J.-J. Gaume: IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (11)

CAPITOLO XXIII

INFLUSSO DEL PAGANESIMO CLASSICO SULLA SOCIETÀ

II Cristianesimo è la legge della carità universale. Esso insegna due cose: a rispettare ed a sacrificarsi. Vincitore del mondo e padrone della educazione durante mille anni, il Cristianesimo era penetrato col suo spirito fra le nazioni d’Europa, nutrendo del suo sugo vivificante le giovani generazioni: e, per quanto lo permette la umana debolezza, aveva fatto la società ad immagine sua. Quindi, durante tutto il medio-evo, la quasi assoluta mancanza di guerra generale fra i popoli cristiani; quindi, le guerre intestine più ristrette e men crudeli che non nell’antichità; quindi, un patriottismo cattolico che facendo della religione la patria comune, considerava tutti i cristiani dell’universo come fratelli, per i quali si aveva dell’oro a dare e del sangue a versare, qualunque fosse il clima sotto cui soffrivano; quindi, lo spirito cavalleresco, che poneva a disposizione dell’essere debole la potenza disinteressata del nobile e del forte. Quindi, il sovrano potere, contenuto entro giusti limiti dall’autorità superiore della religione, dando durante questo periodo maggiori esempi di santità sul trono, cioè di abnegazione eroica agli interessi dei popoli, che non se ne videro durante tutte le altre epoche della storia; quindi, libertà comunali e provinciali incomparabilmente maggiori di quanto si era prima conosciuto, di quanto poscia fu visto; quindi, finalmente, la libertà assoluta della Chiesa, madre e guardiana di tutte le altre; della Chiesa, che non era punto considerata come una straniera od una rivale, ma che era amata, rispettata e secondata in ogni modo nella sua azione sociale. Oggi, noi abbiamo l’opposto di questo quadro. – Il segno caratteristico dell’Europa, da tre secoli, è l’odio. « Odio di Dio: si vorrebbe abolire la sua religione non solo, ma persino il suo nome; odio dei sacerdoti, che sono calunniati, ingiuriati, oppressi nell’esercizio delle loro funzioni, e sono già proscritti in speranza da certe persone; odio dei re, dei nobili, delle istituzioni stabilite: odio di ogni autorità; odio delle leggi che conservano la pace reprimendo le passioni; odio dei magistrati che difendono le leggi; odio nello Stato, nella famiglia; odio universale che si palesa colla ribellione, col1’assassinio e con un ardente desiderio di distruzione (Saggio sull’indiff., t. II, pref., p. xix e xx.) ». Nell’ordine puramente politico, ecco le principali manifestazioni di un simile odio, sconosciuto dai secoli di fede:

La guerra esterna ed intestina quasi continua;

Un amore feroce della libertà;

Un patriottismo selvaggio;

Un dispotismo brutale che a volte passa dalle mani della moltitudine in quelle di un solo uomo;

Una servilità abbietta;

Una tendenza decisa al comunismo ed alla rovina.

Chi mai produsse, chi mai mantiene questo stato anomalo? D’onde provennero queste idee sì contrarie alle idee cristiane? In qual modo hanno esse fatto irruzione nella società? Perché mai, bandite dall’Europa durante mille anni, l’hanno esse invasa da tre secoli in qua? Rimontiamo alla sorgente d’ogni cosa, interroghiamo l’educazione. Essa ci risponderà. « Sono io che formo l’uomo e la società. Da tre secoli io son pagana: invece d’insegnare ad amare, io insegno ad odiare; io ho fatto l’uomo a mia immagine; l’uomo trasmise ciò che egli ha ricevuto, e la società è diventata pagana, e l’odio ha regnato ». – Infatti, la legge d’odio era la legge del mondo pagano, ed i grandi segni che annunciano la sua presenza nella moderna Europa sono letteralmente gli stessi che la palesavano in seno alle società antiche della Grecia e dell’Italia. La guerra esterna ed interna quasi continua: ecco il fondo della storia di tutte le repubbliche classiche. Ora, da tre secoli, quale quadro vien egli presentato ogni giorno, durante sette anni, allo studio ed alla ammirazione della gioventù di Europa? La guerra. Lasciando da parte alcune insignificanti particolarità di costumi e d’organamento interno, che cosa ci s’insegna mai a conoscere su Roma, su Atene, su Sparta, su Tebe, su Cartagine, sul Peloponneso, sulla Macedonia, sulla Persia, sulle Spagne, sulle Gallie e sulla Germania? La guerra. Gli Etrusci, i Volsci, gli Equi, i Veii, i Sanniti ed una folla di altri popoli non sono da noi conosciuti se non per la guerra. Non solo gli uomini, ma gli Dei ben anco ci offrono il medesimo spettacolo. Colle turpitudini degli Immortali che cosa ci dimostra l’Olimpo? La guerra. Espressione viva della legge d’odio che reggeva il mondo pagano, la guerra, la guerra in cielo ed in terra: tale si è l’elemento nel quale noi fummo tirati su. Non v’ha campo di battaglia sul quale noi non siamo stati condotti a passeggiare, da Maratona alla Trebbia, da Arbella a Farsaglia: non v’ha carneficina che non ci sia stata messa sott’occhio; non v’ha saccheggio di città, al quale noi non abbiamo assistito; non v’hanno eserciti nemici, per i quali noi non abbiamo preso parte; non v’ha gran capitano del quale non ci siano state narrate le gesta, di cui non ci siano stati ridetti i discorsi, di cui non ci siano stati spiegati i disegni e gli stratagemmi; in una parola, non v’ha fibra guerriera nel nostro cuore fanciullo, che non sia stata scossa sovente, scossa a lungo, scossa profondamente. – Ora, che cos’erano nelle loro cagioni e nei loro effetti tutte queste guerre, la cui storia imbeve la giovine nostra anima? Non altro erano se non l’odio universale, figliuolo dell’egoismo, appagante se stesso coll’esercizio del diritto brutale del più forte: l’ingiustizia e il brigantaggio. Pure, ci si ispirava passione per tutte quelle opere; noi eravamo tenuti di ammirare coloro che ne furono gli eroi; i nostri libri e i nostri maestri davano loro nome di grandi, d’illustri, d’immortali. Si aveva cura dimostrarceli, al ritorno dalle loro spedizioni, cantati dai poeti, onorati dal senato, dall’areopago e dagli arconti, coperti d’applausi dal popolo, e montati su carri d’oro o d’avorio ascendere al Campidoglio. Quegli uomini e quei falli, che si proponevano alla nostra ammirazione, furono dopo il Rinascimento proposti all’ammirazione non solo dei figliuoli del popolo, ma ben anco dei figliuoli dei nobili e dei re. Chiamato ad educare i successori di San Luigi, Amyot vescovo di Auxerre e traduttore di Plutarco, non conosceva, dopo la Sacra Scrittura di