CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: OTTOBRE 2022

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: OTTOBRE 2022

OTTOBRE È IL MESE CHE LA CHIESA CATTOLICA DEDICA ALLA SS. VERGINE DEL ROSARIO, AI SANTI ANGELI CUSTODI E A CRISTO RE.

Allorché l’eresia degli Albigesi s’estendeva empiamente nella provincia di Tolosa mettendovi di giorno in giorno radici sempre più profonde, san Domenico, che aveva fondato allora l’ordine dei Predicatori, si applicò interamente a sradicarla. E per riuscirvi più sicuramente, implorò con assidue preghiere il soccorso della beata Vergine, la cui dignità quegli eretici attaccavano impudentemente, ed a cui è dato di distruggere tutte l’eresie nell’intero universo. Ricevuto da lei l’avviso (secondo che vuole la tradizione) di predicare ai popoli il Rosario come aiuto singolarmente efficace contro l’eresie e i vizi, stupisce vedere con qual fervore e con qual successo egli eseguì l’ufficio affidatogli. Ora il Rosario è una formula particolare di preghiera nella quale si distinguono quindici decadi di salutazioni angeliche, separate dall’orazione Domenicale, e in ciascuna delle quali ricordiamo, meditandoli piamente, altrettanti misteri della nostra redenzione. Da quel tempo, dunque, questa maniera di pregare incominciò, grazie a san Domenico, a farsi conoscere e a spandersi. E, ch’egli ne sia l’istitutore e l’autore, lo si trova affermato non di rado nelle lettere apostoliche dei sommi Pontefici. – Da questa istituzione sì salutare promanarono nel popolo cristiano innumerevoli benefici. Fra i quali si cita con ragione la vittoria, che il santissimo Pontefice Pio V e i principi cristiani infiammati da lui riportarono presso le isole Cursolari sul potentissimo despota dei Turchi. Infatti, essendo stata riportata questa vittoria il giorno medesimo in cui i confratelli del santissimo Rosario indirizzavano a Maria in tutto il mondo le consuete suppliche e le preghiere stabilite secondo l’uso, non senza ragione essa si attribuì a queste preghiere. E ciò l’attestò anche Gregorio XIII, ordinando che a ricordo di beneficio tanto singolare, in tutto il mondo si rendessero perenni azioni di grazie alla beata Vergine sotto il titolo del Rosario, in tutte le chiese che avessero un altare del Rosario, e concedendo in perpetuo in tal giorno un Ufficio di rito doppio maggiore; e altri Pontefici hanno accordato indulgenze pressoché innumerevoli a quelli che recitano il Rosario e alla confraternita di questo nome. – Clemente XI poi, stimando che anche l’insigne vittoria riportata l’anno 1716 nel regno d’Ungheria da Carlo VI, imperatore dei Romani, su l’immenso esercito dei Turchi, accadde lo stesso giorno in cui si celebrava la festa della Dedicazione di santa Maria della Neve, e quasi nel medesimo tempo che a Roma i confratelli del santissimo Rosario facendo preghiere pubbliche e solenni con immenso concorso di popolo e grande pietà indirizzavano a Dio ferventi suppliche per l’abbattimento dei Turchi e imploravano umilmente l’aiuto potente della Vergine Madre di Dio a favore dei Cristiani; perciò credé dover attribuire questa vittoria al patrocinio della stessa Vergine, come pure la liberazione, avvenuta poco dopo, dell’isola di Corcira dall’assedio parimente dei Turchi. Quindi perché restasse sempre perpetuo e grato ricordo di sì insigne beneficio, estese a tutta la Chiesa la festa del santissimo Rosario da celebrarsi collo stesso rito. Benedetto XIII fece inserire tutto ciò nel Breviario Romano. Leone XIII poi, in tempi turbolentissimi per la Chiesa, e nell’orribile tempesta di mali che da lungo tempo ci opprimono, ha sovente e vivamente eccitato con reiterate lettere apostoliche tutti i fedeli del mondo a recitare spesso il Rosario di Maria, soprattutto nel mese d’Ottobre, ne ha innalzato di più la festa a rito superiore, ha aggiunto alle litanie Lauretane l’invocazione, Regina del sacratissimo Rosario, e concesso a tutta la Chiesa un Ufficio proprio per la stessa solennità. Veneriamo dunque sempre la santissima Madre di Dio con questa devozione che le è gratissima; affinché, invocata tante volte dai fedeli di Cristo colla preghiera del Rosario, dopo averci dato d’abbattere e annientare i nemici terreni, ci conceda altresì di trionfare di quelli infernali. (Dal Messale Romano).

Festa degli Angeli custodi

Zach II:1-5

E alzai i miei occhi, e guardai, ed ecco un uomo con in mano una corda da misuratore; e dissi: Dove vai tu? Ed egli mi disse: A misurare Gerusalemme per vedere quanta sia la sua larghezza, e quanta la sua lunghezza. Quand’ecco l’Angelo che parlava con me uscì fuori, e gli andò incontro un altro Angelo. E gli disse: Corri, parla a quel giovane, e digli: Gerusalemme sarà abitata senza mura, per la gran quantità d’uomini e di bestie che saranno dentro di essa. Ed io le sarò, dice il Signore, muraglia di fuoco tutt’intorno, e sarò glorificato in mezzo a lei.

… Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti. – Pertanto questo sia il vostro ufficio, o Venerabili Fratelli, questo il vostro compito di far sì che si premetta alla celebrazione di questa festa annuale, in giorni stabiliti, in ogni parrocchia, un corso di predicazione, in guisa che i fedeli ammaestrati intorno alla natura, al significato e all’importanza della festa stessa, intraprendano un tale tenore di vita, che sia veramente degno di coloro che vogliono essere sudditi affezionati e fedeli del Re divino…

(S. S. Pio XI, lett. Enc. Quas primas)

Indulgenze per il mese di OTTOBRE:

398

Fidelibus, qui mense octobri saltem tertiam Rosarii partem sive publice sive privatim pia mente recitaverint, conceditur:

Indulgentia septem annorum quovis die;

Indulgentia plenaria, si die festo B . M. V. de Rosario et per totam octavam idem pietatis obsequium præstiterint, et præterea admissa sua confessi fuerint, ad eucharisticum Convivium accesserint et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitationem instituerint;

Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione, sacra Communione et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitatione, si post octavam sacratissimi Rosarii saltem decem diebus eamdem recitationem persolverint (S. C. Indulg., 23 iul. 1898 et 29 aug. 1899; S. Pæn. Ap., 18 mart. 1932). 81028

[Ai fedeli che nel mese di ottobre reciteranno almeno la terza parte del Rosario in pubblico o in privato, si concede:

Indulgenza di sette anni ogni giorno;

Indulgenza plenaria se nel giorno della festa del B.M.V. saranno confessati e comunicati secondo s.c.

Indulgenza plenaria, s. c.  se dopo l’ottava del sacratissimo Rosario, almeno per dieci giorni lo avranno recitato.]

RECITATIO ROSARII

395

a) Fidelibus, si tertiam Rosarii partem devote recitaverint, conceditur: Indulgentia quinque annorum;

Indulgentia plenaria, suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem idem præstiterint (Bulla Ea quæ ex fidelium, Sixti Pp. IV, 12 maii 1479; S. C. Indulg., 29 aug. 1899; S. Pæn. Ap., 18 mart. 1932 et 22 ian. 1952).

ORATIO AD D. N. IESUM CHRISTUM REGEM

Indulg. plenaria suetis condicionibus semel in die (272)

DÒMINE Iesu Christe, te confiteor Regem universàlem. Omnia, quæ facta sunt, prò te sunt creata. Omnia iura tua exérce in me. Rénovo vota Baptismi abrenùntians sàtanæ eiùsque pompis et opéribus et promitto me victùrum ut bonum christiànum. Ac, potissimum me óbligo operàri quantum in me est, ut triùmphent Dei iura tuæque Ecclèsiæ. Divinum Cor Iesu, óffero tibi actiones meas ténues ad obtinéndum, ut corda omnia agnóscant tuam sacram Regalitàtem et ita tuæ pacis regnum stabiliàtur in toto terràrum orbe. Amen.

Queste sono LE FESTE DEL MESE DI OTTOBRE 2021:

1 Ottobre S. Remigii Episcopi et Confessoris    Simplex

                Primo sabato

2 Ottobre Dominica XVII Post Pent. I. Octobris – Semiduplex Dom. minor *I*

                  Ss. Angelorum Custodum   

3 Ottobre S. Theresiæ a Jesu Infante Virginis    Duplex

4 Ottobre S. Francisci Confessoris    Duplex majus

5 Ottobre Ss. Placidi et Sociorum Martyrum    Simplex

6 Ottobre S. Brunonis Confessoris  Duplex

7 Ottobre Sanctissimi Rosarii Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis *L1*

                 Commemoratio: S. Marci Papæ

                  Primo venerdì

8 Ottobre  S. Birgittæ Viduæ  Duplex

9 Ottobre Dominica XVIII Post Pentec. II. Octobris  Semiduplex Dom. minor

                  S. Joannis Leonardi Confessoris

10 Ottobre S. Francisci Borgiæ Confessoris Semiduplex m.t.v.

11 Ottobre Maternitatis Beatæ Mariæ Virginis – Duplex II. classis *L1*

13 Ottobre S. Eduardi Regis Confessoris    Semiduplex m.t.v.

14 Ottobre S. Callisti Papæ et Martyris    Duplex

15 Ottobre S. Teresiæ Virginis    Duplex

16 Ottobre Dominica XIX Post Pentec. III. Octobris Semiduplex Domin. Minor

                   S. Hedwigis Viduæ    Semiduplex

17 Ottobre S. Margaritæ Mariæ Alacoque Virginis    Duplex

18 Ottobre S. Lucæ Evangelistæ    Duplex II. classis

19 Ottobre S. Petri de Alcantara Confessoris    Duplex m.t.v.

20 Ottobre S. Joannis Cantii Confessoris    Duplex

21 Ottobre S. Hilarionis Abbatis    Simplex

22 Ottobre Sanctae Mariae Sabbato    Simplex

23 Ottobre Dominica XX Post Pentec. IV. Octobris Semiduplex Domin. minor *I*

24 Ottobre S. Raphaëlis Archangeli    Duplex majus *L1*

25 Ottobre Ss. Chrysanthi et Dariæ Martyrum    Simplex

26 Ottobre S. Evaristi Papæ et Martyris    Simplex

      Elezione al soglio di s. Pietro di S.S. Gregorio XVII

27 Ottobre In Vigilia Ss. Simonis et Judæ Ap.    Simplex *L1*

28 Ottobre Ss. Simonis et Judæ Apostolorum    Duplex II. classis *L1*

29 Ottobre Sanctae Mariae Sabbato    Simplex

30 Ottobre Domini Nostri Jesu Christi Regis    Duplex I. classis *L1*

      Dominica XXI Post Pentecosten I. Novembris Semiduplex Dominica minor *I*

31 Ottobre In Vigilia Omnium Sanctorum    Simplex *L1*

LA GRAZIA E LA GLORIA (30)

LA GRAZIA E LA GLORIA (30)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VI

TOMOPRIMOLIBRO VI.

LA NOSTRA FILIAZIONE NEL SUO RAPPORTO CON LA TERZA PERSONA DELLA TRINITÀ

CAPITOLO IV

Conseguenze delle proprietà personali dello Spirito Santo. – Come in Lui e attraverso di Lui abbiamo la Grazia increata. La sua missione nelle anime.

Abbiamo parlato di due elementi costitutivi del nostro essere soprannaturale: la Grazia increata e la grazia creata; quest’ultima inerente all’anima e figurante ad immagine del Figlio unigenito; la prima dimora nell’anima attraverso la sua sostanza, per essere allo stesso tempo il principio ed il termine dei doni soprannaturali che la trasformano. Si tratta di studiare ciò che lo Spirito Santo sia in questa doppia grazia. Cominciamo con la Grazia increata.

1. – Quando le Scritture e la Tradizione ricordano la venuta della Trinità nei figli di adozione, non basta attribuire questa misteriosa dimora allo Spirito di Dio; esse ci insegnano anche che è attraverso lo Spirito Santo e nello Spirito Santo che il Padre e il Figlio si uniscono alle anime per farvi la loro dimora permanente. L’Oriente e l’Occidente hanno una sola voce per affermarlo. « Attraverso lo Spirito Santo tutta la Trinità abita in noi », scrive il grande Vescovo di Ippona (S. Augustus, de Trinit., L. XV, c. 18, n. 32). S. Basilio ripete con lui: « L’unione con Dio è fatta per mezzo dello Spirito: Dio infatti ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei nostri cuori perché gridassimo: Abba, Padre » (San Basilio, de Spir. S., c. 19. P. Gr 6-2, p. 155). « È nello Spirito che la creatura diventa partecipe del Verbo, e tutti noi entriamo in comunione con Dio solo attraverso di Lui … Poiché, dunque, siamo partecipi di Cristo e di Dio (il Padre), è evidente che l’unzione ed il sigillo che è in noi non appartenga alla natura delle cose create, ma alla natura del Figlio, poiché Egli ci unisce al Padre per mezzo dello Spirito che è in Lui » (Sant’Athan, ep. ad Serap: 4, n. 23; 24, l. cit.). Così parla S. Atanasio; e tale è anche la dottrina che San Cirillo esprime quasi negli stessi termini e contro gli stessi avversari: « Come può lo Spirito essere una cosa creata, Egli mediante il Quale diventiamo partecipi del Padre e del Figlio? Sì, Dio è in noi attraverso lo Spirito Santo » (S. Cirillo. Alex, appendice al Dial, VII de Trinit, P. Gr, L. 75, p. 1124, etc.). Riascoltiamo S. Basilio: « Vedo Dio (il Padre) e lo Spirito abitare inseparabilmente insieme nelle creature. Quanto a te, Eunomio, poiché non puoi negare che nelle testimonianze che ci rivelano questa presenza si tratti dello Spirito increato, affermi che è Dio (il Padre) a portare il nome di Spirito. Ma non sai che Dio non abita da solo nella creatura e che a nessuno è permesso di ascoltare Dio (il Padre), se non dove si parla dello Spirito di Dio? L’Apostolo, appunto, distingue apertamente l’uno dall’altro quando scrive: Dio ce lo ha rivelato per mezzo del suo Spirito. Non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che è di Dio. » Sembra proprio che le due Persone stiano aspettando l’intervento della terza per scendere in noi, così che, volendo abitare in un cuore, la mandano davanti a loro per aprirne le porte e trasformarlo in un tempio degno della loro suprema maestà. Ora, non pensiamo che si tratti di espressioni arbitrarie, senza conseguenze e senza cause, uno di quei giochi di parole in cui si dilettano oratori e poeti. No: perché non si ripresenterebbero così frequentemente negli scritti i più dogmatici dei Padri; ancor meno li sosterrebbero con tanta insistenza sulla parola stessa dello Spirito Santo registrata nelle nostre Scritture. S. Cirillo di Alessandria commenta questo passo della I Lettera ai Corinzi: « Non sapete che le vostre membra sono il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio » (1 Cor., VI, 19: col. II Cor. VI, 16-17). Il santo Dottore esclama: « Perciò noi siamo i templi del Dio vivente. E come mai? Perché Cristo abita in noi per mezzo dello Spirito Santo, e ha nella sua stessa natura colui dal quale sostanzialmente emana, Dio suo Padre » (S. Cirillo. Alex. in h. 1. P. Gr., t 74, p. 371). Ma in nessun luogo essi insistono maggiormente su questa idea che nell’interpretazione di questo bellissimo testo di San Giovanni: « Ciò che ci fa conoscere che noi rimaniamo in Dio e che Dio rimane in noi, è che Egli ci ha resi partecipi del suo Spirito » (I Joan., IV, 13). « Pertanto – conclude S. Atanasio – in virtù della grazia dello Spirito Santo che ci è stata data, noi siamo in Dio e Lui in noi. Di conseguenza, poiché Esso è lo Spirito di Dio, quando è in noi, noi che possediamo questo Spirito siamo veramente in Dio, e Dio per lo stesso motivo abita in noi » (S. Atanasio Or. 3, c. Ariano, n. 23; P. Gr. 26, p. 373). – E S. Agostino: « In questo sappiamo che noi rimaniamo in Dio e Dio in noi, perché Egli ci ha dato il suo Spirito. Molto bene; sia benedetto Dio! Noi sappiamo che Dio abita in noi. Ma chi ce lo ha fatto sapere? Perché Egli ci ha donato il suo Spirito? E come si fa a sapere che ci ha dato il suo Spirito? Chiedete al vostro cuore: se è pieno d’amore, avete lo Spirito di Dio in voi. Ma chi ci insegna questo necessario legame tra la dimora dello Spirito Santo e la carità? È Paolo quando dice: L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (S. Aug. in ep. Joan ad Parth. tr. VIII, n. 12). Continuiamo ad ascoltare lo stesso Agostino. Egli cerca se vi sia un testo nelle Scritture in cui lo Spirito Santo sia esplicitamente menzionato con il termine di carità. Questo testo, egli ritiene, forse a torto, di averlo trovato in queste parole di San Giovanni: Dio è carità (I Joan. IV, 8). Non esaminerò tutte le prove che egli adduce, anche se contengono insegnamenti utili. Ci accontentiamo di notare la seconda parte della sua argomentazione. « Noi troviamo – egli dice, – che la Scrittura chiama chiaramente l’Unico, la sapienza di Dio (1 Cor. I, 24). Troviamo anche che lo Spirito Santo porti da qualche parte il nome di carità? Sì, se meditiamo diligentemente le parole dell’Evangelista. Miei cari – egli dice – amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio. E aggiunge: Chi ama è nato da Dio; e chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è carità (I Joan, IV, 7-8). La carità è Dio, la carità è da Dio. Quindi la carità è Dio da Dio. Ma se lo Spirito Santo è Dio da Dio, perché procede da Dio Padre e da Dio Figlio, il Figlio stesso è nato da Dio Padre e, di conseguenza, è anch’egli Dio da Dio. Quale dei due sarà la carità? Mettiamo da parte il Padre, perché non è da Dio. È il Figlio, è lo Spirito Santo? Quello che segue ci illuminerà… « In questo – dice l’Evangelista (Id., Ibid. 13), sappiamo che noi dimoriamo in Lui (Dio) e Lui in noi, perché Egli ci ha donato il suo Spirito. Perciò è lo Spirito che Egli ci ha dato che ci fa dimorare in Dio e Lui in noi. Ora, questa mutua immanenza è opera della carità, lo Spirito Santo è quindi il Dio carità… ed è di Lui che parla singolarmente la Scrittura, quando essa dice: Dio è carità. Perciò lo Spirito Santo, Dio che procede da Dio, accende nell’anima a cui è stato dato la carità per Dio e per il prossimo, ed è Lui stesso Carità, perché è solo da Dio che viene nel suo cuore dell’uomo, l’amore che egli ha per Dio…. Perciò la Carità che è da Dio e che è Dio, è propriamente lo Spirito Santo che riversa nei nostri cuori la carità, cioè quell’amore di Dio per il quale tutta la Trinità abita in noi. Dilectio igitur quæ ex Deo est et Deus est, proprio Spiritus sanctus est, per quem diffunditur in cordibus nostris Dei charitas, per quam nos tota inhabitat Trinitas. Per questo lo Spirito Santo, pur essendo Dio, è giustamente chiamato Dono di Dio – Atti VIII, 20 – Questo dono divino va inteso come carità, quella carità che conduce a Dio e senza la quale nessun altro dono può condurci a Dio » (S. Aug., de Trin. XV, c. 17e18; n.31 e 32).

