CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: OTTOBRE 2021

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: OTTOBRE  2021

OTTOBRE È IL MESE CHE LA CHIESA CATTOLICA DEDICA ALLA SS. VERGINE DEL ROSARIO, AI SANTI ANGELI CUSTODI E A CRISTO RE.

Allorché l’eresia degli Albigesi s’estendeva empiamente nella provincia di Tolosa mettendovi di giorno in giorno radici sempre più profonde, san Domenico, che aveva fondato allora l’ordine dei Predicatori, si applicò interamente a sradicarla. E per riuscirvi più sicuramente, implorò con assidue preghiere il soccorso della beata Vergine, la cui dignità quegli eretici attaccavano impudentemente, ed a cui è dato di distruggere tutte l’eresie nell’intero universo. Ricevuto da lei l’avviso (secondo che vuole la tradizione) di predicare ai popoli il Rosario come aiuto singolarmente efficace contro l’eresie e i vizi, stupisce vedere con qual fervore e con qual successo egli eseguì l’ufficio affidatogli. Ora il Rosario è una formula particolare di preghiera nella quale si distinguono quindici decadi di salutazioni angeliche, separate dall’orazione Domenicale, e in ciascuna delle quali ricordiamo, meditandoli piamente, altrettanti misteri della nostra redenzione. Da quel tempo, dunque, questa maniera di pregare incominciò, grazie a san Domenico, a farsi conoscere e a spandersi. E, ch’egli ne sia l’istitutore e l’autore, lo si trova affermato non di rado nelle lettere apostoliche dei sommi Pontefici. – Da questa istituzione sì salutare promanarono nel popolo cristiano innumerevoli benefici. Fra i quali si cita con ragione la vittoria, che il santissimo Pontefice Pio V e i principi cristiani infiammati da lui riportarono presso le isole Cursolari sul potentissimo despota dei Turchi. Infatti, essendo stata riportata questa vittoria il giorno medesimo in cui i confratelli del santissimo Rosario indirizzavano a Maria in tutto il mondo le consuete suppliche e le preghiere stabilite secondo l’uso, non senza ragione essa si attribuì a queste preghiere. E ciò l’attestò anche Gregorio XIII, ordinando che a ricordo di beneficio tanto singolare, in tutto il mondo si rendessero perenni azioni di grazie alla beata Vergine sotto il titolo del Rosario, in tutte le chiese che avessero un altare del Rosario, e concedendo in perpetuo in tal giorno un Ufficio di rito doppio maggiore; e altri Pontefici hanno accordato indulgenze pressoché innumerevoli a quelli che recitano il Rosario e alla confraternita di questo nome. – Clemente XI poi, stimando che anche l’insigne vittoria riportata l’anno 1716 nel regno d’Ungheria da Carlo VI, imperatore dei Romani, su l’immenso esercito dei Turchi, accadde lo stesso giorno in cui si celebrava la festa della Dedicazione di santa Maria della Neve, e quasi nel medesimo tempo che a Roma i confratelli del santissimo Rosario facendo preghiere pubbliche e solenni con immenso concorso di popolo e grande pietà indirizzavano a Dio ferventi suppliche per l’abbattimento dei Turchi e imploravano umilmente l’aiuto potente della Vergine Madre di Dio a favore dei Cristiani; perciò credé dover attribuire questa vittoria al patrocinio della stessa Vergine, come pure la liberazione, avvenuta poco dopo, dell’isola di Corcira dall’assedio parimente dei Turchi. Quindi perché restasse sempre perpetuo e grato ricordo di sì insigne beneficio, estese a tutta la Chiesa la festa del santissimo Rosario da celebrarsi collo stesso rito. Benedetto XIII fece inserire tutto ciò nel Breviario Romano. Leone XIII poi, in tempi turbolentissimi per la Chiesa, e nell’orribile tempesta di mali che da lungo tempo ci opprimono, ha sovente e vivamente eccitato con reiterate lettere apostoliche tutti i fedeli del mondo a recitare spesso il Rosario di Maria, soprattutto nel mese d’Ottobre, ne ha innalzato di più la festa a rito superiore, ha aggiunto alle litanie Lauretane l’invocazione, Regina del sacratissimo Rosario, e concesso a tutta la Chiesa un Ufficio proprio per la stessa solennità. Veneriamo dunque sempre la santissima Madre di Dio con questa devozione che le è gratissima; affinché, invocata tante volte dai fedeli di Cristo colla preghiera del Rosario, dopo averci dato d’abbattere e annientare i nemici terreni, ci conceda altresì di trionfare di quelli infernali. (Dal Messale Romano)

Festa degli Angeli custodi

Zach II:1-5


 E alzai i miei occhi, e guardai, ed ecco un uomo con in mano una corda da misuratore; e dissi: Dove vai tu? Ed egli mi disse: A misurare Gerusalemme per vedere quanta sia la sua larghezza, e quanta la sua lunghezza. Quand’ecco l’Angelo che parlava con me uscì fuori, e gli andò incontro un altro Angelo. E gli disse: Corri, parla a quel giovane, e digli: Gerusalemme sarà abitata senza mura, per la gran quantità d’uomini e di bestie che saranno dentro di essa. Ed io le sarò, dice il Signore, muraglia di fuoco tutt’intorno, e sarò glorificato in mezzo a lei.

… Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti. – Pertanto questo sia il vostro ufficio, o Venerabili Fratelli, questo il vostro compito di far sì che si premetta alla celebrazione di questa festa annuale, in giorni stabiliti, in ogni parrocchia, un corso di predicazione, in guisa che i fedeli ammaestrati intorno alla natura, al significato e all’importanza della festa stessa, intraprendano un tale tenore di vita, che sia veramente degno di coloro che vogliono essere sudditi affezionati e fedeli del Re divino…

(S. S. Pio XI, lett. Enc. Quas primas)

Indulgenze per il mese di OTTOBRE:

398

Fidelibus, qui mense octobri saltem tertiam Rosarii partem sive publice sive privatim pia mente recitaverint, conceditur:

Indulgentia septem annorum quovis die;

Indulgentia plenaria, si die festo B . M. V. de Rosario et per totam octavam idem pietatis obsequium præstiterint, et præterea admissa sua confessi fuerint, ad eucharisticum Convivium accesserint et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitationem instituerint;

Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione, sacra Communione et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitatione, si post octavam sacratissimi Rosarii saltem decem diebus eamdem recitationem persolverint (S. C. Indulg., 23 iul. 1898 et 29 aug. 1899; S. Pæn. Ap., 18 mart. 1932). 81028

RECITATIO ROSARII

395

a) Fidelibus, si tertiam Rosarii partem devote recitaverint, conceditur: Indulgentia quinque annorum;

Indulgentia plenaria, suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem idem præstiterint (Bulla Ea quæ ex fidelium, Sixti Pp. IV, 12 maii 1479; S. C. Indulg., 29 aug. 1899; S. Pæn. Ap., 18 mart. 1932 et 22 ian. 1952).

ORATIO AD D. N. IESUM CHRISTUM REGEM

Indulg. plenaria suetis condicionibus semel in die (272)

DÒMINE Iesu Christe, te confiteor Regem universàlem. Omnia, quæ facta sunt, prò te sunt creata. Omnia iura tua exérce in me. Rénovo vota Baptismi abrenùntians sàtanæ eiùsque pompis et opéribus et promitto me victùrum ut bonum christiànum. Ac, potissimum me óbligo operàri quantum in me est, ut triùmphent Dei iura tuæque Ecclèsiæ. Divinum Cor Iesu, óffero tibi actiones meas ténues ad obtinéndum, ut corda omnia agnóscant tuam sacram Regalitàtem et ita tuæ pacis regnum stabiliàtur in toto terràrum orbe. Amen.

Queste sono LE FESTE DEL

MESE DI OTTOBRE 2021:

1 Ottobre –  S. Remigii Episcopi et Confessoris    Feria

                    PRIMO VENERDI’

2 Ottobre – Ss. Angelorum Custodum    Duplex majus *L1*

                    PRIMO SABATO

3 Ottobre Dominica XIX Post Pentecosten I. Octobris – Semiduplex Dom. minor

                S. Theresiæ a Jesu Infante Virginis    Duplex

4 Ottobre – S. Francisci Confessoris    Duplex majus

5 Ottobre – Ss. Placidi et Sociorum Martyrum    Feria

6 Ottobre S. Brunonis Confessoris – Duplex

7 Ottobre – Beatæ Mariæ Virginis a Rosario – Duplex II. classis *L1*

8 Ottobre S. Birgittæ Viduæ – Duplex

9 Ottobre – S. Joannis Leonardi Confessoris    Duplex

10 Ottobre – Dominica XX Post Pentecosten II. Octobris – Semiduplex Dom. minor

                     S. Francisci Borgiæ Confessoris    Semiduplex

11 Ottobre – Maternitatis Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis *L1*

13 Ottobre – S. Eduardi Regis Confessoris    Semiduplex

14 Ottobre – S. Callisti Papæ et Martyris    Duplex

15 Ottobre – S. Teresiæ Virginis    Duplex

16 Ottobre – S. Hedwigis Viduæ    Feria

17 Ottobre – Dominica XXI Post Pentecosten III. Octobris Semiduplex Dom. minor

                   S. Margaritæ Mariæ Alacoque Virginis    Duplex

18 Ottobre

S. Lucæ Evangelistæ    Duplex II. classis

19 Ottobre – S. Petri de Alcantara Confessoris    Duplex

20 Ottobre – S. Joannis Cantii Confessoris    Duplex

21 Ottobre – S. Hilarionis Abbatis    Feria

24 Ottobre – Dominica XXII Post Pentecosten IV. Octobris    Semiduplex Dom. minor

                    S. Raphaëlis Archangeli  –  Duplex majus

25 Ottobre – Ss. Chrysanthi et Dariæ Martyrum    Feria

26 Ottobre – S. Evaristi Papæ et Martyris    Feria

                   Elezione al soglio di S. Pietro di S. S. GREGORIO XVII (26 ott. 1958)

28 Ottobre

Ss. Simonis et Judæ Apostolorum    Duplex II. classis *L1*

31 Ottobre – Domini Nostri Jesu Christi Regis    Duplex I. classis *L1*

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE (3)

Dom PAUL NAU Monaco di Solesmes

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE

Saggio sull’autorità del loro insegnamento

Les Editions du Cèdre 13, Rue Mazarine PARIS

III.

Chi ascolta voi, ascolta me…

Si deve dire che le Encicliche siano infallibili? Questa, come abbiamo visto, è la domanda che ancora divide i teologi e alla quale ci siamo posti il compito di dare una risposta. Il Concilio Vaticano, nel definire l’infallibilità papale, può aver contribuito a semplificare i termini del problema, ma non ha, ahimè, indirizzato le menti verso la sua soluzione definitiva. – I Cattolici hanno avuto la loro attenzione concentrata, per così dire, sull’affermazione solenne di questo privilegio unico. Li induceva in una tentazione di dividere gli Atti della Santa Sede in due classi: le definizioni, che erano riconosciute come infallibili, e gli altri documenti che erano invece esclusi dal beneficio dell’infallibilità. In quale di queste due categorie vanno collocate le Encicliche?  Tutto il problema della loro autorità è stato troppo spesso ridotto a questa formula apparentemente molto chiara, ma che in realtà porta a un vicolo cieco. Limitare il tentativo di un’identificazione tra le Encicliche e le definizioni, era certamente una soluzione allettante per la sua stessa semplicità e per l’autorità che assicurava alle lettere papali; ma questo non era tuttavia senza pericolo. Se i teologi non potessero riconoscerne la validità, quale titolo proporrebbero per stabilire l’ineguagliabile autorità che i Pontefici rivendicano per le loro Encicliche? Senza dubbio alcuni autori, seguendo il card. Billot e l’arcivescovo Perriot, si sforzerebbero di estendere la portata della definizione vaticana, al di là dei giudizi dogmatici, ad altri atti pontifici, tra i quali comprenderebbero le Encicliche (BILLOT, Tractat. de Ecclesia Christi, Romæ 1921, Tom. I, p. 632. – PERRIOT, L’Ami du Clergé, 1903, pp. 196 e 200). La maggior parte dei teologi, tuttavia, non credevano che il testo conciliare fosse suscettibile di un’interpretazione così ampia. Di conseguenza, essi furono indotti a negare alle Encicliche il privilegio dell’infallibilità, e a contentarsi di rivendicare per esse, con un’autorità dello stesso ordine di quella dei decreti delle Congregazioni, il diritto all’obbedienza totale da parte dei Cattolici (Per esempio, L. CHOUPIN, S. J. Valore delle decisioni dottrinali e disciplinari della Santa-Sede. Parigi, 1929, p. 50 e seguenti e gli autori citati ibid.) Questa posizione salvaguardava il principio della piena sovranità pontificia; tuttavia, se ne vede l’insufficienza: anche con tale autorità, le Encicliche, senza essere infallibili, potevano conservare il carattere di regola di fede e di autentica fonte di dottrina, universalmente riconosciuto nelle lettere dei primi Papi, e ancora affermato per le loro Encicliche dai Pontefici contemporanei? (Per esempio Pio IX, Quanta Cura: “Noi vogliamo e ordiniamo che tutti i figli della Chiesa Cattolica ritengano come reprobi, proscritte e condannate, ognuna delle opinioni e dottrine malvagie descritte nelle lettere precedenti. Lettere apostoliche di Pio IX, Gregorio XVI, Pio VII (Bonne Presse), p. 13. – LEONE XIII, Immortale Dei: « Se i Cattolici ci ascoltano come dovrebbero, saprebbero esattamente cosa devono pensare e fare. In teoria, prima di tutto, in opinando quidem è necessario attenersi con incrollabile aderenza a tutto ciò che i Romani Pontefici hanno insegnato e insegneranno, e ogni volta che le circostanze lo richiedano, farne pubblica professione ». B. P., vol. II, p. 54. Pio XI a sua volta, Mortalium animos, dà le Encicliche come « una regola di pensiero e di azione per i Cattolici, unde catholici accipiant quid sibi sentiendum agendumque ». B. P. IV, 87). La risposta dei teologi moderni, lasciando aperto il problema essenziale, è stata solo una infelice ritirata, le cui conseguenze non si sono fatte attendere. – Né infallibile né irreformabile, l’Enciclica non potrebbe essere oggetto di revisione da parte dal Papa stesso? Le menti preoccupate porrebbero la domanda, e andrebbero anche oltre: un’Enciclica ostacolerebbe lo sviluppo di una tesi audace, metterebbe in questa revisione possibile, attesa, tutta la loro speranza o anticiperebbero addirittura questo intervento dichiarando l’Enciclica “superata” e collocandola, con tutto il rispetto dovuto al suo rango, nell’archivio delle “questioni chiuse senza conseguenze“. « Mio giovane amico – disse una persona grave ad un sacerdote che si riferiva a una Lettera di Pio X – quando avrai un po’ di esperienza, vedrai… un’Enciclica, dopo venti anni… » (Queste righe erano già state pubblicate quando Pio XII, nella sua Allocuzione del 18 settembre 1951 ai Padri di Famiglia francesi, affermava: « Gli stessi principi che nella sua Enciclica Divini illius Magistri, il nostro predecessore Pio XI ha così saggiamente evidenziato, riguardo all’educazione sessuale e alle questioni connesse, sono – triste segno dei tempi! – congedati con un gesto della mano o un sorriso: Pio XI, si dice, l’ha scritto venti anni fa, per il suo tempo. Da allora, abbiamo fatto molta strada. » – Doc. Cath. t. 48, col. 1285, 1286). – Dal punto di vista dei nostri autori, come possiamo rispondere? Poiché, infatti, se solo le definizioni sono infallibili e se le Encicliche non sono definizioni, come si può concedere loro il privilegio dell’infallibilità? E se non sono infallibili, ma al contrario suscettibili di errore, come si può proibire che un giorno, forse molto presto, siano messe in discussione? Con una tale problematica così sommaria, siamo alla stretta finale. Ma non è proprio questo il problema che richiederebbe una revisione? Quanti esempi ci sono in teologia di problemi apparentemente irrisolvibili, semplicemente perché partono da domande mal poste! – Invece di aggiungere un altro fardello ad un dossier già pesante, vorremmo provare a rivisitare il punto di partenza stesso del dibattito, con l’aiuto dei risultati della nostra inchiesta e della luce recentemente gettata dall’Enciclica Humani Generis. Alla domanda così posta: le Encicliche sono definizioni infallibili? … ci permetteremo di sostituirne altre due: Le Encicliche possono contenere definizioni? – Le Encicliche, anche se non contengono giudizi dogmatici, possono ancora partecipare al privilegio dell’infallibilità nel loro insegnamento ordinario? – Al problema, così precisato, sarà forse più facile dare infine una risposta.

