di frutti. Pantaleone, desideroso ormai d’entrare nella Patria beata, supplicò i carnefici a troncargli la testa, e così poté finalmente conseguire la palma gloriosa del martirio.

VIRTÙ. — L’invocazione del nome santo di Gesù, torni sovente sulle nostre labbra, e specialmente quando il demonio ci tenta con lusinghiere insinuazioni.

PREGHIERA. — Fa, te ne preghiamo, Dio onnipotente che imitiamo con devozione conveniente la costanza e la carità del tuo beato martire Pantaleone, il quale per la dilatazione della S. Chiesa, meritò di ottenere la palma del martirio. Così sia.

La liquefazione del sangue

 Il 27 luglio e la terza domenica di maggio, a Ravello, perla incastonata nella penisola sorrentina, si verifica il miracolo della liquefazione del sangue contenuto nell’ampolla conservata nel duomo. È questo un segno ancora di benevolenza del buon Dio verso i suoi fedeli che, vicini o lontani, sono chiamati alla preghiera per invocare l’intercessione del Santo martire nelle tragiche vicende odierne, a cominciare dalla totale apostasia dei chierici modernisti. Chissà che il Signore non si impietosisca ed anticipi i tempi della restaurazione della Fede Cattolica e della Santa Madre Chiesa, Una, Santa, Cattolica Apostolica Romana, unica ARCA di accesso alla vita eterna. Che Dio, per intercessione di San Pantaleone, ci esaudisca!

Orémus.

 Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, intercedénte beáto Pantaleóne Mártyre tuo, et a cunctis adversitátibus liberémur in córpore, et a pravis cogitatiónibus mundémur in mente.

 San Pantaleone è patrono dei medici. Così come i Santi Cosma e Damiano è chiamato “anargiro”. Appartiene al gruppo dei quattordici soccorritori ai quali i cristiani ricorrevano in ogni sorta di difficoltà. Il santo ha sempre goduto di una particolare devozione in Italia,ma anche in Austria e in Germania. Alcune reliquie (parti del braccio) sono conservate a Venezia, nel tesoro della Basilica di San Marco. A Venezia vi è una chiesa a lui dedicata, la Chiesa di San Pantaleone (San Pantalon in dialetto veneziano),dove si può ammirare il famoso dipinto “San Pantaleone risana un fanciullo” del Veronese e altri due dipinti che raffigurano il santo: “San Pantaleone che risana un paralitico davanti all’imperatore Massimiano” e la “Decapitazione di San Pantaleone” di Jacopo Palma il Giovane. In Germania San Pantaleone è patrono della città di Colonia.

J.-J. Gaume: IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (14)

CAPITOLO XXVIII

FINE DELLA RISPOSTA ALLE OBIEZIONI

Non contenti all’avere distrutto la prima obbiezione che viene opposta al ritorno dei classici cristiani, dimostrando che la restaurazione generale delle scienze, delle lettere e delle arti è anteriore al Rinascimento, noi prendemmo l’offensiva affermando che quello è l’epoca e la cagione principale del decadimento e della corruzione della lingua latina in Europa. Questo è ciò che ci rimane a provare. Noi non sappiamo più il latino! Ecco quello che ripetono, a chi li vuole ascoltare, gli uomini i più interessati a sostenere il contrario. Vari anni fa, un eminente funzionario della francese Università diceva in una pubblica scrittura: « L’insegnamento è limitato ad un piccolo numero, è inutile e pericoloso per la più parte di coloro che sono compresi in questo numero, è incompiuto e cattivo per tutti. Anche il greco ed il latino, questi oggetti speciosi degli studi collegiali, sono male insegnati: prova ne sia che tutti gli studenti ignorano il greco, e che nessuno sa bene il latino. Del rimanente, per il valore scientifico dell’insegnamento in Francia esiste un’infallibile pietra di paragone: e sono gli esami detti del baccellierato. Ebbene! io lo dichiaro francamente; sette anni fa io diedi per la prima volte di tali esami, e da sette anni in qua non ho trovato un solo candidalo su dieci, che rispondesse soltanto passabilmente (Lettera del sig. Gaziano Attutali, profess. di lat.. alla Facoltà diLettere di Tolosa.) ».Noi non sappiamo più il latino ! Ecco ciò che il senso intimo dice piano ad ognuno di noi! Uscendo di collegio, appena se i più valorosi fossero stati capaci di leggere senza dizionario una pagina di Cicerone o di Tacito; ma per fermo non un solo sarebbe stato nel caso di sostenere una conversazione od una discussione latina un po’ estesa. Oggi è anche peggio; la nostra memoria non conserva del latino se non ricordanze così indebolite, che ad eccezione di coloro i quali fecero, per istato loro, della lettura delle opere latine 1’occupazione ordinaria della loro vita, noi non oseremmo arrischiarci a spiegare un passo d’ un autore alcun che difficile, né forse tradurlo senza traduzione, ed ancor meno scrivere in latino i nostri pensieri. [stendiamo un velo pietoso sul sistema scolastico italiano, nel quale non solo gli studenti sono incapaci di balbettare anche qualche sillaba, ma ancor più gli insegnanti – si fa per dire – non hanno più alcuna nozione delle lingue barbare del passato, sia per ciò che concerne grammatica e sintassi, sia per quanto attiene alla letteratura – ndr. -] Noi non sappiamo più il latino! Ecco ciò che provano i fatti. Che sia vero, ad esempio, che il discorso in latino, pronunciato da tempo immemorabile al gran concorso dei collegi di Parigi da una delle sommità universitarie, si farà d’ora in poi in francese, per risparmiare alla dotta corporazioue i quolibet coi quali il latino dei suoi professori fu accolto da più anni? Che sia vero che uno dei motivi per cui non s’insegna più in latino né la filosofia, né il diritto Romano, sia la difficoltà, non oso dire per il professore, ma pei discepoli, di esprimere chiaramente e facilmente i loro pensieri in tale lingua? Non solo noi non sappiamo più né parlare, né scrivere latino, ma neppure giudicarne. Il fatto seguente è noto a tutta Francia. – Verso l’anno 1825, il dottissimo cardinale Mai, bibliotecario di Propaganda, scoperse una parte della Repubblica di Cicerone e la fece stampare. Alcuni esemplari ne giunsero a Parigi. Fra le persone, nelle cui mani vennero dapprima, eranvi un sostituto d’uno dei grandi collegi della Capitale ed un padre di famiglia, il cui figliuolo seguitava il corso di esso collegio. Ora, il maestro aveva giudicato conveniente di tradurre in francese una pagina ritrovata di Cicerone e di darla per tema ai suoi discepoli: egli era sicurissimo che nessuno potrebbe saccheggiare (copiare altrove il lavoro). Il padre, esaminando a caso il tema di suo figlio, conosce donde fu tolto e detta ei medesimo al figliuolo la pagina latina di Cicerone. La copia viene rimessa con le altre. Il sostituto trovandosi occupato, il tema è corretto dal professore titolare, che non sa donde sia stato tolto. Dopo un maturo e coscienzioso esame, ei riconosce che cinque discepoli avevano tradotto meglio che non colui il quale aveva copiato; in modo che Cicerone non fu se non il sesto della classe di colui! – Noi non sappiamo più il latino! Eppure si consacrano sei o sette anni ad impararlo; si spendono in libri ed in professori somme immense. Sembra, vedendo la grande importanza che è data a questo studio, che noi dovremmo essere i più solenni latinanti del mondo. Donde mai deriva siffatto indebolimento nella conoscenza d’un idioma sul quale riposa però tutto quanto il sistema della nostra pubblica istruzione ? Oltre varie cagioni, la cui esposizione ci trarrebbe troppo lungi, una ve n’ha che devo indicare, sia perché è la prima, sia per giustificare la proposizione enunciata più sopra. Lo studio d’una lingua morta presenta già di per se difficoltà abbastanza grandi. Queste difficoltà crescono quando la lingua da studiare è quella di un popolo, le cui idee, i cui sentimenti, la cui religione, le cui istituzioni, i cui usi, la cui vita pubblica e privata sono totalmente diverse dalle nostre. Il giovinetto non trova né nella sua prima educazione, né nella società in mezzo alla quale egli vive, alcuna o quasi alcun’idea corrispondente a quella del mondo di cui è condannato a studiare la lingua; egli deve indovinare ed il senso delle parole ed il senso del pensiero. In questo mondo affatto nuovo per lui, egli non sa come orizzontarsi; il più delle volte cammina a tastoni, si vede fermato da difficoltà insormontabili ch’egli sfugge cadendo in contro-sensi, e finisce con disgustarsi di uno studio che rimane sempre per lui come una fatica, senza mai essere un piacere. – Ecco (ne chiedo a testimoni tutti coloro che fecero le loro classi), ciò che avvenne ad ognuno di noi. Lo stesso succedette a tutti i nostri predecessori dopo il Rinascimento del paganesimo letterario. Ci si fa studiare la lingua latina pagana, cioè la lingua di una società che non ha nessun rapporto con la nostra; una lingua il cui procedere traspositivo non rassomiglia in nulla al procedere logico della nostra lingua materna; una lingua, il cui fondo si compone d’idee, di fatti e di cose, alla cui intelligenza nulla ci ha preparati. Quindi, l’estrema difficoltà d’imparare; quindi, l’imperfetta conoscenza che noi acquistiamo di questa lingua, per non dire l’ignoranza nella quale rimaniamo. – Diversamente avveniva prima del regno del paganesimo classico. Si studiava dapprima la lingua latina cristiana. Questa sola parola lascia trasparire quante difficoltà di meno si opponevano ai progressi del giovinetto. Come madre delle nostre lingue moderne, la lingua latina cristiana presenta relazioni mirabili, e numerose, con l’idioma materno. Aprendo il suo libro latino, il giovane discepolo ritrovava lo stesso procedere semplice e naturale; poco o nulla di inversioni; lo stesso fondo d’idee ch’egli aveva acquistato nella sua prima educazione. La sua intelligenza cristiana indovinava senza pena una parte dei pensieri nascosti sotto una forma estranea. Ei si orizzontava agevolmente in quel mondo che non era più nuovo per lui. A ciascun passo incontrava nomi, fatti, cose, con cui le sue prime letture, la conversazione con sua madre, le istruzioni del sacerdote lo avevano da lungo tempo reso famigliare. Lo studio del latino non era quasi più per lui se non un affare di memoria. Bentosto il piacere congiungevasi al lavoro, perché l’intelligenza entrava facilmente di mezzo, e quegli imparava rapidamente la lingua latina cristiana, la parlava senza pena e la scriveva correttamente. Ecco quanto attestano tutti i monumenti di quella epoca. – Ciò è vero, dicono, ma ei non conosceva la lingua del secolo di Augusto, la bella latinità. Rispondo primieramente, ch’ei conosceva almeno uno dei due idiomi latini. In questo era a noi superiore, poiché dimenticando la lingua latina cristiana per darci esclusivamente allo studio della lingua latina pagana, noi riuscimmo a non sapere né luna né l’altra. Rispondo poi che nulla è più falso quanto il credere e il dire che prima del Rinascimento gli spiriti colti ignorassero la lingua del secolo di Augusto, la bella latinità. Me ne appello alla buona fede di tutti gli eruditi, e li prego di dire se prima del Rinascimento si possedessero, si leggessero, si ammirassero con minore intendimento e buon gusto, di quello che poscia fu fatto, le grandi opere dell’ antichità? Rispondo finalmente che la bella latinità non è solo, come noi provammo, la latinità del secolo di Augusto, ma ancora, e soprattutto, la latinità dei grandi secoli cristiani. – La prima obbiezione che noi esaminammo è dunque falsa del tutto, giacché riposa per intero su una confusione d’idee e di parole condannate dai fatti, ma ostinatamente conservata nella discussione dai partigiani del paganesimo classico. – La seconda obbiezione consiste nel dire che il rimedio, cioè la sostituzione dei classici cristiani ai classici pagani, è impossibile, poiché il baccellierato richiede imperiosamente lo studio degli autori profani. Ed io chiedo, per prima risposta, se sia o no vero, che l’uso esclusivo dei libri pagani nell’educazione è uno dei motivi che maggiormente contribuirono a corrompere i costumi, a pervertire le idee da tre secoli in qua, ed a condurre la società sull’orlo dell’abisso in cui siamo minacciati di vederla sparire? Chiedo inoltre se si possa o no continuare, per una considerazione qualunque, un simile sistema? Supposto che il baccellierato sia un invincibile ostacolo all’adozione di un cammino contrario, ne segue che la questione è impegnata tra la società ed il baccellierato: e poiché la è questione di vita o di morte, ne conchiudo semplicemente che bisogna sopprimere il baccellierato per lasciar vivere la società. Se dunque la società è ancora guaribile, e se i l rimedio proposto è necessario, noi siamo in diritto di affermare che un tal rimedio è possibile. Rispondo di più, che i classici cristiani non sono solo necessari alla Francia, ma all’Europa intera. Ora, grazie a Dio, l’Europa intera non è condannata al baccellierato. Libero dunque ad essa di fare, quando voglia, la riforma che può assicurare 1’avvenire. Finalmente rispondo, che i l Consiglio Superiore stabilito dalla nuova legge sulla pubblica istruzione può pure, quando lo voglia, modificare il programma degli esami da subirsi dai futuri baccellieri. Invece di non farvi figurare se non autori pagani, esso può, senza danno per la letteratura, per la società, per la religione, diminuirne il numero, e chiedere che i giovani cristiani siano tenuti di conoscere a l meno i principali autori cristiani. Può eziandio (il che è ben più conforme alla libertà) contentarsi di esigere dal candidato che sappia il latino, senza obbligarlo ad impararlo in un’opera piuttosto che in un’altra. Oso affermare che, così facendo, il Consiglio Universitario renderà il maggior servizio possibile alla patria, e se eccita le ingiurie dei tristi, avrà per compenso l’approvazione di tutti gli uomini saggi, che seriamente si occupano dell’avvenire. – Passando dal ragionamento alla pratica, noi sosteniamo che simile rimedio è benissimo applicabile. Qui è il luogo di dire tutto quanto il nostro pensiero. Una grande legge sociale fu violata nel XVI secolo. La fonte cristiana, destinata a togliere la sete alle generazioni cristiane, fu mutata in una fonte pagana, e l’educazione diventata pagana produsse una società pagana, ed in seno a questa società noi vedemmo svilupparsi tutte le idee e tutti i vizi del paganesimo. Noi chiediamo un termine a sì strana aberrazione; noi chiediamo che l’ordine venga ristabilito nell’educazione per rientrare nella società; noi chiediamo in conseguenza che i filosofi ed i retori di Atene o di Roma non siano più i soli, né i principali pedagoghi della gioventù cristiana; che autori cristiani adempiscano oramai sì nobile, sì delicata funzione. – Vogliamo noi con ciò escludere gli autori profani? Quando lo volessimo, noi non saremmo se non gli echi dei più grandi uomini e dei più grandi secoli della storia moderna. Ma rassicuratevi, noi vogliamo semplicemente che l’accessorio cessi di essere il principale. Ora, in fatto di educazione cristiana, voi ci concederete senza pena che il paganesimo è solamente l’accessorio, e che a questo titolo il suo posto non deve essere se non secondario. Giacché voi gli date importanza, noi vi concediamo che il giovinetto cristiano abbia a conoscere due società, quella di cui è figliuolo e che deve un giorno servire e onorare; e l’altra ch’egli può ignorare senza danno per la sua felicità o per quella dei suoi simili. Gli autori cristiani sono gli organi della prima, gli autori pagani della seconda: a voi sta di fissare il loro posto rispettivo. Qui io vi vedo uscir fuori con una nuova impossibilità. Voi dite: « Non è possibile studiare a un tempo gli autori cristiani e gli autori pagani; il tempo delle classi non lo permette. Non adottando se non classici profani, appena se ne possono spiegare alcuni, e fra quelli che si spiegano non ve n’ha quasi alcuno che si veda per intero. Il maggior numero dei giovani escono dalla retorica senza avere mai letto, ed ancor meno spiegato Virgilio, Ovidio, Orazio e Quinto Curzio da capo a fondo. Che sarà se voi date loro anche autori cristiani? ». Ecco appunto l’inconveniente dell’uso dei classici pagani nell’educazione. La difficoltà estrema d’imparare la lingua d’una società totalmente diversa dalla nostra, condanna la gioventù ad uno studio lungo e ingrato, e le toglie il tempo di leggere gli autori; a più forte ragione poi di sviscerarne alcuno. Un tale inconveniente sparisce, almeno in gran parte, se voi fate studiare prima la lingua latina cristiana (Bisognerebbe pure modificare il metodo attuale d’imparare le lingue. Un metodo che richiede sei o sette anni per imparare una lingua che in fin dei conti non si sa poi, non può essere essenzialmente buono). La facilità con cui il discepolo la impara, gli lascia tempo da leggere molto latino. Alla sua volta questa lettura abbondante gli dà una meravigliosa facilità per capire la lingua latina pagana, di cui, in fine, le parole sono in generale le stesse che quelle dell’idioma cristiano. D’altra parte, quand’egli fosse vero che 1’uso dei classici cristiani diminuisse un poco lo studio dei classici pagani, qual danno tanto grave ne potrebbe mai derivare? Conoscere un po’ meno Fedro ed Esopo, ed un poco più la Sacra Scrittura; un po’ meno Ovidio e Virgilio, ed un poco più i Salmi e i Profeti; un po’ meno Cicerone e Demostene, ed un poco più San Gregorio e San Crisostomo, sarebbe forse ciò un nuocere allo sviluppo dell’intelligenza, un falsare l’educazione, un compromettere la società, un oltraggiare il senso comune? Noi crediamo dunque, e l’esperienza lo conferma, che cominciando dal far imparare esclusivamente la lingua latina cristiana, non solo si possano vedere i principali autori pagani che servono di presente da classici, ma anche vederli molto meglio. Il giovinetto conoscerà tutto ciò che egli conosce, e lo conoscerà meglio. Di più, conoscerà una lingua ed autori che non conosce in verun modo. Cosi rassicuratevi, il baccellierato che inspira tanta sollecitudine, nulla avrà a soffrire. Soltanto la sua influenza sarà meno funesta alla gioventù ed alla società: ecco tutto. – Ho io d’uopo di aggiungere, che, nella sua forma attuale, il baccellierato non ha alcuna promessa d’immortalità? che l’interesse il più serio dell’avvenire richiede ch’esso venga o soppresso o profondamente modificato? Il mezzo di ucciderlo o di mutarlo è precisamente il mezzo che noi proponiamo. Inutile ancora il dire che per buona sorte il baccellierato non è obbligatorio per il clero; che il clero può dunque immediatamente e con gran vantaggio adottare i classici cristiani. Ora, si “È ANCORA DAL CLERO CHE DEVE COMINCIARE, COME TUTTE LE ALTRE, QUESTA RIFORMA DECISIVA PER LA RELIGIONE E PER LA SOCIETÀ. Per ultima obbiezione si dice: « Il rimedio sarà inefficace, poiché con classici cristiani il professore può sempre, quando Io voglia, formare discepoli pagani ». Rispondo in primo luogo, che la cosa sarà meno focile che noi sia oggidì. In secondo luogo rispondo, che con classici cristiani, i cattivi professori diventeranno sempre più rari, e che i buoni diventeranno eccellenti: è questo il caso di applicare il proverbio: Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei. Rispondo in terzo luogo, che, se con classici cristiani un cattivo professore può formare discepoli pagani, un buon professore non può, in regola generale, con classici pagani formare discepoli cristiani : tre secoli di esperienza stanno dietro di me per provarlo. Ecco la grandissima differenza che separa l’uno e l’altro sistema. Ridotta alla sua più semplice espressione, questa diversità significa che, se i classici cristiani non possono, per colpa degli uomini, salvare in Europa la religione e la società, i classici pagani, malgrado tutti gli sforzi degli uomini, perderanno infallibilmente e senza scampo la religione e la società nell’Europa intera. Quando pure le probabilità di successo fossero ancora più deboli che voi non supponete, io domando se sia lecito esitare un sol momento sull’uso dei classici cristiani. Fra due rimedii, dei quali l’uno ucciderà per fermo l’ammalato, e l’altro offre qualche probabilità d’efficacia, la coscienza non ingiunge forse al medico, in modo sacrosanto, di rigettare il primo e di servirsi del secondo?