2. – Questo testo del grande Vescovo è prezioso. Infatti, dopo averci insegnato che lo Spirito Santo è personalmente Amore; e che attraverso questo Amore tutta la Trinità abiti in noi, ci spiega ancora, almeno in parte, il vero significato del ruolo attribuito in modo così costante allo Spirito Santo.  Lo Spirito Santo, inviato dal Padre e dal Figlio, dono comune del loro amore per gli uomini, attira Dio verso di noi ed attira noi stessi a Dio: questa è la sua funzione. Come si spiega questo? Questa spiegazione può essere data in diverse forme, tutte riconducibili alle caratteristiche ipostatiche dello Spirito Santo, come conseguenze del loro principio. Cominciamo con quella che ci offre l’Angelo della Scuola. È fondamentalmente la stessa che il grande Agostino ci ha appena suggerito. Il Dottore Angelico suppone due principi che abbiamo ampiamente dimostrato: il primo è che Dio non può essere separato né dai suoi effetti né dai suoi doni; il secondo è che le opere d’amore e soprattutto la carità, devono essere l’attributo dell’Amore personale, cioè dello Spirito Santo. Posto questo, ecco come egli ragiona: È necessario che dove c’è l’effetto di Dio, si trovi anche Dio, la causa efficiente. Pertanto, poiché la carità che ci fa amare Dio è in noi attraverso lo Spirito Santo, lo stesso Spirito Santo deve rimanere in noi finché manteniamo in noi la carità. Per questo l’Apostolo ha detto: Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito Santo abita in voi? (1 Cor. III. 16) Egli è in noi, io dico, per fare di noi, mediante la carità, gli amici (gli amanti, amatores) di Dio. Pertanto, poiché è legge dell’amore che l’oggetto amato sia in colui che lo ama, in quanto lo ama, è necessario che attraverso lo Spirito Santo abitino in noi sia il Figlio che il Padre. Per questo il Signore ha detto nel suo Vangelo: Noi verremo a lui, cioè a colui che ama Dio, e prenderemo dimora in lui (Gv. XIV, 23)… « Inoltre, è evidente che Dio ha un amore speciale per coloro che ha reso suoi amici per mezzo del suo Spirito, perché è solo amando che ha donato loro un bene così prezioso. Così leggiamo di Dio che ha detto: Io amo coloro che mi amano (Prov., VII, 8). Infatti, non siamo stati noi ad amare Dio per primi, ma è Lui che ci ha prevenuto con il suo amore (Gv. IV, 10). Ora, come abbiamo detto, ogni oggetto amato è in colui che lo ama. È quindi necessario che attraverso lo Spirito Santo non solo Dio sia in noi, ma che noi stessi siamo in Dio. Per questo è detto in S. Giovanni (I Giovanni IV, 13 e 16): « Colui che rimane nella carità, dimora in Dio e Dio in lui. » E ancora: « Questo è ciò che ci fa conoscere che noi rimaniamo in Lui e che Lui rimane in noi, è che Egli ci ha dato il suo Spirito » (San Thom., c. Gent., c. 21). Come abbiamo visto, tra tutti gli effetti della generosità divina, San Tommaso ha scelto in modo particolare la carità per farne il fondamento della sua interpretazione. Ma tutte le altre operazioni di Dio che si riferiscono all’ordine della grazia possono servire come punto di partenza per la spiegazione che è lo scopo delle nostre ricerche. È che tutti questi effetti, di qualunque natura e in qualunque forma, sono doni di Dio, che emanano dal suo amore, che tendono a perfezionare l’opera della nostra santificazione, che hanno come fine più o meno prossimo quello di unirci a Dio, che contribuiscono alla perfezione soprannaturale della natura intelligente e, di conseguenza, che sono di quelli che la legge di appropriazione ci obbliga a riferire allo Spirito Santo, poiché è l’Amore personale, la Virtù santificante, il Dono di Dio Altissimo, il Complemento della Trinità, l’unione eterna tra il Padre e il Verbo, il suo unico Figlio. Ora, ancora una volta, Dio non può essere separato né dai doni, né dai suoi effetti. Se, dunque, le operazioni che appartengono all’ordine della grazia sono l’attributo speciale dello Spirito Santo, è Lui che deve apparirci per primo in questa venuta di Dio che si conclude con l’inabitazione permanente. Un Padre del IV secolo, Didimo di Alessandria, che forse è meno conosciuto di quanto meriti, ha messo in grande luce questa verità. Anche lui, come tutti i Padri greci del tempo, si batte per la divinità dello Spirito Santo. « Non è – egli dice – una delle sostanze corporee, questo Spirito che abita nelle anime e nei corpi, l’Autore della sapienza e della conoscenza. Non lo classificheremo nemmeno tra le creature invisibili. Tutti questi esseri sono in grado di ricevere la saggezza, le virtù e la santità; ma Egli ne è la causa efficiente e produttiva. Sì, lo Spirito Santo è il santificatore immutabile: è Lui che dà la scienza divina ed ogni bene; diciamo meglio: Egli sussiste nei doni che la munificenza del nostro Dio ci concede. Perché là dove S. Luca e S. Matteo riferiscono lo stesso fatto evangelico, l’uno scrive: Quanto più il Padre celeste farà del bene a coloro che lo pregano (Mt. VII, 11), mentre l’altro dice: Quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che lo implorano (Lc. XI, 13): da questo è evidente che lo Spirito Santo è la pienezza dei doni di Dio: tanto che i doni non esistono senza di Lui, in quanto tutti i vantaggi che i doni liberalmente elargiti da Dio ci procurano, derivano da questa fonte. È evidente, dunque, che lo Spirito Santo sia distinto dalle creature corporee e anche da quelle spirituali, poiché le altre sostanze lo ricevono come una sostanza che le santifica; mentre Egli non riceve alcuna santità dall’esterno, essendo il dispensatore ed il Creatore di ogni santità » (Didyim., de Spirit. S., n. 4, P. Gr., t. 39, p. 1136). Così lo Spirito Santo è nelle grazie di santificazione e, attraverso di esse, nelle anime in cui Dio le riversa, perché ne è il primo Autore. Ma, poiché l’operazione di santificazione è comune alle tre Persone, così comune deve essere anche la presenza nelle anime santificate, benché l’una e l’altra siano particolarmente appropriate allo Spirito Santo. Comprendiamo ora come il Padre e il Figlio siano in noi per mezzo del loro Spirito divino. È la grazia che le fa ivi dimorare; è per mezzo delle operazioni santificanti che Essi vi giungono. (Suppl. L. III, c. 3 e 4). Ma poiché la grazia e tutto l’ordine di effetti ad essa collegati sono per appropriazione dello Spirito Santo, è anche necessario che affermiamo dallo stesso Spirito ciò che è inseparabilmente collegato a questa grazia. Così le altre due Persone sono in noi attraverso lo Spirito Santo, e questo Spirito divino, comunicandosi a noi, ci fa entrare nella partecipazione del Figlio e del Padre (Ci si può chiedere cosa dobbiamo concepire prima, se lo Spirito Santo presente nell’anima o il dono di grazia che Egli comunica. Ecco la soluzione data da San Tommaso: « L’ordine della natura tra diverse cose può essere considerato da diversi punti di vista. In primo luogo, dal punto di vista della materia o del soggetto che riceve; da questo punto di vista la disposizione precede ciò che si prepara a ricevere e, di conseguenza, noi riceviamo i doni dello Spirito Santo prima dello Spirito Santo stesso, poiché è attraverso la ricezione dei doni che noi gli siamo assimilati (e che Lui si unisce a noi). In secondo luogo, dal lato dell’agente e del fine: sotto questo aspetto la priorità appartiene allo Spirito Santo, perché il Figlio ci ha dato gli altri doni attraverso il suo amore (il primo dono). » – S. Thon, D. 14, q. 2, a ad ult. quæsit). – Un’ultima interpretazione, meno completa delle precedenti e tuttavia sufficiente a spiegare più di un testo dei Padri, emerge dall’ordine delle processioni divine. È noto che diversi Dottori d’Oriente, nella loro contemplazione di questo movimento immobile di vita divina da cui deriva la santa e indivisibile Trinità, amano considerare il Padre come una fonte infinitamente piena, che si riversa interamente nel Figlio, senza impoverirsi, e attraverso il Figlio nello Spirito Santo. Lì termina il flusso divino. Ma se la legge delle processioni richiede che la divinità non venga comunicata nella sua identità sostanziale ad altre persone, in modo da appartenere a loro a pieno titolo; perché ella è amore e bontà, l’amore infinito, la bontà sovrana, conserva per così dire un’inclinazione pressante a riversarsi ancora, non più in Dio, ma al fuori da Dio. Cosa farà il flusso divino per soddisfare questo bisogno di espansione? Si frammenterà, come un fiume la cui massa è fermata dalle dighe, almeno per gettare qualche getto delle sue acque schiumose. Dio non voglia che abbiamo questo pensiero della semplicissima e unica Essenza divina. Ma nella sua beata impotenza a diventare la natura di qualcuno che non sia né il Padre, né il Figlio, né lo Spirito Santo, può comunicare alle creature privilegiate una partecipazione di sé stessa; ed è quel che Essa fa quando ci dona la sua grazia e si unisce accidentalmente a noi con questa stessa grazia. Ora, poiché questa comunicazione divina proviene dall’amore e dalla bontà; essendo ancora una naturale ma libera continuazione del movimento eterno che porta l’Oceano della divinità dal Padre al Figlio e dal Figlio allo Spirito Santo, è giusto appropriarne la gloria a questo Spirito, l’Amore personale e l’ultimo termine delle processioni nel seno di Dio. Ho detto: appropriarne; perché, ancora una volta, si tratta di una comunicazione necessariamente comune a tutta la Trinità. – Parliamo delle cose divine in base alle nostre deboli concezioni e secondo il nostro linguaggio ancora più imperfetto. Al punto di partenza, vedo la prima fonte che riversa la sua pienezza in una seconda Persona, e il Padre solo produce il suo Verbo: e il Verbo è nel Padre e il Padre è nel suo Verbo. Nuovo movimento e nuova comunicazione; la pienezza, essendo passata in qualche modo dal Padre al Figlio senza lasciare il Padre, appartiene ora a due Persone divine. Di conseguenza, lo Spirito Santo, la terza Persona, procede allo stesso tempo dal Padre e dal Figlio come da un unico e medesimo principio; e il Padre e il Figlio sono nello Spirito Santo e lo Spirito è in loro, come essi sono in Lui. Poiché l’inclinazione della bontà sovrana la spinge a diffondersi di nuovo, ma al di fuori di Dio, sulla creatura ragionevole, per divinizzarla, non è forse vero che, poiché la pienezza appartiene per la legge stessa della vita divina alle tre Persone, Padre, Figlio e Spirito Santo, sono ora le tre Persone che, con un cuore comune e con un beneficio comune, fanno partecipare questa creatura alla loro pienezza e a se stesse? Tuttavia, la Persona dello Spirito Santo, essendo non solo per sua natura, ma in virtù della sua stessa proprietà, la bontà amorosa che si riversa sulla creatura divinizzata, è Lui che ci tocca per primo in queste comunicazioni ineffabili: è Lui in cui le altre due Persone sono unite e si donano a noi. « Il Padre è la fonte, il Figlio è il fiume e lo Spirito è ciò che noi beviamo. Ma bevendo lo Spirito beviamo Cristo e, attraverso Cristo, suo Padre » (S. Atanasio, ep. ad Serap. 1, n. 19, P. Gr. 26, p. 573).

3. – Ma se il Padre e il Figlio sono in noi attraverso lo Spirito Santo, Egli stesso viene a noi, perché è mandato da loro. … il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre mio manderà nel mio Nome, vi insegnerà ogni cosa, disse di Lui Nostro Signore ai suoi Apostoli (Joan, XIV, 26). E ancora: « Quando verrà il Paraclito (cioè il Consolatore), lo Spirito di verità che procede dal Padre e che io vi manderò dal Padre mio, testimonierà di me » (Gv. XV, 26). E più avanti ancora: « Ora vado da Colui che mi ha mandato. Ed è bene per voi che io me ne vada; perché se non me ne vado, il Consolatore non verrà a voi; ma se me ne vado, ve lo manderò… e quando lo Spirito di verità sarà venuto, vi insegnerà tutta la verità… » (Joan. XVI, 7, 13). Lo Spirito Santo viene in noi; è mandato dal Padre nel Nome del Figlio, e dal Figlio e dal Padre. Cosa significano queste espressioni e qual è la missione dello Spirito Santo? – La missione dello Spirito Santo è l’eterna processione di questo stesso Spirito che si manifesta con un effetto o un’operazione, in virtù del quale è presente in modo nuovo nella sua creatura ed inabita in essa. Noi sappiamo già perché lo Spirito Santo venga in noi e come vi dimori. Ma questa venuta dello Spirito è una missione: perché nel venire procede, esce, per così dire, dal Padre e dal Figlio, e per questo Essi lo mandano, quando viene. Come si può notare, due cose contribuiscono essenzialmente alla missione propriamente detta: la Persona inviata deve venire ad abitare in modo nuovo nella creatura ragionevole ed inoltre, deve trarre la sua origine da un’altra Persona. Pertanto, poiché il Figlio e lo Spirito Santo abitano in noi per grazia e procedono l’uno dal Padre, l’altro dal Padre e dal Figlio, entrambi hanno la loro missione invisibile. D’altra parte, il Padre, che non procede da nessuno, non può essere inviato, anche se viene con il Figlio e lo Spirito Santo a prendere dimora in noi, come nel suo tempio. – Ora, sebbene queste due missioni santificanti, la missione del Figlio e quella dello Spirito Santo, siano inseparabili, sono tuttavia distinte l’una dall’altra, « non nella radice della grazia, ma negli effetti della grazia », secondo l’osservazione del Dottore Angelico (S. Thom, I p., q. 43, a. 5, præsert., ad 3 e 2). Succede che gli effetti non manifestano allo stesso modo le proprietà ipostatiche dell’una e dell’altra Persona. L’effetto è un fuoco che si accende nel cuore e lo incendia con la carità divina? È lo Spirito Santo che si rivela come presente e come inviato. È uno di quei pensieri che vi coinvolgono, vi elevano, il seme e il principio del santo amore? Riconoscere la venuta del Verbo e la sua missione dal Padre: perché dal Verbo di Dio procede l’Amore eterno. Sebbene lo Spirito Santo non entri mai nelle anime senza che il Figlio vi sia stato inviato così come tale, la natura dell’appropriazione ci impone di vedere, nella produzione della grazia e negli incrementi che essa prende nel profondo dei cuori, una missione dello Spirito Santo, piuttosto che la discesa e l’invio del Figlio di Dio. Questo perché tali effetti, come abbiamo dimostrato attraverso la Sacra Scrittura ed i Padri, sono di attribuzione speciale dello Spirito divino; anche perché la nostra vita di grazia è rivelata incomparabilmente più dalla carità che dalla conoscenza, nella volontà più che nella ragione. È per questo che quando, nei primi tempi della Chiesa, a Dio piaceva mostrare visibilmente ciò che faceva invisibilmente nelle anime, i simboli esterni, strumenti di questa manifestazione che, pur essendo opera di tutta la Trinità, significavano direttamente solo la missione del suo Spirito divino (Atti II, VIII, X, ecc.).

LA GRAZIA E LA GLORIA (31)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (26)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (26)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Ultimo ritiro di “Laudem Gloria,, (I.) (*)

« Il mio sogno è di essere

la lode della

sua gloria ».

Giovedì, 16 agosto 1906.

(*) Se si vuol conoscere il pensiero più profondo di suor Elisabetta della Trinità, bisogna ricorrere al suo « Ultimo ritiro ». Essa stessa lo intitolò: « L’ultimo ritiro di Laudem gloriæ », ed è, per così dire, la sua piccola somma mistica, la quintessenza della sua dottrina spirituale nel momento più elevato della sua esperienza mistica. È un vero trattato dell’unione trasformante, quale la concepiva nella linea della sua vocazione suprema di « lode di gloria », e quale interiormente la viveva. E, in esso, lascia un programma di vita a tutte le « lodi di gloria » che più tardi vorranno seguirla nella via di una santità interamente dimentica di sé e tutta orientata verso la gloria purissima della Trinità.

Primo Giorno

« Nescivi »

« Nescivi. Non seppi più nulla » (Cntica; VI, 2): ecco ciò che canta la sposa dei sacri cantici dopo essere stata introdotta nella cella interiore; e questo, mi sembra, dovrebbe essere il ritornello del canto di una « lode di gloria » in questo primo giorno di ritiro in cui il Maestro la fa penetrare sino in fondo all’abisso insondabile, per insegnarle a compiere quell’ufficio che sarà suo per l’eternità, e nel quale già deve esercitarsi nel tempo, che è l’eternità incominciata, ma in continuo progresso. « Nescivi »: non so più nulla, non voglio sapere più nulla, fuorché « la cognizione di Lui, la partecipazione ai suoi dolori, la conformità alla sua morte » (Fil. III, 10). « Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del suo divin Figlio » (Rom. VIII, 29), il Crocifisso per amore. Quando sarò perfettamente conforme a questo divino Esemplare, quando sarò tutta in Lui ed Egli in me, allora adempirò la mia vocazione eterna, quella per la quale Dio in Lui mi elesse « in principio », quella che proseguirò « in æternum » quando, inabissata nel seno della Trinità, sarò l’incessante lode della sua gloria: « laudem gloriæ eius » (Efes. I, 12). « Nessuno ha veduto il Padre, ci dice san Giovanni, se non il Figlio e coloro ai quali è piaciuto al Padre di rivelarlo » (San Giov. VI, 46); e mi pare che si possa soggiungere: Nessuno ha saputo capire il mistero di Cristo nella sua profondità, se non la Vergine santa. Giovanni e la Maddalena sono penetrati molto addentro in questo mistero; san Paolo parla spesso dell’« intelligenza » (Efes. III, 4) che gliene è stata data; eppure, come rimangono nell’ombra tutti i Santi, quando si pensa alla chiarezza interiore della Vergine!… Essa è inenarrabile. Il segreto che « Maria custodiva e meditava nel suo cuore » (San Luca, II, 19) nessuna lingua ha potuto mai rivelarlo, nessuna penna esprimerlo. Questa Madre di grazia formerà l’anima mia, farà sì che la sua figliolina sia un’immagine vivente, « eloquente », del suo « Primogenito » (San Matteo, I, 25), il Figlio dell’Eterno, Colui che fu la perfetta lode di gloria del Padre suo.

Secondo Giorno

« Nel silenzio delle potenze »

« L’anima mia è sempre nelle mie mani» (Salmo CXVIII, 109): è l’intimo canto dell’anima del mio Maestro; ed ecco perché in mezzo a tutte le angosce, Egli rimaneva sempre il Calmo, il Forte. « Porto sempre l’anima mia fra le mie Mani »: che cosa significano queste parole, se non il pieno dominio di sé, in presenza del Pacifico? Vi è un altro canto di Cristo che vorrei incessantemente ripetere: « Per te custodirò la mia fortezza » (Salmo LVIII, 10). E la mia Regola mi dice: « La tua fortezza sarà nel silenzio » (Isaia, XXX, 15). Dunque, serbare la propria fortezza per il Signore mi pare che significhi fare l’unità del nostro essere per mezzo del silenzio interiore; raccogliere tutte le proprie potenze per applicarle al solo esercizio dell’amore, avere quell’occhio semplice che permette alla luce di irradiarci. – Un’anima che scende a patti col proprio io, che si occupa delle sue sensibilità, che va dietro a un pensiero inutile, a un desiderio qualsiasi quest’anima disperde le proprie forze; non è concentrata in Dio. La sua lira non vibra all’unisono; e quando il divin Maestro la tocca, non può trarne armonie divine. Vi è ancora troppo di umano, e si produce una dissonanza. L’anima che si riserba ancora qualche cosa nel suo regno interiore, e le cui potenze non sono « tutte raccolte » in Dio, non può essere una perfetta lode di gloria; essa non è in grado di cantare ininterrottamente il « canticum magnum » di cui parla san Paolo, perché in lei non regna l’unità. E, invece di proseguire la sua lode attraverso tutte le cose, in semplicità, bisogna che si affanni continuamente a radunare le corde del suo strumento. Nel silenzio delle potenze  a disperse un po’ da per tutto. – Come è indispensabile questa bella unità interiore all’anima che vuol vivere quaggiù la vita dei beati, cioè degli esseri semplici, degli spiriti! Mi pare che proprio a questa unità mirava il Maestro divino quando parlava alla Maddalena dell’ « unum necessarium » (San Luca, X, 42). E come lo aveva compreso bene la grande santa! L’occhio dell’anima sua illuminato dalla fede aveva riconosciuto il suo Dio sotto il velo dell’umanità e, silenzio, nell’unità delle potenze, ascoltava la ch’Egli le diceva. Poteva veramente cantare: « Porto sempre l’anima mia nelle mie mani »; e soggiungere la breve parola: « Nescivi ». Sì, ella non sapeva più niente altro che Lui. Potevano far rumore, potevano agitarsi intorno a lei: « Nescivi! ». Potevano accusarla: « Nescivi! ». Nemmeno le ferite recate al suo onore erano capaci, più delle cose esteriori, di farla uscire dal suo sacro silenzio. – Così è dell’anima entrata nella fortezza del santo raccoglimento. Con l’occhio aperto alle chiarezze della fede, scopre il suo Dio presente, vivente in lei; ed ella a sua volta, si tiene così fedelmente presente a Lui nella sua bella semplicità, che Egli la custodisce con cura gelosa. Possono sopraggiungere le agitazioni esterne, le interne tempeste; può venire intaccato il suo onore: « Nescivi! ». Dio può celarsi, può sottrarle la Sua grazia sensibile: « Nescivi! ». E, con san Paolo, esclama: « Per suo amore, ho tutto perduto » (Fil. III, 8). Allora il Signore è libero, libero di effondersi, di donarsi, « a suo beneplacito » (Efes.IV, 7); e l’anima, così semplificata e unificata, diviene il trono dell’Immutabile. Perché l’unità è il trono della Trinità santa.

