CAPITOLO XXI
INFLUSSO DEL PAGANESIMO CLASSICO SULLA FAMIGLIA
Il rispetto all’autorità paterna, l’indissolubilità del matrimonio, il diritto del padre sui suoi figliuoli, tali sono le basi della famiglia cristiana. Ora, come la società politica, la società domestica vive pel rispetto alle leggi che la costituiscono. Quindi, durante quindici secoli, la venerazione profonda dei popoli cristiani per gli insegnamenti dei loro padri, pei loro costumi e pei loro usi; quindi, la religiosa cura di trasmettere ai figliuoli, come la parte la più preziosa di loro eredità, il sacro culto degli avi. Così fecero tutte le famiglie storiche; così fecero tutti i grandi popoli che brillano negli annali del mondo. – Questa legge di conservazione è talmente naturale, e, se oso dirlo, talmente elementare, che le nazioni pagane la conobbero a meraviglia, e la adempierono con fedeltà ammirabile. Roma, la quale tanto si ama di menzionare, se ne appellava sempre agli usi e costumi primitivi. Le massime dei suoi padri formavano altrettante massime sacre, e la venerazione con cui si proseguivano i nomi dei suoi fondatori andò sino all’apoteosi. In questo rispetto profondo ed universale il vincolo di famiglia trovò la sua conservazione. Alla sua volta il vincolo di famiglia, mantenendo sempre Roma simile a se stessa, diventò il principio di sua forza, il segreto della sua durata e la base della sua sovrana potenza. Che cosa è ora il paganesimo classico? È la più grande scuola di disprezzo per l’autorità paterna che abbia mai esistito. Esponendo il modo con cui il paganesimo è applicato all’ anima dei giovinetti, usai a bella posta una grande riserbatezza. Per non essere tacciato di esagerazione, ho amato meglio rimanere lungi dal vero, che non dimostrarlo tutto quanto: il momento è giunto di parlare senza reticenza. Gli elogi dati al paganesimo sono la faccia della medaglia: le ingiurie, le calunnie, le derisioni prodigate ai nostri avi ne formano il rovescio. Ecco realmente come vanno le cose. – Dopo aver portato sino alle stelle gli uomini, le istituzioni, le società pagane, si dà addosso ai nostri poveri avi, ai loro usi, alle loro istituzioni, a tutto ciò che essi dissero, a tutto ciò ch’ei fecero, a segno di far arrossire i loro figliuoli d’una simile discendenza. Nulla è risparmiato: i primi cristiani sono fanatici e idioti; i secoli che essi prepararono sono secoli di barbarie; il medio-evo è l’età di ferro del genere umano, l’epoca d’una letargia universale. La fede dei nostri antenati si chiama abbrutimento; le loro pratiche religiose, superstizione; le loro virtù, fanatismo; i loro Papi, ambiziosi; i loro re, tiranni; i loro principi, ladri; i loro signori, banditi; le loro leggi, il codice della crudeltà e della pazzia; la loro storia, leggenda; il loro insegnamento, puerilità; la loro letteratura, barbarie; la loro scienza, ignoranza; la loro arte, goticismo; il loro stato sociale, schiavitù e miseria. In una parola, da più di tre secoli ci sono rappresentati i nostri antenati come assassini, viventi di rapina e dati a tutti i vizi; come selvaggi che appena appena sapevano camminare coi piedi; come cretini, la cui fede semplice ed ingenua era capace di ammettere che gli asini volavano come le rondini. – Poi, ripigliando la tromba epica, si cantano i benefizi del Rinascimento; si invitano le giovani generazioni a benedire il Cielo d’averle fatte nascere in seno ai lumi ed alla libertà. Dopo del che vengono rituffate felici e riconoscenti in quell’antichità pagana che è, dice anche di presente il sig. Thiers, ciò che v’ha di più bello al mondo; in quell’asilo calmo, pacifico e sano, destinato a conservarle fresche e pure (1(1) Relazione sullo legge d’insegnamento secondario, 1844.); in quel mondo meraviglioso, al quale il mondo moderno va debitore d’essersi risvegliato. In mezzo a queste diatribe d’ogni genere, rinnovate ad ogni pie sospinto, se talvolta la forza della verità strappa una parola