[Oggi il buon Abate Gaume stramazzarebbe apprendendo che la gioventù attuale si forma con i libri del maghetto Henry Potter, dei Ninjia, dei Pokemon. Ma per fortuna ora egli vive nella Eternità beata e gode dei frutti del suo instancabile lavoro di “allerta alla società!” Che il Signore lo abbia in gloria! – ndr.-]. (Continua)

J.-J. Gaume: IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (13)

CAPITOLO XXVII

CONTINUAZIONE DELLA RISPOSTA ALLE OBBIEZIONI

La lingua latina cristiana non è più barbara della filosofia cristiana, dell’architettura cristiana, della pittura cristiana, dell’Arte cristiana: vogliate non dimenticarlo. Dando al mondo per modelli classici gli scrittori che la parlarono, non è questo dunque un ricondurre il mondo alla barbarie letteraria più che non vi sia ricondotto sotto il riguardo artistico, dandogli per tipo l’Arte cristiana. Voi credete che la nostra gioventù sarebbe barbara in fatto di latino ov’essa parlasse in tutta quanta la sua purezza l’idioma di San Leone, di San Gregorio, di San Bernardo e di San Tommaso. Davvero! voi avete ragione; essa sarebbe altrettanto barbara, né più né meno, quanto i nostri pittori che facessero quadri come il Beato Angelico da Fiesole, quanto i nostri architetti che edificassero templi come le cattedrali di Reims e di Colonia. Tutto codesto timore della barbarie non è dunque se non una chimera. Perciò, sotto il punto di vista meramente letterario, le nazioni moderne non hanno interesse veruno nel mantenere nella educazione il regno esclusivo del paganesimo. Vo più lungi, e dico che il loro amore pel latino e pel greco li obbliga a rannodare la catena infranta alla metà del secolo XV, ed a ristabilire nell’istruzione della gioventù il regno del Cristianesimo. Questa asserzione ci pone agli antipodi di coloro che pretenderebbero che la restaurazione delle lettere latine in Europa dati dal secolo XVI. Noi affermiamo all’opposto che simile restaurazione è anteriore a ciò che si chiama il Rinascimento ben più, che questa è l’epoca e la cagion principale del decadimento e della corruzione della lingua latina, come è l’epoca e la cagione del decadimento dell’arte. Tale è la doppia proposizione che bisogna ora stabilire per far giustizia compiuta della prima obbiezione. Durante tutto il medio-evo i classici furono esclusivamente cristiani; ma è falso, affatto falso, che a simile cagione si debbano il decadimento e la corruzione delle lettere latine, non più che quella delle scienze e delle arti. È dunque egualmente falso che tutte queste cose siano uscite dalla barbarie nel XVI secolo, sotto l’influsso del paganesimo. Al pari dell’arte pagana, la lingua latina pagana seguitò il muoversi della società pagana, di cui essa era l’espressione; ingrandì con quella, cadde con quella, come la forma cade e s’altera col fondo stesso che la sopporta e che la inspira. – Perciò appena Augusto discese nella tomba, e già sotto Tiberio, quando non vi era peranco vcrun classico cristiano, il latino comincia ad alterarsi. L’età dell’oro è bentosto seguita dall’età dell’argento, che non tarda a dar luogo a quella del ferro: tutti i monumenti letterari ne fanno fede. Se dunque, malgrado gli sforzi dei maestri i più segnalati, fra gli altri di Quintiliano, le lettere e le arti declinano nello stesso seno del paganesimo, lo ripetiamo, non lo si deve attribuire né all’uso dei libri cristiani, né all’influsso del Cristianesimo, ma piuttosto alle vicende dell’Impero e soprattutto alle dissensioni intestine, al contatto colle nazioni barbare, alle loro scorrerie ed al loro soggiorno in tutte le parti della repubblica, ed in ispecie alla corruzione generale dei costumi, la quale, un po’più presto od un po’ più tardi, ma inevitabilmente, trae seco la corruzione della letteratura e delle arti. Quindi, allorché i barbari, fattisi signori dell’antico mondo, ebbero coperto di mine il suolo saccheggiato, devastate le città, distrutte le scuole, bruciate le biblioteche, le lettere e le arti dovettero sparire quasi interamente. Qui pure non è né ai classici cristiani, né alla influenza del Cristianesimo che imputare si deve la barbarie in cui caddero lettere, arti e scienze. Al contrario; se alcun prezioso germe fu conservato, devesi renderne omaggio al Cristianesimo. Ritornata la calma, la Chiesa capì eh’ essa non aveva la missione di rifar la lingua pagana più che di risuscitare la società pagana. Sua prima cura, come lo indicammo, si fu di creare un novello mondo con gli infranti elementi del mondo pagano e con gli elementi ancor greggi del mondo barbaro. Si pose all’opera, persuasa che il novello mondo saprebbe col tempo crearsi una nuova lingua. La cosa infatti ebbe luogo; e noi crediamo avere stabilito che la nuova lingua, organo della società cristiana, fu per lo meno cosi perfetta come l’antica, organo della società pagana. – Egli è falso pertanto che la lingua latina, le scienze e le arti siano state ristorate in Europa dall’influenza de’classici pagani: come tutti sanno, il paganesimo nella educazione non data, se non dalla fine del XV secolo. Ora, più di trecent’anni prima di questa epoca, le lettere, le scienze e le arti erano state ristorate: che dico! si erano innalzate al più alto grado di perfezione. Prova ne sia che non v’ha ramo di scienza o d’arte, il quale non abbia generato capi d’opera, la cui perfezione non fu mai sorpassata. E giacché l’occasione ci si offre, ci sia permesso, raccogliendo i tratti sparsi in questa opera, di mostrare una buona volta e la magnifica realtà ed il meraviglioso segreto di cotale restaurazione, così sovente negata dagli uni e così male intesa dagli altri. Partiamo da un principio innegabile: la civiltà delle società non comincia né dalla coltura delle lettere e delle arti, né dalla costruzione dei teatri, né dalla eleganza del vestire, né dai comodi della vita materiale. Essa ha la sua origine ed il suo fondamento nei buoni costumi; i buoni costumi hanno per base l’esatta cognizione e la pratica fedele dei doveri della religione, secondo il detto della Scrittura: Inìtium sapieniiæ timor Domini. Infatti, il vero e il giusto sono il doppio fondamento della società: il bello non ne è se non il raggiare. Pertanto, solamente dopo essersi ben bene nutrita di sì sostanziosi alimenti, la società può darsi alla ricerca del bello, cioè allo studio delle lettere e delle arti. Così vogliono e la ragione e la logica. – Cosiffatto si fu il cammino intellettivo, seguito nel medio-evo dalle nazioni cristiane. Dopo le prime Crociate, le quali sì efficacemente contribuirono ai progressi dello spirito umano, si ebbe fretta di profittare della calma di cui godeva l’Europa. Liberi di darsi, secondo l’ordine dei sacri canoni, allo studio di tutte le scienze, i grandi intelletti che contenevano il clero ed i monasteri si concentrarono tutti con mirabile unanimità sulle scienze religiose e morali. Grazie ai loro sforzi, quelle alte scienze raffermate nella loro base, spiegate in tutte le loro parti, logicamente esposte nelle loro relazioni, presero un immenso sviluppo. Mentre oggidì tutta quanta l’umana attività concentrasi sul mondo fisico, il moto intellettuale di quella grande età si volse per intero verso le speculazioni della religione e della metafisica. Quindi ne viene che le numerose accademie, nate allora in tutte le parti d’Europa al soffio vivificante della Chiesa, non furono in origine se non scuole di teologia. – A questi magnifici studi Sant’Anselmo diede la forma, cioè la dialettica; Pietro Lombardo, più noto sotto i l nome di Maestro delle sentenze, procurò il fondo, estratto con un ammirabile lavoro dalle opere dei Santi Padri. L’ accrescimento venne loro da Alberto il Grande: la mano di San Tommaso e di San Bonaventura vi aggiunse la perfezione. Appena la scienza divina fu stabilita sovra un fondamento incrollabile, la filosofia fu costituita in modo non meno sodo. Aristotelica per la forma, ma cristiana nel suo oggetto, nei suoi princìpi, nelle sue dottrine, nel suo metodo, essa si manifestò con tutta la sua magnificenza nella Somma di San Tommaso. Qui la teologia e la filosofia si danno sempre la mano, si prestano un reciproco concorso e si mostrano talmente unite, che formano non so qual meraviglioso complesso, il quale non poté stancare l’ammirazione di sei secoli. Quest’opera è, infatti, la più bella che sia uscita dall’intendimento dell’uomo; opera angelica e quasi divina; ultimo limite del genio, fonte d’ogni scienza, tesoro d’ogni verità, confutazione d’ogni errore, arsenale d’ogni verità, esposizione la più vasta della religione cristiana, il più forte baluardo della Chiesa, gloria immortale dell’umano spirito, sola giudicata degna dai Padri del Concilio di Trento di stare a fianco dell’Evangelio, in mezzo alla sala delle loro auguste assemblee, onde togliere le difficoltà e terminare le controversie che potessero sorgere nella definizione dei dogmi cattolici. Dalla teologia, cioè dalla perfetta cognizione della legge divina e dalle relazioni sovrannaturali dell’ uomo con Dio, nacque la scienza delle leggi umane, cioè delle relazioni degli uomini tra loro. Non si rinviene dallo stupore, quando studiando i monumenti di questa età, si vede l’altezza alla quale era giunta la cognizione del diritto sia divino, sia umano, sia naturale, sia positivo, sia ecclesiastico, sia civile, sia politico. – D’altra parte, non si creda che le alte scienze, innalzate, come conviene, al posto d’onore nella estimazione e nell’amore dei nostri avi, assorbissero esclusivamente la loro attenzione. La religione e la società essendo poste al sicuro da ogni attacco, uomini di un grande sapere presero a scrutare tutte le parti del mondo fisico, affine di scoprire le proprietà dei corpi e di farle servire al vantaggio materiale ed anche ai piaceri della vita umana. In allora si scopersero tre cose, le quali, come fu detto, mutarono condizione, costumi, abitudini dell’universo: la stampa, la polvere e la bussola. Sì, codeste tre meraviglie, delle quali noi siamo così orgogliosi e di cui troppo spesso abusiamo, noi le dobbiamo a quei secoli che i moderni barbari non temono punto d’accusare di barbarie. Nell’ordine puramente fisico, i progressi non ristettero lì. Le matematiche, la geografia, l’astronomia, la chimica, la medicina, in una parola tutte le scienze naturali gettarono un vivo splendore, che servì ad illuminare la via percorsa dai secoli seguenti. Tali scienze si insegnavano pubblicamente dai più esperti maestri a migliaia di giovani intelletti: il che fece dare a quelle scuole illustri il nome di università. Contemporaneamente a questa universale restaurazione delle scienze camminava di egual passo la restaurazione delle lettere e delle arti. Lo stesso secolo che produsse San Tommaso, il dottore angelico, il principe de’ teologi, produsse Dante, il poeta divino ed il re di tutti i poeti. Per l’altezza del soggetto, per la magnificenza dello stile, pel vigore della espressione, per l’armonia del verso, la sua Divina Commedia si lascia addietro di molto tutte le opere poetiche dei pagani. Il mondo era ancora sotto il fascino di quella meravigliosa poesia, quando la voce di Francesco Petrarca si fece sentire. I suoi canti armoniosi non eccitarono minore ammirazione della forte composizione di Dante. Nulla v’ha di più vigoroso di Dante, nulla v’ha di più soave del Petrarca; nell’uno e nell’altro la poesia s’innalza al grado il più sublime. Ciascuno nel .suo genere è sì perfetto, che sorpassa od eguaglia almeno tutti i poeti che lo precedettero o che lo seguirono. (Faremo notare, coi più giudiziosi critici, che i lati deboli di quei due glandi poeti sono appunto quelli in cui essi vollero mescolare il paganesimo col cristianesimo. Questo miscuglio forma pure il pericolo di alcuni scritti del Petrarca.) – Quanto all’eloquenza, essa non era in uso se non nelle chiese. Dacché il governo dell’Impero romano era diventato privilegio di un uomo solo, e dacché il popolo non era più stato chiamato a dare il suo suffragio nelle pubbliche assemblee, l’eloquenza popolare era caduta; la sua caduta data dal regno dei Cesari. Lo stesso dicasi dell’eloquenza curiale. La sapienza della Chiesa aveva stabilito fra le nazioni cristiane quelle forme di giudizio, in cui più non si decideva sotto l’impressione della parola di un avvocato, subito e per così dire tumultuariamente, della fortuna e della vita degli uomini; ma in cui si procedeva lentamente, dopo maturo esame ed in seguito ai detti contraddittori delle parti. Quel genere di eloquenza, per nulla necessario, talvolta anche pericoloso, era pure caduto da secoli. Quanto all’eloquenza del pergamo, la sola quasi che fosse praticata, essa fiorì a meraviglia. I secoli posteriori non videro oratori che esercitassero sulle nazioni quell’impero prodigioso che fu privilegio di San Bernardo, di Sant’Antonio da Padova, di Guglielmo da Parigi, di San Bonaventura, di Giovanni Taulèro, di San Vincenzo Ferrerò, di San Lorenzo Giustiniani, di San Bernardino da Siena e di molti altri, la cui parola dominatrice regolava sovranamente e le cose dei popoli e le controversie dei re. – Ma come il cammino razionale del progresso va dallo studio delle scienze a quello delle lettere; così, esso trascorre dallo studio delle lettere alla coltura delle arti. Infatti, sebbene lettere ed arti esprimano le idee, le credenze, i costumi della società, le une con parole, le altre con segni, tuttavia, a quella guisa che il pensiero si manifesta più facilmente colla parola che non con statue o con quadri, così gli artisti non vengono se non dopo i poeti e gli oratori. – Ne risulta che le arti ricevono il loro impulso dalla letteratura, come la letteratura medesima riceve il moto dalle alte scienze. I secoli anteriori al Rinascimento confermano eloquentemente questa induzione. – A tale epoca l’ardente studio di tutti i generi di letteratura produsse la coltura ammirabile d’ogni arte. La pittura, ristorata nel secolo stesso di San Tommaso e di Dante, da Cimabue, fece magnifici progressi sotto l’influsso di Giotto, discepolo di Cimabue, degno di avere per panegiristi Dante stesso e Petrarca. Nello stesso XIV secolo, il Pisano la circondò di nuova gloria, e sul cominciare del secolo seguente, il Beato Angelico la innalzò alla perfezione. – Si fu nel cielo, per testimonianza di Michelangelo medesimo, che il Beato Angelico trovò il tipo delle sue inimitabili figure; in egual tempo che la pittura, la scultura e l’architettura salivano rapidamente all’ultimo termine della gloria. Infatti, Giotto ed il Pisano furono ad una pittori ed architetti segnalati. – Sì, e noi, noi diciamo senza un maligno piacere, si fu in quei secoli tanto diffamati che furono in ispecie costrutte quelle chiese, quelle cattedrali, quei Duomi, in cui il marmo, lavorato con infinita delicatezza, unisce gli svariati riflessi delle sue incrostazioni alle magnificenze della pittura; in cui la pietra ed il granito prendono, sotto lo scalpello dello scultore, le forme le più graziose e le più svelte, colla stessa agevolezza dell’argilla sotto le dita del vasaio; in cui la chimica, dando segreti sconosciuti prima e sconosciuti dopo, sospese colla mano del vetraio quei meravigliosi tappeti di porpora, d’oro e d’azzurro alle vaste finestre delle nostre venerabili basiliche: secoli per sempre barbari, in cui una quantità di monumenti, rimasti sinora senza rivali, innalzarono alla perfezione l’Arte cristiana in tutta la sua purezza. Sono inoltre onore del medesimo secolo non solo tutti gli altri incomparabili artisti del XV secolo, come Antonio da Messina, inventore della pittura a olio, il Donatello, l’Alberti, il Verrocchio, maestro di Leonardo da Vinci e del Perugino; ma ancora Leonardo da Vinci stesso, il Perugino, Bramante, Raffaello e Michelangelo. Infatti, benché questi artisti siano morti nel XVI secolo, pure ei cominciarono a fiorire nel XV, e dovettero alla scuola cristiana, fondata nel XIII secolo, e le loro idee ed i loro princìpi ed il fondamento della gloria immortale che si acquistarono. Per non citarne se non una prova, egli è un fatto nolo nelle vie del mondo dolio, che Raffaello e Michelangelo, principi degli artisti, si nutrivano di continuo, il primo della lettura del Petrarca, ed il secondo di quella di Dante. Quindi venne che Michelangelo riproducesse il vigoroso stile di Dante, e Raffaello lo stile grazioso e gentile del Petrarca. Perciò, cosa degna della più seria attenzione, tutti gli uomini immortali che dal secolo X I sino alla fine del XV innalzarono scienze, lettere ed arti ad un sì alto punto di perfezione, attinsero i loro princìpi, le loro idee, le loro regole e le loro ispirazioni dal Cristianesimo. Ciò che la stella fu pei Magi, la face della fede lo fu per ciascuno di loro. Si è unicamente alla sua luce ch’essi andarono debitori di percorrere con sicurezza, con facilità e con gloria la carriera aperta al loro genio. Un altro titolo di gloria pei secoli di fede, si è l’aver essi creato una scienza nuova, un’Arte nuova, esclusivamente cristiana ed appropriata alle nazioni cristiane, e non di aver fatto, come i secoli seguenti, una misera copiatura della scienza e dell’Arte pagana. – La stessa creazione avvenne in letteratura: nuovo omaggio ai secoli di fede. Primieramente, nulla è così vero come il dire che le tre più belle lingue d’Europa e del mondo, la lingua francese, la lingua italiana e la lingua spagnola traggono la loro origine dalla lingua latina. Ma devesi notare (il che non si nota se non da pochi) che cotali lingue non sono per nulla figliuole della lingua latina pagana, ma sì della lingua latina cristiana. . Esse ricordano non già la maniera di Cicerone, ma bensì la maniera di San Leone e di San Gregorio. Vi si ravvisa lo stesso taglio di periodo, lo stesso orrore per la vana abbondanza di parole; la stessa indole di sintassi, chiara e semplice (Quindi, fra mille esempi, venne il che, sempre espresso nelle nostre lingue moderne, e quasi sempre tolto nella lingua latina pagana.); lo stesso genere di stile, scelto, gradevole, grave; la stessa significazione per una quantità di parole, significazione nuova ed interamente cristiana; lo stesso uso delle grazie, casto e moderato; lo stesso modo a un dipresso quanto al numero, naturale e senza affettazione. Quindi ne viene che leggendo codeste belle lingue, uno crede di leggere San Girolamo nelle sue traduzioni sacre, o San Gregorio, Beda, San Pier Damiano, San Bernardo, San Tommaso e San Bonaventura. Qui non v’è illusione alcuna: da quelle fonti pure e feconde provennero infatti ed il genio e la sintassi dei nostri stupendi idiomi, ed anche la più parte di loro parole; vocabula manant parce detorta. Stessa origine per la poesia. Certo, non già in Omero, né in Virgilio, né in Orazio, né in Pindaro, ma nei Profeti e nell’Evangelio i padri della poesia francese, italiana e spagnola cercarono le sublimi loro idee, l’audacia loro felice, il loro modo di dipingere e di sentire, l loro stile, la loro elocuzione, il loro procedere. Non al Delius vates chiesero le loro ispirazioni, ma sì alla fede. Persino la forma della nostra moderna poesia ne indica l’origine cristiana. Differentemente dalla poesia pagana, questa poesia non misura i suoi versi né dai piedi, né dalla quantità lunga o breve delle sillabe, ma dal numero delle sillabe e dalla rima. Tale è, come tutti sanno, il carattere proprio della poesia di San Gregorio, di San Bonaventura, di San Tommaso e degli altri poeti latini dei nostri secoli di fede. Nessuno ignora che il ritmo da essi inventato è ancora quello della poesia moderna, soprattutto della poesia italiana. Nate dall’idea e dalla letteratura cristiana, le belle arti presero esse pure il suggello cristiano in tutta la sua purezza. Lo si trova non solo nei loro soggetti e nei loro motivi, ma ancora nel loro stile, nel loro genere di bellezze, nel fondo e nella forma delle loro opere. Ciò si vede specialmente nell’architettura cristiana che si chiama gotica. Vi sono ancora alcuni che la biasimano. Essi dicono: « Coll’arditezza o piuttosto colla temerità dei suoi concepimenti, quell’architettura stanca lo sguardo dello spettatore anziché adescarlo: colpisce penosamente l’anima, che getta in una specie di turbamento e di stupore. Tratta la pietra con libertà tale, scherza con tale audacia con tutti gli ostacoli, che non si ravvisa, né s’indovina il motivo di quei giuochi di forza, o piuttosto di quei capricci ». – La sola ignoranza può ragionare in tal guisa dell’architettura gotica. Tenere simile linguaggio si è un porre il proprio posto fra il volgo degli artisti, i quali non cercando nell’arte se non il piacere prosaico e sensibile dell’occhio e dell’immaginazione, lo considerano quale ultimo scopo dell’arte. Ciò è ad un tempo vergognoso e assurdo, poiché non è maggiormente permesso di dire che il piacere sensibile sia lo scopo ultimo dell’arte, che noi sia di affermare che i sensi e l’immaginazione sono tutto quanto l’uomo. – Del rimanente, non v’ha a stupirsi se i templi greci e romani hanno il privilegio esclusivo di eccitare l’ammirazione di simili giudici. Tale è la condizione, la natura, lo scopo di quei monumenti, che lasciano vedere a prima vista ed il segreto di loro armonia, ed i motivi del loro ordinamento. Nulla essi lasciano a indovinare; nulla nel loro complesso oltrepassa il livello dei sensi e delle volgari abitudini dell’anima; la loro nudità, la semplicità dei loro ornamenti dispensano da ogni fatica, da ogni studio l’anima del riguardante, e permettono alla sua immaginazione ed ai suoi occhi di riposare tranquilli in una vana contemplazione. Ecco perché consimili edifici sono belli di una bellezza puramente sensibile, ma nudamente di una bellezza morale ed intellettuale. Essi piacciono, ma non colpiscono guari: ricreano l’occhio e l’immaginazione, ma non innalzano l’anima al di sopra delle basse regioni della vita sensibile; non eccitano nella stessa alcun moto divino, non le ricordano alcuna rimembranza del mondo sovrannaturale. Lungi da ciò, l’aspetto generale delle loro forme e delle loro linee architettoniche tiene per forza abbassato lo sguardo verso la terra; quello non parla all’uomo se non un linguaggio terrestre, e non eccita in lui se non pensieri e desideri terrestri. E come si vorrebbe che fosse diversamente? Non è già per onorare il vero Dio né per riformare i costumi dell’uomo che i templi pagani furono eretti, ma si per far trovare all’uomo la felicità quaggiù, e per eccitare le sue passioni e lusingare i suoi sensi. Perciò, il Greco od il Romano non provò mai sotto le vòlte de’suoi templi un solo movimento di eutusiasmo divino. Che tali templi abbiano tutte le condizioni della bellezza sensibile, ne convengo; ma essi non poterono, né potranno mai essere gli eloquenti predicatori del mondo sovrannaturale, né dei suoi sublimi misteri, né delle sue mirabili bellezze, né dei suoi divini splendori. – Al contrario, questo è il glorioso privilegio delle chiese gotiche. Le loro torri slanciate verso il cielo, ch’esse sembrano cercare e raggiungere; le loro volte ardite, le loro ogive che forzano lo sguardo a sempre innalzarsi, le loro gigantesche proporzioni, i loro archi immensi: che mai annunziano essi se non il trionfo assoluto del genio dell’uomo sulla materia, ed il sublime sforzo dell’anima sua per innalzarsi al di sopra del mondo corporeo? Poi, quella pietra, quel marmo ammollito sotto lo scalpello, quei corpi sì pesanti, che perdono in certo modo le loro parti materiali per spiritualizzarsi; quelle linee che fuggono in tutti i sensi e che si prolungano quasi sino all’infinito; quella luce a vari colori che penetra per quei rosoni, per quelle invetriate sì ardite, che si direbbero piuttosto dipinte che scolpite alle porte ed ai vasti lati di quei giganteschi edifici: tutte codeste cose non trasportano esse l’anima nella regione dei miracoli, e non la obbligano forse a pensare al Supremo Architetto dell’universo? – Quest’architettura cristiana non eccita, ne convengo, la sensibilità fisica, non lusinga voluttuosamente l’immaginazione, ma penetra nelle profondità di nostra esistenza, assale le fibre le più intime dell’anima, vi risveglia la fede, l’innalza al di sopra delle cure e delle pene di questa miserabile vita, vi produce impressioni morali, lusinga l’immaginazione avida di grandezza e di magnificenza, rapisce tutte le facoltà intellettuali, ed innalza l’uomo al desiderio ed alle cure della vita futura. Perciò, sebbene noi siamo ancora sulla terra quando entriamo in quegli immensi edifici, pensiamo al cielo, e la vista delle opere dell’uomo ci porta sino a Dio. In una parola, l’architettura gotica delle nostre chiese, basata sul principio cristiano, altro non è se non la manifestazione sublime del pensiero cristiano, poiché scopo del Cristianesimo è quello di sciogliere l’uomo dalla tirannide dei sensi e d’innalzarlo alla contemplazione ed all’amore delle cose celesti. Esaminando freddamente il cammino generale dello spirito umano, si vede che in quell’età gloriosa gli scrittori e gli artisti ebbero il medesimo pensiero ed il medesimo scopo, cioè di esprimere, gli uni con parole, gli altri con segni, le idee, le credenze, le verità, i costumi cristiani, mirabilmente sviluppati dalla teologia e dalla filosofia cristiana. Tale è la vivacità e la purezza della fede che presiede alle loro opere, che gli uni e gli altri si mostrano gl’interpreti e i traduttori fedeli delle stesse verità. Ciò che gli scrittori rendono colla parola, gli artisti lo figurano in un linguaggio, diverso, é vero, ma collo stesso stile semplice, corretto, elegante, grave e quasi divino. Ora, secondo il detto già citato, il bello è lo splendore del vero: Pulchrum splendor veri. Dunque le lettere e le arti di quell’età brillano di tutto lo splendore della bellezza, perchè, affatto imbevute della verità cristiana, non riflettono se non i raggi del vero; dunque la stessa verità cristiana, ispirando i poeti e gli artisti, dà ai primi os magna sonaturum, ed ai secondi manum magna et pulchra confecturam. Ora, v’è egli a stupirsi se i grandi uomini dei secoli di fede non gustavano nell’età matura se non la scienza cristiana, la letteratura cristiana e l’Arte cristiana? Dall’infanzia esclusivamente nutriti dei classici cristiani, quasi altro non conoscevano se non il Cristianesimo e conservavano fedelmente ciò che dapprima avevano ricevuto: Quo semel imbuta fuerit recens testa diu christianum servavit odorem. – Avevamo noi torto (chiederemo terminando) di affermare che la ristorazione generale delle scienze, delle lettere e delle arti in Europa è anteriore a ciò che si chiama il Rinascimento? È egli ancor permesso di sostenere che se i libri classici diventassero di nuovo cristiani, si ricondurrebbe il mondo alla barbarie? Non è egli chiaro come il sole che, sotto l’influsso dei classici cristiani, due cose hanno avuto luogo? La prima, che le scienze, le arti e le lettere diventate essendo interamente cristiane, il mondo vide sorgere dalle fondamenta sino al tetto, il più magnifico edificio della sapienza e della civiltà che l’occhio umano abbia mai contemplato ; la seconda, che la teologia, la filosofia, la letteratura, le arti, giunte al colmo della perfezione, produssero in ogni genere uomini sì grandi, che né il passato né il presente nulla hanno da paragonare ad essi: Alberto il Grande e San Tommaso, Dante e Petrarca, Giotto ed il Beato Angelico, ed anche Raffaello e Michelangelo? Curvate il capo: ho nominato i re immortali della scienza, della letteratura e delle arti.