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C’è da meravigliarsi se i teologi non hanno ritenuto possibile identificare Encicliche e definizioni? Per capire la loro esitazione, basta confrontare questi due tipi di documenti. La Definizione, come il Giudizio Dogmatico, è un atto preciso del Sommo Pontefice, con il quale egli afferma, impegnando irrevocabilmente la sua suprema Autorità, che una verità è vincolante per i Cristiani (« Requiritur intentio manifesta definiendi doctrinam dando definitivam sententiam et doctrinam illam proponendo tenendam ab Ecclesia universali. » Collectio lacensis, t. VII Acta et décréta SS. Concilîi Vaticani – Relazione di Mons. GASSER – Col. 414, 2° – Citiamo d’ora in poi, Coll. Lac.).  Se nelle Costituzioni che, il più delle volte, le promulgano, esse sono precedute o seguite da lunghe considerazioni, le definizioni stesse sono solitamente contenute in poche righe e hanno tutta la precisione di un testo giuridico.  (Per esempio, la definizione dell’Assunzione della Madonna: « Perciò, dopo aver rivolto incessanti e supplichevoli preghiere a Dio e aver invocato le luci dello Spirito di Verità, per la Gloria di Dio Onnipotente che ha profuso la sua particolare benevolenza sulla Vergine Maria,  per l’onore di suo Figlio, il Re immortale dei secoli e il vincitore della morte e del peccato, per aumentare la gloria della Sua augusta Madre e per la gioia e l’esultanza di tutta la Chiesa, per l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei beati Apostoli Pietro e Paolo e per la Nostra, Noi proclamiamo, dichiariamo e definiamo che è un dogma divinamente rivelato che Maria, l’Immacolata Madre di Dio, sempre Vergine, alla fine della sua vita terrena, è stata innalzata in anima e corpo alla gloria celeste. » Questo è il testo della definizione stessa, che occupa appena un terzo di una colonna della Documentation Catholique, t. XLVII, col. 1486; la Costituzione stessa è inserita in tredici colonne intere). – L’Enciclica, come abbiamo già visto, ha tutte le caratteristiche di una lettera, in cui il Sommo Pontefice affronta i problemi dottrinali nei toni più vari, assumendo talvolta la forma di un’esortazione, talvolta di un rimprovero, spesso di un’ampia esposizione teologica, eccezionalmente quella  di un giudizio. – Le Encicliche non sono dunque delle definizioni; ma possono almeno contenerle? Messa in questi termini, sembra che il problema non possa che avere oggi una risposta affermativa. Le esitazioni che erano sorte in passato avevano il loro punto di partenza nel carattere imperativo delle definizioni, che erano vere leggi per la fede dei fedeli, e che era normale cercare in testi legislativi come quelli delle Costituzioni Apostoliche o “Decreta”, circondati da tutte le garanzie di forma, e oggetto di autentica promulgazione. (Cfr. Analecta juris pontificii, 1878, “La promulgation des lois“, col. 333-336. Molto recentemente nello stesso senso, R. NAZ., Dict. De Droit Canon., « Encyclical »: « Il Papa non sceglie la via dell’Enciclica per dare definizioni dogmatiche »). Questo argomento aveva già perso molto della sua forza dopo l’istituzione da parte di Pio X di un nuovo modo di promulgazione per i documenti romani, la loro iscrizione nella rivista ufficiale della Santa Sede, gli Acta Apostolicæ Sedis (Costituzione Promulgandi del 29 settembre 1908). Sappiamo che le Encicliche sono in primo piano negli Acta Apostolicæ Sedis, così come le Costituzioni e i Decreti. Non è più possibile arguire che per il fatto di non essere promulgate, si possa rifiutare il riconoscimento delle definizioni. Questo pretesto è mai stato valido? Senza dubbio, la Costituzione o il Decreto è lo strumento normale di una decisione vincolante, ma è lo strumento necessario, almeno quando si tratta di una sentenza del Papa stesso? Il relatore della Commissione della Fede al Concilio Vaticano già sottolineava che nessuna autorità al mondo, nemmeno quella di un Concilio ecumenico, potrebbe imporre al supremo Legislatore della Chiesa il metodo che debba usare per far conoscere le sue definizioni (cf. Col. Lac, col. 401-d, dove il relatore mostra che è impossibile per l’assemblea conciliare imporre la forma delle sue definizioni al Papa, senza cadere nell’errore che sostiene la superiorità del Concilio sul Papa. – La definizione dell’Assunzione è senza dubbio inscritta in una Costituzione dogmatica, ma era già pienamente valida prima della promulgazione di quest’ultima, dal momento in cui fu pronunciata oralmente dal Papa). « Di fatto e di diritto – scrive P. Pègues – non esiste una formula determinata che sia prescritta e necessaria. » (PÈGUES, O. P. L’Autoritè des Encycliques pontificales d’après S. Thomas, Revue Thomiste, 1904, p. 529. Vedi nello stesso senso il testo di GRÉGOIRE XVI citato qui sotto). Chi prova troppo non prova niente. Se l’argomento fosse stato impeccabile, avrebbe escluso dalle Encicliche, insieme alle definizioni, ogni decisione strettamente normativa. Ora, anche i teologi che rifiutano di riconoscere in esse delle definizioni hanno ammesso il carattere obbligatorio delle sentenze pontificie contenute nelle Encicliche. (Cfr. L. CHOUPIN, loc. cit.), e Pio XII nella Humani Generis, diede loro una conferma eclatante su questo punto (« Quodsi Summi Pontifices, in actibus suis de re hactenus controversa, data opera sententiam ferunt, omnibus patet, rem illam, secundum mentem ac voluntatem eorumdem Pontificum, quæstionem liberæ inter theologos disceptationis jam haberi non posse »). – Non c’è dubbio, quindi, che le Encicliche contengano giudizi dogmatici che devono essere imposti all’assenso dei fedeli. Affinché queste frasi siano riconosciute come vere definizioni, è solo necessario che soddisfino le condizioni specificate dal Concilio: « l’oggetto della definizione deve essere una questione di fede o di morale, il Sovrano Pontefice deve esercitare il suo ruolo di Dottore e Pastore universale, infine, l’atto stesso deve essere una sentenza senza appello » (« definimus; Romanum Pontificem, cum ex cathedra loquitur, id est, cum omnium Christianorum Pastoris et Doctoris munere fungens pro suprema sua Apostolica auctoritate doctrinam de fide vel moribus ab universa Ecclesia tenendam définit, per assistentiam divinam, ipsi in beato Petro promissam ea infallibilitate pollere, qua divinus Redemptor Ecctesiam suam in definenda doctrina de fide vel moribus instructam esse voluit; ideoqne eiusmodi Romani Pontificis definitiones ex sese, non autem ex consensu Ecclesiæ irreformabile esse. » Sess. 4, cap. 4, D B. 1839). « lnfallibilitas Romani Pontificis restricta est ratione subjecti, quando Papa loquitur tanquam doctor universalis et judex snpremns in cathedra Petri, id est, in centro, constitutus; restricta est ratione objecti, quando agitar de rebus fidei et morum; et ratione actus, quando définit quid sit credendum vel reiiciendum ab omnibus Christifidelibus » Relazione di Mons. GASSCH ai Padri del Concilio Vaticano sulle proposte di correzione del Vaticano, sulle correzioni proposte al Cap. IV delle Cost. de Ecclesia. Coll. lac, t. VII, col. 401 a.). – Fede e morale, il dominio delle definizioni, è anche, come abbiamo visto, quello delle encicliche (« ad catholicam fidem custodiendam, morumque disciplinam aut servandam aut restaurandam », Benedicti XIV Bullarium, p. IV). – Forse sarà utile ricordarlo per evitare malintesi molto frequenti, che la materia dottrinale e morale in cui si esercita il supremo Magistero non si limita alle verità formalmente rivelate, ma comporta inoltre, con tutte le prescrizioni della legge naturale (che appartiene anch’essa alla morale), ogni verità in stretta connessione della fede, che si rivela necessaria alla conservazione fedele del deposito rivelato. (Questa estensione del magistero, affermata da Pio IX nella sua lettera Tuas libenter del 21 dicembre 1863, è stata nuovamente affermata dal Concilio Vaticano alla fine della Costituzione Dei Filius: « Quoniam vero satis non est hæreticam pravitatem devitare nisi ii quoque errores diligenter fugiantur qui ad illam plus minusve accedunt, omnes officii monemus, servanai etiam constitutiones et decreta quibus pravæ hujusmodi opiniones quae isthic diserte non enumerantur ab hac sancta sede proscriptæ et prohibitæ sunt. » Const, de Fide Cath, post canones, DB. n° 1820. – Non c’è dubbio che le Encicliche siano inserite tra le Costituzioni, documenti maggiori della Santa Sede, e i semplici Decreti. – Cfr. J. C. FENTON, The doctrinal Authority of Papal Encyclicals, in The American Ecclesiastical Review, agosto 1949, p. 145. Fu per riservare questa estensione dell’oggetto del Magistero che furono scelti i termini della definizione dell’infallibilità del Papa nella Cost. Pastor æternus. Cfr. relazione GASSER, Col. lac. col. 415 e 575. Troppo spesso dimenticata, questa dottrina dovette essere oggetto di frequenti richiami, ad esempio, Decreto Lamentabili, prop. 5 – Pio XI, Casti connubii, Atti di Pio XI, B.P., VI, 307′, – Quadragesimo anno ibid. VII, 111, e molto recentemente Humani Generis di PIO XII, che riproduce il testo della Constit. Dei Filius, succitata). – La seconda condizione richiesta per una definizione non può mancare nemmeno nelle Encicliche, dove il Papa si esprime come Dottore universale, sia quando si rivolge solo ai Vescovi, per raggiungere tutto il gregge attraverso di loro, sia quando gli stessi fedeli siano inclusi tra i destinatari. Non mancano esempi in cui i Papi hanno esplicitamente rivendicato questo titolo nelle loro Encicliche (Pro Christi in terris vicarii ac supremi Pastoris et Magistri munere. Nostrum esse duximus Apostolicam attollere vocem…”. Casti connubi, B. P. VI, 245. Vedi altri esempi sopra). – Solo la terza condizione deve essere esaminata da vicino. È necessario, chiede il Concilio, che il Papa definisca, cioè intenda pronunciarsi con un giudizio inappellabile (Cfr. relazione di Mons. GASSER: « Vox définit significat, quod Papa suam sententiam… directe et terminative proférât, ita ut jam unusquisque fidelium certus esse possit de mente Sedis apostolices, de mente Romani Pontificis; ita quidem, ut certo sciat a Romano Pontifice hanc vel illam doctrinam haberi hæreticam, hæresi proximam, certam vel erroneam, etc…». Col. lac, col. 474-d, e 475-a.). – Questa intenzione, per creare un obbligo rigoroso per la fede, deve apparire chiaramente e non deve essere presupposta, soprattutto in una Lettera come l’Enciclica che, per sua natura, non è espressiva di questa intenzione. – Ascoltiamo Gregorio XVI nella sua opera « Il Trionfo della Santa Sede »: « Poiché l’uso costante della Chiesa e dei Pontefici consacra certe formule per indicare inequivocabilmente a tutta la cristianità il giudizio supremo e definitivo… ne consegue che se il Papa trascura queste formule e non esprime chiaramente che, nonostante questa omissione, intende e vuole definirsi giudice supremo della fede, si deve credere che non abbia reso il suo giudizio in questa veste (Il Trionfo della Santa Sede, Venezia, 1838, cap. XXIV, p. 558. – Tradotto da Analecta Juris Pontif. loc. cit., col. 344-345. Cfr. la relazione di Mons. GASSER: « verum hanc proprietatem ipsam et notant definitionis propri dictæ aliquatenus saltem etiam débet exprimere, cum doctrinam ab universali Ecclesia tenendam définit », coll. lac, col. 414-c. – Vedi anche HOUPIN, op. cit. p. 26: « È quando il Papa definisce, cioè quando decide definitivamente e con l’intenzione formale di chiudere tutte le discussioni o di impedirle, è allora e solo allora che è infallibile e che la sua decisione è vincolante per tutti, come articolo di fede »). Tuttavia, il significato del termine “solenne“, che è generalmente usato per designare le sentenze definitive, non deve essere frainteso. (Ha lo stesso significato nel termine “professione solenne”.) Il Papa – osserva giustamente il signor Chavasse – non è infallibile solo quando parla in circostanze solenni, come per esempio nella definizione del dogma dell’Immacolata Concezione, ma può esserlo in circostanze meno solenni; non è infatti secondo l’apparato esterno degli interventi che si deve giudicare della loro infallibilità (A. CHAVASSE. La Véritable conception de l’infaillibilité papale, in Eglise et Unité, Lille, 1948, p. 81). – Basta – affermava già il padre Pègues – che nel modo di esprimersi, qualunque sia la formula che vorrà usare, il Papa designi chiaramente la sua intenzione di risolvere definitivamente il dibattito, di fissare irrevocabilmente un punto di dottrina (L’autorité doctrinale des Encycliques Pontificales d’après S. Thomas, “Revue Thomiste”, 1904, p. 529). – Inoltre, nel suo eccellente articolo nel Dictionnaire de Théologie Catholique, M. Mangenot ha potuto scrivere: Il Papa potrebbe, se volesse, inserire delle definizioni nelle Encicliche (D. T. C. art. Encicliche cfr. PÈGUES, loc. cit. p. 531: “La definizione solenne può… essere comunicata al mondo cattolico per mezzo di un’enciclica“). Ma perché il condizionale, quando ci sono esempi già noti di definizioni in semplici Encicliche? Per citare solo una delle lettere papali di un tempo, la condanna di Pelagio da parte di Innocenzo I è ben considerata come una sentenza ex cathedra; tuttavia la leggiamo in una lettera ai Vescovi d’Africa, sorella maggiore delle nostre Encicliche (Epis. 29. In requirendis del 27.1.417: “Innocentius Aurelio et omnibus sanctis episcopis (seguono i nomi di 69 Vescovi), et ceteris qui in Carthaginensi concilio adfuerunt, dilectissimis fratribus in omino satutem“. P. L. 20-582). – Le cadette, non potrebbero contenerne, quando Benedetto XIV, e dopo di lui Pio VII, le presentano come i le fedeli continuatrici dei loro predecessori? (Benedetto XIV, « Veterem prædecessorum nostrorum… consuetudinem revocandam duximus . » Bullarium, p. IV. – PIE VII, « Dobbiamo infine obbedire, non tanto a un’usanza che risale ai tempi più remoti… quanto a una… » Diu satis. BP, p. 249. – La condanna di Lamennais,in Singulari nos, di GREGORIO XVI, sembra avere le caratteristiche di una definizione ex cathedra. La questione è stata discussa per Quanta Cura di PIO IX; è da notare però che il carattere di definizione per le condanne che portava era riconosciuto implicitamente; è da notare, tuttavia, che il carattere di definizione per le condanne che conteneva era implicitamente riconosciuto da coloro che, per negarlo al Sillabo, si sforzavano di mostrare che i due documenti non erano collegati. – Alcuni teologi hanno visto nella Pascendi di Pio X una definizione. Forse si potrebbe citare anche Casti connubii, dove le parole usate per introdurre l’affermazione della dottrina cristiana del matrimonio sono eccezionalmente solenni. « Pro Christi in terris Vicarii ac Supremi Pastoris et Magistri munere, Nostrum esse duximus Apostolicam attollere vocem… Ecclesia Catholica in signum legationes suæ divinæ, altam per os Nostrum extollit vocem atque denuo promulgat… » B.P. VI. 245 e 276). – Quando, in un’Enciclica, il Papa impone una dottrina, indicando chiaramente la sua intenzione di pronunciare una sentenza definitiva, non c’è più alcun dubbio che in gioco ci sia l’infallibilità. Ci troviamo in presenza dell’autentica Regola di Fede. Anche se questa intenzione di definire è assente dalla sentenza pontificia, né i teologi né i fedeli possono sottrarsi al dovere dell’obbedienza e chi rifiutasse l’assenso interiore non potrebbe evitare la nota di temerità (« È chiaro che un tale atteggiamento sarebbe avventato e contrario all’obbedienza e alla prudenza. » C. VAN GESTEL, O.P. Introduzione all’insegnamento sociale della Chiesa, trans. Bourgy, p. 31. – Cfr. CHOUPÎN, op. cit. p. 50 – ss. PIO XI, Casti connubii. B.P. VI, 308).  – Avendo Roma pronunciato, ogni controversia è d’ora in poi proibita. Ascoltiamo i Vescovi di questa chiesa che amava definirsi “gallicana” e che non può essere sospettata di sopravvalutare l’autorità dei documenti papali. Senza dubbio, nelle rimostranze indirizzate al Re dall’Assemblea del Clero nel 1755, non è ancora un’Enciclica che è in questione. (Ma la Costituzione Unigénitas, che i parlamenti rifiutarono di ricevere, proibì che fosse riconosciuta come “Regola di Fede“). Pertanto, accettando come terreno di discussione la posizione degli oppositori che, per sottrarsi all’autorità dottrinale di un atto della Santa Sede, cercavano già di contestarlo, la posizione della Chiesa veniva messa in discussione per una questione di forma, i prelati diedero ai loro argomenti una portata sufficientemente ampia da poter essere applicata a quei giudizi pontifici che non erano definizioni in senso proprio. « Non ci si rende conto – fanno notare a Luigi XV – che si attacca di petto la saggezza e l’autorità della Chiesa… che si contraddice M. Bossuet che dichiara che le condanne generali erano utilmente praticate nella Chiesa, per dare come un primo colpo agli errori incipienti, e spesso anche l’ultimo, secondo l’esigenza dei casi e il grado di ostinazione che si trova negli spiriti (Second écrit ou Mémoire de M. l’Eveque de Meaux, pour répondre à plusieurs Lettres de M. l’Archevêque de Cambrât Nouvelle édition des Œuvres de M. Bossuet, in-4°, tom. 6, p. 304), che si disconoscono infine i diversi usi che la Chiesa può fare della sua autorità in materia di dottrina. A volte Essa elabora dei Simboli che definiscono verità rivelate, a volte emette giudizi che condannano e riprovano: Essa può mettere in entrambi i casi lo stesso grado di precisione, dichiarare ciò che è eretico, come insegnare ciò che appartiene alla Fede; ma può anche, secondo la prudenza e la necessità dei suoi figli, limitarsi a una censura più generale, condannare i Libri, senza estrarre da essi alcuna proposizione condannabile, proscrivere delle proposizioni senza qualificarle nel dettaglio; Essa può allora giudicare che sia sufficiente che i suoi figli sappiano ciò che non devono credere, come si esprime S. Agostino. Chi può negare che questa conoscenza non sia benefica per i fedeli? E chi può sostenere che abbiano il diritto di chiedere alla Chiesa che faccia loro apprendere di più? Quanti esempi si potrebbero citare di leggi che non spiegano le ragioni particolari dei divieti che si pronunciano? E se si risponde che in questi esempi l’obbedienza consista nell’astenersi esteriormente dalle azioni proibite, si sta dicendo il vero, per quanto riguarda le leggi che un’autorità puramente umana ha portato; ma i giudizi, dettati dallo Spirito di verità catturano la mente arrestando la mano; e quando la Chiesa comanda ai suoi figli di considerare delle proposizioni dottrinali come tanti veleni nocivi alla loro Fede, una sottomissione interiore può solo garantirli dal pericolo di cui li si avverte (Raccolta dei Processi Verbali delle Assemblee Generali del Clero di Francia, Parigi 1778, t. VIII, 1″ parte. Pièces justificatives: “Remontrances au Roi concernant les refus des Sacrements“, col. 168.). Senza dubbio lo scrittore delle Rimostranze insisterà un po’ troppo, in seguito, sull’autorità supplementare che l’accettazione dei Vescovi aggiungerebbe, secondo lui, alle sentenze pontificie; non di meno il carattere decisivo di quelle è affermato con un’eloquenza degna di colui che è stato appena chiamato “Monsieur Bossuet”, e una chiarezza che due secoli dopo, l’Enciclica Humani generis lo ripeterà solo, ma questa volta in una formula altrimenti concisa. – Se i Papi si pronunciano espressamente nelle loro Encicliche un giudizio su una questione fino ad allora controversa, tutti capiscono che tale questione, nel pensiero e nella volontà dei Pontefici, non è più da considerare come una questione libera tra i teologi (B.P. p. 10. Esempi di ciò si trovano negli anni successivi alla ripresa delle Encicliche da parte di Benedetto XIV. Vix pervertit ai Vescovi d’Italia, 1-11-1745. Ex omnibus ai Vescovi di Francia, 16-10- 1756. Anche la lettera di Leone XIII sulle ordinazioni anglicane risolve categoricamente il dibattito. Abbiamo su questa intenzione del Papa l’espressa affermazione dello stesso Leone XIII nella sua lettera del 5-11-96 al card. Richard (Acta Sanctæ Sedis, vol. XXXIX, p. 664). Un testo del Card. RICHARD interpreta la Lettera Apostolica Testem Benevolentiæ nello stesso senso, testimonianza che J. C. FENTON (art. citato, p. 215) autorizza a vedere in questo documento pontificio come una definizione ex cathedra).

