LA GRAZIA E LA GLORIA (24)

LA GRAZIA E LA GLORIA (24)

Del R. P. J.-B. TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO V

LA FILIAZIONE ADOTTIVA CONSIDERATA NELLA SUA RELAZIONE CON CIASCUNA DELLE PERSONE DIVINE.

LA RELAZIONE CON IL PADRE E IL FIGLIO.

CAPITOLO II

La relazione dei figli adottivi con la seconda Persona. Il Figlio eterno, esemplare della nostra filiazione.

1. – Se siamo, per legittima appropriazione, figli adottivi del Padre, appartiene al Figlio essere l’esemplare e l’archetipo su cui siamo formati come figli di Dio. Non che non portiamo in noi l’immagine di tutta la Trinità, poiché è la Trinità che parla quando Dio dice in principio: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza. Immagine e somiglianza non solo nell’ordine della natura, ma anche nell’ordine della grazia. Degli dei divinizzati devono avere in loro il carattere della divinità, comune alle tre Persone. Ma, quando guardo questi dei deificati sotto il loro titolo e nella loro qualità di figli di Dio, la legge di appropriazione esige che la ragione del prototipo e del primo modello sia la singolare prerogativa di Colui che è il Figlio per natura. Così, niente è più frequente nei nostri Libri santi e nei Padri che l’idea dell’esemplarità particolarmente affermata di questo Unico. « Quelli – dice San Paolo – che Egli ha conosciuto con la sua prescienza, li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del suo Figlio, affinché egli stesso fosse il primogenito tra molti fratelli » (Rom., VIII, 29). So che i Padri greci intendevano con il nome di immagine lo Spirito Santo; ma, come vedremo più avanti, ciò era per giungere per una via diversa alla stessa idea dei loro fratelli occidentali. (Cfr. S, Thom. 3 p:, q. 23, a.2, ad 3.). – Quando siamo generati, quando cresciamo nella vita divina, è Cristo, il Figlio di Dio, che si riproduce e cresce nelle nostre anime. « Figlioli miei, che io genero di nuovo fino a che il Cristo sia formato in voi » (Gal. IV, 19), scrive San Paolo ai fedeli della Galazia. È per questo che tutta l’opera della nostra perfezione spirituale, che inizia nel Battesimo con la nascita e che non si completa fino alla maturità dell’uomo perfetto, tende a rivestirci di Cristo. Se vogliamo che il Padre ci riconosca come suoi figli, assumiamo i tratti, i modi e, nel nostro piccolo, l’essere stesso del Figlio amato. – Voglio far sentire qui la voce eloquente di San Giovanni Crisostomo. Nel suo commento all’epistola ai Galati, egli è giunto alle parole: « Voi siete tutti figli di Dio mediante la fede in Gesù Cristo » (Gal. III, 26). « Per la fede – riprende il grande oratore – e non per la legge ». E poiché questa è una cosa grande e veramente ammirevole, l’Apostolo spiega il modo in cui essi diventano figli di Dio. «Tutti voi – egli dice – che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo » (Ibid. 27). Perché non dire: « Tutti voi che siete stati battezzati in Cristo siete nati da Dio »? Ecco, sembra, ciò che conveniva per dimostrare la loro filiazione divina. Ma egli preferisce esporla in termini di un’altezza veramente vertiginosa… In effetti, se Cristo è il Figlio di Dio, e voi vi siete rivestiti di Cristo, avendo il Figlio in voi ed essendo trasformati in Lui per somiglianza, siete in un certo senso usciti dalla vostra specie, e la sua parentela con il Padre è diventata vostra. « Non c’è più giudeo o gentile, schiavo o libero, maschio o femmina; non siete voi tutti che uno in Cristo Gesù. » –  « Vedete l’anima insaziabile di questo Apostolo. Dopo aver detto: Voi tutti siete diventati figli di Dio per mezzo della fede, si fermerà lì? No. Egli cerca espressioni per affermare ancora più fortemente la nostra unione con Cristo. Quindi aggiunge: Vi siete rivestiti di Cristo; e questo non gli basta ancora: va ancora oltre l’unione. Voi siete tutti uno in Cristo, cioè avete tutti in voi una stessa forma, uno stesso tipo, la forma e il tipo di Cristo. Quali parole maggiormente capaci di incutere il rispetto e precipitare nello stupore? Colui che finora era un pagano, un giudeo, uno schiavo, questo stesso si avanza portando la forma e il tipo, non di un Angelo o di un Arcangelo, ma del Signore di tutte le cose: egli è la copia vivente di Cristo » (S. J. Chrysost. in ep. ad Gal, P. Gr., t. 61, p. 656). – Le stesse idee, con una sfumatura leggermente diversa, si trovano negli scritti di San Cirillo di Alessandria. Per la comprensione del santo Dottore è necessario sapere che dove il testo della Vulgata legge: « Io ti ho formato, tu sei il mio servo Israele » (Is, XLIV, 21), lui legge: « Io ti ho formato figlio mio ». Dopo aver descritto la formazione naturale dell’uomo e quella formazione superiore che dobbiamo alla scienza pratica delle leggi divine e allo splendore delle virtù, continua in questi termini: « Ognuno di noi è formato in Cristo, ad immagine di Cristo, per la partecipazione dello Spirito Santo. Infatti, il divino Paolo scrive ai Galati: Figlioli miei (e gli altri di cui abbiamo parlato prima). Ora è lo Spirito Santo che forma il Cristo in noi quando attraverso la santificazione e la giustizia ci conferisce una forma divina. Così il carattere della sostanza di Dio Padre risplende nelle nostre anime (Ebr. I, 3), attraverso lo Spirito la cui virtù santificante ci rifà su questo modello. Ecco perché il santissimo Paolo dice: Non conformatevi a questo mondo, ma riformatevi nella novità della vostra mente, per provare quanto sia buona, gradita e perfetta la volontà di Dio (Rom. XII, 2). I Giudei hanno un velo sul loro cuore, ma noi, guardando la gloria del Signore a viso scoperto, siamo trasformati nella stessa immagine, da chiarezza in chiarezza, come dallo Spirito del Signore (II Cor. III, 18). E così siamo formati in figli di Dio » (S. Gyril. Alex. In Is., L. IV. P. Gr., t. 70, p. 956). Ove si vede che se lo Spirito Santo è l’artigiano della nostra formazione, l’esemplare e l’archetipo su cui siamo formati, è il carattere della sostanza di Dio Padre, cioè suo Figlio. – Secondo questo testo e altri simili, mi rappresento il Figlio eterno di Dio che, volendo fare di noi la copia vivente della sua bellezza divina, trasmette la sua immagine allo Spirito Santo perché la riproduca nelle nostre anime. Per meglio dire, è lo Spirito Santo che mi appare come un artista onnipotente, che incide i suoi tratti nel mio cuore, e così mi rende simile al Figlio: poiché Egli è per sua essenza l’immagine naturale del Figlio. E Dio Padre, poiché vede allora risplendere sul volto della nostra anima i tratti divini del suo Figlio diletto, ci ama d’ora in poi come degli altri figli, e ci riempie di una gloria infinitamente superiore alla nostra condizione terrena (S. Cyril. d’Alex. Hom. Pasch. 10. P. Gr., t. 76, p 618.). Questo è un modo di concepire che è peculiare di molti dei Padri greci, e si fonda sull’interpretazione che essi hanno fatto delle parole dell’Apostolo: « Quelli che Egli ha conosciuto nella sua prescienza, li ha predestinati a diventare conformi all’immagine del Figlio suo (Rom. VIII, 29); poiché qui l’immagine è per loro lo Spirito Santo. Non che confondano le proprietà delle Persone. Come i latini, insegnano secondo l’Apostolo che appartiene solo alla seconda Persona di essere « lo splendore della gloria di Dio, la gloria della sua sostanza, lo specchio infinitamente puro della sua maestà » (Hebr., 1, 3; Sap., VII, 26,); ma, supposta questa dottrina, lo Spirito di verità non è meno l’immagine naturale del Figlio, cioè l’immagine del Figlio quanto alla natura, poiché la natura che ne riceve, è la natura propria del Figlio. Non avevo ragione di dire che questi medesimi Padri, anche se sembrano allontanarsi qui dai loro fratelli occidentali, arrivano con loro alla stessa conclusione?