 

J.-J. Gaume: IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (12)

CAPITOLO XXVI

NECESSITA’ DEI CLASSICI CRISTIANI.

RISPOSTA ALLE OBBIEZIONI.

Se nella logica loro concatenazione le conseguenze che precedono non sono attaccabili, esse sono lungi, ben lungi dall’essere compiute nel loro sviluppo. Nondimeno, per quanto esser possa imperfetto il quadro da noi abbozzato, sembra bastante a dimostrare, ad ogni uomo che vuol vedere, i fatali effetti del paganesimo nell’educazione. Grazie ad esso, la società europea si trova condotta sull’orlo d’un vasto precipizio, del quale nessun uomo scandagliare potrebbe la profondità. Qui varie cose vi stupiscono e vi spaventano. Alla vista del verme roditore che le moderne società nutrono da sì lungo tempo nel loro seno, alla vista delle carezze medesime ch’esse gli prodigano, ci chiediamo d’onde provenga un sì strano accecamento? È d’uopo, come noi facemmo, cercarne la cagione nei terribili misteri dell’umana natura. L’introduzione del paganesimo nella educazione fu una reazione possente della carne contro lo spirito, una rivincita lungo tempo meditata del vecchio uomo incatenato dal Cristianesimo dominatore d’Europa, contro l’uomo nuovo, la cui signoria era stata crudelmente scassinata durante il troppo lungo scisma d’Occidente. Tale fu la cagione fondamentale del nuovo ingresso trionfale del paganesimo in seno alle moderne nazioni: la forma letteraria e artistica non fu se non un pretesto. Un fatto palpabile ne è la prova. Questo fatto, troppo poco notato, eccolo qui: il Rinascimento, propagato dapprima con entusiasmo da tutti i nemici della Chiesa, consiste essenzialmente in due cose: nella denigrazione universale delle opere del Cristianesimo; nell’ammirazione parimente universale per le opere del paganesimo; nel profondo disprezzo pei secoli inspirati dal cristianesimo; nel culto fanatico pei secoli nei quali il paganesimo regnò. – Allo stupore succede l’inquietudine. Noi indicammo il male; esso è sì profondo, sì inveterato che ci chiediamo se rimanga ancora qualche probabilità di guarirlo. Ammettendo siffatta probabilità favorevole, la società accetterà essa il rimedio? La risposta è sgraziatamente dubbia. Il rimedio è evidentemente 1’uso dei classici cristiani. Ora, a questo nome, io sento parte della società gridare all’assurdità, al fanatismo, alla barbarie. Malgrado il progresso delle idee, da sedici anni, una tempesta di sarcasmi e d’ingiurie sta aspettando, da parte degli Dei Termini, e il rimedio e lo sgraziato medico che osasse proporlo. Dopo il disprezzo vengono le impossibilità. In verità, codesta esplosione non ci meraviglia; essa ci incoraggia provandoci che noi ponemmo il dito sulla piaga: il paganesimo è sempre simile a sé. – Quando, sotto i Cesari, esso vide apparire il Cristianesimo che si preparava a disputargli la signoria del mondo, faceva rimbombare gli echi delle sue accademie e dei suoi anfiteatri del sanguinario grido: alle belve i cristiani! Padrone oggi delle società moderne, il paganesimo fa sentire in termini diversi lo stesso grido di morte contro il Cristianesimo che viene a rivendicare la signoria della educazione; poiché l’educazione è l’impero, essendo essa l’uomo. Le ingiurie ed i sarcasmi non si confutano: si sta paghi a compiangere colui che ne usa, e si fa di tutto per innalzarsi abbastanza alto per non esserne colpiti. Ma dopo le ingiurie vengono le impossibilità, e la lista ne è lunga. Formulate non solamente dai nemici dichiarati del Cristianesimo, ma ancora da uomini che al medesimo sono sinceramente devoti, richiedono esse un esame serio e imparziale. Ora, codeste impossibilità, ridotte dall’analisi alla loro più semplice espressione, si limitano a tre. In primo luogo si dice che il rimedio sarebbe peggiore del male, giacché esiliando dalla educazione i grandi modelli dell’antichità pagana, sarebbe ciò un ricondurre il mondo alla barbarie letteraria da cui il Rinascimento lo trasse. – In secondo luogo si dice che il rimedio è impossibile, poiché il baccalaureato (in Francia) esige la cognizione degli autori profani, e la più parte dei parenti vorranno che i loro figliuoli siano baccellieri, acciò siano qualche cosa in società, anche a costo di non essere cristiani. – In terzo luogo si dice che il rimedio, fosse pure applicabile, sarebbe inefficace, poiché con dei classici cristiani il professore può sempre, quando lo vorrà, fare dei discepoli pagani.