cui solevasi ancora consigliare la lettura, modelli più compiuti, per un principe, dei grandi uomini di Atene, di Sparta e di Roma. – In questi termini egli scrive al suo regale discepolo, nel dedicargli la sua versione: « Avendo io avuto questa bella fortuna d’essere collocato presso di voi sin dalla vostra prima infanzia, allorché non avevate se non quattro anni, per incamminarvi alla conoscenza di Dio e delle lettere, mi posi a pensare quali fra gli antichi scrittori sarebbero più idonei e più acconci al vostro stato, da proporveli a leggere quando voi foste giunto in età da potervi prendere alcun gusto; ed essendomi parso che dopo le Sante Lettere, la più bella, la più degna lettura che si potesse presentare ad un giovane principe, fossero le Vite di Plutarco, mi posi a rivedere quanto ne aveva cominciato a tradurre in nostro idioma per comando del fu gran re Francesco, mio primo benefattore, e terminai l’opera intera. E la versione essendone stata molto bene accolta, anche in diritto, e siccome voi dopo che l’età e l’uso v’ebbero dato attitudine a leggere ed alcun giudizio naturale non volevate leggere in altro libro, ciò mi pose voglia sin d’allora di volgere in nostra lingua le altre sue opere morali e filosofiche (Epistola al Re Cristianissimo Carlo, Nono di Questo nome, ediz. 158:2.) ».Ecco la cosa: la storia di Costantino, di Teodosio, di Carlo Magno, di San Luigi e di tanti altri santi re od imperatori, era meno propria a formare lo spirito e il cuore di un principe cristiano che non le vite di Teseo, di Romolo, di Licurgo, di Solone, di Pericle, di Mario, di Siila, di Cesare, di Trasibulo e di Bruto! Bentosto le Sante Lettere spariscono dall’educazione; esse non hanno più accesso ai collegi; e, cento anni dopo Amyot, Fénélon compone ad uso dell’erede del Regno Cristianissimo un evangelio, di cui Telemaco è il discepolo, Mentore l’interprete, Minerva l’inspiratrice, ed il paganesimo il più puro il fondo e la forma. – Nello stesso intento, invece di scrivere le vite e le massime dei nostri grandi uomini e dei nostri gran santi, per formare lo spirito e il cuore del duca di Borgogna, il venerabile arcivescovo di Cambrai crede dover consacrare il suo genio ed il suo tempo nello analizzare, nel tradurre l’Odissea, nel fare un compendio delle vite dei filosofi antichi colle loro massime: Talete, Solone, Pittaco, Biante, Periandro, Chilone, Cleobulo, Epimenide, Anacarsi, Pittagora, Eraclito, Anassagora;, Democrito, Empedocle, Socrate, Platone, Antistene, Aristippo, Aristotile, Senocrate, Diogene, Crates, Pirone, Jiione, Epicuro e Zenone. Finalmente ai dì nostri, in faccia all’Europa si proclama, che l’antichità è quanto v’ha di più bello al mondo. – In mezzo a questo concerto d’elogi tributati al paganesimo, ai suoi falsi grand’uomini, alle false sue glorie, alle false sue virtù; fra il rumore rimbombante delle sue guerre e delle sue battaglie; fra lo spettacolo continuo delle sue violenze e delle sue ingiustizie, da tre secoli in qua è formata la gioventù di Europa. Ed è ad una tale scuola che si pretende farle attingere i sensi di giustizia, di dolcezza, di modestia, di subordinazione, d’indulgenza, di abnegazione, d’umiltà e di carità che sono lo spirito stesso dall’Evangelio e le condizioni di vita delle società cristiane! Ma che! Se si volessero a disegno formare uomini ingiusti, superbi, orgogliosi, insubordinati, ed all’occasione devastatori di provincie, si potrebbe forse procedere diversamente? Non è forse in tal modo che furono preparati gli eroi famosissimi di quella guerra dei Trent’Anni (1618-1648) che coprì trequarti d’Europa di sangue e di rovine? Guerra pagana, in cui si commisero maggiori orrori e maggiori infamie di quante il mondo ne avesse veduto da dieci secoli; guerra selvaggia, che distrusse più monumenti e capi d’opera d’ogni genere che non ne avessero distrutto le barbare orde. Non è egli dalla medesima scuola che uscirono i capi dei nostri eserciti rivoluzionari, i feroci proconsoli che condussero la devastazione da Parigi a Napoli, da Lisbona a Mosca, ed i quali, come gli eroi dell’antichità, ritornarono recando nei loro carri non solo l’oro e l’argento, ma ben anco le ricchezze artistiche di lutti i popoli vinti? Non è forse la loro condotta quella ch’essi si gloriavano d’imitare, ed i loro nomi quelli che eglino invocavano? Tuttavia la guerra esterna non è se non una parte dello spettacolo offerto alla gioventù dal paganesimo classico; le lotte interne compiono il quadro. Che cosa abbiam noi veduto nella storia interna di Sparta, di Atene, di Roma in specie, che meglio si cerca di farci conoscere? L’antagonismo continuo delle classi inferiori e delle classi superiori della società; l’orrore dei re, designati sotto il nome di tiranni; l’odio inveterato dei plebei contro i patrizi e dei patrizi contro i plebei, le tempeste nel Foro, le ritirate sul Monte Sacro, le leggi agrarie, l’intervento dei tribuni e la popolarità dei cospiratori; dissensioni sempre rinascenti, fazioni sempre pronte a venire alle mani; il sangue dei cittadini inondante le vie e le piazze delle città, e l’ostracismo che esiliava a volte i vincitori della vigilia, vinti del domani. Begli esempi, sublimi precetti, preziosi semi da deporre nell’anima della gioventù! E sotto il nome di Tarquinio noi detestavamo la monarchia; eravamo aizzati a volte a pro del popolo ed a pro dei nobili, a pro dei Gracchi ed a pro di Druso, a pro di Mario ed a pro di Siila, a pro di Pompeo ed a pro di Cesare, e quasi tutti noi tenevamo dal popolo e dai suoi tribuni, e sentivamo nascere in noi l’odio verso il governo e la gelosia verso le superiorità dei nobili o dei ricchi. Aggiungete a ciò un patriottismo selvaggio che non rispetta né il diritto naturale, né il diritto delle genti, né i vincoli i più sacri della natura. Ora è Scevola che si brucia la mano per avere sbagliato nello assassinare Porsenna; ora è Bruto che uccide i suoi figliuoli sospetti di congiurare contro la patria; ora è un secondo Bruto che pugnala Cesare, suo benefattore, ed altri ancora che sono esaltali come i tipi del patriottismo, come gli adoratori sublimi della libertà. « Che è ancora codesto patriottismo, il lato bello del mondo antico? L’odio dello straniero; distruggere ogni civiltà, soffocare ogni progresso, portare dovunque la face accesa e la spada, incatenare donne, fanciulli, vecchi ai carri trionfali, quest’essa era la gloria, quest’essa