Terzo Giorno

Alla presenza di Dio

« Stiamo stati predestinati, per disposizione di Colui che compie ogni cosa secondo il consiglio della sua volontà, affinché siamo la lode della sua gloria » (Efes, I, 11-12). San Paolo ci partecipa questa divina elezione, egli che tanto profondamente penetrò nel « segreto celato nel cuore di Dio dall’eternità » (Efes. III, 9). Ed ora egli stesso ci illumina su questa vocazione alla quale siamo stati chiamati: « Dio — egli dice — ci ha eletti in Sé prima della creazione, affinché siamo immacolati e santi al suo cospetto, nella carità » (Efes. I, 4). Se accosto fra loro queste due enunciazioni del piano divino, « eternamente immutabile », posso concludere che, per compiere degnamente il mio ufficio di « laudem gloriæ », devo tenermi in mezzo a tutto e nonostante tutto, « alla presenza di Dio »; l’Apostolo ci dice: « in caritate », cioè in Dio; « Deus caritas est » (San Giovanni, IV, 8): e il contatto con l’Essere divino mi renderà « immacolata e santa » ai suoi sguardi. Tutto questo lo riferisco alla bella virtù della semplicità, della quale un pio autore ha scritto che « dà all’anima il riposo dell’abisso », cioè il riposo in Dio, abisso insondabile, preludio ed eco di quel sabato eterno di cui parla san Paolo: « Noi che abbiamo creduto saremo introdotti in questo riposo » (Ebrei, IV-3). I beati godono questo riposo dell’abisso, perché contemplano Dio nella semplicità della sua Essenza. « Essi lo conoscono come sono conosciuti » da Lui, cioè con lo sguardo semplice della visione intuitiva, ed ecco perché, continua il grande Santo, « sono trasformati di luce in luce, dalla potenza del suo Spirito, nella immagine di Lui » (         II Corinti, III, 18), divenendo così incessante lode di gloria dell’Essere divino che contempla in essi il proprio splendore. – Mi pare che daremmo una gioia immensa al cuore di Dio, se ci esercitassimo, nel cielo dell’anima nostra, in questa occupazione dei beati, e a Lui aderissimo mediante quella contemplazione semplice che riavvicina la creatura a quello stato d’innocenza nel quale Dio l’aveva creata. « A sua immagine e somiglianza » (Gen. I, 26); tale fu il sogno del Creatore: potersi contemplare nella sua creatura, vedere irradiate in essa tutte le sue perfezioni, tutta la sua bellezza, come attraverso un cristallo limpido e terso; non è questa una specie di estensione della sua propria gloria? Per la semplicità dello sguardo col quale fissa il suo Oggetto divino, l’anima si trova separata da tutto quanto la circonda, separata anche e soprattutto da se stessa; allora essa risplende della « cognizione della chiarezza di Dio» (II Cor. III, 18), perché permette all’Essere divino di riflettersi in lei, e tutti i Suoi attributi le sono comunicati. Quest’anima è veramente la lode di gloria di tutti i suoi doni; e in ogni occupazione, anche le più ordinarie, canta il canticum magnum, il canticum novum che fa trasalire il cuore di Dio fin nelle sue profondità. Possiamo ripetere con Isaia: « La tua luce si leverà nelle tenebre, e le tenebre diverranno come il pieno giorno; il Signore ti farà godere un perenne riposo, inonderà la tua anima dei suoi splendori, fortificherà le tue ossa, e tu sarai come un giardino sempre irrigato, come una fontana le cui acque non si esauriscono mai… Ti eleverò al sopra di quanto c’è di più elevato in questo mondo » (Isaia, LVIII, 10 – 14).

Quarto Giorno

Ecco la fede

Ieri Paolo, sollevando un poco il velo, mi permetteva di spingere lo sguardo « nell’eternità dei santi, nella luce » (Col. I, 12), perché io vedessi  la loro occupazione e procurassi, quanto è possibile, di conformare la mia vita alla loro, per adempiere il mio ullicio di « laudem gloriæ ». Oggi san Giovanni, il discepolo che amava, mi schiude le « porte dell’eternità » (Salmo XXIII, 7) perché l’animamia possa nella santa « Gerusalemme, dolce visione di pace (Ufficio della Dedicazione). E, prima di tutto, mi dice che « nonha bisogno di luci, la città,perché lo splendore di Dio la illumina e sua luce è l’Agnello » (Apoc. XXI, 23). Ora, se voglio che la mia città interiore abbia qualche tratto di conformità e di somiglianza con quella del Re immortale dei secoli e riceva la grande irradiazione di Dio, bisogna che io estingua ogni altra luce e che l’Agnello ne sia l’unica face. Ed ecco, mi appare la fede, la bella luce della fede; questa sola deve illuminarmi per andare incontro alle Sposo. Il Salmista canta che « Egli si occulta nelle tenebre » (Salmo XVII, 12); poi, in un altro punto, sembra contraddirsi dicendo: « la luce lo avvolge come una veste » (Salmo CIII, 2). L’insegnamento che per me risulta da questa contraddizione apparente è che devo immergermi nella «sacra tenebra », facendo la notte e il vuoto in tutte le mie potenze. Allora incontrerò il mio Signore, e la luce che lo avvolge come una veste avvolgerà me pure, perché Egli vuole che la sposa sia luminosa della Sua luce, della sola Sua Luce, « ed abbia la chiarezza di Dio » (Apoc. XXI, 11). – Si dice di Mosè che « era incrollabile nella sua fede come se avesse veduto l’Invisibile » (Ebr. XI, 27). Mi pare che tale debba essere la disposizione di una lode di gloria che vuol proseguire, malgrado tutto, il suo inno di ringraziamento: « incrollabile nella sua fede, come se avesse visto l’Invisibile », incrollabile nel credere all’« eccessivo amore ». .. « Abbiamo conosciuto la carità di Dio per noi, e vi abbiamo creduto » (I S. Giovanni, IV, 16). « La fede, dice san Paolo, è sostanza delle cose che speriamo e convinzione di quelle che non ci è dato vedere » (Ebr. XI, 27). Raccolta nella luce che accende in lei questa parola, che cosa importa ormai all’anima sentire o non sentire, essere nella notte o nella luce, godere o non godere? Ella si vergogna, quasi, di fare tali distinzioni; e quando sente di non saper rimanere nell’indifferenza, si disprezza profondamente per il suo poco amore, e rivolge subito lo sguardo al suo Maestro divino per farsi liberare da Lui. « Essa lo esalta — secondo l’espressione di un grande mistico — sulla cima più elevata della montagna del suo cuore », al di sopra, cioè, delle dolcezze e delle consolazioni che da Lui emanano, perché è risoluta a tutto superare per unirsi a Colui che ama. Mi sembra che a quest’anima che possiede una sì grande fede nel Dio-Amore, si possano rivolgere le parole del Principe degli Apostoli: «Voî, che credete, sarete ripieni di un gaudio immutabile e sarete glorificati » (I S. Pietro, IV, 16).

Quinto Giorno

Sulla via del Calvario

« Vidi una grande moltitudine che nessuno poteva enumerare ». Chi sono mai? « Sono coloro che vengono dalla grande tribolazione, che hanno lavato e reso candide le loro stole nel Sangue dell’Agnello; per questo, stanno dinanzi al trono di Dio e Lo servono dì e notte nel suo tempio; e Colui che è assiso sul trono abiterà in essi. Non avran più fame né sete, non li colpirà il sole né ardore alcuno, perché l’Agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti dell’acqua viva; e Dio asciugherà ogni lacrima dei loro occhi » (Apoc. VII, 9-17). Tutti questi eletti che hanno in mano la palma e che sono bagnati dalla grande luce di Dio, hanno dovuto passare prima per la grande tribolazione, conoscere il dolore « immenso come il mare » (Lam. II, 13) cantato dal Profeta. Prima di « contemplare svelatamente la gloria del Signore » (II Cor. III, 18), essi hanno partecipato agli annientamenti del suo Cristo; prima « di essere trasformati di chiarezza in chiarezza nell’immagine dell’Essere divino » (Ibid.), sono stati conformi all’immagine del Verbo Incarnato, Crocifisso per amore. L’anima che vuol servir Dio notte e giorno nel suo tempio, cioè in quel santuario interiore del quale parla san Paolo quando dice: « Il tempio di Dio è santo, e questo tempio siete voi » (I Cor. III, 18), quest’anima deve essere risoluta di partecipare realmente alla passione del suo Signore. Essa è una riscattata che deve a sua volta riscattare altre anime; e canterà perciò sulla sua lira: « Io mi glorio della croce di Gesù Cristo (Gal. VI, 14) …Con Cristo, sono confitta alla croce…» (GA. II, 19) ed ancora: «Do compimento, nella mia carne, a ciò che manca alla passione di Cristo, per il corpo di Lui, che è la Chiesa » (Col. I, 24). « Alla tua destra sta la Regina» (Salmo XLIV, 19): tale è l’atteggiamento di quest’anima. Essa procede sulla via del Calvario alla destra del suo Re crocifisso che, annientato, umiliato, eppure così forte, calmo e pieno di maestà, va alla sua passione, per far risplendere « la gloria della sua grazia » (Efes. I, 6), secondo l’espressione così forte di san Paolo. Ed Egli vuole associare la sua sposa all’opera di redenzione; ma la via dolorosa in cui la fa camminare sembra alla sposa la via della beatitudine, non solo perché alla beatitudine conduce, ma ancora perché il Maestro santo le fa comprendere che deve superare quello che vi è di amaro nel dolore, per trovarvi, come Lui, il suo riposo. Allora, può veramente servire Dio « notte e giorno nel Suo tempio »; le prove interne ed esterne non possono farla uscire dalla santa fortezza in cui Egli l’ha rinchiusa; non ha più « né fame né sete » perché, malgrado il suo struggente desiderio che fu quello del suo Maestro divino: la volontà del Padre; non sente più « il sole che su lei dardeggia », cioè non soffre più di soffrire; « e l’Agnello può condurla, ora, alle sorgenti della vita », come Egli vuole, come gli pare, perché lei non guarda per quali sentieri passa, ma tiene fisso lo sguardo semplicemente sul Pastore che la guida. Dio, chinandosi su quest’anima, sua figlia adottiva, così conforme all’immagine del suo « Figlio primogenito fra tutte le creature » (Col. I, 15), la riconosce per una di quelle da Lui « predestinate, chiamate, giustificate »; ed esulta nelle sue viscere di Padre, pensando di consumare la opera sua, cioè di glorificarla, trasferendola nel suo regno, perché vi canti, nei secoli senza fine, la « lode della sua gloria ».

29 SETTEMBRE: DEDICAZIONE DI S. MICHELE ARCANGELO

29 SETTEMBREDEDICAZIONE DI SAN MICHELE, ARCANGELO

Oggetto della festa.

La dedicazione di S. Michele è la festa più solenne che la Chiesa celebra nel corso dell’anno in onore di questo Arcangelo, e tuttavia lo riguarda meno personalmente perché vi si onorano tutti i cori della gerarchia angelica. Nell’inno dei primi Vespri la Chiesa propone alla nostra preghiera l’oggetto della festa di oggi con le parole di Rabano Mauro, abate di Fulda: Celebriamo con le nostre lodi Tutti i guerrieri del cielo, Ma soprattutto il capo supremo Della milizia celeste: Michele che, pieno di valore, Ha abbattuto il demonio (Seguiamo la versione antica del Breviario monastico, non quella del Breviario romano, ritoccata da Urbano VIlI).

Origine della festa.

La festa dell’otto maggio richiama il ricordo dell’apparizione al monte Gargano e nel Medioevo si celebrava soltanto nell’Italia del Sud. La festa del 29 settembre è propria di Roma e segna l’anniversario della Dedicazione di una basilica, oggi scomparsa, che sorgeva sulla via Salaria, a Nord-Est della città. Il fatto della dedicazione spiega il titolo conservato alla festa nel Messale Romano: Dedicatio sancti Michaèlis. Le Chiese di Francia e Germania, che nel Medioevo seguivano la liturgia romana, hanno attenuato spesso nei loro libri liturgici il titolo originario della festa, che venne presentata come festa In Natale o In Veneratione sancti Michaèlis, così che dell’antico titolo non restava altro che il nome dell’Arcangelo.

L’ufficio di san Michele.

Anche l’Ufficio non poteva conservare il ricordo della dedicazione. Infatti gli antichi Uffici relativi alle dedicazioni celebravano il santo in onore del quale la chiesa era consacrata e non l’edificio materiale in cui egli era onorato; non avevano perciò niente di impersonale e rivestivano anzi un carattere molto circostanziato. L’Ufficio di san Michele può essere considerato una delle più belle composizioni della nostra liturgia e ci fa contemplare ora il principe delle milizie celesti e capo degli angeli buoni, ora il ministro di Dio, che assiste al giudizio dell’anima di ogni defunto, ora ancora l’intermediario, che porta sull’altare della liturgia celeste le preghiere dell’umanità fedele.

L’Angelo turiferario. I primi Vespri cominciano con l’Antifona Stetit Angelus, che deriva il testo dall’Offertorio della Messa del giorno: « Un angelo stava presso l’altare del tempio e aveva un incensiere in mano: gli diedero molto incenso e il fumo profumato si elevò fino a Dio ». L’Orazione della benedizione dell’incenso alla Messa solenne designa il nome di questo angelo turiferario: « Il beato Arcangelo Michele ». Il libro dell’Apocalisse dal quale son presi i testi liturgici ci spiega che i profumi, che salgono alla presenza di Dio sono le preghiere dei giusti: « Il fumo degli aromi formato dalle preghiere dei santi salgono dalla mano dell’angelo davanti a Dio » (Apoc. 8, 4).

Il Mediatore della Preghiera eucaristica.

È ancora Michele che presenta al Padre l’offerta del Giusto per eccellenza ed Egli infatti è designato nella misteriosa preghiera del Canone della Messa in cui la santa Chiesa chiede a Dio di portare sull’altare sublime, per mano dell’Angelo Santo, l’oblazione sacra in presenza della divina Maestà. È cosa molto sorprendente notare negli antichi testi liturgici romani che san Michele è sovente chiamato l’Angelo Santo, l’Angelo per eccellenza. Probabilmente sotto il pontificato di Papa Gelasio fu compiuta la revisione del testo del Canone nel quale l’espressione al singolare Angeli tui fu sostituita con quella al plurale Angelorum tuorum. Proprio a quell’epoca, sul finire del v secolo, l’Angelo era apparso al vescovo di Siponto, presso il Monte Gargano.

Vocazione contemplativa degli Angeli.

Come si vede la Chiesa considera san Michele mediatore della sua preghiera liturgica; egli è posto tra l’umanità e la divinità. Dio, che dispose con ordine ammirabile le gerarchie invisibili (Colletta della Messa) impiega, per opulenza, a lodare la sua gloria il ministero degli spiriti celesti, che contemplano continuamente l’adorabile faccia del Padre (Finale del Vangelo della Messa) e, meglio che gli uomini, sanno adorare e contemplare la bellezza delle sue infinite perfezioni. Mi-Ka-El: Chi è come Dio? Il nome esprime da solo, nella sua brevità, la lode più completa, la più perfetta adorazione, la riconoscenza totale per la trascendenza divina e la più umile confessione della nullità delle creature. Anche la Chiesa della terra invita gli spiriti a benedire il Signore, a cantarlo, a lodarlo e esaltarlo senza soste (Introito, Graduale, Communio della Messa; Antifona dei Vespri). La vocazione contemplativa degli Angeli è modello della nostra e ce lo ricorda un bellissimo prefazio del Sacramentario leoniano: « È cosa veramente degna… rendere grazie a Te, che ci insegni, per mezzo del tuo Apostolo, che la nostra vita è trasferita in cielo, che, con benevolenza comandi, di trasportarci in spirito là dove quelli che noi veneriamo servono e di tendere verso le altezze, che nella festa del beato Arcangelo Michele contempliamo nell’amore, per il Cristo nostro Signore ».

Aiuto dell’umanità.

La Chiesa sa pure che a questi spiriti consacrati al servizio di Dio è stato affidato un ministero al fianco di coloro, che devono raccogliere l’eredità della salvezza (Ebr. I, 14). Senza attendere la festa del 2 ottobre, dedicata in modo speciale agli Angeli custodi, la Chiesa già oggi chiede a san Michele e ai suoi Angeli di difenderci nei combattimenti che dobbiamo sostenere (Alleluia della Messa; Preghiera ai piedi dell’altare dopo l’ultimo Vangelo). Chiede ancora a san Michele di ricordarsi di noi e di pregare per noi il Figlio di Dio, perché  nel giorno terribile del giudizio non abbiamo a perire. Nel giorno terribile del giudizio il grande Arcangelo, vessillifero della milizia celeste, difenderà la nostra causa davanti all’Altissimo (Antif. Del Magnificat ai secondi Vespri) e ci farà entrare nella luce santa (Offertorio della Messa dei defunti).

Preghiera.

Da questa terra, nella lotta contro le potenze del male, possiamo rivolgere all’Arcangelo la preghiera di esorcismo che Leone XIII inserì nel rituale della Chiesa Romana: « Principe gloriosissimo della celeste milizia, san Michele Arcangelo, difendici nel combattimento contro le forze, le potenze, i capi del mondo delle tenebre e contro lo spirito di malizia. Vieni in soccorso degli uomini, che Dio ha fatti a sua immagine e somiglianza e riscattati a duro prezzo dalla tirannia del diavolo. » La Santa Chiesa ti venera come custode e patrono; Dio ti ha confidato le anime redente per portarle alla felicità celeste. Prega il Dio della pace, perché schiacci satana sotto i nostri piedi, per strappargli il potere di tenere gli uomini in schiavitù e di nuocere alla Chiesa. Offri le nostre preghiere all’Altissimo perché  sollecitamente scendano su noi le misericordie del Signore e il dragone, l’antico serpente, chiamato diavolo e satana, sia precipitato, stretto in catene, nell’abisso, perché non possa più sedurre i popoli »

[Dom Gueranger: l’anno Liturgico. Ed. Paroline, Alba, 1957]

LA GRAZIA E LA GLORIA (29)

LA GRAZIA E LA GLORIA (29)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO VI.

LA NOSTRA FILIAZIONE NEL SUO RAPPORTO CON LA TERZA PERSONA DELLA TRINITÀ

CAPITOLO III

Conseguenze dei caratteri personali. – Lo Spirito Santo è la causa della nostra adozione.

I. – All’adozione dei figli di Dio contribuiscono essenzialmente due elementi: la grazia creata e la Grazia increata; in altre parole, la partecipazione finita alla natura divina con i privilegi che ne derivano e la sostanziale dimora di Dio nell’anima santificata. Ora, se c’è una verità evidente, è che il beneficio dell’adozione, considerato sia in se stesso, sia nei suoi principi costitutivi, è singolarmente attribuito allo Spirito Santo dalle Scritture e dagli interpreti della rivelazione. Quando io interrogo i nostri santi Libri per domandare loro chi ci abbia formato ad immagine del Figlio eterno, chi ci abbia costituiti figli per adozione del Padre, essi hanno una sola risposta: lo Spirito Santo! È lo Spirito Santo che grida in noi, cioè che ci dà il potere di dirci in tutta verità, figli e non più schiavi: Abbà, Padre (Gal, IV, 6-7; Rm VIII, 15); Colui che si unisce alla nostra anima ci fa agire come figli di Dio; Colui la cui intima presenza e operatività testimonia al nostro spirito che non portiamo invano questo titolo glorioso (Rm VIII, 14, 16); Colui il cui possesso ci fa conoscere che abitiamo in Dio e che Dio abita in noi (Joan. V, 13). Tutta la Tradizione fa eco ai Libri Sacri su questo punto. I testi si presenterebbero in abbondanza, se fosse necessario portarli a sostegno di una verità così evidente. Chi non sa, ad esempio, quante volte, parlando del Battesimo, si rappresenta lo Spirito di Dio portato sulle acque, come nei primi giorni del mondo, per fecondarle e infondere loro la virtù di produrre i figli di Dio? È per uno scopo simile che ci mostra lo Spirito Santo che scende sotto forma di colomba al battesimo di Gesù Cristo, non ovviamente per santificarlo, ma per rappresentare ciò che farà nelle membra di Cristo nel Sacramento della loro rinascita e adozione. È impossibile non riconoscere in tutti questi testi e in altri simili un meraviglioso parallelo tra la generazione temporale del Figlio per natura e la nascita spirituale dei figli adottivi. « Come potrà avvenire ciò? Come potrò io, la cui verginità non conosce uomo, diventare la madre del mio Dio? » Questa fu la domanda che la divina Maria pose all’Angelo. E Gabriele le rispose: « lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra » (Lc 1, 34-35). Come può rinascere un uomo già vecchio – si chiede Nicodemo, il fariseo a cui Gesù Cristo predica la rigenerazione spirituale dei figli adottivi? E Gesù gli risponde: « In verità, in verità nessuno può entrare nel regno di Dio se non nasce da acqua e da Spirito Santo » (Gv., III. 4-5. Cfr. L. I, c. 2.): dall’acqua, come causa strumentale e secondaria; dallo Spirito Santo, come causa principale e sovrana. – Ho letto in alcuni antichi Dottori, e in particolare in Sant’Ireneo, che lo Spirito di Dio è « il seme vivo e vivificante del Padre » (Sant’Ireneo, de Hæres, L. IV, c. 31, n. 2 P. Gr. t. 7, p. 1069). Una figura audace, di fronte alla quale quasi tutti i Padri che sono venuti dopo di lui sembrano aver indietreggiato, forse per paura dell’abuso che se ne potesse fare. In ogni caso, purché depurato da tutto ciò che potrebbe essere materiale, esso rende felicemente il duplice ruolo dello Spirito di Dio nella concezione del Verbo fatto uomo e nella formazione degli altri figli adottivi, le sue copie e i suoi fratelli (S. Jean Damasc., de F. Orthod., L. III, c. 2: P. Gr. t. 7, p. 985, col. S. Thom. P., q. 32, a. 2, ad 3; S. Thom, 3. p:, q. 32, a. 2, ad 2). In entrambi i casi, è la virtù fecondante dello Spirito di Dio che opera, là nel grembo della Vergine, qui nel grembo delle acque, secondo un paragone più volte usato dalla Chiesa. – Non mi dilungherò oltre su questo parallelo. Quanto ho detto è più che sufficiente, non solo per mostrarci nello Spirito Santo l’autore e la fonte della nostra adozione, ma anche per insegnarci il significato di questa formula. L’analogia, direi quasi l’identità delle espressioni, ci avverte a sufficienza che definire l’analogia, direi quasi l’identità delle espressioni, ci avverte abbastanza che definire il ruolo dello Spirito Santo nel concepimento del Dio-Uomo significa anche dare una comprensione di ciò che Egli sia nella nostra nascita soprannaturale.