di lode a pro di un uomo o di una cosa del medio-evo, l’elogio stesso diventa una nuova contumelia per il modo con cui è concesso. Fra mille, non citerò se non un esempio. « Fu fatta, scrive D’Arnaud, una molto strana osservazione: ed è che dal seno delle tenebre sorsero quei grandi spettacoli degni di attirare a sé la curiosità e la riflessione. I tempi i più sprofondati nell’ignoranza e nella barbarie produssero, se si può dirlo, getti di luce che non rifurono guari presentati da quei secoli celebrati, posti innanzi ai nostri occhi come tante epoche brillanti dei felici rivolgimenti dello spirito umano Quali esempi sublimi di valore, di generosità, di grandezza d’animo, di sacrifici i più sovrannaturali non ci offrono le varie età cavalleresche! » – Per tema che non si capisca il senso del suo pensiero, e che lo strale non giunga al suo indirizzo, l’autore ha cura di spiegarsi dicendo in una annotazione. « Dal seno delle tenebre, ecc. Certo, i secoli XI, XII, XIII e XIV si possono chiamare la feccia dei secoli; e si fu in quei giorni della barbarie la più grossolana che avvennero tante belle azioni che formano tuttora la gloria della nazione francese ». – Così si forma l’educazione della gioventù. E voi, o padri di famiglia, incoraggiate simile sistema, e voi applaudite ai maestri che ogni giorno, durante sette anni, ingiuriano la vostra autorità in quella dei vostri antenati; e voi li pagate acciò insegnino ai figliuoli vostri ciò che venne insegnato a voi pure: il disprezzo di quanto essi debbono rispettar maggiormente! Ma quand’anche tutto ciò che l’insegnamento classico narra degli avi nostri fosse vero, è egli da figliuoli bennati lo svelare l’ignominia dei padri loro? Dove avete voi veduto che il peccato di Cham rechi fortuna? Ma che dire, che pensare se le accuse rivolte contro i nostri antenati sono per la maggior parte calunnie odiose o rimproveri che noi meritiamo al par di quelli, senza contare i rimproveri ben altrimenti gravi che noi meritiamo e che quelli non meritarono mai? Non voglio imprendere qui l’apologia del medioevo. Ma quando io lo scorgo abbandonato tuttodì ad ogni genere di dispregio; quando la prima lezione data alla gioventù d’Europa tutta si è di insegnarle ad arrossire dei suoi avi, per esaltare con un bugiardo confronto ed i secoli pagani ed i secoli moderni, alteri figliuoli dei secoli pagani, la verità non può rimanere prigioniera. I nostri padri valevano meglio di noi, e quanto ci rimane di buono, è opera loro. Uomini al par di noi, ebbero difetti; ne siamo noi senza? Noi accusiamo la loro credulità: il pirronismo, l’ateismo che ci divora, è desso una virtù? Noi avviliamo la rozzezza dei loro costumi, la crudeltà delle loro leggi; le scelleratezze, le empietà, gli orrori che macchiano la storia moderna, sono forse degne dei popoli civili, o non piuttosto degli antropofagi? – Noi chiamiamo fanatismo, esagerazione le loro virtù cavalleresche, i loro tratti sublimi di abnegazione: ma qual nome si merita il nostro egoismo? Essi fabbricavano chiese e conventi; noi fabbrichiamo teatri e prigioni. Commettevano quelli un delitto? Ne chiedevano in pubblico perdono a Dio ed agli uomini; noi ce ne gloriamo. Minacciati o colpiti dai flagelli del cielo, quelli si umiliavano; noi bestemmiamo. Al tempo loro, quando si soffriva qualche grande afflizione, si pregava: oggi l’uomo è suicida. Noi parliamo della loro ignoranza: dove sono i nostri lumi? Forse in quei secoli di tenebre o nei nostri secoli illuminati si trovano le nozioni le più giuste del diritto, dell’autorità, della proprietà, del bene e del male? Noi vantiamo la bellezza delle nostre lingue moderne; quelli le hanno create. Noi abbiamo scoperto il vapore e l’elettricità: quelli scoprirono la bussola, la stampa ed inventarono la polvere. Noi abbiamo prodotto monti di libri; essi produssero L’Imitazione di Cristo. Noi cantiamo le nostre glorie nella guerra, nelle scienze e nelle arti: ma erano