2. – In accordo sulla conclusione dogmatica, essi lo sono anche sulle conseguenze morali. Siete stati costituititi figli a somiglianza del Figlio unigenito, e la sua filiazione naturale è la copia della vostra filiazione adottiva. Quindi il complemento atteso deve rispondere a queste origini. Pertanto, tutte le vostre azioni, il vostro pensiero, la vostra volontà deve essere modellata sul suo agire, sulla sua volontà e sul suo pensiero. Sbalorditi e come stupefatti al pensiero di una parentela così alta, e di un archetipo così sproporzionato alla nostra nullità, ci chiedevamo cosa fare per esserne degni, cosa fare per non esserne estromessi? E questo Figlio, primogenito del Padre, è venuto a noi; è diventato uomo come noi, uno di noi, con la nostra natura, la nostra carne, le nostre debolezze e i nostri mali; e ci ha detto: Io, il Figlio per natura, il Figlio infinitamente perfetto di un Padre infinitamente perfetto, sono diventato come uno di voi. Guardate e fate quello che vi ho dato nella mia umanità. Rivestiti di me come di una veste più adatta alla debolezza, più conforme alla tua misura (Rom. XIII, 14). Non ti chiedo di creare mondi, né di estendere i cieli, né di porre dei limiti al mare affinché non possa superarli nella sua massima furia (Prov. VIII, 27 e seguenti); queste sono opere di potenza che sono proprie di me come Dio. Ma io ho obbedito a mio Padre, ero povero, umile, mite di cuore, paziente fino all’eccesso; ma non rifuggivo da nessun sacrificio quando si trattava di amare gli uomini e il Padre mio del cielo. È così che l’esemplare divino parla al nostro cuore. È anche, in accordo con questi alti pensieri, che Gregorio di Nazianzo vuole che resistiamo al nemico delle nostre anime: « Se il diavolo vi attacca –  dice questo Padre – se vi mostra, come ha fatto con Gesù Cristo, il fasto delle ricchezze e della grandezza per ottenere la vostra adorazione, disprezzatelo come un miserabile. Armati del segno della croce, rispondetegli: Anch’io sono l’immagine di Dio e l’orgoglio non mi ha fatto cadere dall’alto della gloria come ha fatto cadere te. Sono rivestito di Cristo; attraverso il Battesimo Cristo è diventato mia proprietà. Sta a te adorarmi, Tu me ipse adora (S. Gregor. Naz., orat. 40, n. 10. P. Gr., t: 36, p. 370).