2. – Ora, cosa ci insegna la teologia sul significato di questa formula del simbolo o di altre equivalenti: « Concepito di Spirito Santo? » Lo Spirito Santo è il principio che, unendosi all’umanità del Salvatore, costituirebbe formalmente il Dio fatto uomo? – Sarebbe un’eresia crederlo, e non c’è nulla nei testi che permetta una simile interpretazione. Vogliamo dire, almeno, che l’operazione che Nostro Signore formò nel sacro grembo della Vergine, fosse l’operazione propria e personale dello Spirito Santo? No ancora: perché la fede ci insegna che le operazioni esterne di Dio, di qualunque natura, e qualunque effetto producano, sono comuni alle tre Persone divine. « Il Padre mio – rispondeva Gesù ai farisei ipocriti e invidiosi che gli rimproveravano di violare il sabato con le sue opere miracolose – il Padre mio opera sempre e anch’io opero. Tutto ciò che il Padre fa, il Figlio lo fa come lui. » (Joan. V, 17-19). Uno stesso Dio può avere una sola natura, una sola volontà, una sola potenza e, di conseguenza, una sola azione indivisibile. – E allora perché attribuiamo così costantemente allo Spirito Santo ciò che non è affatto suo come principio formale, né di Lui solo come causa efficiente? È qui che dobbiamo fare riferimento alle leggi di appropriazione. Senza dubbio, l’operazione misteriosa che formerà l’umanità del Salvatore e lo unirà sostanzialmente al Verbo eterno, non è di una Persona a sé stante. Ma questa operazione, per quanto comune, presenta una particolare affinità e speciali analogie con le proprietà di questo Spirito divino; ed è questo il fondamento dell’appropriazione. Diamo ancora una volta la parola al dottore Angelico. Dopo aver dichiarato che il concepimento del corpo di Nostro Signore è opera di tutta la Trinità, considera tre ragioni principali che ci obbligano ad attribuirlo singolarmente allo Spirito Santo (S. Thom., 3 p., q. 32, a. 1. Cfr. Leon. XIII, Encycl. Divinum, 1897). È necessario tradurli quasi per intero, poiché, riportandoli, daremo così ciò che rende il mistero dell’adozione appropriato allo stesso Spirito. – « Ciò che richiede questa appropriazione, dice, è innanzitutto la causa dell’Incarnazione, considerata dal lato di Dio. Perché lo Spirito Santo è personalmente l’amore del Padre e del Figlio. Ora, l’incarnazione del Figlio di Dio, nel grembo purissimo della Vergine, è eccellentemente un’opera d’amore, perché il Salvatore stesso ha detto nel suo Vangelo: Dio ha tanto amato il mondo da dargli il suo unico Figlio (Joan. III, 16). Ciò che ancora la richiede è la causa dell’Incarnazione, considerata dal lato della natura che il Verbo ha fatto sua. Infatti, da questo impariamo che, se l’umanità del Salvatore è entrata nell’unità della sua Persona, non è stato per merito suo, come alcuni eretici hanno sognato, ma per semplice liberalità, per pura bontà. Non è forse allo Spirito Santo, il Dono sostanziale di Dio, che la Scrittura attribuisce tutta la grazia, secondo le parole dell’Apostolo: c’è grande diversità di grazie, ma non c’è che uno stesso Spirito. (I Cor., XII, 4). Infine, ciò che la richiede è l’Incarnazione, considerata dal punto di vista del suo fine: perché si stava facendo l’uomo, concepito dalla Vergine Maria, il Santo per eccellenza e il Figlio eterno del Padre. Ora, la terza Persona della Trinità non è forse lo Spirito Santo, lo Spirito di santificazione (Rom. I, 4; Luca, I, 35)? Vediamo che è attraverso i tre caratteri personali che abbiamo studiato nello Spirito Santo, e per la triplice relazione del mistero con questi stessi caratteri, che il Dottore Angelico dà conto dell’appropriazione allo Spirito Santo di un’opera essenzialmente comune alle tre Persone. – Cosa serve perché le stesse considerazioni ci facciano intendere come e perché l’opera di adozione sia singolarmente affermata dallo Spirito Santo? Basta cambiare semplicemente i termini. Anch’essa è opera dell’amore (Bossuet, Meditazione sul Vangelo, Serm. Sulla montagna, 22° giorno); anch’essa previene ogni merito; anch’essa conduce direttamente alla vita soprannaturale dell’adottato, cioè alla santità, Aggiungiamo che è il più alto complemento della natura razionale e che, di conseguenza, anche da questo punto di vista, ha la sua speciale affinità con Colui che ci è apparso come l’ultima perfezione della Trinità, il sigillo delle processioni divine. – Ci sono forse alcuni per i quali questa idea di appropriazione è poco più di una parola, vuota di significato, incapace di fornire una spiegazione dei fatti e dei testi che si vogliono interpretare a suo aiuto. Ma immagino che lo giudicherebbero in modo molto diverso, se avessero meditato a sufficienza su ciò che essa implichi e su ciò che essa contenga. Non è dunque nulla dire dello Spirito Santo che abbia, nella sua proprietà personale, delle ragioni particolari per essere considerato l’autore della nostra adozione; titoli che le altre Persone non possiedono in virtù del loro carattere ipostatico e, di conseguenza, un diritto singolare di rivendicare per sé tutto ciò che contribuisce a renderci figli adottivi di Dio? Ed ecco ciò che è per gli Scolastici e per noi, l’appropriazione. – È quindi facile comprendere perché le Sacre Scritture, e la Chiesa dopo di esse, volendo darci una qualche comprensione delle misteriose proprietà dello Spirito divino affermano specialmente di Esso ciò che di sua natura è opera comune di tutta la Trinità. Possiamo anche intravvedere quale significato dobbiamo dare sia a queste espressioni, sia ad altre dello stesso tipo, che citiamo nel primo libro: « Ogni creatura (santificata) diventa partecipe del Verbo nello Spirito Santo: è attraverso lo Spirito che partecipiamo alla natura divina… è attraverso di Lui  che siamo rinnovati. (S. Atanasio, ad Serap., cp. 1, n. 22-24, P. Gr., t. 26, p. 582, ss.); attraverso di lui il Cristo è formato in noi (S. Cirillo, de Trinit, Dial. VIII, t. cit. Papa S. Leone ha riassunto molto felicemente le idee contenute in questo capitolo: « Cujus spiritalem originem in regeneratione quisquis consequitur; et omni homini renascenti aqua baptismatis instar est uteri virginalis, codem Spiritu replente fontem qui replevit et Virginem ». S. Leo M. sermo in Nativ. Dom. 4. Ibid. p. 211, P. L. t. 54, p. 206. E ancora: « Factus est (Unigenitus) homo nostri generis, ut nos divinæ naturæ possimus esse consortes. Originem quam sumpsit in utero Virginis, posuit in fonte baptismatis; dedit aquæ quod dedit matri: virtus enim Altissimi et obumbratio Spiritus sancti quæ fecit ut Maria pareret Salvatorem, ædem facit ut regeneret unda credentem. Idem Serm. in Nativ. Dom s. Ibid. p. 211. Non sarà inutile, alla fine di questo capitolo, osservare che Leone XIII, nella sua Enciclica Divinum illud munus, ha confermato con la sua autorità la dottrina comune dell’appropriazione. « Non quod perfectiones cunctæ (divinitatis) atque ope a extrinsecus edita Personis Divinis communia non sint :… verum quod ex comparatione quadam et propemodum affinitate quæ inter opera ipsa et personarum proprietates intercedit, ea alteri potius quam alteri addicuntur, sive ut aiunt, appropriantur ». Da ciò consegue che le opere di santificazione sono generalmente attribuiti allo Spirito Santo). Pertanto, tutti questi favori divini non sono altro, nella sostanza, che la grazia dell’adozione.

NOVENA ALLA MADONNA DEL ROSARIO (Inizia il 28 settembre, festa 7 ottobre)

NOVENA ALLA MADONNA DEL ROSARIO (Inizia il 28 settembre, festa 7 ottobre)

I. Per quella pietà veramente divina che Voi mostraste di tutta la Cristianità allorquando, per liberarla dai disordini i più scandalosi e dalle eresie le più fatali, non che dai castighi imminenti per parte della divina Giustizia, disarmaste il braccio già alzato del vostro divin Figliuolo, e comparendo al vostro buon servo il Patriarca Domenico, gli faceste il dono singolarissimo del vostro S. Rosario, perché ne inculcasse la recita a tutto il mondo, predicandolo come il mezzo più efficace ad estirpar l’eresie, a correggere i vizi, a promuovere le virtù, a meritar la divina misericordia, a difendere la Santa Chiesa, intercedete a noi tutti, cara madre Maria, di praticare costantemente con vero spirito di fervore una devozione così santa, così potente. —

Regina sacratissimi Rosarii, ora pro nobis. Cinque Ave in memoria dei cinque Misteri Gaudiosi, poi un Gloria.

II. Per l’eccellenza ineffabile di quelle divine orazioni che compongono il vostro Rosario, per mezzo delle quali indirizziamo al trono della divina Misericordia le preghiere che sono tutt’insieme le più doverose, le più ordinate, le più importanti, le più efficaci; e per quei grandi misteri che, sollevando la nostra mente a contemplare i gaudi, le pene, le glorie di Voi e del vostro Unigenito, ricordandoci come in compendio i principali tratti della grand’opera della comune Redenzione, in cui aveste Voi tanta parte, intercedete per noi tutti, o cara madre Maria, di esser sempre riconoscenti a quei divini favori che da Gesù insieme e da Voi ci furono nella pienezza dei tempi impartiti, e di modellar sempre la nostra condotta sopra gli esempj santissimi di Colui ch’è propriamente la Via, la Verità e la Vita di tutti gli uomini, non altrimenti che di Voi, che siete lo specchio d’ogni giustizia, il vaso più insigne di devozione, e il modello il più perfetto di tutte le cristiane virtù. —

Regina sacratissimi Rosarii, ora pro nobis. Cinque Ave in memoria dei cinque Misteri Dolorosi, poi un Gl.

III. Per quei gloriosi trionfi che riportò in ogni secolo il vostro S. Rosario, sbaragliando eserciti, umiliando ribelli, richiamando eretici, illuminando infedeli, convertendo peccatori, infervorando tiepidi, perfezionando giusti, ridonando così la pace alle famiglie, la tranquillità agli Stati, l’allegrezza alla Chiesa, per quegli infiniti miracoli che si operarono colla recita e coll’uso della corona, arrestando torrenti, dissipando gragnuole, sedando tempeste, estinguendo incendi, liberando ossessi, guarendo infermi e risuscitando defunti; per quell’impegno vivissimo che mostrarono i Principi e i Prelati d’introdurre, di sostenere e di propagare, fino coi vistosi sacrifici delle proprie sostanze, una devozione così eccellente: finalmente con quei divini tesori di privilegi e di indulgenze che i S. Vicari di Cristo versarono a larga mano sopra coloro che si mettono sotto le bandiere di questa celestiale instituzione, intercedete a noi tutti, o cara madre Maria, di praticar sempre in maniera la divozione del S. Rosario, di ritrarne tutti i vantaggi pei quali venne istituito, ed acquistare tutte le indulgenze che vi concessero i sommi Pontefici; quindi ci adoperiamo con ogni sforzo per insinuare in chi la trascura, o ravvivare in chi la pratica con freddezza, una divozione cosi degna della comune venerazione. – Regina sacratissimi Rosarii, ora pro nobis.

Cinque Ave in memoria dei cinque Misteri Gloriosi, poi un Gl.

ORAZIONE.

Deus, cujus Unigenitus, per vitam, mortem, et resurrectionem suam nobis salutis æternæ præmia comparavit concede, quæsumus: ut hæc misteria sanctissimo beatæ Mariæ Virginis Rosario recolentes, et imitemur quod continent, et quod promittunt assequamur. Per eundem Dominum, etc.

[G. Riva: Manuale di Filotea, XXX Ed., Milano, 1888]

SANTI COSMA E DAMIANO (27 SETTEMBRE)

Santi Cosma e Damiano

[B. Baur: I Santi nell’Anno Liturgico; Herden ed. 1958]

27 settembre

Ss. Cosma e Damiano, Martiri

I. Secondo un’antica tradizione largamente diffusa, alla cui base sta certamente un nocciolo storico, anche se con molto di leggendario, i fratelli gemelli Cosma e Damiano discendevano da una pia famiglia cristiana. Entrambi erano medici nella città di Egea in Cilicia. Poiché non volevano compensi per i loro servigi ai malati, furono detti « Anargyroi » ossia guaritori disinteressati. Essi guarivano gl’infermi col segno della croce più che con l’arte medica. Si servivano della medicina soprattutto per guadagnare i pagani a Cristo. Così facendo ebbero tanto successo che i pagani li denunciarono a Lisia, luogotenente di Diocleziano. Questi li fece tormentare crudelmente e gettare prima in mare e poi nel fuoco; ma ogni volta furono salvati per l’intervento miracoloso del Signore. Alla fine furono uccisi di spada. Il loro culto era già largamente diffuso in Oriente al principio del secolo 59. Anche in Roma, dal 500 in poi sorsero numerosi santuari in onore dei due Santi. L’Introito della festa odierna fu redatto per la dedicazione della basilica dei Ss. Cosma e Damiano al Foro Romano, intorno all’anno 530. I nomi di entrambi i Martiri sono citati nel canone della Messa.

2. – « Tutto il popolo cercava di toccarlo; perché  da lui scaturiva una forza che sanava tutti ». Così narra il Vangelo della messa odierna. Il Signore che al tempo della sua vita terrena risanò gli infermi e liberò gli ossessi (Vangelo) partecipa ai due medici Cosma e Damiano qualcosa del suo potere sulle malattie. Essi sono veramente medici cristiani, che adoperano la propria arte con fede nella forza del Signore che agisce in loro e con fiducia nel suo aiuto: medici che ripongono la loro fiducia più sulla virtù del segno di croce e nella potenza del soprannaturale, che non nella loro arte e nelle forze della natura: medici che esercitano le loro pratiche senza esigere nulla dai poveri infermi, ma unicamente per amore di Dio e di Cristo, per nobilissima carità cristiana. « Quello che avete fatto al minimo dei miei fratelli, lo avete fatto a me» (Matt. XXV, 41). Essi vogliono esser poveri coi poveri, confidando nella promessa del Signore: « Beati voi poveri, perché  vostro è il regno di Dio ». Quelli che sono poveri nel senso di Cristo non sono più in balìa delle cose create, dei beni e dei valori terreni. Liberati dalla signoria di questi, sono posti in condizione di aprire le anime loro alla luce dall’alto, alla grazia, al fluir della vita che Dio vuol loto partecipare. « Beati voi che adesso avete fame, perché sarete saziati» (Vangelo). Quanto bene comprendono Cosma e Damiano questa beatitudine! Per soccorrere gl’infermi essi sacrificano il loro tempo, le loro forze, la loro salute. Soffrono la fame per calmare quella degli affamati. Questo è genuino Cristianesimo, questa è vera carità! Nessuna meraviglia che il Signore accompagni con la sua benedizione la loro attività. « Beati sarete quando gli uomini vi odieranno, vi bandiranno e vitupereranno, e ripudieranno come abominevole il vostro nome, per cagione del Figlio dell’uomo », vale a dire perché credete in Cristo e per lui vivete. Proprio perché i due medici si occupano tanto amorevolmente dei poveri infermi ed adoperano la loro arte sanitaria per guadagnare i pagani a Cristo. contribuendo così a distruggere il regno di satana, essi vengono accusati presso il governatore Lisia. Viene loro ingiunto di rinnegare Cristo. Essi si rifiutano. Preferiscono sopportare l’odio degli uomini e lasciarsi torturare e uccidere dagli aguzzini. Sanno che « i giusti vivranno in eterno ». « Grande è la vostra ricompensa nei cieli ». « Riceveranno il regno della magnificenza e il diadema della bellezza dalla mano del Signore» (Epistola). « I giusti alzarono grida (al Signore per aver forza nelle loro pene e tormenti): e Dio li esaudì e li liberò da ogni loro angustia (dal profondo del mare in cui erano stati precipitati e dall’ardore del fuoco in cui erano stati gettati). Il Signore è vicino ai tribolati di cuore, e salva quelli che sono umili di Spirito » (Graduale). Oggi li vediamo meravigliosamente onorati da Dio in cielo. « Beati sarete, quando gli uomini vi odieranno per cagione del Figlio dell’uomo » perché siete fedeli a Cristo e vivete per lui con amore e con fedeltà.

3. – Nei santi Cosma e Damiano riconosciamo noi stessi. A noi vien detto: « Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi che adesso avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che adesso piangete, perché riderete. Beati sarete quando gli uomini vi odieranno, vi bandiranno e vitupereranno, e ripudieranno come abominevole il vostro nome per cagione del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli » (Vangelo). Proprio questo vogliamo partecipando alla celebrazione del santo Sacrificio: offrendo Lui vogliamo farci accogliere nella sua dedizione a Dio ed essere con Lui un’oblazione al Padre; vogliamo essere immolati con Cristo e siamo pronti a vivere insieme a Lui la sua vita di povertà, di umiliazione, di volontaria rinuncia. « Ma guai a voi, o ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che siete satolli, perché patirete la fame. Guai a voi che

ora ridete, perché piangerete e gemerete. Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi» (Luc. VI, 24-26)

Preghiera

Fa, ti preghiamo, O Dio onnipotente, che celebrando la festa dei tuoi santi martiri Cosma e Damiano, noi siamo liberati per la loro intercessione da tutti i mali che ci minacciano. Amen

AI SS . FRATELLI MM. COSMA E DAMIANO (27 sett.)

martirizzati sotto Diocleziano nel 303.

[G. Riva: Manuale di Filotea, XXX ed. Milano, 1888]

1. Gloriosissimi martiri Cosma e Damiano, che quanto foste naturalmente fra voi congiunti per identità di origine, cospicuità di casato, singolarità di talenti, specialità di tendenze, altrettanto foste sempre umilissimi nell’aderir fedelmente ai primi inviti del Signore, che volendo fare di voi due perfettissimi modelli di fratellanza cristiana, vi inspirò la generosa risoluzione di consacrarvi entrambi perpetuamente ad un apostolato quanto nuovo ed efficace, altrettanto nobile e meritorio, applicandovi sempre gratuitamente alla cura del prossimo travagliato da qualche infermità, impetrate a noi tutti la grazia che dei vincoli anche più naturali di parentela, di amicizia, di impiego, non ci serviam mai peraltro, che per reciprocamente avanzarci nella cognizione e nel I’amore di Gesù Cristo, in cui solo diventano sante e proficue tutte quante le relazioni coi nostri simili. Gl..

II. Gloriosissimi martiri Cosma e Damiano, che dei vostri singolari talenti nella professione nobilissima della medicina non vi serviste mai che per operare il maggior bene dei prossimi, non solo curandoli senza ombra di interesse nelle varie loro malattie, per cui veniste da tutti distinti col soprannome onorifico di Anargiri, che è quanto dire senz’argento, ma procurando ancora colle vostre preghiere un’efficacia sempre sicura a tutte le vostre mediche ordinazioni per poi guarir d’ogni errore e d’ogni vizio quelli stessi che da voi riconoscevano il loro corporale risanamento, impetrate a noi pure la grazia, che, staccati affatto dalle cose di questa terra, non usiamo mai dei nostri talenti e delle nostre sostanze, che per procurare ai nostri prossimi l’unico bene che si merita la nostra stima, qual è la santificazione dell’anima, nell’atto stesso che in ispirito di carità ci facciamo un dovere di assisterli in tutti i bisogni del corpo. Gl.

III. Gloriosissimi martiri Cosma e Damiano, che, in premio della vostra costanza nel rifiutarvi ai sacrileghi sacrificj cui tentò con ogni mezzo di indurvi in nome dell’imperatore Diocleziano il suo crudelissimo emulatore Lisia prefetto della Cilicia, vi vedeste prodigiosamente preservati così dall’affogamento nelle acque del mare, come dall’abbruciamento tra le fiamme delle ardenti cataste, in cui legati nelle mani e nei piedi foste dai carnefici precipitati, ottenete a noi tutti la grazia che, conservandoci sempre fedeli a tutti i nostri doveri, così di religione, come di stato, non riportiamo mai il più piccolo nocumento nė dagli ardori della concupiscienza che interiormente non cessa di molestarci, né dalle torbide acque degli scandali e delle insidie del mondo, che da ogni parte ci ammorbano e da per tutto minacciano di affogarci. Gl.

IV. Gloriosissimi martiri Cosma e Damiano, che consumato appena il vostro sacrificio col troncamento del capo con cui volle il Signore sollecitare il vostro incoronamento su in cielo, vedeste all’invocazione del vostro nome, e pel veneramento delle vostre reliquie, moltiplicarsi per modo i prodigi delle guarigioni le più istantanee dalle infermità le più disperate, che in ogni parte del mondo vi si dedicarono altari e templi, e la Chiesa vi ascrisse nel novero di quei Santi, la cui invocazione è obbligatoria per tutti i sacerdoti nella celebrazione della Messa, impetrate a noi tutti la grazia che, studiandoci sempre di imitar fedelmente le eminenti virtù di cui foste resi modelli, meritiamo di essere da voi efficacemente assistiti in tutti i nostri bisogni così di corpo, come di spirito. Gl.