dessi così barbari, come godiamo di dirlo, i secoli che produssero nella guerra Carlo Magno, Dugueselin, Goffredo di Buglione; nelle scienze politiche, Alcuino, San Gregorio VII, San Luigi e Sugero: nella teologia San Bonaventura e San Tommaso; nell’eloquenza, San Bernardo, Sant’Antonio da Padova, San Vincenzo Ferreri; nella filosofìa, Sant’Anselmo; nella poesia e nella letteratura, Dante e Petrarca; nelle scienze fisiche, Gerberto e Ruggiero Bacone? Erano forse selvaggi, figliuoli e fratelli di selvaggi coloro che slanciarono nelle nubi le guglie delle nostre cattedrali, che ne tagliarono con tanta delicatezza tutte le parti, che ne popolarono i campanili e le gallerie d’un popolo di statue, che scrissero la storia del tempo e della eternità in caratteri d’oro, di porpora e d’azzurro sulle muraglie e sulle vetrate dei loro superbi edifizi? – Ma, si dice, essi non godevano la libertà del pensiero. Ciò ch’io so, si è che noi ne possediamo le brutture. Essi viveano nell’oppressione; noi siamo ingovernabili. – Essi vestivano saio; noi portiamo indosso percala. Essi si cibavano di pane nero; noi mangiamo pomi di terra. Essi vivevano nelle loro famiglie come volpi nelle loro tane; noi viviamo negli opificii, palazzi, e non abbiamo più famiglia. Facile sarebbe il prolungare questo paragone; quanto precede basta, mi sembra, per renderci un poco più modesti, e per dimostrarci l’ingiustizia del dispregio superbo, di cui ci si insegna a coprire e le persone e le opere dei nostri avi. Del resto, non bisogna ingannarsi: un tal dispregio, somiglianti ingiurie, sono rivolte contro autorità più alta. Nemico-nato del Cristianesimo, il paganesimo classico non si dimostra cotanto altero e cotanto manchevole al medio-evo, se non perché il medio-evo si fu l’età della fede. Esso fu l’opera della Chiesa, il cui spirito penetrò profondamente nelle istituzioni, nei costumi, negli usi, nelle scienze, nelle arti, nel linguaggio di quell’epoca. Ora, screditandola, si pretende screditare la Chiesa, accusandola di superstizione, di ignoranza e di barbarie; si fan ricadere sulla Chiesa tutte queste accuse. Tale è l’ultima parola della guerra stupida ed accanita che i tre ultimi secoli fanno al medio-evo. Ecco quello che avrebbero dovuto capire tanti uomini, ben intenzionati d’altra parte, i quali furono gli ammiratori fanatici del paganesimo letterario e i dispregiatori appassionati della nostra grande epoca di fede. – I novatori del secolo XVI non si ingannarono punto. Nessuno più di loro ripeté più sovente e più forte, che i secoli in cui la Chiesa cattolica aveva esercitato sull’Europa una potenza sovrana, erano i secoli dell’ ignoranza la più grossolana, della superstizione la più vergognosa, della degradazione la più profonda: la conseguenza era agevole ad esser tratta. Di qui non v’era che un sol passo al dire che se la notte aveva regnato sul mondo, si è che il sole aveva subito un eclissi; che la Chiesa aveva perduto una parte della verità primitiva; che bisognava nettare la sua dottrina dalla lega impura che vi s’era mescolata; che era d’uopo rigettare tutte le tradizioni e ritornare alla pura parola di Dio: un tal passo fu fatto. Dietro gli apostoli del paganesimo classico si vedono giungere Lutero, Calvino, Teodoro di Beza; dopo gli eretici ed i novatori vengono Bayle, D’Argens, Bolingbroke, Diderot, Rousseau, Voltaire con tutto l’esercito dei filosofi. Tutti attingono le loro armi contro la religione allo stesso arsenale al quale gli eretici del secolo XVI avevano attinto le loro, non più per intaccare alcune verità soltanto, ma per battere in breccia l’intero edificio del Cristianesimo. Dogmi, misteri, precetti, autorità, pratiche, sono proclamati con voce unanime come il prodotto dell’ignoranza e della stupidezza dei secoli barbari. Quindi nella loro ammirazione, non che in quella dei loro discepoli, una cosa sola rimaneva in piedi, il paganesimo. Infatti, noi vedremo ben presto gli uomini del 93 intraprendere di rigenerare il mondo colle idee di Sparta, di Atene e di Roma.
