CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: APRILE 2022

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: APRILE 2022

Aprile è il mese che la Chiesa Cattolica dedica alla SANTA PASQUA ed alle celebrazioni pasquali.

[Mons. G. Bonomelli: Misteri Cristiani, vol. II, Queriniana, Brescia, 1894]

Nell’augusta nostra Religione vi è un fatto solenne e strepitoso, che è il vertice della vita di Cristo, che getta una luce sfolgorante sulla sua divina missione, che suggella tutta l’opera sua e fa scintillare sulla sua fronte gli infiniti splendori della sua divinità: voi mi avete già compreso: esso è il fatto della sua Risurrezione, che la Chiesa in questo giorno, con tutta la pompa del sacro rito e con santo tripudio del suo cuore, rammenta e festeggia. Tutta la nostra Religione, tutta la nostra fede poggia, come sulla sua pietra fondamentale, su questa verità: Gesù Cristo è vero Dio. – Ora le prove svariatissime della divinità di Gesù Cristo si legano e si intrecciano tra loro per guisa, che tutte mettono capo e quasi si incentrano nel gran fatto della Risurrezione. È questo il miracolo dei miracoli, la prova delle prove della sua Divinità: se questa non regge agli assalti della ragione umana e della miscredenza, tutto intero si sfascia 1’edificio della nostra fede: se questa prova sta salda di fronte agli assalti dei nemici tutti, con essa e per essa sta ritta in piedi la grand’opera di Cristo, la Chiesa, e con la Chiesa e per la Chiesa la sua dottrina. Ecco perché gli Apostoli, fin dal primo dì che annunziarono il Vangelo, appellarono costantemente al miracolo della Risurrezione: ecco perché l’Apostolo gridava ai Corinti: Se Cristo non è risuscitato, è vana la nostra predicazione, vana ancora la nostra fede; noi siamo falsi testimoni di Dio, voi siete ancora nei vostri peccati…. e siamo i più miserabili di tutti gli uomini (Iai Cor. XV, 14, 15, 17, 19) –

201

En ego, o bone et dulcissime Iesu, ante conspectum tuum genibus me provolvo ac maximo animi ardore te oro atque obtestor, ut meumin cor vividos fidei, spei et caritatis sensus, atque veram peccatorum meorum paenitentiam, eaque emendandi firmissimam voluntatem velis imprimere: dum magno animi affectu et dolore tua quinque Vulnera mecum ipse considero, ac mente contemplor, illud præ oculis habens, quod iam in ore ponebat tuo David Propheta de te, o bone Iesu: ≪ Foderunt manus meas et pedes meos; dinumeraverunt omnia ossa mea≫ (Ps. 21, V. 17 et 18).

Fidelibus, supra relatam orationem coram Iesu Christi Crucifixi imagine pie recitantibus, conceditur: Indulgentia decem annorum;

(ai fedeli che recitano questa orazione piamente davanti ad una immagine di Gesù crocifisso, si concedono 10 anni di indulgenza)

Indulgentia plenaria,

si præterea sacramentalem confessionem instituerint, cælestem Panem sumpserint et ad mentem Summi Pontificis oraverint

(… se preceduta dalla confessione sacramentale e dalla Comunione – Pane celeste – pregando secondo le intenzioni del Sommo Pontefice: Indulgenza plenaria.)

(S. C. Indulg., 31 iul. 1858; S. Paen. Ap., 2 febr. 1934).

202

Deus, qui Unigeniti Filii tui passione, et per quinque Vulnera eius Sanguinis effusione, humanam naturam peccato perditam reparasti; tribue nobis, quaesumus, ut qui ab eo suscept Vulnera veneramur in terris, eiusdem pretiosissimi Sanguinis fructum consequi mereamur in caelis. Per eumdem Christum Dominum nostrum. Amen (ex Missali Rom.).

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo oratio quotidie per integrum mensem pie iterata fuerit

(S. Paen. Ap., 12 dee. 1936).

Queste sono le feste del mese di APRILE 2022

1 Aprile

              Primo Venerdì

2 Aprile S. Francisci de Paula Confessoris – Duplex

               Primo Sabato

3 Aprile Dominica I Passionis    Semiduplex I. classis *I*

4 Aprile S. Isidori Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

5 Aprile S. Vincentii Ferrerii Confessoris    Feria

8 Aprile Septem Dolorum Beatæ Mariæ Virginis

9 Aprile Sabbato infra Hebd. Passionis

10 Aprile Dominica II Passionis seu in Palmis  – Semiduplex I. classis

11 Aprile Feria Secunda Majoris Hebdomadæ  

                      S. Leonis I Papæ Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

12 Aprile Feria Tertia Majoris Hebdomadæ

13 Aprile Feria Quarta Majoris Hebdomadæ   

                  S. Hermenegildi Martyris   

14 Aprile Feria Quinta in Cena Domini    Feria privilegiata *I*

15 Aprile Feria Sexta in Parasceve

16 Aprile Sabbato Sancto   

17 Aprile Dominica Resurrectionis    Duplex I. classis

18 Aprile Die II infra octavam Paschæ    Duplex I. classis

19 Aprile Die III infra octavam Paschæ    Duplex I. classis

20 Aprile Die IV infra octavam Paschæ    Duplex I. classis

21 Aprile Die V infra octavam Paschæ    Duplex I. classis

                      S. Anselmi Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris

22 Aprile Die VI infra octavam Paschæ    Duplex I. classis

                      SS. Soteris et Caji Summorum Pontificum et Martyrum

23 Aprile Sabbato in Albis    Semiduplex

                         S. Georgii Martyris

24 Aprile Dominica in Albis in Octava Paschæ    Duplex I. classis

25 Aprile S. Marci Evangelistæ    Duplex II. classis

26 Aprile SS. Cleti et Marcellini Sum. Pontif. et Martyrum  –  Semiduplex

27 Aprile S. Petri Canisii Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

28 Aprile S. Pauli a Cruce Confessoris    Duplex

29 Aprile S. Petri Martyris    Duplex

30 Aprile S. Catharinæ Senensis Virginis    Duplex

LA VITA INTERIORE (14)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (14)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione, Riveduta.

SOLE CHE ARDE

IL RITORNO ALL’AMORE

NON SIAMO PIÙ SCHIAVI DEL PECCATO.

Spiegando l’Apostolo Paolo ai Romani e il simbolismo del S. Battesimo pel quale l’anima rimane purificata dalle colpe e unita con Gesù, suggerisce loro di non far più morire, per mezzo del peccato, la vita divina che hanno ricevuto, e conclude: Ultra non serviamus peccato, cioè: non siamo più, per nessun motivo, schiavi del peccato. Sarebbe davvero una grave iattura. Riflettiamo un istante. – Il Cristiano nel Battesimo è incorporato a Gesù Cristo, in modo da diventare parte del suo Corpo mistico, un altro Gesù Cristo. Siamo morti al peccato ed apparteniamo interamente a Gesù. « Infatti, dice ottimamente il P. Prat (V, 1, 266), noi siamo uniti a lui (Gesù) e diventiamo suoi membri proprio nel momento in cui egli diventa salvatore. Ora, questo momento coincide per Gesù Cristo con quello della morte, raffigurata ed effettuata misticamente per noi nel Battesimo. D’allora tutto ci è comune con Gesù Cristo; noi siamo crocifissi, sepolti con Lui, risuscitiamo con Lui, noi partecipiamo alla sua morte e alla sua nuova vita, alla sua gloria, al suo regno, alla sua eredità ». Sì. Partecipiamo. Ma, purtroppo, non vi partecipiamo per sempre. Perché? Ecco: il Concilio di Trento dice che « se la nostra riconoscenza verso Dio, che col Battesimo ci ha reso suoi figli, fosse all’altezza di questo dono ineffabile, noi serberemmo intatta ed immacolata la grazia ricevuta in questo primo sacramento » (Sess. XIV, cap. I). Per quanto vi siano, anche, anime privilegiate che sanno conservare questa vita divina ricevuta nel Battesimo, Gesù volle pure provvedere per quelle altre anime che, purtroppo, non sanno conservarla, questa grazia… E provvide realmente, istituendo il santo sacramento della Penitenza, il quale « è un monumento ammirabile della sapienza e della misericordia divina, nel quale Dio ha saputo armonizzare queste due cose: trovare la propria gloria, dandoci il suo perdono » (D. COLUMBA MARMION, Cristo, vita dell’anima. Milano, 1935).

COME DIO MANIFESTA LA SUA POTENZA.

Non co’ tuoni e le folgori, non per mezzo dei terremoti e delle inondazioni, non con la carestia, la peste, la fame, la guerra, ma con la… misericordia. La storia delle relazioni fra Dio e l’uomo è una continua manifestazione della bontà e misericordia di Dio. Sembra, per una parte, che gli uomini abbiano fatto tutti, e sempre, generalmente parlando, quanto potevano per offendere il Signore, e, d’altra parte, sembra che Dio abbia gareggiato, sempre, nel dar loro il suo perdono paterno. Conosciamo tutti la bellissima preghiera che i Sacerdoti leggono nella S. Messa della decima domenica dopo Pentecoste: « Deus qui omnipotentiam tuam parcendo maxime, et miserando manifestas… multiplica super nos misericordiam tuam ». E cioè: « O Dio, che fai soprattutto risplendere la tua potenza perdonandoci e avendo pietà di noi, moltiplica su di noi questa tua misericordia ». Questa meravigliosa rivelazione dataci dalla Chiesa che Dio, perdonandoci e avendo pietà, manifesta soprattutto la sua potenza, è ripetuta in tante altre preghiere. Ne ricorderemo ancora una, perché molto espressiva, ed è un’orazione delle Litanie delle Rogazioni: « Deus, cui proprium est misereri semper et parcere... 0 Dio, Tu che hai la caratteristica di usare sempre misericordia, e perdonare… ». Essere misericordioso, dice S. Tommaso, vuol dire prendere, in certo qual modo, nel proprio cuore la miseria altrui. Questa miseria è costituita dai nostri peccati, dalle nostre offese, dai nostri debiti verso Dio. Poiché Dio è bontà, è amore, davanti alla nostra miseria, la bontà e l’amore di Dio divengono misericordia. Non essendo a noi possibile vivere senza peccato veniale, le nostre miserie aumentano. Per questo: l’abisso delle nostre miserie, delle nostre colpe, dei nostri peccati, chiama l’abisso della misericordia divina.

ISTITUZIONE DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA.

Perduti, per causa del peccato, la grazia e i doni del Battesimo, non vi sarebbe più per noi nessun mezzo di salvezza, se Dio nella sua misericordiosa e previdentissima bontà non avesse pensato e provveduto a noi coll’istituzione del santo sacramento della Confessione. — Dopo il Battesimo,  dichiarò il Concilio di Trento (Sess. XVI, cap. 2 e 8), dopo che siamo innestati in Cristo, dopo che «liberati dalla servitù del peccato e del demonio, divenuti i templi dello Spirito Santo, noi ricadiamo volontariamente nel peccato, non possiamo ritrovare la grazia e la vita se non a condizione di far penitenza; così ha stabilito e non senza convenienza, la divina giustizia ». – La penitenza può essere considerata come sacramento e come virtù. Diciamo, ora, soltanto, della penitenza come sacramento. — Sappiamo che Gesù Cristo istituì questo sacramento quando disse agli Apostoli e nella persona di essi, ai loro successori: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; e saranno ritenuti a chi li riterrete (Giov., XX, 23) E ancora: Tutto quanto voi legherete sulla terra sarà legato anche in cielo; e tutto quanto voi scioglierete sulla terra, sarà sciolto anche in cielo (Matt., XVIII, 18). – Per mezzo della confessione ben fatta rifluisce o aumenta la grazia nella vita dell’anima… e il desiderio dell’unione con Dio rinvigorisce, la pietà rimane alimentata e fortificata.

PER FARE UNA BUONA CONFESSIONE.

Dopa aver pregato, com’è evidentemente necessario, occorre fare un buon esame di coscienza (comandamenti di Dio e della Chiesa; gli obblighi del nostro stato; oppure i doveri nostri verso Dio, il prossimo, noi stessi); avere il dolore (interno, sovrannaturale sommo, universale) dei peccati che si devono confessare, e, col dolore, il proposito fermo, stabile ed efficace di non peccare. Dopo di questo, la confessione o manifestazione delle colpe, o accusa, dev’essere umile, semplice, sincera, integra, prudente, obbediente, frequente, seguita dalla penitenza sacramentale o soddisfazione. L’obbligo della confessione riguarda soltanto le colpe mortali. – Ma ogni anima deve procurare, anzitutto e soprattutto, confessandosi, di avere il dolore o contrizione. Anche se l’accusa fosse resa materialmente impossibile, resta la necessità del dolore. Questo dicesi perfetto quando l’anima si rattrista per aver offeso l’amore, cioè Dio, unico e vero amore, sovrano bene, bontà infinita. L’atto di dolore o di contrizione perfetta, per il suo motivo, cancella il peccato mortale nell’istante stesso nel quale l’anima lo produce. Dicesi, invece, dolore imperfetto (contrizione imperfetta, attrizione) quello che deriva dalla vergogna provata in causa del peccato, per il castigo meritato, come la perdita del Paradiso e la condanna all’inferno, e non ha, di per se stesso, l’effetto di cancellare il peccato mortale, ma è sufficiente con l’assoluzione data dal Sacerdote.

COME GESÙ CI RIMETTE I PECCATI…

Da quanto già sappiamo, Gesù ci rimette i peccati per mezzo del Sacerdote al quale ci confessiamo. È appena necessario rilevare che il sacerdote è, per l’anima nostra il medico, l’amico, il padre, l’avvocato è tutto questo, ed è, anche, il giudice. Ma perché? Perché non ci perdona direttamente Gesù stesso? Non è Egli sempre il nostro Dio rimuneratore? Basterebbe ricordare che questo potere fu proprio dato da Gesù ai suoi sacerdoti; tuttavia, aggiungiamo che Dio vuole, nell’economia ordinaria della sua provvidenza, servirsi di cause seconde, guidarci, cioè, per mezzo degli uomini che tengono le veci sue. – Riassumiamo. La confessione, fatta come si deve, libera l’anima dal peccato in forza dell’assoluzione; diminuisce la pena temporale che, dopo l’assoluzione, rimanesse ancora da scontarsi in questo mondo o nel Purgatorio, e la diminuisce per il merito del rossore che proviamo nell’accusarci e per l’umiliazione che abbracciamo volontariamente; ci apre il Paradiso, ci rende più umili e più cauti contro le ricadute; ridona la speranza della vita eterna. Ma v’è di più: mentre non sempre il Signore, negli altri sacramenti, ci fa sentire la soavità delle consolazioni spirituali, nella Confessione dispone sempre che l’anima sia inondata di santa gioia. Perché? Perché la Confessione ci libera dal rimorso della coscienza che ci tormentava di continuo, notte e giorno. Tutto questo è bene sintetizzato da S. Bernardo (Med. 37): “Nella confessione tutto si lava, si monda la coscienza, si mette in fuga il peccato, ritorna la tranquillità, rinverdisce la speranza, l’animo si allieta ». Le parole del confessore: io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo, sono pronunciate in nome di Dio… ed è come se Gesù ripetesse a noi quelle parole dette al paralitico: « Coraggio, o figliuolo, ti sono rimessi i tuoi peccati » (MATT., IX, 2), o come alla Maddalena: « Ti sono perdonati i tuoi peccati…, la tua fede ti ha fatta salva: va in pace » (Luca, VII, 48). Tutto, nel sacramento del ritorno all’amore di Gesù, ci richiama il buon pastore e la pecorella smarrita, il figliuol prodigo che ritorna alla casa paterna e ritrova l’abbraccio dell’amore… Oh! Gioia inconfondibile dell’anima ritornata ai verdi pascoli della speranza, dell’amore e dell’unione col Dio della vita, con Gesù luce, verità e amore perfetto ed eterno!

CONFESSIONI MECCANICHE – IL DIRETTORE SPIRITUALE.

Qualche anima suole lamentarsi dopo la sua confessione, per due motivi. Primo: per l’assoluta mancanza dei divini conforti. Secondo: per la constatazione del mancato progresso nella via dello spirito. Le cause di questi due lamenti possono essere parecchie e diverse. L’esame particolare sul nostro difetto predominante dovrebbe sempre orientarci con precisione…! A parte, però, la mancanza della preghiera, del raccoglimento, dell’adempimento delle condizioni prescritte, molte confessioni diventano meccaniche, perché sono ripetute come i dischi di un grammofono. Per evitare i danni lamentati occorre, anzitutto, la scelta di un padre spirituale, col proposito di seguirlo fedelmente. Può essere direttore spirituale il nostro confessore stesso, e questa è la migliore soluzione. Necessità della direzione spirituale per tutte le anime, ma, vorremmo insistere, specialmente per quelle giovanili su la necessità della direzione spirituale. Come per il corpo è necessaria l’assistenza e la cura del medico, altrettanto è necessaria l’assistenza e la cura del medico spirituale per l’anima. Pieno di luce e opportunissimo a questo fine è il suggerimento dello Spirito Santo: Non operare senza prendere consiglio. Il perché è evidentissimo: nessuno può essere giudice imparziale di sé. Chi è il medico spirituale dal quale prenderemo consiglio? Il miglior consiglio è sempre quello di Dio. Egli, però,ha disposto che le anime fossero santificate, nella via interna, con la sottomissione e l’obbedienza ai confessori e ai direttori spirituali. Esempio tipico è l’ordine dato da Gesù a Saulo convertito da Lui direttamente, ma inviato ad Anania perché gl’insegnasse quello che avrebbe dovuto fare. Come Gesù dispose per Saulo, similmente dispose ed operò la Chiesa. Al direttore spirituale le anime debbono: a) rispetto; b) filiale confidenza; c) docilità umile.

DUE PENSIERI DI S. GIOVANNI BOSCO.

Il primo riguarda la convenienza e l’utilità d’avere un confessore stabile. Nella Vita del giovinetto Besucco Francesco così si è espresso il Santo: « Raccomando coi più vivi affetti del cuore a tutti, ma in special modo alla gioventù di voler fare per tempo la scelta d’un confessore stabile, né  mai cangiarlo senza necessità ». Il secondo è un suggerimento proprio paterno… T’rovandosi un giorno attorniato da un gruppo di giovinetti, il Santo de’ giovani, così loro disse con paterna bontà: « Volete farvi santi? Ecco! La confessione è la serratura; la chiave è la confidenza nel confessore. Questo è il mezzo per entrare per le porte del Paradiso ». – La confessione è, davvero, e le parole del santo don Bosco lo confermano, una fonte inesauribile di santità: ci ridona la grazia e l’amore di Gesù; fa vivere noi in Lui e Lui in noi!

LA VIA DEL RITORNO ALL’AMORE

LE RADICI DEL PECCATO.

Abbiamo già detto che la penitenza può essere considerata come sacramento e come virtù. L’una e l’altra sono vivide, fresche e copiose sorgenti di vita interiore. Ora diremo della ricca fontana di acqua limpida e saliente ch’è la virtù della penitenza. – Nonostante il frutto salutare ed efficacissimo del santo Battesimo; nonostante il perdono reale e completo de’ peccati nel sacramento della penitenza, rimangono sempre in noi le radici amare della colpa, pronte a rinverdire e a rigermogliare; durano sempre in noi certe conseguenze del peccato tenute sotto la cenere, come le assopite, e non mai atrofizzate, ramificazioni della concupiscenza, delle perverse inclinazioni de’ sensi. Se, in queste condizioni noi vogliamo assolutamente raggiungere il possesso della vita interiore e un grado elevato di unione con Dio in modo che la vita divina si sviluppi nelle nostre anime fortemente e, perciò, efficacemente, dobbiamo lavorare continuamente per neutralizzare e distruggere coteste rimanenze e tracce di peccato, dobbiamo essere sempre impegnati per impedire che queste amare radici possano rinverdire, rigermogliare, fortificarsi e dare frutti avvelenati.

LA VIRTÙ DELLA PENITENZA.

Oltre e all’infuori del sacramento della penitenza, il mezzo più efficace per cancellare le cicatrici e le conseguenze del peccato, per soffocare i nuovi germogli, è la pratica della virtù della penitenza. Questa È un’abitudine che quando «è ben radicata e vivace ci spinge continuamente all’espiazione del peccato e alla distruzione dei suoi residui». Meglio ancora: la penitenza è quella virtù «per la quale noi con tutto l’animo ci convertiamo a Dio, detestiamo e odiamo tutti i peccati commessi, e insieme proponiamo e deliberiamo d’emendare al tutto la nostra mala vita e correggere i nostri cattivi costumi, con la speranza di conseguire il perdono dalla divina misericordia » (Catech. Trid.). Giova all’anima ricordare altre precisazioni. Ecco: « … penitenza è piangere i peccati commessi e non commettere più peccati da piangere » (S. GREGORIO, hom. 34 in Ev.). — « Penitenza è contrizione nel cuore, confessione sulle labbra, umiltà nelle opere » (S. Giov. CRIS., Serm. de poen., 1). « Penitenza è una specie di vendetta compiuta da chi si duole, castigando in se stesso ciò che gli duole d’aver commesso » (Sant’Agostino, De vera et falsa poenit., 8). Se l’anima riesce ad avere queste buone disposizioni, allora vede il peccato attraverso alla fede, per mezzo degli occhi di Dio. « Se ho peccato, dirà, ho commesso un atto di cui non posso misurare la malizia, ma che è terribile, che viola talmente i diritti di Dio, della sua giustizia, della sua santità, del suo amore, che soltanto la morte di un Uomo-Dio ha potuto espiarlo.». – Pensandovi sopra, l’anima commossa così rivolgerà a Dio la sua supplica: « O mio Dio, io detesto il mio peccato, voglio vendicare i vostri diritti per mezzo della penitenza, preferirei morire piuttosto che offendervi ancora ». Questo è il solo spirito di penitenza che spinge l’anima a compiere atti di espiazione che debbono dare la morte al peccato, a quello che, nella nostra natura, è sorgente di disordini e di peccati: gl’istinti sregolati dei sensi, le scorribande dell’immaginazione, le inclinazioni corrotte, e, per conseguenza, tenere desta, rendere vigorosa e florida la vita dell’anima!

NECESSITÀ DELLA PENITENZA.

Due sono le vie che conducono al premio: la via dell’innocenza e la via della penitenza. Nessuno di noi può dirsi innocente, perché anche un solo peccato veniale basta per farci peccatori, e obbligarci alla penitenza. La prima necessità della penitenza ci è data dall’obbligo che abbiamo di ristabilire in noi l’ordine, di rendere alla ragione, sottomessa al Signore, l’impero sulle potenze inferiori, per concedere alla volontà di darsi interamente a Dio. Quando l’anima adempie questo obbligo, sente rifluire in sé la grazia, e, con essa sente potentemente e vivamente il desiderio di imitare Gesù, di avvicinarsi di più a Lui, di vivere unita con Lui. – Un’altra necessità della penitenza è, a noi presentata dalla lotta, che tutti dobbiamo sostenere, contro i difetti speciali predominanti che raffreddano e indeboliscono la vita divina in noi. La terza necessità ci è data dalle rinunce che Gesù richiede per tutto il tempo della nostra vita, come le sofferenze morali, le malattie, la scomparsa di esseri che ci sono cari, i rovesci, le avversità, le contrarietà e le contraddizioni che inceppano il raggiungimento dei nostri progetti, l’insuccesso delle nostre imprese, le nostre disillusioni, i momenti di fastidio, le ore di tristezza, il «peso del giorno» che accasciava già così gravemente S. Paolo (Rom., IX, 2) al punto che la vita — dice egli stesso — gli era di peso: Ut etiam tæderet vivere (II Cor., I, 8). Sono tutte miserie, che ci distaccano da noi stessi e dalle creature, soltanto mortificando la nostra natura e «facendoci morire » a poco a poco: Quotidie morior (I Cor., XV, ZI).