3. – È importante per la comprensione di queste alte verità esprimere, con tutta la precisione possibile, come la filiazione adottiva differisca da quella naturale, anche se quest’ultima è l’archetipo della prima. Se ne differenzia perché il Padre comunica al Figlio per natura la sua stessa sostanza, in una perfetta identità di essere e perfezione, e noi la riceviamo solo nella sua somiglianza accidentale e per partecipazione. Essa se ne differenzia, perché è dell’essenza stessa del Padre produrre un Figlio che sia con Lui della stessa natura (Gv. 1,18), uguale e co-eterno al Padre; tanto che entrambi non sarebbero né Persone né Dio, se uno non fosse Padre e l’altro Figlio. La condizione dei figli adottivi è ben diversa; così come l’atto che li rende figli. Se si toglie l’adozione, Dio non è meno Dio, non meno perfetto, non meno Padre, e io non sono meno creatura, non meno uomo. – Si differenzia perché è per via d’intelligenza che il Padre genera naturalmente il suo Verbo, mentre il figlio d’adozione procede da Lui per libera scelta del suo amore. Essa se ne differenzia, perché è la filiazione naturale che è il principio della filiazione di grazia. Perciò i Padri, quando vogliono provare che Gesù Cristo, Nostro Signore, è veramente il Figlio di Dio per natura, il Figlio Dio di un Dio Padre, ce lo mostrano nelle Sacre Scritture come autore e consumatore della nostra adozione. Se ne differenzia, perché il termine di generazione naturale, essendo Dio, rimane in Dio, nel seno misterioso del Padre (Gv. I, 1, 18), mentre il termine di adozione, come tutta la creazione, è in quanto all’essere distinto e separato da Dio. Infine, se ne differenzia, perché la nascita del Figlio eterno di Dio precede nell’ordine, non dico di durata, ma di natura, la processione dello Spirito Santo; mentre la filiazione adottiva, anche se fosse al di sopra delle leggi del tempo, presupporrebbe comunque lo Spirito Santo, poiché il suo principio è l’amore.