CAPITOLO XXII
SEGUITO DEL PRECEDENTE
Esaltare i pagani e dispregiare i padri nostri nella fede, tale si è da tre secoli il fondo obbligato della pubblica educazione in Europa. Non è ella questa, di grazia, la violazione la più sacrilega che mai si sia veduta della legge conservatrice della famiglia: Padre e madre tu onorerai, affinché tu viva lungamente? Ma non è tutto. Il Cristianesimo aveva dato per base alla famiglia l’unità e l’indissolubilità del legame coniugale, nonché i diritti sacri del padre sul suo figliuolo. Durante quindici secoli, l’Europa era vissuta con questo sacro principio, al quale le nazioni cristiane debbono la loro moralità e la loro forza. Nulla fu mai più lungi dal loro spirito quanto il pensiero del divorzio e della poligamia; nulla è più raro quanto il trovarne esempi nella storia; nulla è maledetto con maggiore indignazione; nulla ispira un orrore più generale e più profondo. D’altra parte, nulla è più fedelmente rispettato dei diritti dell’autorità paterna. Ora, come va che, sin dal cominciare del XVI secolo, la poligamia ed il divorzio ricompaiono auto rizzati dai capi della Riforma? Come va che hanno avuto sino ai dì nostri un seguito non interrotto di apologisti, fra i letterati dei tre ultimi secoli, in Alemagna, in Inghilterra ed in Francia? Come va che dopo alcune proteste, il divorzio è oggi passato allo stato di legge in metà dell’Europa? Come va che i diritti del padre sul suo figliuolo sono oggi sconosciuti e calpestati sotto i piedi? Dove mai le società moderne attinsero idee così estranee a tutte quante le idee cristiane? Come spiegare la facilità deplorabile colla quale queste idee passarono nelle leggi e nei pubblici costumi? Mio Dio! Questo triste mistero si spiega di per sé. Proponendo all’ammirazione delle generazioni nascenti il paganesimo antico, si familiarizzò l’Europa colle idee e colle istituzioni dei suoi modelli e dei suoi maestri. Ora, tutti i maestri e tutti i modelli della gioventù, quelli che si amò meglio raccomandarle quali i filosofi i più divini, quali i legislatori i più saggi, sono i campioni e gli istitutori della poligamia e del divorzio: essi li giustificano con buone ragioni, i poeti ne cantano i benefici, e le passioni applaudono. Il legislatore della repubblica di Sparta, di cui ci si fece ammirare l’austera virtù, Licurgo, rende il matrimonio obbligatorio per tutti, obbliga lo sposo a rapire colei ch’egli vuole sposare, e, per una conseguenza del suo principio supremo che la famiglia non è stabilita se non per dare cittadini robusti allo Stato, autorizza la promiscuità. [Vita di Licurgo, traduz. d’Amyot, p, 31.]. Sempre conseguente a se stesso, Licurgo infligge pene severe ai celibatari, e colpisce con un pubblico disonore la più santa cosa del mondo, la verginità. « Una nota d’infamia era stabilita contro coloro che non si volevano ammogliare. Loro non era permesso di trovarsi nei luoghi dei pubblici passatempi. Ma ciò che più è, gli ufficiali della città li costringevano a far nudi il giro, nel cuore dell’inverno, della pubblica piazza, e, camminando, dovevano cantare una canzone fatta contro di loro; finalmente, quando diventavano vecchi, loro non si portava rispetto di sorta, loro non si rendevano gli onori riserbati agli altri vecchi ((Id., ib., p, 30.) ». Ma ecco un’altra cosa. Stabilendo come principio il comunismo il più assoluto, Licurgo dichiara che i figliuoli appartengono allo Stato prima di appartenere ai loro genitori. I matrimoni non hanno più luogo per la famiglia, ma per lo Stato: e la potestà paterna, colpita in ciò che v’ha di più sacro, è confiscata a vantaggio dello Stato. Per conseguente, il figliuolo, questa possessione sacra della famiglia, è senza pietà rapito agli abbracciamenti materni dal proprietario della famiglia, cioè dallo Stato, è istruito nelle scuole dello Stato, è educato secondo i