È UN COMANDO DEL SIGNORE.

La prima predicazione di Gesù fu la seguente, sulla penitenza: Fate penitenza, perché il regno dei Cieli è vicino (MATT.; IV, 17). In seguito insistette più energicamente: Se non farete frutti di penitenza, perirete tutti allo stesso modo (Luca, XIII, 3). Gesù, però, non volle accontentarsi di predicare. Infatti, tutta la vita di Gesù fu croce e martirio; tutta la sua passione dolorosa sofferta per la nostra redenzione ci mostra in modo mirabile com’Egli abbia unito la predicazione alla pratica. Gesù, però, non avrebbe dovuto soffrire. Soffrì tanto, indicibilmente, solo pei nostri peccati. Possiamo noi, forse, rimanere indifferenti di fronte alla dolorosa passione di Gesù? Noi che portiamo una polveriera nel nostro corpo sempre pronta a scoppiare; come ben disse B. Eymard, noi dobbiamo fare nostro, ripetere e praticare il proposito di San Paolo: Castigo il mio corpo e lo riduco in servitù (I Cor., IX, 27). Questa penitenza ch’è fonte di purificazione e, perciò, di elevazione, dobbiamo volerla ed abbracciarla in unione con la volontà di Gesù per mezzo della fede. Tale unione diventerà una fonte di sollievo, poiché Gesù, avendo sofferto e meritato per noi, si piegherà verso di noi, mosso da misericordia (Luca, XIII, 13) e ci conforterà.  Allora, e giustamente, come Apostolo San Paolo, potremo dire, in mezzo alle tribolazioni: sovrabbondo di gioia in ogni mia tribolazione (II Cor., VII, 4).

[Le incertezze, le angosce, i disgusti, sono rimedi molto amari, ma necessari alla salute dell’anima… Non c’è che una strada che meni a Gesù, quella del Calvario; e l’anima che non vuol seguire Gesù su quella via deve rinunziare alla divina unione.]

C. MARMION.

LA VITA INTERIORE (15)

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 6

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (6)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR, In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO V.

L’umiltà

IV.

Pratica della vera umiltà.

1° Evitare qualsiasi onore, anzi essere oltremodo dispiacenti se ci vediamo onorati, convinti che per noi essere trattati a questo modo è cosa contraria ad ogni giustizia e ad ogni ragione.

2° Stimare noi stessi così vili e abbietti che tutto ci sorprenda fuorché di vederci disprezzati.

3° Rifuggire dall’essere conosciuti e applauditi, perciò tener nascosto tutto quanto potrebbe attirare la stima, e vivere nel silenzio per quanto lo permette la carità.

4° Ambire l’ultimo posto, non solo nelle cariche e negli uffici, ma pure nella stima degli uomini, desiderando di passare nel loro spirito come il più vile di tutti, giusto queste parole di Nostro Signore: Scegliete l’ultimo posto. Recumbe in novissimo loco (Luc. XIV, 10).

5° Desiderare di essere annientati in noi stessi secondo la carne, o di esserlo pure universalmente nel pensiero di tutti gli uomini, rimanendo dappertutto completamente dimenticati. Dobbiamo desiderare che la nostra memoria perisca completamente sulla terra, essendo noj abbominevoli secondo la carne che è cosa esecrabile e da condannarsi ad un perpetuo oblìo (Ob ulit in anathema oblivionis. Judith., XVI, 283).

6° Vivere in pace nel disprezzo; se siamo lodati, rimanerne confusi nell’intimo del cuore; anzi condannare noi stessi di ipocrisia e dì orgoglio per esserci attirata una lode immeritata.

7° Nelle lodi, umiliarci e confonderci alla vista del nostro niente, e con gioia riferire a Dio tutto l’onore che si vuole rendere a noi, protestando che Lui solo merita di essere onorato. – Vivere in tal modo in queste pratiche, inabissati nel proprio nulla senza uscirne e trovarvi il proprio centro e le proprie delizie; è questo un segno di vera umiltà.

Perché la vera umiltà produce il desiderio di vivere nascosti, ritirati e sconosciuti, in una parola, di non comparire perché Gesù solo comparisca in tutto; essa ci fa distruggere il nostro essere proprio, per essere tutti rivestiti di Gesù Cristo, e comparire unicamente sotto di Lui e in Lui.

V.

Segni della vera umiltà.

Il vero umile non crede mai di essere umiliato, — si guarda bene dall’offendere nessuno, — tutto sopporta, completamente abbandonato a Dio, — nella purezza d’intenzione.

L’anima veramente umile è convinta che non può essere stimata meno di quanto vale, perché vede se stessa al disotto di tutto quanto si potrebbe dire. Coloro che sono grandi possono essere abbassati, ma quelli che sono vili e abbietti non possono venire abbassati al disotto del posto in cui si trovano. – L’anima umile si guarda bene dal recar dispiacere a qualsiasi persona, e preferirebbe soffrire qualsiasi pena piuttosto che mortificare il suo prossimo: se talora vi è costretta quando lo richiede il bene del prossimo, anche allora dimentica se stessa e si abbandona allo Spirito di Dio che si serve della sua parola e della sua lingua, purificata che sia da ogni interesse proprio come di uno strumento per operare gli effetti di quella spada a due tagli, che penetra sino al fondo del cuore, divide lo spirito dall’anima e purifica l’uomo sino al midollo. (Hebr. IV, 12). E allora le Spirito di Dio che risiede in quell’anima annientata in sé medesima, la consuma sino all’intimo, e rendendola partecipe della propria santità, fa che sia capace di vedere i difetti altrui, provarne gran dispiacere e correggerli secondo l’ordine di Dio e nella propria di Lui divina dipendenza; quindi essa di ciò che quel divino Spirito le suggerisce e sempre con grande efficacia e benedizione. – L’anima umile, vedendosi al disotto di tutto e indegna di tutto, è sempre animata da tali sentimenti di disprezzo di sé medesima che non sopporta senza affliggersi le minime cose che si fanno in suo favore e dimostrano che si ha qualche stima per essa. Se, per esempio, le si porge qualche cibo più delicato del solito, ne sarà tutta desolata, nel vedere il caso che si fa della propria persona, mentre ritiene di essere un niente. – L’anima umile deve essere in tal modo morta agli affronti e al disprezzo, da rimanere insensibile a tutto, non pensando che a soffrire per amor di Dio, come una pecora che si lascia sgozzare senza lamentarsi. Deve essere in tal modo morta a tutti i suoi sensi, che consideri il suo corpo come un cadavere, e aspetti incessantemente lo si seppellisca, per volarsene liberamente al cielo, onde amarvi ed adorarvi Dio, con tutto il suo cuore. Essa deve vivere in questo spirito di piccolezza e mantenervisi incessantemente. Ché se talvolta essa si trovi con persone eminenti, per interessi concernenti la gloria di Dio, essa deve subito ritornare nel suo fango e nella sua viltà, ritirandosi in sé medesima, occultandosi nella povertà in cui Dio la vuole, e rimanendo sempre nascosta nella propria bassezza. – L’anima umile deve stare nelle mani di Dio, come una piuma in balìa del vento, la quale dopo essere stata trasportata dovunque sia piaciuto alla divina Maestà, deve ricadere nella polvere. Così l’anima deve fare le opere sue in pieno abbandono allo Spirito Santo; perché allora esse verranno compiute in una purezza ammirabile e tutte in Dio. Essa deve fare come un servitore che se ne va portando i messaggi del suo padrone senza sapere se si tratti di cosa che gli sia di vantaggio e serva alla di lui gloria, operando sempre secondo le intenzioni del padrone e senza nessun altro intento. Così, il servo fedele di Dio deve essere in tal modo disinteressato da non sapere a qual fine lavori e sia impiegato, se sia per la più grande gloria di Dio o mene. Basta faccia ciò che Dio intende: dimentica se stesso e non ha in mente altro che Dio, lavora unicamente per Dio, in Dio, e sotto l’azione di Dio. – L’anima che non ha superbia è di una tale purezza che nulla desidera e nulla vuole, crede di non esser nulla, né mai opera da se stessa. Non deve neppure occuparsi di Dio secondo la propria volontà e di propria iniziativa. Che cosa ci vuole dunque? Bisogna che Dio stesso possegga l’anima secondo il proprio beneplacito, e non già che l’anima voglia possedere Dio per disporne secondo la propria volontà.

LA VITA INTERIORE (13)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (13)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione , Riveduta.

SOLE CHE ARDE!

LA VISITA A GESÙ SACRAMENTATO

GIOIA DELL’ANIMA.

È, forse, possibile conoscere Gesù e non sentirsene attratti, non volerlo amare? È, forse, possibile amare Gesù e non pensare a Lui? non avvicinarlo? non visitarlo? Visitare Gesù nel SS. Sacramento dell’altare ov’Egli volle rimanere per testimoniarci il suo Amore, è un dovere, è una necessità, è una gioia, è un conforto senza pari pel nostro povero cuore! Occorre una dimostrazione? Pensiamo a Gesù Re del cielo e della terra; nostro redentore, benefattore, padre, maestro, giudice, premio! A Gesù unico e vero amore; a Gesù che immolatosi per noi sul Calvario, prima dell’inizio della sua passione, quasi in contrasto col durissimo, ingiusto, crudele trattamento degli uomini, per amore degli uomini stabilisce di rimanere sulla terra nel santo sacramento dell’Eucaristia! Da quel giorno, da quel momento supremo in cui durante l’ultima cena, e si offerse al Padre e si diede a noi, Gesù è rimasto, re di Amore per nutrimento del nostro amore, ne’ santi tabernacoli! Povere creature umane, noi siamo soliti a subire gl’incerti dell’entusiasmo per cause vere o fittizie, ogni qualvolta, soprattutto se improvvisamente, o per maestosità di apparato abbiamo i sensi stuzzicati, eccitati, impressionati. Non riflettiamo che tutte le esteriorità, per quanto grandiose non dovrebbero mai pretendere la precedenza della nostra attrazione, del nostro assorbimento, quia Dominus adest, perché il Signore è presente, è vicino a noi, è nel santo tabernacolo, nelle chiese, e ci attende.

GESÙ DIMENTICATO.

Le anime pie, i sacerdoti, i religiosi che si nutrono di Gesù sentono vivissimo il desiderio di visitarlo e di ternergli compagnia. Ma… e gli altri? La SS. Eucaristia non fu istituita per tutti? Gesù afferma ch’Egli è nel tabernacolo, per tutti. Vi è tutti i giorni per accoglierci, per ricevere la nostra adorazione quotidiana; come v’è, pure, per essere subito pronto a uscire all’invito dei più umili, per essere portato al capezzale de’ morenti, per discendere nella cella del carcerato, per salire sul patibolo del condannato. – Le autorità e i grandi della terra visitano rare volte i loro sudditi, i propri dipendenti, sono, sì e no, appena veduti. O meglio, permettono, appena, di lasciarsi vedere da… lontano. Così, in generale. Rarissimi possono avvicinare le autorità, e quasi sempre, nel solo interesse delle autorità stesse. Gesù, invece, è sempre vicino a noi, e ci visita sempre. Anzi: Gesù nel santo Sacramento è una lunga visita che fa a tutte le creature umane della terra. Tutti possono andare da Lui, Egli non fa distinzione di persone e nulla pretende. Se un giorno abbiamo avvicinato un nostro inferiore, se lo abbiamo aiutato per quel poco che potevamo, se gli abbiamo, inoltre, dimostrato un po’ d’affetto, ne attendiamo un po’ di riconoscenza o, anche, di contraccambio. Gesù è rimasto fra noi, ci ha visitato e ci visita di continuo, ci ha fatto godere i benefizi della sua immolazione, ha lavato i nostri peccati col suo sangue, ci ha dato la grazia co’ suoi Sacramenti. Non ha, forse pieno diritto d’essere ringraziato, contraccambiato, visitato, amato, adorato?

DOLOROSE CONSTATAZIONI.

Sì. Gesù ha tutti i diritti d’essere ringraziato, contraccambiato, visitato… adorato! Ma la realtà è molto diversa. Quante chiese rimangono vuote tutto il giorno! Se non vi fosse l’umile lampada che manda i suoi deboli guizzi tra le arcate deserte del tempio, si potrebbe, talora, dire d’essere in una tomba tanto il freddo s’addice a quella miserabile solitudine. « Così viene trattato il Re dei viventi, il Re immortale, il Re di tutti i secoli… » Come un morto, portato al camposanto e abbandonato alla sua tomba! Povero Gesù!… Quando prometteva l’istituzione dell’Eucaristia, e i Farisei mormoravano e molti gli voltavano le spalle quasi scandalizzati, Egli si rivolgeva malinconicamente ai cari Apostoli e loro domandava: Volete andarvene anche voi? (GIOV., VI, 68). Ora che l’Eucaristia è istituita, ora ch’Egli rimane lì, nostro prigioniero volontario, non può più in certe chiese ripetere nemmeno queste parole… Se ne sono andati tutti… tutti, anche le anime buone… E ciò, mentre le piazze, i teatri, gli alberghi sono pieni di sfaccendati… mentre intorno alle regge dei sovrani terreni brulica uno sciame di sudditi ossequienti… mentre gl’insensati baciano vilmente le catene che li tengono avvinti a una creatura… » (E. Bertetti, il Sacerdote predicatore).

SCUSE INUTILI.

La maggior parte delle anime che non si recano a visitare Gesù si scusano adducendo la necessità del lavoro, la molteplicità delle occupazioni. È, questo, il solito, funesto errore della preferenza al corpo, alle esigenze della vita materiale invece che all’anima e ai suoi doveri verso Dio. Non si riflette abbastanza che Gesù è padrone di tutto; che tutto dipende ed è vivificato da Lui; che noi senza di Lui non possiamo nulla. Come gli Apostoli senza Gesù inutilmente pescarono tutta la notte, e viceversa. tanto abbondantemente pescarono quando Gesù fu con loro, così è sempre di noi: Prima Dio, adunque, poi tutto il resto! – Ma se, pure per caso, la lontananza dal tempio o le esigenze imperiose del nostro lavoro, le conseguenze disastrose delle intemperie non ci permettessero di visitare Gesù, adoriamolo, almeno, in ispirito, col desiderio più vivo, col cuore e col pensiero più ricco d’affettuosità filiale. Questo modo di visitare, d’onorare, di adorare Gesù è, oggi, fortunatamente tanto diffuso e felicemente praticato dagli inscritti nelle falange dell’Associazione detta La Guardia d’Onore, approvata, benedetta e favorita dall’autorità dei Sommi Pontefici.

LE ATTRATTIVE DI GESÙ,

Gesù ci attende per farci felici, per arricchirci del suo amore, della sua grazia, perché noli possiamo vivere più strettamente uniti con Lui. Egli è, per questi motivi, nella SS. Eucaristia colla sua divinità. L’infinito, l’eterno, il perfettissimo… Su la porta del tabernacolo sta scritto: Adorerai il Signore Dio tuo; oppure: Costui, cioè Gesù, riceve i peccatori… Disse un giorno Gesù: Dove sono io, vi sarà anche il mio servo. Gesù è là nel tabernacolo; per questo motivo, dobbiamo colà esservi anche noi. – Vi si trova Gesù anche nella sua amicizia. È sua questa meravigliosa dichiarazione: « Le mie delizie sono nell’essere coi figliuoli degli uomini ». E quando non vi rimase più tra gli uomini vivo e reale e palpabile dopo la sua ascensione al cielo, Egli aveva già provveduto per rimanervi come un amico tenerissimo, per mezzo dell’Eucaristia: Ecco che Io sono con voi sino alla fine dei secoli. È nel tabernacolo con le sue ricchezze. Domini est terra et plenitudo eius. I tesori dell’ordine naturale e quelli dell’ordine soprannaturale sono nelle sue mani. « Quand’era nella sua vita mortale, tutti andavano a trovarlo: i fanciulletti per ricevere la sua benedizione, i giovani per chiedere il segreto della vita eterna; i ciechi, i sordi, i muti per essere guariti; gli addolorati e i feriti della vita per trovare conforto; Pietro per ottenere il perdono; la Maddalena per salire nella virtù e nell’amore più di quello che era discesa nel fango. Dal suo tabernacolo ripete incessantemente la grande parola che volgerà eternamente verso di Lui i cuori angosciati: venite a me, tutti, ma voi specialmente che siete curvi sotto il lavoro e il dolore» (Rouzic L., La giornata santificata.). – Gesù è nei tabernacoli colla sua umiltà. A Betlemme apparve sotto l’aspetto di un bimbo tenerissimo; nel tabernacolo sotto le specie eucaristiche. Bontà infinita e misericordiosa del Cuore SS. di Gesù! Sì, sì. Procuriamo di ripetere con S. Bernardo nell’estasi della più intensa commozione più Gesù si fa piccolo e più merita il nostro omaggio, il nostro amore, la nostra riconoscenza nel visitarlo, nell’interrogarlo, nel soffrire con Lui, nel renderlo partecipe di tutto ciò che abbiamo nel cuore e nell’anima. Questi sono i motivi per cui i santi ritornavano incessantemente al tabernacolo di Gesù. La forza e l’attrattiva dell’amore li guidava, li estasiava, li assorbiva. Per questi motivi l’apostolo della gioventù, San Giovanni Bosco, insisteva tanto nel parlare di Gesù Sacramentato ai suoi giovinetti. Sapeva che l’innocenza si nutre solo presso il santo altare. E i frutti erano sorprendenti. Quante volte dovette allontanare, dolcemente; dall’altare, dopo la permanenza di parecchie ore nell’estasi dell’unione col Cuore SS. di Gesù, il pio venerabile giovanetto Domenico Savio? Rigermogliavano in lui gli esempi di S. Giovanni Berchmans il quale, parecchie volte al giorno, appena poteva, correva da Gesù, e non vi correva solo.

IMPARIAMO A PARLARE CON GESÙ.

Molte, troppe anime andrebbero volentieri da Gesù, e magari vanno anche per qualche volta. Poi troncano. Non vi si recano più e interrogati del perché, rispondono: non so che dire a Gesù. Questa risposta meriterebbe, certamente, una lunga spiegazione. Le cause di questo «non so che dire» sono molto, molto dolorose. Molte anime, però, ripetono questa dichiarazione inconsciamente, e non è che la spiegazione della loro timidità mista a pigrizia mentale. Temono, coteste anime, il più piccolo sforzo. Se volessero realmente, basterebbe un po’ di riflessione. Chi è Gesù? Chi sono io? Che vuole Gesù da me? E io che voglio da lui? Perché Gesù rimane qui? Da quando? — Ma: e le anime sante che facevano presso Gesù? La risposta viene subito chiarissima: adoravano, amavano, riparavano, domandavano, ringraziavano. Qui, c’è tutto. Noi dobbiamo fare altrettanto. Non sappiamo neppure fare questo? – Narra il S. Curato d’Ars che ogni mattina, nella sua chiesa parrocchiale, un contadino andava ad inginocchiarsi davanti all’altare di Gesù Sacramentato. Le sue labbra rimanevano immobili, ma i suoi occhi erano sempre fissi nel tabernacolo. Punto da curiosità, il santo un giorno gli si avvicina e gli chiede: Che cosa fai, qui, o caro amico? — E il buon contadino subito con gioiosa prontezza: io lo guardo ed Egli mi guarda. Facciamo, almeno, anche noi altrettanto, e accontenteremo Gesù: Gesù dolce, Gesù amore, Gesù re del nostro cuore.

LA VITA INTERIORE (14)

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 5

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (5)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR . In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO V.

L’umiltà

II.

Motivi dell’umiltà.

-1. La nostra qualità di creature, di peccatori, di Cristiani, di figliuoli, di Sacerdoti. – 2. Tutte le virtù richiedono umiltà.

Il primo motivo deriva dalle nostre qualità e dai titoli che portiamo, qualità e titoli che ci impongono di annientarci in una vera umiltà. Come creature, siamo in obbligo di essere contenti del nostro nulla.  Come peccatori, siamo in obbligo di vederci sotto i piedi dei demoni; di essere respinti da ogni creatura, avendone abusato per il peccato; le creature, infatti, si infiammano giustamente di zelo a favore di Dio contro di noi: il peccato merita bene un tal trattamento. –  Come Cristiani, siamo in obbligo di amare la piccolezza, la viltà e l’abiezione, perché questo amore è una delle inclinazioni di Gesù Cristo Nostro Signore, di cui abbiamo ricevuto lo Spirito nel santo Battesimo. Questo sacramento imprime in noi, se vi corrispondiamo, le inclinazioni e tutti ì sentimenti di Gesù Cristo, particolarmente l’amore che Egli ebbe per l’annientamento. Abbiate in voi – dice S. Paolo – gli stessi sentimenti che (furono) in Gesù Cristo, il quale annientò se stesso (Philipp. II 4,7). Come figliuoli di Dio, siamo in obbligo di essere umili e di rifuggire da ogni lode, onde lasciare ogni onore a Dio nostro Padre: « Soli Deo honor et gloria —- A Dio solo onore e gloria » (I. Tim. I, 17). – Siamo Sacerdoti? dobbiamo distruggere, sacrificare, annientare in tutti, ma soprattutto in noi medesimi, la superbia e tutti gli istinti della superbia. Come vittime per i peccati del mondo dobbiamo essere animati da un profondo sentimento di grande confusione, sentendoci coperti dei delitti di tutto il mondo, in unione con Gesù Cristo, con cui non siamo che una sola vittima. Come Servi della Chiesa, dobbiamo stare ai piedi di ogni fedele, considerandoli tutti come nostri padroni; quindi dedicarci affettuosamente agli uffici più bassi giudicandoli come ancora superiori al nostro merito e stimandoci onorati di esservi impiegati, mentre siamo indegni di una grazia così pregiata. « Superiores sibi iuricem arbitrantes (Phil. II, 3). Nos servos vestros per Jesum (II Cor. IV, 5).