era la virtù. A tali atrocità il marmo degli scultori ed il canto dei poeti era riservato. Quante volte i nostri giovani cuori non palpitarono essi di ammirazione, pur troppo! e di emulazione a somigliante spettacolo! In tal modo i nostri professori, venerabili sacerdoti, pieni di cuore e di carità, ci preparavano alla vita cristiana! ». E cosiffatti tempi si chiamano i tempi-modelli, i tempi dell’eroismo e della grandezza d’animo; e quell’antichità pagana, in cui simili azioni si facevano, chiamasi « la più bella cosa del mondo, l’asilo calmo, pacifico e sano, destinato a conservare la gioventù fresca e pura ». Quest’esso è l’aere che da tre secoli la gioventù europea respira. Finalmente, l’albero diede i suoi frutti. Si era creduto che si poteva impunemente affidare al paganesimo la nostra educazione, la nostra letteratura, i nostri teatri, come se la logica del tempo non deducesse sempre, con inflessibile rigore, le conseguenze pratiche dalle teorie deposte nel cuore delle generazioni nascenti. Oggi, la benda fatale è caduta: la Rivoluzione francese fu la traduzione sanguinosa delle nostre idee di collegio. Essa si spiega, senza dubbio, con motivi estranei all’insegnamento classico. Ma si può mai dubitare che un tal insegnamento non v’abbia aggiunto una quantità d’idee false, di sensi brutali, d’utopie sovversive, di esperimenti fatali? Si leggano i discorsi pronunciati all’Assemblea Legislativa ed alla Convenzione Nazionale: non sono altro se non prosopopee, invocazioni, apostrofi a Fabrizio, a Catone, ai due Bruti, ai Gracchi, a Catilina. – Si sta per commettere un’atrocità? Per glorificarla si trova sempre l’esempio di un Romano. Ciò che l’educazione pose nello spirito passa nelle azioni. È cosa convenuta che Sparta e Roma siano dei modelli: bisogna dunque imitarle o parodiarle. L’uno vuole instituire i giuochi olimpici, l’altro le leggi agrarie ed un terzo il brodetto nero degli schiavi. « Che voleva Robespierre? Innalzare gli animi all’altezza delle virtù repubblicane dei popoli antichi (3 nevoso, anno III). Che mai voleva Saint-Just? Voleva offrirci la felicità di Sparla e di Atene, e che tutti i cittadini portassero sotto i loro panni il coltello di Bruto (23 nevoso, anno III). Che mai voleva i l sanguinario Carrier? Che tutta la gioventù guardasse in faccia oramai le braci ardenti di Scevola, la morte di Cicerone e la spada di Catone suicida. Che mai voleva Rabaut-Saint Étienne? Che secondo i dettami dei Cretesi e degli Spartani, lo Stato s’impadronisse dell’uomo sin dalla culla ed anche prima del nascere (16 dic. 1792). Che mai voleva la Sezione dei Trecento? Che si consacrasse un tempio alla Libertà, e si facesse erigere un altare sul quale bruciasse un fuoco perpetuo, nutrito da giovani Vestali (19 marzo 1794). Che mai voleva la Convenzione tutta quanta? Che le nostre comuni non contenessero più se non dei Bruti e dei Publicoli (Baccalaureato e socialismo, p. 48 e 58) ». – Non solo il paganesimo appare per intero nei discorsi, nelle massime e negli atti privati; esso passa nelle leggi, nei pubblici costumi e nei nomi. Il diritto del più forte, schifosa legge del mondo antico, diventa l’unica regola dei legislatori. Il sangue innocente tinge in rosso il palco e si mischia a torrenti alle onde dei nostri fiumi; la spogliazione è di moda in tutta quanta la Francia. Nelle pubbliche feste ritorna tutta quanta la mitologia: i Genii, il Tempo, la Vecchiezza, le Stagioni, i carri trascinati dai buoi colle corna dorate; sulle piazze, nelle vie ricompaiono le Baccanti scapigliate. La più infame delle Dee pagane risale sugli altari; essa ha i suoi sacerdoti e i suoi adoratori; il Panteon riceve i cittadini giudicati degni dell’apoteosi. Noi abbiamo la repubblica, il popolo-re, dei licei, degli Atenei, dei Pritanei, dei ginnasti, degli ippodromi, dei circhi olimpici, dei comizi, delle municipalità, dei prefetti, dei consoli, un dittatore, un tribunato, un senato, un imperatore, dei decreti, dei Senatus-consulti; l’aquila guida le nostre legioni alla vittoria; ed affinché nulla manchi a questa atroce e burlesca parodia, ci si costringe a porci in capo il berretto frigio. I costumi diventano feroci, il dar del tu a tutti rientra nella lingua; il giuramento d’odio alla monarchia è rinnovato conforme ai Romani; dovunque, i loro Mani sono invocati; Bruto ha imitatori. – I Francesi del secolo XVIII si gloriano di portare i nomi di Catone, di Scevola, di Manlio, di Anacarsi, di Dracone, di Simonide, di Socrate, di Gracco e di Anassagora. In qual modo simili pazzie, per non dire simili atrocità, poterono commettersi con un sì strano buon esito? Carlo Nodier risponderà. Dopo aver dipinto le scene orribili della Rivoluzione e la bruttura delle Assemblee popolari, soggiunge: « Ciò che v’ha di notevole si è che noi non eravamo affatto preparati ad un tal ordine di cose eccezionali, noi altri scolari, che da un’educazione anomala ed anormale eravamo assiduamente preparati sin dall’ infanzia a tutte queste aberrazioni di una politica senza base. Non v’era gran sforzo a fare per passare dai nostri studi di collegio alle discussioni del foro e alla guerra degli schiavi. La nostra ammirazione era già tutta per le istituzioni di Licurgo e pei tirannicidi delle Panatenèe: non ci si era mai parlato d’altro che di questo. « I più vecchi di noi riferivano che, alla vigilia dei nuovi avvenimenti, il premio della composizione di retorica si era disputato tra due perorazioni, alla guisa di Seneca l’oratore, in favore di Bruto l’antico e di Bruto il giovine. Non so chi l’abbia vinta agli occhi dei giudici; se colui che uccise il proprio padre o se colui che uccise i suoi figliuoli: ma il laureato fu incoraggiato dall’Intendente, accarezzato dal primo Presidente ed incoronato dall’Arcivescovo. All’indomani si seppe d’una rivoluzione e se ne meravigliarono, come se non si avesse dovuto sapere ch’essa si era fatta nell’educazione del popolo. « Se la moda di tali pedantesche suasorie si rinnovasse, e se si trattasse di decidere chi, di Voltaire o di Rousseau, abbia maggiormente contribuito all’annientamento delle nostre vecchie dottrine monarchiche e religiose, confesso che sarei passabilmente imbarazzato nella scelta; ma non dissimulerei che Tito Livio e Tacito vi ebbero una buona parie. Cotale testimonianza, la filosofìa del secolo XVIII non può non renderla ai Gesuiti, alla Sorbonna ed all’Università (Rimembranze, t. I, 88) ».