Esaminiamo in particolare ciascuna di queste obbiezioni.

Sostituendo classici cristiani ai classici pagani, ciò sarebbe, voi dite, un rimedio peggiore del male. Eppure il male è grande come può esserlo, meno che non sia la morte. A noi intorno, tutto è scassinamcnto, tutto è rovina: dal capo alle piante la società è una sola piaga. I medici chiamati a guarirla si dichiarano impotenti: molti la credono all’agonia, ed aspettano da un giorno all’altro ch’essa soggiaccia nelle convulsioni di una lotta suprema. Ecco il male: e voi dite che il rimedio proposto è anco peggiore! Perchè? ve, ne prego. Perché, in ultimo, voi rispondete: meglio vale per una società il perire frammezzo alla luce di una gloriosa civiltà che non il ricadere nella barbarie, la quale pure è una morte, e, per una nazione, di tutte le morti la più vergognosa. Ebbene! esiliando dall’educazione i grandi modelli dell’antichità, sarebbe questo un ricondurre senza fallo il mondo alla barbarie donde il rinascimento lo trasse. Tale è in tutta la sua forza la prima ragione che si oppone al ritorno dei classici cristiani. Noi abbiamo la disgrazia di credere l’opposto: noi sosteniamo che i classici cristiani non ricondurranno il mondo alla barbarie, sia la barbarie in letteratura che in morale; noi sosteniamo che la barbarie, dalla quale si vuole che il Rinascimento abbia tratto l’Europa, non è se non una chimera, e che la restaurazione delle arti è anteriore all’introduzione del paganesimo nella educazione. È vero: si trovano anche oggi molte persone, ben intenzionate di certo, che ripetono quale un assioma che i secoli anteriori al Rinascimento furono secoli barbari: barbari nei loro costumi, barbari nelle leggi loro, barbari nelle loro istituzioni civili e politiche, più barbari ancora nella loro letteratura e nelle loro arti. Queste persone capiscono per fermo quanto dicono. Per me, che nulla affatto le capisco, chiedo licenza di spiegare parola per parola la loro terribile proposizione. – Le tenebre della barbarie seguono le tenebre dell’errore di cui esse sono il prodotto, e le prime stanno sempre in ragion diretta delle seconde. La luce della civiltà, all’opposto, regna colà ove la luce della verità regna. La verità è il Cristianesimo. Per sapere se il medio-evo sia 1′ età della barbarie, basta dunque sapere se il Cristianesimo fosse sconosciuto nel medio-evo; s’esso non fosse per nulla applicato alla società, od anche se fosse men conosciuto, meno applicato che noi sia di presente. Aspetto la vostra risposta… – Aspettandola, vi chiederò perché mai i classici cristiani ricondurrebbero l’Europa alla barbarie? Essi ci farebbero perdere, voi dite, la conoscenza della nostra lingua materna, poiché non si può saper bene alcuna lingua d’Europa senza sapere il latino, dal quale tutte le nostre lingue moderne sono tratte. Una quantità d’ uomini, ed in ispecie di donne, che non sanno di latino, troveranno la vostra proposizione molto poco lusinghiera; infatti essa è troppo assoluta per essere, vera. Prendiamola tutta volta in tutta quanta la sua estensione; ma intendiamoci. Vi sono due lingue latine, lo sapete, e, se fa d’uopo, ve lo proverò in un momento. Ora, voi non potreste ignorare che le nostre lingue volgari sono uscite dalla lingua latina cristiana, e non già dalla lingua latina pagana. Abbiate pazienza, e su questo punto voi sarete ben presto convinto. Voi soggiungete che i classici cristiani ci ricondurrebbero alla barbarie, perché la lingua latina del secolo di Augusto e la lingua greca del secolo di Pericle, cessando d’essere conosciute, noi ci chiuderemmo l’adito ad ogni soda erudizione. Ancora un poco, e voi vedrete che i classici cristiani non faranno punto dimenticare le lingue pagane: all’opposto. Pel momento, debbo farvi convenir meco che queste lingue non sono mezzi di erudizione così necessari come voi sembrate crederlo. Quali sono mai, ditemelo, i tesori della scienza del diritto pubblico e privato delle nazioni d’Europa, del diritto civile e del diritto canonico, della teologia, della nostra istoria, della filosofia, della medicina, della geologia, delle scienze naturali e delle matematiche, se non forse le opere scritte nella lingua latina cristiana o nelle lingue moderne? Che mai sapreste voi di tutto ciò quando aveste letto gli autori del secolo d’Augusto e di Pericle? Voi insistete dicendo che i classici cristiani ci farebbero perdere il gusto del bello che noi dobbiamo al Rinascimento. Io vi rispondo che il gusto del bello nasce dalla conoscenza del vero. Bisogna dunque provarmi che la conoscenza del vero fosse meno perfetta prima del Rinascimento che nol fu dopo. Nominatemi dunque le verità che il Rinascimento ci fece meglio conoscere. Mostrate in qual genere esso sviluppò il senso del bello. Crediatemelo, non retrocediamo di sessantanni. Il rimprovero di barbarie pronunciato tante volte contro i secoli cristiani non è più accettato da tutti. Si conosce oggi, ed è provato che v’ha del bello, e dì molto, nell’ordine morale, nell’ordine scientifico, nell’ordine sociale, nell’ordine artistico anteriormente all’invasione del paganesimo classico. Da un quarto di secolo specialmente, molti pregiudizi secolari sono caduti: ancora ogni giorno ne cadono. Rimane, lo confesso, un punto sul quale i pregiudizi rimangono quasi interi. Voglio parlare della letteratura anteriore al Rinascimento. Siccome questo punto si è il principale motivo, o, per meglio dire, il pretesto il più ordinario che si ponga innanzi per mantenere il paganesimo nell’educazione, esso richiede un esame particolare. Ciò che fu detto a lungo dell’architettura cattolica, che essa era il tipo del cattivo gusto e della barbarie, che non era degna d’esser paragonata all’architettura greca e romana più che non Lucano a Virgilio, o Seneca il Tragico a Sofocle, si dice anche oggi della letteratura dei secoli cristiani. La medesima prosegue ad essere l’oggetto di un superbo disprezzo; si giunge persino ad arrossire di trovarla sulle labbra della Chiesa, e non viene ancora in mente a certi spiriti che si possa essere abbastanza senza buon gusto per porla a confronto colla letteratura dei secoli pagani. In una parola, Fénélon, il P. Maffei, Scaligero e molti altri lasciarono numerosi eredi della loro ammirazione esclusiva per la letteratura pagana e della loro profonda compassione pel cristianesimo letterario (Nella sua Lettera sull’eloquenza, Fénélon, l’egregio Fénélon non teme di dire che, ai di suoi, l’Europa non faceva se non uscire dalla barbarie, p. 399. È noto che la sua Lettera sull’eloquenza è un panegirico pomposo dell’eloquenza, della poesia, della tragedia, della commedia e dell’epopea pagane, offerte come solo tipo del bello). Fra mille esempi, uno solo ne scelgo, il quale a maraviglia compendia le disposizioni degli animi. Ecco ciò che pubblica, nel 1850, un uomo di alto sapere, di soda istruzione, di venerabile carattere: « L’innario del Breviario parigino è cosa che non si potrebbe abbastanza ammirare; gli è l’idioma latino in tutta la purezza del secolo d’Augusto; egli è il genere lirico in tutta la sua leggiadria, in tutta la sua pompa, in tutto il suo sfarzo; sono le figure le più giuste, le più energiche, le più delicate; i moti dell’anima i più naturali, i più toccanti, i più sublimi, i più pii. In una parola, gli è la cosa la più degna della verità discesa dal cielo. La decenza del culto pubblico richiedeva tale riforma, tale quale fu fatta, in ispecie nel secolo in cui viviamo, nel quale cotanto importa che il letterato indifferente od empio, che il fanciullo collegiale nulla trovino a dispregiare nel linguaggio liturgico che è posto sulle labbra al culto ». – Ed ecco la lingua e la poesia cristiana anteriori al Rinascimento, trattate come poco fa era trattata l’architettura gotica. Malgrado la severità di questo giudizio, o piuttosto a motivo di questa severità, il rispettabile autore delle linee sopra citate ci permetterà di discutere la questione e di appellarci a lui medesimo dalla sua propria sentenza. Custode fedele di una delle nostre più sontuose cattedrali, egli è, lo sappiamo, l’ammiratore illuminato dell’Arte cattolica. A questo titolo, egli considererebbe giustamente quale un ignorante ed un vandalo colui che andasse a dirgli: « La sostituzione dell’architettura greca e romana all’architettura gotica è una riforma richiesta dalla decenza del culto pubblico; lo stile artistico del secolo di Augusto e di Pericle è la cosa la più degna della verità discesa dal cielo ». Ebbene! egli ci permetterà di stabilire: 1° che la qualificazione di barbara non potrebbe essere maggiormente applicata alla letteratura cristiana, che all’Arte cristiana, cioè che il letterato indifferente od empio; che il fanciullo collegiale nulla ha a dispregiare nel linguaggio liturgico che gli si pone sulle labbra: 2° che l’idioma latino non ritrovò tutta la sua purezza nel Rinascimento del paganesimo classico, ma che la perdette e finì per perdervisi esso stesso tutto quanto. Dapprima, il semplice buon senso respinge a priori l’argomentazione dei partigiani del Rinascimento. Prima di ogni discussione esso obbliga ogni persona riflessiva a dire con l’illustre vescovo di Langres: « Noi eravamo sulle panche del collegio e già noi ci chiedevamo come poteva mai essere che solo lo spirito di menzogna avesse ricevuto il privilegio delle grazie del linguaggio; e quando poscia fummo incaricati noi stessi d’insegnare agli altri codest’arte del ben dire, la quale, considerata nella prima sua fonte, si è una derivazione meravigliosa del Verbo di Dio, noi non volevamo credere che questo Verbo fatto carne, il quale si era compiaciuto di prodigare un tale ingegno ai suoi nemici, come fa spesso di tutti gli altri doni della natura, l’avesse poi negato a quella Chiesa da lui procacciatasi col suo sangue, e che Egli unì a sé, a segno che, secondo la sublime espressione di San Giovanni, ne fa la sua sposa…. « Ecco quali erano i nostri pensieri in un’epoca di nostra vita, in cui, sotto l’impero di pregiudizi concetti sin dalla nostra tenera età, noi non potevamo ancora apprezzare i tesori letterari della Chiesa, i quali d’altronde noi conoscevamo a mala pena. – « Ma a misura che, innalzandoci al di sopra delle nostre proprie convinzioni, noi esaminammo con imparzialità tranquilla e coscienziosa gli scritti dei nostri dottori e dei nostri padri nella fede, il nostro stupore cangiò di oggetto. Noi ci chiedemmo, non più come mai la Chiesa di Dio non avesse posseduto le sublimi doti del linguaggio così bene come le chiese di Satana, poiché avevamo sott’occhio e sotto mano la manifesta prova dell’opposto; ma come mai fosse avvenuto che nel seno stesso del Cristianesimo si fossero posti da parte, negletti, sconosciuti, e, dal lato della educazione, dimenticati del tutto, i numerosi ed innegabili capi di opera della letteratura cristiana, per non studiare, ammirare, e, umanamente parlando, per non adorare se non le opere letterarie del paganesimo. – « Certo, queste ultime hanno pure il loro notevole merito, e, come dicemmo, la perizia nel parlare e nello scrivere è un dono della natura, lasciato in comune a tutti i figliuoli degli uomini da Colui che fa risplendere il suo sole sui buoni e sui cattivi, che sparge la fecondatrice sua pioggia sulla terra dei peccatori, del pari che su quella dei giusti. Ma ciò che noi non possiamo ammettere, e ciò che tuttavia fu lasciato credere lungamente, si è che quel dono prezioso sia il privilegio dell’errore. Noi sappiamo, per la consolazione di nostra fede, e proclamiamo oggi a discarico di nostra coscienza, che questo non è vero (Lettera ai sigg, superiore e professori del suo piccolo seminario) ». Prima di ogni esame, noi abbiamo dunque il diritto di respingere la qualificazione di barbara, applicata alla letteratura cristiana; giacché è cosa assurda, per nulla dire di più, lo ammettere che le grazie del linguaggio siano privilegio esclusivo dell’errore. Ma andiamo più lungi, e stabiliamo una distinzione fondamentale, sempre dimenticata dai partigiani del paganesimo letterario; questa distinzione fa crollare tutti i loro sofismi. Il latino fu parlato da due società interamente contrarie nel loro modo di giudicare e di sentire: dalla società pagana e dalla società cristiana. A quella guisa che, per confessione di tutti, v’ha una filosofia pagana ed una filosofia cristiana, una architettura pagana ed un’architettura cristiana, una pittura pagana ed una pittura cristiana, un’oreficeria pagana ed un’oreficeria cristiana, così vi fu un’eloquenza pagana ed un’eloquenza cristiana, una poesia pagana ed una poesia cristiana, una lingua latina pagana, ed una lingua latina cristiana.Queste due lingue hanno ciascuna la propria perfezione relativa ed i proprii caratteri distintivi. Sotto il pennello o sotto lo scalpello dei grandi maestri di Grecia e d’Italia, l’Arte pagana rende bene, molto bene, l’idea pagana, il sentimento pagano; parimente in bocca a Cicerone ed a Tito Livio, o sotto la penna di Virgilio e di Orazio, la lingua latina pagana rende bene, molto bene, l’idea pagana ed il sentimento pagano. Al pari della società di cui è l’espressione fedele, codesta lingua è, soprattutto nel secolo di Augusto, molto polita, molto elegante e molto fredda; talvolta maestosa ed il più spesso imperiosa e superba. – L’unzione le manca, perché la carità manca alla società pagana. Organo esclusivo di passioni e d’interessi puramente naturali, essa è profondamente sensualista. Tutto quanto l’ordine d’idee, di virtù, di sentimenti, di relazioni, nato dal Cristianesimo, rimane nella medesima senza traduzione. Perciò, materialismo puro, sensualismo, egoismo e povertà nel fondo, varietà, eleganza, secchezza nella forma, in versione e rigore nel contesto: tali sono i caratteri principali che la distinguono. Espressione di una società differentissima, la lingua latina cristiana presenta caratteri diametralmente opposti. Spiritualismo puro, ricchezza inesauribile nel fondo; semplicità, dolcezza, unzione, pieghevolezza, chiarezza nella forma: ordine logico soprattutto nel contesto: ecco alcune delle sue qualità. Si scorge che queste due lingue differiscono altrettanto l’una dall’altra quanto le due società medesime, di cui elleno sono la espressione. – Si vede ancora che non è né meno impossibile, né meno assurdo il voler fare della lingua latina pagana l’impalcato del Cristianesimo, quanto il voler fare della lingua latina cristiana l’organo del paganesimo. Sotto il punto di vista dell’Arte, egli è un edificare una cattedrale gotica per onorare Giove, o servirsi dei templi di Pesto per far processioni. Ecco perché i Padri della Chiesa, uomini di buon senso e di genio, impadronendosi delle parole dell’idioma latino, ne composero una nuova lingua latina, atta a rendere benissimo le idee, i sentimenti e gli usi cristiani: nella stessa guisa che gli architetti, gli scultori, i pittori e gli orefici cristiani, riconoscendo nell’Arte pagana certi principi e certe regole primitive, le adottarono modificandole sotto la ispirazione della fede, in modo da formarne gli elementi di un’Arte esclusivamente cattolica. Non è dunque per ignoranza della lingua latina pagana che la lingua latina cristiana fu creata. Chi oserebbe dire, ad esempio, che ignorasse la lingua e la letteratura pagana San Cipriano, il quale prima della sua conversione insegnò a lungo in Cartagine, ed in modo tanto splendido, l’eloquenza pagana? o San Girolamo, sì appassionato per Cicerone, e per Plauto, che non ci volle meno d’un castigo divino per guarirlo dalla sua passione? o Sant’Agostino, il quale prima di essere discepolo dell’Evangelio, lo fu per tanto tempo di Cicerone, di Virgilio e di Terenzio, ed il quale insegnò per lunghi anni la retorica mondana in Roma ed in Milano? Certo, se l’avessero voluto, nessun meglio di codesti uomini immortali avrebbe scritto e parlato il latino del secolo di Augusto. Se non lo fecero, non è già perché non lo potessero fare, ma perché non lo vollero; e non lo vollero perché capirono che una lingua nuova faceva mestieri ad una società nuova. A tale proposito noi abbiamo la irrecusabile testimonianza di Sant’Agostino stesso (S. Aug. opp. t. IlI, part. I, p. 129, De Doctr. christ., lib. IV, c. 14, n. 31, Edit. Paris.). – Del rimanente, non si creda già che respingendo e cacciando via dal latino idioma tutta quella mollezza, tutta quella superfetazione di forme, di misure e di sonorità pagana, i fondatori della lingua latina cristiana abbiano dimenticato la proprietà e la scelta dei termini, e l’eleganza stessa ed il numero. All’opposto, essi davano a tutto ciò una cura particolare, come lo testifica ancora Sant’Agostino. Ma la proprietà e la scelta delle parole; ma l’eleganza ed il numero ch’essi ricercavano, erano appropriati alla lingua latina cristiana, della quale è scopo principale non già lusingare i sensi, ma esprimerechiaramente, fortemente, nobilmente la verità. – Come il precedente, noi dobbiamo questo nuovo segreto del loro lavoro al gran Vescovo di Bona. Perciò, le espressioni ed i termini sono comuni all’una e all’altra lingua; ma il suggello, il genio, l’ordine ed il significalo di un gran numero di parole sono totalmente diversi. Questo divario tra i due idiomi è siffattamente reale che i più esperti in latinità pagana non lo sono per ciò in latinità cristiana: e colui che in prosa si lusinga d’imitar Cicerone, ed Orazio in versi, non è per questo capace di scrivere un discorso che sappia di San Leone o di San Gregorio, né un inno che ricordi Sant’Ambrogio o San Tommaso. La prova ne è fatta. Invano un uomo si sarà, per dir così, appropriato la maniera degli autori profani, e conoscerà benissimo la latinità del secolo di Augusto; s’egli non fa uno studio profondo dei principi della latinità cristiana, si troverà imbarazzato e persino incapace di scrivere e di parlare convenientemente del dogma, della disciplina, in una parola, delle cose cristiane. La sua composizione delle parole e pel numero della frase; ma mancherà di precisione, di gravità, di chiarezza; essa sarà vuota di cose, misera, e spesso ridicola. – Nel sedicesimo secolo si era intravveduto questo grave sconcio. Si era anche temuto, e non senza fondamento, che la lingua pagana non introducesse idee pagane ed errori nel Cristianesimo. « Si è dagli autori cristiani, diceva i l celebre P. Possevino, che i giovinetti toglier devono non solo la sana dottrina, ma ancora il modo di esprimerla con convenienza e con verità. Colui che vorrà scrivere o ragionare delle cose cristiane unicamente colla lingua del secolo di Augusto commetterà perniciosi errori, darà alla religione una fisonomia pagana, cadrà ad ogni passo in sconvenienze di lingua, in vanità di pensiero, spesso anche in inesattezze di credenza, le quali aprono la porta all’eresia. Del che noi abbiamo numerosi e tristi esempi in Lorenzo Valla ed in Erasmo, chiamati non senza ragione, da giudiziosissime persone, i precursori di Lutero ». – In prova di quanto asserisco, posso anche citare la testimonianza di un uomo noto a tutta Europa per la sua erudizione profonda e per la sua meravigliosa prestanza nella letteratura latina. Monsignor Laureani, custode della Biblioteca Vaticana, i cui scritti in prosa e in Verso latino sono quanto vi ha di più elegante, di più soave e di più ricco, faceva poco fa ingenuamente questa confessione: « Lo studio di Cicerone ( col quale si può dire ch’egli si sia identificato) non mi servì a nulla o quasi a nulla per trattar convenevolmente gli argomenti cristiani. Da principio, mi sentiva molto imbarazzato per iscrivere sulle cose religiose. Allora mi applicai allo studio di San Leone: ho trovato in questa continua lettura la vera lingua della Chiesa, colla sua eleganza, colla sua forma, colla sua chiarezza. Da quel punto potei dissertare agevolmente sulle materie ecclesiastiche (De oper. SS.Eccl. Pati: in litterar., etc. p. 52.). » Il dotto prelato avrebbe potuto aggiungere ch’egli aveva attinto a quella sorgente 1’eloquenza, il numero e la grazia inimitabile di linguaggio che così altamente lo illustrano. Da tutto ciò conchiudere bisogna non solo che vi sono due lingue latine benissimo separate; ma eziandio che, se si può fare un paragone tra un autore pagano ed un altro autore pagano, tra Cicerone, ad esempio, e Quintiliano, è cosa assurda il voler paragonare un autore cristiano ad un autore pagano, Cicerone, per esempio, a Sant’Ambrogio, o Quintiliano a Sant’Agostino; gli scrittori del secolo d’Augusto agli scrittori del secolo XIII. Infatti, gli uni parlano la lingua latina pagana e gli altri la lingua latina cristiana. Ora, queste due lingue differiscono essenzialmente per la forma, pel numero dei periodi, per l’ordine della sintassi ed anche pel senso di una quantità di parole. « Come mai, grida qui il dotto Vescovo sopraccitato, come mai si concede senza protestare, ad ogni autore di grido il diritto di avere il suo modo di scrivere, e non si concede alla Chiesa di Dio? Forse che la frase di Tito Livio non varia sensibilmente da quella di Tacito? Forse che la poesia di Orazio non ha una fisonomia ben diversa da quella di Virgilio? Chi pensò mai di dar carico ad uno di loro di cattivo gusto solamente pel suo paragone coll’altro ? E tuttavia, non si è forse ciò fatto nella riprovazione assoluta e collettiva dei Tertulliani, dei Cipriani, dei Lattanzii, degli Ambrogi, degli Agostini, dei Girolami, ecc., poscia dei Gregorii da Nazianzo, dei Basilii e dei Grisostomi? Si cercò negli uni la frase ciceroniana, e non fu trovata; negli altri le forme di Demostene, e nemmeno ivi si trovarono; per ciò solo si conchiuse che quegli scrittori fossero di gusto traviato, senza chiedere a se medesimi, se nello speciale loro modo di scrivere essi non contenessero bellezze affatto pure e di altissimo ordine? Ma da quando in qua il genere di uno scrittore forma legge assoluta in letteratura? Si danno a studiare in pari tempo vari autori pagani, sebbene di generi diversissimi: perchè questo, se non affinché il gusto si formi ed ogni nascente ingegno si determini appunto con siffatto paragone? Quale è dunque lo spirito di menzogna che non volle che da trecent’anni in qua venissero seguitate, in quanto riguarda gli scrittori di Santa Chiesa, quelle regole così generali e così naturali ? » L’ esistenza di una doppia lingua latina essendo così resa innegabile, noi respingiamo come un’odiosa menzogna la denominazione di bassa latinità, adoperata per designare l’idioma della Chiesa; a più forte ragione noi respingiamo di nuovo e con tutte le nostre forze il qualificativo di barbara, applicato alla lingua latina cristiana, la quale, elaborata dai più bei geni d’ Occidente, dice egualmente bene in prosa ed in verso. La poesia latina cristiana ha per creatori e per modelli, oltre Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, San Gregorio, San Fulgenzio, Innocenzo III, San Bonaventura e San Tommaso. Quanto alla prosa, questa ricevette tutta quanta la sua perfezione da San Leone e soprattutto da San Gregorio. – Essa fu mirabilmente parlata dai Concili e dai più grandi uomini del medio-evo, e prima ancora, come p. e. da Sant’Eucherio, da San Massimo, da San Vincenzo da Lérins, da San Piero Grisologo, da San Prospero, da San Fulgenzio, da Boezio, da Cassiodoro, da Sant’Isidoro, da Sant’Ildefonso, da Beda, da Rabano, da Aimone, da San Bernardino da Siena, da Sant’Antonio da Padova, da San Pier Damiano, da Sant’Anselmo, da San Bruno, da San Bernardo, da Ugo e da Riccardo di San Vittore, da Pietro di Blois, da Alberto il Grande, da San Bonaventura, da San Tommaso, e da una quantità d’altri ai quali né l’antichità, né i tempi moderni nulla hanno a paragonare. Essa prosegue a parlarsi ed a scriversi con gran perfezione nelle congregazioni romane e negli atti ufficiali della Santa Sede. Tale si è la lingua che si osa chiamare barbara! Come se tutti quegli uomini immortali, come se tutti quei secoli cristiani che rivestir seppero il loro pensiero con sì meravigliose forme artistiche, fossero stati colpiti da idiotismo e da impotenza quando trattasi di esprimerlo colla parola! Non basta affermare; mostrateci l’esistenza di somigliante contraddizione. Mostrateci i titoli scientifici e letterari che vi danno autorità di lanciare l’oltraggio sulla fronte della Chiesa cattolica. Senza di questo, quando voi vi permetterete di qualificare di barbaro il latino dell’Evangelio e di San Bernardo, che forse non avete mai letto; di Tommaso da Kempis e di tanti altri, il cui stile presenta qualità ammirabili e quasi divine, voi provate di essere voi stessi ignoranti e barbari, simili a coloro che poco fa trattavano di gotici e di barbari i nostri capi d’opera d’architettura, la cui inimitabile perfezione non è oggidì negata da alcun uomo di buon gusto. Esaminando la questione intrinsecamente, e fatta astrazione dalle testimonianze esterne, noi siamo anche meglio fondali a respingere le qualificazioni di spregiativi, delle quali è argomento la lingua latina della Chiesa. Trattasi di sapere non già se questa lingua sia la lingua del secolo d’Augusto, ma se essa sia meno perfetta; in altri termini, se la lingua latina cristiana esprima le idee, i sensi e le cose del Cristianesimo men perfettamente di quello che la lingua latina pagana esprimesse le idee, i sensi e le cose del Paganesimo? se in bocca a San Leone, per esempio, a San Gregorio, a San Bernardo, a San Tommaso, il sovrannaturale sia meno eloquente, meno nobile, meno abbondante, meno sublime, meno semplice, meno chiaro, meno vario che noi sia il naturalismo in bocca a Tito Livio, a Quinto Curzio od a Cicerone? Chi può mai, colle prove in mano, rispondere affermativamente? Ecco circa la relativa perfezione dell’uno e dell’altro idioma. Circa la loro perfezione assoluta, volete voi sapere a che attenervene? Ricordatevi che il bello è lo splendore del vero: che lo splendore od il raggiare del vero si appalesa nell’arte e nella parola; che quanto più una società possiede il vero, tanto più il suo stile, la sua arte e la sua lingua sono belli. Ciò posto, a voi basta, per decidere quale delle due lingue sia all’altra superiore, il rispondere al quesito seguente: « il Cristianesimo possiede egli maggior verità che non il Paganesimo? ».