V. Gloriosissimi martiri Cosma e Damiano, che non paghi di prestarvi sempre solleciti al risanamento di quegli infermi che in voi riposero la propria confidenza, vi degnaste ancora più volte di consolarli preventivamente colla vostra personale apparizione, come faceste specialmente coll’Imperatore Giustiniano nell’atto d’accordargli perfetta guarigione da quei mali che l’avevano ridotto agli estremi, per cui da Giustiniano medesimo in Costantinopoli, e dal sommo Pontefice S. Felice in Roma vi si innalzarono bentosto i più magnifici templi, e nel secondo Niceno Concilio, tenuto contro gli Iconoclasti, si celebrarono i prodigi da voi operati come una prova innegabile della sovrumana efficacia della invocazione dei Santi e della legittimità del culto che prestasi alle loro immagini e alle loro Reliquie; impetrate a noi tutti la grazia di sempre riguardare la santa Chiesa come maestra infallibile di verità, e quindi di zelar sempre con Lei la maggior possibile venerazione a tutto ciò che Ella reputa degno del nostro culto, e di sempre onorare per modo i Beati che godono in Dio la ricompensa della loro santità, da meritarci la partecipazione alla lor gloria nell’altra vita, dopo di aver ben usato della loro amorosa assistenza nella presente. Gl.

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (25)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (25)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Il Paradiso sulla terra

«Ho trovato il mio cielo sulla terra, poiché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia.

«Il giorno in cui l’ho compreso, tutto si è illuminato in me; ed io vorrei confidare questo segreto a tutti quelli che amo ».

Come si può trovare il Paradiso sulla terra (*).

(*) Suor Elisabetta della Trinità compose questo ritiro nell’estate 1906, qualche mese prima della sua morte, per rispondere al desiderio di un’anima che le era tanto cara — sua sorella — e che l’aveva pregata di iniziarla al segreto della sua vita interiore. Quì, come nell’« Ultimo ritiro », i sottotitoli sono nostri.

Orazione Prima

La Trinità: ecco la nostra dimora

« Padre, voglio che là dove sono io, siano anche coloro che tu mi hai dati, affinché vedano la gloria che tu mi desti, avendomi amato prima che il mondo fosse » (San Giovanni, XVII-24.). Questa è l’ultima volontà di Cristo, la sua preghiera suprema prima di ritornare al Padre. Egli vuole che, là dove è Lui, siamo anche noi, non solo durante l’eternità, ma anche ora, nel tempo, che è l’eternità incominciata e in continuo progresso. È necessario dunque sapere dove dobbiamo vivere con Lui, per realizzare il suo sogno divino. –  « Il luogo dove sta nascosto il Figlio di Dio è il seno del Padre, ossia l’Essenza divina, invisibile ad ogni occhio mortale, inaccessibile a ad ogni intelligenza umana; il che faceva esclamare ad Isaia: «Tu sei veramente un Dio nascosto » (Is. XLV, 15). Eppure, ci vuole stabili in Lui, vuole che dimoriamo dove Egli dimora, nell’unità dell’amore; vuole che siamo, per così dire, quasi la sua ombra. « Il Battesimo — dice san Paolo — ci ha innestati in Gesù Cristo (Rom. VI, 5). E ancora: « Dio ci fece sedere nei Cieli con Cristo, per dimostrare ai secoli futuri le immense ricchezze della sua grazia » (Ephes. II, 6-7). E aggiunge poi: « Non siete adunque più ospiti e stranieri, ma siete concittadini dei Santi ed appartenete alla famiglia di Dio » (Ephes. II, 19) . La Trinità: ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa paterna dalla quale non dobbiamo uscire mai.

Orazione Seconda

« Rimanete in me »

« Rimanete in me» (S. Giov. XV, 4). È il Verbo di Dio che ci dà questo comando, che esprime questa volontà. « Rimanete in me », non per qualche minuto soltanto, per qualche ora che passa, ma « rimanete » in modo permanente, abituale. Rimanete in me, pregate in me, adorate in me, soffrite in me, lavorate, agite. Rimanete in me quando vi incontrate in qualsiasi persona o cosa; penetrate sempre più addentro in questa profondità, poiché essa è veramente « la solitudine in cui Dio vuole attirare l’anima per parlarle » (Osea, II, 14). Ma, per capire questa parola misteriosa, non bisogna fermarsi alla superficie; bisogna entrare sempre di più, col raccoglimento, nell’Essere divino. – « Continuo la mia corsa » (Fil. III, 12), esclamava san Paolo; così noi dobbiamo scendere ogni giorno nel sentiero dell’abisso che è Dio; lasciamoci scivolare su questa china con una fiducia piena d’amore. «Un abisso chiama un altro abisso » (Ps. XLI). Lì appunto, nella profondità inscrutabile, avverrà l’urto divino; l’abisso della nostra miseria, del nostro nulla, si troverà di fronte all’abisso della misericordia, dell’immensità, del tutto di Dio; lì troveremo la forza di morire a noi stessi, e perdendo la traccia del nostro io, saremo trasformati nell’amore. « Beati quelli che muoiono nel Signore » (Ap. XIII, 12).

Orazione Terza

« Il regno di Dio è dentro di voi »

« Il regno di Dio è dentro di voi» (S, Luc. XVII, 21). Poco fa, Dio ci invitava a rimanere in Lui, a vivere con l’anima nell’eredità della sua gloria, ed ora ci rivela, che, per trovarlo, non è necessario uscire da noi stessi, perché « il regno di Dio è dentro di noi ». San Giovanni della Croce dice che Dio si dà all’anima proprio nella sostanza stessa dell’anima, inaccessibile al mondo e al demonio; allora tutti i suoi movimenti divengono divini, e quantunque siano di Dio, sono anche suoi, perché il Signore li produce in lei e con lei. – Lo stesso santo dice ancora che « Dio è il centro dell’anima »; quando, dunque, essa Lo conoscerà perfettamente, secondo tutta la sua capacità, quando Lo amerà e ne gioirà pienamente, allora sarà arrivata nel centro più profondo che in Lui possa raggiungere. È vero che l’anima, anche prima di essere giunta a questo punto, già si trova in Dio che è suo centro; ma non è nel suo centro più profondo potendo inoltrarsi ancora di più. Poiché è l’amore che unisce l’anima a Dio, quanto più intenso è questo amore, tanto più profondamente essa entra in Dio e in Lui si concentra. Possedendo anche un sol grado di amore, è già nel suo centro; ma quando questo amore avrà raggiunto la perfezione, l’anima sarà penetrata nel suo centro più profondo, e lì sarà trasformata a tal punto, da diventare molto simile a Dio. A quest’anima che vive « interiormente » possono essere rivolte le parole del Padre Lacordaire a santa Maria Maddalena: « Non chiedere più il Maestro a nessuno sulla terra, a nessuno nel cielo, poiché Egli è l’anima tua, e l’anima tua è Lui ».

Orazione Quarta

« Se qualcuno mi ama »

« Se alcuno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a Lui, e in Lui porremo la nostra dimora» (San Giovanni, XIV-23). – Ecco, il Maestro ci esprime ancora il suo desiderio di abitare « in noi »: « Se qualcuno mi ama… ». L’amore!… È l’amore che attira, che abbassa Dio fino alla sua creatura; non un amore di sensibilità, ma quell’amore « forte come la morte… che le grandi acque non possono estinguere » (Cant. VIII, 6-7). – « Perché amo il Padre, faccio sempre ciò che a Lui piace » (S. Giov. VIII, 29): così parlava il Maestro divino, ed ogni anima che vuole vivere unita a Lui, deve vivere anche di questa massima, deve fare del beneplacito divino il suo cibo, il suo pane quotidiano, deve, ad esempio del suo Cristo adorato, lasciarsi immolare da tutte le volontà del Padre: ogni incidente, o evento, ogni pena come ogni gioia è un sacramento che le dona Dio; quindi, non fa più alcuna differenza fra l’una o l’altra di queste cose; le oltrepassa, le supera, per riposarsi, al di sopra di tutte, nel suo Dio. E Lo eleva ben alto sulla montagna del suo cuore; sì, più in alto dei Suoi doni e delle Sue consolazioni, più in alto della dolcezza che da Lui discende. La caratteristica dell’amore è di non ricercare mai sé, di non riservarsi nulla, di donare tutto all’oggetto amato. Beata l’anima che ama in verità! Il Signore è divenuto suo prigioniero d’amore.

Orazione Quinta

« Voi siete morti »

«Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio » (Col- III. 3). Ecco che san Paolo viene a farci luce sul sentiero «Voi siete morti »: che cosa vuol dire se non che l’anima la quale aspira a vivere unita a Dio nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento, deve essere distaccata, spogliata e separata da tutto, almeno in ispirito? « Quotidie morior » (I Cor. XV, 31). Quest’anima trova in se stessa un dolce pendio di amore che va a Dio semplicemente; qualunque cosa facciano le creature, essa rimane invincibile; perché passa al di là di tutte le cose, mirando sempre a Dio solo. « Quotidie morior »: muoio ogni giorno; ogni giorno diminuisco, ogni giorno di più rinunzio a me stessa, affinché Cristo cresca e venga esaltato in me. « Quotidie morior »: la gioia dell’anima mia, (quanto alla volontàe non alla sensibilità), la ripongo in tutto ciò che puòimmolarmi, umiliarmi, annientarmi, perché voglio far postoal mio divino Maestro. « Non son più io che vivo; è Luiche vive in me» (Gal. II, 20): non voglio più vivere della miavita, ma essere trasformata in Gesù Cristo, affinché la miavita sia più divina che umana e il Padre, chinandosi sudi me, possa riconoscere l’immagine del « Figlio diletto nelquale ha posto tutte le sue compiacenze ».

Orazione Sesta

« Il nostro Dio è un fuoco consumante »

« Deus ignis consumens » (Ebr. XII, 20). « Il nostro Dio, scriveva san Paolo, è un fuoco consumante, cioè un fuoco d’amore che distrugge e trasforma in se stesso ciò che tocca ». Per le anime che, nel loro intimo, si sono pienamente abbandonate alla sua azione, la morte mistica di cui parla san Paolo diviene tanto semplice, tanto soave! Esse pensano molto meno al lavoro di spogliamento e di distruzione che rimane loro da compiere, che non ad immergersi nel fuoco d’amore che arde in loro, e che è lo Spirito Santo, quello stesso Amore che, nella Trinità, è il vincolo di unione fra il Padre e il suo Verbo. La fede ve le introduce; e là, semplici e quiete, sono da Lui stesso trasportate in alto, più in alto di tutte le cose, al di sopra dei gusti sensibili, fino alla « tenebra sacra », e trasformate nell’immagine divina. Esse vivono, secondo la espressione di san Giovanni, « in società » (I. S, Giovanni, I, 3) con le Tre adorabili Persone; la loro vita è in comune: è la vita contemplativa.

Orazione Settima

« Sono venuto a portare fuoco sulla terra »

« Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e che cosa desidero se non che si accenda?» (San Luca, XII-49.). Il Maestro stesso ci esprime il suo desiderio di veder bruciare il fuoco dell’amore. Infatti, le nostre opere tutte quante, le nostre fatiche sono un nulla al suo cospetto; niente poi possiamo dargli, e nemmeno appagare l’unico suo desiderio che è di accrescere la dignità dell’anima nostra. Vederla aumentare è ciò che più gli piace; ora, nulla può innalzarci tanto, quanto il divenire, in certo senso, uguali a Dio: ecco perché esige da noi il tributo del nostro amore, essendo proprio dell’amore uguagliare, nei limiti del possibile, l’amante all’amato. L’anima che possiede questo amore appare con Gesù Cristo allo stesso livello di uguaglianza, perché il loro reciproco affetto rende ciò che è dell’uno, comune anche all’altro. «Vi ho chiamati amici, perché a voi ho manifestato tutto quello che ho udito dal Padre mio » (San Giovanni, XV-15.). Ma per giungere a questo amore, l’anima deve prima essersi data interamente; la sua volontà deve essersi dolcemente perduta nella volontà di Dio, così che le sue inclinazioni, le sue facoltà, non si muovano più che in questo amore e per questo amore. Faccio tutto con amore, soffro tutto per amore: tale è il senso di ciò che cantava Davide: « Per te custodirò la mia forza » (Salmo LVIII-10.). L’amore, allora, la riempie, l’assorbe, la protegge così bene, che essa trova ovunque il segreto per crescere nell’amore; anche tra le relazioni che deve avere col mondo, tra le preoccupazioni della vita, ha il diritto di dire: mia sola occupazione è amare.

Orazione Ottava

« Per avvicinarsi a Dio, bisogna credere »

« Per avvicinarsi a Dio, bisogna credere » (Ebrei, XI-16.). ci dice san Paolo; e soggiunge: « La fede è sostanza delle cose che dobbiamo sperare e convinzione di quelle che non ci è dato vedere » (Ebrei, XI-1.). Cioè, la fede ci rende talmente certi e presenti i beni futuri, che, per essa, prendono quasi essenza nell’anima nostra e vi sussistono prima che ci sia dato fruirne. San Giovanni della Croce dice che la fede « è per noi il piede che ci porta a Dio », che è « il possesso allo stato di oscurità ». Soltanto la fede può darci lumi sicuri su Colui che amiamo, può versare a fiotti nel nostro cuore tutti i beni spirituali; e noi dobbiamo eleggerla come il mezzo sicuro per giungere all’unione beatifica. È la fede quella « sorgente d’acqua viva zampillante fino alla vita eterna » (San Giovanni, IV-14.) che Gesù, parlando alla Samaritana, prometteva a tutti quelli che crederebbero in Lui. La fede, dunque, ci dona Iddio fino da questa vita; ce lo dà ascoso nel velo di cui l’avvolge, ma è tuttavia Lui, Lui realmente. « Quando verrà ciò che è perfetto, (ossia la chiara visione) ciò che è imperfetto (ossia la conoscenza dataci dalla fede) avrà fine » (I Corinti, XIII-10.). « Sì, abbiamo conosciuto l’amore di Dio per noi, e vi abbiamo creduto » (I san Giovanni, IV-16.). Questo è il grande atto della nostra fede, il modo di rendere al nostro Dio amore per amore; è il « segreto nascosto è (Col. I, 26) nel cuore del Padre, che riusciamo finalmente a penetrare; e tutto l’essere nostro esulta. Quando l’anima sa credere a questo « eccessivo amore » che su lei si posa, si può dire di lei, come già di Mosè, che essa « è incrollabile nella sua fede, come se avesse visto l’Invisibile » (Ebrei, XI-27.). Non si arresta più al gusto, al sentimento; poco le importa sentire Dio o non sentirlo, avere da Lui la gioia o la sofferenza: crede al suo amore, e basta, perché, forte di tutti gli ostacoli superati, va a riposarsi nel seno dell’Amore infinito il quale non può compiere che opera d’amore. A quest’anima, tutta desta e attiva nella sua fede, la voce del Maestro può dire nell’intimo la parola che rivolgeva un giorno a Maria Maddalena: « Va” in pace; la tua fede ti ha salvata » (San Luca, VII-50.)

Orazione Nona

« Conformi all’immagine del Figlio »

« Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del suo divin Figlio; e quelli che ha predestinati, li ha pure chiamati; quelli che ha chiamati li ha giustificati; e quelli che ha giustificati, li ha anche glorificati. Che diremo noi, dopo tutto ciò? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?… Chi mi separerà dalla carità di Gesù Cristo? » (Romani, VIII, 29-30… 35). – Tale si presenta allo sguardo dell’Apostolo il mistero della predestinazione, mistero della elezione divina. « Quelli che Egli ha conosciuti ». Non siamo noi pure di questo numero? Non può forse Iddio dire all’anima nostra ciò che disse un giorno con la voce del Profeta: «Ti sono passato accanto, e ti ho guardata; ed ecco, era giunto per te il tempo di essere amata; e sopra di te, ho spiegato il mio manto; ti ho giurato fede, ho stretto con te un patto, e tu sei divenuta mia » (Ezechiele, XVI-8.). Sì, noi siamo divenuti suoi col Battesimo: questo appunto vuol dire san Paolo con le parole « li ha chiamati », li ha chiamati a ricevere il sigillo della Trinità santa; mentre ci dice san Pietro che « siamo stati fatti partecipi della natura divina» (II san Pietro, I-4.), che abbiamo ricevuto quasi un « inizio del suo Essere » (Ebrei, III-14.). – Poi, «ci ha giustificati » coi suoi sacramenti, coi suoi tocchi, diretti nelle intime profondità dell’anima raccolta; « ci ha giustificati anche mediante la fede » (Romani, V-1.) e secondo la misura della nostra fede nella redenzione acquistataci da Gesù Cristo. Finalmente, vuole glorificarci; e perciò dice san Paolo, « ci ha resi degni di aver parte all’eredità dei santi, nella luce » (Colossesi, I-12.), ma noi saremo glorificati nella misura in cui saremo trovati conformi all’immagine del suo divin Figlio. Contempliamo dunque questa immagine adorata; restiamo sempre nella luce che da essa irradia, affinché si imprima in noi; poi accostiamoci alle persone, alle cose tutte, con le stesse disposizioni di animo con cui vi si recava il nostro Maestro santo; allora realizzeremo la grande volontà per la quale Dio ha in sé prestabilito di « instaurare tutte le cose in Cristo » (Efesini, 1-9).

Orazione Decima

« Il Cristo è la mia vita »

« Stimo tutte le cose una perdita, rispetto alla eminente cognizione di Cristo Gesù, mio Signore; per amor suo mi sono spogliato di tutto, e tutto tengo in conto di immondizia per possedere Cristo… Ciò che io voglio, è conoscere Lui, voglio la partecipazione ai suoi patimenti, la conformità alla sua morte… lo proseguo la mia corsa, cercando di giungere a quella méta alla quale Egli mi ha destinato, raggiungendomi quando lo fuggivo… Ad una sola cosa miro: dimenticando quello che ho dietro le spalle e protendendomi verso ciò che mi sta davanti, corro diritto alla mèta, alla vocazione alla quale Dio mi ha chiamato, in Cristo Gesù » (Filippesi, III-8…). È come dire: io non voglio più nulla, se non essere immedesimato con Lui. « Mihi vivere Christus est » (Fil. I, 21): Cristo è la mia vita!… Da queste frasi, traspare tutta l’anima ardente di san Paolo. Durante questo ritiro — il cui scopo è di renderci più conformi al nostro adorato Maestro, anzi di fonderci talmente in Lui da poter dire: « Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me, e la sua vita che ora vivo in questo corpo di morte la vivo nella fede che ho nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso alla morte per me » (Gal. II, 20): studiamo questo divino modello. La cognizione di Lui, ci dice l’Apostolo, « è così eminente ». Entrando nel mondo, Egli disse: « Gli olocausti non ti sono più graditi; allora ho preso un corpo; ed eccomi, o mio Dio, per fare la tua volontà » (PS. XXXIX, 7-9). E durante i trentatré anni della sua vita, questa volontà fu così perfettamente il suo pane quotidiano, che nel momento di rendere l’anima sua nelle mani del Padre, poteva dirgli: « Consummatum est » (San Giovanni, XIX, 30); sì, la tua volontà, tutta la tua volontà, io l’ho adempiuta; per questo « ti ho glorificato sulla terra» (San Giovanni, XVII, 4.). – Infatti, Gesù parlando ai suoi Apostoli di questo nutrimento che essi non conoscevano, spiegava loro che « consisteva nel far la volontà di Colui che l’aveva inviato sulla terra » (San Giovanni, IV-34.). . E poteva dire: « Io non sono mai solo (San Giovanni, VIII, 16); « Colui che mi ha mandato è sempre con me, perché io faccio sempre ciò che a Lui piace» (Idem, VIII, 29).  Mangiamo con amore questo pane della volontà di Dio; se talvolta la sua volontà sarà più crocifiggente, potremo dire anche noi col nostro adorato Maestro: « Padre, se è possibile, allontana da me questo calice »; ma aggiungeremo subito: «« Non come voglio io, ma come vuoi tu »(S. Matteo, XXVI, 39); quindi, calme e forti, saliremo noi pure il nostro Calvario col divino Condannato; cantando nel profondo dell’anima, ed elevando al Padre un inno di ringraziamento, perché coloro che camminano in questa via dolorosa sono « gli eletti ed i predestinati ad essere conformi all’imamagine del suo divino Figlio » (Rom. VIII, 29), il Crocifisso per amore!