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L’eventuale presenza di definizioni nelle Encicliche, se già ci invita ad una lettura attenta, porta però solo una soluzione molto parziale al problema dell’autorità delle Lettere Pontificie, dove le Sentenze solenni appaiono solo come un’eccezione. L’insegnamento enciclicale appartiene normalmente al Magistero ordinario (“Magisterio ordinario hæc docentur…Humani Generis), che può essere esercitato attraverso decisioni dottrinali sulle quali il Papa non intende impegnarsi irrevocabilmente, e che più comunemente assume la forma di un semplice richiamo (plerumque affirmaHumani Generis), o una dichiarazione ampia e dettagliata della dottrina già ricevuta nella Chiesa. È dunque in relazione a questo insegnamento ordinario che si porrà la questione, se vogliamo soprattutto definire la portata dottrinale delle Encicliche, il problema della loro infallibilità. – Abbiamo già esposto questo problema in questo modo: al di là delle definizioni che possano contenere, si può ancora parlare di infallibilità per l’insegnamento dato dalle Lettere Pontificie? La domanda, bisogna ammetterlo, sembra aver colto di sorpresa i teologi contemporanei, che hanno dato, un po’ frettolosamente sembra, le risposte più contraddittorie. Mentre i più astuti erano cautamente riservati (per esempio H. T. HURSTON, Enciclopedia Cattolica, art. Enciclica, che traduciamo: « È generalmente riconosciuto che il solo fatto che il Papa dia a un suo insegnamento la forma di un’Enciclica non la costituisce necessariamente come una locutio ex cathedra e non la investe di autorità infallibile. Il grado di coinvolgimento del Magistero della Santa Sede deve essere giudicato secondo le circostanze e il modo di espressione usato in ogni caso »), qualcun altro ha pensato di poter autorizzare una soluzione chiaramente affermativa da parte del Concilio Vaticano (es. DUBLAMCH, D. T. C. l’Infallibilità del Papa, col. 1705: « Poiché, secondo il decreto del Concilio Vaticano, il Papa possiede l’infallibilità data da Gesù alla sua Chiesa, e che per la Chiesa questa infallibilità può estendersi agli atti del Magistero Ordinario… si deve affermare che il Papa, insegnando da solo, in virtù del suo Magistero Ordinario, è infallibile nella stessa misura e alle stesse condizioni. » – MANOENOT, D. T. C. Enciclica: “Il privilegio dell’infallibilità si trova in quegli atti del Magistero Ordinario”), cosa che altri respinsero senza ulteriori qualificazioni: « Non bisogna dimenticare – scrisse uno di questi ultimi – che accanto al Magistero straordinario del Sommo Pontefice che si esercita con definizioni infallibili, c’è posto per un Magistero Ordinario che non gode di infallibilità (J. VILLAIN, S. J. t L’étude des Encycliques, in Les Etudes du prêtre d’aujourd’hui” Parigi, 1945, p. 187. – Vedi anche CHAVASSE, loc. cit, p. 80: “Le condizioni poste dal Concilio per l’infallibilità papale sono formalmente restrittive: il Papa è personalmente infallibile solo quando parla ex cathedra“). – Queste divergenze, tuttavia, possono essere spiegate. Erano inevitabili quando la gente insisteva nel chiedere al Concilio Vaticano una soluzione che non aveva intenzione di dare. Senza dubbio la Costituzione Pastor æternus aveva definito l’infallibilità personale del Papa, ma affermava il privilegio solo per le sentenze solenni. Taceva sul Magistero Ordinario. Questo, è vero, era stato espressamente riconosciuto come Regola dalla Costituzione Dei Filius, ma era stata aggiunta una parola: “Magistero Ordinario e Universale“, con l’intenzione, come sappiamo, di lasciare aperta la questione dell’infallibilità personale del Sommo Pontefice.  ( « Ratio enim quare optamus ut haec vox universali apponatur voci magisterio, textus nostri, hæc est ut scilicet ne quis putet nos loqai hoc loco de Magisterio infallibili S. Sedis apostolicæ… Nullatenus ea fuit intentio Deputationis, hanc quæstionem de infallibilitate summi Pontifias, sive directe, sive indirecte tangere…» Relazione del vescovo MARTIN, Col. lac. col. 176). – Se era impossibile, senza chiedere ai testi del Concilio, leggere in essi una risposta affermativa, non era più legittimo basare su di essi una negazione. La Costituzione Dei Filius, introducendo nel suo testo la parola universale, aveva rifiutato di risolvere la questione dell’infallibilità personale del Sommo Pontefice, ma non intendeva escluderlo. La definizione di questa stessa infallibilità nella Costituzione Pastor aeternus era espressamente limitata alle sentenze solenni, ma non era “formalmente restrittiva” (È senza dubbio per distrazione che questa confusione si è insinuata nell’altrimenti eccellente articolo di M. CHAVASSE, citato sopra). Il testo del Concilio stesso non è restrittivo. Se le spiegazioni date dal relatore sembrano escludere dall’infallibilità qualsiasi atto che non sia una definizione, esse non contemplano il caso di una serie di atti, o di un insieme come quello costituito dal Magistero Ordinario), e di conseguenza lasciano aperto il problema dell’infallibilità del Papa nel suo Magistero Ordinario. Se questa sfumatura non è stata sempre compresa, è comunque importante; in ogni caso, essa vieta ai teologi di chiedere ai soli testi conciliari di ridurre le loro divergenze. – Più istruttiva, senza dubbio, sarebbe stata una riflessione sui principi richiamati dal Concilio, e sulle discussioni che hanno preceduto il voto sui testi finali. L’enfasi era stata posta sulla necessaria unità della Regola di Fede (Sant’Agostino aveva già fatto affidamento su questo nella sua polemica contro i Donatisti, come su una dottrina indiscussa: “In cathedra unitatis posuit Deus doctrinam veritatis“. Ep. 105 ad donatistas, 16, P.L. 83, col. 408.), nonché sull’impossibilità che contenga errori. È perché realizza di fatto questa unità che la proposta della stessa dottrina dal Magistero Universale della Chiesa può e deve, in nome e sotto la garanzia della prima Verità, impegnare la nostra fede. È perché crea questa unità di diritto, pronunciandosi sul contenuto della Regola di Fede con un atto senza appello, che la sentenza solenne è necessariamente infallibile. Questo, almeno, era l’argomento addotto a favore della definizione dell’infallibilità personale dal relatore della Commissione Fede (Coll. Lac, col. 390-391 e 399-d.), argomento che Leone XIII, citando San Tommaso, avrebbe un giorno ripreso (Leone XIII, Sapientiae Christianæ, B.P. II, 278, in cui cita San Tommaso: – 2a 2æ, q. I, art. 10 – Cfr. Contra Gentiles, 1. IV, с. 76, e BELLARMINO, De Romano Pontifice, 1. IV, с. 1 e 2). Ma questo pronunciamento definitivo è l’unico modo in cui il Papa può effettivamente realizzare l’unità dell’insegnamento ecclesiale intorno a lui? Un maestro – veramente degno di questo grande nome – non ha altro mezzo per stabilire tra sé e i suoi discepoli una intera coesione che formulare delle tesi precise che sarà necessario professare sotto pena di essere immediatamente bollato come dissidente? È molto più spesso e non meno efficacemente che otterrà questo stesso risultato, con il solo esposto quotidiano della sua dottrina, le spiegazioni date sulla sua coerenza interna, sulle sue implicazioni nelle altre discipline o nella condotta quotidiana della vita. In una parola, è il suo insegnamento ordinario che, oltre al ricorso eccezionale a dichiarazioni eclatanti, formerà intorno ad esso la stretta unità di una scuola. Questo insegnamento quotidiano, questo ritorno continuo, tal è proprio quello del Magistero Ordinario che il Sovrano Pontefice, come Pio XII, ricordava solo poco tempo fa (Allocuzione ai giovani sposi La gradita vostra Presenza, 21 gennaio 1942, Discorsi e Radiomessaggi di S. S. Pio XII, Milano, 1942, p. 355), esercitare nei suoi discorsi, nelle sue lettere e nei suoi messaggi, ma soprattutto nelle sue Encicliche. Abbiamo passato molto tempo a dimostrare che “fare l’unità” è la ragion d’essere di queste Lettere, segni di comunione, legami di fede e di carità, che si estendono fino ai più lontani confini del mondo cattolico, portando l’insegnamento del Pastore universale a tutti i fedeli e a serrare intorno alla Sede Apostolica la stretta unione di tutti i pastori. Abbiamo visto i Sommi Pontefici proporre espressamente come obiettivo delle loro Encicliche questa unità da raggiungere (Benedetto XIV ai Vescovi, Via pervenit, « Quando parlate al popolo… nulla ci sia di contrario ai sentimenti che abbiamo trasmesso. » Vedi qui sopra dove si possono trovare altre testimonianze. Possiamo citare ancora Leone XIII, agli operai francesi, il 19-9-91, a proposito della Rerum Novarum: « Senza consumare altro tempo prezioso in sterili discussioni, realizziamo in pratica ciò che, in principio, non può più essere oggetto di controversia »), per qualificare anche come “modernismo pratico” la sola negligenza nel far passare nella condotta di vita l’insegnamento enciclicale (Pio XI, Ubi Arcano, cfr. nota sotto). Pio XII è quindi ben in linea con i suoi predecessori quando esige da tutti l’adesione al contenuto di queste Lettere che ci vengono indirizzate nel nome stesso di Dio (“Né si pensi che ciò che viene proposto nelle Encicliche non richieda di per sé un assenso…  a ciò che viene insegnato dal Magistero Ordinario, si applicano anche le parole “Chi ascolta voi, ascolta me“. Humani Generis, B. P., p. 10). I Papi di oggi, come quelli del quarto secolo, hanno sempre un solo scopo nello scrivere le loro Encicliche: « far regnare in tutto il mondo la stessa professione di una medesima fede « (« Ut… per totum mundum una sit fides et una eademque confestio » S. Leone M., ep. 33, P. L. 54, col. 799.3). Non è, tuttavia, generalmente un’affermazione isolata in un’Enciclica, ma piuttosto un insieme che da solo sarà capace di raggiungere necessariamente questa unità. Con il Magistero Ordinario, infatti, non ci troviamo più, come nel caso della definizione, in presenza di un giudizio formulato solennemente, ma di un insegnamento nel senso comune del termine. – Dom Guéranger invitò una volta il Vescovo Dupanloup a non confondere questi due atti (Dom Guéranger, De la Monarchie pontificale, Parigi, 1870, p. 269). È importante distinguere la loro natura, nello stesso tempo  il modo in cui ciascuno di essi opera l’unità intorno a sé. Il giudizio si esprime interamente in un’affermazione categorica, in un atto preciso, in cui il giudice della fede impegna la sua autorità (e se si tratta di una definizione, al grado supremo e senza appello), per imporre una dottrina ai Cattolici o per escluderla. Stabilisce dei confini, di solito suppone una controversia o un’esitazioei (« Se i Papi nei loro atti emettono espressamente una sentenza su una questione che era finora controversa … » – scrive Pio XII in Humani Generis, B.P., p. 10). La missione dell’insegnamento non è quella di decidere, ma di far conoscere; non  mette fine a una divergenza, ma salva dall’ignoranza o dall’oblio. È all’interno di una dottrina già ricevuta che viene ad assicurare una continuità e una trasmissione fedele, a volte una valorizzazione più completa (« Il più delle volte ciò che viene esposto nelle Encicliche appartiene già d’altra parte alla dottrina cattolica », ibidem). – Di solito implica una molteplicità di espressioni e una continuità di esercizio, integra un intero insieme. Così non è creando per tutta la Chiesa un obbligo giuridico su un punto di dottrina che l’insegnamento delle Encicliche raggiunge la comunione di tutti nello stesso pensiero, è esponendo questo pensiero, non solo ai fedeli, ma ai pastori, che l’insegnamento delle Encicliche diventa una realtà non solo per i fedeli, ma per gli stessi pastori per orientare la propria predicazione; è insistendo su di esso, facendo notare le deviazioni che sopravvengono, ritornandovi in caso di negligenza o di oblio, riducendo con questo stesso ritorno le esitazioni che, qua o là, potrebbero aver cominciato ad apparire. In ogni caso, senza dubbio, un appello al Sommo Pontefice stesso rimane teoricamente possibile, e può sorgere una divergenza momentanea. A parte il caso del giudizio solenne, una singola affermazione non è necessariamente, da sola, rappresentativa di tutta la Chiesa, di per sé rappresentativa di una dottrina, l’intero insegnamento pontificio non vi è impegnato interamente. Ma se si tratta di un soggetto direttamente affrontato in una lettera Enciclica, se questa si inserisce in un insieme o in una continuità, se è oggetto di un richiamo e di un’insistenza, come spesso accade con le grandi Lettere dottrinali, non ci possono essere dubbi sul contenuto autentico dell’insegnamento pontificio. Di conseguenza, rifiutare di aderirvi, cessare di aderirvi per una stretta comunione di pensiero, è necessariamente rompere l’unione della dottrina, è introdurre la dualità nella fede. Come si può allora ammettere per questo insegnamento, almeno nel gruppo che abbiamo appena definito, la possibilità di deviare dalla verità e di sbagliare sulla regola della fede? Se questa ipotesi impossibile fosse assunta, o l’errore non fosse notato, o i Vescovi trascurassero almeno di segnalarlo, tutta la Chiesa sarebbe presto sviata dallo stesso Centro di Unità; (« Tota igitur Ecclesia errare posset, sequens determinationem Papæ, si Papa in tali definitione posset errare. » Coll. Lac. col. 391; L’argomento si applica anche all’insegnamento ordinario. Il semplice fatto di non parlare contro un errore portato dalla lettera pontificia al proprio gregge non dovrebbe essere interpretato dai Vescovi come un’approvazione? “Error cui non resistitur approbatur” citato da Cano in un testo del De Locis 1. S, c* 4, su cui THOMÀSSIN osserva – Diss. in Concil., p. 716-: “Ubi vides et Pontificum et conciliorum provincialium decretis, ex silentio Ecclesiæ universalis, œcumenicæ synodo, parem accedit auctoritatem.”); altrimenti, per rimanere fedeli alla verità, per mantenere i loro greggi in essa, i pastori avrebbero dovuto rompere questa unità, allontanarsi nel loro insegnamento da quello di Roma. Saremmo agli antipodi della tradizione che lega irrevocabilmente la sicurezza della dottrina con la comunione realizzata intorno al Romano Pontefice (per esempio S. Cipriano: “Deus unus et Christus unus, et una Ecclesia et cathedra una super Petram Domini voce fundata… Quisqui ” alibi collegerit spargit.» Ep. plebi universæ. P. L. IV, col. 336 – su S. Girolamo: « Cathedram Pétri et fidem apostolico ore laudatam censui consulendam. Super hanc petram ædificatam Ecclesiam scio. Quicumque extra hanc domum agnum comederit, profanus est ». Episodio. 