CAPITOLO XXIV

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Abbiamo veduto il paganesimo antico riprodotto, tratto per tratto, nell’Europa moderna dalla guerra esterna ed interna quasi continua, da un amore feroce della libertà, da un patriottismo selvaggio, così bene imitato secondo i Greci e i Romani, che non si sa quale divario trovare tra i novelli e gli antichi Bruti, tra la lingua, i disegni, le azioni, ed i costumi degli uni e degli altri. Rendiamo compiuto questo quadro che non si potrebbe abbastanza studiare. Quale altra lezione il paganesimo classico dà alla gioventù? Ignorando la vera nozione del potere, il paganesimo classico le dimostra il dispotismo come l’unica legge della società; e siffatto dispotismo passando a volte dalle mani della moltitudine in quelle di un solo uomo. Tale si è l’idea colla quale da tre secoli in qua vien resa famigliare la gioventù. Il paganesimo classico mostra alla gioventù i l potere sovrano non già come cosa divina, la cui origine non trovasi sulla terra; non già come un deposito divino il cui depositario deve rendere conto a Dio; non già come un carico che richiede il sacrificio continuo del superiore all’inferiore; ma sì come cosa d’origine umana, come un deposito umano il cui depositario deve conto all’uomo solo; non già come un carico, ma come un benefizio che suona gloria, onori, piaceri a colui che lo possiede. In una parola, il paganesimo classico falsifica affatto la nozione del potere politico, il quale, più non essendo se non un mandato umano od una conquista della forza, finisce sempre col dispotismo di un solo uomo o della moltitudine. – Quindi vediamo in tutte le repubbliche classiche assemblee popolari di continuo rinnovate per trasmettere il potere, per determinarne i limiti, per giudicarne i contabili; vediamo tribuni faziosi per equilibrare la loro autorità, ed un senato geloso per sorvegliarne l’esercizio. Poscia rivalità e gelosie perpetue; poscia cospirazioni per togliere il potere, o congiure per assassinare i tiranni; poscia elogi egualmente assoluti agli assassini ed ai tiranni, a Bruto e a Cesare, a Cicerone ed ai Triumviri; poscia finalmente la repubblica sempre palleggiata, che inevitabilmente finisce con cadere in eccessi di licenza sfrenata, e quindi in un’abbietta servilità. Tale si è il nuovo tratto del quadro col quale, da tre secoli in qua, vien resa famigliare la gioventù, avendosi cura di ripeterle, qui come altrove, l’eterno ritornello che il sig. Thiers ridice ancora ai dì nostri, e che, nell’ora stessa in cui io vergo queste linee, risuona in lutti i collegi d’Europa: L’antichità è quanto vi è di bello al mondo. Ma qui eziandio giudichiamo l’albero dai suoi frutti. Quali sono le risultanze politiche di simile educazione? Da una parte, la totale alterazione della vera nozione del potere; d’altra parte, la glorificazione e la pratica di queste teorie sovversive. Alterazione della vera nozione del potere. I secoli cristiani ripetevano con San Paolo che ogni potere viene da Dio. Ora, dite di presente all’Europa, discepola del paganesimo, che ogni potere deriva da Dio, e dipende da Gesù Cristo, Re dei Re, Signore dei signori; combattete il dogma pagano della sovranità del popolo: e vedrete se v’ha una sola nazione che vi capisca, e vedrete quanti saggi vi risponderanno con non altro che con un sorriso di pietà. Leggete i discorsi solenni, i discorsi in certo modo nazionali, discorsi del trono, discorsi degli oratori parlamentari, e guardate se non vi trovate ad ogni pagina il nome della Nazione, il nome del Popolo, il nome della Patria, invocato in tutta Europa come la ragion suprema del diritto e del dovere. Perché mai la ripetizione così frequente di tal nome, sostituito al nome di Dio, se non perché l’autorità ch’esso esprime è onnipossente, sola possente, sola considerata come la sorgente del potere nel mondo politico d’adesso? Glorificazione e pratica delle teorie sovversive del paganesimo. Leggete i giureconsulti, i legisti, i filosofi della moderna Europa, tutti nutriti della bella antichità pagana; che cosa vi troverete? Essi vi raccontano che « la società è un contratto; che per essere legittimo il Governo, esser deve fondato sul libero consenso dei sudditi, che senza di ciò esso non è se non violenza, usurpazione, assassinio (Rousseau , Emilio, t. IV, p. 349; Enciclop., Autorità politica; Sistema della natura, 1.1, c. 9. e 16.); che ogni potere viene dal popolo; che il popolo si è la sola potenza la quale non abbia d’uopo d’aver ragione per legittimare i suoi atti (Rousseau, ib.); che insegnare che i principi tengono il loro potere da Dio è una massima immaginata dal clero, il quale non pone i re al di sopra del popolo, se non per comandare ai re stessi in nome della Divinità; dunque non è altro che una catena di ferro la quale tiene una intera nazione sotto i piedi di un solo uomo ; che il Magistrato supremo altro non è se non il primo fattorino della nazione (Elvezio, Dell’uomo, t.II nota 5 p.596); che nei secoli di barbarie si poté pascere d’ambigue parole gli spiriti traviati da un’epidemia di fanatismo, e tener saldi con vuoti suoni dei greggi che camminavano solo al suono delle trombe; ma quando uno Stato si è incivilito, forse che allora esso cerca nelle tenebre dell’ignoranza e dell’errore le fondamenta dell’autorità legittima? che il popolo è il solo sovrano; che esso ha il diritto di giudicare i re; che il loro mandato viene dalla sua volontà; .quando essi lo violano, il loro mandato è infranto; che l’insurrezione è il più santo dei doveri (Dichiaraz. e discorsi di tutti gli oratori rivoluzionari del 93 e del 1848 inclusivamente.) ». E il popolo insorse da un capo all’altro d’Europa, e giudicò i tiranni, e si trastulla colle corone come un fanciullo coi balocchi; e noi vedemmo in meno di un mezzo secolo cinquantadue troni andare in frantumi, e le sanguinose loro reliquie trascinate nel fango dei trivii dal popolo-sovrano; e v’ebbero canti di trionfo per gli assassini dei re, come già ve ne furono per Scevola, per Bruto, per Macrone e per Stefano; e la società sempre divisa dall’odio, sempre palleggiata tra le fazioni, passa alternativamente dalla tirannide la più dura alla servilità la più vile; i più fieri Bruti del 93 diventano i più schifosi servitori del soldato fortunato che indorò le cuciture dei loro abiti; oggi pure, malgrado le sue superbe pretese alla libertà ed all’eguaglianza, la società si sottometterà senza fiatare al Tiberio che vorrà porle il piede sul collo. Aspettando di obbedire alla sciabola d’un soldato pretoriano, la società obbedisce alla penna di un commesso, come una macchina alla cieca forza che la fa muovere. Ecco ciò che noi siamo da tre secoli in qua, ed ecco ciò che dobbiamo essere. Ritornato al paganesimo colla sua educazione, il mondo dové a forza rientrare nelle condizioni sociali del paganesimo: rivalità, anarchia, dispotismo, servilità, instabilità, rivoluzioni. Riflettete e conchiudete. Rimane a porre in luce un ultimo frutto dell’albero pagano. – « Il vero progresso, dice l’illustre pubblicista spagnolo Donoso Cortes, consiste nel sottoporre l’elemento umano, che corrompe la libertà, all’elemento divino, che la purifica. La società seguì una via diversa riguardando siccome la morte l’impero della fede; e proclamando l’impero della ragione e della volontà dell’uomo, rese assoluto, universale e necessario il male, che era relativo, eccezionale e contingente. Questo periodo di rapida retrogradazione cominciò in Europa colla restaurazione del paganesimo letterario, che successivamente produsse le restaurazioni del paganesimo filosofico, del paganesimo religioso e del paganesimo politico. Oggi