UN’ENCICLICA al giorno toglie il TRADIZIONALISTA ED IL MODERNISTA-APOSTATA di torno: “COMMISSUM DIVINITUS”.

 

S. S. Gregorio XVI

“Commissum divinitus”

Il Santo Padre Gregorio XVI, nel controbattere e rigettare con fermezza le conclusioni del convegno di Baden in Svizzera, ove le autorità civili dell’epoca avevano compiuto un primo tentativo di assalto alla Roccaforte Cattolica, volendo ad essa sottrarre le sue prerogative spirituali, religiose, dottrinali, finanche sacramentali, ed imporre “precetti” laici. Era evidentemente una delle tante prove che “coloro che odiano Dio e tutti gli uomini”, “la razza di vipere”, tentavano di organizzare utilizzando i tentacoli delle varie logge, già all’epoca operanti a pieno regime, ma non ancora infiltrate compiutamente come in tempi successivi, fino al conciliabolo vaticano secondo, quando esplosero con l’esilio del Santo Padre appena validamente eletto, Gregorio XVII, sostituito subito da una serie di apostati e marrani tuttora usurpanti. In ogni caso la lettera è per noi Cattolici molto interessante, perché ribadisce alcuni punti focali della Dottrina Cattolica, dalla proibizione dei matrimoni misti, all’indifferentismo religioso [attuale cavallo di battaglia degli apostati del “novus ordo”], dal primato del potere spirituale e divino su quello prosaico civile, alla costituzione gerarchica della Chiesa. Degni di essere sottolineati sono poi gli inviti, validi in eterno, ai Vescovi dell’epoca: “… impegnatevi a fondo e abbiate a cuore “non soltanto che i giusti perseverino sulla retta via, ma siano recuperati dall’errore anche coloro che sono stati irretiti dalla seduzione“, esortazione quanto mai applicabile agli attuali sedicenti tradizionalisti, sedotti da falsi pastori mercenari senza missione né giurisdizione, a seguire un Magistero alterato e “ad usum delphini”, contrario a tutta una serie di dogmi “scomodi” per essi. E per quanto riguarda la funzione centrale di Pietro, nella “unica” Chiesa di Cristo, ribadendone la condizione essenziale “sine qua non est salus” aggiunge: “ … Datevi da fare, diletti figli, perché tutti partecipino della stessa unità, non si lascino sviare in alcun modo da teorie vane e passeggere, evitino empie novità, restino saldi con ogni precauzione nella fede cattolica, stiano sempre sottomessi al potere e all’autorità della Chiesa, e a questa Cattedra che il potente Redentore di Giacobbe costruì su una colonna di ferro e un muro di bronzo contro i nemici della Religione, in modo tale che i cristiani ogni giorno di più rinsaldino la loro unità e comunione”. “Colonna di ferro e muro di bronzo”, ecco il Papa, il Santo Padre, definito dalle parole profetiche di Dio stesso date, per bocca di Geremia, al Successore di Pietro, il Vicario di Cristo, quello “vero”, unica garanzia di accesso all’Arca di salvezza che nel diluvio del mondo conduce ai Cieli ed alla felicità eterna, promessa a coloro che perseverano fino alla fine … altro che sedevacantismo, sedeprivazionismo, disobbedienza a proprio giudizio ed idiozie varie propinate da tanti cani sciolti! Che Dio ci liberi per l’intercessione della Beatissima Vergine Maria!