15 ad Damasum. P. L. XXII, col. 355. Vedi altre testimonianze qui sotto). – Nell’uno o nell’altro caso, ci darebbe una smentita alle promesse divine: Pietro non sarebbe più la roccia da cui la Chiesa trae la sua unità, oppure avrebbe cessato di essere il fondamento sicuro della sua fede. – La conclusione, quindi, è che il privilegio dell’inerranza deve essere riconosciuto per un insegnamento da cui la fede universale dipende così strettamente e circa il quale Dio stesso, la prima Verità, si è fatto garante. Senza dubbio, in tutto il rigore dei termini, la parola infallibilità deve essere pronunciata solo in relazione all’insieme a cui abbiamo appena accennato (« La garanzia infallibile dell’assistenza divina non è limitata ai soli atti del Magistero solenne, ma si estende anche al Magistero Ordinario, senza tuttavia coprirne ed assicurarne ugualmente ogni atto. Essa garantisce assolutamente l’insegnamento della Chiesa universale unita al Papa; ma il Papa, che può esercitare questo Magistero da solo, può anche beneficiare da solo di questa infallibilità. P. LÀBOURDETTE, O. P. Les Enseignements de l’Encyclique Humani Generis, in “Revue Thomiste”, 1950, p. 38.); tuttavia, ognuno degli atti che lo compongono deve anche beneficiare dell’assistenza divina in quanto contribuisce a rappresentare l’insegnamento pontificio, ad assicurare per la sua parte l’unità dottrinale nella Chiesa. Questo mostra il titolo eccezionale che avrà l’Enciclica, « l’atto più alto del Magistero supremo dopo la definizione ex cathedra » (L. CHOUPIN, S. J., Le Motu proprio “Præstantia” di S. S. Pio X, in “Etudes religieuses“, 1908, t. CXIV, p. 123. Cfr. MANGENOT, D. T. C. art. “Encicliche“: « Se non sono giudizi solenni, poiché non hanno né la forma né le condizioni esterne di tali giudizi, sono almeno atti del Magistero Ordinario del Sovrano Pontefice e si avvicinano a giudizi solenni quando trattano materie che potrebbero essere oggetto di definizioni »), atti di cui abbiamo ricordato le immense ripercussioni, non solo sulla fede dei fedeli, ma sull’insegnamento stesso dei pastori. Se un semplice esposto dottrinale, non può mai pretendere l’infallibilità di una definizione se non alla maniera di un asintoto (Nessun atto del Magistero Ordinario, senza cessare di essere tale, può rivendicare da solo la prerogativa connessa all’esercizio del giudizio supremo. Un atto isolato è infallibile solo se il giudice supremo vi impegna la sua autorità al punto da vietarsi di ritornarvi – revocabile, infatti, non potrebbe esserlo senza riconoscere che è passibile di errore – ma un tale atto, senza appello, è proprio quello che costituisce il giudizio solenne e come tale si oppone al Magistero Ordinario. « Neque etiam dicendus est Pontifex infallibilis simpliciter ex auctoritate papatus, sed ut subest divinæ assistentiæ dirigenti in hoc certe et indubie. Nam auctoritate papatus Pontifex est semper supremus judex in rebus fidei et morum et omnium christianorum pater et doctor; sed assistentia divina ipsi promissa qua fit, ut errare non possit, solummodo tunc gaudet, quum munere supremi iudicis in controversiis fidei et universatis Ecclesiæ doctoris reipsa et actu fungitur. – Coll. Lac, col. 399-b.), qui almeno si deve parlare di questa equivalenza pratica (Ecco come il semplice fatto di essere affermato direttamente in un’Enciclica, può rendere certa una dottrina finora considerata probabile tra i teologi. « Nunc… omnino certa habenda ex verbis Summi Pontificis » PII XII, dice l’arcivescovo OTTAVIANI, in relazione a una tesi finora contestata sull’origine della giurisdizione episcopale – Institutiones Juris publici ecclesiastici, Romæ, 1947, I, 413). Le esitazioni dei teologi sull’infallibilità delle lettere papali avrebbero dovuto rendercene conto: ci troviamo in presenza di un limite, ogni affermazione (si tratta, ovviamente, di affermazioni che non sono giudizi dogmatici in senso stretto) presa separatamente, si avvicina solo all’estremo dell’infallibilità, che, invece, è rigorosamente implicita nel caso di convergenza sulla stessa dottrina di una serie di documenti, la cui continuità esclude da sola ogni possibilità di dubbio sul contenuto autentico dell’insegnamento romano. – Questa impareggiabile autorità delle Encicliche non sorprende se si fa attenzione a collocarle nel loro vero posto, nel Magistero Universale, o, nelle parole di Sant’Ireneo, in: « Quella predicazione ricevuta dagli Apostoli » che la Chiesa «…custodisce con cura come se avesse una sola anima e un solo cuore… che predica, insegna e trasmette, come se avesse una sola bocca » (Adv. Hær. I. X, 2. P. G. VII, col. 551). Queste, sono almeno atti del Magistero Ordinario del Sommo Pontefice, e si avvicinano a giudizi solenni quando trattano questioni che potrebbero essere oggetto di definizioni. È solo qui che si rivela « la funzione privilegiata di questo principio di unità che integra », nelle parole di Leone XIII, « la costituzione e l’equilibrio stesso della Chiesa » (Satis Cognitum, B.P., V. 39). « L’autore divino della Chiesa – continua il grande Papa – avendo deciso di darle unità di fede, di governo, di comunione, scelse Pietro e i suoi successori per stabilire in loro il principio e come il centro di questa unità di fede » – … Ecco perché San Cipriano ha potuto dire: «C’è una via facile per arrivare alla fede, e la verità è contenuta in una parola. Il Signore disse a Pietro: Io ti dico che tu sei Pietro… ».È su uno solo che Egli costruisce la Chiesa; e anche se dopo la Resurrezione conferisce a tutti lo stesso potere… tuttavia, per mettere in piena luce l’unità, in uno solo stabilisce con la sua autorità, l’origine e il punto di partenza di quella stessa unità (Ibid., p. 47). Nell’immenso concerto dell’insegnamento universale, la voce di Pietro non è solo una tra le altre, ma è quella che dà il tono, che custodisce e sostiene l’insieme. Sia che lo gridi ad alta voce con un giudizio solenne, sia che lo mantenga più discretamente attraverso la vigilanza e il continuo richiamo delle sue Encicliche, è sempre essa la voce che regola l’unità, e solo sono assicurate circa la loro giustezza le voci che rimangono in armonia con essa. Non è questa, inoltre, l’intima convinzione di tutti i fedeli? « Credo nella Chiesa cattolica », professano nel loro Credo. Ma dalle labbra di chi raccolgono le parole della Chiesa? Quelle di alcuni educatori, quelle dei loro catechisti, del loro parroco. Come sarebbero assicurati di incontrarvi il pensiero autentico di Dio che parla attraverso la sua Chiesa, se non fosse sufficiente per loro sapere che questi sacerdoti sono in unione con il loro Vescovo, che rimane lui stesso rimane unito al centro dell’unità, alla sede del Romano Pontefice? Essendo il Centro e la Causa dell’unità infallibile, come potrebbe essere soggetto all’errore? Stupirsi di non vedere questa dottrina esplicitamente insegnata dal Concilio Vaticano e usarla come pretesto per scartarla, sarebbe dimenticare lo scopo dei decreti e delle definizioni. – Uno dei più illustri teologi che contribuirono alla preparazione degli schemi spiegò « che sarebbe stato un errore cercare in essi l’espressione di ogni verità ammessa », essendo il loro scopo primario quello di opporsi all’errore (Coll. Lac, col. 1612). Senza dubbio le discussioni stesse contribuirono a portare in primo piano le dottrine che erano state contestate dagli oppositori. Per essere state, da questi illustri giocolieri, respinte nell’ombra, quelle stesse che furono l’oggetto di simili dibattiti, non hanno perso nulla della loro tranquilla certezza. Quello che abbiamo appena ricordato, collegandolo come una conclusione teologica dei dogmi vaticani, non sarebbe anche uno di queste? Possiamo basarci sulle testimonianze di Bossuet e Fénelon, anch’esse basate sulla tradizione antica. È il Vescovo di Meaux che parla di « questa Cattedra romana così celebrata dai Padri, che l’hanno esaltata come la continuazione, la primizia della Cattedra apostolica, la fonte dell’unità, e nel posto di Pietro il grado eminente della cattedra sacerdotale; la Chiesa madre, che tiene in mano la guida di tutte le altre chiese; il Capo dell’episcopato, da cui procede il raggio del governo; la Cattedra principale, l’unica Cattedra in cui solo tutti mantengono l’unità. In queste parole si sente San Ottatto, Sant’Agostino, San Cipriano, San Prospero, Sant’Avito, San Teodoreto, il Concilio di Calcedonia ed altri; l’Africa, i Galli, la Grecia, l’Asia, l’Oriente e l’Occidente uniti insieme »(BOSSUET. Sermone sull’unità della Chiesa, parte 1. Oeuvres wtoires, ed. URB. et LEV, Paris, 1923, t. VI, p. 116). Ascoltiamo Fenelon che si riferisce egli stesso alla professione di fede imposta da Papa Ormisda ai Vescovi orientali: « Dio non voglia che qualcuno prenda un atto così solenne, con il quale i Vescovi scismatici tornarono all’unità, come un complimento vago e lusinghiero, che non significhi nulla di preciso e serio. Si tratta qui della promessa del Figlio di Dio fatta a San Pietro, che è verificata di secolo in secolo dagli eventi. Hæc quæ dicta sunt probantur effectibus. Cosa sono questi eventi? Che la Religione Cattolica è inviolabilmente conservata pura nella Sede Apostolica. È che questa Chiesa, come sentiremo presto dire da M. Bossuet, Vescovo di Meaux, è ancora vergine, e che Pietro parlerà sempre dal suo pulpito, e che la fede romana è sempre la fede della Chiesa. È che non c’è differenza tra coloro che sono privati della comunione della Chiesa Cattolica, e quelli che non sono uniti in tutto nel sentimento con questa Sede. Così chi contraddice la fede romana, che è il centro della tradizione comune, contraddice quella di tutta la Chiesa. Al contrario, chi rimane unito alla dottrina di questa Chiesa sempre vergine non rischia nulla per la sua fede » (FÉNELON. Deuxième Mandement sur la Constitution Unigenitus – Œuvres complètes, Paris, 1851. t. V, p. 175). Non si può negare questa prerogativa, inoltre, senza mettersi in opposizione con la più antica e venerabile tradizione.   – La “Seconda Lettera sulla Costituzione Unigenitus” ricordava, contemporaneamente alla testimonianza di Ormisda, il famoso passo in cui Sant’Ireneo propone due modi altrettanto sicuri di riconoscere l’autenticità e l’apostolicità di una dottrina: l’insegnamento costante di tutte le chiese, o quello del solo « Presidente della Fede ». Ed ecco la ragione di tale sicurezza: Perché è con questa Chiesa, a causa della sua eminente principalitas (La parola corrisponde sia a “primato” che a “principato”), che ogni chiesa, cioè i fedeli di ogni luogo, devono concordare; ed è in essa, più che altrove, che le tradizioni che vengono dagli Apostoli sono state conservate (Adv. Hær., III, 3, 2, P. G. VII, col. 849. Per la giustificazione della traduzione adottata, vedi Christine MOHRMANN, Vigiliæ Christianæ, gennaio 1949, p. 57 – e H. HOLSTEIN S. J., loc. cit, che conclude: « La pietra di paragone dell’Ortodossia sarà dunque la conformità con ciò che la Chiesa di Roma conserva ed insegna: è necessario che, dappertutto, tutte le Chiese si trovino in accordo con quella Chiesa che gode della principalitas privilegiata delle Chiese apostoliche, con quella comunità di Cristiani di tutto il mondo, nella quale la tradizione apostolica è stata conservata intatta e viva fin dall’inizio.»). – È come un “principio di unità” che San Cipriano rappresenta a sua volta la Chiesa di Roma, in un passaggio in cui sarebbe perfettamente arbitrario limitare la sua portata alle sentenze solenni. Parlando degli eretici, che si erano sforzati, per meglio diffondere le loro dottrine, di farsi coprire dall’autorità del Papa: Essi osano – egli grida – fare vela verso la Cattedra di Pietro e la Chiesa principale, fonte dell’unità del corpo episcopale. Hanno dimenticato chi sono questi romani, la cui fede è stata lodata dalla bocca dell’Apostolo stesso, e nei quali “l’errore non può trovare accesso”? (Epist. 59 ad Cornelium, n° 14 P. L. III, col. 818. Vedi sopra, altri testi nello stesso senso). È davvero utile moltiplicare le testimonianze, quando la dottrina che afferma la possibilità di incontrare l’errore nella Chiesa di Roma è stata oggetto di una solenne riprovazione? Questa è infatti una delle proposizioni di Pietro di Osma, che fu colpito da Sisto IV con varie censure, arrivando fino alla nota di eresia: « Ecclesia Urbis Romæ errare potest ». (Prop. 7, condannata dalla bolla Licet ea, del 9 agosto 1478. DENZ. BAN. Enchiridion, n° 730.). Non ci si sorprenderà quindi di vedere l’importanza attribuita, tra i luoghi teologici, all’insegnamento ordinario della Santa Sede e specialmente alle Lettere papali. Quando i teologi, quando i Concili, o i Papi stessi, come ha fatto recentemente Pio XII nel suo Magnificentissimus Deus, cercano nel passato “testimonianze, indici, vestigia, testimonia, indici, vestigia“, che permettono loro di riconoscere una dottrina come autenticamente contenuta nel deposito della fede, la ritengono certa, anche se gli strumenti sono pochi, purché tra questi possano annoverare l’insegnamento costante del Sovrano Pontefice, la fede autentica della Chiesa Romana (« Mirum videri non débet quod existimet Canus res fidei non numero episcoporum, sed pondere et auctoritate Romani Pontificis definiri. .. atque ubi discordes sunt inter se Episcopi ei parti semper adhærendum pro qua stat Romanus Pontifex. » TOUBNELY, De Ecclesia, p. 223 – ed. di Venezia, 1731). Le stesse Encicliche non ne danno forse una prova definitiva? I loro lettori, anche se un po’ distratti, avranno certo notato la formula solenne con cui i Papi testimoniano la loro costante preoccupazione di collegare la propria dottrina a quella dei « loro predecessori di immortale memoria ». Se a volte lo esplicitano, se lo rivendicano contro una falsa interpretazione, si preoccupano soprattutto, nella prospettiva stessa di san Ireneo, di mostrare come prova e a garanzia della sua autenticità, la continuità rigorosa dell’insegnamento pontificale (A parte i testi che si trovano in tutte le Encicliche, è da notare l’abitudine di segnare gli anniversari delle Encicliche stesse, Quadragesimo anno, Ærant Ecclesiæ, etc. La realtà è ben lontana dal perpetuo « bilanciamento » dal « pendolo oscillante », dalla « successione di cadute accettate », che è stata data come caratteristica dell’insegnamento enciclicale. Questa immagine, troppo spesso usata, non prova nulla, se non che chi la usa non ha letto le Encicliche, almeno non in modo da fare attenzione a non farsi ingannare da una semplice evoluzione semantica. Senza dubbio Pio VI condanna il governo popolare (Allocuzione concistoriale del 17-6-93), mentre Pio XII (Messaggio di Natale 1944) specifica solo le condizioni di una sana democrazia, ma per escludere il governo delle “masse“, termine che copre esattamente il termine “popolo” usato da Pio VI. Al contrario, Pio XII amplia il significato di democrazia per permetterle, in termini espliciti, di includere la monarchia, che Pio VI opponeva al governo del popolo. Altre parole, stessa dottrina). – Assistito dallo Spirito Santo nel cui Nome si rivolge a noi in ciascuna di queste Lettere, l’insegnamento ordinario delle Encicliche, come ci appare attraverso la loro continuità, non può essere soggetto a revisione. Anche una definizione solenne non potrebbe contraddirla, perché, divinamente assistita, e non potrebbe mai pronunciarsi contro una dottrina infallibilmente preservata dall’errore (Collect. Lac, col. 404. – Cfr. anche la lettera di Mons. DESCHAMPS a Mons. Ketteler sulla distinzione tra il fatto e l’atto di accordo delle Chiese, prima della definizione: « Certamente il Papa non può definire – come dice Sant’Agostino – se non ciò che è nel deposito della rivelazione, nella Sacra Scrittura e nella tradizione “quam Apostolica Sedes et Romana cum ceteris tenet perseveranter Ecclesia“. Questo è il fatto che il Papa nota prima di definire come ha sempre fatto… e come l’assistenza divina promessagli garantisce che farà sempre. » R.S.P.T. 1935, p. 298). Qualunque sia il modo in cui la parola divina ci raggiunga, essa esige sempre lo stesso atteggiamento da parte nostra. Potremmo noi senza pericolo – scrive Dom Guéranger in una delle pagine più belle del suo Anno Liturgico – imporre limiti alla nostra docilità agli insegnamenti che ci vengono nello stesso tempo dallo Spirito e dalla Sposa che sappiamo essere uniti in modo indissolubile (Apoc. XXII, 17)? Sia che quindi, la Chiesa ci intimi ciò che dobbiamo credere mostrandoci la sua pratica, o con la semplice enunciazione dei suoi sentimenti, o se dichiari solennemente la definizione attesa, dobbiamo guardare ed ascoltare con sottomissione di cuore; infatti, la pratica della Chiesa è tenuta nella verità dallo Spirito che la vivifica; rinunciare ai propri sentimenti in qualsiasi momenti, è l’aspirazione continua di questo Spirito che vive in essa; e per quanto riguarda le sentenze che Essa pronuncia, non è Essa sola che le pronuncia, ma lo Spirito che le pronuncia in Essa ed attraverso di Essa. Quando è il suo Capo visibile che dichiara la dottrina, sappiamo che Gesù si degnò di pregare affinché la fede di Pietro non venisse meno, cosa che ottenne dal Padre suo e per la quale ha affidato allo Spirito il compito di mantenere Pietro in possesso di un dono così prezioso per noi » (L’Anno Liturgico, Parigi 1950: “Il Giovedì della Pentecoste“, t. III, p. 609).