Orazione Undicesima

L’adozione dei figli di Dio

« Dio ci ha predestinati all’adozione di figli per mezzo di Gesù Cristo, in unione con Lui, secondo il decreto della sua volontà, per far risplendere la gloria della sua grazia mediante la quale ci ha giustificati nel Figlio suo di letto, nel quale noi abbiamo la redenzione per il sangue di Lui, la remissione dei peccati secondo le ricchezze della grazia la quale ha sovrabbondato in noi, in ogni sapienza e prudenza (Ephes. I, 5-8). L’anima, divenuta realmente figlia di Dio è, secondo la parola dell’Apostolo, mossa dallo Spianto stesso: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio… ». « Noi non abbiamo ricevuto lo spirito di servitù per guidarci ancora nel timore, ma lo spirito di adozione a figli, nel quale esclamiamo: — Abba! Padre! — Infatti, lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che noi siamo figlioli di Dio; ma, se siamo figli, siamo anche eredi; dico eredi di Dio e coeredi di Cristo, se però soffriamo con Lui per essere con Lui glorificati » (Rom. VIII, 14-17). E proprio per farci raggiungere questo abisso di gloria, Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza. – « Osservate — dice san Giovanni — quale carità ci ha usata il Padre, concedendoci di essere chiamati figli di Dio, e di esserlo realmente. Adesso, noi siamo figli di Dio; ma non si è ancora manifestato quel che saremo. Sappiamo che, quando si svelerà, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo quale Egli è; e chiunque ha questa speranza in Lui, si santifica, come Egli stesso è santo » (I San Giovanni, III, 1-3). Ecco la misura della santità per i figli di Dio: essere santi come Dio, essere santi della santità di Dio, vivendo in contatto intimo con Lui, « di dentro », nel fondo dell’abisso senza fondo. L’anima sembra avere allora una certa somiglianza con Dio il quale, pur trovando in ogni cosa le sue delizie, mai non ne trova quanto in se stesso, possedendo in sé un bene sovraeminente dinanzi al quale tutti gli altri beni scompaiono. Così, tutte le gioie che all’anima sono concesse, sono per lei come altrettanti inviti a gustare il Bene che possiede, preferendolo a tutto, perché nessun altro bene può essergli paragonato. « Padre nostro che sei nei cieli » (San Matteo. VI, 9). Nel piccolo cielo che Egli si è  fatto nel centro della nostra anima dobbiamo cercarlo e qui, soprattutto, dobbiamo dimorare. Cristo diceva un giorno alla Samaritana che « il Padre cerca veri adoratori in spirito e verità » (San Giovanni, IV-23); ebbene, per dare gioia al suo cuore, siamo noi questi adoratori. Adoriamolo in spirito, cioè avendo il cuore e il pensiero fissi in Lui e lo spirito pieno della cognizione di Lui, mediante il lume della fede. Adoriamolo in verità cioè con le opere, perché con queste soprattutto mostriamo se siamo veraci e sinceri, facendo sempre ciò che piace al Padre di cui siamo figli. Adoriamolo in spirito e verità cioè per mezzo di Gesù Cristo e con Gesù Cristo, perché Lui solo è il vero adoratore in spirito e verità. Allora saremo figli di Dio, ed esperimenteremo la verità di queste parole di Isaia: « Sarete portati sul seno, e sulle ginocchia sarete accarezzati » (Isaia, XLVI-12.). Infatti, sembra che Dio sia tutto e unicamente occupato nel colmare l’anima di carezze e di segni di affetto, come fa una mamma che alleva la sua creaturina e la nutre del suo latte. Oh, siamo attente alla voce misteriosa del Padre che ci dice: « Figliola mia, dammi il tuo cuore » (Prov., XXIII-26.).

Orazione Dodicesima

La Vergine dell’Incarnazione

« Si scires donum Dei! Se tu conoscessi il dono di Dio » (San Giovanni, IV-10.), diceva una sera il Cristo alla Samaritana. Ma che è mai questo dono di Dio, se non Lui medesimo? Il discepolo prediletto ci dice: « Egli è venuto nella sua casa, ma i suoi non l’hanno ricevuto » (San Giovanni, I-11.). E san Giovanni Battista potrebbe ripetere ancora a molti quel suo rimprovero: « C’è, in mezzo a voi — in voi — uno che voi non conoscete » (San Giovanni, 1-26.). « Se tu conoscessi il dono di Dio!». Ma una creatura che ha conosciuto questo. dono di Dio, che non ne ha lasciato disperdere la minima particella; una creatura così pura, così luminosa, da sembrare, lei, la stessa Luce: « Speculum iustitiæ »; una creatura la cui vita fu tanto semplice, tanto nascosta in Dio, che quasi nulla se ne può dire. Virgo fidelis: è la Vergine fedele, colei che « custodiva tutto nel suo cuore (San Luca, I, II, 51). Se ne stava così umile, così raccolta dinanzi a Dio nel segreto del Tempio, che attirò le compiacenze della Trinità santa. « Perché Egli ha rivolto lo sguardo alla piccolezza della sua ancella, ormai tutte le generazioni mi chiameranno beata» (San Luca, I, 48). Il Padre, chinandosi verso questa creatura così bella, così ignara della sua bellezza, volle che fosse, nel tempo, la Madre di Colui di cui Egli è Padre nell’eternità. Intervenne allora lo Spirito d’Amore che presiede a tutte le opere divine; la Vergine disse il suo « fiat »: « Ecco l’ancella del Signore; si faccia di me seconde la tua  parola » (62), e il massimo dei misteri si compì. Con la discesa del Verbo in lei, Maria fu per sempre la preda di Dio. – La condotta della Vergine nei mesi che passarono tra l’Annunciazione e la Natività mi pare debba essere di modello alle anime interiori, a quelle anime che Dio ha elette a vivere raccolte « nel loro intimo », nel fondo dell’abisso senza fondo. Con quanta pace, in quale raccoglimento, Maria agiva e si prestava ad ogni cosa! Anche le azioni più ordinarie erano da Lei divinizzate perché, in tutto ciò che faceva, la Vergine restava pur sempre l’adoratrice del dono di Dio; né questo le impediva di donarsi attivamente anche pella vita esteriore, quando cera da esercitare la carità: il Vangelo ci dice che « Maria percorse con grande sollecitudine le montagne della Giudea, per recarsi dalla cugina Elisabetta » (San Luca, I, 39). La visione ineffabile che contemplava dentro di sé non diminuì mai la sua attività esteriore, perché se la contemplazione si volge alla lode e all’eternità del suo Signore, ha in sé l’unità e non potrà perderla mai.

Orazione Tredicesima

Una lode di gloria

«In Lui siamo stati predestinati per decreto di Colui che tutto opera secondo il consiglio della sua volontà, ad essere la lode della sua gloria » (Ephes. I, 11-12): è san Paolo che ce lo dice, san Paolo istruito da Dio stesso. Come attuare questo grande ideale del cuore del nostro Dio, questa sua volontà immutabile riguardo alle anime nostre? Come, in una parola, rispondere alla nostra vocazione e divenire lodi perfette di gloria alla santissima Trinità? In cielo, ogni anima è una lode di gloria al Padre, al Verbo ed allo Spirito Santo, perché ognuna è stabilita nel puro amore e non vive più della propria vita, ma di quella di Dio. Allora essa Lo conosce, dice san Paolo, come è conosciuta da Lui. In altri termini: Una lode di gloria: è un’anima che ha posto la sua dimora in Dio, che Lo ama con amore puro e disinteressato, senza cercare se stessa nella dolcezza di questo amore; un’anima che Lo ama al di sopra di tutti i Suoi doni, anche se non le avesse dato nulla, e che desidera il bene dell’oggetto a tal punto amato. Ora, come desiderare e volere effettivamente del bene a Dio, se non compiendo la Sua volontà? Poiché questa volontà dispone tutte le cose per la Sua maggior gloria. Quest’anima deve dunque abbandorvisi pienamente, perdutamente, fino a non poter voler altra cosa se non ciò che Dio vuole. – Una lode di gloria: è un’anima di silenzio che se ne sta come un’arpa sotto il tocco misterioso dello Spirito Santo, perché Egli ne tragga armonie divine. Sa che il dolore è la corda che produce i suoni più belli; perciò è contenta che vi sia questa corda nel suo strumento, per commuovere più deliziosamente il cuore del suo Dio. –  Una lode di gloria: è un’anima che contempla Dio nella fede e nella semplicità; è un riflesso di tutto ciò che Egli è: è come un abisso senza fondo nel quale Egli può riversarsi ed espandersi; è come un cristallo attraverso il quale può irradiare contemplare le proprie perfezioni ed il proprio splendore. Un’anima che permette in tal guisa all’Essere divino di saziare in lei il bisogno che Egli ha di comunicare tutto ciò che è, tutto ciò che possiede, è veramente la lode di gloria di tutti i suoi doni. Finalmente una lode di gloria è un’anima immersa in un incessante ringraziamento; tutti i suoi atti, i suoi movimenti, i suoi pensieri, le sue ispirazioni, mentre la fissano sempre più profondamente nell’amore, sono come una eco del Sanctus eterno. Nel cielo della gloria, i beati non hanno riposo né giorno né notte, ma sempre ripetono: «Santo, santo, santo il Signore onnipotente …; prostrandosi adorano Colui che vive nei secoli dei secoli »(Apoc. IV, 8). Nel cielo della sua anima, la lode di gloria inizia già l’ufficio che sarà suo in eterno; il suo cantico è ininterrotto e, benché non ne abbia sempre coscienza perché la debolezza della natura non le consente di fissarsi in Dio senza distrazioni, pure rimane sempre sotto l’azione dello Spirito Santo che tutto opera in lei. Canta sempre, adora sempre, è, per così dire, interamente trasformata nella lode e nell’amore, nella passione della gloria del suo Dio. Nel cielo dell’anima nostra, siamo lodi di gloria della Trinità santa, lodi di amore della nostra Madre Immacolata. Un giorno, il velo cadrà, e saremo introdotte negli atrî eterni; ivi canteremo nel seno stesso dell’Amore infinito, e Dio ci darà il nome nuovo promesso al vincitore. E quale sarà questo nome?: « Laudem gloriæ ».

LA GRAZIA E LA GLORIA (28)

LA GRAZIA E LA GLORIA (28)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO VI.

LA NOSTRA FILIAZIONE NEL SUO RAPPORTO CON LA TERZA PERSONA DELLA TRINITÀ

CAPITOLO II.

Cos’è lo Spirito Santo in se stesso. Come Esso sia la Santità santificante, il Dono del Padre e del Figlio, e come un complemento della Trinità.

1. – Se lo Spirito di Dio, la terza Persona dell’adorabile Trinità, è l’amore sostanziale e personale, Esso deve essere lo Spirito Santo, lo Spirito di santità, la Santità Santificante. La conseguenza è evidente. Perché cos’è la santità se non il perfetto amore di Dio, la carità? Un compagno inseparabile in noi della grazia santificante! Questo è il motivo per cui S. Paolo chiama la carità il vincolo della perfezione (Col. V., 14) e il fine della fede (1 Tim., I, 5); per questo è chiamata da San Giacomo il comandamento reale. Amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le proprie forze, è essere santi, tanto più santi quanto più profondamente l’amore di Dio affonda le sue radici nell’anima e più completamente si impadronisce del governo della sua vita. – Interroghiamo la Teologia per imparare da essa ciò che costituisce precisamente la santità. Essa risponde che la santità consiste, prima di tutto, nell’unione dell’anima con Dio come suo principio e fine ultimo; o, per usare altri termini ugualmente consacrati dalla Scuola, nella conversione dell’anima a Dio. Parlo di un’unione, una conversione, non semplicemente transitoria e fugace, ma abituale e permanente per sua natura. Questo significa che il principio fondamentale della santità debba essere l’amore di Dio: perché è l’amore che ci volge verso Dio, come verso il nostro fine ultimo, e ci fa aderire pienamente alla sua suprema bontà; ma è l’amore, come l’abbiamo studiato nel terzo libro di quest’opera, l’amore radicato nella grazia abituale, e che esce da questa grazia interiore come suo principio naturale. – A questo elemento costitutivo della santità ne sono legati altri due che sono solo sue conseguenze: la purezza e la fermezza. La  Purezza: « La santità in sé – dice l’autore dei Nomi Divini – è una purezza libera da ogni crimine, pienamente perfetta, senza la minima macchia » (S. Dion., de div. Nomin., c. 12). Tutto ciò che contamina l’anima, tutto ciò che tende a renderla meno pura, è una deviazione dall’amore, e quindi interrompe o almeno indebolisce e ritarda il suo movimento verso Dio. La Fermezza: perché l’unione del cuore con il Bene Sovrano non è come la tendenza ai beni finiti e contingenti. Questi, essendo solo mezzi con cui dobbiamo aiutarci per tendere all’acquisizione del nostro fine ultimo, devono quindi essere perseguiti solo con misura; ma quello, essendo il nostro fine supremo, richiede una costanza incrollabile nella tendenza. Ho cercato di riassumere fedelmente la dottrina sviluppata più a lungo dal Dottore Angelico (S. Thom. 2. 2. Q. 181, a. 8; Comp. Theol., c. 46-47, ecc.). Questo è sufficiente per farci capire come questi due caratteri dello Spirito Santo, l’amore e la santità, siano legati l’uno all’altro, e di fatto formino una sola e medesima proprietà personale (A sostegno di questa dottrina, citiamo un passo della lettera Enciclica di Leone XIII, Divinum – 9 maggio 1897 -: « Lo Spirito Santo è chiamato Santo, perché, essendo il primo e supremo Amore, dirige le anime verso la santità, che consiste giustamente nell’amore per Dio »). – Lo Spirito di Dio è amore, quindi è unione con la Bontà suprema; un’unione così intima e perfetta che arriva fino all’unità. Lo Spirito di Dio è amore, e questo amore è il termine infinito delle compiacenze divine del Padre e del Figlio nella loro infinita bellezza; quindi, esclude ogni affezione che sarebbe un disordine dell’amore. Lo Spirito di Dio è amore e questo amore è Dio: quindi Esso partecipa alla stabilità eterna ed immutabile di Dio. Non è la Santità sovrana, perfetta? E questa Santità è per eccellenza una virtù santificante. Perché è così? Perché è l’esemplare ed il prototipo di tutta la carità nella creatura; perché la natura propria dell’amore è quella di comunicarsi, di diffondersi, di donare e donarsi; perché il fiume, effuso dal Cuore di Dio, tende con tutto il suo peso a riversarsi nei ruscelli di benefici sulle creature di Dio per santificarle a sua immagine. – È dunque vero che è un tutt’uno, sia che si dica dello Spirito Santo che è Amore, sia che lo si chiami Virtù santificante o santità. Inoltre, questi stessi termini sono dati come equivalenti nei monumenti autorizzati della Tradizione. Così l’undicesimo Concilio di Toledo, nella sua magnifica professione di fede, dice dello Spirito Santo che procede sia dal Padre che dal Figlio: « poiché Esso è la carità o santità dell’uno e dell’altro ». S. Agostino, di cui esso seguiva la dottrina e di cui adottò persino le espressioni, aveva già scritto: « Lo Spirito Santo, essendo uno in essenza con  il Padre ed il suo Verbo, può essere considerato o come la loro comune unità, o come la carità o la santità: unità perché è carità: carità perché è santità » (Sant’Agostino, De Trinit., L. VI, c. 4, n. 7). Trovo le stesse idee in un notevole testo di San Basilio. « La via per la conoscenza di Dio va da un solo Spirito attraverso un solo Figlio a un solo Padre ». E, in un ordine inverso, la bontà naturale e la santità essenziale fluiscono dal Padre attraverso l’unico Figlio allo Spirito Santo » (Basilio, de Spir. S., n. 41. P. Gr, t. 32, p. 153.). Lo stesso pensiero è espresso da Gregorio di Nazianzo: « Voi date conto della nostra fede se insegnate che il Padre è veramente Padre … il Figlio veramente Figlio… lo Spirito Santo veramente Santo, perché non c’è nessun altro Santo come Lui, poiché Egli è la santità medesima » (Greg. Nazianzus, Orat. 25, n. 16: P. Gr. 35, p. 1221).  – E S. Cirillo di Alessandria: « Coloro che affermano che lo Spirito è santo per partecipazione e non per natura, ci dicano cosa è in se stesso e nella sua stessa ipostasi. La Scrittura lo chiama solo Santo… Questo, dunque, è l’appellativo che rende ciò che Egli è nella sua essenza: poiché lo si chiama Santo » (Cyrill Aless., Thesaur., P. Gr., vol. 75, p. 596). Vediamo che lo Spirito Santo riceve dal Figlio e dal Padre attraverso il Figlio. E cosa riceve? La natura divina, senza dubbio; ma, in virtù del suo modo di procedere, è come bontà, cioè come carità e santità, che la riceve. – Gli orientali si dilettano nelle metafore; e se le prodigano quando trattano i nostri più alti misteri, non rimproveriamoli. Infatti, oltre al fatto che Dio stesso ci ha dato un tale esempio nelle Sacre Scritture, niente è spesso più adatto a fare nei nostri misteri ciò che è meglio fare per far capire in essi ciò che ci è dato di capire. Ora, sotto quali immagini ci offrono lo Spirito divino? Abbiamo già visto che: è il profumo delizioso che si sprigiona dal balsamo; è l’olio che penetra nel corpo e nel cuore per santificarli; è il buon odore che emana il fiore nel suo mattino, la dolcezza che si gusta nel miele, il calore che si irradia da un focolare. Sono tutti simboli e figure che ci rappresentano lo Spirito di Dio nella sua relazione con il Padre e il suo Figlio unico. (Cfr. Franzel., de Deo trino, thes. 26; Petav, de Trinit., L. VII, c. 12, n. 11; c. 13, n. 21-22; ecc.) Bisognerebbe non aver mai letto i nostri Libri santi per non sapere che con queste metafore essi sono soliti esprimere l’eccellenza dell’amore puro e santo e i suoi frutti che sono le virtù (II Cor., II, 45, Cant. I, 4, 12, ecc.). – Gli stessi Padri non cessano di presentare la santità santificante come un carattere proprio dello Spirito di Dio. Qui il grande S. Basilio afferma che « lo Spirito Santo, poiché è santo per essenza, è la fonte di ogni santità » (S. Basilio, ep. 8, n. 10; ep. 159, n. 2. P. Gr. t. 32, p. 261 e 621), « Che si tratti di Angeli, di Arcangeli o di tutte le potenze celesti, tutti sono santificati dallo Spirito: perché lo Spirito ha la santità per natura e non per grazia; e per questo porta il nome di Santo in modo singolare. Qui, San Cirillo di Alessandria la chiama « la virtù santificante che, procedendo naturalmente dal Padre, dà agli imperfetti, la perfezione » (S. Cirillo Al., Thesaurus P. Gr., vol. 75, p. 597). – Aggiungiamo un’ultima osservazione che serve come risposta a questa domanda: Il nome Spirito Santo è proprio della terza Persona? Si potrebbe dubitarne: perché Dio per natura è spirito; è santo per essenza, e di conseguenza queste due parole « Spirito Santo », non soltanto separate, ma anche unite tra loro, non esprimono nulla che non si adatti alle tre Persone divine. Bisogna confessare che non è se non per questo nome, somma dei nomi di Padre e del Figlio, che rivelano con il suo significato nativo il carattere distintivo dei primi due. Tuttavia, non è senza motivo che la terza Persona l’abbia ricevuto dalla Scrittura e dalla Tradizione come suo nome distintivo. Infatti, dire che è Spirito è designarlo come il soffio o il movimento d’amore che, provenendo dal cuore di Dio, lo muove verso la sovrana bontà. Dire che è Santo significa implicare che questo stesso amore sia essenzialmente santo, poiché la santità perfetta è l’unione attraverso l’amore con la bontà sovranamente amabile. « Ed è da lì che viene la regola della fede cattolica che chiama la terza Persona lo Spirito Santo, quando ci fa dire: Io credo nello Spirito Santo » (S. Thom., Comp. Theol., c. 47).

2. – Essere il Dono del Padre e del Figlio è il terzo carattere che distingue lo Spirito Santo dalle altre due Persone; e non so se non sia anche frequentemente ricordato nelle Scritture e dai Padri più che quella dell’Amore personale e della virtù santa e santificante. All’inizio del secondo secolo, un grande Vescovo la cui nascita illustrò l’Asia e il cui martirio la nostra Gallia, Sant’Ireneo di Lione, scriveva:  « Dio nella sua bontà ci ha fatto un Dono, e questo Dono, è al di sopra di tutti gli altri doni, perché li comprende tutti in sé: è lo Spirito Santo » (S. Ireneo, c. Hæres, L. IV c. 33, n. 8; n. 4; L.III, c. 17, n. 2). Era d’altronde abitudine in quei tempi remoti, quando si enumeravano le Persone della Santa Trinità, designare la terza Persone con la parola Dono, come dal suo nome proprio (Petav., de Trinit., L. VIII c. 3.). – Sant’Agostino, così ben versato nella lettura dei Padri e dei Dottori antichi, testimonia espressamente che, « per i dotti e grandi interpreti delle divine Scritture, il carattere distintivo dello Spirito Santo è di essere il Dono di Dio » (Sant’Agostino, de Fid. et Symbol., n. 19). Egli stesso nelle sue meditazioni sulla Trinità, cercando con umile e rispettosa curiosità ciò che distingua le processioni in Dio; perché l’una essendo generazione, l’altra non ha come termine un Figlio, si arresta a questa soluzione, come la più certa: « Exiit non quomodo natus, sed quomodo datus; et ideo non dicitur Filius. » La sua origine non è una nascita, ma un dono; in altre parole, Esso è per la sua origine un dono; ed è per questo che non lo chiamiamo Figlio.  (S. August. de Trinit., L. V, c. 14). Questa è la dottrina che la Chiesa riassume mirabilmente quando chiama lo Spirito Santo, nei suoi inni, « Il dono dell’Altissimo, Donum Dei altissimi ». Ora, tutta questa dottrina dei Padri e della santa Chiesa, poggia manifestamente sulle Scritture, come Sant’Agostino ha sottolineato in più di un luogo (Id. ibid. L. XV, c. 19). Gli Atti ci dicono che Simone, quel mago di Samaria, quando vide che « lo Spirito Santo veniva dato ai battezzati con l’imposizione delle mani degli Apostoli, offrì loro del denaro. Disse loro: « Datemi questo potere che coloro sui quali impongo le mani ricevano lo Spirito Santo. » Pietro rispose: « Perisca con te il tuo denaro, tu che hai pensato che il dono di Dio potesse essere comprato con denaro » (Atti VIII, 17-21). Il Signore stesso aveva detto ai suoi discepoli: « Riceverete il dono dello Spirito Santo », cioè il Dono che è lo Spirito, poiché è questo Spirito divino che prometteva loro. (Act. II, 38) – Alla donna samaritana, alla quale chiedeva da bere, Gesù Cristo aveva già risposto: « Se tu conoscessi il dono di Dio, e chi è che ti dice: “Dammi da bere”, avresti potuto chiederglielo, ed Egli ti avrebbe dato il dono dell’acqua viva, che diventa in colui che la beve una sorgente che scorre verso la vita eterna (Joan. IV, 10, 14). E quest’acqua, Dono di Dio, non è altro che lo Spirito Santo. Infatti, dopo aver raccontato come Gesù gridò nel tempio: « Se qualcuno ha sete, venga a me e beva; chi crede in me, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno », l’Evangelista aggiunge subito: « Egli disse questo a causa dello Spirito che avrebbero ricevuto coloro che credevano in lui » (Gv. VII, 37-39). Quest’acqua viva e vivificante è dunque lo Spirito Santo, ed è questo che Gesù chiama il Dono di Dio. Ecco perché San Paolo, parlando dei fedeli, non teme di affermare che tutti « noi siamo abbeverati in uno stesso Spirito » (Cor. XII, 13); oppure, come leggeva Sant’Agostino, « noi tutti abbiamo bevuto dello stesso Spirito ». (S. Agostino, de Trinit., L. XV, c. 19). Questo stesso santo Dottore, avendo riportato questi testi e altri dello stesso genere, conclude in questi termini: « Ci sono molte altre testimonianze nelle Scritture per attestarci di concerto che il Dono di Dio è lo Spirito Santo, in quanto è dato a coloro che amano Dio attraverso di Lui. Tuttavia, sarebbe troppo lungo raccoglierli tutti… Ma, poiché sappiamo che lo Spirito Santo è chiamato Dono di Dio, non turbiamoci quando qualcuno ci parla del dono dello Spirito Santo; ma riconosciamo qui lo stesso tipo di locuzione che fa parlare S. Paolo della spogliazione del corpo. Paolo parla della spogliazione del corpo di carne, in éxpoliatione corporis carnis (Col. II, 11). Il corpo di carne non è altro che la carne; così il Dono dello Spirito Santo è lo stesso Spirito Santo (S. Aug. de Trinit., L. XV, n. 35-37 cum antec.; col. L. V, c. 16, 17). Dunque ,il titolo di dono è in tutta verità singolarmente proprio della terza Persona.