***

Il secondo motivo è che tutte le virtù richiedono l’umiltà. La Fede, ci obbliga ad essere umili; perché dobbiamo vivere secondo i suoi insegnamenti. Orbene, la fede ci insegna che da noi non siamo che niente e peccato; dobbiamo dunque considerare noi stessi come niente e peccato, e compiacerci che tutti ci stimino e ci trattino come tali. La fede ci svela chi siamo noi e chi è Dio. Dio vale tutto e noi niente. A Dio ogni onore ed ogni gloria, a noi confusione e disprezzo. In tal modo, la fede ci porta all’umiltà ed esige che siamo umili se non vogliamo rinnegare le sue massime, ma inoltre ci vuole grande umiltà per aver la fede. per assoggettare il nostro spirito alle verità ch’essa ci propone, e così annientare la nostra ragione col sottometterla a credere ciò che essa non vede (II Cor. X, 5). Perciò i filosofi e gli eretici, essendo pieni di superbia, hanno posto tanti ostacoli alla fede. L’umile, al contrario, è deferente al giudizio altrui, si sottomette alla verità, né mai si ostina nel proprio sentimento; in una parola l’umile è disposto a credere tutto. La speranza ci porta all’umiltà. Il Cristiano animato dalla vera speranza non si appoggia sopra se stesso, né confida nelle proprie forze, ma unicamente in Dio, e nei meriti del nostro Salvatore. La carità demanda umiltà perché l’anima che ama Dio vuole che a Lui sia diretto ogni onore, mentre dimentica e annienta se stessa. L’amore del prossimo esige umiltà, perché respinge ogni asprezza ed ogni irritazione anche di fronte alla calunnia. Animata dalla carità cristiana, l’anima deve sopportare la debolezza del suo fratello, persino la superbia e l’arroganza altrui che è la molestia la più insopportabile per chi non è veramente umile. Due anime orgogliose che vogliono innalzarsi l’una al di sopra dell’altra, non conserveranno giammai quella virtù che S. Paolo raccomandava con tanta forza con queste parole: « Supportantes invicem in charitare. – Sopportatevi gli uni e gli altri nella carità » (Ephes. IV, 2)… La compassione verso il prossimo esige umiltà, perché ci porta a prendere sopra di noi la riparazione per la superbia degli uomini; dobbiamo quindi abbracciare l’umiltà, perché essi si sono esaltati, e così con le nostre umiliazioni offrire a Dio una soddisfazione per il loro orgoglio e la loro ingiusta e disordinata arroganza. La religione impone l’umiltà, perché essa vuole che tutto si annienti e si sacrifichi per la gloria di Dio, al quale tributa ogni lode e riferisce ogni onore. La prudenza cristiana ci porta all’umiltà, poiché vuole che non abbiamo pretese, se non per quelle cose che possiamo avere o conservare senza contese. La giustizia, esige che si dia a ciascuno ciò che gli spetta, quindi, al nulla l’oblio, al peccato il disprezzo, la stima invece e la gloria al Tutto e alla Santità (Tibi, Domine, justitia, nobis autem confusio faciei – Dan. VII). La fortezza del Cristiano ha per sostegno l’umiltà, perché, conoscendo il proprio nulla e la propria incapacità, egli si rifugia in Dio, affinché la virtù di Gesù Cristo che è la forza dei deboli, venga ad abitare in Lui (II. Cor., XX, 9). – La temperanza trova valido aiuto nell’umiltà, poiché l’umile si astiene dalle cose mondane e sensibili, nella persuasione di esserne indegno. La penitenza esige l’umiltà, perché richiede che il superbo sia umiliato e che la confusione cada sopra colui che ha voluto rubare a Dio l’onore e la gloria. La dolcezza desidera l’umiltà, perché l’anima non sia turbata per nessuna umiliazione che possa incontrare. La pazienza vuole l’umiltà, perché l’anima non perda mai la pace per nessuna contrarietà. – In conclusione, l’umiltà è il condimento di ogni virtù, la virtù fondamentale che deve essere presupposta ad ogni esercizio di cristiana pietà.

III.

Fondamenti dell’umiltà.

1. La verità: nullità della creatura, grandezza di Dio. — 2. La giustizia: a Dio solo è dovuta ogni gloria. – Umiltà nella Madonna; — in Gesù Cristo. – il nulla in qualsiasi creatura, — anche nella persona del Confessore.

L’umiltà poggia sopra due fondamenti: il primo è la verità, il secondo, la giustizia; verità e giustizia, due attributi divini, sui quali deve regolarsi la nostra vita. La verità ci dà la conoscenza di noi medesimi, che è il grande e solido fondamento dell’umiltà; perché qualsiasi sentimento di umiltà che non abbia per fondamento una seria convinzione di ciò che siamo, non è che apparenza ed illusione; e chi credesse di acquistare l’umiltà senza una tale conoscenza, si ingannerebbe e non riuscirebbe a nulla. La ragione sta in questo, che tutto quanto vediamo in noi e tutto quanto facciamo, tutto ci serve di motivo e d’occasione per la propria stima, principalmente quando si tratta di qualche bene, se prima non abbiamo bene stabilito qual è il principio del bene come del male che vediamo in noi. Non già, come abbiamo detto sopra, che questa conoscenza sia l’umiltà; molti, infatti, per quanto siano presuntuosi, sono pure costretti a confessare che non sono nulla e non valgono nulla. I demoni sono costretti ad una tale confessione, ma non hanno neppure un principio di santa umiltà. La conoscenza di se stesso deve solamente venire presupposta come un principio, dal quale si traggono poi le conseguenze onde comportarsi secondo lo spirito dell’umiltà. Orbene, la verità insegna all’uomo a conoscere ciò che è in se stesso, e ad aver di sé la stima che si merita e non di più: così pure la giustizia esige che tratti sé medesimo per quello che è, e non sopporti altro trattamento differente di quello che si merita. – La verità insegna all’uomo che esso non è altro che niente; che da sé non è oggi dappiù da quello che fosse cento anni fa, e che sarebbe ancora se Dio ritirasse da lui quell’essere che ne circonda il nulla, Questo essere è una partecipazione dell’essere medesimo di Dio, è l’essere di Dio reso sensibile in qualche modo nell’uomo. Tutte le creature, infatti, non sono altro, per così dire, che Dio medesimo reso visibile; sono come sacramenti o come visibili involucri dell’essere invisibile di Dio, il quale è nascosto sotto di essi; sono segni di Dio che esprimono in modo svariato ciò che Egli è in se stesso. In una parola, tutto quanto vi è al mondo è come una dilatazione e una espressione di Dio fuori di Lui medesimo, come un effluvio di Dio, il quale esprime esternamente ciò che Dio è in sé medesimo. – Ma d’altra parte la creatura considerata in se stessa e nel suo fondo, fuori dello stato di Dio di cui essa è partecipe, rimane un semplice niente che implica la privazione di ogni essere, come Dio contiene il possesso di tutto l’essere: Dio è un abisso di perfezione, il nulla invece un abisso d’imperfezioni. Quando pure vi si starebbe occupati sino alla fine dei secoli, non si saprebbe esporre in particolare le privazioni e i difetti che si contengono nel niente, né  i disprezzi che gli sono dovuti; parimenti quando pure sino al dì del giudizio vi si impiegassero le creature tutte, non riuscirebbero a numerare tutte le grandezze e le perfezioni di Dio. Il niente merita oblio, disprezzo e noncuranza, come Dio merita ogni ammirazione, ogni adorazione, ogni lode da parte di tutto il mondo (-G. Olier si compiace di porre nel dogma della creazione il fondamento delle virtù: dobbiamo essere umili perché siamo creature, così anche pazienti (pag. 201) ed ubbidienti (pag. 267). Dal fatto della nostra creazione da Dio, risultano due grandi verità che facilmente dimentichiamo e che devono essere il nostro pane quotidiano nella vita spirituale: il nostro nulla e la suprema padronanza di Dio).

***

La giustizia adunque, poiché vuole che si dia a ciascuno ciò che gli appartiene, insegna alla creatura a tributare a se stessa ciò che si merita nel suo fondo e a subire quel trattamento che è dovuto a così grande viltà, come pure a rendere a Dio ciò che gli è dovuto, ossia ogni onore e ogni lode. Se guardo me stesso, nel mio fondo, ossia nel mio nulla, veggo che non merito che confusione e disprezzo; se invece contemplo Dio, sia in sé medesimo come fuori di sé, nella sua essenza come nella sua diffusione nei suoi effetti, in me come fuori di me; trovo che Egli merita ogni lode e ogni onore. A Dio, dice S. Paolo, siano rese benedizioni, lodi, onori e azioni di grazie da ogni creatura, (I Timot ., I, 12; Apoc., VII, 12) per quello che Egli è in sé, e per tutto ciò che Egli ha operato fuori di sé medesimo. Vedo adunque e riconosco che a Dio deve essere reso ogni onore come all’Autore e possessore di ogni perfezione, e al contrario il niente, che in se stesso è privo di tutto, deve essere disprezzato abbandonato, trascurato e dimenticato. – Il niente è così miserabile che non si saprebbe neppure pensare a lui, e se ne diciamo qualche cosa o ne abbiamo qualche idea, è sotto qualche forma presa a prestito e che non gli conviene, tanto è incapace di produrre qualche stima di sé. Se si pensa a lui, non sarà che per deplorare il suo stato, per riconoscere ciò che gli manca e ciò che non ha. Nulla può essere vile e abbietto come il niente, né si saprebbe esprimere tutta la sua abbiezione. E questa è la condizione vera della creatura nella sua sostanza, in ciò che era da sé medesima prima che Dio la rivestisse di se stesso; né cessa di essere tale anche dopo la comunicazione che Dio le fa del suo essere. – Dio merita ogni onore per la sua perfezione, il niente non merita che disprezzo per la sua imperfezione. Benché nascosto sotto l’essere più perfetto, il niente non lascia mai di meritare per se stesso tale trattamento; all’operaio bisogna lasciare l’onore dell’opera sua, come al pittore la gloria del suo quadro. Al pittore è dovuto l’onore e non alla tela che porta il suo dipinto; la tela non merita che disprezzo; se potesse parlare e fosse sensibile al sentimento della giustizia, essa direbbe: « Onorate colui che mi ha scelta per farne il soggetto dell’opera sua, onorate colui che merita di essere onorato, che mi ha tratta dallo stato in cui mi trovavo, per fare su di me tali meraviglie. Guardate il rovescio del quadro e vedrete che non sono adatta che a fare un cencio qualunque; non ero buona a nulla, ora invece sono posta sugli altari e si adora ciò che porto e rappresento; ma questo non è mio, né vi ho parte alcuna; non dimentico la mia primiera condizione, so bene qual sia il mio fondo e non l’ho ancor perduto di vista. Più, l’amore che nutro per il mio padrone e per l’operaio che mi ha scelta ad onta della mia viltà perché fossi l’oggetto della sua opera ed ha operato in me una sì grande meraviglia, mi obbliga ad onorarlo ed a procurargli la gloria che egli si merita e ad avvertire tutti coloro che vedendomi, nella loro illusione si attaccano a me, di rivolgere i loro occhi e i loro omaggi a colui che ha compito quest’opera preziosa ».

***

Così la Madonna, sempre convinta del suo nulla, sempre convinta della sua bassezza, esclamava ad alta voce: « Fecit mihi magna qui potens est. Colui che è potenteha fatto in me grandi cose ». Egli ha sceltoquesta povera sua serva, ha scelto la miapovertà e la mia viltà per imprimervi l’operadel suo amore, della sua sapienza edella sua onnipotenza. Ha compiuto in meil suo capolavoro e la sua meraviglia; hafatto in me il suo ritratto col rendere sensibileil suo Verbo. Ha scelto questo poveropiccolo niente, per imprimere sopra diesso i più perfetti e più splendidi lineamenti della sua grandezza e della sua maestà. Lui medesimo in me fa rendere a sé medesimo, onori ch’io non merito e non mi appartengono. State bene attenti a rendere a Dio la sua gloria e in me adorate la sua opera e le sue meraviglie ».Per questo motivo la santa Chiesa, tanto per la propria edificazione come per quella di tutti i fedeli che ricevono grazie da Dio, si prende cura di far cantare ad alta voce e anche in piedi per obbligarci ad un’attenzione particolare, il bel cantico del Magnificat: così vuole insegnarci ad onorare il Signore come la Madonna lo esaltava in sé stessa e in tutte le opere Di Dio, perché tutto quanto è fuori di Dio, viene da Dio; tutto è derivazione (Al termine emanazione, che suona male per le nostre orecchie moderne, abbiamo sostituito derivazione. Tutte queste espressioni del Servo di Dio, evidentemente, vanno intese nel senso che l’essere naturale delle creature non è che una partecipazione virtuale ed analoga dell’essere di Dio.), effusione e come dilatazione di Dio, il quale diffonde il suo essere in modo visibile sopra la creatura. È questo lo Spirito che copriva le acque, (Gen. I, 2) il mantello che copre ed avvolge il niente; il niente rimane sempre spregevolissimo in se stesso, il mantello che lo copre, merita solo di essere onorato, Dio adunque sia glorificato e il niente sia dimenticato e disprezzato! – Quel sentimento di umiltà che risplendeva così santamente nella Vergine Santissima, per il quale essa voleva che non si facesse nessuna attenzione alla sua persona per quante grazie vi si scorgessero, ma si guardasse unicamente a Dio che ne era l’Autore, era molto più perfetto ancora in Nostro Signore, perché Egli era pieno di verità, plenum veritatis (Joan. I, 14), e voleva adempiere ogni giustizia (Matt. III, 15). Questo sentimento lo portava a correggere colui che lo aveva chiamato buono (Luc. XVIII, 9); Egli, come uomo, rifiutava questo titolo perché, in quanto era uomo, non gli apparteneva. Come uomo, infatti, anche Gesù Cristo era una creatura, e quindi in tale qualità, era niente; ciò che vi era in Gesù, tutto gli veniva da Dio, fonte universale di ogni bene, che l’aveva tratto dal nulla e gli aveva comunicato i suoi tesori. Ma solo ciò che è, merita il titolo di buono; orbene. Dio solo è; tutto il resto non è niente all’infuori di ciò che esso da Dio ha ricevuto: perciò Nostro Signore, come uomo, vedendosi indegno di questo titolo di buono, non poteva sopportare che venisse attribuito ad altri che a Dio. –  Ecco la fonte dell’umiltà nel Figlio di Dio: ecco perché Egli era umile e più umile di tutti eli uomini assieme. Perché meglio di tutti gli uomini, con vivissima luce, conosceva il niente della creatura, Gesù incomparabilmente più di tutti stava dimesso, umiliato e abbassato ai propri occhi e davanti alla maestà del Padre suo di cui tanto perfettamente conosceva la grandezza. Egli vedeva chiaramente che, in quanto creatura, al pari degli altri uomini, da sé medesimo non era niente, e che il Padre suo l’aveva tratto dal nulla onde renderlo depositario di tutti i suoi beni. Per questo, Egli stava continuamente annientato davanti a Lui, nel riconoscimento del proprio nulla, sempre pieno di stupore per tanti favori e di gratitudine per tanti benefizi. Egli stava senza posa inabissato in una lode altissima e in un amore ardentissimo verso Colui che l’aveva tanto amato da tutta l’eternità, preparandogli doni così grandi, senza neppur possibilità di nessun merito da parte sua. – La riconoscenza per una tale bontà lo portò a mettere nelle mani degli uomini il sacrificio dell’azione di grazie, l’adorabile sacrificio dell’altare. Nel medesimo sentimento di gratitudine, Egli scelse pure una Chiesa numerosa, perché con le lodi ed i sacrifizi Egli potesse in essa offrire al Padre suo degni ringraziamenti per il beneficio inconcepibile di averlo tratto dal nulla onde elevarlo alla dignità della filiazione divina. Così faceva Gesù Cristo per un sentimento di verità e di giustizia. Nella verità riconosceva ciò che era Egli stesso come uomo, cioè un niente, e ciò che era suo Padre, cioè tutto l’Essere; nel sentimento della giustizia, profondamente si annientava davanti alla santa Maestà del Padre, e si effondeva in amore e adorazione, in lodi e azioni di grazie.

***

Tali sono i veri fondamenti dell’umiltà, che sono oltremodo stabili e fermi quando Nostro Signore si compiaccia di stabilirli solidamente in un’anima. Ma è da sapersi che per operare secondo tutta l’estensione della luce divina che ci discopre il nostro pulla, è necessario ancora di vedere il nulla in tutte le creature. Noi dobbiamo essere ben convinti che all’infuori di Dio, tutto non è che niente, vanità, ombra, figura, e come un involucro e un sacramento sotto il quale, come abbiamo detto sopra, Dio si nasconde per rendersi sensibile a noi. – Questa proposizione, che all’infuori di Dio tutto è niente, deve essere così universale che nulla ne venga eccettuato, né i più gran Santi, né la Vergine Santissima, e neppure l’adorabilissima Umanità di Gesù Cristo Nostro Signore. Ogni cosa, eccettuato ciò che di Dio vi è in essa, è niente e null’altro: è questa la condizione essenziale ed indispensabile di qualsiasi creatura. In ogni creatura adunque, non bisogna mai considerare che Dio, puramente e semplicemente Dio solo. Come è santo questo modo di operare! Come ci allontana da mille illusioni, nelle quali i più spirituali si lasciano prendere ed impacciare, quando non vi siano ben fissati! Inoltre, come ci porta a Dio e ci riempie li Lui! Se saremo sempre animati da questo sentimento, dappertutto noi troveremo e vedremo Dio; ed è questo uno dei mezzi più semplici e più utili per tenerci sempre alla sua divina presenza. Diversamente, si ha la mente tutta occupata delle creature; e le cose esterne che non dovevano servire che a portar Dio nel nostro cuore, diventano esse stesse il Dio del nostro cuore, l’idolo infame che così viene onorato nel Tempio di Dio.

***

È un difetto questo che s’incontra ordinariamente nella direzione delle anime, quando il confessore, o perché non conosce questo pericolo, o perché non si prende cura di aprire gli cechi a quelle anime che il Signore gli ha affidate perché le conduca a Lui. Così egli lascia che si fermino alla sua persona per il lustro delle apparenze che notano in lui, invece di far loro considerare che per quanti doni possa avere in sé medesimo egli non è niente, e quindi non merita nessun onore perché a Dio solo appartiene ogni gloria. Si deve aver gran cura di fare intendere bene alle anime, che il direttore o confessore in se stesso è un niente, e che lo debbono considerare come un puro niente che, come tale, deve essere dimenticato: ma pure, perché Dio si nasconde in lui per manifestare i suoi ordini e le sue volontà sante, bisogna portargli un gran rispetto, come a chi rappresenta Dio e ne tiene il posto. Dal confessore bisogna andare con purezza d’intenzione e non cercar che Dio in lui, senza pensare alla scorza e al velo con cui Dio si copre. Bisogna, con la fede, andar oltre ciò che attira, ferma e illude i nostri sensi, trascurando e disprezzando ciò che appare agli occhi della carne, e tutto quanto agli occhi ingannati del mondo è grande e degno di considerazione.

***

Siamo dunque fedeli, come Dio lo vuole, a mantenerci nella verità, e guardiamoci dal cadere nel peccato del demonio, il quale, secondo la parola di S. Giovanni: In veritate non stetit. Non è rimasto nella verità (Giov. VIII, 44). Riconosciuta così la verità e, per la luce della fede essendocene ben convinti, osserviamo la giustizia; quindi rendiamo a noi e ad ogni creatura ciò che è dovuto alla creatura; a Dio che è tutto, tributiamo la riverenza, la religione, l’amore e le lodi che le sue grandezze si meritano. Ecco i due fondamenti dell’umiltà in ogni creatura: verità e giustizia; ma queste, in noi, si applicano a molti altri soggetti di umiliazione, perché, come abbiamo visto, siamo in noi medesimi ogni miseria, ogni corruzione, ogni peccato. Ma perché la verità e la giustizia richiedono che, nella nostra qualità di peccatori, non solamente trattiamo noi stessi con disprezzo, ma ancora ci dedichiamo alla penitenza, alla mortificazione e all’odio di noi medesimi, di questi punti parleremo più a lungo quando tratteremo di queste virtù.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI-APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “OPTIME NOSCITIS”

In questa breve lettera Enciclica il Santo Padre Pio IX, esprime i suoi apprezzamenti per la decisione dei prelati irlandesi di istituire una Università cattolica – affidata al futuro Cardinale J. H. Newmann – per la formazione dei giovani e dei religiosi in particolare. Quella della formazione dei giovani sacerdoti era una delle idee fisse di Papa Mastai-Ferretti e a giusta ragione, perché la retta dottrina e la santità della vita, sono di stimolo per la pietà dei fedeli che possono così dirigersi con certezza sulla via della salvezza dell’anima. Ben lo sapevano anche i nemici della Chiesa, che per tentare l’abbattimento della Chiesa del Signore (si fieri potest), si sono infiltrati lentamente nei seminari diocesani e nelle università ed istituti cattolici per corrompere i costumi e la dottrina dei giovani chierici, che poi son diventati Sacerdoti, Vescovi, Cardinali facilmente influenzabili da teologie eterodosse che hanno portato agli abomini del conciliabolo Vaticano e al trionfo della nouvelle theologie, abominio sempre più evidente dell’ultra modernismo pseudo-ecclesiale attualmente in auge nel c. d. Novus Ordo, e della profanazione del codice canonico da parte di sedevacantisti e scismatici finto-tradizionalisti vari, privi di qualsiasi giurisdizione, missione canonica e validità di ordini, rami secchi buoni solo per ardere con i loro disgraziati fedeli e seguaci “pecore matte” di dantesca memoria.