il mondo è alla vigilia dell’ultima di queste restaurazioni, la ristaurazione del paganesimo socialista ( Lettera al signor di Montalembert, 4 giugno 1849.) ». – Ah sì! Il socialismo che ci minaccia è un frutto del paganesimo classico. Esso è insegnato dagli autori dei quali s’insegna alle generazioni d’Europa a considerare le parole come oracoli, e le teorie sociali come quanto v’ha al mondo di più perfetto e di più leggiadro. – Il socialismo intacca nelle sue basi la famiglia e la proprietà e tende a realizzare, coll’annientamento della libertà individuale a profìtto dello Stato, il più vasto, il più vergognoso, il più spaventoso dispotismo che mai abbia pesato sul mondo. Ora, il paganesimo che ci si insegna ad ammirare, insegna e pratica il socialismo nella famiglia. « Legislatori di popoli guerrieri, Licurgo e Platone capiscono che la famiglia può indebolire l’abnegazione militare. Noi stessi lo sentiamo, poiché vietiamo il matrimonio ai nostri soldati. Pure bisogna che la popolazione cresca. Come risolvere il problema? Come fecero Platone in teoria e Licurgo in pratica? Colla promiscuità. Platone e Licurgo, ecco i nomi che ci si avvezza a non pronunziare se non con idolatria (Baccalaureato e Socialismo, p. 14.) ». – Roma stessa, degna discepola della Grecia, consacrò il concubinato e il divorzio (3 V. Storia della famiglia, t. I, c. 9 e 10.). V’ha di più: nell’antica famiglia il socialismo assorbe la libertà della donna e del figliuolo a pro del padre, come lo Stato medesimo assorbe a suo pro la libertà del padre. Infatti, Licurgo stabilisce in principio che il figliuolo appartiene non già a suo padre, ma sì allo Stato, e noi vedemmo con qual barbaro rigore codesta legge socialista si eseguisse. Vedemmo eziandio che tali teorie pagane sulla famiglia e sul figliuolo sono diventate la base delle istituzioni dell’Europa moderna col divorzio, colla coscrizione militare e col monopolio dell’insegnamento. Se esse non sono riprodotte alla lettera, ringraziamone il Cristianesimo, il cui segreto influsso ci vieta d’essere sì cattivi come i nostri princìpi. – In quanto alla proprietà, io sfido a trovarne in tutta quanta l’antichità una definizione passabile (L’antichità era incapace di darne una. Allora l’uomo non essendo seriamente responsabile innanzi a Dio, non poteva essere realmente inviolabile innanzi agli uomini. « Infatti, l’uomo non è inviolabile se non perché egli ha una responsabilità assoluta innanzi a Dio. La proprietà, frutto dell’uomo, non è inviolabile se non della inviolabilità dell’uomo. Dacché egli non è più responsabile innanzi a Dio, perde la sua inviolabilità sulla terra: la sua proprietà non è più inviolabile di quella del lupo. La difenda, se può; ma la proprietà non è più legittima.). – La vera base della proprietà è la volontà del Proprietario universale di ogni cosa: è codesta parola di Dio: Tu non ruberai: non furtum facies. L’antichità o aveva dimenticato o aveva sprezzato questa ed invece di fondare il diritto di possedere sulla autorità di Dio, l’aveva fondato sull’autorità dell’uomo, cioè sull’autorità della legge. Ma se la legge umana crea la proprietà, la legge umana la può distruggere; è questo il principio del socialismo moderno. Quanto alla supremazia assoluta dello Stato e quanto all’assorbimento della libertà individuale nella volontà di un capo: che questo capo si chiami l’areopago, gli arconti, il Senato, Augusto o Tiberio, questo principio fu praticato in tutta quanta l’antichità classica con un rigore che non sarà sorpassato se non dal socialismo che ci si prepara. Il figliuolo vi era schiavo, la donna vi era schiava, i tre quarti del genere umano erano schiavi. Quest’ordine di cose non era se non l’applicazione degli insegnamenti della filosofia. Il suo più celebre rappresentante, Platone, sciogliendo successivamente tutti gli elementi dal multiplo, giunge all’unità assoluta, cima della sua dialettica. Circoscritta nello spazio delle idee astratte, codesta teoria non è più pericolosa di un’altra; ma applicata al governo delle cose umane, contiene il vizio irrimediabile di annichilare l’individuo sacrificandolo tutto quanto al complesso. Platone, sempre coerente a se stesso, e collo sguardo rivolto alla sua unità assoluta, proclamò infatti nella sua repubblica la comunanza dei beni, la comunanza delle donne, la direzione del cittadino per mezzo dello Stato, dalla culla sino alla tomba. Tali sono le istituzioni che ci si insegna ad ammirare. E voi volete che non si trovino uomini disiderosi di diventare tanti Minossi, tanti Licurghi, tanti Soloni, tanti Numa, tanti Platoni, tanti fabbricatori di costituzioni e di repubbliche sullo stampo delle repubbliche greche e romana! – « Voi esagerate, mi si dirà; non è guari possibile che la nostra gioventù studiosa attinga alla bella antichità opinioni e sensi sì deplorabili. E che mai volete ch’essa vi attinga se non quello che vi si trova? Fate uno sforzo di memoria e rammentatevi con quale disposizione d’animo siete entrato nel mondo Per me, quand’io vedo la società presente gettare i giovani, a decine di migliaia, nello stampo dei Bruti e dei Gracchi, per lanciarli poscia, incapaci d’ogni utile lavoro, nella stampa e nella via, mi stupisco che la società resista a tale prova. Poiché l’insegnamento classico non ha solo l’imprudenza di tuffarci nella vita greca-romana; esso vi ci tuffa avvezzandoci ad appassionarci per quella, a considerarla quale il bello ideale dell’umanità, tipo sublime, troppo alto collocato per le anime moderne, ma che noi dobbiamo sforzarci d’imitare senza mai pretendere di raggiungerlo (Baccalaureato e Socialismo, p. 20.). L’insegnamento classico ha ragione: noi non raggiungeremo mai il sistema sociale del paganesimo. O noi cadremo più in basso, o rimarremo molto al di sopra. « La rivoluzione cristiana è un fatto compiuto, del quale si devono subire le conseguenze. Voi fareste rivivere tutti i geni politici, militari, poetici, filosofici, artistici dell’antico mondo, ed essi sarebbero impotenti a ricostruire le società di cui furono la gloria. Uscite un po’ dalla cerchia fanciullesca delle vostre idee di collegio per tener conto delle realtà. Non vedete voi che il banchetto sociale, al quale l’Europa d’altra volta ammetteva appena dieci milioni di padroni, serviti da duecento milioni di schiavi, è molto troppo stretto pei duecento cinquanta milioni di padroni, di cui non un solo non esiterebbe a sfoderare la spada contro chi gli dicesse: sii tu il mio schiavo? – « Che un tale spirito di fratellanza, di eguaglianza e di libertà, il quale agita i popoli cristiani sia cosa lamentevole per gli ammiratori delle società antiche, sta bene; ma pure è un fatto vivo. – « Ora, ecco una delle conseguenze di questo fatto: lo spazio che poteva bastare alla vita di dieci milioni di cittadini formati dai legislatori della Grecia e del Lazio, sarebbe insufficiente ad un numero eguale d’uomini educati dall’Evangelio: come dunque basterebbe a duecento cinquanta milioni di cristiani? « Noi abbiamo popolazioni venti volte più numerose e senza paragone più esaltate nelle loro idee e nelle loro pretese che non le popolazioni libere dell’antichità. Volere che queste masse di giganti si muovano in buon ordine o rimangano immobili nella sala di equitazione in cui presero le loro mosse ed in cui finirono con rimanere soffocati i figliuoli di Cecrope, di Licurgo, di Romolo e di Numa , si è un volere l’impossibile, si è un originare disastri. – « Però, tale fu lo scopo dei nostri moderni sistemi di educazione, se tuttavia è permesso di chiamare sistemi l’impasto sragionato dei più strani elementi (il sig Martinet, Della educazione dell’uomo) ».