“COMMISSUM DIVINITUS humilitati Nostræ apostolici officii … “

“Il compito dell’ufficio apostolico, affidato da Dio alla Nostra umile persona, richiede di vigilare assiduamente e con forza per custodire il gregge del Signore, e di indirizzare in modo particolare gl’intenti e gli sforzi, per quel tanto che Ci è possibile, là dove sembra che la salvezza eterna delle pecore e la stessa Religione Cattolica siano messe in pericolo. – Siamo infatti a perfetta conoscenza, e ne siamo profondamente addolorati, che in codeste regioni gli avversari, con perfidia e non senza effettivi risultati, tramano in molte cose che vanno direttamente a danno esplicito del gregge cristiano e a detrimento della situazione della cattolicità. Il Nostro dolore è accresciuto dal fatto che costoro, per ingannare le persone semplici, sostengono di non voler per nulla intaccare l’integrità della fede, intenti soltanto a salvaguardare i diritti pertinenti al potere laicale. Si preoccupano però di stabilire e sancire tali presunti diritti con rivendicazioni di diritto pubblico del tutto false, sostenute da dottrine erronee e perverse, largamente insinuate e propagate. Di qui l’indizione di assemblee e consultazioni, con cui osano dichiarare e definire una normativa sicura, attraverso la quale il potere secolare può liberamente intervenire negli affari ecclesiastici. – Siete già a conoscenza,Venerabili Fratelli e diletti Figli, che Noi Ci siamo pronunciati su quanto è stato scandalosamente compiuto, o meglio perpetrato, nel mese di gennaio dello scorso anno nella città di Baden del Cantone di Argovia. Tutti questi avvenimenti hanno riempito voi stessi di profondissima angoscia e vi tengono tuttora ansiosi e perplessi. – Non vi possiamo nascondere che all’inizio non volevamo credere che dei laici fossero convenuti in un luogo stabilito [Baden] soltanto con l’intenzione di trattare di cose che interessano la Religione e che avessero voluto spingersi a deliberare, come fosse loro diritto, di varie cose esclusivamente spettanti alla potestà ecclesiastica, e di presentare le decisioni adottate, perché siano approvate con legge, a coloro che in codeste province federate detengono il potere. – Ma gli stessi atti del convegno sopra ricordato, da poco pubblicati a stampa in Gynopedio (Frauenfeld), documentarono a Noi come stavano realmente le cose; in essi sono riportati i nominativi dei presenti, dei deputati al convegno, gl’interventi proferiti da alcuni di loro in varie sessioni e, infine, integralmente le deliberazioni adottate colà. In verità, leggendo attentamente sia gl’interventi, sia queste deliberazioni, siamo rimasti inorriditi rendendoci conto che in essi erano contenuti principi che recano sconvolgimenti contro la Chiesa Cattolica; tali principi, proprio perché contrari espressamente alla sua dottrina e alla sua disciplina e, in più, apertamente indirizzati alla rovina delle anime, non possono in alcun modo essere sostenuti. – Senza dubbio, Colui che fece con profonda sapienza tutte le cose e le dispose secondo un preciso ordinamento, volle anche che nella sua Chiesa fosse presente un ordine gerarchico, così che alcuni avessero il compito di presiedere e comandare, e altri di essere sottomessi e ubbidire. Conseguentemente la Chiesa, dalla stessa istituzione divina, possiede non soltanto il potere di magistero per insegnare e definire i dati di fede e di costume e per interpretare le Sante Scritture senza alcun pericolo di errore, ma anche il potere di governo, allo scopo di mantenere e confermare nella dottrina della tradizione coloro che essa accolse nel suo grembo una volta per sempre; pertanto promuove le leggi in tutti quegli ambiti che riguardano la salvezza delle anime, l’esercizio del sacro ministero e il culto di Dio. – Chiunque si oppone a queste leggi si rende colpevole di un gravissimo crimine. In più, questo potere di insegnare e di comandare negli ambiti che riguardano la Religione sono stati assegnati da Cristo alla sua Sposa non soltanto in modo del tutto specifico ai pastori e ai presuli, al di fuori di ogni possibile ingerenza di magistrati del governo civile, ma in forme del tutto libere e in nulla dipendenti da qualsiasi potere terreno. – Infatti, non ai Principi di questo mondo, ma agli Apostoli e ai loro successori nel mandato, Cristo affidò il deposito della dottrina rivelata e a loro soltanto disse: “Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me“. Gli stessi Apostoli, poi, non da un riconoscimento del potere civile, ma anche in difformità da esso, annunziarono il Vangelo, diffusero gl’insediamenti della Chiesa, stabilirono la disciplina. Anzi, quando i capi della Sinagoga osarono imporre agli Apostoli di non predicare, Pietro e Giovanni, difendendo la libertà del Vangelo, risposero: “Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a Lui, giudicatelo voi stessi“. Pertanto, solo colpendo la fede e violando apertamente la divina costituzione della Chiesa e la natura del suo governo, può avvenire che si imponga nei suoi confronti il potere del mondo o che la sua dottrina sia vincolata fino ad impedirle di produrre e promulgare le leggi attinenti al ministero sacro, al culto divino e al bene spirituale dei fedeli. – Questi diritti della Chiesa sono certi e immutabili sulla base dell’autorità di tutti gli antichi Padri e sono garantiti dalla tradizione. – Osio, vescovo di Cordova, scriveva all’imperatore Costantino: “Non immischiarti negli affari ecclesiastici, e in questa materia non inviare a noi degli ordini; al contrario, impara da noi quanto segue: A te Dio affidò l’impero e a noi affidò la Chiesa. Chi in qualsiasi modo sottrae l’impero a te, si mette contro l’ordine stabilito da Dio; ma anche tu sta’ attento a non diventare colpevole di un grande crimine, volendoti immischiare nelle cose della Chiesa“. – I Principi cristiani riconobbero tutto questo e ritennero che fosse per loro un vanto confessarlo apertamente. Tra essi l’imperatore Basilio il Grande così si espresse nell’ottavo Concilio: “Quanto a voi laici, sia nei riguardi di coloro che rivestono posizioni di potere, sia verso tutti gli altri a cui mi riferisco, non ho altre cose da dire se non che in nessun modo a voi è permesso trattare le cose ecclesiastiche. L’investigazione e la ricerca in questo ambito sono riservate ai Patriarchi, ai Pontefici e ai sacerdoti espressamente deputati all’ufficio di governo della Chiesa. Essi hanno il potere di santificare, legare e sciogliere, perché sono in possesso delle chiavi ecclesiastiche e celesti. A noi laici, bisognosi di essere guidati, santificati, giuridicamente legati e sciolti, non competono poteri ecclesiastici“. – Con criterio diametralmente opposto a tutto questo si è deliberato nell’assemblea di Baden, da cui furono emanati articoli che distruggono la giusta dottrina del potere ecclesiastico, e riducono la stessa Chiesa in una riprovevole e ingiusta schiavitù. La Chiesa sarebbe sottomessa al potere laico nel pubblicare i decreti dogmatici qualora si stabilisse che le leggi da lei emanate circa la disciplina rimarrebbero senza forza e senza effetto se non promulgate con il consenso dell’autorità secolare, con aggiunta l’intenzione di procedere penalmente contro coloro che si comportassero diversamente. Che altro? Alla stessa potestà civile si dà libera facoltà di approvare o di rigettare tutto ciò che i sinodi, che noi chiamiamo diocesani, hanno stabilito per le singole circostanze: di presiedere i Seminari; di confermare la loro disciplina interna fissata dai sacri Vescovi; di designare, dopo l’esame nelle singole materie scientifiche, i chierici agli uffici ecclesiastici; di disporre in ogni istituzione religiosa e morale del popolo; di regolare infine tutto ciò che riguarda quella che chiamano disciplina esterna della Chiesa, benché sia di natura e d’indole spirituale, e di ordinare il culto divino e la salute delle anime. – In verità, nulla appartiene più propriamente alla Chiesa, e Cristo nulla più strettamente ha voluto riservare ai suoi pastori che l’amministrazione dei Sacramenti da Lui istituiti. La ragione di questa riserva può essere giudicata soltanto da coloro che Egli stabilì come ministri della sua opera sulla terra. È del tutto ingiusto perciò che il potere civile rivendichi per sé qualcosa a proposito del santissimo esercizio della potestà ecclesiastica; è del tutto ingiusto che il potere civile stabilisca alcunché in tale esercizio o imponga obblighi ai ministri sacri; è del tutto ingiusto che il potere civile con le sue leggi si ponga contro le norme che stabiliscono il modo di amministrare i sacri misteri al popolo cristiano, sia quelle fissate negli scritti, sia quelle trasmesse a viva voce dalle origini della Chiesa fino ai nostri tempi. – San Gelasio, Nostro Predecessore, nella sua lettera all’imperatore Anastasio scriveva: “Hai pienamente conosciuto, o figlio clementissimo, ciò che ti è permesso, per la tua dignità, in quanto presidente della società umana; tuttavia sei devotamente sottomesso ai presuli nelle cose divine, e da loro richiedi le fonti della tua salvezza. Nel ricevere i Sacramenti celesti e nell’amministrazione degli stessi, da parte di chi ne ha legittima competenza, riconosci apertamente che tu devi essere sottomesso all’ordinamento della Religione, anziché Presiederlo. Hai riconosciuto perciò che in questo ambito tu dipendi dal giudizio dei presuli e che non puoi pretendere che essi si conformino al tuo Potere“. – Invece, cosa che appare del tutto incredibile e ha del fantasioso, nell’assemblea di Baden ci si è spinti tanto innanzi da attribuire il diritto e il compito di disporre la stessa amministrazione dei Sacramenti al potere secolare. Su questo preciso aspetto vertono gli articoli deliberati con temeraria arroganza a proposito del grande Sacramento del matrimonio da celebrare in Cristo e nella Chiesa. Da qui deriva un esplicito sostegno al decreto sulle nozze tra diverse confessioni religiose; da qui l’imposizione ai parroci cattolici di benedire queste nozze, prescindendo del tutto dalla diversità di confessione religiosa dei due coniugi; da qui infine minacce severe e punizioni verso coloro che contravvenissero a tali disposizioni. Tutte queste cose non sono soltanto e meritamente da rigettarsi per il fatto che il potere civile legiferi sulla celebrazione del Sacramento istituito da Dio, e per il fatto che osi imporre la propria autorità ai sacri Pastori in una materia così importante; ma sono anche da rifiutarsi con maggior forza per il fatto che favoriscono l’opinione del tutto assurda ed empia che va sotto il nome di indifferentismo, sul quale anzi sono necessariamente fondati. Pertanto tutte queste cose risultano assolutamente contrarie alla verità cattolica e alla dottrina della Chiesa, la quale detestò continuamente e sempre proibì i matrimoni misti, sia come scandalosa comunione in una cosa sacra, sia come grave pericolo di perversione del coniuge cattolico, né mai concesse la libera facoltà di contrarre matrimoni misti, se non a precise condizioni che tenessero lontano dai matrimoni le cause di difformità e di pericolo. – L’Apostolo Paolo, scrivendo agli Efesini, espone con molta chiarezza come Cristo conferì alla sua Chiesa il più alto potere in ordine al governo della Religione e alla conduzione della società cristiana, in nulla sottoposti al potere civile, a tutto vantaggio dell’unità interna. Ma come sarebbe possibile questa unità se non ci fosse un solo responsabile a presiedere su tutta la Chiesa, per difenderla e custodirla, per unire tutte le membra della Chiesa stessa nell’unica professione di fede e congiungerle nell’unico vincolo di carità e di comunione? – La sapienza del divino Legislatore mirava effettivamente a far sì che a un corpo sociale visibile corrispondesse un capo visibile, perché “con la sua istituzione fosse evitato ogni rischio di scisma“. Da questo deriva che tutti i Vescovi, che lo Spirito Santo ha deputato a reggere la Chiesa di Dio, per quanto abbiano una comune dignità e uguale potestà per ciò che riguarda i poteri di ordine, tuttavia non tutti hanno un unico livello gerarchico, né la stessa ampiezza di giurisdizione. In merito Ci riferiamo a quanto ha dichiarato San Leone Magno: “Se è vero che anche fra i beatissimi Apostoli vi fu una certa partecipazione paritaria al potere per quanto attiene alla dignità, essendo uguale per tutti l’elezione, tuttavia ad uno soltanto è stato affidato il potere di presiedere a tutti… perché il Signore dispose che il compito dell’annuncio del Vangelo, proprio della missione degli Apostoli, appartenesse in modo preminente al beato Pietro, al disopra di tutti gli Apostoli“. – Quello dunque che il Signore concesse unicamente a Pietro fra tutti gli Apostoli, quando gli affidò le chiavi del Regno dei cieli unitamente al mandato di pascere gli agnelli e le pecore e di confermare nella fede i fratelli, volle estenderlo anche ai successori di Pietro, che mise a capo della Chiesa con uguali diritti, per l’efficienza della Chiesa stessa, destinata ad esistere fino alla fine del mondo. – Questo fu sempre il parere concorde e fondato di tutti i cattolici; è un dogma di fede che il Romano Pontefice, successore del beato Pietro, Principe degli Apostoli, detiene nella Chiesa universale non solo un primato di onore, ma anche di potere e di giurisdizione; di conseguenza gli stessi Vescovi sono a lui sottomessi. In merito lo stesso San Leone prosegue: “È necessario che tutta la Chiesa diffusa nel mondo sia unita alla Santa Chiesa Romana, sede di Pietro, e converga al centro dell’unità cattolica e della comunione ecclesiastica. Colui che oserà distaccarsi dal fondamento di Pietro deve capire che si estrania dal mistero divino“. – San Girolamo aggiunge: “Chiunque mangerà l’agnello [pasquale] al di fuori di questa casa, si emargina dalla salvezza; se qualcuno non si trova in questa arca di Noè, è destinato a perire al momento del diluvio“. Come colui che non raccoglie con Cristo, disperde tutto, analogamente colui che non raccoglie con il suo Vicario non raccoglie alcunché. – Come può raccogliere con il Vicario di Cristo colui che distrugge la sua autorità sacra, calpesta i diritti di cui egli solo è in possesso in quanto capo della Chiesa e centro dell’unità: diritti da cui gli deriva il primato di ordine e giurisdizione unitamente al supremo potere, affidatogli da Dio, di pascere, reggere e governare la Chiesa universale? – In verità, lo affermiamo tra le lacrime, è proprio questo che si è osato compiere nell’assemblea di Baden. Soltanto un Romano Pontefice, e non un qualsiasi Vescovo, può per diritto innato e proprio mutare i giorni stabiliti come feste da celebrare o da assegnare al digiuno, o abrogare il precetto di partecipare alla Messa, come risulta apertamente definito nella costituzione “Auctorem fidei” contro i pistoiesi, promulgata da Pio VI, Nostro Predecessore di santa memoria, il 28 agosto 1794. Emerge invece il contrario negli articoli dell’assemblea di Baden, che appaiono anzi più pericolosi perché sugli stessi temi si è legiferato indiscriminatamente, riconoscendo in modo esplicito al potere civile il diritto di decidere. – Per contro, spetta soltanto ai Romani Pontefici il diritto particolare di esimere gli Ordini religiosi dalla giurisdizione dei Vescovi e di sottometterli direttamente a se stessi. Questo diritto è stato praticato da loro fin dai tempi più antichi, senza possibilità di smentita. Anche a questo diritto e in modo del tutto esplicito contravvengono gli articoli dell’assemblea di Baden. Infatti, senza menzionare il permesso da richiedere e da ottenere come condizione necessaria dalla Sede Apostolica, si è stabilito che dal potere secolare vengano adottate quelle decisioni con le quali, abolito l’impedimento per i Cenobii presenti in Svizzera, sono sottomesse all’autorità ordinaria dei Vescovi le famiglie religiose. – A tutto questo vanno aggiunte le norme stabilite riguardanti l’esercizio dei diritti dei Vescovi; cose tutte che, se considerate con profonda attenzione, appaiono chiaramente collegate a quei principi su cui sono stati stabiliti gli altri articoli nella medesima assemblea. In essi sembra di capire che la giurisdizione dei Vescovi, in cause fondate, non può e non deve essere vincolata dalla suprema autorità del Pontefice Romano, e talvolta deve essere circoscritta in determinati limiti. – Né possono essere sottaciute le cose trattate e proposte circa l’elezione della sede metropolitana, e a proposito dei territori di alcune Diocesi di costì da congiungersi ad altra Chiesa cattedrale posta fuori dei confini elvetici. Per quanto in questo caso si sia tenuto conto in parte dei diritti della Sede Apostolica, tuttavia non ci si è attenuti rettamente alle esigenze e alla natura del primato divino della stessa Sede; a Baden infatti si è deliberato di decidere intorno a problemi fondamentali, riguardanti le necessità spirituali del popolo cristiano, come se al potere civile fosse permesso, per diritto proprio, di agire del tutto liberamente. – Tralasciamo varie altre osservazioni, che sarebbe tedioso riferire in modo dettagliato; anche tali dati recano tuttavia non piccolo danno a questa santa Cattedra di Pietro e ne diminuiscono, violano e disprezzano la dignità e l’autorità. – Stando così i fatti, in un così grande ed esplicito perturbamento della sana dottrina e del diritto ecclesiastico, in un così pesante e grave discrimine della situazione dei cattolici in codeste regioni, da parte Nostra, appena conclusa l’assemblea di Baden, avremmo dovuto alzare la voce di protesta da questo santo monte e controbattere, respingere e condannare apertamente tutti gli articoli colà dibattuti. In verità, per nessuna ragione e neanche per un istante abbiamo avuto pareri diversi intorno alla malvagità di tali proposizioni, ma speravamo che non solo non venissero ratificate in seguito, ma fossero del tutto rigettate e rifiutate da coloro che costì detengono il potere nell’amministrazione civile. – Ma dal momento che la maggioranza di tali articoli non era stata sottoposta a libera votazione e, anzi, con profondo dolore abbiamo appreso che in qualche luogo erano state promulgate leggi con le quali gli stessi articoli vengono confermati e avvalorati con pubbliche sanzioni, abbiamo capito di non potere più a lungo soprassedere e non pronunciarci, dal momento che rivestiamo l’incarico di Maestro e dottore universale, per quanto immeritevole, a cui compete il dovere operoso di impedire che qualcuno, prendendo lo spunto dal Nostro atteggiamento, sia indotto miseramente in errore, ritenendo che i più volte ricordati articoli dell’assemblea di Baden non siano per nulla contrari alla dottrina e alla disciplina della Chiesa. – Affinché poi da parte di questa Santa Sede un problema di così grave importanza fosse deciso con la massima oculatezza, abbiamo voluto che gli stessi articoli fossero sottoposti ad un esame accuratissimo. Ascoltati in merito vari consigli, ricevuti i pareri dei Nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa attraverso la Congregazione preposta al disbrigo degli affari ecclesiastici, e in più, da parte Nostra, ponderata la situazione sotto ogni aspetto con serietà e approfonditamente, con motu proprio e certa scienza nella pienezza del potere apostolico, riproviamo, condanniamo e giudichiamo come riprovevoli e da condannarsi in perpetuo i precitati articoli dell’assemblea di Baden; le asserzioni in essi contenute sono da ritenere false, temerarie, erronee, contrarie ai diritti della Santa Sede, sconvolgenti il governo della Chiesa e la sua divina costituzione in quanto emanazioni dei principi condannati; eretiche e scismatiche, mirano a sottoporre il ministero ecclesiastico al potere secolare. Tutto quello che ritenemmo necessario dichiarare, basandoci sulla missione del Nostro ufficio apostolico, vi diciamo con il più ampio affetto paterno: voi siete partecipi di quell’autorità della quale il Principe dei pastori affidò la pienezza a Noi, assolutamente immeritevoli. – Da quante angosce è oppresso il Nostro cuore, o Venerabili Fratelli, in mezzo ai tanti mali per i quali la Chiesa Cattolica geme oppressa quasi in ogni luogo, in questi tempi pieni di tribolazione! Da quanta tristezza siamo gravati, ve lo lasciamo immaginare, senza che sia necessario dichiararlo a tutti, soprattutto a causa dei fatti recenti costì accaduti, tramati con sfrontata audacia per la rovina della Chiesa. Non possiamo però nascondervi che un forte sollievo al Nostro dolore Ci è giunto apprendendo tutto quello che avete compiuto per difendere la causa cattolica e per curare la salvezza del gregge affidato alla vostra fede. Per questo benediciamo dal profondo dell’animo il Padre di ogni misericordia, Dio di ogni consolazione, che Ci consola in voi, associati con Noi nella prova. – In verità, pensiamo che non ce ne sia bisogno, ma dal momento che la gravità del pericolo lo richiede, non possiamo non spronare il vostro zelo costante verso la Religione; vi esortiamo con ogni ardore, perché quanto più aspro è l’impeto dei nemici, con tanta maggiore applicazione prendiate a cuore la causa di Dio e della Chiesa. A voi in modo tutto speciale compete erigervi come baluardo, affinché non si ponga alla fede cristiana un fondamento diverso da quello che fu posto all’inizio; il santissimo deposito della fede va custodito e difeso integro. Ma vi è un altro deposito che dovete strenuamente difendere e salvaguardare nella sua integrità: quello delle sacre leggi della Chiesa, attraverso le quali la Chiesa stessa stabilì la propria disciplina, e inoltre quello dei diritti di questa Sede Apostolica, con i quali la Sposa di Cristo si pone fieramente come un esercito schierato per la battaglia. – Operate dunque, Venerabili Fratelli, in conformità della posizione che ricoprite, della dignità di cui siete insigniti, del potere che avete ricevuto, del giuramento al quale vi siete legati nel solenne momento iniziale della vostra missione. Sfoderate la spada dello Spirito, che è la Parola di Dio; richiamate, esortate, rimproverate con ogni magnanimità e dottrina; per la Religione Cattolica, per il potere divino della Chiesa e per le sue leggi, per la Cattedra di Pietro, per la sua dignità e per i suoi diritti, impegnatevi a fondo e abbiate a cuore “non soltanto che i giusti perseverino sulla retta via, ma siano recuperati dall’errore anche coloro che sono stati irretiti dalla seduzione“. Perché si raggiunga l’esito tanto desiderato dagli sforzi e dalle fatiche intraprese dai Nostri Venerabili Fratelli nell’episcopato, facciamo appello anche a voi tutti, sacri ministri dipendenti dai Vescovi, pastori d’anime e predicatori della Parola divina. È vostro compito specifico essere in comunione d’intenti con i Vescovi; essere infiammati da uno stesso zelo, cooperare con un unico consenso degli animi, in modo che il popolo cristiano risulti del tutto preservato da ogni contagio dei mali incombenti e dal pericolo di errori. – Datevi da fare, diletti figli, perché tutti partecipino della stessa unità, non si lascino sviare in alcun modo da teorie vane e passeggere, evitino empie novità, restino saldi con ogni precauzione nella fede cattolica, stiano sempre sottomessi al potere e all’autorità della Chiesa, e a questa Cattedra che il potente Redentore di Giacobbe costruì su una colonna di ferro e un muro di bronzo contro i nemici della Religione, in modo tale che i cristiani ogni giorno di più rinsaldino la loro unità e comunione. – Tutti coloro, poi, che voi accoglierete per educarli alla legge di Cristo e della Chiesa, preoccupatevi di renderli nello stesso tempo sensibili al gravissimo obbligo di prestare obbedienza anche al potere civile e alle leggi da esso emanate riguardanti il bene della società, non soltanto per paura di essere puniti, ma anche per rispettare la voce della propria coscienza: non è mai lecito deviare vergognosamente dalla fedeltà dovuta ad essa. – Quando avrete cosi formato gli animi dei vostri fedeli attraverso il vostro apostolato, potrete provvedere nel migliore dei modi sia alla pace dei cittadini, sia al bene della Chiesa: le due entità non possono essere messe in contrasto. – Porti a compimento questi Nostri desideri il Dio di ogni benevolenza, da cui attendiamo ogni grazia e ogni dono; così dei frutti che aspettiamo ardentissimamente da codesta porzione del gregge cattolico, voglia essere auspice la Nostra Apostolica Benedizione che impartiamo con tutto il cuore a voi, Venerabili Fratelli e signori, da estendere anche al popolo fedele!”