Optime noscitis
Pio IX

Sapete perfettamente, Venerabili Fratelli, da quanta gioia e consolazione fummo còlti non appena venimmo a sapere che voi (seguendo con la massima spontaneità, grazie al vostro eccellente spirito religioso, i desideri e le ammonizioni Nostre e di questa Santa Sede) nel Sinodo di Thurles, che concelebraste nel 1850, fra l’altro avevate deliberato – considerate le disponibilità e messe insieme le forze – di voler fondare costà al più presto un Liceo cattolico, nel quale gli adolescenti di codesta illustre vostra Nazione, a Noi tanto cara, senza patire alcuna discriminazione a causa della nostra santissima Fede, potessero essere foggiati con zelo ad una pietà quotidianamente crescente e a tutte le virtù; potessero essere sapientemente eruditi ed istruiti nella letteratura e nelle scienze più severe. E ricorderete certamente come, nella Nostra Lettera Apostolica sigillata con l’Anello del Pescatore in data 23 marzo 1852, Noi abbiamo approvato sia gli Atti dello stesso Sinodo, sia la costituzione di tale Liceo; come, successivamente, con la Nostra Lettera Enciclica inviatavi il giorno 25 dello stesso mese ed anno Noi ci siamo congratulati sinceramente con Voi per aver adottato questa decisione più che opportuna per l’incremento della Religione e delle scienze, ed abbiamo contemporaneamente tributato le meritate lodi a quei fedeli che già allora avevano contribuito in misura sostanziosa a far sorgere il Liceo cattolico in Irlanda. Poiché avevamo il massimo desiderio che questo Liceo cattolico, ovvero Università, fosse rapidamente realizzato in Irlanda, con la Nostra Lettera Apostolica già ricordata stabilimmo – ad arbitrio Nostro e di questa Santa Sede – di prorogare l’incarico di Delegato Apostolico al Venerabile Fratello Paolo, a quel tempo Arcivescovo di Armagh, affinché dedicasse ogni impegno per eseguire le decisioni del citato Sinodo di Thurles, e soprattutto per portare rapidamente al compimento desiderato la costituzione del Ginnasio cattolico, decisa dal Sinodo e da Noi ratificata. Quando poi il Venerabile Fratello fu da Noi trasferito a reggere e governare la Chiesa Arcivescovile di Dublino, Noi ritenemmo opportuno che egli continuasse a svolgere il medesimo ruolo di Delegato Apostolico, come disponemmo tramite un’altra Nostra Lettera Apostolica, sigillata con l’Anello del Pescatore il 3 maggio dello stesso 1852. Eravamo certi, Venerabili Fratelli, che, iniziando senza alcun indugio un’opera tanto salutare, Voi avreste dedicato tutto il vostro ingegno, la vostra saggezza ed il vostro impegno per realizzare con la massima celerità questo Ginnasio cattolico in Irlanda, grazie al quale siamo convinti che si riverseranno su codesti popoli fedeli, con il favore della grazia divina, i più grandi vantaggi. – Per questo abbiamo saputo con non poco dispiacere che questa Università cattolica, tanto desiderata da Noi e da tutti i buoni, non è ancora stata realizzata, nonostante siano a disposizione tutti i mezzi necessari per fondarla. Perciò vi scriviamo questa lettera, con la quale vi preghiamo insistentemente, Venerabili Fratelli, tralasciato assolutamente ogni indugio, di dedicare, con animo concorde e raddoppiato zelo, tutte le vostre cure ed i vostri pensieri all’istituzione dell’Università cattolica. Affinché sia rapidamente compiuta un’opera tanto pia e salutifera, disponiamo ed ordiniamo che tutti voi, entro tre mesi dacché avrete ricevuto questa lettera, vi riuniate presso il Venerabile Fratello Paolo, Arcivescovo di Dublino, che nominiamo Presidente di tale consesso e Delegato Apostolico; colà riuniti nel Signore e radunati secondo la norma dei sacri canoni, ma senza alcuna solennità, ribaditi fra di voi i pareri e concordate le opinioni, in primo luogo deciderete tutto ciò che può avere attinenza con la sollecita istituzione e l’apertura di questa Università cattolica. In questa riunione sarà altresì vostra preoccupazione episcopale adottare le opportune deliberazioni in modo che questa Università, che viene fregiata del titolo di cattolica, risponda pienamente alla santità ed alla dignità del nome. Perciò vi preoccuperete col massimo zelo che la nostra divina Religione vi sia considerata come anima di ogni formazione letteraria; che siano incrementati e promossi il santo timore di Dio e il culto; che sia custodito integro ed inviolato il deposito della nostra fede; che tutte le discipline progrediscano congiunte in strettissimo vincolo con la Religione; che tutti i tipi di studio siano illuminati dai raggi splendenti della dottrina cattolica; che la forma delle parole di salvezza sia solidamente conservata; che sia considerato ed accolto come cattolico ciò che proviene da questa suprema Cattedra del Beatissimo Pietro. Principe degli Apostoli, sicurissimo porto di tutta la comunione cattolica, nonché madre e maestra di tutte le Chiese: che venga rigettato strenuamente e costantemente tutto ciò che le è contrario, affinché siano respinti ed eliminati tutti gli errori e le novità profane, cosicché i Professori della stessa Università si mostrino costantemente e personalmente quali esempi di buone opere, per dottrina, integrità e fermezza; ritengano loro compito fondamentale formare con ogni cura e diligenza gli animi dei giovani alla pietà, all’onestà e ad ogni virtù, educarli con ottimi principi ed istruirli attentamente nelle lettere e nelle altre discipline, secondo gl’insegnamenti della Chiesa cattolica, che è colonna e sostegno della verità. – Avendo saputo che avete già scelto il diletto Figlio Sacerdote Giovanni Enrico Newmann perché regga e governi codesta Università, approvando l’elezione vogliamo che questo stesso Sacerdote, ricco di eminenti doti d’ingegno e d’animo, ed eccellente per pregevole pietà e dottrina e per la conoscenza della Religione cattolica, assuma la cura e la guida della stessa Università e ad essa presieda in qualità di Rettore. – In verità non dubitiamo, Venerabili Fratelli, che nella stessa riunione, grazie al vostro scrupolo pastorale ed allo zelo sacerdotale, vi preoccuperete anche di adottare all’unanimità tutte le altre decisioni necessarie ad aumentare quotidianamente nelle vostre Diocesi la gloria di Dio e la disciplina e la santità del Clero; a promuovere e favorire la pietà e la devozione dei fedeli. Comprendete infatti perfettamente che è assolutamente necessario, soprattutto in questi tempi così aspri e luttuosi, che i sacri Pastori della Chiesa pongano la massima, instancabile cura, operosità, diligenza e fatica per affrontare con dedizione i compiti del servizio episcopale, così oneroso e tale da intimidire. Perciò non trascurate, in questa riunione, di effettuare quelle scelte che vi permetteranno, adempiendo al vostro ministero, di mantenere assolutamente salva e integra la nostra santissima Fede in codeste regioni; di promuovere la devozione religiosa; di stimolare la giusta educazione e santità del clero; d’istruire i fedeli a voi affidati con i santissimi precetti dell’augusta Religione e di fortificarli con i doni della grazia: di tenerli lontani dai pascoli avvelenati e di spingerli a quelli salutari; di ricondurre con ogni gesto affettuoso e con la dottrina i miseri erranti all’unico ovile di Cristo; di sconfiggere le insidie, gli errori e le frodi degli uomini nemici rendendo vani i loro assalti. – Poiché non ignorate quali frutti di gioia e di abbondanza, con l’aiuto della grazia celeste, producono per i popoli cristiani le sacre Missioni, specie se affidate ad operai idonei, non trascurate dunque di promuovere, secondo i riti, l’unione di ecclesiastici sia del clero secolare sia regolare, mediante i quali possiate avere più facilmente operai premurosi ed attivi, che, brillando per l’ornamento di tutte le virtù ed amministrando rettamente la parola di verità, siano in grado di esercitare diligentemente nelle vostre Diocesi, con lo spirito necessario, il salutare ministero delle sacre Missioni. – Ora non possiamo evitare, Venerabili Fratelli, di inculcarvi nuovamente e con la massima insistenza il suggerimento di dedicare ogni vostro impegno e la vostra autorevolezza per far sì che i decreti del predetto Sinodo di Thurles, da Noi approvati e confermati, siano da tutti osservati con la massima dedizione e venga portato a compimento con il massimo zelo tutto ciò che in quei medesimi decreti è stato sancito. Perché possiate realizzare tutto ciò più agevolmente, Venerabili Fratelli, non tralasciate di promulgare nel modo più solenne i decreti del medesimo Concilio di Thurles; di raccomandare con forza e prescrivere il loro rispetto nei Sinodi sia provinciali sia diocesani, che, come sapete, dovete concelebrare in particolare secondo le saggissime disposizioni del Concilio di Trento. In quella occasione soprattutto, considerando in maniera approfondita le caratteristiche di ciascuna Provincia, quello che le circostanze ed i tempi hanno recato alle Diocesi ed i bisogni, non smettete, Venerabili Fratelli, di dispiegare sapientemente e benevolmente il vostro zelo episcopale, per rafforzare ciò che è indebolito, risanare ciò che è ammalato, ricomporre ciò che è spezzato, ricondurre ciò che s’era allontanato, cercare ciò che è perduto, affinché, secondo la virtù che Dio amministra, in ogni momento Egli stesso sia onorato per Gesù Cristo Nostro Signore (1Pt 4,11). A Voi poi stia sommamente a cuore, in ottemperanza alle Costituzioni Apostoliche, di visitare personalmente, a tempo debito, queste venerande Sedi degli Apostoli Pietro e Paolo e di riferire ed illustrare diligentemente a Noi ed a questa Santa Sede la situazione, lo stato e le attività delle vostre Diocesi, affinché possiate ricevere gli aiuti opportuni per svolgere le mansioni del vostro ufficio con alacrità e zelo sempre maggiori. – Sono assolutamente persuaso, Venerabili Fratelli, che per la vostra egregia devozione e per la vostra singolare, amorevole pietà verso di Noi e verso questa Sede Apostolica, voi darete una completa soddisfazione a questi Nostri desideri, moniti, richieste e disposizioni, che mostrano con la massima chiarezza quanto Noi siamo preoccupati per la salvezza e la prosperità spirituale di codesta vostra Nazione. Nel frattempo, con umiltà e premura preghiamo e supplichiamo Dio, ricco di misericordia, affinché voglia esservi sempre propizio nell’abbondanza della sua grazia divina e benedica le vostre sollecitudini e le vostre fatiche pastorali, grazie alle quali i fedeli a voi affidati camminino ogni giorno più degnamente, piacendo in tutto a Dio e fruttificando in ogni buona opera. Come auspicio di tutto ciò e soprattutto come testimonianza del Nostro affetto nei vostri confronti, tratta dal più profondo del cuore impartiamo amorevolmente la Benedizione Apostolica a voi personalmente, Venerabili Fratelli, a tutti i religiosi di codesta Chiesa ed ai laici devoti.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 20 marzo 1854, anno ottavo del Nostro Pontificato.

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2022)

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Croce in Gerusalemme.

Semidoppio; Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei o rosacei.

In questa settimana la Chiesa, nell’Ufficio divino, legge la storia di Mosè (Le lezioni del 1° Notturno e i responsori della Domenica e della settimana sono presi dal libro dell’Esodo. È un riassunto di quanto si leggeva anticamente). La riassumono due idee. Da una parte Mosè libera il popolo di Dio (2a lezione della Domenica) dalla cattività dell’Egitto e gli fa passare il mar Rosso (Idem 4° e 5° Respons.). Dall’altra egli lo nutre con la manna nel deserto (2° respons. di martedì.); gli annunzia che Dio gli invierà « il Profeta » che è il Messia; gli dà la legge del Sinai (6° e 7° respons. della Domenica) e lo conduce verso la terra promessa ove scorrono latte e miele (2° e 3° respons. di lunedì) . –  Nelle catacombe troviamo rappresentata l’Eucaristia per mezzo di un bicchiere di latte o di miele, intorno al quale volano delle api simbolizzanti le anime). Là un giorno sarà costruita Gerusalemme (Com.) e il suo Tempio, fatto ad immagine del Tabernacolo nel deserto, là le tribù di Israele saliranno per cantare ciò che Dio ha fatto per il suo popolo (Intr., Grad., Com.). « Lascia andare il mio popolo perché mi onori nel deserto », aveva detto Dio, per mezzo di Mosè, a Faraone. La Messa di oggi mostra la realizzazione di queste figure. Il vero Mosè, difatti è Cristo, che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato (id.) e ci ha fatto passare attraverso le acque del Battesimo; che ci nutre della sua Eucaristia, della quale ne è figura la moltiplicazione dei pani (Vang.), e che ci fa entrare nella vera Gerusalemme, cioè nella Chiesa, figura dei Cielo ove noi canteremo per sempre « il cantico di Mosè e dell’Agnello » (Apocalisse), per ringraziare il Signore della sua bontà infinita a nostro riguardo. È dunque naturale che in questo giorno la Stazione si tenga in Roma a Santa Croce in Gerusalemme. Sant’Elena, madre di Costantino, che abitava sul Celio una casa conosciuta coi nome di casa Sessoriana, trasformò questa casa in un santuario per riporvi le insigni reliquie della S. Croce: e questo santuario rappresenta, in qualche modo, Gerusalemme a Roma. Così l’Introito, il Communio e il Tratto parlano di Gerusalemme che S. Paolo paragona nell’Epistola al Monte Sinai. Là il popolo cristiano canterà in mezzo alla gioia « Lætare » (Intr., Epist.) per la vittoria ottenuta da Gesù sulla Croce a Gerusalemme, e sarà evocato il ricordo della Gerusalemme celeste le cui porte ci sono state riaperte da Gesù con la sua morte. Questa è la ragione per cui in altri tempi si benediceva in questa chiesa e in questo giorno una rosa, la regina dei fiori, perché così la ricordano le formule della benedizione; — uso consacrato dall’iconografia cristiana — essendo il cielo rappresentato da un giardino fiorito. Per questa benedizione si usano paramenti rosacei e così tutti i sacerdoti possono oggi celebrare coi paramenti di questo colore. Questo uso da questa Domenica è passato alla 3a di Avvento, che è la Domenica Gaudete « Rallegratevi » e che nel mezzo dell’Avvento, viene ad eccitarci con una santa allegrezza a proseguire coraggiosamente la nostra laboriosa preparazione alla venuta di Gesù (Il diacono si riveste della dalmatica e il suddiacono della tunica, segni di gioia. L’organo fa sentire la sua voce armoniosa e l’altare è ornato di fiori.). A sua volta la Domenica Lætare (Rallegratevi) è una tappa in mezzo all’osservanza quaresimale. « Rallegriamoci, esultiamo di gioia », ci dice l’Introito, perché morti al peccato con Gesù durante la Quaresima, presto risusciteremo con Lui mediante la Confessione e la Comunione pasquale. Per questa ragione il Vangelo parla nello stesso tempo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, simbolo dell’Eucaristia, e del Battesimo, che si riceveva una volta proprio nel tempo di Pasqua, e l’Epistola fa allusione alla nostra liberazione per mezzo del sacramento del Battesimo (altre volte ricevuto dai catecumeni a Pasqua). E se noi abbiamo avuto la sventura di offendere Dio gravemente, la Confessione pasquale, ci darà la liberazione. Così l’Epistola ci ricorda, con l’allegoria di Sara e di Agar, che Gesù Cristo ci ha liberati dalla schiavitù del peccato.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Is LXVI: 10 et 11

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ.

[Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI: 1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ.

[Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Orémus.

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus.

[Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV: 22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”.

“Fratelli: Sta scritto che Àbramo ebbe due figli, uno dalla schiava, e uno dalla libera. Ma quello della schiava nacque secondo la carne, quello della libera, invece, in virtù della promessa. Le quali cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono le due alleanze. L’una del monte Sinai, che genera schiavi, e questa è Agar. Il Sinai, infatti, è un monte dell’Ambia, che corrisponde alla Gerusalemme presente, la quale è schiava coi suoi figli. Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera, ed è la nostra madre. In vero sta scritto: Rallegrati, o sterile, che non partorisci; prorompi in grida di gioia, tu che sei ignara di doglie, poiché i figli della derelitta son più numerosi che quelli di colei che ha marito. Quanto a noi, fratelli, siamo, come Isacco, figli della promessa. E come allora chi era nato secondo la carne, perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. Ma che dice la Scrittura? Scaccia la schiava e il suo figlio, perché il figlio della schiava non sarà erede col figlio della libera. Perciò, noi, o fratelli, non siamo figli della schiava, ma della libera, in virtù di quella libertà con cui Cristo ci ha affrancati”. (Gal. IV, 22-31) .

LA SCHIAVITÙ DELLA LEGGE E LA LIBERTA’ DI GESÙ CRISTO.

Colla Epistola di questa domenica noi tocchiamo, fratelli, un punto fondamentale nella dottrina di San Paolo, non oserei dire famigliarissimo oggi ai nostri Cristiani. La ragione è, in parte nelle mutate condizioni religiose dell’età nostra di fronte a quella che fu davvero l’età di San Paolo. Fervevano allora le dispute fra i Giudei e i Cristiani, quelli attaccati alla loro legge, la legge di Mosè e questi fieri della Religione nuova, la Religione del Vangelo di Cristo. La Legge era la sintesi del giudaismo, di quella che oggi chiamiamo la Sinagoga; essa abbracciava tutto l’insieme, per allora, poderoso di aiuti che per secoli e millenni la religione dei Patriarchi e dei Profeti fornì agli ebrei per portarli a Dio. Per allora, ho detto: perché noi sappiamo che quella economia religiosa era un’economia passeggera, transeunte. Un altro ordine di cose doveva inaugurare Iddio nella pienezza dei tempi. Infatti, quando venne N. S. Gesù, e parlò Lui il Verbo suo nuovo, e operò e patì, allora l’umanità accettò il Vangelo, sentì la povertà (relativa) del precedente regime; come chi riesce ad andare oggi in automobile sente la povertà (relativa) delle vecchie carrozze, anche le più veloci e famose. In Paolo questo sentimento fu acutissimo, quasi spasmodico. Aveva respirata con orgoglio l’atmosfera della legge negli anni del suo bollente nazionalismo religioso; dalla chiusa torre della legge aveva guardato con orgoglio il resto dell’umanità, si era irritato fino alla crudeltà quando degli Israeliti come lui, avevano cominciato a parlare di un’altra cosa che non era più la legge e che la superava e si proponeva di sostituirla. E un bel giorno egli Paolo, fece la esperienza di quella novità che aveva fino allora odiata e bestemmiata. – Amò Gesù, ne accettò il Vangelo, la novella buona: buona e nuova. L’accettò con tutta la sua anima. E fu un senso di liberazione. Non la liberazione da un appoggio, che ti fa cadere più in basso; no; liberazione, invece, da un peso, la vera liberazione che ti fa ascendere più in alto, dal mondo della luce, pura e fredda, la sua anima era passata nel mondo del calore. Il mondo della luce era la legge. Proprio così. La legge, qualunque essa sia, divina od umana, religiosa e civile, ti fa vedere la strada: ecco tutto. Non ti aiuta a percorrerla. In questo la legge somiglia alla filosofia, antica e moderna, anche la filosofia morale ci fa vedere il bene ed il male, ma l’anima ripete col vecchio sapiente: vedo il meglio e l’approvo come tale con la mente, seguo il peggio con la mia volontà. Mancano le forze, l’energia. Gesù ha portato questo al mondo: l’energia che si chiama amore, carità. Il bene non pesa più. Il giogo, senza cessare di essere severo, anzi essendolo diventato anche di più, si è alleggerito. Gesù aveva detto: Il mio giogo è soave, il peso ne è più leggero… in confronto, si intende, del vecchio giogo legale. Lo aveva detto Gesù e lo ripete sotto altra forma e lo corrobora con ragionamenti adatti a quei Farisei con i quali Egli discuteva: sottili, sofistici, disquisitori ai quali Paolo tiene testa bravamente. E noi dobbiamo riprendere questo insegnamento di libertà non per liberarci dalla Legge morale, ma per sentirci liberi dalla legge per liberarci dalla perfidia, non per amare meno la legge Divina, ma per amarla di più, per osservarla più generosamente e più liberamente. È  la libertà vera dei figli di Dio.

Graduale

Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis.

[V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus

Ps. CXXIV: 1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem.

[Quelli che confidano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi abita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum.

[V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VI:1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilææ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.”

 “In quel tempo Gesù se ne andò di là dal mare di Galilea, cioè di Tiberiade; e seguivalo una gran turba, perché vedeva i miracoli fatti da lui a pro dei malati. Salì pertanto Gesù sopra un monte, e ivi si pose a sedere co’ suoi discepoli. Ed era vicina la Pasqua, solennità de’ Giudei. Avendo adunque Gesù alzati gli occhi e veduto come una gran turba veniva da lui, disse a Filippo: dove compreremo pane per cibar questa gente? Lo che Egli diceva per far prova di lui; imperocché egli sapeva quello che era per fare. Risposegli Filippo: Duecento denari di pane non bastano per costoro, a darne un piccolo pezzo per uno. Dissegli uno de’ suoi discepoli, Andrea, fratello di Simone Pietro: Evvi un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che è questo per tanta gente? Ma Gesù disse: Fate che costoro si mettano a sedere. Era quivi molta l’erba. Si misero pertanto a sedere in numero di circa cinquemila. Prese adunque Gesù i pani, e rese lo grazie, li distribuì a coloro che sedevano; e il simile dei pesci, nuche ne vollero. E saziati che furono, disse ai suoi discepoli: Raccogliete gli avanzi, che non vadano a male. Ed essi li raccolsero, ed empirono dodici canestri di frammenti dei cinque pani di orzo, che erano avanzati a coloro che avevano mangiato. Coloro pertanto, veduto il miracolo fatto da Gesù, dissero: Questo è veramente quel profeta che doveva venire al mondo. Ma Gesù, conoscendo che erano per venire a prenderlo per forza per farlo loro re, si fuggì di bel nuovo da sé solo sul monte” (Io. VI, 1-15).