4. – Addentriamoci ulteriormente in questa materia per comprendere meglio la sua portata dottrinale. Ora, ecco la questione che si pone davanti a noi. Abbiamo il diritto di dire che Gesù Cristo, considerato nelle perfezioni e negli atti della sua natura umana, è il prototipo e l’esemplare della nostra filiazione adottiva, o, che equivale alla stessa cosa, della nostra somiglianza soprannaturale con Dio? Qui il sì e il no sono ugualmente veri, a seconda del punto di vista che si considera. No, in primo luogo: perché la grazia, questa natura soprannaturale che è la forma dei figli adottivi, non ha che nella natura divina la sua sede originale, il suo primo principio e il suo perfetto esempio. No: perché la nostra figliolanza della grazia non può trovare il suo modello che nella figliolanza della natura, poiché Cristo non è in nessun senso il figlio adottivo del Padre. E tuttavia possiamo rispondere, sì, in un senso che, anche se meno rigoroso, non è meno indiscutibile. Il Figlio di Dio, considerato come uomo, è l’esemplare della nostra filiazione adottiva, se guardiamo il modo in cui l’abbiamo ricevuta. Questa è la bella dottrina che Sant’Agostino sviluppa magnificamente nei suoi libri contro il pelagianesimo. Egli dimostra che la grazia è grazia, cioè, non proviene né dal merito né dalle esigenze della natura. « Uno splendido esempio di predestinazione e di grazia – dice il grande dottore – è il Salvatore stesso, il mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Cristo Gesù. Dove sono infatti le opere, dove sono i meriti con cui la natura umana che è in Lui, ha pagato il beneficio che ha fatto dell’uomo un Dio? Rispondete, ve ne prego: questa natura, innalzata dal Verbo all’unità della sua Persona e divenuta la natura dell’unico Figlio di Dio, come ha meritato questo incomparabile onore? Quali atti l’hanno preparata a questa unione? Cosa ha fatto, cosa ha creduto, cosa ha chiesto per ottenere una dignità così ineffabile? Che essa appaia nel nostro Capo e nostra testa come la fonte stessa da cui la grazia fluisce a ciascuna delle sue membra, secondo la misura propria di ciascuna di esse. La grazia che, all’inizio della sua fede, fa di ogni uomo un Cristiano, è la grazia che, nel primo momento della sua esistenza, ha fatto di quest’uomo il Cristo (S. Aug., de Prædest. ss, c. 14, n. 30-31). Allo stesso ordine di idee è legata un’osservazione che ricorre frequentemente nei Padri e nei Dottori. Se il Figlio, considerato come Dio, procede eternamente dal Padre e nient’altro che dal Padre, lo stesso non vale per il mistero di grazia che ce lo ha dato come uomo; poiché è dallo Spirito Santo che è stato concepito nel grembo della Vergine immacolata. Così noi, figli adottivi di Dio, siamo generati alla vita divina dallo stesso Spirito: perché non è la natura che ci consente di essere figli, ma la libera e graziosa volontà di Dio, il suo amore. Perciò, poiché la grazia che risplende in Cristo Gesù è una luce che manifesta la nostra, Egli è in questo senso l’esemplare della nostra adozione. Negare questo, con il pretesto che il Dio-Uomo non è come noi, che in virtù di questa grazia, è un figlio di adozione, sarebbe dimenticare che la copia, per essere tale, non deve essere in tutto conforme al suo originale: basta che gli assomigli in qualche aspetto (Thom, p. 3, q. 24, a 3, in. corp. et ad 3.). Consideriamo di nuovo questa vita divina di cui la grazia è il principio in noi. Da dove viene? Dal seno di Dio, senza dubbio, la fonte della luce divina, di cui è solo un riflesso. Ma questa fonte divina si è riversata prima di tutto sull’anima di Cristo, Nostro Signore, con una pienezza incomparabile, ed è da questa pienezza che è fluita sulle nostre anime (Joan. I, 16). Così ci hanno predicato gli Apostoli. « Egli ci ha predestinati – dice San Paolo – all’adozione di figli per mezzo di Gesù Cristo, secondo il proposito della sua volontà, a lode e gloria della sua grazia, che ci ha donato nel suo amato Figlio, redenti come siamo, perdonati e restaurati in Cristo » (Efesini I, 5, ss.). Concludiamo, dunque, che se Cristo nella sua umanità è solo una copia in rapporto all’Archetipo Sovrano, è una causa esemplare rispetto a noi, subordinata senza dubbio, ma molto verace. – Causa esemplare, ho detto, non solo perché ci offre nella sua Persona il modello perfetto delle virtù che dobbiamo imitare per vivere come figli di Dio, ma anche perché tutti i nostri doni soprannaturali hanno come principio prossimo la sua grazia principale e il suo merito. Da questo punto di vista, che differenza tra Gesù Cristo Nostro Signore e i santi che ci vengono proposti come modelli! Quando S. Paolo scriveva ai fedeli di Corinto: « Io vi ho generato in Cristo Gesù attraverso il Vangelo. Vi prego dunque di essere miei imitatori, come io lo sono di Cristo » (I Cor. IV, 16), non era tanto di imitatori che cercava per se stesso quanto di Cristo, che viveva in lui. Se i Santi hanno diritto alla nostra imitazione, è perché portano in sé l’immagine dell’Uomo celeste, il nuovo Adamo (I Cor. XV, 49), e si offrono a noi come delle apparizioni del Salvatore tra gli uomini. Ognuno di loro riflette a suo modo un aspetto della perfezione ideale che è solo in Gesù Cristo nella sua totalità; ma la sua gloria è confessare che ciò che possiede di essa, lo ha da Lui. Modello, dunque, ma perché è prima di tutto una copia del grande Modello; un modello e non una causa esemplare, perché appartiene solo a Gesù Cristo essere allo stesso tempo l’ideale e la causa della santità.