capricci dello Stato, o condannato a perire se sin dal suo affacciarsi alla vita non presenta nella sua complessione i pegni di vantaggio fisico dei quali lo Stato si dimostra esclusivamente geloso. « Del rimanente, prosegue Plutarco, dacché il bambino era nato, il padre non ne era più padrone per poterlo far mantenere a suo libito, ma lo portava ei medesimo in certo luogo a ciò destinato, che si chiamava Leschè. Ivi i più vecchi del suo stipite stando seduti, visitavano il bimbo. Se lo trovavano bello, ben complesso di tutte le membra e robusto, ordinavano venisse mantenuto; ma se loro sembrava brutto, contraffatto, malaticcio, lo mandavano a gettare in una cavità che volgarmente si chiamava gli Apotèti. Ai sette anni, i fanciulli che non erano venuti meno alla prova della legge erano tolti definitivamente alla loro famiglia: lo Stato medesimo si incaricava di allevarli ». – « Ora, soggiunge Plutarco, l’oracolo aveva dichiarato Licurgo il benamato dagli Dei, e piuttosto un Dio che un uomo. Egli fece vedere che un uomo perfetto non è punto un essere immaginario, come alcuni hanno creduto, poiché mostrò al mondo una nazione di filosofi. Le leggi di Licurgo sono acconcissime a formare gli uomini alla pratica della virtù ed a mantenere un vicendevole affetto tra i cittadini ». Il grave storico le preferisce a quelle di tutti gli altri Stati della Grecia, ed ha cura di raccontarci che coloro i quali scrissero con qualche successo sulle leggi e sulla politica, come Platone, Diogene, Zenone ed altri, presero per modello Licurgo, al quale Aristotele impartisce magnifiche lodi, proclamandolo degno dei sacrifici che gli Spartani gli offrivano come a un Dio. Infatti, i principi di Licurgo formano, tranne qualche modificazione, la costituzione della famiglia pagana fra i Greci e fra i Romani. Così, in Licurgo, che parla intorno alla famiglia, noi ascoltiamo tutto quanto il paganesimo classico. Ora, da tre secoli, la gioventù d’Europa trascorre sette anni alla sua scuola, in ammirazione per gli oracoli del maestro. Che ne è derivato? Due cose inevitabili: la prima si è che i filosofi, i legislatori ed i letterati moderni, fedeli alle loro impressioni di collegio, vantarono a gara nei loro scritti i principi costitutivi della famiglia Spartana; la seconda si è che nulla fu tralasciato per applicare alla famiglia cristiana i principi della famiglia pagana. – Ammiratore appassionato di Licurgo, che egli non teme nemmeno di approvare in un punto dell’immoralità la più rivoltante, Montesquieu lo loda con una sola parola, dicendo che quell’uomo immortale seppe far praticare la virtù con mezzi che a lui sembravano contrarii (Spirito delle leggi, 1.1, lib. iv, c. 6.). Bolingbroke, Potter, Elvezio, Collins, Tindal, Rousseau, tutti gli enciclopedisti parlano come l’oracolo della legislazione, tutti preconizzano gli uni dopo gli altri le idee di Licurgo e ne chiedono l’applicazione per la felicità del genere umano. – Nulla è più istruttivo quanto il sentirli parlare. – Licurgo non riconosce il carattere religioso del matrimonio, e quelli negano il Sacramento che lo nobilita santificandolo. – Licurgo non ammette l’indissolubilità del vincolo coniugale, e quelli esaltarono i benefizi del divorzio e lo introdussero nella legislazione. – Licurgo autorizza il concubinato, e quelli sostennero che in ciò nulla v’ha di riprovevole, purché sia durevole. – Licurgo giustifica la promiscuità, e quelli asseriscono che la poligamia non è se non un affare di calcolo. – Licurgo copre d’ignominia il celibato e la verginità, e quelli li screditano e li volgono in derisione. – Licurgo nega la potestà paterna, e quelli la negano più compiutamente, se è possibile. « Verun uomo, dicono, ricevé da natura il diritto di imperare agli altri. Se natura stabilì qualche autorità, si è certo la potestà paterna; ma la potestà paterna ha i suoi limiti, e nello stato di natura essa finirebbe, appena i figliuoli fossero in grado di