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA PROVVIDENZA E NOI

Filippo e la Provvidenza è l’argomento del brano evangelico che esporremo; la Provvidenza e noi, sarà poi l’argomento della nostra riflessione. Gesù predicava alle turbe e forse non s’accorgeva che il tempo passava e veniva sera. Alcuni degli Apostoli credettero prudenza avvisare il Maestro: « Si fa tardi e siamo in un luogo deserto: licenzia il popolo in tempo che torni per mangiare ». Gli si avvicinò anche Andrea, il fratello di S. Pietro, e gli disse: « Guarda che qui ci sono appena cinque pani d’orzo e due pesci salati. Li ho visti in mano di un monello. Una vera miseria per tanta gente ». Infatti si sarebbero potuto contare più di cinquemila persone. A questo momento Gesù, che sapeva ciò che avrebbe fatto, si rivolse a Filippo, fingendosi in grave imbarazzo. « E adesso come fare? Dove compreremo il pane? ». Filippo, già così facile a preoccuparsi, fu preso da sgomento. Gli parve un caso disperato per parecchi motivi, ma soprattutto per quello dei soldi. Disse: « Anche a spendere duecento danari (circa 160 lire, forse l’intero capitale del collegio apostolico) non avremo neppure quel tanto di pane che basti per darne un morsellino a ciascuno ». Gesù lo conosceva troppo bene per sciupare parole ad ispirargli fiducia nella Provvidenza; con un uomo così concreto e aderente al sensibile, non le teorie, ma i fatti contavano. Ordinò dunque a tutti di sedere sull’erba folta; e, fattosi portare i pani e i pesci del ragazzo, elevò gli occhi al cielo perché ognuno capisse da che parte veniva l’abbondanza. Poi cominciò la distribuzione: cinquemila persone ebbero pane e companatico a sazietà. Anzi Gesù badava a dire: « Raccogliete gli avanzi perché non si deve sprecare niente ». E gli avanzi colmarono dodici ceste. Mentre la folla, in quella dolce sera, gridava il suo riconoscente entusiasmo a Gesù, e lo proclamava Messia e Re, io penso che Filippo sia rimasto là con gli occhi meravigliati davanti alle dodici ceste. Cristiani, badate che il miracolo della moltiplicazione dei pani non fu operato appena per Filippo; ma anche per tutti noi che come lui abbiamo bisogno di credere nella Provvidenza. Orbene, se nell’ora della prova vogliamo che non ci manchi il coraggio di credere nella Provvidenza, dobbiamo abituarci a riconoscerla nei fatti ordinari e quotidiani. Riconoscerla col pensiero fino alla più profonda convinzione; riconoscerla con la pratica fino a conformarvi in ogni momento le nostre azioni. – RICONOSCERE LA PROVVIDENZA COL PENSIERO. Ad Abramo, seduto davanti alla sua tenda, apparvero un giorno tre Angeli e gli annunciarono meravigliose promesse per lui e per sua moglie Sara, da parte di Dio onnipotente. Ma Sara, che donnescamente origliava dietro la porta, ascoltando quei discorsi, rise con un cotal riso tra di stupore e d’incredulità. Possibile che Dio onnipotente e beato si prenda tanto interesse di un vecchio e d’una vecchia? (Gen., XVIII, 1-10). Può darsi che a parecchi Cristiani ascoltando le mie parole sulla Provvidenza di Dio, che ci sostiene in ogni istante, che ci attornia d’amorosissime cure come non farebbe neppure una madre per il suo figliuolo, venga sulle labbra il sorriso stupido e incredulo di Sara. Possibile che Dio si prenda tanta cura di me? In mezzo a miliardi d’uomini, possibile che Dio s’interessi dei miei casi come se a lui irmportassero qualcosa? Sì, Dio si prende minuta e amorosa cura di tutti e di ciascuno. Questa è la più elementare verità. Mi viene in mente la profonda osservazione di S. Agostino a proposito della moltiplicazione dei pani. « Il governo di tutto il mondo è un miracolo più grande che non saziare cinquemila uomini con cinque pani. Ma quel miracolo nessuno l’ammira; questo fa stupire tutti, non perché sia più grande, ma perché è più raro ». (Dal Trattato XXIV su S. Giovanni). E vi par giusto di non sentire nessuna ammirazione e nessuna riconoscenza verso Dio solo per il fatto che invece di farci un dono una volta tanto, ce lo fa ogni giorno, più volte al giorno? Quella forza divina che moltiplicava il pane tra le dita di Gesù non è la stessa forza divina che moltiplica i granelli di frumento nei solchi del campo? Là in un attimo perché il bisogno urgeva, qui in più mesi perché meno urgente è il nostro bisogno. – Osserviamo: come la Provvidenza operi nella natura. Cristiani, pensate voi che sia assolutamente necessario che i semi germinano sempre, che il sole sorga tutti i giorni, che ogni anno venga la primavera? Potrebbe darsi che domani il grano gettato nel solco non spunti più, che il sole non si levi più all’oriente, che la primavera non ritorni più: sarebbe la nostra fine. E se non è ancora capitato, se non capiterà né oggi, né domani, è perché in cielo abbiamo un Padre tenerissimo che sa tutti i nostri bisogni. E ogni autunno Egli dice ai chicchi di grano sparsi nei solchi: « Germinate perché i miei figliuoli l’anno prossimo avranno bisogno di pane. E i chicchi ogni autunno metton fuori la linguetta verde. Ogni giorno Egli dice al sole: « Levati su anche questa mattina, perché i miei figlioli e le loro bestie e le loro case hanno bisogno di luce e di caldo ». E il sole, adagio, adagio, sempre a tempo, sempre ubbidiente, si alza su. E ogni anno Egli dice alla primavera: « Ritorna, che la terra ha riposato abbastanza; ora i miei figliuoli hanno bisogno di giorni più lunghi e più dolci, di vento e di germogli e di fiori, tanti fiori…». E la primavera, sempre a tempo, sempre ubbidiente, ritorna e rinnova ciò che tocca, e getta da per tutto manate e grembiulate di fiori. – Osserviamo ora la misconoscenza degli uomini ingrati. Ma gli uomini, nella loro dotta ignoranza, dicono: « Siamo noi che ci manteniamo sani e che lavoriamo con le nostre forze ». Rispondete allora: « Chi è che muove con tanta regolarità quella pompetta aspirante e premente che è il vostro cuore? Se accelera o se ritarda appena di pochi battiti al minuto, voi cadete ammalati: se si ferma un quarto d’ora, siete un pezzo di carne fredda e inerte. A questo pensiero non vi sentite voglia di ringraziare, di abbracciare con immensa gratitudine quel caro Macchinista che con affettuosa attenzione vigila e regola il motorino del vostro cuore? » – Dicono ancora gli uomini, nella loro cieca superbia: « Siamo noi col nostro cervello che scopriamo le leggi, che inventiamo le macchine! ». Rispondete allora: « Chi ha inventato quella mirabile e insuperabile macchina che siete voi? È vero che sapete guidare il vapore acqueo e l’energia elettrica in complessi ordigni; ma chi ha saputo mettere il cervello nella vostra scatola cranica, e guidare il sangue nell’intrigo delle vene e delle arterie, e disporre i fasci di nervi docili al comando della vostra volontà? ». – Dicono infine gli uomini oltracotanti: « Siamo noi che fecondiamo e che concimiamo anche coi concimi chimici la terra, siamo noi i produttori del grano »; come se loro avessero messo dentro al seme la forza di svilupparsi in spiga; come se loro avessero dato alla terra la fecondità; come se loro con gli argani ogni mattina tirassero su il sole e ogni sera lo calassero giù dalla volta celeste, e coi loro ventilatori facessero «il vento, il nuvolo, il sereno, e ogni tempo ». – RICONOSCERE LA PROVVIDENZA CON LA PRATICA. Voglio ora concretizzare questi pensieri con una parabola. C’era un povero che di suo non aveva nulla di nulla, neppure l’aria che respirava, neppure l’acqua che beveva. Ogni mattina, alla stessa ora, percorreva la stessa strada rasente un muraglione, fino ad una porta enorme, perennemente chiusa. Quivi tirava un anello di ferro che penzolava da una catena di ferro e udiva suonare dentro un campanello, lontano e fioco come nel mistero. Dopo alcuni respiri incominciava a cogliere un passo che s’avvicinava, poi uno scricchiolio: ecco, sull’alto del portone a destra, sollevarsi un’assicella come una palpebra, e sgusciare giù un pacchetto con roba da mangiare, o roba da vestire; o medicine, o frutta, a seconda del tempo e del bisogno. Il povero prendeva e se ne andava: nessuna persona appariva, nessuna parola s’udiva. Così puntualmente ogni mattina, da anni a perdita di memoria, che quasi gli pareva fosse stato sempre così, e dovesse sempre per necessità avvenire così: la stessa manovra, lo stesso effetto immancabile. Un giorno, s’avvicinò a quel povero una persona che gli chiese: « Chi ti mantiene? ». L’altro con tutta naturalezza rispose: « Il mio lavoro. Se non camminassi ogni mattina, se non manovrassi l’anello attaccato alla catena, potrei morire di fame davanti al portone ». – «Il portone… » riprese la persona sconosciuta, e sorrise di tanta ingenuità. « Non sai che dietro a quel portone vive in clausura volontaria la Regina Madre, che prega e lavora giorno e notte per i poveri che vanno a bussare alla sua porta? Sbalordito si guardava addosso, e non sapeva capacitarsi d’essere vissuto non d’altro cibo se non di quello che la Regina Madre ogni giorno gli donava; si toccava i panni, meravigliato che per lui avessero filato, tessuto, cucito le mani della Regina. Allora corse al portone, e appoggiandosi con le mani, col cuore, con la bocca, gridava dentro tutta la sua riconoscenza: «Grazie! Grazie! ». L’uomo sulla terra è quel povero che di suo ha nulla di nulla. Egli vive col suo lavoro applicato alla natura, come quel povero con la sua piccola manovra applicata al portone. Bisogna saper riconoscere dietro la natura e le sue leggi, una amorosa Regina che vive e lavora nascostamente per noi; questa Regina è la Provvidenza; è l’amore paterno di Dio attraverso la terra come dietro una porta fa crescere il grano e la vite per noi, che attraverso il sole e le nuvole come dietro una porta fa discendere la luce e l’acqua. Noi non vediamo mai la mano di Dio, ma vediamo il suo dono che giunge fino a noi; proprio come quel povero davanti al portone non vedeva le mani della Regina ma accoglieva il dono che gli faceva discendere. Di qui derivano alcune importantissime conseguenze pratiche: 1) Una sincera riconoscenza. Si è tanto grati a un amico che nel nostro giorno genetliaco ci regala una scatola di sigari, e perché non saremo grati a Dio che ha regalato noi a noi stessi, cioè ci ha dato e ci conserva la vita? Si era tanto grati alla Befana quando ci metteva nelle calze un giocattolo o un dolce, e perché non saremo grati a Dio che ogni mattina ci fa trovare nelle calze il dono meraviglioso delle nostre gambe? Potrebbe accadere di non alzarci più, e allora le nostre calze inerti e appesantite penzolerebbero dalla sedia. Quand’è così, ciascuno che ha intelligenza e cuore, deve fermamente promettere di pregare mattino e sera alcuni minuti per ringraziare la bontà di Dio Padre che ci dà la vita, e di farsi sempre il segno della croce mezzogiorno e sera prima di mangiare per ringraziare la bontà di Dio Padre che ci moltiplica il pane e il companatico. 2) Una illimitata fiducia nella Provvidenza. Nei momenti difficili fare tutte quello che possiamo (Gesù non volle fare a meno dei cinque pani e dei due pesci); nelle ore dell’abbondanza non sprecare mai (Gesù ha imposto di raccogliere i frammenti); poi serenamente credere che il Signore non ci abbandoni. 3) Soprattutto non bisogna dimenticare mai che la nostra meta è il Regno dei cieli. Con tutte le forze preoccupiamoci di salvare l’anima che Dio avrà cura del nostro corpo. (La turba si preoccupò della parola di Dio più che del cibo). – In un tempo di carestia viveva nel paese di Sarefta una povera vedova con un figliuolo. Oramai non le restava più nulla da vivere, se non un pugno di farina e un ampollino d’olio: un pasto ancora, e poi lo spettro della fame. Mentre faceva legna alle porte della città, passò il profeta Elia, più povero di lei, che le chiese un po’ d’acqua e un po’ di pane. La donna titubò, poi si fece coraggio e, fatto cuocere quel pugno di farina, glielo portò. Ma quando cercò di preparare la cena per sé e per il figliuolo trovò ancora tanta farina e tanto olio quanto ne bastava. E da quel giorno la vedova di Sarefta diede per elemosina da mangiare ad Elia, e da quel giorno fino al termine della carestia non mancò mai un pugno di farina nel sacchetto e un po’ d’olio nell’ampollino (III Re, XVII, 8-16). Mi rivolgo a tutti, o Cristiani; ma specialmente ai poveri perché hanno il cuore più buono. Siate generosi verso i più poveri di voi, siate la Provvidenza del vostro prossimo, e nel nome di Dio vi assicuro che la farina e l’olio non mancheranno mai nella vostra casa.

« Non è senza motivo che Gesù Cristo compia il miracolo davanti agli Apostoli e che di loro appunto si serva per sfamare le turbe. Anche questa volta avrebbe potuto, senza l’aiuto di alcuno, far piovere manna dal cielo; avrebbe potuto sfamare cinquemila persone come un giorno ha sfamato Elia senza costringere i discepoli ad una faticosa distribuzione. Ma Egli voleva insegnare a loro e a tutti i Cristiani dell’avvenire il precetto della carità verso i bisognosi; Egli voleva insegnare a tutti i ricchi che il Signore moltiplica nelle loro mani il pane e il danaro solo perché ne abbiano a distribuire ai poveri » (Masillon). Applichiamo, dunque, alla nostra anima questa riflessione utilissima che possiamo ridurre a due pensieri: nonostante le vane scuse della nostra avarizia a tutti incombe il dovere della elemosina; nonostante le vane pretese del nostro orgoglio questo dovere esige dolcezza ed umiltà. – IL DOVERE DELL’ELEMOSINA, perché siamo obbligati ad aiutare il prossimo? Perché Gesù Cristo, facendosi uomo in una maniera misteriosa si è unito tutta l’umanità, e di tutti gli uomini fatto un solo corpo: il suo Corpo mistico. Per ciò, chi odia o ingiuria o perseguita il prossimo, odia o ingiuria o perseguita lo stesso Cristo. Quando Paolo, pieno di ferocia contro i Cristiani, correva verso Damasco per farne l’esterminio, una forza lo rovesciò da cavallo, ed intese una voce dirgli: « Perché mi perseguiti?» « Ma tu chi sei? » rispose Paolo accecato. « Io sono Gesù che tu perseguiti ». — Notate come Cristo non dice: tu perseguiti i miei discepoli; perché Egli è una cosa sola con i suoi, e chi perseguita il prossimo perseguita Lui. Per ciò è vero anche che aiutando o beneficando il prossimo, si aiuta e benefica Gesù. « Chiunque avrà dato un bicchiere d’acqua chiara anche all’ultimo povero l’avrà data a me!» così è scritto nel Vangelo. Ora accadde che S. Elisabetta d’Ungheria, una sera che il duca suo marito era assente, udì gemere alla sua porta. Accorre, e trova un piccolo lebbroso abbandonato da tutti. Ella pietosamente l’accoglie, lo prende, e lo corica nel letto suo stesso. Più tardi, il duca tornò e seppe tutto. Che spavento! la sua casa contaminata da un morbo schifoso e insanabile, contaminato anche il suo letto! Furiosamente corre nella stanza per scacciare il povero lebbroso. Ma, avvicinandosi al letto, vide la figura di Gesù crocifisso disteso tra le coltri. Nel povero dunque dobbiamo vedere la figura di Gesù sofferente. Eppure, con quante scuse cerchiamo di schivare questo dovere e di nascondere a noi stessi la nostra avarizia? Ricorderò soltanto i due pretesti per non fare elemosina, che mi sembra d’intravvedere anche nell’episodio evangelico. – a) Ho a stento il necessario, e non mi cresce nulla da dare via. E poi ho figli a cui procurare una posizione; ho impegni non leggeri anch’io; ho il decoro della mia famiglia da conservare… Anche Andrea diceva così: « Abbiam qui soltanto cinque pani e due pesci: bastano appena per dare un boccone a ciascuno di noi dodici… Ma Gesù respinge questa grettezza: « Porta qui! — comanda — Io benedirò e voi distribuite a tutti». La maggior parte di noi, Cristiani, so bene che non nuota nella ricchezza, e che ha un margine di superfluo assai ristretto. Ma via, quante elemosine si potrebbero ancora facilmente distribuire senza danno alcuno né della salute nostra né della borsa familiare! Certi divertimenti mondani, certe golosità, certe ricercatezze di vestiti, certi giochi, certa smania di comparire, certi sciocchi ninnoli di casa, potrebbero anche suggerirci la maniera per trovare danaro d’offrire alle opere buone e ai poveri. Del resto, se per adempiere il dovere dell’elemosina dovessimo anche imporre qualche volta anche una pesante rinuncia, ricordiamoci che chi non sa far sacrifici non ama; e chi non ama non è Cristiano. – b) Sono tempi di miseria: la disoccupazione è molta, la stagione è cattiva. Ecco la seconda scusa. Doveva essere pur quella di alcuni tra i discepoli. « Siamo in un deserto, in montagna, e non è cosa facile trovare cibo, se diamo agli altri anche questo po’ di roba, dove ne troveremo per noi? ». Ma Gesù rispose: « Appunto perché siamo in luogo solitario dove non riuscirà a nessuno di trovare vivande, a me non basta l’animo di rimandarli digiuni: distribuite dunque i cinque pani e i due pesci ». Anch’io, Cristiani, riconosco la giustezza delle vostre osservazioni, però vi faccio riflettere così: se la penuria del tempo, se la scarsità della stagione, se la difficoltà dei commerci si fa sentire sulla nostra borsa e sulla nostra vita, che cosa sarà allora per tanti infelici che non possiedono proprio nulla, e forse sono malati? che cosa sarà di tante opere buone che vivono unicamente di carità? se la penuria del tempo, se la scarsità della stagione, se la difficoltà dei commerci è tale da proibirci ogni elemosina, perché non proibisce a tanta gente i balli, i teatri mondani, le ubriachezze, le mode lussuose? e poi questi anni di scarsità non sono forse un castigo di Dio, perché in anni di abbondanza non siamo stati generosi con Lui, come avremmo potuto e dovuto? E se fosse così, quale mezzo migliore di placare l’ira di Dio che aiutare i poveri, e le opere buone? MANIERA DI COMPIERLO. La più cristiana maniera dell’elemosina è di farla con modestia e dolcezza. a) Dicono che ci sia un fiore di misterioso profumo. I pellegrini che passano lungo le prode dov’egli sboccia, subitamente si fermano a deliziarsi in quell’olezzo: e poi si danno bramosamente a cercarlo smuovendo le erbe e i rovi. Ma appena occhio umano riesce a scovare la corolla fatata, subito il fiore si reclina sullo stelo, avvizzisce, e muore. Questo, o Cristiani, è il fiore della beneficenza. Esso sboccia soltanto nella modestia: quando invece si suona la tromba, quando si gridano nomi, quando si stampa sul giornale, la carità cristiana avvizzisce e muore. Quante elemosine perdute per l’eternità! L’orgoglio le ha distrutte. Molti illudendosi di accumulare frutti per il cielo, a cagione dell’orgoglio non fanno che ammassare foglie secche. « Non sappia la sinistra quello che fa la destra » ha detto Gesù; quel Gesù che a sfamare cinquemila persone col pane del miracolo non si è posto sulla piazza di Gerusalemme o sulla riva del lago dove ferveva il traffico, ma si è nascosto sui greppi di una montagna solitaria. – b) Oltre che in modestia, il dovere dell’elemosina vuol essere compito in dolcezza. Troppo spesso si accompagna l’offerta con parole di malcontento, di mormorazione, di imprecazione: « Insomma, tutti i momenti ce n’è una: ora le Missioni, ora il Seminario, ora l’Università cattolica, ora la Chiesa… È un’esagerazione, è un succhiarci il sangue! ». Troppo spesso, mentre si porge al povero la nostra moneta, gli si mostra una faccia così scura da intimorirlo; gli si rimprovera magari la forza, la pigrizia, l’ipocrisia, il vagabondaggio: «Va, che sei un lazzarone! Sei grande e grosso! ti piace la vita libera! hai nascosto il libretto di banca! Mangiatore a tradimento! ». Non è così, Cristiani, la maniera di soccorrere il prossimo; e la carità che gli facciamo non dà diritto d’insultarlo. – Giulio Salvadori; professore dell’Università cattolica di Milano, morto nel 1928 in concetto di santità, incontrò una volta un povero che gli chiese l’elemosina. Il mite professore si mise tosto le mani in tasca, ma il borsellino l’aveva dimenticato a casa. Si fece tutto rosso, e con voce umiliata e con l’occhio velato di pianto disse: « Mi scusi. sono senza portamonete ». Il povero guardò quella figura esile e luminosa che gli chiedeva perdono, e in cuor suo, forse, provò più consolazione per quella bontà che non per l’offerta che avrebbe potuto ricevere. Ci sono poi di quelli che prima di fare l’elemosina, usano mille circospezioni, fanno indagini, e non si dedicano mai ad aprire la mano per timore di beneficare qualcuno che non se lo merita. Non io sconsiglierò la prudenza, però è meglio sbagliare in larghezza che avere il rimorso di aver fatto soffrire un povero, scacciandolo senza aiuto alcuno. – Ho letto in certi libri che il momento più terribile del giudizio finale sarà la comparsa dei poveri in giro al Cristo maestro. « Eravamo nudi — grideranno contro di noi — e non ci ha vestiti. Eravamo affamati e ci ha lasciato morire di fame. Eravamo ammalati e ci ha lasciati su d’una strada. Eravamo ignoranti e non ci ha istruiti. Noi eravamo senza Vangelo e senza Battesimo — diranno i poveri infedeli — egli non ha fatto nulla per i missionari… ». È vero, Cristiani, questo sarà il momento più terribile; ma sarà anche il momento più beato per quelli che avranno avuto viscere di misericordia. Un giorno si presentò un povero a Santa Caterina da Siena e le chiese l’elemosina per l’amor di Dio. La santa che si trovava nella Chiesa dei Frati Predicatori non aveva nulla con sé, perciò disse al mendicante: « Vieni a casa mia e ti darò in abbondanza ». Ma quello insistette: « Se avete qualche cosa, datemela subito, qui, che io non posso aspettare ». Caterina si frugò indosso ansiosamente, trovò una crocetta d’argento e con gioia la consegnò al povero che s’allontanò soddisfatto. La notte seguente Nostro Signore apparve alla santa: teneva in mano la piccola croce, ornata di gemme preziose. « Conosci tu questa crocetta? ». « Certamente, — rispose Caterina, — ma non era così bella ». «Tu me la donasti ieri: la virtù della carità la rese splendida così. Io ti prometto che nel giorno del giudizio, in cospetto dell’assembramento completo degli Angeli e degli uomini, io mostrerò questa crocetta perché la tua gioia sia infinita ». O Cristiani, quando Gesù maestoso apparirà a giudicare ciascuno di noi, non terrà proprio niente nelle sue mani?…

Questa folla assetata di verità che segue Gesù per aspro cammino fin nel deserto, dimenticando la povera natura con le sue necessità, ci insegna quale conto dobbiamo noi fare dei beni terreni. Quæ sursum sunt quærite! La nostra dimora non è questa, ma è lassù in Paradiso, cerchiamo dunque i beni non di terra, ma del Paradiso. – Ma intanto noi siamo in esilio, a contendere con le dure esigenze della vita materiale, perciò non possiamo totalmente prescindere dalle cose terrene: poiché alcuni beni sono necessari alla nostra vita; altri, quantunque superflui, possono allietarci l’esistenza e li possiamo veder raffigurati in tutto quel pane che è sopravanzato alla fame della folla; in fine ci sono ancora quaggiù dei beni che ci elevano sopra gli altri uomini dandoci una maggior gloria e potenza. Deduciamo dal santo Vangelo di questa domenica in qual modo dovremo noi diportarci con questi diversi beni terreni e fugaci, se non vogliamo perdere l’unico bene celeste ed eterno. I BENI NECESSARI ALLA VITA TERRENA. Gesù un giorno, in mezzo ai suoi dodici, disse stupendamente così: « Non crucciatevi per il vitto, e come vi procurerete da mangiare; non crucciatevi per le vesti e di come vi procurerete da vestire. La cosa più importante è l’anima: tutto il resto passa e finisce. Guardate i corvi che non seminano, non coltivano, non mietono, non hanno granai: eppure non muoiono di fame. Guardate i gigli che non hanno niente, non sanno neppur filare: ebbene, non sono nudi, ma hanno un vestito che non ebbe l’eguale neanche Salomone nei giorni della sua gloria. Ma se il Signore ha tanta premura per i corvi e per i gigli, quanta non ne avrà per voi, creati per amarlo in tutta l’eternità!… ». Queste parole infondono nell’anima di ciascuno una quieta fiducia nella divina Provvidenza che dal Cielo ci sorveglia e conosce ogni nostro bisogno. Quærite primus regnum Dei. La nostra premura principale deve essere per ciò che è più importante: la vita eterna. Il resto ci sarà aggiunto, se però non è di impedimento.  E così hanno fatto le turbe: hanno cercato per primo il bene della loro anima senza preoccuparsi del corpo e delle sue necessità, e nel deserto non sono morti né di fame, né di sete. Facite homines discumbere… et distribuit discumbentibus quanmem volebant…. impleti sunt. Quando il popolo di Israele, emigrante dall’Egitto, si trovò affamato nella solitudine del deserto, la Provvidenza di Dio fece piovere per loro la manna. Ci furono degli ingordi che per la gretta paura di non averne abbastanza, ne raccolsero per più giorni. Ma al giorno dopo, protendendo la loro avida mano ai vasi colmi, trovarono che la celeste manna s’era tramutata in vermi schifosi. Cristiani: quegli uomini. che dimenticano gli interessi dell’anima per il cibo materiale e le cose, siano pur necessarie, della vita corporale, dopo la giornata di questa vita, troveranno il frutto dei loro sudori tramutato in vermi. – I BENI SUPERFLUI ALLA VITA TERRENA. Sulla terra non ci sono appena uomini che hanno da sudare per vivere giorno per giorno; ma ci sono anche quelli che vivono in una discreta agiatezza ed alla cui mensa c’è sempre qualche cosa che sopravanza. Ebbene, è per essi la lezione che il divin Maestro c’insegna oggi dal deserto: « Colligite fragmenta, quæ superaverunt, ne pereant ». Nel castello dei signori d’Aquino c’era qualche cosa di più del semplice necessario. Ed era un immenso piacere per il giovanetto Tommaso quando poteva raccogliere un poco di quel superfluo per distribuirlo ai poverelli di Cristo. Il padre suo che vedeva ogni giorno scomparire dalle dispense non poche vivande, rimproverò acerbamente il figliuolo e gli proibì di distribuire ai poveri qualsiasi altra cosa senza il suo permesso. Il giovane però, che non ragionava più con la prudenza degli uomini, ma con la prudenza di Dio, continuò ancora a sfamare i poveri ed a colmare la loro indigenza coll’abbondanza della casa paterna. Ma una volta fu sorpreso dal padre con un grosso fardello sotto il braccio. « Voglio vedere che cosa tieni! » gridò il genitore accigliato, precludendogli la via. Il figliuolo impallidì, quasi tremando. Ma il padre non si piegò: « Voglio vedere!… ». Il piccolo Tommaso guardò il padre con occhi pieni di lagrime, poi aprì il mantello e … lasciò cadere. E apparve, sotto gli occhi attoniti del padre e del figlio, un gran fascio di freschissime rose. Tutto quello che noi diamo ai poveri non è perduto, ma è raccolto: « manus pauperis est gazophilacium Christi », ha detto S. Giovanni Crisostomo. Tutto quello che noi diamo ai poveri per amor di Cristo, si tramuterà in fiori per la nostra immarcescibile corona del Paradiso. Invece quello che si consuma in esagerati divertimenti, in teatri, nei caffè, nei giuochi, nelle intemperanze, questo non è raccolto e perisce. Colligite fragmenta quæ superaverunt, ne pereant. Quello che si consuma nel seguire le mode pazze e costose, in vesti di seta, in pellicce finissime, in collane, gingilli, questo certo non è raccolto, ma perisce. E talvolta con queste mode sciocche, e forse indecenti, si ha il coraggio di presentarsi al tempio di Dio, dove ci sono i poveri che cercano piangendo quello che Dio dà ai corvi e ai gigli: un pane quotidiano e una veste. IL BENE DELL’ONORE MONDANO. Avendo Gesù conosciuto che il popolo sarebbe accorso per farlo re — ut facerent eum regem — fuggì segretamente sui monti. Questo esempio si ripercosse nella vita di tutti i santi: leggendo la vita di questi eroi, traspare da ogni loro azione quanto abborrissero da ogni onore, dopo che il loro Maestro aveva preferito fuggire sui monti, piuttosto che lasciarsi proclamare re da quella folla che aveva mangiato il suo pane. E deve essere stato commovente nel palazzo del marchese Gonzaga assistere ad una strana festa. Erano stati invitati tutti i parenti e l’aristocrazia delle corti amiche. Che cosa poteva arridere di più alla mente sognatrice di un giovane che la lusinga dello splendore, della potenza, della corona? Ed ecco: invece, in mezzo a quegli illustri personaggi, apparire il primogenito del Marchese Ferrante Gonzaga, che, senza rimpiangere, solennemente respinse da sé lo splendore, la potenza e la corona marchionale. Getta via i suoi abiti preziosi per indossare una tunica nera, e nascondersi nel convento e confondersi coi poveri e coi sofferenti fino a curarne le piaghe infettive. E quando la peste contratta nell’assistere gli ammalati lo condurrà a morte, egli sorridendo chiuderà gli occhi per vedere quale splendore, quale potenza, quale splendida ed eterna corona gli portano gli Angeli, in compenso ai mondani onori che egli ha respinto per imitare Gesù Cristo. Ma perché Gesù è fuggito quando volevano farlo re? perché gli onori del mondo sono falsi e in sé e da parte di chi li offre. Bugiardi in sé. — 1) Perché c’ingannano: ci fanno credere che siamo più degli altri, e forse ne siamo peggiori, « dicis: quod dives sum locupletatus et nullius egeo: et nescis quia tu es miser et miserabilis et pauper et cœcus et nudus » 2) Perché sono fugaci: e lo dimostra il profeta Ezechiele con una similitudine: « Assur si è innalzato come un altissimo cedro. Il cielo l’ha dissetato con la sua rugiada, la terra l’ha nutrito con la sua sostanza. Ed egli si rizzò nella sua superbia: bello nella sua verdura e foltissimo di rami. Gli uccelli volavano a porre il nido sotto le sue braccia, e i popoli sotto ai suoi rami cercavano ombra ». Ma la fortuna è troppo breve: il Signore lo colpisce dalla radice e cade a terra. – Bugiardi da parte di chi ci onora. — Le turbe volevano proclamare Gesù re, non per un affetto puro; ma per egoismo, per il proprio pane. Gesù sapeva moltiplicare il pane, e quelli nella speranza che a’ suoi sudditi non l’avrebbe mai lasciato mancare, lo vogliono per loro re. Amen, amen dico vobis: quæritis me non quia vidistis signa, sed quia manducastis ex panibus. E quando spiegò che Egli portava al mondo il pane delle anime, l’Eucaristia, tutti lo abbandonarono e più nessuno lo gridò re. – La regina Isabella di Spagna aveva ricchezze, regni, onori, bellezza e tutto quanto nel mondo si può desiderare. Tre giorni dopo la sua morte fu vista da un suo ammiratore: senza ricchezze, senza regni, senza onori, schifosa. Ecco dove vanno a finire tutti i beni temporali e gli onori. Non illudiamoci. Operamini non panem qui perit; sed qui permanet in vitam æternam (Giov.,VI, 27). Procuratevi non già il pane per riempirvi; ma un cibo che nutrisce per la vita eterna.