CAPITOLO XXV

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Continuiamo a spiegare il fatto particolare che in questo momento ci occupa, il fatto che sulla soglia dell’avvenire si erge come un gigante innanzi al mondo atterrito: il comunismo ed il socialismo. Come volete voi che la gioventù studiosa, non ne attinga i principi nella nostra educazione pagana, giacché vi si trova tutto quanto, e mentre gli uomini i più segnalati non seppero schermirsene? Lo dico a malincuore e scusandone le intenzioni: « La lunga frequentazione degli antichi non fece forse un comunista di Fénélon, di questo uomo che l’Europa moderna considera a ragione quale il più bel tipo della perfezione morale? Leggete il suo Telemaco, questo libro che si ha fretta di porre in mano alla gioventù; voi vi vedrete Fénélon toglier a prestito i lineamenti della Sapienza medesima per istruire i legislatori. E su qual disegno organizza egli la sua società-modello? Da un lato, il legislatore pensa, inventa, opera; dall’altro, la società, impassibile, inerte, lascia fare. – Il motore morale, il principio d’azione è in tale guisa strappato a tutti gli uomini per essere l’attributo di un solo. Precursore dei nostri moderni più ardili organizzatori sociali, Fénélon decide del cibo, della dimora, tutti i Salentini. Egli dice ciò che loro sarà permesso di bere e di mangiare, su qual disegno le loro case dovranno essere fabbricate, quante camere conterranno, e come saranno addobbate. « Mentore, egli dice, stabilì magistrati ai quali i mercanti rendevano conto delle sostanze loro, dei loro lucri, delle loro spese e delle loro imprese… D’altra parte la libertà del commercio era intera… Mentore regolò gli abiti, il cibo, le suppellettili, la grandezza e l’addobbo delle case per tutte le varie condizioni.«Regolate le condizioni della nascita, diceva al re …. Le persone del primo grado, dopo voi, saran vestite di bianco…. quelle del secondo grado, d’azzurro,… le terze, di verde…. le quarte, d’un giallo roseo…. le quinte, d’un rosso pallido o roseo…. le seste, d’un grigio di lino …. e le settime, che saranno le ultime del popolo, d’un colore misto di giallo e di bianco. – Ecco gli abiti di queste varie condizioni per gli uomini liberi. Tutti gli schiavi saranno vestiti di grigiobruno; non si permetterà mai alcun cambiamento, né per la sorta delle stoffe, né per la forma degli abiti. Egli regola parimenti il cibo dei cittadini e degli schiavi; dà modelli di un’architettura semplice e graziosa. – Volle che ogni casa, alquanto considerevole, avesse una sala ed un portico, con camerette per tutte le persone libere ». Non si ravvisa qui forse una fantasia riscaldata dalla lettura di Platone e dall’esempio di Licurgo, divertendosi a fare esperimenti su vili uomini come su vile materia? Dove si troverà descritta in termini più seducenti l’onnipotenza dello Stato, il suo diritto di sistemazione universale, la sua personalità unica, sognata dagli attuali nostri socialisti? Non vi è forse ragione di chiedere a se stessi se ciò che si è letto è una pagina di Telemaco od un capitolo dell’Icaria del signor Cabet? « Vi è un altro uomo, quasi simile a Fénélon per il sapere e per il cuore, il quale s’occupò di educazione più che non Fénélon: egli è Rollin. Ebbene! A qual grado mai d’infermità intellettuale e morale la lunga frequentazione dell’antichità non aveva ridotto il buon Rollin Non si possono leggere i suoi libri senza sentirsi presi da tristezza e da pietà. Non si sa s’egli sia cristiano o pagano, tanto si mostra imparziale tra Dio e gli dei. I miracoli della Bibbia e le leggende dei tempi eroici trovano in lui la medesima credulità. Sul suo placido volto vedesi sempre errare l’ombra delle passioni guerriere; egli non parla che di giavellotti, di spade e di catapulte; per lui è uno dei problemi sociali i più importanti il sapere se la falange macedone valesse meglio che non la legione romana. Egli esalta i Romani, perché non si applicarono se non alle scienze che hanno per oggetto la dominazione, l’eloquenza, la politica, la guerra. Tutto il suo incenso è per Marte e per Bellona: a gran pena ne brucia alcun granello al Cristo…. L’intervento del legislatore in tutto sembra a Rollin così indispensabile, ch’egli si allegra coi Greci che un uomo per nome Pelasgo sia venuto ad insegnar loro a mangiare ghiande. Prima di Pelasgo, dice, i Greci si pascevano d’erba come i bruti (Baccalaur. e Social., p. 28.) ». Dopo qualche riserva per le leggi di Licurgo, Rollin ammette senza difficoltà il principio comunista di questo legislatore, cioè: che la legge crea la proprietà. « Il ladrocinio, dice, era permesso in Isparta, ed era con severità punito fra gli Sciti. Il motivo di simigliante differenza è sensibile; si è che la legge, la quale sola decide della proprietà e dell’uso dei beni, nulla fra gli Sciti, aveva concesso ad un particolare sulla possessione di un altro, e che la legge, fra gli Spartani, aveva fatto tutto l’opposto ». Se la legge è la ragione d’essere della proprietà, perché mai, domanda Proudhon, non sarebbe essa pure la ragione d’essere del furto? Che rispondere a siffatta domanda? – Dopo Rollin viene Montesquieu, ogni frase del quale ebbe per tanto tempo il privilegio di fare autorità, ed i cui scritti esercitarono sullo spirito della società un decisivo influsso. Ora Montesquieu, degno discepolo del paganesimo, non cessa d’ammirare e di proporre all’ammirazione dei suoi lettori le istituzioni dell’antichità le più comuniste e le più barbare. « Gli antichi Greci, dice, penetrati della necessità che i popoli viventi sotto un governo popolare fossero educati alla virtù, fecero, per ispirarla,istituzioni singolari…. Le leggi di Creta erano l’originale di quelle di Sparta, e quelle di Platone ne erano la correzione. Prego che si ponga un po’ di attenzione all’estensione di genio che era d’uopo a quei legislatori per vedere che, urlando lutti gli usi ricevuti, confondendo tutte le virtù, mostrerebbero all’universo la loro saggezza. Licurgo, mescolando il furto collo spirito di giustizia, la schiavitù la più dura colla libertà estrema, i sensi i più atroci colla più grande moderazione, diede stabilità alla città sua. Ei parve toglierle tutte le fortune, le arti, il commercio, il danaro, le mura: vi si ha dell’ambizione senza speranza di stare meglio; vi si hanno i sensi naturali, e e non vi si è né figliuolo, né marito, né padre. Per queste strade Sparta è condotta alla grandezza ed alla gloria; ma con tanta infallibilità nelle sue istituzioni, che nulla si otteneva contro essa guadagnando battaglie, se non si giungeva a toglierle la sua polizia (Spirito dello Leggi, lib. i v , e. 8. ) ». Più lungi, esaltando lo spirito d’ambizione che, ad esempio dei Greci e dei Romani, spinge oggi la gioventù d’Europa intera al dispregio delle professioni umili, ma utili, e