IL BEATO HOLZHAUSER INTERPRETA L’APOCALISSE: LIBRO QUINTO

IL BEATO HOLZHAUSER INTERPRETA L’APOCALISSE

LIBRO QUINTO

SUI CAPITOLI DIECI E UNDICI

Della grande consolazione della Chiesa latina nella sua sesta età, dopo l’estirpazione delle eresie. Della persecuzione dell’Anticristo e della settima e ultima tromba.

SEZIONE I.

SUL CAPITOLO X.

DELLA CONSOLAZIONE DELLA CHIESA LATINA, DELLA SUA FUTURA ESALTAZIONE E LA SUA ESTENSIONE.

§ I.

Della consolazione della Chiesa latina e della sua futura esaltazione nella sesta età.

CAPITOLO X – VERSETTI 1-11

Et vidi alium angelum fortem descendentem de cælo amictum nube, et iris in capite ejus, et facies ejus erat ut sol, et pedes ejus tamquam columnæ ignis: et habebat in manu sua libellum apertum: et posuit pedem suum dextrum super mare, sinistrum autem super terram: et clamavit voce magna, quemadmodum cum leo rugit. Et cum clamasset, locuta sunt septem tonitrua voces suas. Et cum locuta fuissent septem tonitrua voces suas, ego scripturus eram: et audivi vocem de cælo dicentem mihi: Signa quæ locuta sunt septem tonitrua: et noli ea scribere. Et angelus, quem vidi stantem super mare et super terram, levavit manum suam ad cælum: et juravit per viventem in sæcula sæculorum, qui creavit cælum, et ea quæ in eo sunt: et terram, et ea quæ in ea sunt: et mare, et ea quæ in eo sunt: Quia tempus non erit amplius: sed in diebus vocis septimi angeli, cum cæperit tuba canere, consummabitur mysterium Dei sicut evangelizavit per servos suos prophetas. Et audivi vocem de cælo iterum loquentem mecum, et dicentem: Vade, et accipe librum apertum de manu angeli stantis super mare, et super terram. Et abii ad angelum, dicens ei, ut daret mihi librum. Et dixit mihi: Accipe librum, et devora illum: et faciet amaricari ventrem tuum, sed in ore tuo erit dulce tamquam mel. Et accepi librum de manu angeli, et devoravi illum: et erat in ore meo tamquam mel dulce, et cum devorassem eum, amaricatus est venter meus: et dixit mihi: Oportet te iterum prophetare gentibus, et populis, et linguis, et regibus multis.

[E vidi un altro Angelo forte, che scendeva dal cielo, coperto d’una nuvola, ed aveva sul suo capo l’iride, e la sua faccia era come il sole, e i suoi piedi come colonne di fuoco: e aveva in mano un libriccino aperto: e posò il piede destro sul mare, e il sinistro sulla terra: e gridò a voce alta, come rugge un leone. E gridato ch’egli ebbe, i sette tuoni fecero intendere le loro voci. E quando i sette tuoni ebbero fatto intendere le loro voci, io stava per iscrivere: ma udii una voce dal cielo, che mi disse: Sigilla quello che hanno detto i sette tuoni, e non lo scrivere. E l’Angelo, che io vidi posare sul mare e sulla terra alzò al cielo la mano: e giurò per colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato il cielo e quanto vi è in esso: e la terra e quanto vi è in essa: e il mare e quanto vi è in esso, che non vi sarà più tempo: ma che nei giorni del parlare del settimo Angelo, quando comincerà a dar fiato alla tromba, sarà compito il mistero di Dio, conforme evangelizzò pei profeti suoi servi. E udii la voce dal cielo che di nuovo mi parlava, e diceva: Va, e piglia il libro aperto di mano dell’Angelo, che posa sul mare e sulla terra. E andai dall’Angelo dicendogli che mi desse il libro. Ed egli mi disse: Prendilo, e divoralo: e amareggerà il tuo ventre, ma nella tua bocca sarà dolce come il miele. E presi il libro di mano dell’Angelo e lo divorai: ed era nella mia bocca dolce come miele: ma, divorato che l’ebbi, ne fu amareggiato il mio ventre: E disse a me: Fa d’uopo che tu profetizzi di bel nuovo a molte genti, e popoli, e re.]