Dato a Roma, presso San Pietro, il 17 maggio 1835, anno quinto del Nostro Pontificato.

 

 

DOMENICA VII dopo PENTECOSTE

I tre Marrani: “dai frutti [ERESIE] li riconoscerete… !” (Matt. VII, 16)

Introitus

Ps XLVI:2.  Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis.[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Ps XLVI:3 Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis: Rex magnus super omnem terram. [Poiché il Signore è l’Altissimo, il Terribile, il sommo Re, potente su tutta la terra.] Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis. [O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Oratio

Orémus. Deus, cujus providéntia in sui dispositióne non fállitur: te súpplices exorámus; ut nóxia cuncta submóveas, et ómnia nobis profutúra concédas. [O Dio, la cui provvidenza non fallisce mai nelle sue disposizioni, Ti supplichiamo di allontanare da noi quanto ci nuoce, e di concederci quanto ci giova.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom 6:19-23

“Fratres: Humánum dico, propter infirmitátem carnis vestræ: sicut enim exhibuístis membra vestra servíre immundítiæ et iniquitáti ad iniquitátem, ita nunc exhibéte membra vestra servíre justítiæ in sanctificatiónem. Cum enim servi essétis peccáti, líberi fuístis justítiæ. Quem ergo fructum habuístis tunc in illis, in quibus nunc erubéscitis? Nam finis illórum mors est. Nunc vero liberáti a peccáto, servi autem facti Deo, habétis fructum vestrum in sanctificatiónem, finem vero vitam ætérnam. Stipéndia enim peccáti mors. Grátia autem Dei vita ætérna, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

Omelia I

[Mons. Bonomelli, Omelie, vol III, omelia XV.Torino 1899]

Parlo da uomo, secondo la vostra naturale debolezza: siccome offriste le vostre membra a servire alla immondezza ed alla iniquità per la iniquità, così ora fate di offrirle alla giustizia per la santificazione. E invero, quando eravate servi del peccato, eravate franchi dalla giustizia. Ora qual frutto ricavaste da quelle opere, delle quali ora arrossite? Perché termine di quelle è la morte. Ma ora affrancati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per vostro frutto la santificazione e per termine la vita eterna. Perché lo stipendio del peccato è morte; ma il dono di Dio è vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore„ ( Ai Rom. VI, 19-23).

L’omelia, che tengo, come sapete, si riduce costantemente ad un commento del Vangelo o della Epistola della Domenica corrente. Questo metodo ha il vantaggio di seguire l’esempio dei Padri, di rispondere alla lettera ed spirito della prescrizione tridentina, di esporre l’insegnamento divino della Scrittura, ma non va immune da alcune difficoltà, delle quali la principale è questa: il testo del Vangelo o della Epistola, che si legge nella santa Messa, è tolto qua e là da uno dei quattro Vangeli e dalle Lettere apostoliche. Naturalmente staccato dagli antecedenti e dai conseguenti, raro è che presenti un tutto insieme, che stia da sé e si possa comprendere separatamente dal contesto, e ciò specialmente quanto alla Epistola. Se voi vedete un ramo tagliato dal suo albero, per giudicarne siete obbligati di guardare all’albero, dal quale fu tagliato. Così avviene a me nella spiegazione in particolar modo della Epistola; per conoscere debitamente il senso della parte, che riferisco, sono obbligato a vedere ciò che precede il testo, affine di seguire il filo del ragionamento e trovare il nesso che congiunge le parti. – Scopo dell’apostolo Paolo in questo capo sesto della lettera ai Romani è di mostrare che il battezzato ha l’obbligo di vivere una vita nuova, la vita di Cristo, rimovendo la vita dell’uomo vecchio, la vita del peccando. Svolgendo questa verità, S. Paolo si avvia ad una applicazione pratica bellissima, e dice che tutto quello che in noi servì di strumento alle passioni ed al peccato prima del battesimo, deve servire a strumento di virtù dopo il battesimo: come prima eravamo servi del peccato, cosi dopo dobbiamo essere servi della giustizia. E qui comincia il testo dell’Apostolo, che avete udito e che deve formare il soggetto della presente omelia. – “Parlo secondo uomo per la vostra naturale debolezza: perché siccome offriste le vostre membra a servire alla immondezza ed alla iniquità, così or fate di offrirle alla giustizia per la santificazione. „ Vi ho detto, che voi col battesimo siete diventati servi della giustizia: Servi facti estis justitiæ. Questa parola “servi”, soggiunge l’Apostolo quasi scusandosi, vi torna grave e quasi vi offende, perché l’essere servi importa l’aver perduto ciò che l’uomo ha di più alto e di più caro, la libertà; ma ho dovuto usare questa parola, non avendone altra a mano e che risponda alla cosa. Sono costretto a parlare così per la povertà del nostro linguaggio e per farmi intendere come meglio posso, e voi o Romani, non offendetevi della parola “servi” “Humanum dico, propter infìrmitatem carnis vestræ”. – Fors’anche questa frase Humanum dico, può significare: vi dico cosa piana affatto, naturale, facile ad intendersi. E qual è? Finché voi vivete nel peccato, seguendo le vostre passioni, voi foste servi delle stesse e portaste il loro giogo vergognoso. Le vostre membra furono strumento al peccato, gli occhi, le orecchie, la lingua, le mani, i piedi, tutto il vostro corpo, che altro fecero se non servire in mille modi al peccato? Voi, che disprezzate il servo e non volete essere servi di chicchessia, pure serviste ad ogni turpitudine, “Immunditiæ”, ad ogni iniquità in guisa di precipitare da iniquità in iniquità: Iniquitate in iniquitatem, ora non dovete aver vergogna d’essere servi della giustizia, della virtù, affine di santificarvi. Udite il commento che questa sentenza ci lasciò un Padre della Chiesa: “Con queste parole San Paolo vuole che i suoi lettori arrossiscano di se stessi, affinché facciano per la virtù quello che prima fecero pel vizio, quasi dicesse: prima i vostri piedi correvano al delitto, ora corrano alla virtù; prima le vostre mani si allungavano per rapire l’altrui, ora si stendano per largheggiare del vostro; prima i vostri occhi si volgevano intorno per bramare d’avere l’altrui, ora si volgano intorno per soccorrere i poverelli, e quel servizio che ciascun membro del vostro corpo prestò ai vizi, ora lo renda alle virtù, e se un tempo corse dietro a sozzi piaceri, ora batta le vie della castità e della santità. „ Vi torna amara questa parola” servi della giustizia, „ – “Servi facti estis justitiæ”; non la vorreste udire, perché vi sembra un oltraggio alla vostra dignità; ma ricordatevi di quel tempo, nel quale “eravate servi del peccato, ed eravate franchi, cioè liberi del giogo della giustizia: “Cum servi essetis peccati, lìberi fuistis justitiæ”. – Qui è necessario spiegare più largamente il pensiero dell’Apostolo. Vi è il bene, vi è il male; vi è la virtù, vi è il vizio; vi è la legge di Dio, vi è la legge del mondo e della carne: noi siamo posti tra la legge di Dio e la legge del mondo, tra il vizio e la virtù, tra il bene ed il male: dobbiamo necessariamente appigliarci all’uno od all’altro; lo starcene indifferente è impossibile e vorrebbe dire, se pure fosse possibile, che ci gettiamo dalla parte del male, del vizio e del mondo, perché chi non è con Cristo è contro di Lui. È dunque condizione assoluta dell’uomo il servire al bene od al male, al vizio od alla virtù, a Dio o al mondo; è la sua stessa natura, che l’obbliga a mettersi dall’una o dall’altra parte, a scegliere d’essere servo di Dio o del mondo, del peccato o della giustizia. Per quanto gli spiaccia questa parola servire, non è in poter suo sottrarsi a questa legge sovrana. Ora fino al giorno nel quale avete creduto a Cristo e avete ricevuto il battesimo, a chi avete voi servito? domanda l’Apostolo. Al peccato: Cum servi essetis peccato. Servendo al peccato, per fermo non servivate alla giustizia, eravate sciolti e franchi dal suo giogo: ora vi sembra, così argomenta l’Apostolo, che sia più degno dell’uomo servire al peccato od alla giustizia? Poiché vi è pur forza piegare il collo sotto il gioco dell’uno o dell’altra, chi non vede che è meglio servire alla giustizia che al peccato? – Strana e quasi incredibile contraddizione quella dell’uomo! Egli ha una tendenza innata, che gli fa considerare come nemico chiunque metta un limite alla sua indipendenza, e come un diritto sacro inalienabile quello di usare come meglio gli piace della sua libertà. Egli non vede che i suoi diritti e la sua libertà; di doveri e di dipendere non ama che gli si parli e volentieri li dimentica. Che cosa è la libertà debitamente intesa? È il potere di usare delle proprie forze, di fare o non fare certi atti, di non essere impedito nell’esercizio delle sue facoltà e de suoi diritti. Ora si può essa comprendere questa libertà dell’uomo senza il dovere di rispettare i diritti altrui, ossia la libertà altrui? Evidentemente, no. Intorno ad ogni uomo vi sono altri uomini, che hanno diritti eguali ai suoi, e vi sono libertà che limitano la sua, giacché dove comincia la libertà degli altri cessa la nostra. Al di sopra di lui vi è l’autorità civile e politica con le sue leggi: vi è la Chiesa con le sue leggi, e al di sopra della civile autorità e della Chiesa vi è Dio, il Padrone assoluto di tutti. In faccia ai diritti dei suoi simili, in faccia alle autorità umane, alla Chiesa, a Dio, che a tutti sovrasta, qual è il dovere d’ogni uomo? Che uso deve egli fare della sua libertà? L’uso ch’egli deve fare della sua libertà è quello di sottoporla a chi ha diritto d’averla a sè sottoposta. Allora essa è al suo posto, usa debitamente delle sue forze e con l’adempimento esatto dei suoi doveri si mostra rispettosa pei diritti altrui ed è vera libertà. – Come sarei felice se potessi farvi comprende che la libertà vera sta riposta, non già nel fare ciò che a noi piace, sia bene, sia male, ma solamente nell’adempire i nostri doveri e fare il bene, che solo veramente ci giova! L’occhio per vedere deve dipendere dalla luce, i polmoni per respirare devono dipendere dall’aria, il sangue per fare il suo giro deve dipendere dal cuore e così via via dite di tutte le membra del corpo, ciascuna delle quali più o meno dipende dalle altre. Oltre che direste voi se col pretesto di voler piena libertà l’occhio respingesse la luce, i polmoni non volessero aver che fare coll’aria, il sangue rigettasse ogni dipendenza dal cuore ed ogni membro rifiutasse sottostare all’altro e volesse fare da sé? Avremmo il disordine più perfetto e la morte. È la dovuta dipendenza quella che crea e mantiene la libertà di ciascun membro del nostro corpo: così la legittima dipendenza, o in altre parole l’adempimento perfetto dei nostri doveri verso i nostri simili, verso tutte le autorità e sovra tutto verso Dio quello che ci dà ed assicura la nostra vera libertà, e in questo senso Cristo disse, che chi commette il peccato è schiavo del peccato, e quegli è libero chi è liberato da lui. Dunque, o cari, non confondiamo le cose, non diamo il santo nome di libertà alla schiavitù, né col brutto nome nome di schiavitù vogliamo designare la vera libertà. Schiavo è colui che ubbidisce alle passioni, che serve al peccato; libero invece è quegli che frena le passioni, caccia da sé il peccato e serve alla giustizia ed alla virtù, perché l’uomo di sua natura è fatto per servire alla virtù e non per servire al peccato. – Vi è un figliuolo: egli rifiuta di ubbidire ai suoi genitori ed ubbidisce ad un servo, al quale deve comandare, vantandosi d’essere libero di così fare. Direte voi che questo figliuolo è veramente libero? Voi direte che è libero il figliuolo che ubbidisce ai suoi genitori e comanda al suo servo, perché così vuole la giustizia e l’ordine. Similmente noi diremo che chi respinge il giogo del peccato e serve a Dio, suo Padre, e a cui servire è regnare, è veramente libero. Deh! Carissimi cessiamo dal chiamare luce le tenebre e le tenebre luce, libertà la schiavitù e la schiavitù libertà. Siamo servi della giustizia, servi di Dio, e saremo liberi dal peccato e franchi dal mondo. Forse non mai nel corso dei secoli si parlò tanto di libertà come ai nostri tempi e forse non mai se n’ebbe un’idea sì confusa e sì falsa. Quanti al giorno d’oggi credono ci sia libertà vera fare ciò che piace, sia bene sia male! Quanti che vogliono per sé la libertà più sconfinata, non badando che questa importa la violazione dell’altrui libertà! Siffatta libertà metterebbe il mondo sossopra e produrrebbe la più brutta schiavitù. Ricordatelo bene: la libertà vera secondo la ragione e secondo il Vangelo, è rispettare e osservare le leggi di Dio, della Chiesa e di tutte le autorità anche civili: libertà vera è adempiere ciascuno i propri doveri, rispettando i diritti degli altri. Voi, ne sono certo, vi atterrete a questa legge, e così sarete veramente liberi. – Seguitando ora il nostro commento, vedete come l’Apostolo rincalzi a meraviglia la verità sopra accennata, vale a dire che dobbiamo essere servi della giustizia, e non del peccato. “Qual frutto aveste allora da quelle opere delle quali ora arrossite? „ Un tempo, così S. Paolo, prima di ricevere il battesimo, eravate servi del peccato, facevate le opere del peccato: ora, illuminati dalla verità, considerando quelle opere, non è vero che vi sentite salire sul volto la fiamma della vergogna? Non è vero che sentite tutta la vergogna di quel vituperoso servaggio? Ecco una prova indubitata che il servire al peccato non è libertà, ma servitù indegna, perché se fosse libertà non ne avremmo vergogna, anzi ne andremmo alteri. – Non solo il servire al peccato ci fa vergognare, continua l’Apostolo, ma vi è ben peggio: “Termine, ossia frutto delle opere del peccato è la morte, „ Finis illorurn mors est. Quale morte? La morte eterna! Bando adunque al servaggio del peccato, che dopo averci coperto di vergogna, spesso agli occhi del mondo, sempre a quelli della coscienza e di Dio, ci getta in braccio alla morte eterna. Bando al servaggio del peccato, che ci disonora ed uccide l’anima! – Che faremo dunque? “Sciolti o affrancati dal peccato e divenuti servi di Dio, avete per frutto la santificazione e per termine la vita eterna. „ In questo versetto S. Paolo ha condensato i doveri tutti dell’uomo nel tempo ed il suo destino nella eternità: romperla con le passioni e con il loro frutto, il peccato, santificarsi con l’esercizio della virtù e così toccare la meta ultima, il conseguimento della vita eterna: Finem vero vitam æternam. – Il versetto che segue, ultimo del capo e ultimo della nostra lezione è, possiam dire, la ripetizione di quello che abbiamo spiegato: “Perché lo stipendio del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna, in Cristo Gesù, nostro Signore.„ L a parola stipendio qui adoperata, è tolta dall’uso militare e per sé significa il soldo che si dava qual mercede al soldato. Sì, sembra gridare l’Apostolo: se voi servirete alle passioni, al peccato, e come soldati militerete sotto la sua bandiera, avrete anche dal peccato la mercede dovuta alla vostra miserabile milizia: il vostro stipendio sarà la morte eterna. Volgerete voi le spalle al peccato?” Correrete sotto la bandiera della giustizia e combatterete animosamente per essa? Il vostro stipendio, !a vostra mercede sarà il dono di Dio, che è la vita eterna: autem Dei, vita æterna, e questa la dovrete ai meriti di Gesù Cristo. – Questa sentenza di S. Paolo ci presenta una difficoltà, ed è questa: S. Paolo ci insegna ripetutamente in altri luoghi, che la vita eterna è corona dovuta a chi combatte e vince: è mercede dovuta a chi lavora e dovuta rigorosamente per giustizia: Gesù Cristo stesso ci dice di rallegrarci, perché grande ed abbondante è la mercede, che ci è riserbata in cielo; ora come sta che qui S. Paolo la chiama dono o grazia di Dio? Gratia autem Dei, vita æterna? Se è grazia, non è mercede: se è mercede non può essere grazia. Forsechè l’Apostolo bruttamente contraddice a se stesso? L’Apostolo certamente non può contraddire a se stesso, e la risposta non è difficile. La vita eterna è mercede di giustizia dovuta alle opere nostre: Dio non può negarla a chi opera rettamente. Ma come, con qual mezzo facciamo noi le opere meritevoli della vita eterna? Col mezzo della grazia che Dio ci ha data. E la grazia, la prima grazia, è essa nostra, o dono di Dio? La grazia, la prima grazia non è opera nostra, non la possiamo in alcun modo meritare, ed è dono della bontà divina. La vita eterna pertanto considerata nella sua radice, che è la grazia, è dono di Dio affatto gratuito: considerata nelle opere, frutto della grazia e della nostra corrispondenza alla medesima, è mercede: corona a noi dovuta. Volete comprendere questa verità con una similitudine comunissima, che tolgo dal Vangelo e precisamente dalla parabola dei talenti? Udite. Un ricco signore vi dà una grossa somma da trafficare a vostro talento. Che diritto avete voi a quella somma? Nessuno: essa è dono, ch’egli vi fa per sola sua bontà. Voi trafficate e fate con quella somma, mercé della vostra industria un grosso guadagno. Quel guadagno è frutto delle vostre fatiche e insieme del dono ricevuto da quel generoso signore, ed io potrei dire il vostro guadagno è dono del signore ed anche che è mercede delle vostre fatiche, perché l’una e l’altra cosa è egualmente vera: così è vero il dire, che il cielo è grazia e dono di Dio, ed è vero altresì, che è mercede e ricompensa delle nostre fatiche, perché per guadagnarlo è necessaria la grazia di Dio e necessaria l’opera nostra, e se l’uno o l’altra fa difetto, è impossibile ottenerlo.