IL CREDO

 Offertorium

Orémus Ps CXXXIV: 3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra.

[Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

COMUNIONE SPIRITUALE

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

Communio

Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine.

[Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

Orémus. Da nobis, quæsumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus.

[Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (197)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXXII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

VIII. — Il Giudizio finale.

D. La trasformazione di tutte le cose è anteriore o posteriore all’ultimo giudizio?

R. Quello è un solo grande cataclisma, a un tempo materiale e morale; noi non abbiamo da notarvi dei punti. Tuttavia, sotto certi aspetti, la logica delle cose pone il giudizio a capo, poiché l’ordine supremo è una sanzione; sotto altri aspetti, il cataclisma materiale precede, poiché la risurrezione dei morti e il loro collocamento in un nuovo essere ne è una parte.

D. L’aspetto morale del cataclisma ha per te il carattere d’una seconda venuta di Cristo?

R. Lui stesso l’ha presentato così. Dopo « la sua venuta di mansuetudine » (Pascal), Egli ha annunziato la sua venuta come giudice. La prima era stata umile e nascosta; la seconda dev’essere fulgida e gloriosa, perché è la consumazione dell’opera e la piena evidenza de’ suoi frutti.

D. Hai segnalato l’errore dei primi cristiani che credevano prossimo il giudizio: non vi contribuì in qualche modo Gesù?

R. Su questo punto Gesù si rifiutò a ogni precisione. Egli giunse fino ad assicurare che anche il Figliuolo dell’Uomo — come Figliuolo dell’Uomo — non sapeva « né il tempo né l’ora », e cioè che questo non faceva parte del suo messaggio. Egli si attiene a questo consiglio impellente: Vegliate! il Figliuolo dell’Uomo viene come un ladro. Ciò si verifica eminentemente per ciascuno, perché la morte è segreta, e ogni giudizio particolare è una parte del giudizio generale. Ma ciò si verifica altresì, nel suo piano, per tutta quanta l’umanità, e non vi è ragione di precisare di più, perché questo non ha conseguenza morale, e per noi vale assai meglio l’incertezza. Appunto per questo, nel suo Discorso della fine, Gesù prende per simbolo e sostegno de’ suoi annunzi sopra la fine dei tempi la rovina prossima di Gerusalemme, indicando soltanto che al di là, le prospettive si prolungano, senza che nessuna cronologia precisi la forma o l’estensione di tale prolungamento.

D. Qual è la ragione d’essere d’un giudizio collettivo, dopo il giudizio particolare?

R. La dottrina è sempre la stessa. La nostra Religione non è individualista, ma sociale; è una comunione. Dal momento che l’opera di Cristo è una vita comune, comune dev’essere lo sforzo e comune la mèta. Si vive gli uni accanto agli altri e sovente lontani gli uni dagli altri, ma uniti dallo Spirito di Cristo. Si parte gli uni dopo gli altri, ma per ricongiungersi attorno a Cristo, e in modo visibile, perché la società è cosa visibile, e all’ultimo termine di ogni vita, perché solo allora saranno prodotte alla luce le conseguenze totali delle opere umane.

D. Nel giudizio di ciascun’anima, le conseguenze de’ suoì atti non sono già state pesate?

R. Dio ha tenuto conto, nel nome della sua prescienza, di tutte quelle conseguenze che le nostre opere porterebbero dopo di noi; ma ciò dev’essere alla fine pubblicamente stabilito.

D. Che necessità di fare questa manifestazione formidabile, specialmente se deve estendersi a tutto il contenuto dei cuori?

R. ll contenuto dei cuori è tutto l’ordine morale, del quale i fatti esterni non sono che la testimonianza. Se l’ordine morale deve rifulgere un giorno, bisogna che si compia la profezia di Cristo: Nulla vi è di nascosto che non sia palesato, nulla di segreto che non debba finire con essere conosciuto.

D. Riguarda forse gli altri quello che ho pensato o voluto io nel segreto della coscienza?

R. Tutto quel che siamo noi riguarda tutti, poiché noi siamo in società spirituale. Come abbiamo detto a proposito del sacramento della penitenza, nulla di ciò che fa ciascuno, nulla di ciò che egli pensa, nulla di ciò che desidera o progetta è estraneo alla Chiesa universale né senza effetto sopra il suo funzionamento. La solidarietà fra noi è stretta fino all’unità, poiché in Gesù Cristo e nel suo Spirito noi siamo una sola cosa. – Chiamati insieme, retti da un unico potere, ma in stato di reagire immensamente gli uni sopra gli altri, sia consciamente, sia senza saperlo e senza volerlo, ma con la certezza precedente e imprescrittibile che ciò avviene, noi abbiamo un diritto scambievole alla verità, sotto lo sguardo del grande Giudice. Ragioni di sapienza mantengono dei segreti nel corso dei tempi; ma il tempo, alla fine, deve versare il suo tesoro agli occhi dell’universale assemblea. Quello che è stato fatto nella notte dev’essere esaminato nel giorno.

D. Tu dài a ciascun essere un universo per testimonio?

R. È il diritto di questo universo, che è un universo morale. È il diritto altresì di ciascun essere, e, se egli è stato buono, la sua suprema gloria.

D. Ma se non è stato buono?

R. In vece di una gloria, è una giustizia che si farà alla luce, quando tanti fariseismi felici avranno la loro sanzione di vergogna, « e quando apparirà in una età assoluta l’eterna laidezza delle temporali lebbre » (C. Péguy).

D. Viceversa, tu fai di ciascun essere il testimonio di tutto l’universo e di tutte le età?

R. Sì, « quando tutto si rischiarerà delle fiamme della memoria, quando ogni uomo sarà come un grande spettatore» (Péguy).

D. Ma i buoni che tu vuoi così glorificare, non avranno da arrossire di molte cose?

R. La loro vergogna sarà coperta dalla divina misericordia, della quale avranno più gioia che affanno del male. Il rossore d’una fronte non apparisce più quando vi brilla il sangue di Cristo.

D. Come comprendi tu questa manifestazione universale di tutti a tutti? Come è possibile?

R. S. Tommaso ci vede un fatto soggettivo, una « illuminazione interna », come nel giudizio particolare, ma questa volta collettiva. Dio che sa tutto, apre la sua scienza agli spiriti.

D. Che cosa ne viene a questo Dio?

R. La manifestazione dell’opera sua, e la giustificazione della sua condotta in tutto l’universo.

D. Qui non si tratta che dell’ordine morale.

R. L’ordine morale dipende dall’altro. O piuttosto non ve ne sono due; ma è la Realtà, che è morale, perché Dio è l’organizzatore, il legislatore supremo e il fine. Nel Giudizio, ciò brillerà, a confusione dei nostri dubbi, delle nostre sconoscenze cieche, dei nostri rimproveri colpevoli e insensati alla Provvidenza, delle nostre bestemmie.

D. Anche l’inferno sarà giustificato?

R. L’inferno fornirà le sue ragioni; i dannati, digrignando i denti, sottoscriveranno all’Amen apocalittico; la giustizia farà vedere il suo posto nell’ordine, e il velo di bellezza si estenderà.

D. E il purgatorio?

R. Esso non sarà più. Il definitivo annulla il provvisorio. Non si attende né si sospira, quando tutto è concluso.

D. Dunque due gruppi solamente?

R. I due gruppi evangelici: le pecorelle e i capri, la destra e la sinistra, che segnano la doppia fine d’una esistenza sublime e tragica, « quando si avanzeranno verso un’ultima morte, e  verso il primo giorno d’una beatitudine » (C. Péguy).

D. Formidabile visione!

R. Formidabile per chi lo vuole, esaltante per chi si dà al compito umano; ad ogni modo, grandiosa, e tale che il senso estetico più potente non avrebbe potuto concepire, ma che la coscienza morale più esigente ha il dovere di approvare.

D. E dopo questo?

R. Dopo questo, comincia il regno definitivo. Il regno è la consumazione di tutta l’opera, e perciò è lì quello che si può vedere finalmente, benché non unicamente, né certo principalmente, in questa invocazione del Pater: Venga il tuo regno!

D. È questo dunque îl fine che Gesù ebbe di mira?

E. Lo ebbe di mira ad ogni modo nella sua profezia solenne, all’uscire dal tempio, salendo lentamente il Monte degli Ulivi. E quale audacia, in quella predizione del « piccolo Giudeo » di Renan, se noi dovessimo veramente ridurre Gesù a questa statura! Eccolo che incatena la sorte della sua dottrina, quella della sua opera, quella della sua persona al ciclo intero dell’umanità sopra la terra e al suo eterno incoronamento! Una tale affermazione è grave! Essa implica la trascendenza assoluta della religione nata da Cristo e il suo spiegamento preminente nella storia, il carattere affatto eccezionale del Fondatore e la sua dominazione sopra il tempo. Ora la prova di queste pretensioni è stata cominciata; essa prosegue ogni giorno; non è ancora compiuta e l’avvenimento terminale è senza dubbio lontano; ma manifestamente la via è presa, la posizione è segnata e sfolgoreggiante. Si può attendere l’avvenire.

EPILOGO

Consigli all’ineredulo.

Non pensare, caro incredulo, che io voglia prendere sopra di te la minima autorità personale. Chiunque tu sia, in qualsiasi stato ti trovi, io mi sento semplicemente tuo fratello, e se ho qualche vantaggio come primo arrivato, non è che un motivo per me di venirti in soccorso. Io sono nel porto di pace; tu vi tendi ancora. Forse non vi tendevi, e forse ciò che precede, per industria della Verità vivente, ti ha indotto un po’ ad orientarviti. In questo caso la mia audacia fraterna non ti urterà più; io posso tenderti la mano e dirti affettuosamente, con un profondo rispetto della tua libertà della quale Dio solo è padrone: Ecco quello che io credo che tu possa oramai tentare. – Dopo ciò che abbiamo detto del punto di partenza della Religione, tu devi comprendere che la prima cosa è di metterti di fronte a te stesso, alla tua condizione in questo mondo, al tuo stato di coscienza rispetto al bene che conosci, e a’ tuoi doveri verso Colui che non conosci, forse per negligenza, o per un segreto timore. – Qui, io oso farti una domanda stringente. Non sei battezzato? Non hai fatto la prima comunione? Non hai praticato, liberamente, la Religione de’ tuoi padri? E credi tu che ciò non abbia alcun peso, per dirigere o per giudicare la tua condotta religiosa ulteriore? — Qui vi era dell’incoscienza, mi dirai. Mi hanno battezzato senza di me; mi hanno poi suggerito la fede e la pratica. Più tardi, venne la riflessione. — Sia pure. Io ti ho concesso che ciò è possibile, benché le persone di esperienza sorridano, a volte, di ciò che la pubertà o l’età delle ambizioni giovanili chiama sue « riflessioni ». Ma io domando a te, nel segreto, non aspettando altra risposta che quella che raccoglierà liberamente la tua propria coscienza: Sei tu sicuro che il problema risolto in quel momento contro Dio, tal quale ti era fino allora apparso, sia stato legittimamente risolto, voglio dire con tutta la serietà che esigeva la questione, con tutta l’indipendenza che ci voleva riguardo a quei sentimenti segreti che ci invitano a respingere i costringimenti? Se sì, io ti comprendo. Ogni Cattolico dirà senza dubbio che tu ti sei ingannato; ma poiché, per ipotesi, il tuo errore non è rimproverevole, ti devono prendere come sei, e tu sei in diritto di domandare alla Religione i suoi titoli. Mi sono collocato in questa ipotesi scrivendo le pagine che precedono; io l’ammetterò ancora in ciò che segue. Solo così per modo di dire io mi permetto di fare appello alla tua lealtà e di additarti le conseguenze di una dichiarazione possibile. Se fosse vero che questo problema di abbandono religioso non fosse stato saggiamente risolto, che neppure fosse stato proposto, che tu avessi fatto come tanti altri, dei quali il capriccio, la passione, le ambizioni, i comodi, o un ambiente anonimo formano tutta la convinzione, tu avresti il dovere di ritornare a questo esame, di riprendere la questione dove l’hai lasciata, e di chiedere a te stesso non se la Religione ha dei titoli alla tua adesione, ma se tu, battezzato, comunicato, praticante di ieri, hai anche dei motivi sufficienti per disertarla. Non bisogna rovesciare le parti. Qui interviene il principio di possesso. La tua eredità, la tua educazione, i tuoi impegni giovanili, la tua pratica anteriore non sono tutto; ma sono qualche cosa, sono anzi molto, e se tu li rigetti, se tu ti « converti» a rovescio e decidi di cambiare rotta, devi dire il perché. Dov’è questo perché!?… Se esso esiste, se è serio, se, lealmente parlando, è di necessità assoluta per la tua coscienza, io ne prendo atto e ripigliamo la conversazione di questo libro. Se esso fosse vago o inesistente, io ti direi: Il tuo dovere — un dovere stretto — è di rimetterti nella condizione in cui eri alla vigilia di questo mancamento, cioè di rientrare nel retto sentiero e di riprendere la tua vita cristiana, salvo a fare ora quello che avresti dovuto fare allora, per rischiarare i tuoi dubbi. Quando si è fuori, non c’è bisogno di ragioni per entrare. Quando si è dentro, si ha bisogno di ragioni per uscire. E quando uno è uscito senza ragione, deve rientrare, in attesa delle ragioni per riuscire, se ce ne sono. – La situazione allora sarà forse un po’ difficile; ma con un po’ di buon volere, si esce d’impaccio. Poiché nel cattolicismo tu sei in casa tua, frequenta la tua Religione, imparala di nuovo, unisciti a’ suoi riti nella proporzione che permettono le tue disposizioni attuali, parla a Dio tutti i giorni, non fosse che per dirgli che tu non sei sicuro di credere in Lui e « ch’Egli ti annoia » (PAOLO CLAUDEL). Sorveglia la tua vita morale; all’uopo purificala, e fa’ il bene, affinché in te il bene si traduca in luce. Che se inoltre tu avessi anime a carico, come sposo, padre, capo, educatore, io ti direi con una insistenza fraterna assai più calorosa: Dammi retta, pensa al peso di responsabilità che porti; rifletti alle care anime, alle anime fiduciose sulle quali tu influisci con la tua noncuranza, a quelle che rattristi, a quelle che immobilizzi, quando un buon esempio opportuno le farebbe decidere. Tutto ciò è di una gravità eterna, e grave altresì per questa povera vita, così miserabile fuori del conforto della fede. – A te spetta di concludere, caro incredulo che forse usurpi questo titolo, che io dovrei allora chiamare caro negligente, caro smemorato, caro infedele, che il cuore di un fratello invita all’ovile. – Ora suppongo che tu sia in regola. Tu non sai; tu non hai impegni; tu cerchi. Ecco allora quel che ti suggerisco. Posto il problema della fede, non l’abbandonare più finché esso non sia risolto in modo certo. Se anche, per impossibile, non dovesse esser risolto, tu avresti almeno il benefizio di queste nobili parole di Pascal: « Vi sono due sorta di persone che si possono chiamare ragionevoli: o quei che servono Dio con tutto il loro cuore perché lo conoscono, o quei che lo cercano con tutto il loro cuore perché non lo conoscono ». Studia seriamente; medita: ecco l’uomo interiore che vede; l’uomo sparso al di fuori è la vittima di allucinazioni successive, che lo attaccano al supposto reale, diametralmente opposto al vero. – Non ti dico: sii sincero: penso che tu lo sia nel senso corrente della parola; io ti dico: non credere facile la sincerità, noi siamo abilissimi a ingannare noi stessi! Chi è veramente sincero con se stesso? Eppure il nostro dovere è di accettare le affermazioni dell’anima nostra, e anzitutto di scoprirle. Fuggirsi, o rifiutarsi è il primo peccato dell’anima irreligiosa. Fatti dunque un cuore semplice, un cuore di bambino; noi siamo tutti bambini di fronte alla verità eterna; non ci conviene, prendendo un atteggiamento d’orgoglio, collocarci in qualche modo al di sopra di essa, oppure, con segrete resistenze o con gravi desideri, collocarci al di sotto. Rimaniamo a livello, per quanto possiamo, ma inclinati davanti a ciò che da tutte le parti ci oltrepassa. – Bisogna studiare la Religione con spirito religioso, come ci si applica alla scienza con uno spirito di sapiente, o alla poesia con uno spirito poetico. Lo spirito di sofisticheria non le conviene. Esigenze smoderate in materia di dimostrazione darebbero prova di un falso metodo. Qui non siamo nel campo delle matematiche, e Aristotile osservò profondamente che a ciascun ordine di cognizione non bisogna chiedere che il genere di certezza che esso comporta. Tu non stringi un’amicizia, non entri in una carriera, non prendi moglie, su dimostrazioni perentorie. « Ciò è ridicolo », ti direbbe Pascal. Anche la Religione è cosa morale; essa invoca le ragioni del cuore; così dev’essere, se essa dev’essere la verità di tutte le anime. Pensar religiosamente è adottare le forme del pensiero più prossime all’amore. Non ti lasciare imbrogliare da troppe questioni particolari. Non ti fermare a tutti i grovigli. Vi sono difficoltà da per tutto; se t’indugi a risolverle una dopo l’altra, non arrivi mai. Attieniti all’essenziale, al fatto. « La vera forza dell’intendimento consiste nel non lasciare offuscare ciò che sappiamo da ciò che non sappiamo » (EMERSON). Ricordati che ogni difficoltà particolare del Cristianesimo trova la sua soluzione nell’insieme; che la coerenza e l’adattamento sono il segno del vero. Procura dunque di vedere ciascun problema, se esso si presenta veramente e se è importante, come nel centro d’una sfera di verità, che allora lo rischiara da ogni parte. – L’opinione agisce sopra di te come sopra tutti: concedile la sua parte d’azione legittima; nessuno può pensare solo. Guardati dalle correnti di pensiero, che non rappresentano se non una moda passeggera. Ciò che è passeggero del resto può essere lunghissimo, per rapporto alla nostra breve vita. Non badare al numero, che si lascia così presto sorprendere e così facilmente trascinare, in questo tempo di pubblicità e di confusione di mente. L’ignoranza di quasi tutti questi individui in materia religiosa è così piena e allegra che essa disarmerebbe, se essi stessi non pretendessero di armarsi di essa. Ma di fatto, bada bene, vi è lì nello stesso tempo che un pericolo per la più pura buona fede, una tentazione sottile. « Coloro che non amano la verità prendono il pretesto della contestazione della moltitudine di quei che la negano… Essi si nascondono nella stampa e chiamano il numero in loro soccorso » (PASCAL). – Diffida dei sapienti e dei pensatori che si volgono contro la fede per abuso della loro specialità, affermazioni affrettate, ignoranza a volte stupefacente di ciò che pretendono di giudicare. E d’altra parte diffida dei credenti che mettono scioccamente la loro fede in contraddizione con la scienza o l’esperienza, per ignorare il tutto e per confondere ogni cosa. Disgraziatamente sono essi troppo numerosi. Ve ne sono pure tra i professionisti. Ne faresti le meraviglie? Esigi forse che in Religione più che altrove una marca dia competenza universale? Non tutto quello che dice un soldato ha il peso di una dottrina di Foch; non tutto quello che dirà un sacerdote è parola di Vangelo. Fa, quando bisogna, le tue riserve, e « non credere a ogni parola » (S. PAOLO), Se nonostante i tuoi sforzi sinceri la luce tarda a venire, non te ne stupire e non ti scoraggiare. Consentire alle tappe fa parte della virtù del camminatore. Si parte, si fa una lunga strada sinuosa e molto spesso coperta; alla fine si arriva. Chi sa dove sei veramente? I più grandi avvenimenti dell’anima hanno luogo in noi molto prima che l’anima se ne accorga; essi sfolgoreggiano un giorno, ma nacquero in segreto, come la fiamma in un ceppo lentamente riscaldato. Attendiamo; lasciamo che le cose si rischiarino da se stesse, lasciamo maturare l’anima, attenta, sotto il sole di Dio. – Quando un’impressione di verità comincerà a colpirti, e la tua mente sarà inclinata, potrà accaderti di trovare in te altre resistenze, come ripugnanze invincibili, certe pieghe della sensibilità, certi abiti mentali, e più di tutto quella certa immobilità che non ha nome, né forma, né causa visibile; inerzia dell’anima, o piuttosto un intoppo che non trovi modo di superare. In tal caso non si tratta più direttamente di uno sforzo intellettuale, ma di un atteggiamento pratico. Poiché la verità è anche bellezza e utilità, la si può raggiungere da questo lato; il giro non è illegittimo. Ora il bello e l’utile ci muovono, là dove la luce ci lascia fissi al suolo. Puoi dunque compenetrarti delle bellezze della Religione; piaccia alla tua immaginazione e alla tua sensibilità per le sue armonie, per il suo culto, per gli scritti de’ suoi grandi uomini, per la sua arte, per i suoi monumenti, e anche per le sue ideali promesse. Bisogna « eccitare gran bramosia », diceva Pascal; bisogna eccitarla anche per conto proprio. « Non potendo il cuore dell’uomo agire senza qualche attrattiva, in un certo senso si può dire che quello che non gli piace gli è impossibile » (BOSSUET). – Parimenti non devi dimenticare la « macchina », l’« automa » e l’«imbestiamento » pascaliani, che sono stati così male capiti forse perchè l’incomprensione era più confortevole. Tu sei convinto astrattamente; ma lo spirito non ha scattato, l’adesione effettiva non vuol venire: cammina, affinché il movimento ti trascini. La bestia, in noi, vuol essere « trattata da bestia », l’automa messo in moto. Pratica tutto quello che sai, è un dovere. Pratica anche, nei limiti della saggezza e delle possibilità morali, quello che speri di sapere, a fine di arrivare: saperlo, in forza di questo adagio: « Non conosciamo le cose se non praticandole » (MAURIZIO BARRÈS). E tutto ciò vuol dire: Convertiti prima, cioè volgiti nel senso che bisogna, e allora la Verità stessa, la Verità vivente ti convertirà. Non si trova Dio se non mettendosi sulla sua strada. – Eccomi all’ultimo consiglio. Il centro della Religione è Cristo: non esitare; va diritto a Lui. L’intermedio della critica non è necessario. Questa può venire alla sua ora; essa ha il suo posto, ma il contatto diretto ha ben altra efficacia! Gesù è prova a se stesso, ti dicevo. Ascolta queste parole solenni: Io sono nato e sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità; chiunque è figlio della verità ascolta la mia voce. Ciò non inganna. Entra dunque nel Vangelo senza sforzo; entravi ingenuamente; lascia che il tuo spirito avvicini quello di Gesù, il tuo cuore apprezzi questa ineffabile Persona, e il senso tuo del reale gusti la realtà vivente di questi fatti, che gravi critici inaridiscono e dissipano al soffio delle parole. Non invano ti attaccherai al vero Maestro. Egli è il « Ponte »; è la « Porta »; chi va a lui « non cammina nelle tenebre; ma avrà il lume della vita » (S. GIOVANNI). – Io non ti faccio l’ingiuria di credere che una volta sufficientemente convinto e invitato internamente, tu esiti a dichiararti a cagione di vane considerazioni estranee. Quello che si chiama rispetto umano è un meschino rispetto di se stesso. Fu detto della conversione: « Fuori, è un uomo che si smentisce; dentro, è un uomo che si compie » (ABELE BONNARD): sapendo compierti saprai riportare la stima. L’essenziale è di deciderti e di spiegare per questo il coraggio necessario. « Per la fede come per l’amore, ci vuole del coraggio, del valore; bisogna dire a se stesso: Io credo » (TOLSTOI). E bisogna finalmente che confidi nel tuo Dio, senza il quale tutto quello che ho potuto dire, tutto quello che potrei dire sarebbe vano. La fede, come tutto l’insieme della vita cristiana, è una collaborazione; è noi con Dio, è Dio con noi, per il suo Cristo, nel centro e sino ai confini dell’anima, sino ai confini della vita. – Per conseguenza prega. Fino dal principio siamo convenuti che tu lo potevi fare, che lo dovevi fare. Poste tutte le altre condizioni, ascolta Cristo che ti dice: «La tua conversione è affare mio; non temere, e prega con confidenza, come per me » (PASCAL). Se fai così, fratello mio, io ti oso promettere da parte di Dio la certezza nella fede, la pace nella certezza, quella pace « che supera ogni sentimento umano » ed apre una via larga alle opere e alle ricompense dell’amore.