produce la sclassificazione universale, così si esprime: « Bisogna riporsi in capo che nelle città greche, in quelle specialmente che avevano per principale oggetto la guerra, tutti i lavori e tutte le professioni che potevano condurre a guadagnar denaro erano considerale come indegne d’uomo libero. « La maggior parte delle arti, dice Senofonte, corrompono i l corpo di coloro che le esercitano; esse obbligano a sedersi all’ombra o presso al fuoco: non si ha tempo né pei proprii amici, né per la repubblica ». Non fu se non nella corruzione di alcune democrazie che gli artigiani giunsero ad essere cittadini. Aristotele ce lo narra, e sostiene che una buona repubblica non darà mai ad essi il diritto di città. Stupitevi se oggi tutti vogliono essere cittadini, se i libri dei filosofi ed i discorsi dei rivoluzionari sono pieni di declamazioni contro le arti, e se il popolo-re ne infranse sì stupidamente i capi d’opera! – « L’agricoltura, prosiegue Montesquieu, era eziandio una professione servile, ed ordinariamente era esercitata da qualche piopolo vinto: dagli Iloti fra i Lacedemoni, dai Perièci fra i Cretesi, dai Ponesti fra i Tessali, e da altri popoli schiavi in altre repubbliche. Finalmente tutto il commercio era infame fra i Greci. Avrebbe bisognato che un cittadino avesse reso servizi ad uno schiavo, ad un locatario, ad uno straniero: questo pensiero era avverso allo spirito della libertà greca. Perciò Platone vuole, nelle sue leggi, che si punisca un cittadino che commerci. Si era adunque molto imbarazzati nelle repubbliche greche: non si voleva che i cittadini lavorassero nel commercio, nell’agricoltura, né nelle arti; nemmeno si voleva che fossero oziosi. Essi rinvenivano una occupazione negli esercizi che dipendono dalla ginnastica ed in quelli che avevano relazione colla guerra: l’istituzione non ne dava altre ad essi (Spirito delle Leggi, lib, v.) ». Ma ecco cosa più direttamente comunista: « Non basta, soggiunge il degno rampollo della bella antichità pagana, che in una buona democrazia le parti di terreno siano eguali; bisogna che siano piccole, come fra i Romani…. Come l’eguaglianza delle fortune mantiene la frugalità, così la frugalità mantiene l’eguaglianza delle fortune. Queste cose, sebbene diverse, sono tali che non possono stare l’una senza dell’altra ». – Più lungi, egli trova meravigliosa un’istituzione che farà sorridere i signori Cabet e Consideraut. « I Sanniti, dice, avevano un’usanza la quale, in una repubblichetta, ed in ispecie nella condizione in cui versava la loro, produr doveva ammirabili effetti. Si che chi era dichiarato il migliore di tutti prendeva per moglie la fanciulla che egli voleva; quegli che dopo lui otteneva i suffragi sceglieva eziandio, e così di seguito…. Sarebbe malagevole immaginare una ricompensa più nobile, più grande, meno a carico di un piccolo Stato, più capace di operare su ambo i sessi. I Sanniti discendevano dagli Spartani, e Platone, le cui istituzioni non sono se non il perfezionamento delle leggi di Licurgo, promulgò a un dipresso una simile legge (Spirito delle Leggi, lib. VIII, c. 16.) ». Montesquieu avrebbe dovuto dirci quali erano gli effetti meravigliosi di tali sponsali, imposti dalla legge. Quanto io ne so (e questo non è per nulla meraviglioso) si è che la libertà di una delle parti non era menomamente contata. Quando dunque gli apostoli della libertà saranno essi d’accordo con loro medesimi? – A misura che il tempo procede, i frutti dell’albero pagano giungono alla loro maturità. Dopo Montesquieu viene Rousseau. Più d’ogni altro, il suo spirito ispirò la Rivoluzione francese. « Le sue opere, dice Luigi Blanc, erano sul tavolo del Comitato di Salute Pubblica. I suoi paradossi, che il suo secolo prese per audacie letterarie, dovevano bentosto risuonare nelle assemblee della nazione sotto la forma di verità dogmatiche e taglienti siccome fa spada. Il suo stile ricordava il linguaggio veemente e patetico di un figliuolo di Cornelia. Pagano pel linguaggio, Rousseau lo era anche per i pensieri; egli stesso dice che la lettura di Plutarco lo fece quale egli è. Poi, rendendo omaggio a Sparta, sua madre nutrice, grida: « Dimenticherò io che fu in seno alla Grecia che si vide innalzare quella città così celebre per la sua fortunata ignoranza, come per la sapienza delle sue leggi? quella repubblica di semidei, anziché d’uomini, talmente le loro virtù parevano superiori alla umanità? O Sparta! eterno obbrobrio di una vana dottrina! Mentre ì vizi, guidati dalle belle arti, si introducevano in Atene; mentre un tiranno vi adunava con tanta cura le opere del principe dei poeti, tu cacciavi dalle tue mura le arti e gli artisti, le scienze e i dotti (Discorso sulla ineguaglianza delle condizioni.)! »Dopo d’avere, con tali declamazioni, empiuto d’idee spartane lo spirito pubblico e preparato l’atroce vandalismo della Rivoluzione francese, egli prosegue ad inspirare se stesso alla bella antichità per scalzare le basi tutte della società: « Io mi fingerò, dice, nel liceo d’Atene, ripetendo le lezioni dei miei maestri, avendo per giudici i Platoni ed i Senocrati, e l’uman genere per uditore. Sinché gli uomini stettero paghi alle loro rustiche capanne, sinché stettero paghi a cucire le loro vesti di pelli con ariste, ad abbigliarsi di penne e di conchiglie, a dipingersi il corpo di vari colori ;…. sinché non si occuparono se non delle opere che un solo poteva fare, essi vissero liberi, sani e felici. Dal punto che un uomo ebbe d’uopo dell’aiuto di un altro uomo; dal punto che fu visto esser vantaggioso ad un solo l’avere provvisioni per due, l’eguaglianza disparve, la proprietà s’introdusse, il lavoro diventò necessario. La metallurgia e l’agricoltura furono le due arti, la cui scoperta produsse questo grande rivolgimento. Pel poeta, si è l’oro e l’argento; pel filosofo, si è il ferro e il grano che incivilirono gli uomini e perdettero il genere umano (Discorso sulla ineguaglianza delle condizioni) ». Uscire dallo stato sociale per rientrare al più presto nello stato di natura; sconoscere tutte le relazioni di superiorità, di rispetto, d’affetto, di proprietà, che il patto sociale, prodotto della corruzione, stabilì fra gli uomini; proclamare il diritto inalienabile ed illimitato d’ogni individuo a quanto lo tenta ed a quanto egli può raggiungere; tali sono, secondo Rousseau, i doveri naturali dell’uomo. Sei fosse morto alcuni anni più tardi, avrebbe visto con i suoi occhi questi doveri letteralmente adempiti dai suoi discepoli; e Licurgo, Platone e Senocrate, suoi degni maestri, commuoversi d’aver trovato un interprete sì fedelmente ascoltato.Infatti, Rousseau aveva detto : « La proprietà è di convenzione e d’instituzione umana, mentre la libertà è un dono della natura ». E Mirabeau prosiegue: « La proprietà è una creazione sociale. Le leggi non proteggono, non