Vers. 1. – E vidi un altro Angelo pieno di forza che scendeva dal cielo, vestito di una nuvola, con un arcobaleno sulla testa. Nelle necessità e nelle calamità dei tempi, la bontà divina è sempre solita venire in aiuto della sua Chiesa con consolazioni ed aiuti tempestivi, per evitare che essa soccomba agli sforzi dei suoi nemici. Perché Dio ha promesso di essere con Essa fino alla consumazione dei tempi, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. Questa promessa l’ha manifestata in modo ammirevole nella quinta epoca, in quest’epoca di desolazione e di mali, concedendo alla sua Chiesa un aiuto potente, specialmente in mezzo ai più grandi pericoli: 1°. Opponendosi a Lutero e alla sua fatale eresia con un potente guerriero, Sant’Ignazio e la sua Compagnia. 2°. Convocando, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, il Santo Concilio di Trento, per chiarire i dogmi della fede e ripristinare la disciplina ecclesiastica e soprattutto il celibato, che stavano per scomparire. 3°. Dando alla Chiesa, in mezzo alle sue angosce e defezioni, una grande consolazione, e fornendole tanti fedeli in altre parti del mondo quanti ne perdeva in Europa. Perché fu proprio in questo momento di abbandono, all’inizio della quinta età, che Dio fece fiorire la fede, e rese la sua fiaccola ancora più luminosa e brillante, come per sfidare le potenze delle tenebre, portando innumerevoli conversioni in America, Asia, India, Cina e Giappone, e in molti altri Paesi. 4° Inoltre, ha sempre protetto la sua Chiesa fino ad oggi dandole governanti zelanti, tra i quali il più illustre fu l’imperatore Ferdinando II. Ma tutti questi aiuti non furono sufficienti per sterminare l’orribile bestia che abbiamo descritto, come l’esperienza dimostra fin troppo bene. E poiché non siamo ancora giunti alla fine dei nostri problemi, San Giovanni, dopo averne indicato la causa principale e i principali eventi ad essa collegati, arriva in questo capitolo alla descrizione di questo grande Monarca che abbiamo annunciato. (Vedi Libro I, sezione III, capitolo III, paragrafo II). Stiamo ora per assistere alla grande scena della sesta età della Chiesa, dove vedremo che dopo che gli eretici saranno stati abbattuti e convertiti, la Chiesa godrà della più grande consolazione, l’impero dei Turchi sarà profondamente umiliato, la fede cattolica brillerà sulla terra e sul mare, e la disciplina ecclesiastica sarà restaurata e perfezionata.

II. Prima di venire all’esposizione del testo, è da notare che questo Angelo apparso a San Giovanni era un vero Angelo di Dio, della natura più distinta. Era un Angelo tutelare e protettore dell’Impero Romano, o del grande Eufrate. Questo Angelo fece l’ufficio di due persone: il primo rappresentava quello del grande Monarca a venire, che San Giovanni descrive con queste parole: E vidi un altro Angelo pieno di forza. (S. S. Pio IX – ndt. -). Il secondo fu quello di questo stesso Angelo che, come ambasciatore celeste, rivelò a San Giovanni i segreti prossimi della Chiesa. Ed è a questo secondo personaggio che si riferiscono le parole che troviamo nel testo: E l’Angelo che avevo visto in piedi sul mare e sulla terra, etc. fino alla fine del capitolo.  – È così che vediamo in Esodo (III, 2) che l’Angelo che apparve a Mosè in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto faceva anche l’ufficio di due persone. Il primo rappresentava Dio, e il secondo era quello dell’Angelo che, come messaggero celeste, manifestava a Mosè i decreti della volontà divina riguardanti i figli d’Israele. E ho visto. Abbiamo spiegato nel Libro II come i Profeti vedono le persone e le cose nel futuro. E vidi un altro Angelo: – 1° Questo angelo è designato dal termine “altro” per mostrare che sarà l’opposto dei precedenti, che erano Lutero e i suoi predecessori. Perché quest’altro Angelo ammetterà una sola dottrina pura, e sarà molto zelante per la fede cattolica, una e ortodossa, soprattutto dopo aver abbattuto e disperso gli eretici sulla terra e sul mare. I suoi costumi saranno santi e ben regolati. Egli contribuirà potentemente alla propagazione della fede e alla restaurazione della disciplina ecclesiastica, che l’angelo suo predecessore, cioè l’eresiarca Lutero, con i suoi empi seguaci, aveva così notevolmente rovinato ed indebolito. – 2°. San Giovanni attribuisce a quest’altro Angelo la qualità speciale di essere forte o potente. E vidi un altro angelo pieno di forza, etc. Sarà potente in guerra e distruggerà tutto, come il leone (nello stemma di Pio IX, vi sono rappresentati due leoni!…). Diventerà molto grande con le sue vittorie, e sarà ancora più saldamente stabilito sul trono del suo impero. Regnerà per molti anni (… il suo Pontificato sarà il più lungo dopo quello di San Pietro), e durante il suo regno umilierà gli eretici e le repubbliche, e sottometterà tutte le nazioni al suo impero e a quello della Chiesa latina. E per di più, dopo aver consegnato la setta di Maometto all’inferno, egli smantellerà l’impero turco (… le sconfitte di Muhamed II della prima metà dell’ottocento, affosseranno sempre più un impero ottomano già in decadenza che perderà pezzi sui pezzi – ndr. -), e lascerà solo un piccolissimo stato senza potere e forza, che tuttavia rimarrà fino alla venuta del figlio della perdizione, che non temerà il Dio dei suoi padri, né si occuperà di alcun dio. (… la Turchia diventerà infatti uno Stato laico, cioè indifferente alla religione – ndr. -). (Dan XI, 37): E vidi un altro Angelo pieno di potere che scendeva dal cielo. Il Profeta dice che questo Angelo scenderà dal cielo, perché nascerà nel seno della Chiesa Cattolica, che qui è indicata come il “cielo”; e sarà specialmente inviato da Dio, secondo i decreti della divina Provvidenza, che lo avrà scelto per la consolazione e l’esaltazione della Chiesa latina in mezzo alla sua grande afflizione e profonda umiliazione (S. S. Pio IX – ndr. -). – 4° E vidi un altro angelo, etc. …. avvolto in una nuvola. Il Profeta designa questo monarca come vestito da una nuvola, per insegnarci che sarà molto umile e che camminerà fin dall’infanzia nella semplicità del suo cuore. Infatti, la nuvola che copre la luminosità dello splendore significa l’umiltà, e l’umiltà attira la protezione di Dio, che è anche significata dalla nuvola che coprirà questo Monarca (… il Papa-Re). Infatti, nessuno è così protetto da Dio come colui che cammina nelle vie dell’umiltà, secondo San Luca, I, 32: « Egli ha deposto i potenti dai loro troni, e ha esaltato gli umili. » Perciò nessuno potrà nuocergli o resistergli, perché sarà rivestito della protezione del Dio del cielo. 5° E vidi un altro Angelo….. vestito di una nuvola, con un arcobaleno sulla testa. Con l’arcobaleno intendiamo la pace che Dio farà con la terra, secondo Genesi, (IX, 13): « Metterò il mio arcobaleno nella nuvola come segno di alleanza tra me e la terra. » Ora, un’alleanza presuppone la pace, ed è questa pace che questo Monarca restituirà all’universo. Infatti, dopo aver estirpato le eresie e le superstizioni dei Gentili e dei Turchi, ci sarà un solo ovile ed un solo Pastore. Tutti i principi saranno uniti a lui dai legami più forti, dai legami della fede cattolica e dell’amicizia, perché egli, senza abusare del suo potere e senza offendere nessuno con l’ingiustizia, renderà a ciascuno ciò che gli è dovuto. Ecco perché il Profeta dice che avrà un arcobaleno sulla testa come ornamento.  6°. E la sua faccia era come il sole, a causa dello splendore della sua giustizia e della sua gloria imperiale, e anche per l’alta comprensione e la profonda saggezza che lo distingueranno; anche per l’ardore della sua carità e il suo zelo per la Religione; infine, perché sarà come il sole tra le stelle, cioè camminerà nel suo impero tra i suoi principi alleati che eseguiranno la sua volontà e cammineranno sulle sue orme, etc. 7°. E i suoi piedi come colonne di fuoco. I piedi significano l’estensione e il potere di un impero, secondo il Salmista, (Ps. LIX, 8): « Moab è come un vaso che alimenta la mia speranza; avanzerò nell’Idumea e la calpesterò. Gli estranei sono stati sottomessi ». Tuttavia, poiché molti tiranni avevano imperi molto vasti e potenti, il Profeta attribuisce a questo Monarca proprietà speciali per distinguerlo: 7°. E i suoi piedi come colonne di fuoco. Le colonne sono i sostegni e la spina dorsale di un edificio e il fuoco indica lo zelo della religione e l’ardore della carità verso Dio ed il prossimo; allo stesso modo, il fuoco è un elemento che doma tutto. Ora, questo sarà precisamente il potere di questo Monarca; il suo regno sarà il più forte sostegno della Chiesa Cattolica e della sua casa reale, perché il suo perché il suo regno sarà assicurato per la sua posterità, fino a quando l’apostasia sarà venuta e il figlio della perdizione sarà apparso. La potenza di questo Monarca brillerà soprattutto per il suo zelo per la religione, e per il fuoco della sua carità verso Dio e verso il prossimo; e come il fuoco doma tutte le cose, così questo sovrano domerà tutte le cose e governerà.

III. Vers. 2.– 8° E aveva in mano un piccolo libro aperto. Questo piccolo libro denota un Concilio generale, che sarà il più grande e famoso di tutti (il Concilio Vaticano del 1869-70! – ndr.- ). Il Profeta dice che questo Angelo tiene in mano questo piccolo libro, perché è per opera e potere di questo Monarca che questo Concilio sarà riunito, protetto e giungerà a buon fine; e anche perché egli userà tutto il suo potere per far rispettare le sue sentenze ed i suoi decreti. Il Dio del cielo lo benedirà e metterà ogni cosa nelle sue mani e in suo potere. Si dice che questo piccolo libro sarà aperto per la chiarezza con cui questo Concilio spiegherà il significato della Sacra Scrittura e per la purezza dei dogmi della fede che vi si proclameranno. 9°. E mise il suo piede destro sul mare e il suo piede sinistro sulla terra. Cioè, questo Monarca allargherà ed estenderà il suo impero sulla terra e sul mare, perché sottometterà la terra e le isole del mare al suo dominio. La grandezza e l’estensione del suo potere saranno immense, come abbiamo spiegato sopra, a proposito del significato dei piedi (La Chiesa Cattolica si espanderà in tutti i continenti fino all’estremità delle isole… -ndr-)

Vers. 3. -10°. E gridò ad alta voce come un leone che ruggisce; e questa intensità della sua voce, paragonata al ruggito di un leone, ci fa capire il grande terrore che ispirerà a tutti i popoli della terra e agli abitanti delle isole. Perché quando il leone ruggisce, mostra la sua forza, e tutti gli altri animali sono terrorizzati. Perciò è detto in Proverbi, (XX, 2): « Come il ruggito del leone, così è il terrore del re ». Le forti grida della sua voce saranno anche i suoi editti imperiali, con i quali ordinerà che siano eseguiti in tutto rigore, a favore della fede ortodossa cattolica, gli ordini del Concilio; e i suoi editti raggiungeranno tutte le nazioni della terra e delle isole.

IV. E dopo che egli ebbe gridato, sette tuoni emisero le loro voci. Questi tuoni, che si faranno intendere alla voce di questo Angelo, saranno i mormorii, le proteste e le grida di coloro che resisteranno alla volontà di questo Monarca, e che vorranno colpirlo (… i sette governanti nell’Italia dell’epoca! – ndr. -) ; perché in quel momento si scatenerà una grande tempesta; ma poiché essi non potranno resistergli e tanto meno fargli del male, a San Giovanni viene ordinato di non scrivere ciò che ha visto in questa circostanza; perché tutta questa tempesta non avrà alcun effetto. Gesù Cristo vuole solo avvertire San Giovanni nella sua qualità di rappresentante della Chiesa, per farci sapere che l’impero di questo Monarca e la propagazione della vera fede sulla terra non saranno ottenuti senza rumore e tempesta. Perciò è detto: E quando egli ebbe gridato, sette tuoni emisero il loro fragore. Quando il tuono emette solo il suo rumore, è un segno che il fulmine non colpisce, perché la nube è scoppiata nell’aria; ma il temporale produce a volte un effetto tanto dannoso, a seconda che il fulmine cada su persone, animali, alberi o edifici. Ora la tempesta che fu mostrata a San Giovanni sotto forma di temporale era una tempesta senza altri effetti che la voce del tuono. Sette tuoni fecero sentire la loro voce. Cioè, i principi e i grandi si solleveranno contro questo Monarca e mormoreranno. Essi faranno sentire la loro voce in questo Concilio, per resistere e per abbattere i suoi decreti; ma, poiché questo Monarca sarà sotto la protezione di Dio, tutti i loro sforzi saranno vani e inutili.

V. Vers. 4. – Ed essendo scoppiate le sette voci dei sette tuoni, stavo per scrivere. Cioè, dopo che mi furono rivelati i segreti dei consigli di questi principi recalcitranti, dice s. Giovanni, stavo per scriverli in virtù dell’ordine che avevo ricevuto, ed ho sentito una voce dal cielo che mi diceva: Sigilla ciò che i sette tuoni hanno detto, e non scriverlo. Ci sono due motivi per cui qualcuno non dovrebbe sapere o scrivere qualcosa. Il primo è quando tale conoscenza potrebbe essere dannosa causando danni o impedendo il bene, sia nel presente che nel futuro. Il secondo è quando l’importanza, l’utilità o la necessità della cosa non richiede che sia conosciuta o scritta. Ecco come la Divina Provvidenza nasconde ai suoi fedeli amici, in questa vita, i pericoli e le tribolazioni del corpo e dell’anima, il cui numero è quasi infinito, perché non servirebbe agli uomini conoscerli in anticipo; e Dio, nella sua bontà, sa come preservarci da essi e difendercene a tempo debito, per quanto grandi ed imminenti possano essere i mali della vita. Per la stessa ragione a San Giovanni non fu permesso di scrivere le voci dei sette tuoni in relazione a questo monarca. Perché Dio lo libererà da ogni pericolo e farà abortire i disegni dei suoi nemici, etc. Sigillate ciò che dicono i sette tuoni e non scrivetelo. Cioè, scrivete che sette tuoni hanno emesso la loro voce, ma non scrivete quello che hanno detto.

Vers. 5. – E l’Angelo che avevo visto in piedi sul mare e sulla terra alzò la mano verso il cielo. Ora viene l’altro personaggio che questo angelo rappresentava, e cioè, non si tratta più del Monarca, ma dell’ambasciatore celeste, che rivela i segreti divini sulla fine dei tempi. E l’Angelo che avevo visto in piedi sul mare e sulla terra, cioè il presidente supremo, il guardiano ed il protettore di questo impero, che Daniele (XII: 7) vide in piedi sulle acque del fiume, alzò la mano al cielo.