LA GRAZIA E LA GLORIA (25)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (22)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (22)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO NONO (2)

Elevazione alla Trinità

(Commento)

2 – Pacifica l’anima mia.

Un aspetto nuovo di questa preghiera ci fa penetrare nella sua maniera tutta propria e personale di concepire la vita interiore. Non già che essa abbia scoperto una dottrina inedita del Cristianesimo, ma perché ha saputo compenetrare il significato profondo della parola di Gesù: « Il regno di Dio è dentro di voi ». E suor Elisabetta ha proprio avuto da Dio la grazia di ricondurre le anime su questo punto, al puro Vangelo. Non si può forse dire di lei quello che essa scriveva della Vergine, modello della sua vita interiore: « In lei, tutto si svolge di dentro »? Fu proprio la sua grazia particolare, quella di vivere nel fondo dell’anima sua le ricchezze trinitarie del suo Battesimo e di invitare le anime a questo ritorno alle veraci sorgenti della vita divina. « Rendila tuo cielo ». L’anima stabilita nella pace e liberata dal suo « io » diviene il teatro delle meraviglie della grazia e, per il Signore, un vero cielo, una dimora cara, un luogo di riposo. Notiamo l’elevatezza di questa vita di intimità con le Persone divine. Qui, le mire ordinarie sono capovolte. La maggior parte delle anime aspirano all’unione con Dio per il desiderio, lodevole del resto, di divenire sante; ma pensano poi al perché supremo di ogni santità: la gioia di Dio e la sua maggior gloria? Esse tendono a Dio con tutte le loro brame, ma senza giungere però a dimenticarsi interamente. Quanti pericoli latenti sotto questo metodo di spiritualità che si potrebbe chiamare: dell’« io » santificato! Qui, al contrario, risplende il primato di Dio. L’anima è un tempio vivo in cui la Trinità santa riceve senza posa un culto di adorazione, di ringraziamento, di lode e di amore. Le Persone divine gioiscono una dell’Altra nell’intimo di quest’anima in cui insieme abitano, in cui il Padre genera il Figlio, il Padre e il Figlio spirano uno stesso Amore. L’anima diviene un cielo per il suo Dio. Più tardi, suor Elisabetta della Trinità, contemplando questa bontà divina che trova le sue delizie ad abitare tra i figli degli uomini, descriverà così l’ufficio di una lode di gloria: « Un’anima che permette all’Essere divino di saziare in lei il Suo bisogno di comunicare tutto ciò che Egli è, e tutto ciò che Egli ha ». « Che io non ti lasci mai solo ». Ecco la collaborazione personale, necessaria: « Essere lì, interamente presente. ben desta nella fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata all’azione creatrice ». Veramente, Dio non è mai solo: né in Se stesso, né nelle anime; e questa società trinitaria gli basta. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo vivono insieme « adesso come in principio e per i secoli dei secoli », trovando nel più intimo della loro Essenza, in un’amicizia perfetta, luce e amore e gioia, in grado infinito. Dio non è dunque mai solo, e la teologia trinitaria nota giustamente che, a rigor di termine, è proibito e pericoloso definire Dio: solitario. Questa vita di Dio « dentro di Sé » è talmente la gioia del nostro Dio, che se — supponendo l’impossibile. — questa pluralità delle Persone non esistesse in seno alla vita trinitaria, anche in mezzo ad una moltitudine infinita di uomini e di Angeli chiamati a partecipare, per grazia, alla sua vita intima, Egli rimarrebbe sempre l’Eterno Solitario, un po’ come una creatura dotata di intelligenza e di volontà, si aggirerebbe solitaria in un giardino, malgrado la presenza di innumerevoli piante e animali » (Cfr. il testo così profondo di san Tommaso; 1° q. 31, a. 3; ad 1). – Per sovrabbondanza di pura bontà e per « eccesso di amore », Dio ha voluto trovare le sue delizie tra i figli degli uomini. Lo abbiamo visto, proprio Lui, in mezzo alla sua creazione: Il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi. E noi siamo nel numero di quei privilegiati ai quali fu concesso di divenire i « figli di Dio », in comunione del « Verbo », predestinati a vivere « in intima unione con Lui ». « In società », in intima unione: questa parola di san Giovanni, così cara a suor Elisabetta della Trinità, ci spiega il senso profondo della sua preghiera: « Che io non ti lasci mai solo ». « Ma che tutta io vi sia…». La sua ascetica e la sua mistica consistevano appunto nel serbarsi libera e interamente distaccata da tutto, per vivere nel fondo dell’anima sua, « alla presenza del Dio vivo ». «Vigile e attiva nella mia fede ». « Una Carmelitana è un’anima di fede ». La serva di Dio ritornava spesso, nella sua vita intima, a questa prima virtù teologale: « Il programma del mio ritiro sarà di starmene, con fede e amore, sotto l’unzione di Dio». « Essere desta e attiva nella fede » significa andare più in là delle formule che racchiudono le verità da credere: significa abitare in Dio. « Tutta immersa nell’adorazione… ». È sempre lo stesso atteggiamento essenzialmente adorante di fronte a Dio. « Tutta abbandonata alla tua azione creatrice… ». Suor Elisabetta della Trinità fu una di quelle anime che si danno senza riserva all’azione dello Spirito, convinte che la vita spirituale consiste meno nel moltiplicare gli sforzi personali, che nel lasciarsi prendere da Dio. La sua cura costante e sempre più intensa, fu di « credere all’Amore », di lasciarsi trasformare dall’Amore. Ed è importantissimo, alla sua scuola, essere profondamente convinti che ogni iniziativa di santità viene prima di tutto da Dio e rivela in prima linea una realizzazione della sua grazia, cioè del suo gratuito amore. Il carattere proprio dell’amore di Dio verso di noi non è forse di essere Amore creatore? Lasciarsi amare, dunque, è lasciare che Dio agisca nel nostro intimo, lasciare che crei in noi tutte le meraviglie di grazia e di gloria. – Suor Elisabetta della Trinità aveva compreso la risposta da dare a questo Amore che non chiede che di potere agire in noi: « Abbandonarsi pienamente alla Sua azione creatrice ».