3. – Ma, per quanto solidamente stabilita possa sembrare, questa dottrina offre serie difficoltà che dobbiamo chiarire. Infatti, se la Scrittura ci insegna che lo Spirito Santo è dato a noi da Dio, ci assicura anche che il Padre ci abbia dato il suo unico Figlio, e non vediamo cosa potrebbe impedire al Padre di darsi Egli stesso a tutti. Di conseguenza, la qualità di Dono non è così propria dello Spirito Santo da non appartenere anche alle altre due Persone. Come può allora essere il suo carattere distintivo? Per risolvere questa questione, sono necessarie alcune osservazioni. Il dono, preso nel senso più generale della parola, si dice di tutto ciò che si presti ad essere dato gratuitamente e liberalmente, a qualunque titolo appartenga al donatore, sia per identità che in qualsiasi altro modo. In questo senso, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono anche per loro natura un Dono « Donum Dei ». Perché è così? Perché tutto ciò che caratterizza l’essenza del dono si trova in Dio, qualunque sia la Persona che consideriamo. In effetti Dio, considerato in se stesso, è sovranamente atto ad essere dato: perché il Bene supremo, la fonte di ogni bene, tende per sua natura a comunicarsi; ed è per questo che, senza subire alcun cambiamento o perdita in se stesso, eleva la sua creatura e la porta al più alto grado di perfezione. Non abbiamo visto che il dono creato della grazia ci è dato da Dio come mezzo necessario per possedere e godere il Dono increato?  Inoltre, la donazione che Dio fa di se stesso è sovranamente gratuita e liberale: perché Lui solo riversa la sua generosità, senza che nulla possa obbligarlo a dare, né nell’ordine della natura né nell’ordine della grazia; solo Lui può dare infinitamente. Solo Egli può dare all’infinito, poiché dona se stesso; solo Lui dà senza trarre per sé alcun profitto o utilità dai doni che fa, poiché è tutto il Bene. Perciò si può dire di Dio che Egli solo « è assolutamente liberale, perché non agisce per la propria utilità, ma solo per sua bontà » (S. Thom., 1 p., q. 44, a. 1, ad 1; col. 2. 2, q. 132, a. 1, ad 1).  Sarebbe ozioso cercare di dimostrare che la terza delle condizioni contenute nella nostra definizione sia soddisfatta in Dio, che sia Padre, Figlio o Spirito Santo. Potrebbe non appartenere a se stesso, il cui essere è la sua Essenza, tanto che supporgli qualche dipendenza è distruggere l’idea stessa di Dio? Così, in Dio, la qualità del “dono” è essenziale e quindi comune. – In un senso più stretto, il dono è detto di una cosa liberalmente data, ma distinta dal donatore. Ed è così che solo il Figlio e lo Spirito Santo possono essere dati: il Figlio da suo Padre, lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Se mi chiedete perché il Padre stesso non possa essere il dono increato delle altre Persone, Egli che da un lato è il Bene sovrano, e dall’altro è distinto da loro come loro lo sono da Lui, la risposta è facile: se può essere un donatore, Egli stesso non può essere dato che da se stesso: perché una Persona divina, per essere data, deve in qualche modo appartenere a chi la dona. Ora, solo due modi di appartenenza possono essere concepiti in Dio: uno basato sull’identità della Persona con se stessa, l’altro sulla processione d’origine. Così la santa Scrittura, che ci parla del dono della seconda e della terza Persona (Joan III, 16; XIV, 16), tace costantemente sulla prima. Infine, in un significato ancora più ristretto, il dono può essere preso per quello che, per sua natura, è il primo dono che un donatore fa, quello che precede gli altri in qualità di principio. In questo senso, lo Spirito Santo è singolarmente il Dono di Dio. Questo perché per il suo modo di origine è l’Amore personale, procedendo come Amore dal Padre e dal Figlio, e, di conseguenza, come il primo dei doni, il Dono per eccellenza. Infatti, dice San Tommaso, dal quale ho derivato tutta questa dottrina (S. Thom:, 1p., q. 38, at. 1 e 2), il primo dono non può essere che l’amore: perché il Dono propriamente detto non va senza gratuità. Ora, la gratuità nei doni ha come causa l’amore. Se do gratuitamente, è perché voglio il bene di chi lo riceve; in altre parole, è perché amo. Cos’altro è l’amore se non il dare amore? Quindi, procedere dal Padre e del Figlio come amore, è quindi essere il loro Dono, il Dono infinito, il Dono increato. Ed è in questo senso che Sant’Agostino dice che « per il Dono che è lo Spirito Santo, le membra di Gesù Cristo ricevono i doni propri a ciascuna di esse »  (S. Aug., de Trin., L. XV, 32. 34). Il dono, considerato nel suo senso proprio, si presenta con un doppio rapporto. Un rapporto al donatore, cioè alla Persona che lo possiede e lo fa: e questo rapporto non è altro che il rapporto originario in Dio. In rapporto con il donatario, cioè con la creatura ragionevole che sola è capace di ricevere lo Spirito Santo e di goderne. Come, infatti, possiamo concepire un dono senza pensare a chi può darlo e riceverlo? Tuttavia, non crediamo che, per essere un dono, lo Spirito Santo debba essere attualmente posseduto dalla creatura. Farlo sarebbe negargli questa proprietà personale, poiché, dato solo nel tempo, sarebbe esistito da tutta l’eternità senza essere il Dono di Dio. Perché lo Spirito Santo abbia questo carattere distintivo, è sufficiente che abbia dalla sua processione eterna la capacità e la tendenza ad essere dato, secondo il buon volere di Dio, il Padrone di tutti i doni perfetti. « Perché non è la stessa cosa essere un dono ed essere dato; poiché il dono può esistere prima di essere dato, ma esso non è dato se nessuno lo ha ricevuto. » – Ciò che ho detto sulla doppia relazione che l’idea del dono presenta allo spirito, deve essere inteso anche in relazione alla Santità santificante, questo altro carattere ipostatico dello Spirito divino. Infatti, quando chiamo lo Spirito Santo la santità del Padre e del Figlio, io affermo, non che Egli sia  formalmente ciò che li rende entrambi santi, ma che Egli procede da loro come il soffio, l’irradiazione, l’eterno profumo della loro santità comune; e quando la chiamo santità santificante o virtù santificante, la rappresento come la fonte di ogni santità per le creature, e con questo stesso fatto dichiaro la sua relazione, il suo rapporto con queste stesse creature, considerate come essere  o capaci di diventare giuste e sante attraverso di Lui. Allo stesso modo, affermando dello stesso Spirito che è l’Amore del Padre e del Figlio, l’Amore personale, esprimo di nuovo, almeno in modo confuso, questa doppia relazione. Egli non può meritare questo titolo se non alla sola condizione che sia il frutto della loro comune dilezione. Ora, l’amore con cui Dio ci ama è lo stesso amore con cui il Padre ama il Figlio e il Figlio ama suo Padre. Si può dunque dire in tutta verità che il Padre e il Figlio ci amino come amano se stessi attraverso lo Spirito Santo, perché questi termini, se correttamente intesi, significano una sola cosa, cioè che amando se stessi e noi con lo stesso infinito atto d’amore, producono un termine sostanziale che si riferisce a tutti gli oggetti dell’amore divino: in primo luogo alla Bontà sovrana, e secondariamente al bene delle creature. (S, Thom., 1 p., q. 37, a. 2). Si può aggiungere che senza lo Spirito Santo, l’Amore personale, né il Padre né il suo unico Figlio potrebbero amarci, perché togliere il termine del loro amore reciproco equivarrebbe a distruggere questo amore. È nello stesso senso che i santi Dottori, come ho già osservato, rimproveravano agli ariani di aver tolto al Padre sia l’intelligenza, sia la sapienza in Lui rifiutando un Verbo immanente e consustanziale. Nessuna intelligenza né volontà in atto senza un termine prodotto interiormente che è dove si trova il Verbo o l’amore (Cfr. Petav., de Trinit., L. VI, c. 9: S. Thom, de Potent:, q.10, a. 1; cont. Gent., L. IV, c. 14).  Tutto quello che abbiamo appena scritto sulle caratteristiche personali dello Spirito Santo, si trova in forma breve in un testo di Sant’Agostino. « L’amore che è di Dio e che è Dio, è lo Spirito Santo; questo Spirito per mezzo del quale la carità di Dio è riversata nei nostri cuori, che ci rende  ostie e tempio della Trinità. Ecco perché lo Spirito Santo è anche giustamente chiamato il Dono di Dio. E cos’è questo Dono, se non la Carità che conduce a Dio, e senza la quale nessun altro dono possa condurre a Dio » (S. Agostino, de Trinit., L. XV, n. 32). – Portare a Dio, condurre a Dio, cos’altro è se non la santificazione? Di conseguenza, queste tre caratteristiche dello Spirito Santo, il carattere dell’Amore, il carattere del Dono e il carattere della Santità, sono così essenzialmente unite che ciascuna di esse richiama le altre; o piuttosto, esse formano una sola e medesima proprietà, quella che rende lo Spirito Santo l’Amore personale: poiché questo Amore è la santità sussistente e santificante, e il Dono primordiale su cui si basano tutti i doni e da cui essi procedono. Se, quindi, la concatenazione tra le caratteristiche dello Spirito Santo è così stretta che non si possa affermare o negare l’una senza affermare o negare le altre; benché i Padri dell’Oriente si fossero soffermati di più su questa, e i Padri dell’Occidente sull’altra, non se ne potrebbe concludere nessuna diversità di dottrina: perché, ancora una volta, questi caratteri sono compatibili, e non sono che una stessa proprietà considerata da punti di vista diversi.

4. – Lo Spirito Santo ha ancora un altro nome nei Padri: essi lo chiamano « la pienezza, il complemento della Trinità » (S. Cirillo. Ales. L.-X., in c. XV Joan. P. Gr., L. 74, p. 417; col. Thesaur. Assert. 34. P. Gr., t. 75, p. 607). Egli è il termine supremo della vitalità divina. Poiché se il Padre è nel seno di Dio un Principio senza principio, se il Figlio, nato dal Padre come suo principio, è a sua volta con Lui il principio dello Spirito Santo, lo Spirito Santo non riversa la sua infinita perfezione in nessun’altra Persona. Il torrente della vita divina, che scorre dal Padre come da una sorgente eternamente piena, si ferma nel suo corso a questo Spirito divino. E anche la ragione stessa si rende conto che debba essere così. In uno spirito della massima purezza, qual è il nostro Dio, ogni processione immanente deve essere o per via di conoscenza o per via di amore, e da una parte e dell’altra il termine è essenzialmente uno, perché è essenzialmente infinito. Se si toglie lo Spirito Santo, non si ha l’effusione d’amore che segue naturalmente la contemplazione della bellezza suprema: Dio sarebbe dunque imperfetto. Mettete al contrario una quarta Persona dopo lo Spirito Santo, e questo sarebbe ancora un’alterazione dell’Essere divino, poiché dovreste avere una processione che la natura stessa di uno spirito sovranamente spirituale e sovranamente perfetto respinge. Quindi, lungi dal vedere, in questa apparente sterilità dello Spirito Santo, non so quale inferiorità che lo abbasserebbe al di sotto delle altre due Persone, è suo eterno onore essere così pienamente Dio, così grande, così amabile e così buono che qualsiasi altra Persona, venendo dopo di Lui, rovescerebbe l’intera economia dell’Essenza divina, e offuscherebbe la sua stessa gloria: perché non apparirebbe più come il completo compimento di quella vita per eccellenza, che è la divinità stessa. – Queste considerazioni potrebbero sembrare troppo lunghe, almeno in un’opera in cui il grande mistero della Trinità non sia il tema principale. Spero, tuttavia, che la loro utilità, e persino la loro necessità, sarà compresa quando avremo visto quanto siano importanti per la comprensione del ruolo attribuito dalla Scrittura e dai documenti ecclesiastici allo Spirito Santo nelle opere della grazia e della gloria.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. LEONE XIII – “CARITATIS PROVIDENTIÆQUE”

« … Opporsi, invece, ai … precetti e ricusare la guida della Chiesa, è lo stesso che opporsi alla volontà divina e ripudiare un insigne beneficio; giacché veramente nulla nello Stato rimane prospero e onesto, tutto scivola nella confusione, sia i reggitori sia i popoli vengono assaliti dall’ansioso timore di calamità. » È un significativo passaggio di questa lettera Enciclica indirizzata ai Vescovi polacchi, lettera ricca di spunti ed indicazioni pratiche per la vita sociale e religiosa di quel popolo. Sono raccomandazioni ancor più utili oggi, che gli uomini di Stato ed i reggitori dei popoli dovrebbero fare proprie ed attuare per il bene di popoli e Nazioni. Senza Dio e la sua Chiesa, ogni popolo – specie se apostata della fede – è votato alla distruzione, alla gran sofferenza, fino alla dissoluzione e alla rigenerazione, cioè, come si dice con termine tristemente attuale, al reset delle strutture sociali, economiche, spirituali. Tutto è stato anticipato e profetizzato nel Magistero ecclesiastico, non facciamoci trovare impreparati. Corriamo ai ripari con l’ingresso nella vera Chiesa cattolica, seppur solo di desiderio, con la preghiera fervorosa, la penitenza e la carità zelante … chissà che Dio non si impietosisca e faccia come a Ninive che, avvertita e mossa a conversione dalla predicazione di Giona, fu risparmiata da una fine imminente … come la nostra vecchia Europa ed il mondo un tempo cristiano…. ancora quaranta giorni, e Ninive sarà distrutta… Copriamoci di cenere e di sacco e facciamo penitenza.