mantengono, solamente la proprietà, ma la fanno nascere ». Nel suo famoso discorso sulla soppressione delle decime, nel quale il sig. Thiers, il difensore della proprietà, trova tratti decisivi di ragione e d’ironia, il focoso oratore così si esprime: « La decima è il sussidio col quale la nazione salaria gli ufficiali di morale e d’insegnamento ». La sconvenienza di queste espressioni fece nascere mormorii alla destra dell’Assemblea, ed allora l’eloquente marchese esclamò: « Tempo sarebbe che si abiurassero i pregiudizii d’ignoranza orgogliosa che fan disprezzare le parole salario e salariati. Io non conosco se non tre modi di esistere nella società: bisogna esservi mendicante, ladro o salariato. Il proprietario non è egli stesso se non il primo dei salariati. Ciò che noi chiamiamo volgarmente la proprietà non è altro se non il prezzo che gli paga la società per le distribuzioni ch’egli è incaricato di fare agli altri individui colle sue spese: i proprietarii sono gli agenti, gli economi del corpo sociale ». – Robespierre soggiunge : « Definendo la libertà, questo primo bisogno dell’uomo, il più sacro dei diritti che egli ha dalla natura, noi abbiamo detto a ragione ch’essa ha per limite il diritto altrui. Perché non avete voi applicato questo principio alla proprietà, che è un’istituzione sociale, come se le leggi di natura fossero meno inviolabili delle convenzioni degli uomini?… La proprietà è il diritto che ciascun cittadino ha di godere e di disporre dei beni che a lui sono garantiti dalla legge ». Da questo segue che il legislatore può mettere all’esercizio del diritto di proprietà, poiché egli lo crea, le condizioni che a lui piacciono. Così Robespierre si affretta a dedurre dalla sua definizione il diritto al lavoro, il diritto all’assistenza, l’imposta progressiva. – « La società, ei dice, è obbligata a provvedere alla sussistenza di lutti i suoi membri, sia procurando ad essi lavoro, sia assicurando mezzi di esistenza a coloro, che sono fuori stato di lavorare. I soccorsi necessari all’indigenza sono un debito del ricco verso il povero. Appartiene alla legge il determinare il modo in cui questo debito debba essere soddisfatto. I cittadini, il cui reddito non eccede quanto è necessario alla loro sussistenza, sono dispensati dal contribuire alle pubbliche spese. Gli altri le devono sopportare progressivamente, secondo l’estensione della loro fortuna». Ancor più esplicito, Bruto Saint-Just proclama il lavoro una infamia, ed il comunismo l’unico mezzo di dare dei costumi ai Francesi: « Un telaio, egli dice con Licurgo, sta male al vero cittadino. La mano dell’uomo non è fatta se non per la terra e per le armi. Il giorno in cui io mi fossi convinto ch’è impossibile dare ai Francesi costumi dolci, sensitivi ed inesorabili verso la tirannia e l’ingiustizia, io mi pugnalerei. Sevi fossero costumi, tutto andrebbe bene; sono necessarie delle istituzioni per purgarli. Per riformare i costumi, bisogna cominciare dall’appagare il bisogno e l’interesse. Bisogna dare qualche terreno a tutti. 1 fanciulli siano vestiti di tela in ogni stagione. Dormano essi su pagliericci e dormano otto ore. Siano nutriti in comune e non vivano se non di radici, di frutta, di legumi, di pane e d’acqua: non possano mangiar carne se non dopo i sedici anni. Gli uomini di venticinque anni saranno tenuti di dichiarare ogni anno nel tempio i nomi dei loro amici. Colui che abbandona il suo amico senza sufficiente motivo sarà esiliato ». – Terminiamo queste citazioni che sarebbe agevole il moltiplicare. Mi si permetta soltanto di coronarle coll’aneddoto seguente. Allorché si trattò di dare alla Francia la costituzione dell’anno III, uno dei membri della Commissione incaricata di preparare il lavoro, Hérault de Séchelles, non trovò cosa migliore quanto il prendere a modello le leggi di Minosse. In conseguenza s’affrettò a scrivere ad uno dei suoi amici (Barthélemy), l’autore di Anacarsi, conservatore della Biblioteca Nazionale, pregandolo di mandargli senza indugio il codice del legislatore cretese! Provatevi adesso di negare la potenza delle rimembranze di collegio e l’influsso sociale della bella antichità! A bella posta io mi sono a lungo fermato sulla filiazione del socialismo. Da una parte, esso costituisce il più formidabile nemico della presente Europa; dall’altra, assalendo addirittura l’interesse materiale, esso é tale da far capire meglio di ogni altra considerazione il pericolo del paganesimo classico, di cui è l’irrecusabile progenitura. « Tale è dunque, in due parole, il cammino impresso alla Rivoluzione dal convenzionalismo greco-latino. Platone segnò l’ideale. – Sacerdoti e laici, nei secoli 16°, 17° e 18° si pongono a celebrare questa maraviglia: l’ora dell’operare giunge: Mirabeau discende il primo gradino, Robespierre il secondo, Saint-Just il terzo, Antonelle il quarto, e Babeuf, più logico di tutti i suoi predecessori, s’innalza da ultimo al comunismo assoluto, al platonicisino puro. Dovrei qui citare i suoi scritti; mi limiterò a dire, poiché questa è cosa caratteristica, ch’egli li firmava Caio Gracco ». Per attenuare l’influenza del paganesimo classico, si dice: « Le classi inferiori non conoscono nè Licurgo, nè Platone, e tuttavia esse sono oggidì socialiste ». Lascerò al nostro grande ammiratore dei pagani il sig. Thiers, l’onore di rispondere: « L’insegnamento secondario, egli dice, insegna ai giovanetti delle classi colte le lingue antiche… Né sono già soltanto parole che si insegnano ai giovani, insegnando loro il greco e il latino, ma sì nobili e sublimi cose (La spogliazione, la guerra, la schiavitù, il divorzio, il materialismo e il comunismo.), la storia dell’umanità sotto immagini semplici, grandi, incancellabili… L’istruzione secondaria forma ciò che si dice le classi colte di una nazione. Ora, se le classi colte non sono la nazione tutta quanta, esse la caratterizzano. I loro vizi, le loro qualità, le loro inclinazioni buone e cattive sono in breve quelle di tutta la nazione, e formano il popolo stesso col contagio delle loro idee e del loro sentire (Benissimo). L’antichità, osiamo dirlo ad un secolo orgoglioso di sé, l’antichità è ciò che v’ha di più leggiadro al mondo. Lasciamo, o signori, lasciamo i giovinetti nell’antichità come in un asilo calmo, pacifico e sano, destinato a conservarli freschi e puri ». – Si, o signori, continuate a mandare i giovinetti nella leggiadra antichità, in cui la schiavitù è la base del sistema sociale; in cui l’odio reciproco delle classi sociali è il senso universale; in cui il divorzio è consacrato dalla legge; in cui il socialismo è insegnato dalla filosofia, vantato dall’eloquenza, cantato dalla poesia: continuate a dar loro per modello la calma dell’antica Roma, la pace dell’antica Roma, la santità dell’antica Roma, e fate conto che ritornino a voi freschi e puri.