3 – O amato mio Cristo.

Ed ecco la via che conduce alla Trinità: il Cristo. Sembra apparire d’un tratto; in realtà, è al centro della preghiera di suor Elisabetta della Trinità come è al centro della sua vita. « O amato mio Cristo! ». Quando si tratta di Lui, non c’è più che da amare, « amare fino a morirne ». Aveva già scritto nel suo diario di fanciulla: « Vorrei farlo conoscere, farlo amare in tutto il mondo ». Da allora, sono passati cinque anni, anni di intimità quotidiana, di vita di sposa del Cristo. La sua devozione a Cristo va diritta all’essenziale: al « Crocifisso per amore », a Colui che, nella veglia della sua professione, le aveva detto di essersela scelta per tutta una vita di silenzio e di amore. Suor Elisabetta si era donata: « Vorrei essere una sposa per il tuo cuore » e, « in quella mattina, la più bella della sua vita », era divenuta sposa del Cristo, fino alla morte. Ormai, Cristo sarà l’unica sua vita. « Coprirti di gloria… ». « Mulier gloria viri » (I ai Corinti, XI-7.). Come una fedele sposa, si dedica, con sempre maggiore intensità, a « zelare il Suo onore ». Dio non le ha ancora rivelata la sua vocazione suprema di « Lode di gloria », ma già ve la incammina. Verrà poi un giorno in cui questo anelito accentrerà tutto, nell’anima sua, per la gloria della Trinità e per quella del suo Cristo. « Ma io sento la mia impotenza… ». È incoraggiante il pensiero che i Santi sentivano la loro debolezza, come noi. E Gesù stesso non ha voluto anch’Egli accettare il soccorso dell’Angelo dell’agonia, e l’aiuto di un Cireneo? Di fronte ad un ideale sovrumano, i Santi non indietreggiavano; sapevano chiamare in loro aiuto il Forte, Colui la cui virtù segreta è con noi sempre, pronta a purificarci, a salvarci, a divinizzarci, a trasformarci in Lui. « Egli è sempre attivo, sempre operante nell’anima nostra. Lasciamoci formare da Lui. Che Egli sia l’anima della nostra anima, la vita della nostra vita, sì che possiamo dire con san Paolo: « Per me, vivere è Cristo » (Lettera alla signora A… – 9 novembre 1902). Le loro miserie, le loro infermità, invece di sorprenderli o di arrestarli, li gettano in Dio e in Gesù Cristo. Ascoltate questo crescendo sublime della confidenza dei Santi: « Rivestimi di Te, unificami a tutti i movimenti dell’anima tua ». Poi le parole si accumulano, premono, incalzano, per esprimere un sentimento che trabocca, incontenibile: « Ti prego, sommergimi, pervadimi, sostituisciti a me…; la mia vita non sia che un riflesso della tua vita. Vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore!… ». La trasformazione in Cristo è completa, il motto scolpito sul « bel Crocifisso della sua professione » è realizzato: « Non sono più o che vivo; Cristo vive in me. Jam non ego, vivit vero in me Christus ».