guidarsi di per sé. I diritti dell’uomo sul suo simile non possono essere fondati se non sulla felicità ch’egli procura a quello, o che gli dà luogo di sperare; senza ciò, il potere ch’egli esercita su di lui sarebbe una violenza, un’usurpazione, una tirannia manifesta. Ogni autorità legittima è fondata sulla facoltà di renderci felici. Nessun mortale riceve da natura il diritto di comandare ad un altro; ma noi lo concediamo volontariamente a colui dal quale speriamo il ben essere … – L’autorità esercitata da un padre sulla sua famiglia non posa se non sui vantaggi di’ egli è creduto procurarle (ENCICLOP. Autorità politica; EMILIO, t. IV; Sistema della natura, t.1, p. 340, ecc. ecc.) ». – Non basta. Mentre i filosofi ed i legisti, discepoli del paganesimo, s’affaticavano a ricondurlo nella famiglia, i poeti ed i romanzieri, formali alla medesima scuola, cantavano su tutti i tuoni ed in tutte le lingue i benefizi di questa nuova legislazione. Più intelligibile, più gradevole e perciò più pericolosa di quella dei metafisici, la loro voce non cessò di risuonare. Che mai sono, di grazia, quanto ai fondo, gli innumerevoli componimenti teatrali o tradotti dai pagani, od animati dal loro spirito, da cui l’Europa è inondata dopo il preteso Rinascimento: commedie, tragedie, drammi, melodrammi, vaudevilles, poesie leggiere/canzoni da mensa, e che so io, se non forse una incessante predicazione del sensualismo, del divorzio e dell’adulterio, del dispregio del matrimonio e dell’autorità paterna; un attacco aperto smascherato contro il pudore, contro la continenza, contro la verginità stessa e la pietà filiale; la glorificazione e l’eccitazione perpetua della passione la più focosa e la più distruttrice della domestica società? Ad un tale spettacolo, affatto sconosciuto ai secoli di fede, ogni uomo capace di unire l’effetto alla cagione dirà: « L’insegnamento pagano impiantò l’albero del sensualismo pagano nel cuore delle giovani generazioni; le giovani generazioni trasmisero quanto naturali dell’albero sì bene coltivato: ma esse non ne sono che i fiori. Eccone qui i frutti; essi formano la seconda conseguenza inevitabile dell’educazione moderna. Discepoli dei filosofi e dei legisti pagani, ammiratori degli scrittori sensualisti, i rigeneratori d’Europa sul finire dello scorso secolo considerano quale un dovere di coscienza e di logica l’applicare alla famiglia le idee pagane. Giunti al potere, si pongono all’opera; tolgono al matrimonio ogni carattere religioso, decretano il divorzio, conferiscono pubblici premi alle fanciulle-madri, aboliscono tutti i voti, scacciano dai loro conventi tutti i religiosi e tutte le religiose, indeboliscono per quanto possono nel loro Codice l’autorità paterna; e, coll’organo di Rabaut-Saint-Etienne, rinnovano parola per parola il principio di Licurgo, che il bimbo appartiene allo Stato prima d’appartenere alla sua famiglia. In conseguenza, come il legislatore di Sparta faceva esaminare il novello nato, che non veniva giudicato degno della vita naturale se non nel caso che offrisse guarentigie sufficienti agli esaminatori dello Stato, i moderni Licurghi stabilirono che il fanciullo non sarebbe degno della vita pubblica se non nel caso che portasse l’impronta dello Stato. Tale si è l’invasione del paganesimo nei nostri costumi, che questa selvaggia ingiunzione non incontrò se non un’impotente opposizione; sopravvisse a tutti i rivolgimenti, conta eziandio numerosi ammiratori, e, finalmente, s’insinuò senza ferita e senza avaria nella nuova legge sull’insegnamento. Non è cosa inutile il dimostrarlo. Lascio parlare un uomo che adempì benissimo questo assunto: « Il signor Thiers, egli dice, il sig. Barthélemy Saint-Hilaire ed altri partigiani della legge pensano che l’atmosfera romana sia eccellente per formare cuore ed animo alla gioventù: sia pure. Vi tuffino i loro figliuoli; per me, li lascio liberi di farlo; ma mi lascino libero pure di allontanarne i