Graduale Ps XXXIII:12; XXXIII:6

Veníte, fílii, audíte me: timórem Dómini docébo vos. – V. Accédite ad eum, et illuminámini: et fácies vestræ non confundéntur. [Venite, o figli, e ascoltatemi: vi insegnerò il timore di Dio. V. Accostatevi a Lui e sarete illuminati: e le vostre facce non saranno confuse.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps XLVI:2 Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis. Allelúja. [O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.

Matt VII:15-21 “In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Atténdite a falsis prophétis, qui véniunt ad vos in vestiméntis óvium, intrínsecus autem sunt lupi rapáces: a frúctibus eórum cognoscétis eos. Numquid cólligunt de spinis uvas, aut de tríbulis ficus ? Sic omnis arbor bona fructus bonos facit: mala autem arbor malos fructus facit. Non potest arbor bona malos fructus fácere: neque arbor mala bonos fructus fácere. Omnis arbor, quæ non facit fructum bonum, excidétur et in ignem mittétur. Igitur ex frúctibus eórum cognoscétis eos. Non omnis, qui dicit mihi, Dómine, Dómine, intrábit in regnum coelórum: sed qui facit voluntátem Patris mei, qui in cœlis est, ipse intrábit in regnum cœlórum.” [In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi sotto l’aspetto di pecore, ma che nell’intimo sono lupi rapaci: li riconoscerete dai loro frutti. Forse che alcuno raccoglie l’uva dalle spine o il fico dai rovi? Cosí ogni albero buono dà buoni frutti; mentre l’albero cattivo dà frutti cattivi. Non può l’albero buono produrre frutti cattivi, né l’albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che dà frutti cattivi sarà tagliato e gettato nel fuoco. Dunque, dai loro frutti li riconoscerete. Non chiunque mi dirà: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, questi entrerà nel regno dei cieli.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

Vang. di S. Matteo VII, 15-21

– Peccato castigo di sé medesimo –

 “Un albero malvagio, così Gesù Cristo nell’odierno Vangelo, un albero malvagio non può produr frutti buoni”: “Non potest …arbor mala bonos fructus facere”. E che si darà uomo così folle, che si lusinghi raccogliere da uno spino grappoli d’uva, ovvero fichi da’ triboli? Eh che uno spino non può produrre che spine pungenti, e un tribolo non può dare che triboli aspri e molesti. “Non potest arbor mala bonos fructus facere. E qual è quest’albero malvagio? Egli è il peccato; qualunque altro male o di animo o di corpo, o di sostanze non merita il nome di male. Solo il peccato, il peccato solo è l’unico e vero male, è quella pianta infelicemente feconda di tutti gli altri mali, è quell’albero pessimo velenoso che produce frutti a sé proporzionati, pessimi cioè, maligni, avvelenati. – Ad accennarli in compendio, come richiede la strettezza del tempo, basterà il dire che il peccato è pena e castigo di sé medesimo, o si consideri secondo la natural ragione, o si riguardi secondo Dio. Passo a dimostrarvelo, se mi seguite con attenzione cortese.

I . Il peccato è pena e castigo di sé medesimo considerato secondo la natural ragione. Che cosa è il peccato? Egli è una violazione della legge eterna, scritta nel nostro cuore da Dio Creatore, regola infallibile d’ogni nostro operare. Ora un’azione qualunque, opposta a questa legge è un vero disordine, e siccome cosa fuori del suo ordine, trovasi in istato di violenza, la violenza stessa deve portare sconcerto tanto nel fisico, quanto nel morale; sconcerto che non può seguire senza pena e dolore, come un osso fuor dal suo luogo che reca spasimi, finché non torni alla propria giuntura; onde quelle stesse opere malvagie, dice lo scrittore della Sapienza, alle quali si determina l’uomo peccatore, si convertono in suo danno e in suo tormento. “Per quæ peccat quis, per hæc et torquetur” [Sap. XI, 17). – Vediamolo in pratica. Un uomo dedito al vizio del vino, non è egli vero che tosto perde la stima e la reputazione, che diviene l’obbrobrio del paese, e la favola delle conversazioni? Non è un castigo, per uno smodato e vile piacere di gola, restar privo dell’uso di ragione, rovinarsi la sanità, ed abbreviarsi la vita? Gli antichi Spartani, sebbene idolatri, avevano in sommo orrore questo vizio; onde per allontanarne i loro figliuoli, facevano a bella posta divenir ubriaco un loro schiavo; indi convocati i figli: mirate, dicevano, a che si riduce un uomo posseduto dal vino, come parla a sproposito, come va barcollando: ohimè! dà del capo or in questa, or in quella parete. Ahimè! Che cade stramazzone per terra, e sbalordito vomita un lago di caldo vino fetente. Ecco, o figli, i tristi effetti del vino e dell’ubriachezza; abbominate, o cari, vizio tanto vituperoso e dannevole. – Con più ragione dunque possiamo dire noi cristiani che questo peccato è un vero e palpabile castigò di sé medesimo: “Per quæ peccat quis, per hæc et torquetur”. Che diremo poi del vizio del giuoco, di quel giuoco che forma l’occupazione de’ giorni anche festivi, prolungati sovente a notte avanzata? Di quel giuoco in cui si arrischia tutto il guadagno della settimana? Quante spine produce mai quest’albero maligno! Quanti rancori, risse, contrasti, collere, imprecazioni, bestemmie! Che notti inquiete senza chiuder occhi per un giocatore che ha perduto! Guai alla povera moglie, guai ai figli, al primo in cui s’incontra un giocatore disperato. A quanti giusti rimbrotti si espone per la sua crudeltà in togliere il pane di bocca ai suoi figlioletti per sacrificarlo alle carte e alla sua malnata passione! Quanti per giuoco passano da una buona fortuna alla mendicità; quanti, a finirla, morti allo spedale lasciano raminga e pezzente la propria famiglia! Non sono questi i meritati castighi, che si trae addosso il peccato del giuoco disordinato e vizioso? Così è: Per quæ peccat quis, per hæc et torquetur”. E di quel vizio, che l’apostolo neppur vorrebbe si nominasse, del vizio e della disonestà, così universale nel mondo, che dovrò io dire? Io non vorrei camminare in questo fango, non vorrei maneggiare questa pece. Mi basterà mostrarvi nella persona di Sansone, che non v’è forse altro vizio che più di questo formi la pena ed il tormento del vizioso. Sansone, giudice in Israele, terrore dei Filistei, onor di sua nazione, per la rea amicizia di Dalila donna venale, perde la riputazione, perde i capelli, perde la forza, perde gli occhi, perde finalmente la vita. – A tutte queste disavventure va incontro un impudico. Perdite d’onore, di sostanze, di sanità e della vita stessa, dacché non vi è peccato che più di questo acceleri la morte, e consumi la vita di chi n’è infetto, anche per fisiche cagioni. E ben lo sanno per dolorosa prova quei sciagurati, che ancor vivi, portano già le carni marce e infracidite. Qui sì che ci cade precisamente il detto del Savio: “Per quel che uno pecca, per quell’istesso vien tormentato:Per quæ peccat quis, per hæc et torquetur, peccato di carne, pena di carne. – Dite altrettanto d’ogni vizio. L’avaro è nemico di sé stesso, il superbo è da tutti aborrito, l’invidioso fa sangue cattivo, il ladro non ride sempre, il goloso si accorcia la vita. Insomma, siccome il ferro produce la sua ruggine, siccome il legno il suo tarlo, e il panno la sua tignola, così il peccato, anche secondo la natural ragione, genera la sua pena, e il suo castigo.

II. Che sarà poi quando alla ragione naturale si aggiunga la giustizia di Dio? È verità di fede che il peccato deve esser punito. Siccome l’ombra segue necessariamente il suo corpo, così la pena necessariamente segue il peccato. E perciò una delle due, o dobbiamo noi castigare in noi stessi la nostra colpa, e distruggerla con vero dolore di animo umiliato e contrito, o pure Iddio offeso troverà ben Egli modo da prendersi la giusta vendetta. Ve lo ripeto, è di fede, che il peccato deve essere punito o in questa, o nell’altra vita! La sentenza è data, e registrata nell’odierno Vangelo: “Omnis arbor quæ non facit fructum bonum excidetur, et in ignem mittetur”. Ogni albero che non fa frutti buoni “excidetur”, ecco la pena temporale, “et in ignem mitteturecco la pena eterna. La strada dunque non passa: o punire il peccato colla sincera contrizione del cuore, e con le opere di vera penitenza, o lo punirà Iddio colla sua giustizia. Se ne protesta Egli altamente (Ezech. VII, 9 ): “Scitis quia ego sum Domimis percutiens: si pœnitentiam omnes simul peribitis(Luc. XIII, 13). Suppongo qui che forse alcun di voi vada dicendo in cuor suo: Io ho peccato, continuo a peccare e me ne vanto talora nelle brigate degli amici pari miei, e pure vivo tranquillo, e non me ne è venuto alcun male : “Ne dixeris, Peccavi, et quid mifi accidit triste? [Eccl. V, 4]. Rispondo: quando si dice che il peccato chiama il castigo, non si asserisce che sarà castigato sull’istante: la pena non sempre scarica in sul momento sopra il peccatore. Non vi lasciate più passare nel pensiero, o uscir di bocca: io ho peccato e pecco, e non me n’è avvenuto alcun male. “Ne dixeris, peccavi, et quid mihi accidit triste?”. Ve ne avvisa lo Spirito Santo; perciocché l’Altissimo Iddio è un paziente distributore, “Altissimus enim est patiens redditur” [Eccl. ut supra]. Dio è paziente, dice S. Agostino, perché è onnipotente. Paziente, soggiunge S. Pietro (Ep. II, 3, 9), perché abbiate tempo a ravvedervi, perché vi aspetta a penitenza, perché vi vuol salvi; ma se voi abusate di sua sofferenza, il giorno di Dio destinato alla vostra punizione potrà tardare qualche tempo; ma un po’ più presto, un po’ più tardi vi coglierà, quando meno il pensate: “adveniunt autem dies Domini ut fur” (ibidem, v. 10). – Osservate i sempre giusti ed inscrutabili giudizi di Dio in ritardare o in accelerare i meritati castighi. Cento venti anni tardò il castigo di tempi di Noè minacciato agli uomini carnali: venne poi, e sommerse in un universale diluvio il mondo intero. – Venti anni stette nascosto ed impunito l’attentato dei fratelli di Giuseppe da essi venduto in ischiavo: ma in fine la tribolazione, la prigionia e lo spavento di peggiori sciagure tolse loro di bocca la confessione, che il sangue del tradito fratello chiamava sopra di loro la meritata vendetta. – Tre anni Acab godé in pace la vigna usurpata a Nabot, e poi ferito a morte sparse nella stessa vigna l’ultimo sangue. – Un anno Davide riposò tranquillo nel suo peccato, ma dopo con la morte di due figli, con la ribellione di un terzo figlio, con mille altri infortuni provò quant’era pesante la mano di Dio vendicatore. – Poche ore passarono dalla calunniosa sentenza data dai sordidi vecchioni contro la casta Susanna, ad essere sepolti, a furor di popolo sotto una tempesta di pietre. – Un istante, in cui Anania e Saffira confermarono una solenne bugia, bastò per farli cader morti ai piedi di S. Pietro. – Or qui, miei cari, se siamo persuasi che peccato e castigo siano due cose inseparabili, se io e voi che mi ascoltate siamo peccatori, come in tutta verità dobbiamo confessare, che faremo per evitare l’ira di Dio armata a scaricarci sul capo i colpi di sua mano tremenda? Quale scudo al riparo, o qual via alla fuga? È questa l’interrogazione che in riva al Giordano faceva il Battista alle turbe ebree venute ad ascoltarlo. “Razza di vipere, gridava egli altamente, chi vi mostrerà il modo da fuggire la divina iracondia, che si va preparando a farvene sentire i più funesti effetti? “Genimina viperarum, quis ostendit vobis fugere a ventura ira (Luc. III, 7). – Ecco ch’io vel suggerisco e vel predico: fate frutti degni di penitenza “Facite fructus dignos pænitentiæ” (Luc. V, 3). Badate bene al mio avviso. Voi siete alberi malvagi, che non producono alcun buon frutto, e perciò la scure è già vicino alla radice che vi minaccia il taglio: e la condanna al fuoco: “Jam securis ad radicem; omnis arbor non faciens fructum bonzi excidetur, et in ignem mittetur(Ibid. v. 2). – Altrettanto inculco a voi, fedeli miei dilettissimi: volete fuggire l’ira di Dio che vi sovrasta? Fate frutti, e frutti degni di penitenza. La vera e degna penitenza comincia dallo spirito contristato per l’orrore della colpa, e del cuore umiliato e contrito, ch’è quel sacrificio tanto a Dio accettevole che placa il suo sdegno. A questa interiore penitenza fa d’uopo aggiungere l’opera di penitenza esteriore, l’osservanza dei comandati digiuni, l’adempimento dei propri doveri, la mortificazione dei sensi, la pazienza, la rassegnazione alla divina volontà nelle tribolazioni, le preghiere, le limosine, le pratiche infine di soda cristiana pietà. Così facendo non avremo a temere i divini flagelli: saremo alberi ricchi di buoni frutti, frutti di virtù di vita eterna, che Iddio ci conceda. 

Credo …

Offertorium

Orémus Dan III:40

“Sicut in holocáustis aríetum et taurórum, et sicut in mílibus agnórum pínguium: sic fiat sacrifícium nostrum in conspéctu tuo hódie, ut pláceat tibi: quia non est confúsio confidéntibus in te, Dómine”. [Il nostro sacrificio, o Signore, Ti torni oggi gradito come l’olocausto di arieti, di tori e di migliaia di pingui agnelli; perché non vi è confusione per quelli che confidano in Te.]

 

Secreta

Deus, qui legálium differéntiam hostiárum unius sacrifícii perfectione sanxísti: accipe sacrifícium a devótis tibi fámulis, et pari benedictióne, sicut múnera Abel, sanctífica; ut, quod sínguli obtulérunt ad majestátis tuæ honórem, cunctis profíciat ad salútem. [O Dio, che hai perfezionato i molti sacrifici dell’antica legge con l’istituzione del solo sacrificio, gradisci l’offerta dei tuoi servi devoti e benedicila non meno che i doni di Abele; affinché, ciò che i singoli offrono in tuo onore, a tutti giovi a salvezza.]

Communio Ps XXX:3. Inclína aurem tuam, accélera, ut erípias me. [Porgi a me il tuo orecchio, e affrettati a liberarmi.]

Postcommunio Orémus. Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et ad ea, quæ sunt recta, perdúcat. [O Signore, l’opera medicinale (del tuo sacramento), ci liberi misericordiosamente dalle nostre perversità e ci conduca a tutto ciò che è retto.]