4 – O Verbo eterno!

Il volto Cristo conduce agli splendori del Verbo. È uno dei temi familiari agli autori mistici; ogni vera devozione a Gesù Cristo si rivolge principalmente alla sua divinità: l’umanità non è che la via. Anche a questo punto, ci troviamo in piena linea tradizionale, perfettamente equilibrata. Dopo essersi soffermata nelle piaghe redentrici del « Crocifisso per amore », con un colpo d’ala, si slancia fino al Verbo: « O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la vita ad ascoltarti ». Che cosa importano all’anima che ha incontrato il Verbo, tutte le meraviglie della natura e della grazia? Queste creature non sono Lui ed « è Lui, Lui che noi cerchiamo ». I cieli che ci narrano la sua gloria, non lo celano però anch’essi ai nostri sguardi? « Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la vita ad ascoltarti »; Tu mi racconterai tutti i segreti racchiusi nel seno del Padre, il mistero dei Tre nell’Unità. «Voglio rendermi docilissima, per imparare tutto da Te ». La serva di Dio ci rivela ora quale sia la sorgente dei suoi lumi più sublimi: è la scuola di Dio. Raramente si trova un’anima che meno di lei sia stata desiderosa di libri: si è nutrita soltanto di qualche raro libro di spiritualità: il Cantico spirituale, la Viva fiamma del suo Padre san Giovanni della Croce « che penetrò così addentro nella divinità », e le Epistole di san Paolo. Lei stessa confidava sommessamente alla sua Priora: « Ciò che Egli mi insegna, è ineffabile ». E la Madre Germana, da parte sua, ne era perfettamente convinta: suor Elisabetta della Trinità fu soprattutto la discepola e l’ascoltatrice del Verbo. « Poi, nelle notti dello spirito, nella desolazione, nella impotenza… ». Si ritrova, qui, il sentiero del « nulla » che conduce al vertice del monte Carmelo. L’anima contemplativa, l’anima Carmelitana in particolare, è chiamata a conoscere le lunghe e dolorose purificazioni delle « notti » oscure, prima di raggiungere l’unione divina: dopo aver lasciato tutto per Cristo, sentirlo scomparire… non per un giorno o per qualche mese, ma per lunghi anni, per tutta una vita forse…, e nonostante, rimanere fedele, senza mai indietreggiare, senza lamentarsi mai. Una grande esperienza vissuta si cela in queste brevi parole: Le anime di orazione non cerchino Dio per il sentiero delle consolazioni, ma nella nudità della fede e nello spogliamento assoluto; e qui rimangono, fedeli « in tutte le notti, tutte le desolazioni, tutte le impotenze ». «Voglio fissarti sempre, e starmene sotto il tuo grande splendore ». Suor Elisabetta della Trinità aveva gustato anch’essa, nelle prime ore della sua ascesa per le vie mistiche, le gioie inebrianti della presenza di Dio. Ma ben presto, e a lungo, dovrà cercare il suo Dio nella pura fede. « Dopo queste estasi, questi sublimi rapimenti nei quali l’anima dimentica tutto il resto e non vede che il suo Dio, come par dura e penosa l’orazione ordinaria e quanta fatica ci vuole per raccogliere le proprie potenze! Come costa e come sembra difficile! ». Eppure, non è davvero il momento di lasciare la vita di orazione. È l’ora benedetta che conduce all’unione trasformante, nel silenzio della notte. Dunque, più che mai, « guardarlo fissamente, sempre », e « rimanere in pace sotto la grande luce » della notte oscura e transluminosa. Lasciarsi sempre più passivamente attirare dal Verbo: « O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione ». Come la farfalla, che io sia abbagliata e vinta dal fulgore della tua luce. « Spirito d’amore… ». Essere, nel seno della Trinità, l’Amore Personale del Padre e del Figlio: ecco tutto il mistero dello Spirito Santo, vero « Spirito d’Amore », nel quale Dio ama Sé ed ama tutto l’universo. La natura più intima di questa Persona divina, uguale al Padre e al Figlio da cui procede, è di essere il loro Amore sostanziale e coeterno in una stessa vita a Tre. – La serva di Dio, anche qui, non fa che appoggiarsi sopra un dato fondamentale del dogma Trinitario, il più profondo per l’anima contemplativa che vorrebbe vivere già sulla terra di questo mistero, il mistero di un Dio che è personalmente l’Amore. Ma ciò a cui essa mira è di un ordine più pratico. La sua preghiera non è una elevazione sulla vita trinitaria, ma il movimento di una anima contemplativa che trova, in questo mistero della Trinità, « il suo Tutto, la sua Beatitudine, la infinita Solitudine in cui si perde ». Lo Spirito d’Amore è invocato per la sua azione santificatrice nelle anime che cercano l’unione con Dio. « O Fuoco consumante, Spirito di Amore, discendi in me perché si faccia nell’anima mia quasi un’incarnazione del Verbo ». Ha già supplicato Cristo di immedesimarla con la Sua Anima, di sostituirsi a lei affinché la sua vita non sia che un’irradiazione della vita di Lui; poi, nella sua invocazione al Padre e in quella allo Spirito Santo, ritorna sullo stesso pensiero, perché il desiderio della sua trasformazione in Cristo è veramente il punto centrico di questa preghiera essenzialmente trinitaria. E nulla rivela con maggior evidenza a qual punto Gesù si era sostituito alla sua vita propria. « Si faccia nell’anima mia quasi un’incarnazione del Verbo ». Espressione audace, che bisogna comprendere bene; « quasi » un’incarnazione. Non si tratta di un desiderio da prender troppo alla lettera e che sarebbe un assurdo; ma è il linguaggio di un’anima innamorata di Cristo che vagheggia di divenire un altro Lui stesso. « Che io gli sia un prolungamento di umanità in cui Egli possa rinnovare il Suo mistero ». Formula luminosa che rischiara tutto. La spiega lei stessa tre giorni dopo, scrivendo ad un giovane sacerdote: « Che io sia per Lui un prolungamento di umanità, cioè che Egli possa perpetuare in me la sua vita di riparazione, di sacrificio, di lode e di adorazione… Gli ho chiesto di venire in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore ».