miei, come da un aere pestilenziale. Signori autori del regolamento, ciò che a voi parve sublime, a me pare odioso; ciò che soddisfa la vostra coscienza spaventa la mia. Voi siete molto convinti che sotto il punto di veduta sociale e morale il bello ideale si trovi nel tempo passato. « Osiamo dirlo a un secolo orgoglioso di se stesso, diceva il signor Thiers, l’antichità è ciò che v’ha di più bello al mondo ». Per me, ho la fortuna di non partecipare a sì desolante opinione. Voi credete che le nostre idee, i nostri costumi debbano, per quanto è possibile, essere gettati nello stampo antico: io ho un bello studiare 1’ordine sociale di Sparta e di Roma, non vi vedo se non violenze, ingiustizie, imposture, guerre perpetue, schiavitù’, turpitudine, falsa politica, falsa morale, falsa religione. Ciò che voi ammirate, ed io 1’aborro; ma insomma, tenetevi per voi il vostro giudizio e lasciate a me il mio. « In virtù della vostra legge, tre fonti d’insegnamento stanno per aprirsi quello dello Stato, quello del clero, e quello degli istituti pretesi liberi. Ciò che io chiedo si è che questi siano infatti liberi di tentare nella carriera vie nuove e feconde. Insegni 1’università quanto essa predilige, il greco ed il latino. Formino ambedue dei platonici e dei tribuni; ma non tolgano a noi di formare, con altri mezzi, uomini per il nostro paese e per il nostro secolo. Giacché, se codesta libertà ci è interdetta, quale amara derisione non sarà mai il venirci dire ad ogni momento: voi siete liberi! – « Nella seduta del 23 febbraio, il signor Thiers venne a dirci per la quarta volta: — Io ripeterò eternamente quel che ho detto: la libertà che è data dalla legge che noi scrivemmo, è la libertà secondo la Costituzione. Io vi sfido di provar altro. Provatemi che quella non è la libertà; per me, sostengo che non ve n’ha altra possibile. Altre volte non si poteva insegnare senza il beneplacito del governo. Noi abbiamo soppresso l’autorizzazione preventiva: tutti potranno insegnare. Altre volte si diceva: insegnate la tal cosa; non insegnate le tali altre. Oggi noi diciamo: insegnate tutto quello che vorrete insegnare. — Vediamo a che si riduce questa libertà che voi dite essere sì intera. – « In virtù della vostra legge, io fondo un collegio… Come padre, io pago l’educazione dei miei figliuoli, senzaché nessuno mi aiuti. Come contribuente, io pago per 1’educazione dei figliuoli altrui; poiché non posso rifiutare l’imposta che assolda i licei. Sono io libero? No, no; dite che voi praticate la solidarietà nel senso socialista, ma non abbiate la pretensione di dire che praticate la libertà. « E questo non è se non il minimo dei lati della questione: ecco ciò che è più grave. Io do la preferenza all’insegnamento libero, perché il vostro insegnamento ufficiale, al quale voi mi forzate di concorrere senza profittarne, mi sembra comunista e pagano; la mia coscienza ripugna a che i miei figliuoli s’imbevano delle idee spartane e romane che, ai miei occhi almeno, non sono altro che la violenza e 1’assassinio glorificati. In conseguenza, mi sottopongo a pagare la pensione per i miei figliuoli e l’imposta per i figliuoli altrui. Ma che trovo io mai? Io trovo che il vostro insegnamento mitologico e guerriero fu indirettamente imposto al mio collegio libero, dall’ingegnoso meccanismo dei vostri gradi, e che debbo curvare la mia coscienza alle vostre mire sotto pena di fare dei miei figliuoli tanti paria nella società. Voi m’ avete detto quattro volte che io era libero; voi me lo direste cento volte, e cento volte io vi risponderei: « io non sono libero. » Ecco a che ne siamo! E questo dopo trent’ anni di sforzi inauditi per rompere il dispotismo Spartano dello Stato; e questo sotto l’impero d’una legge salutata come una legge di libertà. Riunite quest’ultimo tratto a tutti quelli che abbiamo indicati in questo capitolo, e, se potete, negate l’influenza attuale e profonda del paganesimo classico sulla famiglia.