Vers. 6. E giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato il cielo e ciò che è in cielo, la terra e ciò che è sulla terra, il mare e ciò che è nel mare. Queste parole contengono una testimonianza sostenuta da fede giurata, di ciò che il Signore Dio rivela a tutta l’umanità attraverso il suo ambasciatore celeste per la consolazione dei suoi eletti e per il terrore degli empi. Questo Angelo giura, con queste parole, una verità della massima importanza, cioè che non ci sarebbe stato più tempo. Questo passaggio può essere spiegato letteralmente dagli eretici e dai nemici della croce e di Cristo, perché il loro tempo, i loro giorni e la loro empietà finiranno sotto il dominio del Monarca annunciato. È per il loro terrore e la loro eterna confusione, e allo stesso tempo per la grande consolazione della Chiesa latina e dei fedeli che la compongono, che questo Angelo proclama questa sorprendente testimonianza che non ci sarebbe stato più tempo. – 2°. Queste parole significano anche che dopo la voce del settimo angelo, che suonerà la tromba, cioè l’anticristo, non ci sarà più tempo per il lavoro e la tribolazione. E lo annuncia per confortare e rafforzare i fedeli contro gli empi, dei quali è scritto: (II. Pietro III, 3): « Sappiate prima di tutto che negli ultimi giorni verranno degli ingannatori, pieni di astuzia, che cammineranno secondo le loro concupiscenze e diranno: Che ne è della promessa della sua venuta? Perché da quando i nostri padri sono morti, tutte le cose sono come erano all’inizio del mondo. » Ecco perché questo Angelo conferma, con questo solenne giuramento, la seconda venuta di Gesù Cristo, quando cesseranno i tempi di dolore e di persecuzione per il bene, ma anche i tempi della voluttà, dei trionfi, degli onori, delle ricchezze, della gloria e di tutti gli incanti della vita presente per i malvagi.

VI. Vers. 7. – Ma che nel giorno della voce del settimo angelo (l’anticristo), quando la tromba comincerà a suonare, ecc. La descrizione di questo settimo angelo e il bagliore della sua tromba si trova nel capitolo successivo. … ma quanto al giorno della voce del settimo angelo. Queste parole designano la fine dei tempi, dopo la quale non ci sarà più altro che tutta l’eternità; perché in quel giorno avrà luogo la consumazione del secolo, e subito dopo verrà il giudizio universale. Per questo il testo aggiunge: Ed egli giurò …. che …. il mistero di Dio si sarebbe compiuto, come Egli ha evangelizzato attraverso i Profeti suoi servi. Infatti, 1° il giorno della consumazione dell’età e del giudizio universale è davvero un mistero molto grande riservato a Dio solo, un mistero che non è mai stato e non sarà mai rivelato a nessuno, finché si compia, secondo S. Matteo (XXIV, 36) « Ma nessuno conosce questo giorno e quest’ora, nemmeno gli Angeli del cielo; solo il Padre mio lo conosce. »2° Questo mistero noto a Dio solo è grande, perché tutti i segreti più nascosti dei nostri cuori, sia in generale che in particolare, saranno resi manifesti nel grande giorno di Dio Onnipotente, secondo l’Apostolo, (I. Cor., III, 13): « L’opera di ogni uomo sarà resa manifesta; poiché il giorno del Signore la renderà nota, e sarà rivelata dal fuoco, e il fuoco proverà l’opera di ogni uomo. » E (I. Cor. IV, 5): « Non giudicate dunque prima del tempo, finché il Signore non venga a illuminare ciò che è nascosto nelle tenebre e a svelare i segreti pensieri degli uomini; e allora ogni uomo riceverà da Dio la lode che gli è dovuta. » 3º Questo mistero è la risurrezione dei morti. (I. Cor. XV, 51): « Ecco, io vi porto la parola di un mistero. Tutti risorgeremo, ma non tutti saremo cambiati. In un momento, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba, ecc. » 4º Questo mistero è la remunerazione del bene o del male; e rimarrà impenetrabile ai nostri occhi, finché non verrà il Signore Dio. (Apoc. XXII, 12): « Ecco, io vengo presto e avrò con me la mia ricompensa, per rendere ad ogni uomo secondo le sue opere. » Questo è certamente un grande mistero con il quale il santo re Davide fu commosso, e con il quale tutti i giusti che vivranno in questa epoca saranno commossi in mezzo alle loro tribolazioni. (Ps. LXXII, 1) : «  Quanto è buono Dio con Israele, con gli uomini dal cuore puro! Per poco non inciampavano i miei piedi, per un nulla vacillavano i miei passi, perché ho invidiato i prepotenti, vedendo la prosperità dei malvagi. Non c’è sofferenza per essi, e le piaghe con cui son colpiti non durano. Essi non conoscono l’affanno dei mortali, né i dolori dell’uomo. È questo che li rende superbi, e sono coperti delle loro iniquità e della loro empietà. Esce l’iniquità dal loro grasso, e sono abbandonati a tutti i pensieri del loro cuore … Io mi sono adoperato nel voler penetrare questo segreto, ma un gran lavorio mi si è presentato davanti, finché non sono entrato nel santuario di Dio, e compreso quella che deve essere la loro fine. » – 5°. Infine, è un mistero di Dio solo, il conoscere la scelta degli eletti sulla massa dei figli di Adamo; e questo è ancora un mistero che è nascosto agli occhi degli uomini e che nessuno può penetrare fino al giorno del Signore. (Romani, XI, 25): « Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti … ecc. » Poi finalmente l’apostolo San Paolo conclude: « O profondità dei tesori della sapienza e della scienza di Dio! Come sono incomprensibili i suoi giudizi e come sono imperscrutabili le sue vie! » Da ciò consegue che non dobbiamo affaticarci invano volendo studiare la grande questione della predestinazione. È questo un mistero che è riservato a Dio solo fino al giorno del giudizio, quando Egli renderà a ciascuno secondo le proprie opere e secondo il lavoro di ciascuno. Poiché Dio è giusto e l’iniquità non può raggiungerlo; Egli non vuole che il peccatore muoia, ma soprattutto vuole che si converta e viva. Molti uomini si arrovellano il cervello su questo punto di gran difficoltà e si rendono esausti come il ragno quando tesse la sua tela. Sarebbe molto più utile per essi pregare il Signore loro Dio, cercare di concepire pensieri santi sulla sua bontà, e lavorare alla loro salvezza con timore e tremore. Poiché questo segreto e mistero di Dio è impenetrabile: più lo si scruta, più si sprofonda nelle difficoltà, soprattutto se si pensa di comprenderlo. Cosicché Egli lo ha evangelizzato attraverso i Profeti suoi servi. Questi Profeti servi di Dio sono Mosè, Enoch ed Elia, e tutti gli altri profeti dell’Antico Testamento. Questi sono anche gli Apostoli e tutti gli altri dottori e predicatori del Nuovo, che tutti, di comune accordo, ognuno nella sua lingua e nei suoi scritti, hanno annunciato al mondo questo grande mistero del regno di Dio, che essi predicano come è ancora predicato e proclamato ai nostri giorni, e come sarà predicato e proclamato fino alla fine del mondo. Quando questo mistero si compirà, gli uomini non crederanno in quel giorno finché esso non verrà; come al tempo del diluvio, quando Noè lo annunciò al mondo per più di cento anni, e gli uomini del suo tempo rifiutarono di credere alla sua parola. Ecco perché Gesù Cristo ci dice in San Matteo, (XXIV, 37): « Sarà come nei giorni della venuta del Figlio dell’uomo, come nei giorni di Noè; perché come prima del diluvio gli uomini mangiavano e bevevano e prendevano moglie, e sposavano le loro figlie, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non pensarono al diluvio finché esso non venne e li portò via tutti; questo è ciò che sarà alla venuta del Figlio dell’uomo. »

VII. Vers. 8E udii la voce che mi parlava di nuovo dal cielo, dicendo: Va’ e prendi il libro aperto dalla mano dell’Angelo che sta sul mare e sulla terra.

Vers. 9: – E io andai dall’Angelo e gli chiesi di darmi il libro. Ed egli mi disse: Prendi il libro e divoralo; e sarà amaro nelle tue viscere, ma nella tua bocca sarà dolce come il miele.

Vers. 10Presi il libro dalla mano dell’Angelo e lo divorai; ed era nella mia bocca dolce come il miele; ma quando lo ebbi divorato, divenne amaro nelle mie viscere.

Vers. 11. – Ed egli mi disse: Tu devi ancora profetizzare ai Gentili, ai popoli, agli uomini di molte lingue e a molti re. – San Giovanni, che rappresenta qui la persona morale di tutta la Chiesa, ci istruisce con queste parole sulla qualità e sugli effetti di questo libro di cui abbiamo parlato sopra, e ce li dimostra con una metafora che trae dall’azione del mangiare. Infatti, è dal gusto e dalla digestione del cibo che conosciamo e sperimentiamo la sua qualità e i suoi effetti; perché molte cose dolci e piacevoli al gusto, sono invece amare e difficili da digerire, e viceversa. Ora questo vale anche per le cose celesti e spirituali. Per esempio, leggiamo volentieri e parliamo con piacere delle tribolazioni e delle sofferenze dei santi Martiri, lodiamo e ammiriamo le vite dei Santi, le loro virtù eroiche, la loro condotta irreprensibile, i loro sacrifici, le loro abnegazioni, etc.; ma se dobbiamo ingoiare una sola goccia del loro calice, essa produce immediatamente un’amarezza insopportabile per le nostre viscere, e la digestione, o la pratica e l’imitazione della loro vita, ci sembra troppo dura e pesante. Altre quattro qualità di questo libro si possono discernere dal contesto e dall’inizio del prossimo capitolo: – 1°. Esso contiene una sana, unanime e santa dottrina in materia di fede e di buoni costumi, una qualità significata da queste parole: Era nella mia bocca dolce come il miele. Queste parole contengono una metafora, in quanto, come il miele è dolce nella bocca degli uomini, così la pura dottrina e la santa morale sono dolci nella bocca dei giusti, mentre sono amare come il fiele nella bocca dei malvagi. Da qui questo passaggio del Sal. CXVIII, 103: « Come sono dolci le vostre parole per me! il miele più squisito è meno piacevole alla mia bocca ». Isaia, (VII), dice anche di Gesù Cristo: « Si nutrirà di latte e miele finché non saprà rifiutare il male e scegliere il bene. » Ora, poiché questo libro sarà l’opera dello Spirito Santo, è con buona ragione che San Giovanni dice che sarà dolce come il miele nella bocca di tutta la Chiesa, di cui egli è il rappresentante; cioè, che sarà ricevuto con acclamazione e consenso unanime. 2°. Produrrà una grande agitazione, perché quest’opera di Dio non sarà compiuta senza grandi difficoltà e resistenze; sarà persino cosparsa del sangue dei martiri, perché il mondo, la carne e il diavolo hanno sempre resistito e sempre resisteranno alle opere di Dio. (Prov. XXI, 30): « Non c’è sapienza, non c’è prudenza, non c’è consiglio contro il Signore. » Questa tempesta sarà prima sollevata dalle potenze secolari che resisteranno al grande Monarca con le armi, e perseguiteranno coloro che si impegnano a convertire i popoli alla fede cattolica che il Monarca ordinerà di predicare per terra e per mare, etc. Ecco perché è stato detto sopra che dopo questo Angelo, che stava sulla terra e sul mare, sette tuoni emisero le loro voci. Vedi quello che è stato detto sopra, al versetto 4. – 2°. L’esecuzione di questo Concilio incontrerà anche grandi difficoltà da parte dei sacerdoti malvagi, quando le Veneri dovranno scomparire del tutto, così come gli idoli d’oro e d’argento e la vita oziosa. E tutte queste difficoltà sono espresse in queste parole: Ma dopo averlo divorato, divenne amaro nelle mie viscere. – Come abbiamo detto, San Giovanni rappresenta qui la persona di tutta la Chiesa che dovrà subire amarezze, tribolazioni e molte difficoltà nell’attuazione di questo Concilio; ma questi mali non prevarranno, e i nemici della Chiesa non potranno impedire il compimento della grande opera di Dio. – 3°. Per consolare e rassicurare la Chiesa, l’inviato celeste aggiunge immediatamente il terzo effetto di questo libro, che sarà la predicazione del Vangelo e della fede cattolica a nazioni, popoli, uomini di varie lingue e a molti re, cioè a quei paesi che erano stati separati dal seno della loro Madre, la Chiesa romana, dal maomettanesimo, dallo scisma, dal protestantesimo o da qualsiasi altra setta. Questo è espresso nelle seguenti parole: Ed egli mi disse: Tu devi profetizzare di nuovo ai Gentili, ai popoli, agli uomini di diverse lingue e a molti re. Queste parole sono rivolte alla Chiesa che San Giovanni rappresenta; e la Chiesa predicherà con la voce di coloro che invierà ai popoli che avevano già conosciuto la luce della fede cattolica, ma che fecero defezione. Infatti, questo è ciò che è indicato dalle parole: È necessario che tu profetizzi di nuovo, affinché alla fine dei tempi la fede cattolica sia predicata di nuovo alle nazioni, ai popoli, agli uomini di varie lingue e a molti re, che abbandonarono la Chiesa, etc. Questo è infatti ciò che accadrà nella sesta epoca, che sarà un’epoca di consolazione, e che durerà fino alla settima ed ultima, che sarà l’età della consumazione.

§ II.

L‘estensione e l’esaltazione della Chiesa

CAPITOLO XI. VERSETTI 1-2

Et datus est mihi calamus similis virgæ, et dictum est mihi: Surge, et metire templum Dei, et altare, et adorantes in eo: atrium autem, quod est foris templum, ejice foras, et ne metiaris illud: quoniam datum est gentibus, et civitatem sanctam calcabunt mensibus quadraginta duobus.

[E mi fu data una canna simile ad una verga, e mi fu detto: Sorgi, e misura il tempio di Dio, e l’altare, e quelli che in esso adorano. Ma l’atrio, che è fuori del tempio, lascialo da parte, e non misurarlo: poiché è stato dato alle genti, e calpesteranno la città santa per quarantadue mesi.]

Vers. 1. – E mi fu data una verga simile a un metro e mi fu detto: “Alzati e misura il tempio di Dio, l’altare e coloro che lo adorano”.