Leone XIII
Caritatis providentiæque

Lettera Enciclica

19 marzo 1894

La particolare testimonianza della Nostra carità e previdenza che abbiamo offerto di tempo in tempo ad altri popoli cattolici nel senso di impartire con la consegna ai loro Vescovi di una specifica lettera insegnamenti d’esortazione apostolica, il poter similmente procurare a voi, secondo opportunità, tale servizio, era da lungo tempo un ingente Nostro desiderio. In verità Noi abbracciamo e sosteniamo codesto popolo, vario per stirpe, lingua, rito religioso – ciò che altra volta esprimemmo – tutt’insieme con un solo e medesimo affetto e non pensiamo mai ad esso se non con grande gioia: di esso aleggia da una parte l’illustre ricordo delle imprese, dall’altra costatammo ininterrottamente, congiunta con la fiducia, la grande devozione verso di Noi. – Tra le altre glorie, infatti, meritatamente perdura lo straordinario vanto di quei vostri padri, che, resa tremante l’Europa per gli assalti dei potentissimi nemici del nome cristiano, tra i primi opposero con insigni battaglie la protezione dei loro petti, [divenendo] essi fervidissimi garanti e fedelissimi custodi della Religione e del culto civile. Questi meriti sono stati da Noi con gioia non molti mesi fa apertamente ricordati, nella circostanza, cioè, in cui alcuni di voi, venerabili fratelli, conduceste a Noi in pellegrinaggio pie schiere di fedeli per salutarci e felicitarsi con Noi; questa bellissima testimonianza di fede fu occasione graditissima che Noi, a Nostra volta, Ci felicitassimo con la Polonia per il vivido decoro dell’avita Religione [rimasto] integro attraverso molte e difficili circostanze. – Ora poi se, per quanto Noi potevamo, non desistemmo affatto in passato di essere di giovamento alle sue cause sacre, desideriamo poterlo essere ancora più ampiamente ed è Nostra intenzione ora di farlo: per il motivo, certo, che appaia più chiara davanti alla Chiesa la manifestazione della Nostra sollecitudine per voi e che anche gli animi di voi tutti, rinvigorita la virtù, aumentati gli aiuti, vengano confermati ed eccellano nei doveri della professione cattolica. Abbiamo poi stabilito di fare questo con speranza chiaramente più fervida per il motivo che abbiamo riconosciuto e intravisto con quale solerzia voi, venerabili fratelli, siete soliti essere interpreti ed esecutori della Nostra volontà e con quale fermezza vi affatichiate nel difendere e accrescere i sommi beni dei vostri greggi. Quei frutti eccellenti, poi, che in essi desideriamo, Dio che spinge a parlare, li assecondi Egli stesso benigno. – Il beneficio della divina verità e grazia che con la sua Religione Cristo Signore recò al genere umano, è di utilità così grande ed eccellente tanto che nessun altro [beneficio] in nessuna maniera può essere con esso neppure paragonato e ad esso eguagliato. La forza di questo beneficio [che], come tutti sanno [è] molteplice e saluberrima, fluisce in modo mirabile nei singoli e nell’insieme di tutti, nella società domestica e in quella civile, a giovamento della prosperità della vita transeunte e per acquistare la felicità della vita immortale. Da ciò appare chiaramente che i popoli a cui è stata donata la Religione cattolica, giacché con essa godono del massimo di tutti i beni, così sono vincolati dal dovere, massimo fra tutti, di promuovere e amare la medesima. Contemporaneamente, poi, appare che essa non è cosa di tal genere che o i singoli o gli stati possano presumere di rettamente garantirla ad arbitrio proprio di ognuno di essi, ma solo in quel modo, con quella disciplina, quell’ordine che definì e comandò lo stesso divin Autore della Religione: cioè col Magistero e la guida della Chiesa, che è stata stabilita da lui come “colonna e base della verità” (1Tm 3,15) e fu in vigore con la singolare assistenza di lui per tutti i tempi, e sarà in vigore in perpetuo essendo stata pronunciata la promessa: “Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine dei secoli” (Mt XXVIII, 20). – Giustamente, quindi, il vostro popolo a partire dagli avi e dagli antenati ritenne tanto illustre l’onore della religione così che sempre aderì con somma fede alla madre Chiesa e persistette sempre irremovibile in un eguale ossequio ai romani Pontefici e nell’obbedienza ai sacri Vescovi che essi, secondo il loro potere, avessero designato. Quanti vantaggi e risorse siano a voi da ciò profluiti, quanti efficaci sollievi abbiate avuto in circostanze di trepidezza, quanti aiuti abbiate anche ora, voi stessi lo conservate nei vostri grati animi, lo professate con gratitudine. – Ogni giorno è manifesto quali circostanze di gravissime realtà stiano subentrando nei popoli e nei territori, venendo la Chiesa cattolica o rispettata e mantenuta in degna posizione o danneggiata con ingiuria o disprezzo. Essendo contenuti, infatti, nella dottrina e legge del Vangelo quegli elementi che sono sempre giovevoli alla salvezza e alla perfezione dell’uomo, sia nella fede e nella conoscenza, sia nell’impiego e nell’operare della vita, e potendo la Chiesa per diritto divino [ricevuto] da Cristo trasmettere e sancire con la Religione questa dottrina e legge, essa è quindi, per servizio divino, efficace come grande forza moderatrice dell’umana società, nella quale essa è sia fautrice di generosa virtù sia realizzatrice di beni sceltissimi. – La Chiesa, poi, alla quale presiede per diritto divino il romano Pontefice, è tanto lontana dall’arrogarsi per via di così grande ampiezza d’autorità qualcosa dell’altrui diritto o dall’indulgere alle brame ambigue di qualcuno, che essa spesso piuttosto, cedendo, rinuncia al suo diritto; e, provvedendo con sapiente equità ai più elevati e agli infimi, offre se stessa per tutti quale solertissima reggitrice e madre. Perciò agiscono ingiustamente coloro che anche in questo si adoperano per riportare in luce antiche calunnie contro di essa, già tante volte refutate e chiaramente consunte, composte con una nuova specie di vituperio. Ne sono meno riprovevoli coloro che per lo stesso motivo nutrono sfiducia per la Chiesa e le attizzano il sospetto presso i reggitori degli stati e nelle pubbliche assemblee dei legislatori, dai quali, invece, ad essa è dovuta grande lode e ringraziamento. Infatti, essa nulla affatto insegna o comanda che in qualche modo sia nocivo o avverso alla maestà dei principi, all’incolumità e al progresso dei popoli; piuttosto dalla sapienza cristiana fa assiduamente crescere molte cose di loro comune utilità chiaramente quanto mai vantaggiose. Tra di esse sono degne di essere ricordate queste: che coloro che reggono un principato rappresentano per gli uomini un’immagine del potere e della provvidenza divina; che il loro dominio deve essere giusto e imitare quello divino, temperato dalla bontà paterna, e che i guadagni spettano unicamente allo Stato; che essi dovranno un giorno rendere ragione a Dio giudice e che questa per il posto più eccelso di dignità [sarà] più pesante: coloro che poi sono sotto il [loro] potere, debbono costantemente mantenere per i principi riverenza e fedeltà, come a Dio che esercita il dominio attraverso gli uomini, e obbedire ai medesimi “non solo per motivo dell’ira, ma anche per motivo di coscienza” (Rm XIII, 5), presentare per essi “implorazioni, orazioni, richieste, ringraziamenti” (1 Tm II, 1-2); che debbono osservare la santa disciplina dello Stato, astenersi dalle macchinazioni degli improbi e dalle sette, né fare qualcosa in modo sedizioso; concorrere con tutto per mantenere la tranquillità della pace nella giustizia. – Codesti e simili precetti e disposizioni evangelici, che dalla Chiesa vengono insegnati con tanto impegno, là dove sono in onore e di fatto valgono, colà non cessano di portare frutti eccellentissimi e li portano più copiosi in quei popoli nei quali la Chiesa usufruisce di più libera facoltà nel suo compito. Opporsi, invece, ai medesimi precetti e ricusare la guida della Chiesa, è lo stesso che opporsi alla volontà divina e ripudiare un insigne beneficio; giacché veramente nulla nello Stato rimane prospero e onesto, tutto scivola nella confusione, sia i reggitori sia i popoli vengono assaliti dall’ansioso timore di calamità. – In verità, venerabili fratelli, circa queste tematiche avete prescrizioni già trasmesse da Noi all’occasione più diffusamente: tuttavia Ci è parso di dover richiamare sommariamente le medesime cose, affinché la vostra premurosità, quasi poggiandosi al nuovo segnale della Nostra autorità, si adoperi con più ardore e più successo in ciò medesimo. Certamente sarà ottimo e di utilità per i vostri greggi, se si starà in guardia dai discorsi delle persone turbolente che con pessime arti non osano nulla ormai [che non sia] in maniera oltremodo scellerata per abbattere, distruggere il potere; se nessuna parte dei doveri che sono dei buoni cittadini verrà meno, se dalla fede a Dio dovuta e sacra fiorirà la fedeltà verso la cosa pubblica e i principi. – Parimenti accentrate la diligenza sulla società domestica, l’educazione della gioventù e dell’Ordine sacro, gli ottimi modi di trattare della carità cristiana. – L’integrità e l’onestà della convivenza domestica, da cui profluisce in modo precipuo la sanità nelle vene della società civile, va attinta innanzitutto dalla santità del matrimonio, che venga contratto secondo i precetti di Dio e della Chiesa unico e indissolubile. Poi è necessario che i diritti e i doveri tra i coniugi siano inviolati e vengano espletati con quanta massima concordia e carità possibile; che i genitori provvedano alla protezione e al profitto della prole, soprattutto all’educazione; che essi antecedano col loro esempio di vita, del quale nulla è più eccellente né più efficace. Alla retta e proba educazione dei figli, tuttavia, giammai essi penseranno di potere, come conviene, provvedere, se non vigilando con estrema attenzione. Infatti, essi non devono solo evitare scuole e licei dove vengano con attenta opera mescolate con l’insegnamento falsità circa la Religione o dove quasi domini l’empietà, ma anche quelle in cui non c’è alcun insegnamento né disciplina circa le istituzioni e i costumi cristiani quasi elementi importuni. Infatti, quanti vengono educati nelle lettere e nelle arti, è pure chiaramente necessario che i loro ingegni vengano ammaestrati nella conoscenza e nel culto delle realtà divine, come persone che, per esortazione e comando della natura stessa, non meno che allo stato, molto più debbano a Dio, e come persone perciò che sono state accolte nella luce, affinché servendo allo Stato, dirigano il loro cammino alla patria del cielo che rimarrà e [lo] portino a termine con zelo. Non si dovrà poi affatto cessare in ciò, facendo progressi con la loro età la cultura civile; al contrario si dovrà con più intensità insistervi sia perché la gioventù, come ora particolarmente vengono condotti gli studi, ogni giorno è spinta con più ardore dal desiderio di sapere, sia perché ad essa ogni giorno sovrastano maggiori pericoli circa la fede per via delle grandi perdite già deplorate in così importante realtà. Ciò poi che concerne il modo di trasmettere la sacra dottrina, l’onestà e la competenza dei maestri, la scelta dei libri, quali cautele la Chiesa giudichi rivendicare a sé, quali modi predeterminare, ciò lo fa chiaramente di suo diritto; ne non lo può non fare a favore di quanto è tenuta a provvedere per gravissimo dovere, affinché mai si insinui qualcosa di alieno dall’integrità della fede e dei costumi che nuoccia al popolo cristiano. – D’altra parte confermi e porti a compimento l’educazione sacra che viene impartita nelle scuole, quella che in certi tempi e con certe prescrizioni si ha nelle curie e nei templi, dove i germi della medesima fede e carità, come nel loro suolo, vengono nutriti e crescono più abbondantemente. – Queste cose avvertono a sufficienza per se stesse che è necessaria singolare diligenza e azione per formare l’Ordine clericale che, per detto divino, deve crescere in modo tale e mantenere in modo tale il sacro proposito, da essere ritenuto “sale della terra” e “luce del mondo”. Entrambe le lodi, che esprimono specificatamente la sana dottrina e la santità di vita, debbono essere particolarmente curate nel clero adolescente, né tuttavia devono essere custodite e promosse di meno nel clero adulto, a cui più da vicino sovrasta “l’apprestamento dei santi nell’opera del ministero, nell’edificazione del corpo di Cristo” (Ef. IV,12). – Circa i sacri seminari dei chierici è a Noi ben noto, venerabili fratelli, che non manca affatto la vostra cura; come, al contrario che muovervi esortazioni, si addica attestare approvazione sia a voi sia a tutti coloro della cui assidua fatica nell’amministrazione e nell’insegnamento essi si allietano. Chiaramente nei tempi tanto nocivi alla Chiesa che sono sopravvenuti, quando i nemici della verità prendono vigore, quando la peste delle seduzioni non serpeggia più occulta, ma avanza senza pudore in tutto, se si deve aspettare più di prima sollievi e rimedi dall’Ordine sacerdotale, esso naturalmente deve venir preparato con cura ed esercizio maggiore di prima alla buona battaglia della fede e all’eguale dignità di ogni virtù. Ben sapete quali norme circa il modo di dirigere gli studi siano state da Noi a più riprese in passato stabilite, soprattutto in ambito filosofico, teologico, biblico: insistete su di esse, affinché i maestri si dispongano con grandissima diligenza, né tralascino alcune delle altre scienze che sono di ornamento a quelle più importanti e aggiungono affidamento alle cariche sacerdotali. Similmente sotto la vostra istanza i superiori disciplinari e spirituali (uomini che devono essere di provatissima esperienza per integrità e prudenza), temperino il modo della vita comune in modo tale, formino ed esercitino gli animi degli alunni in modo tale che risplendano in essi progressi quotidiani delle appropriate virtù: e si miri anche al fatto che imparino e si rivestano con maturità di ogni prudenza nel contatto con quanto è di potestà civile. In questo modo chiaramente da quei sacri [luoghi], come da palestre e accampamenti, ininterrottamente uscirà ottimamente addestrata la nuova milizia, che verrà in soccorso a quanti lavorano nella polvere e al sole e sostituirà, [ancora] intatta, gli stanchi e gli emeritati. In verità facilmente vedete quanto pericolo nello stesso adempimento dei compiti sacri incontri anche la solida virtù, e quanto sia umano intiepidire nei propositi e venire meno ad essi. Perciò le vostre preoccupazioni che offriate ai Sacerdoti come convenientemente possano ricoltivare e accrescere gli studi della dottrina, riguardino contemporaneamente innanzitutto come essi possano in modo più fervido, recuperate nel frattempo le forze d’animo, sia occuparsi della loro perfezione, sia giovare alla salvezza eterna degli altri. – Se voi, venerabili fratelli, avrete un tale clero, giustamente formato e riconosciuto all’altezza ai vostri occhi, sentirete certamente non solo alleviarsi per voi il compito pastorale, ma anche abbondare i frutti desiderati nel gregge: dei quali è lecito sperare abbondanza soprattutto dall’esempio del clero e dall’operosa carità. – Il precetto della medesima carità, che è “grande” in Cristo, sia oltremodo raccomandato a tutti di qualsiasi Ordine, e i singoli si applichino a realizzarlo nel modo in cui Giovanni apostolo esorta: “con opera e verità”; con nessun altro vincolo o sostegno, infatti, le famiglie e gli stati possono mantenere la saldezza, né – ciò che vale di più – acquistare i meriti della dignità cristiana. Noi ciò considerando e deplorando i tanto numerosi e acerbi mali che, posposto o abbandonato questo precetto, sono conseguiti pubblicamente e privatamente, abbiamo spesso sul medesimo tema espresso la voce apostolica: lo facemmo specificatamente attraverso la lettera enciclica Rerum Novarum, in cui esponemmo i princìpi più adatti a dirimere la questione sulla condizione degli operai partendo dalla verità e giustizia evangelica. Ora, con rinnovata esortazione, inculchiamo gli stessi principi: essendo movente e guida la santa carità, è manifesto dall’esperienza quanta forza ed eccellenza abbiano le istituzioni cattoliche, i sodalizi di quanti esercitano le arti, le associazioni di quanti si sovvengono mutuamente, e [di] questa sorta più realtà o per alleviare le fatiche dei più deboli o per istruire rettamente l’infima plebe: coloro poi che forniscono consiglio o autorità, denaro o opera a cedeste realtà, nelle quali è in gioco la salvezza anche eterna di molti, essi in modo verissimo si rendono egregiamente meritevoli nei confronti della Religione e dei propri cittadini. – A queste cose dette universalmente al popolo della Polonia, [Ci] è gradito aggiungerne certe che riteniamo che saranno di vantaggio specificatamente secondo la condizione dei luoghi nei quali vi trovate: e in tal modo di questi stessi moniti che abbiamo dati Ci aggrada imprimerne alcuni tanto più profondamente nei vostri animi. – Innanzitutto. affidiamo un’esortazione a voi, come i più di numero, che sottostate al dominio russo, [e che] è di diritto che lodiamo con il nome della professione cattolica. È punto principale della Nostra esortazione che manteniate e promuoviate energicamente codesto animo di costanza nel coltivare la santa fede, nella quale avete quel bene che è il principio e la fonte – come dicemmo – dei massimi beni. È assolutamente necessario che il cuore cristiano anteponga di gran lunga questo a tutte le altre realtà; questo stesso, come sono i comandi divini e gli splendidi fatti degli uomini santi, non lo abbandoni affaticato da nessuna difficoltà e lo custodisca con somme forze e fatiche e, sorretto dalla virtù del medesimo, attenda consolazione e forza, qualunque evento le cose umane adducano, sia sicurissimamente sia pazientemente da Dio che si ricorda [dell’uomo]. Per ciò che concerne Noi, abbiamo in verità, secondo il Nostro compito, appreso quale sia la condizione delle vostre cose; e [Ci] diletta molto codesta grande fiducia che a guisa di figli ponete in Noi. Così, perciò, [vi] esortiamo che rigettiate del tutto le menzogne che iniquamente vengono seminate contro la Nostra benevolenza e sollecitudine per voi; siate del tutto persuasi che Noi per nulla meno dei Pontefici predecessori abbiamo accolto e abbiamo rivolto le Nostre cure come per gli altri vostri compatrioti, così per voi; che, invece, per sostenere la vostra fiducia, siamo pronti in tutto a laboriosamente adoperarci e confidentemente perseguire. Giova richiamare alla memoria che Noi già dagli inizi del pontificato, pensando alla realtà cattolica da ristabilire costì, abbiamo opportunamente interposto gli uffici presso il Consiglio Imperiale, per raggiungere quanto sia la dignità di questa sede apostolica, sia il patrocinio delle vostre cause sembrassero richiedere. Da questi uffici è risultato che nell’anno 1882 sono stati stabiliti con esso certi accordi: tra questi che ai vescovi sarebbe stata concessa libera facoltà di reggere i seminari dei chierici secondo le leggi canoniche; poi che l’Accademia Ecclesiastica Metropolitana, che è aperta anche agli alunni polacchi, dovesse venir affidata pienamente alla giurisdizione dell’Arcivescovo di Mohilev e venir migliorata per più estesa utilità del clero e della Religione cattolica: [fu] fatta, inoltre, la promessa che quanto prima andassero abrogate o mitigate quelle leggi specifiche che il vostro clero lamentava per sé più severe. Da quel tempo giammai Noi, presa o ricercata l’occasione, cessammo di richiedere [il mantenimento] dei patti convenuti. Anzi [Ci] aggradò di portare le medesime richieste allo stesso potentissimo Imperatore, del quale abbiamo sia sperimentato l’atteggiamento d’amicizia verso di Noi, sia supplicato con gagliardia l’eccelso amore della giustizia nella vostra causa: né cessiamo di presentare richieste allo stesso di tempo in tempo, affidandole soprattutto a Dio, giacché “il cuore del re [è] nella mano del Signore” (Prov. XXI,1). Voi, poi, venerabili fratelli, continuate a difendere con Noi la dignità e i sacrosanti diritti della Religione cattolica: essa potrà veramente essere salda nel suo proposito e recare i benefici che deve, quando, padrona della giusta sicurezza e libertà, sarà fornita di idonei sostegni, per quanto sia necessario, per l’esecuzione della [sua] azione. Giacché poi voi stessi vedete quale opera abbiamo dedicato appunto alla raccomandazione e al mantenimento nei popoli della tranquillità dell’ordine pubblico, voi stessi non cessate di agire affinché il rispetto dei poteri più elevati e l’ottemperanza alla pubblica disciplina sia fermamente salda nel clero e parimenti negli altri: e così, allontanata totalmente ogni causa di offesa o di biasimo e mutata ogni specie di imputazione in riverenza, rimanga e cresca al nome cattolico la sua lode. – Parimenti sia vostra incombenza far sì che non manchi nulla circa la somma salvezza dei fedeli, né nell’amministrazione delle curie, né nell’impartire il pascolo della parola divina, né nell’alimentare lo spirito della Religione; che i fanciulli e gli adolescenti, soprattutto nelle scuole, vengano diligentemente impregnati di sacra catechesi e ciò, per quanto può essere fatto, ad opera di Sacerdoti, ai quali ciò venga da voi legittimamente demandato; che si accordino pienamente col culto divino sia il decoro degli edifici sacri sia lo splendore festivo delle solennità, donde la fede attinge buoni incrementi. Avrete agito, poi, molto bene mettendo in anticipo in guardia da discriminazioni, se per caso sembra che ne esista qualcuna in queste cose; per questa causa non dubitate di fare appello, pur se con gravità e prudenza, alle stesse convenzioni ratificate con questa Sede Apostolica. Certo, deve essere gradito e desiderabile non solo ai polacchi, ma a tutti coloro che sono guidati da sincera carità per lo Stato, sia che non ci siano tali discriminazioni, sia che vengano conferiti i beni confacenti. La Chiesa cattolica, infatti – ciò che all’inizio abbiamo insegnato e ogni giorno si segnala -, è nata ed è stata istituita così che sicuramente giammai partorisca agli Stati e ai popoli nulla di dannoso, ma felicemente molteplici splendide utilità, anche nell’ambito delle cose mortali. – Voi, poi, che siete nel dominio dell’inclita casa degli Asburgo, considerate negli animi quanto dobbiate all’augusto Imperatore, zelantissimo dell’avita Religione. Perciò si apra da parte vostra verso di lui la giusta fiducia e il grato ossequio più eccellentemente di giorno in giorno: si apra zelo non dissimile di ottenere tutte quelle cose che o sono già state ottimamente costituite o i tempi e le circostanze persuadano a provvidamente costituire per l’incolumità e il decoro della Religione cattolica. – Desideriamo fermamente che l’Università di Cracovia, antica e nobile sede delle scienze, venga difesa nella sua integrità e prestanza, e che pure emuli le glorie di tali accademie che, non poche, l’insigne cura di Vescovi o la liberalità di privati, col Nostro favore, promosse in questi nostri tempi. Come in quelle, così nella vostra, sotto la direzione della solerzia del diletto Nostro figlio il Cardinal Vescovo, tutte le importantissime scienze, armonizzando con la fede con patto amico e presentando tanto di sostegno per la sua difesa quanto da essa di luce e di fermezza prendono in prestito, magari siano sempre più in tutti gli aspetti di giovamento alla gioventù dilettissima. – Parimenti deve molto importare alle vostre cose, certo alle Nostre importa massimamente ,che presso di voi gli Ordini dei religiosi siano in rigoglio nella stima di tutti: essi, incaricati della perfezione della virtù che cercano di conseguire e di molteplice insegnamento e del lavoro fruttuoso nel guadagnare gli animi, sono come ricchezze più abbondanti a disposizione della Chiesa e non di meno le cittadinanze in ogni tempo hanno usato di essi come ottimi aiutanti per ogni onestissima iniziativa. E particolarmente, volgendo lo sguardo alla Galizia, ricordiamo con somma propensione l’antichissimo ordine basiliano, nel ristabilire il quale Noi stessi tempo fa demmo alcuni peculiari consigli e cure. Infatti, veramente cogliamo frutto non insignificante di letizia per il motivo che esso, assecondando con vivace religiosità la Nostra aspettativa, si rifaccia in piena misura alla gloria dei tempi anteriori allorché fu in molti modi salutare alla chiesa rutena: con la vigilanza dei Vescovi e l’operosità dei curatori i segnali di salvezza del medesimo cominciano già da esso a brillare più luminosi di giorno in giorno. – Qui però, giacché cadde la menzione sui Ruteni, permettete che ripetiamo l’esortazione che voi con essi, sebbene si interponga la differenza delle origini e dei riti, associate le volontà più strettamente e amantemente, come si addice a coloro che la comunione di territorio, cittadinanza e massimamente di fede associa. Come infatti la Chiesa li ha e li ama come benemeriti figli e permette loro con sapiente consiglio legittime consuetudini e riti propri, non diversamente voi, a cominciare dal clero, abbiateli e curateli così come fratelli dei quali sia un cuore solo e un’anima sola, a ciò in fin dei conti aspirando: che aumenti all’unico Dio e Signore la gloria e insieme vengano moltiplicati i frutti di ogni giustizia “nella bellezza della pace”. – Parimenti con animo gradito volgiamo la parola a voi che abitate la provincia di Gnesen e Posnania. Seppure tra le altre cose, [Ci] è grato ricordare come tra i vostri stessi cittadini, come era desiderio di tutti, innalzammo all’illustre sede di S. Adalberto un uomo insigne per pietà, prudenza e carità. Più grato è poi vedere con quale obbedienza, con quale amore siate unanimi favorevoli alla sua mite e operosa guida: da ciò veramente [c’è] da sperare che la condizione della Religione cattolica si allieterà presso di voi ogni giorno più di buoni incrementi. Al fine poi che la medesima speranza si confermi maggiormente e risponda più pienamente ai desideri, non senza causa comandiamo che voi confidiate nella magnanima giustizia del serenissimo Imperatore; del quale, tra l’altro, non una volta sola abbiamo conosciuto come testimoni la mente propensa e benevola verso di voi, che sarà per voi chiaramente di aiuto se persevererete nella verecondia delle leggi, in ogni gloria cristiana delle cose rettamente compiute. – Venerabili fratelli, vogliamo che ognuno annunzi queste prescrizioni ed esortazioni ai vostri greggi di modo che anche le vostre opere risultino più fruttuose. In questo riconoscano così i figli carissimi da quanto grande affetto di carità a loro stesso favore siamo spinti; questo poi essi stessi, come Noi fortemente desideriamo, [lo] accolgano con eguale rispetto e pietà. Se, infatti, coltiveranno queste cose diligentemente e costantemente – ciò che riteniamo per certo – potranno sicuramente sia allontanare i pericoli alla fede derivanti dalla gravezza del tempo, sia custodire le memorabili magnificenze dei padri, rinnovarne gli atteggiamenti e gli esempi, diffondendosi da ciò vantaggi quanto mai ottimi a sollievo anche di questa vita. – Vi chiediamo, poi, di implorare assieme a Noi con ardore favorevole abbondanza d’aiuto divino, presi per intercessori la gloriosissima Vergine Maria, Giuseppe santissimo, della cui solennità oggi il popolo cristiano si allieta, e i santi celesti patroni della Polonia. – Come auspicio di ciò e come testimonianza della Nostra particolare benevolenza impartiamo amantissimamente nel Signore a voi e al clero e a tutto il popolo affidato alla vostra vigilanza la benedizione apostolica.

Roma, presso San Pietro, 19 marzo 1894, anno XVII del Nostro pontificato.