Visto, nihil obstat:

Torino, 20 luglio 1937 d. Luigi Carnino

Imprimatur: Torino, 20 luglio 1937

Can. Gio. Dalpozzo Prov. Gen,

FESTA DELL’ANNUNZIATA (2022)

FESTA DELL’ANNUNCIAZIONE (2022)

MESSA

Doppio di 1° classe – Paramenti bianchi.

Oggi commentiamo il più grande avvenimento della storia: l’Incarnazione di nostro Signore (Vang.) nel seno di una Vergine (Ep.). In questo giorno il Verbo si è fatto carne. Il mistero dell’Incarnazione fa sì che a Maria competa il titolo più bello: quello di « Madre di Dio » (Or.) in greco « Theotocos »; nome, che la Chiesa d’Oriente scriveva sempre in lettere d’oro, come un diadema sulle immagini e sulle statue. « Avendo toccato i confini della Divinità » (Card. Cajetani in 2° – 2æ q. 103, art. 4) col fornire al Verbo di Dio la carne, alla quale si unì ipostaticamente, la Vergine fu sempre onorata di un culto di sopravenerazione e di iperdulia: « Il Figlio del Padre ed il Figlio della Vergine sono un solo ed unico Figlio », dice San Anselmo. Maria è da quel momento la Regina del genere umano e tutti la devono venerare (Intr.). al 25 marzo corrisponderà, nove mesi più tardi, il 25 dicembre, giorno nel quale si manifesterà al mondo il miracolo che non è conosciuto oggi che dal cielo e dall’umile Vergine. La data del 25 marzo, secondo gli antichi martirologi, sarebbe anche quella morte del Salvatore. essa

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLIV: 13, 15 et 16
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

[Ti rendono omaggio tutti i ricchi del popolo: dietro di lei, le vergini sono condotte a te, o Re: sono condotte le sue compagne in letizia ed esultanza.]


Ps XLIV: 2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea Regi.

[Dal mio cuore erompe una fausta parola: canto le mie opere al Re].

Ps XLIV: 2.
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

[Ti rendono omaggio tutti i ricchi del popolo: dietro di lei, le vergini sono condotte a te, o Re: sono condotte le sue compagne in letizia ed esultanza.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui de beátæ Maríæ Vírginis útero Verbum tuum, Angelo nuntiánte, carnem suscípere voluísti: præsta supplícibus tuis; ut, qui vere eam Genetrícem Dei crédimus, ejus apud te intercessiónibus adjuvémur.

[O Dio, che hai voluto che, all’annuncio dell’Angelo, il tuo Verbo prendesse carne nel seno della beata Vergine Maria: concedi a noi tuoi sùpplici che, come crediamo lei vera Madre di Dio, così siamo aiutati presso di Te dalla sua intercessione.]


Lectio

Léctio Isaíæ Prophétæ
Is VII: 10-15
In diébus illis: Locútus est Dóminus ad Achaz, dicens: Pete tibi signum a Dómino, Deo tuo, in profúndum inférni, sive in excélsum supra. Et dixit Achaz: Non petam ei non tentábo Dóminum. Et dixit: Audíte ergo, domus David: Numquid parum vobis est, moléstos esse homínibus, quia molésti estis et Deo meo? Propter hoc dabit Dóminus ipse vobis signum. Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium, et vocábitur nomen ejus Emmánuel. Butýrum ei mel cómedet, ut sciat reprobáre malum et elígere bonum.

[In quei giorni: Così parlò il Signore ad Achaz: Domanda per te un segno al Signore Dio tuo, o negli abissi degli inferi, o nelle altezze del cielo. E Achaz rispose: Non lo chiederò e non tenterò il Signore, E disse: Udite dunque, o discendenti di Davide. È forse poco per voi far torto agli uomini, che fate torto anche al mio Dio? Per questo il Signore vi darà Egli stesso un segno. Ecco che la vergine concepirà e partorirà un figlio, il cui nome sarà Emmanuel. Egli mangerà burro e miele, affinché sappia rigettare il male ed eleggere il bene].

Graduale

Ps 44:3 et 5
Diffúsa est grátia in lábiis tuis: proptérea benedíxit te Deus in ætérnum.
V. Propter veritátem et mansuetúdinem et justítiam: et dedúcet te mirabíliter déxtera tua.


[La grazia è riversata sopra le tue labbra, perciò il Signore ti ha benedetta per sempre,
V. per la tua fedeltà e mitezza e giustizia: e la tua destra compirà prodigi].

Tractus


Ps XLIV: 11 et 12
Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam: quia concupívit Rex speciem tuam.

[Ascolta e guarda, tendi l’orecchio, o figlia: il Re si è invaghito della tua bellezza.]


Ps XLIV: 13 et 10
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: fíliæ regum in honóre tuo.

[Tutti i ricchi del popolo imploreranno il tuo volto, stanno al tuo seguito figlie di re.]


Ps XLIV: 15-16
Adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus afferéntur tibi.
V. Adducéntur in lætítia et exsultatióne: adducéntur in templum Regis.

[Le vergini dietro a Lei sono condotte al Re, le sue compagne sono condotte a Te.
V. Sono condotte con gioia ed esultanza, sono introdotte nel palazzo del Re].

Evangelium
Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam
Luc 1:26-38
In illo témpore: Missus est Angelus Gábriel a Deo in civitátem Galilææ, cui nomen Názareth, ad Vírginem desponsátam viro, cui nomen erat Joseph, de domo David, et nomen Vírginis María. Et ingréssus Angelus ad eam, dixit: Ave, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus. Quæ cum audísset, turbáta est in sermóne ejus: et cogitábat, qualis esset ista salutátio. Et ait Angelus ei: Ne tímeas, María, invenísti enim grátiam apud Deum: ecce, concípies in útero et páries fílium, et vocábis nomen ejus Jesum. Hic erit magnus, et Fílius Altíssimi vocábitur, et dabit illi Dóminus Deus sedem David, patris ejus: et regnábit in domo Jacob in ætérnum, et regni ejus non erit finis. Dixit autem María ad Angelum: Quómodo fiet istud, quóniam virum non cognósco? Et respóndens Angelus, dixit ei: Spíritus Sanctus supervéniet in te, et virtus Altíssimi obumbrábit tibi. Ideóque et quod nascétur ex te Sanctum, vocábitur Fílius Dei. Et ecce, Elísabeth, cognáta tua, et ipsa concépit fílium in senectúte sua: et hic mensis sextus est illi, quæ vocátur stérilis: quia non erit impossíbile apud Deum omne verbum. Dixit autem María: Ecce ancílla Dómini, fiat mihi secúndum verbum tuum.

[In quel tempo: L’Angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, ad una Vergine sposata con un uomo della stirpe di Davide che si chiamava Giuseppe, e il nome della Vergine era Maria. Ed entrato da lei, l’Angelo disse: Ave, piena di grazia: il Signore è con te: benedetta tu tra le donne. Udendo ciò ella si turbò e pensava che specie di saluto fosse quello. E l’Angelo soggiunse: Non temere, Maria, perché hai trovato grazia davanti a Dio, ecco che concepirai e partorirai un figlio, cui porrai nome Gesù. Esso sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo; e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre, e regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine. Disse allora Maria all’Angelo: Come avverrà questo, che non conosco uomo ? E l’Angelo le rispose. Lo Spirito Santo scenderà in te e ti adombrerà la potenza dell’Altissimo. Perciò quel santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco che Elisabetta, tua parente, ha concepito anch’essa un figlio, in vecchiaia: ed è già al sesto mese, lei che era chiamata sterile: poiché niente è impossibile a Dio. E Maria disse: si faccia di me secondo la tua parola.]


OMELIA

(M. PIANO: Discorsi Evangelici – T. I., Milano, Omobono e Manini stamp., 1877)

Et ingressus Angelus ad eam dixit, Ecce concipies, et paries filium, et nomen ejus Jesu.

[Luc. 1]

Il Vangelo di quest’oggi ci ricorda la divina missione dell’Angelo Gabriele ad annunziare alla Vergine Maria, che doveva concepire e partorire il Figliuol di Dio, e diventar Madre di Dio medesimo. Madre di Dio! Oh gran dignità! Oh dignità sublimissima non mai udita nei secoli passati e superiore ad ogni creato intendimento! Dignità da tener in ammirazione non che la terra, ma il cielo tutto! Una povera verginella figlia di Gioachino e d’Anna diventar madre di Dio, del Re de’ re, del Dominator de’ dominanti, del Monarca dell’universo! Oh merito, oh virtù, oh santità senza pari! oh pienezza di grazia mirabilissima! Chi mai potrà arrivare a comprenderla? E che hanno dunque a far qui tutte le grandi donne, la Noemi, la Ruth, la Debora, l’Ester, la Giuditta, la Susanna, le due Sara, una moglie di Abramo, l’altra di Tobia, cotanto celebrate nel vecchio Testamento? Che hanno a far qui la Vergine, le donne piangenti, e Marta, e Maria Maddalena, e Salome cotanto rinomate nel Testamento nuovo? Che hanno a fare tutte le altre Vergini, Vedove e Martiri sì lodate nel Cristianesimo? Ah! che il loro merito, la virtù, la santità loro tuttoché grandi, a fronte di Maria sola scompariscono del pari che scompajon le stelle allo spuntare del sole, a somiglianza del quale ella fu da Dio eletta: electa ut sol. Dirò di più, e dirò vero. Suppongansi accumulati insieme tutti i meriti, le virtù tutte, le santità di tutti i Patriarchi, Profeti, Apostoli, Martiri, Santi e Sante che sono senza numero; vi si accoppino quelli ancora degli Angeli e Spiriti celesti che sono a migliaja, a milioni. Che gran cumulo di grazia € di santità! Chi può misurarlo? E pur tutto questo gran cumulo posto al confronto di Maria egli è come un nulla. – No, adunque, Vergine Santissima ed Immacolata (esclamerò anch’io qui con Chiesa Santa), per questo solo che diventaste Madre di Dio, no, che io non so con quali bastevolmente esaltarvi: quibus te laudibus efferam, nescio: quia quem cæli capere non poterant tuo gremio contulisti. – Che farò io dunque questa mattina, che farete voi,uditori miei? Ah! dilettissimi, ascoltiamo per poco l’annunzio dell’Angelo a Maria, la risposta diMaria all’Angelo, e vi troveremo di che ammirare grandemente, e molto ancora per noi da imparare. – Incominciamo. Solinga se ne stava la Vergine Maria nella cameretta di sua casa là in Nazaret, tutta occupata in santi pensieri, in opere degne della sua virtù; quando all’improvviso entrovvi  l’Arcangelo Gabriele, che così prese a salutarla: ave, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus: Dio vi salvi, o piena di grazia; il Signore è con voi, voi siete la benedetta fra le donne. Qual più innocente saluto? Qual più santo annunzio? Doveva pure di gioja tutto e di consolazione giubilare il cuore di lei? mà no: ella anzi si turbò, e mutola e pensierosa andava colla sua mente investigando, quale specie di saluto fosse cotesto: turbata est… et cogitabat, qualis esset ista salutatio. Ma e perché mai turbarsi cotanto; e cotanto pensare e ripensare? Ah! dilettissimi;.. erasi Ella di già, dicono i santi Padri Agostino ed Antonino, erasi già con voto di perpetua verginità tutta a Dio consacrata per esser santa non sol di spirito, ma anche di corpo. È però ben sapendo quanto piaccia a Dio, ed in quanto pregio abbiasi a tenere questa virtù, che, al dire di s. Giovanni Grisostomo, rende le creature umane eguali agli Angeli, anzi simili, dice s. Basilio, a Dio stesso, un neo solo di sospetto bastò a turbarla per tema che la sua purità potesse soffrire qualche detrimento. Trovavasi Ella sola nella sua cella; e sebben fosse già assuefatta alle visioni, ai colloqui angelici, nulladimeno, riflette qui il grande sant’Ambrogio, tanto era lo zelo ch’Ella aveva della propria verginità, che al vedere l’Angelo Gabriele in figura d’uomo, comunque risplendente di maestà e modestia, quell’aspetto virile pose in apprensione il suo spirito, e la conturbò: ad virilis sexus speciem peregrinam turbatur aspectus virginis. E tant’oltre andava l’apprensione e turbamento di lei, che l’Angelo stesso ripigliando la parola ebbe ad animarla; ad incoraggiarla, perché temesse di nulla; accertandola che Ella aveva trovata grazia presso il Signore Iddio: ne timeas, Maria, invenisti enim gratiam apud Dominum. Quindi continuando egli a parlare: ecco, le disse, ecco voi concepirete, sì, nel vostro seno, voi partorirete un Figlio, il cui nome sarà Gesù; ma Egli sarà qualche cosa di ben grande, e si chiamerà Figliuolo dell’Altissimo: ecce concipies, et paries Filium, et vocabis nomen ejus Fesum. Hic erit magnus; et Filius Altissimi vocabitur. – E qui nuovi motivi occorsero di turbamento alla Vergine Santissima. Coll’angelico discorso conobbe chiaramente che doveva concepire e partorire e diventar Madre di Dio: quinci doppiamente affanata: turbata est in sermone ejus, benché rassegnatissima ai voleri di Dio era insieme penetrata dalla più profonda umiltà; onde diceva in cuor suo, e come mai povera meschinella qual mi son’io, come mai merito di salire tant’alto a diventare Madre di Dio, genitrice di chi mi generò; di chi mi diè l’essere e la vita? Come mai posso meritare io una dignità sì eccelsa, che dopo quella di Dio non ha l’eguale? Come corrispondervi? Come potrò io debitamente corrispondervi? Quindi tornando col pensiero alla sua purissima verginità; sì, diceva, facciasi pure in me la volontà di Dio, mio gran Signore e padrone: io so ch’egli è onnipossente, ché può far cose superiori alla mia ed altrui intelligenza; ma so insieme che io feci voto a Dio di perpetua verginità, ed intanto ne so, né comprendo come mai io possa esser madre e vergine tutt’assieme. E così quanto più ella s’internava in questo pensiero, più rimaneva conturbata: Ma Dio immortale! E perché conturbarsi cotanto la Santissima Vergine dopo un sì bel saluto dell’Angelo accompagnato dalle più consolanti espressioni? Ah! dilettissimi, lo dirà per me il mellifluo s. Bernardo. Lo stesso angelico saluto, tuttoché consolantissimo fu quello che tanto la turbò, e tanto le diè da pensare e ripensare. E perché mai? Perché sentissi benedire fra le donne, mentre fu sempre suo desiderio di essere benedetta fra le vergini: turbata est eo quod benedictam se audissetin mulieribus, quæ semper in virginibus benedici desiderabat; e perciò dubitando che la maternità di Dio potesse offendere il candore del giglio suo virginale, non sapeva finir di turbarsi,pensando e ripensando alla qualità d’un tale saluto: turbata est in sermone ejus, et cogitabat qualis esset ista salutatio. E però a chiarirsi di questo affliggente dubbio rivolta all’Angelo così fecesi ad interrogarlo: E come potrà mai avvenir ciò che voi mi annunziate, se io consecrai a Dio la mia verginità, né posso, né debbo soffrirne la minima lesione? Quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco? Ed allora fu che l’Angeloavendola assicurata che lo Spirito Santo sarebbe disceso su di Lei, e che la virtù dell’Altissimo l’avrebbe fecondata, talché sarebbe divenuta madre sì, ma rimasta vergine illibatissima; allora fu che Ella piegò il capo e prestò il suo pieno consenso: ecce Ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum? ecco l’Ancella del Signore; si faccia pure, si faccia, ma precisamente come voi avete detto: fiat, fiat, ma secundum verbum tuum; quasiché volesse dire: nasca pure da me il Figliuol di Dio, si riscatti pure il mondo, si distrugga il peccato, s’incateni il demonio, si faccia giubilare il cielo; tutto va bene; tutto mi piace, ma a questa condizione che la mia verginità non soffra il minimo discapito; altrimenti l’aver per Figlio un Dio, il diventar Regina del cielo, non basterebbe a tormi il rammarico d’aver perduta la gioja inestimabile della mia verginale purità: fiat, fiat secundum verbum tuum. – Oh! fiat, esclama qui tutto attonito s. Giovanni Damasceno, e con esso lui s. Tommaso da Villanova; oh! fiat, potentissimo fiat: imperciocchè siccome proferito da Dio, il tutto all’istante. Rimase fatto: dixit et facta sunt; così appena uscì dalla bocca di Maria questa voce, che subito nel suo seno restò formato l’intiero corpo del Figliuol di Dio per opera onnipotente dello Spirito Santo, e nel momento stesso vi si unì la divinità; cosicché in tal istante la Vergine Maria divenne vera e reale Madre di Dio, come lo definirono i due gran Concilii di Efeso e di Laterano; ché il negarlo sarebbe la più empia eresia. Infatti, se le altre madri sono vere madri dei loro figliuoli, sebbene ne abbiano generato il solo corpo, al quale poi Iddio infuse l’anima; così la Vergine Maria fu vera e reale Madre di Dio, sebben ne abbia generato il corpo soltanto, a cui poi nell’istante medesimo vi si unì l’anima e la divinità. – Ed oh! dignità stupendissima di Maria! Di semplice verginella diventar Madre di Dio, di quel gran Dio che comanda al cielo ed alla terra, al cui confronto tutti i Re, nati e nascituri non sono che un nulla; di quel gran Dio, che forma l’ammirazione, la gloria, la felicità di tutti i Santi e Spiriti celesti! O preminenza non solo superiore ad ogni creata dignità, ma preminenza, dice l’angelico Dottore, che ha dell’infinito per ragion del bene, infinito di cui Ella è Madre. Nel vero, per quella relazione che ha una madre col figlio, tanta è più eccelsa la dignità della madre; quanto più sublime è quella del figlio: Dunque se infinita è la condizione del Divin Figlio di Maria, anche la condizione di Maria, che ne è la Madre dell’infinito. Quindi. a ragione disse s. Bonaventura, che Dio può ben fare un mondo maggiore di quello che fece, un maggior cielo di quel che creò, ma tuttoché onnipossente non potrà mai fare cosa maggiore di Maria Madre di Dio: majorem mundum posset facere Deus, majus cœlum, sed majorem quam Matrem: Dei facere non posset. Ma forseché questo gran mistero dell’Annunziazione di Maria e dell’Incarnazione. del Verbo non ha da risvegliare in noi che sentimenti e grande meraviglia e di ammirazione altissima? Ah! dilettissimi, da questo mistero abbiamo pur anco ben molto da imparare a nostro grande vantaggio. Udiste, o donne, udiste o fanciulle, o giovinette! La Vergine Maria paventò perfino la visita ed il saluto di un Angelo mandato dal Cielo, e voi non temete, non dirò solo le visite frequenti, ma la familiarità, la dimestichezza, le tresche, gli amoreggiamenti dì coloro che alla perfine non son Angeli, ma figli di Adamo, pieni di sregolate passioni e libertini talora che, per valermi della frase della divina Sacra Scrittura, hanno eli occhi pieni di lussuria: habent oculos plenos adulterii; e voi non temete di costoro, non dirò solo i saluti, ma i discorsi  Indegni, gli inviti e le richieste oscene? Voi non temete, non dirò soltanto la presenza, ma la compagnia da solo a sola? Lupus ad oviculam, esclama s. Bernardo: la pecora sola col lupo, e la pecora non teme: , , ah! Guai, guai; e voi invece di resistere loro con un serio contegno, con brusche negative, voi anzi ridete loro in faccia; e con gli sguardi, coi sogghigni fomentate in esso loro vieppiù la passione? Ah! Infelici siete, ben si vede che voi pure, al par di loro libertine siete ed impudiche. – Udite, torno a dire, o femmine e voi tutti quanti qui siete uomini e giovani! La Vergine Maria, anziché rinunziare alla sua integrità verginale, amava meglio rinunziare alla sublime dignità di Madre di Dio; voi per un sozzo momentaneo piacere, per un regalo, per un vile guadagno, per una sperata protezione, per una simulata promessa di matrimonio, voi rinunziate, perdete, gettate via la gioia inestimabile della purità verginale verginale, della continenza coniugale, della castità vedovile, e sagrificando insieme onore e riputazione, vendete l’anima al demonio. Heu! sclamava perciò il massimo dottore s. Girolamo: piget dicere, quod quotidie virgines ruant: oh! quante giovinette, mi rincresce dirlo, ma pur troppo è vero, quante donzelle,quanti giovani che rinunziano all’angelica virtù della purità, e cadono nel peccato obbrobriosamente.Ed è questa la maniera di imitare la Verginee di esserne devoti, di meritarvi la sua protezione? Udiste voi, o ambiziosi e superbi, che tanto anelate alle cariche onorifiche, ai posti lucrosi, alle dignità, e non temete di giungervi per vie torte ed inique senza merito e senza abilità per sostenerle, talché sareste capaci di qualunque delitto, se con esso foste sicuri di giungere alla regia dignità, udiste? Ah! sì che avete ascoltato: imparate, dunque, una volta a reprimere la vostra ambizione, la vostra superbia. La Vergine Maria, tuttoché piena di grazia e santissima, talmente era umile e tanto stimavasi immeritevole d’ogni onore,d’ogni dignità, che al sentirsi annunziare dell’Angelo, e qualificare Madre di Dio, invece di rallegrasene od invanirsene, tutta ne rimase afflitta e conturbata: turbata est in sermone ejus, ed avrebbe amato meglio morire mille volte che commettere un solo peccato veniale contro il voto di verginità da Lei emesso; anzi tanto ardeva di zelo nell’osservarlo che quand’anche ne fosse stata da Dio dispensato, piuttosto che rinunziarvi, avrebbe amato meglio rinunziare alla dignità sua altissima. E fu appunto per la sua profondissima umiltà che ella fa da Dio cotanto esaltata, come ebbe poi a dirlo Ella stessa a nostro grande esempio: quia respexit humilitatem Ancillæ suæ, ecce ex hoc beatam me dicent omnes generationes. – Dunque, miei dilettissimi, s’egli è articolo di fede che la Vergine Maria è vera Madre di Dio, e come tale è divenuta regina degli Angeli, imperatrice del cielo e della terra, quella che tiene il primo luogo lassù nella corte celeste sedendo alla destra del suo Divin Figlio, chi mai potrà misurare fin dove s’estenda la sua potenza presso l’Altissimo? Ah no, le diceva perciò a lei rivolto il suo divoto s. Ildelfonso, no, che a placare il divin Giudice, ad impetrarne grazie, un’altra non possiam trovare più potente di Voi, che meritaste di essere Madre dello stesso Giudice: ad placandam iram Judicis potentiorem quam te invenire non possumus, quæ Redemptoris et Judicis meruisti esse Matrem. Siano pur potenti ed efficaci le preghiere, le intercessioni degli Angeli, degli Arcangeli, dei Cherubini, dei Serafini, degli Spiriti tutti celesti e dei Santi; ma eglino finalmente sono tutti ministri, tutti servi di Dio; omnes sunt administratorii spiritus; la Vergine Maria, Ella è sua Madre; e però quanto più sono distanti da Lei in dignità, ed in merito, tanto più sono inferiori in potenza presso Dio. – Ah! fedeli miei, e che dobbiamo noi temere, se otteniamo che ne sia protettrice la santissima Vergine Maria? Quali grazie, favori e benefizj non possiamo noi sperare da Dio ad intercessione di Lei, che è sua dilettissima Madre, sol che ne siamo devoti, e ricorrendo a Lei con grande fiducia non accogliamo entro di noi verun suo nemico, o se pure l’abbiamo, pentiti d’averlo ricoverato, siam pronti a cacciarlo via per sempre? Ed a questo proposito non siavi discaro udire un fatto di storia. Narrasi che un giorno al santo Abate Siriaco avvenne una visione per la quale gli parve che all’uscire un dì dalla sua cella, trovasse innanzi la porta la santissima Vergine Maria tutta di maestà risplendente e di gloria, e che tosto pieno di giubilo insieme e di rispetto, dopo averla profondamente riverita la supplicò, che non isdegnasse entrare nella sua povera cella, persuaso, che colla sua presenza l’avrebbe tutta santificata. Ed Ella, come volete – gli disse – che io venga nella vostra cella, se dentro v’è un mio nemico. Ciò detto, scomparve subito, lasciando il santo Abate tutto di mestizia pieno ed addolorato. Rientrato nella cella, né sapendo, qual mai potesse essere il nemico della beatissima Vergine, dopo varie indagini e ricerche, finalmente vi trovò un libro dell’eretico Nestorio, che le negava la dignità di vera Madre di Dio: appena lo vide, lo maledisse, e perché un sì empio di lei nemico non restasse più nella sua camera un solo istante, tutto sdegnoso lo cacciò subito sul fuoco. Ora, miei cari, applichiamoci il fatto. Sapete qual è il peggior nemico della Beatissima Vergine? Egli è il peccato mortale; questo è quello, che offendendo, oltraggiando, ingiuriando il suo divin Figlio Gesù Cristo, Lei insieme ingiuria ed oltraggia, e profondamente ferisce il suo bel cuore. Se mai dunque annida in noi questo suo giurato nemico, deh! subito cacciamolo via; via cacciamo quel libro pestilenziale contrario alla fede, ai buoni costumi; via quell’amicizia, quella pratica scandalosa, via la superbia, l’avarizia, la lussuria, la disonestà con tutti gli altri vizj capitali; odiamoli, detestiamoli, risoluti di mai più dar loro ricetto nell’anima nostra: ed allora sarà, che noi diverremo suoi veri devoti: allora sarà che, ricorrendo a Lei supplichevoli, e pieni di fiducia nella sua materna bontà e misericordia, Ella colla sua protezione verrà nel nostro cuore ad apportarci quei lumi, quelle grazie e benedizioni che impetrate ci avrà dal suo divin Figlio, medianti le quali degni saremo di godere della sua amicizia e della sua gloria per tutti i secoli de’ secoli. Così sia.