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« E Tu, o Padre! ». Ed ora, si rivolge al Padre, Principio della divinità. È Padre: ed è questo tutto il suo mistero, il suo carattere proprio, in seno ai Tre. È il Principio senza principio, da cui deriva, come da propria sorgente infinitamente feconda, tutta la vita trinitaria « al di dentro ». E sarà la suprema luce del « faccia a faccia », scoprire in Lui, come nella sua origine eterna, tutto il mistero dei Tre nell’Unità. Ma non si tratta di questo direttamente, nell’ora di grazia in cui suor Elisabetta ha composta la sua preghiera. Alla presenza di questa divina Paternità, ella vede soprattutto il suo niente. « O Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura! ». E, ricordando il mistero della Vergine della Incarnazione, la Vergine sua prediletta, soggiunge: « Coprila della tua ombra », cioè: proteggila. E infine l’anima sua, ritornando sempre a Cristo, al suo centro, implora: « Non vedere in essa che il Diletto in cui hai poste tutte le tue compiacenze ».

5- O miei Tre.

La preghiera volge all’epilogo. Un ultimo slancio la solleva verso i « Tre » ai quali suor Elisabetta ha consacrata tutta la sua vita: « O miei Tre, mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità in cui mi perdo, o mi abbandono a Voi come una preda; seppellitevi in me perché io mi seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella Vostra luce, l’abisso delle vostre grandezze ».

La preghiera dell’inizio è esaudita: non ritrova più vestigio in sé.

L’anima è transumanata in Dio.

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (23)