IL CREDO

Offertorium

Luc 1:28 et 42
Ave, Maria, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

[Ave, María, piena di grazia: il Signore è con te: benedícta tu tra le donne, e benedetto il frutto del tuo ventre].

Secreta

In méntibus nostris, quǽsumus, Dómine, veræ fídei sacraménta confírma: ut, qui concéptum de Vírgine Deum verum et hóminem confitémur; per ejus salutíferæ resurrectiónis poténtiam, ad ætérnam mereámur perveníre lætítiam.

[Conferma nelle nostre menti, o Signore, Te ne preghiamo, i misteri della vera fede: affinché noi, che professiamo vero Dio e uomo quegli che fu concepito dalla Vergine, mediante la sua salvifica resurrezione, possiamo pervenire all’eterna felicità.]

Præfatio

de Beata Maria Virgine
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admitti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Is 7:14
Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium: et vocábitur nomen ejus Emmánuel.

[Ecco, una vergine concepirà e partorirà un figlio: al quale si darà il nome di Emmanuel]

Postcommunio

Orémus.
Grátiam tuam, quǽsumus, Dómine, méntibus nostris infúnde: ut, qui. Angelo nuntiánte, Christi Fílii tui incarnatiónem cognóvimus; per passiónem ejus et crucem, ad resurrectiónis glóriam perducámur.

[La tua grazia, Te ne preghiamo, o Signore, infondi nelle nostre anime: affinché, conoscendo per l’annuncio dell’Angelo, l’incarnazione del Cristo Tuo Figlio, per mezzo della sua passione e Croce giungiamo alla gloria della resurrezione.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

LA VITA INTERIORE (12)

LA VITA INTERIORE

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (12)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna, Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione Riveduta.

LUCI DI STELLE

SOLE CHE ARDE!

LA SANTA MESSA

IL SOLE DEGLI ESERCIZI DI PIETÀ.

«Io non vi ho ancora parlato del sole degli esercizi spirituali (e che maggiormente e più efficacemente può dare all’anima nostra l’unione con Dio) che è il santissimo e sacratissimo e sovrano sacrificio e sacramento della Messa, centro della religione cristiana, cuore della devozione, anima della pietà, mistero ineffabile, il quale abbraccia l’abisso della infinita carità e pel quale Dio, donandosi realmente a noi, ci comunica magnificamente le sue grazie e i suoi favori » (S. Francesco di Sales). – Davanti a Dio e per gli uomini che hanno fede viva, la santa Messa, è l’azione più degna, e l’azione più meritoria, è quanto di più eccellente noi abbiamo ricevuto da Gesù Redentore. « Tutte le opere buone riunite insieme, diceva. il Santo Curato d’Ars, non equivalgono al santo Sacrificio della Messa, perché esse sono le opere dell’uomo, e la Messa è l’opera di Dio. Il martirio è nulla in suo confronto. È il sacrificio che Dio fa all’uomo del proprio corpo e del proprio sangue ». Nulla può rendere maggiore vantaggio agli uomini della santa Messa. Di questo erano talmente persuasi i primi Cristiani che, quotidianamente, sfidando i pericoli delle persecuzioni, si recavano nelle Catacombe per presenziare ai divini Misteri Tutte le anime pie, in ogni tempo, (i Santi in modo particolare; sentirono intensamente il bisogno di vivere la santa Messa. Quando il sacerdote celebra la santa Messa fa quattro cose principali:

1) cambia il pane e il vino nella sostanza del Corpo e del Sangue di nostro Signore;

2) offre e sacrifica, Gesù al Padre celeste;

3) si nutre di Gesù nella santa Comunione;

4) distribuisce… Gesù nella santa Comunione ai fedeli che lo desiderano.

È UN RICORDO VIVENTE DEL SIGNORE.

I.- Anzitutto fa assolutamente la stessa cosa che Gesù fece nell’ultima Cena, muta, cioè, il pane e il vino nel Corpo e nel Sangue di Lui. La celebrazione della Messa, è, quindi, ricordo di quanto noi possiamo avere di più caro: di Gesù Cristo. Gesù stesso, lo disse agli Apostoli: «Fate questo in memoria di. me) (Luca, XXI, 19). E in che modo, se ne dovranno ricordare? Ascoltiamo San Paolo (I Cor.,., XI, 20); « Ogni volta che mangiate questo pane e bevete questo calice, voi, annunziate la morte del Signore ». Nell’assistere alla santa Messa dobbiamo dunque, in ispirito, recarci sul Calvario e raffigurarci Gesù Cristo crocefisso, agonizzante e, morente in croce per noi. – La Messa, però, non è un ricordo morto: è un ricordo vivente del Signore, è una commemorazione vivente di Gesù. Poiché nel momento della consacrazione, il Signore discende realmente in mezzo a noi, sebbene velato sotto le specie del pane e del vino.

È LA RINNOVAZIONE DEL SANTO SACRIFICIO DELLA CROCE.

II. – La santa Messa non è solo un ricordo vivente di Gesù Crocefisso: essa è anche un sacrificio; e, precisamente, è la rinnovazione del santo Sacrificio della croce. « Il grande Sacrificio che Gesù Cristo nella sua qualità di Sommo Sacerdote ha offerto per l’umanità sul Golgota, Egli lo ha anticipato, lo stesso identico Sacrificio, all’ultima Cena. Sono parole sue: “ Questo è il mio Corpo immolato per voi, questo è il mio Sangue versato per voi” (P. Parsch. Op. c. 20)). Questo stesso Sacrificio offerto sulla croce e che fu anticipato nell’ultima Cena, viene rinnovato realmente, nella santa Messa. Non è, adunque, la Messa solo un ricordo vivente di Gesù, ma anche un sacrificio, è la rinnovazione vera, reale del Sacrificio di Gesù in Croce. Quando andiamo alla Messa, andiamo al Calvario e in compagnia di Maria SS. e di Giovanni assistiamo al divino Sacrificio di Gesù. – Fermiamoci a considerare: La santa Messa è l’offerta del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo che, sotto le specie del pane e del vino, si offre a Dio dal sacerdote sull’altare in memoria e rinnovazione del Sacrificio della Croce.

L’OFFERTA È GESÙ.

Riflettiamo: Che cosa si offre nel sacrificio della Messa? — Si offre il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo. — Gesù Cristo è Dio. Quale altra vittima può paragonarsi a questa Vittima divina? – Dio è eterno, immenso, onnipotente, infinito: per questo appunto, in ragione della Vittima offerta il sacrificio della Messa ha un valore infinito. Gesù si offre al Padre per suo amore, per la sua gloria. Nel discorso dopo l’ultima Cena Gesù disse: Padre, è giunta l’ora (della mia morte), glorifica il tuo Figliuolo, affinché il tuo Figliuolo. glorifichi te (Giov, XVII, 1). Glorificare il Padre; ecco l’intenzione di Gesù. nell’offrirsi, sul Calvario e sugli altari. –  Ma Gesù si offre a Dio anche per salvare gli uomini. La salvezza eterna degli uomini dà gloria a Dio. L’offerta di Gesù è, dunque,ispirata da due amori. che. si riuniscono in uno solo: l’amore infinito pel Padre e per gli uomini. – Quale sacrificio costò a Gesù l’offertach’Egli fece di sé al Padre? — Il massimo sacrificio, cioè la vita.Alla vita tutti si sentono intensamente attaccati. Nessuno. vorrebbe mai privarsene.Tutti desiderano di continuare a vivere. Donare la propria vita, è, quindi, il sacrificio che più costa all’uomo… Gesù diede la sua vita, permettendo che gli venisse tolta violentemente ed ignominiosamente,per la gloria di Dio e per la salvezza degli uomini: Per questi due fini versò in croce, sul Calvario, tutto il suo sangue. Nessuno ha un amore più grande di chi offre la sua vita per i suoi amici (Giov., XV, 13).« Ecco il motivo per cui la Chiesa onora e santifica tutte le sue annue solennità descritte nel ciclo liturgico col sacrificio Della Messa. Come la manna nel deserto si adattava a tutti i gusti, così questo Sacramento,il quale rinnova sui nostri altari il mistero di nostra redenzione — opus nostræ Redemptionis exercetur — ne commemora altresì i vari episodi e le circostanze. Ecco il motivo per cui nella Messa natalizia, di mezzanotte, noi adoriamo il Cristo Verbo Incarnato; il giorno della Epifania, invece di presentare a Dio oro, incenso e mirra,gli offriamo nell’Ostia quel medesimo Divin Pargoletto Re, Pontefice e Mortale, che veniva simboleggiato dai doni dei Magi;nel giorno di Pasqua, sotto i veli Eucaristico, noi adoriamo Gesù sfavillante di gloria, e con Lui inauguriamo il regno di Dio,sorbendo quel vino Eucaristico nuovo e generoso, del quale il giovedì santo Egli D discorreva appunto nel Cenacolo: non bibam amodo de hoc genimine vitis, usque in diem illum, cum illud bibam vobiscum novum in regno Patris mei (MATTEO, XXVI, 29). » Il giorno di Pentecoste poi, a conseguirei settemplici doni del Divino Paracleto, noi gliene presentiamo il prezzo: il Sacrificio del Signore, implorando dallo Spirito Santo— teste della Passione di Gesù Cristo, come lo chiama bellamente Serapione di Thmuis— la grazia di associarci a Lui nel Glorificare Gesù.

» Del pari, sia che la Chiesa celebri le varie solennità Mariane, gli anniversari dei Martiri, le consacrazioni dei suoi sacerdoti, le benedizioni nuziali sugli sposi novelli, la Liturgia costituisce l’offerta dell’Eucaristico Sacrificio siccome vero rito centrale della solennità, giacché per i meriti della croce e della pienezza di grazia che è nel Cristo Capo, affluisce ogni carisma nell’intero organismo della Chiesa, che è precisamente il suo mistico Corpo, il suo pleroma, come lo chiama l’Apostolo ». (Schuster, De Mysteriis, 12-13).

LA SANTA COMUNIONE. – IL CONVITO.

La santa Messa è anche il Convito, il banchetto delle anime dei sacerdoti e delle nostre anime. Il giorno successivo al miracolo della moltiplicazione del pane e dei pesci (MATT., XVI, 19), Gesù tenne, nella sinagoga di Cafarnao, dinanzi ai testimoni del miracolo, agli Apostoli e a vari discepoli, un discorso importantissimo. – Ricordando la moltiplicazione dei pani, e da questa prendendo occasione, promise un pane celeste, un pane di vita ch’Egli avrebbe lasciato in eredità alle anime e tra la generale meraviglia, così recisamente affermò: Il pane che io darò a voi è la mia Carne per la vita del mondo (Giov., VI, 52). – Poiché i giudei sono riluttanti a prestare fede alle sue parole, Egli ripete la promessa in sei espressioni d’immenso significato: In verità vi dico, se non mangerete la Carne del Figlio dell’Uomo e non berrete il suo Sangue, non avrete vita in voi. Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue, ha la vita eterna e Io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Poiché la mia Carne è realmente cibo e il mio Sangue è realmente bevanda. Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue rimane in me ed Io in lui… Chi mangia questo pane, vivrà in eterno… (Giov., VI, 54-59)A queste parole dette con forza e con precisione, gli ascoltatori si dividono. Alcuni di essi, i giudei, dopo avere con molta irriverenza giudicato Gesù, si allontanano. Presso il Maestro Divino restano gli Apostoli.Questi, per le parole di Pietro, testimoniano la vivezza della loro fede negli accenti di Gesù.Ma che cosa aveva realmente voluto dire Gesù, con quelle sue parole tanto rimarcato? Come le parole stesse chiaramente suonano, Gesù ha promesso la vita della grazia (vita eterna), la partecipazione alla vita di Gesù stesso. Gesù ha promesso il nutrimento dell’anima, la vitalità dell’anima,e l’unione di queste anime, da lui vivificate con la sua Carne e il suo Sangue, con se stesso e col Padre. Dunque, secondo le promesse di Gesù:

LA VERA UNIONE con GESÙ!

1) La santa Comunione ci incorpora con Gesù. È questa la ragione per cui Gesù nell’ultima cena la istituì sotto le specie del pane e del vino: « Prendete e mangiate; questo è il mio corpo, prendete e bevete, questo è il mio sangue ». – Uniti con Gesù per mezzo della santa Comunione, facciamo con Gesù una vita unica, un cuor solo ed un’anima sola. I suoi sentimenti e i suoi interessi sono nostri, e i nostri sono suoi.  Quanto quest’unione sia stretta, intima, con Gesù, viene molto ben detto dal Padre Grou (Per la vita intima dell anima, 278):« Questa dimora reciproca, di noi in Gesù e di Gesù in noi, è qualche cosa di così grande e di così divino che non ci è possibile comprenderla perfettamente.

» Questo effetto meraviglioso della Comunione avviene nelle anime in proporzione delle loro disposizioni, e siccome le disposizioni possono migliorare sempre, l’effetto corrispondente a queste diviene ognor più eccellente, in proporzione…

» È una dimora intima, una unione di Gesù con noi, in doppio modo, e tale che non se ne trova esempio nella natura. Corpo ed anima Egli s’unisce a noi; le sue facoltà si uniscono alle nostre, in modo soprannaturale e trascendentale, di modo che Gesù Cristo vive in noi, e noi viviamo il Lui »… Ma non basta. Questa stretta unione con Gesù, è, pure, nei desideri di Gesù, una unione permanente delle nostre anime con Lui. Perché avvenga una rottura, una separazione, è necessario che l’anima pecchi gravemente… Quanto cara sia la presenza di Gesù vivente in noi con la sua grazia, solo le nostre anime possono dire: « Gesù rimane in noi col divino suo Spirito che opera, nelle anime nostre, disposizioni simili alle sue ». Di più. L’unione nostra con Gesù è una unione santificante. Gesù santissimo, ci santifica trasformandoci in Lui. Questa trasformazione avviene tanto più celermente, quanto più avidamente cerchiamo Gesù e quanto più decisamente e realmente ci stanchiamo del mondo e delle creature. « I nostri pensieri e i nostri giudizi si vengono a mano a mano modificando: in cambio di giudicare le cose secondo le massime del mondo, ne giudichiamo secondo le massime del Vangelo. La nostra volontà si conforma a quella del divino Maestro: persuasi ch’Egli solo è nel vero perché Sapienza eterna, non vogliamo se non ciò che vuole Lui e con Lui ripetiamo: Padre, sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra! Il nostro Cuore sgombera, a poco a poco, da sé gli affetti egoistici e troppo sensibili, per amare generosamente, ardentemente, supremamente colui che solo merita d’essere amato » (TANQUEREY, Le grandi verità cristiane, 239). –

2) La santa Comunione ci unisce non solo con Gesù, ma ci unisce pure con Dio, con le tre persone della Santissima Trinità. In Gesù, infatti, figlio di Dio, vi sono le altre due persone divine, perché esse vivono l’una nelle altre. Il Verbo incarnato non in noi da solo, ma col Padre celeste che lo genera di continuo; e collo Spirito Santo che, per via di amore, procede dal Padre e dal Figliuolo. –  Uniti con Gesù siamo, per questo stesso, figli adottivi di Dio e apparteniamo alla sua famiglia. Onore e gioia inestimabile, ch’è irraggiungibile per qualunque altra via. Solo in questo modo si effettua il fine voluto da Dio da tutta l’eternità, la nostra unione intima con Lui.

I DONI EUCARISTICI DI GESÙ.

Mentre Gesù a noi si dà senza riserve, se noi a Lui egualmente ci accostiamo, non tarda l’effluvio del suo profumo e del suo sapore a ristorare le nostre forze. Infatti,  come il cibo materiale non solo conserva e sviluppa il nostro organismo, ma col suo gusto lo allieta insieme e lo diletta, così la Divina Eucaristia nutre l’anima, la sostiene, la consola e le infonde un celeste gusto per le cose spirituali (Schuster, De Mysteris, 18). – Di più: per la santa Comunione, noi veniamo perdonati dei peccati veniali, e preservati da eventuali future cadute. Benissimo Sant’Ambrogio: Questo pane quotidiano si riceve in rimedio della quotidiana debolezza (De Sacr., lib. IV, c. 6). Quanta grazia insinuante, commenta il Card. Schuster, in quel doppio aggettivo: quotidiano, a raccomandare ai suoi figli spirituali la quotidiana frequenza alla santa Comunione! Ancora. Gesù aumenta in noi l’ardore della carità, diminuisce il fuoco delle tentazioni, ci conserva nell’integrità e nella purezza. Per questo motivo, nei primi tempi della Chiesa, veniva portata la santissima Eucaristia ai Martiri nelle prigioni, perché confortati dal Pane celeste, non cadessero per lo spavento e per il dolore delle prove cui erano sottoposti. – Concludendo: la santa Messa, l’atto più elevato e più santo del Cristianesimo, il centro vitale per eccellenza della nostra santa Religione, la fonte più vivida e più intensa della grazia santificante:

1) Come memoriale della Passione di Gesù.

2) Come rappresentazione vera e vivente del sacrificio di Gesù nel Calvario.

3) Come vera incorporazione con Gesù e con Dio, ci unisce intimamente, ci trasforma, realmente, in Gesù stesso, tanto da poter propriamente e realmente ripetere le parole dell’Apostolo: Signore non sono più io che vivo, sei Tu che vivi in me.

Dio ha messo ogni cosa sotto i piedi di Cristo e l’ha dato per capo a tutta la Chiesa, ch’è il suo corpo e il suo compimento.

S. Paolo, Efes., I, 22-23.