I. Queste parole esprimono il quarto effetto del libro annunciato sopra, ed il suo scopo sarà la predicazione del Vangelo con l’aiuto della misericordia divina; vale a dire, la conversione di quasi tutto il mondo all’unica, vera, apostolica e santa fede cattolica; poiché la Chiesa latina si diffonderà in lungo e in largo, per terra e per mare, e sarà confortata e glorificata. Si ordina a San Giovanni di misurarla per significare la sua immensa estensione e la moltitudine di popoli che verranno anche da lontano e accorreranno ad essa dalle estremità della terra. Così è scritto in Genesi, XV, 5: « Il Signore fece uscire Abramo dalla sua tenda e gli disse: Guarda in cielo e conta le stelle, se puoi; così sarà la tua discendenza. » Ora, è nello stesso modo che San Giovanni ci dice qui: 1°. E mi fu dato una canna come un bastone di misura. L’asta di misura viene utilizzata per misurare edifici, campi e altre cose in lunghezza, larghezza e profondità, in una parola, per superfici e volumi. È nello stesso senso che i Vescovi usano il bastone del loro pastorale per misurare il pavimento e le pareti dei templi e delle chiese, nella cerimonia sacre. Ed è questo stesso bastone, simile ad un bastone di misura, che fu dato in spirito a San Giovanni, per significare con la metafora che immediatamente prima degli ultimi tempi, la Chiesa sarà immensa, e che sarà nuovamente edificata e consacrata al suo Sposo Gesù-Cristo. 2°. E mi fu detto: Alzati. Queste parole significano anche che il tempio del Signore sarà ampliato immensamente e che la casa di Dio sarà costruita nelle quattro parti del mondo. Alzati, cioè lascia il tuo posto, il tuo paese, e vai in tutti gli angoli del mondo a misurare questo tempio. A San Giovanni è comandato di fare uso di questo modo di parlare e scrivere per la consolazione della Chiesa, come è anche riportato in Genesi, XIII, 14: « Il Signore disse ad Abramo: Alza gli occhi e guarda dal luogo dove sei ora verso l’Aquilone ed il Mezzogiorno, verso l’Oriente e l’Occidente. Tutta la terra che vedi la darò a te e ai tuoi discendenti per sempre. Io moltiplicherò i tuoi discendenti come la polvere della terra; se uno tra gli uomini può contare la polvere della terra, allora potrà contare la tua posterità Alzati e percorri la terra in tutta la sua lunghezza e in tutta la sua larghezza, perché io te la darò ». Sappiamo che questo seme di Abramo doveva essere esteso secondo la fede, e questo seme è davvero innumerevole, poiché contiene tutti i figli della fede dal tempo di Abramo fino all’ultimo giorno del mondo. 3º Misura il tempio di Dio, l’altare e coloro che adorano. Con il tempio, che a San Giovanni è stato comandato di misurare qui, comprendiamo l’immensa estensione della nuova Chiesa che si unirà alla Chiesa latina attraverso la conversione delle nazioni in America, Africa, Asia ed Europa, e di cui abbiamo visto un così felice inizio nella quinta età, in Cina, India, Giappone ed altri paesi. (dal 1846 al 1878, furono erette da Papa Pio IX, 206 nuove Diocesi e vicariati apostolici in tutto il mondo, in Africa, Asia, Americhe ed Oceania – ndr. -) L’altare significa metafisicamente l’onore e l’esaltazione del Santo Sacrificio della Messa, che sarà celebrato su tutta la superficie della terra; e il Nome di Nostro Signore Gesù Cristo sarà ugualmente glorificato dagli uomini sull’altare con grande fede. E quelli che adorano: queste parole indicano prima di tutto i sacerdoti; il testo latino dice: in eo: all’altare; infatti, i sacerdoti saranno sparsi in grande moltitudine su tutta la terra; e con il Sacrificio continuo adoreranno Dio Padre ed il suo Figlio Gesù, in unione con lo Spirito Santo. E quelli che adorano. Queste parole significano anche i Cristiani che avranno uno zelo molto grande per assistere a questo augusto Sacrificio, e per frequentare la sacra Mensa. Gesù Cristo parla di questa sesta età della Chiesa in San Matteo XXIV, 14, e la indica come un segno che precederà l’ultima desolazione e il giorno della sua seconda venuta. « Questo vangelo del regno sarà predicato in tutto il mondo come una testimonianza a tutte le nazioni, e poi verrà la fine. » Allo stesso modo in San Giovanni, X, 16: « E ho altre pecore, che non sono di questo ovile; Io devo portare anche loro, ed esse ascolteranno la mia voce, e ci sarà un solo ovile e un solo pastore. » Allo stesso modo ancora in Isaia II, 2: « Ecco, negli ultimi giorni il monte dove abita il Signore sarà innalzato sopra i colli, sulla cima dei monti; e tutte le nazioni verranno ad esso in moltitudine. » Infine, nel Profeta Michea, IV, 12, etc..

§III.

La terra che è riservata ai gentili e all‘Anticristo, e che non farà mai parte della Chiesa del Cristo.

CAPITOLO XI. VERSETTI 2-3.

Atrium autem, quod est foris templum, ejice foras, et ne metiaris illud: quoniam datum est gentibus, et civitatem sanctam calcabunt mensibus quadraginta duobus: et dabo duobus testibus meis, et prophetabunt diebus mille ducentis sexaginta, amicti saccis.

[Ma l’atrio, che è fuori dal tempio, lascialo da parte, e non misurarlo: poiché è stato dato alle genti, e calpesteranno la città santa per quarantadue mesi: ma darò ai due miei testimoni che per milleduecento sessanta giorni profetino vestiti di sacco.]

I. Vers. 2. — Ma lascia il cortile fuori dal tempio e non misurarlo, perché è stato abbandonato ai Gentili. In queste parole, Gesù Cristo istruisce la sua Chiesa attraverso San Giovanni, del sorprendente segreto e del permesso di Dio riguardo al regno di Maometto e dell’Anticristo, di cui questi era il precursore e il tipo. Perché è dalla mescolanza di queste due razze, gli ebrei e i gentili, che nascerà il figlio della perdizione l’anticristo, che regnerà su di loro. Così l’impero dei turchi non sarà interamente distrutto, ma rimarrà un regno di una certa estensione, composto da queste razze. Gesù Cristo parla espressamente di questo regno, in San Matteo, XCXIV, 15: « Quando dunque vedrete nel luogo santo l’abominio della desolazione, etc., » e in San Marco, XIII, 14: « Quando vedrete l’abominio della desolazione dove non dovrebbe essere, etc., » È dunque per far sì che tutte le profezie si compiano, che Dio, nei suoi consigli segreti, permetterà a questi Gentili di occupare la Palestina, la Terra Santa e gli altri regni che Giuda e Israele hanno abitato in precedenza, e che possiederanno fino a quando ogni prevaricazione sia compiuta. Abbiamo una prova palpabile di questo mistero della Sua volontà, nel fatto che Egli non permetta che questa generazione di Turchi e di Giudei scompaia completamente e perisca, fino a quando non abbia prodotto il figlio dell’iniquità. – Quanti imperatori, re e principi hanno fatto ogni sforzo per riconquistare la Terra Santa, sempre senza successo, o almeno senza ottenere altro risultato che vittorie premature, i cui frutti hanno presto perso? Che cosa orribile questa discordia permanente tra i principi cristiani su questa grande e interminabile questione! Così l’annientamento del potere e del regno dei Turchi fu sempre ostacolato dal nostro orgoglio e dalla nostra malvagità, finché noi stessi Cristiani riempimmo la misura dei nostri peccati, e il Signore alla fine si disgustò della Sua Chiesa, permettendo al figlio della perdizione di esaltare il suo orgoglio. Troviamo nel Vecchio Testamento un esempio di questo disgusto del Signore per la casa d’Israele, che era la figura del Cristianesimo nel Nuovo (IV, Reg. X, 32): « In quei giorni il Signore cominciò a essere stanco di Israele, etc. »  Perché i turchi sono e saranno per la Chiesa latina quello che Assur era per la sinagoga dei Giudei, ed egli ne era la figura. Quindi, per quanto grande sia l’estensione della Chiesa latina nella sesta epoca, la Palestina, la Terra Santa e gli altri regni orientali non apparterranno mai all’ovile di Gesù Cristo. Perché è in queste terre riservate ai Gentili, che nascerà e sorgerà il regno del figlio della perdizione, che tutti i Giudei riconosceranno come loro re, e si raduneranno dall’Oriente, dall’Occidente, dal Nord, dal Sud e dalle montagne deserte per unirsi a lui. È di questa circostanza che parla Gesù Cristo, quando dice: Jo. V, 43: « Io sono venuto nel Nome del Padre mio e voi non mi ricevete; se un altro viene nel suo proprio nome, lo riceverete ». Gesù Cristo parla anche della Terra Santa, e della desolazione dei Giudei e dei Gentili, in San Matteo, XXIII, 39: « Poiché vi dico che non mi vedrete più, finché non mi direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore. » Gesù Cristo dice ancora espressamente di Gerusalemme, (Luca, XXI, 24): « E Gerusalemme sarà calpestata dai Gentili, finché non sia compiuto il tempo dei Gentili. » Perciò il testo continua: Ma lasciate l’atrio che si trova all’esterno del tempio. Con l’atrio si intende la Palestina o la Terra Santa e Gerusalemme, così come la sinagoga dei Giudei; e con il tempio si intende la Chiesa delle Nazioni di Cristo. Perché: – 1° è sotto l’atrio dei palazzi dei re, che tutti i sudditi devono aspettare, finché non siano ammessi all’udienza del sovrano. – 2. Coloro che si trovano nell’atrio possono vedere solo la costruzione esterna dei palazzi, ma non possono penetrarne i segreti, né vederne le bellezze dell’interno finché non vi siano stati introdotti. – 3. L’atrio è sempre la parte meno spaziosa e meno ornata del palazzo. – 4. È negli atri che i servi del re aspettano i suoi ordini tremando, per servire il loro padrone secondo la sua volontà, ecc. Ora tale era, tale è e tale sarà la Palestina o la Terra Santa e la sinagoga dei Giudei in relazione alla Chiesa di Gesù Cristo. Perché nell’Antico Testamento tutti i Giudei aspettavano nell’atrio del tempio di Dio, che era il limbo, e nessuno poteva essere ammesso nel palazzo celeste alla presenza del Signore Dio Onnipotente, finché non si fosse compiuto il grande mistero: «… il Verbo si fece carne » e finché Gesù Cristo non fosse risuscitato dai morti per condurli nel suo palazzo reale ed eterno. 2°. Nell’Antico Testamento, i Giudei erano avvolti in una nube e potevano vedere i misteri di Dio solo da lontano, come in uno specchio e sotto immagini oscure, mentre noi Cristiani, essendo stati introdotti da Gesù Cristo stesso nel suo palazzo reale, che è la Chiesa, noi conosciamo, vediamo e ascoltiamo distintamente questi misteri per mezzo della parola di vita, come si vede nella prima Epistola di San Giovanni, (I, 1). Inoltre, per quanto un atrio sia imperfetto, stretto e rozzamente costruito in confronto al palazzo reale di cui forma l’ingresso, tanto più la sinagoga dei Giudei era imperfetta, stretta e grossolanamente costruita, in confronto alla Chiesa di Cristo, nella quale sono state e saranno ammesse tutte le nazioni della terra. 3°. La sinagoga e i suoi figli erano accolti solo a titolo di servi, mentre la Chiesa, nostra madre, ha deposto ogni timore servile e lo ha scambiato con l’amore, e i suoi figli non sono più servi, ma cittadini della città santa e persino figli di Dio (Eph. II:19, Galati IV e I. Jo. III). Così Gerusalemme e il paese che le era sottomesso, così come la sinagoga dei Giudei, non erano che gli atri del tempio della Chiesa Cattolica. Ecco perché è stato detto a San Giovanni: Ma lascia l’atrio che è fuori dal tempio. Il testo latino dice: (ejice foras) … buttalo fuori.  È un modo di dire con cui:  1° i re e i principi sono soliti confermare e sanzionare i decreti che hanno fatto ab irato, o per una cosa di grande importanza, quando vogliono che siano irrevocabili. 2°. Si buttano via le cose inutili, rovinate e di cui non si sa più cosa farne. Ora, ecco come Gesù Cristo ordina a San Giovanni di rifiutare Gerusalemme, la Terra Santa e tutta la nazione Giudaica che era già stata respinta per un giusto giudizio di Dio. Con questo, Dio conferma la sua sentenza di riprovazione, in virtù della quale la nazione giudaica fu dispersa su tutta la terra, e Gerusalemme e tutta la Palestina furono consegnate al potere delle nazioni, senza mai potere appartenere alla Chiesa di Dio. Benché l’antica Gerusalemme fosse stata distrutta da cima a fondo, essa venne ricostruita nel punto in cui Gesù Cristo fu crocifisso, e la Religione cristiana vi fu piantata; ma essa non poté esservi sostenuta a causa delle frequenti invasioni dei Saraceni. Infine, Cosroe, dopo aver massacrato o condotto in cattività tutti i Cristiani che vivevano in questa città, se ne impadronì, e i suoi successori continuarono a governarla fino ad oggi, tranne un intervallo di pochi anni durante il quale Goffredo e suo fratello ne furono re. Tutte le spedizioni che furono fatte allora per riconquistare la Terra Santa, e che sono conosciute come crociate, per quanto grandi e potenti fossero, non ebbero successo e furono rese inutili da guerre, discordie e orgoglio dei Cristiani. Perciò è detto a San Giovanni: Ma lascia il cortile fuori dal tempio e non misurarlo, perché è stato abbandonato ai Gentili. Di nuovo, questo è un modo di parlare di un signore della guerra o di un principe che, disperando di poter mantenere una città sotto il suo dominio, sia a causa della vicinanza e potenza dei suoi nemici, o perché i suoi abitanti gli sono ostili, ordina che questa città non sia annoverata tra quelle del suo regno e che sia abbandonata alla mercé degli stranieri. Ora è così che San Giovanni, nel circoscrivere i limiti della Chiesa di Cristo, limiti che saranno estremamente estesi nella sesta epoca, è incaricato di informare espressamente la cristianità che Gerusalemme e la Giudea non sono da includere entro questi limiti. Egli ne dà immediatamente la seguente ragione: Poiché essi (l’atrio) è stato abbandonato ai gentili, cioè, a parte i pochi anni in cui Gerusalemme è appartenuta ai Cristiani sotto Goffredo e suo fratello, dei quali non vale la pena farne menzione, questa terra continuerà ad essere abbandonata alle nazioni fino a quando la prevaricazione sarà consumata. E calpesteranno la città santa per quarantadue mesi. Queste parole indicano il tempo in cui queste nazioni possederanno questo paese sotto l’impero e la setta di Maometto e dei Turchi, di cui parleremo in seguito. Tutto il tempo del loro regno sarà dunque di quarantadue mesi, cioè milleduecentosettantasette anni e mezzo. Ma non esisterà sempre con lo stesso potere, perché verso la fine sarà ridotto ad un piccolo regno, come abbiamo detto sopra. Inoltre, per sapere da quanti anni esista già, bisogna risalire alla sua origine, di cui parleremo altrove. E calpesteranno la città santa, etc. Per città santa intendiamo l’attuale città di Gerusalemme, che è chiamata santa a causa della santità del luogo in cui fu costruita e perché Gesù Cristo vi fu crocifisso. Per la città santa il Profeta intende tutta la Palestina, prendendo la parte per il tutto. Le nazioni la calpesteranno, cioè la domineranno. Perché ciò che viene calpestato è sotto il proprio potere, lo si governa e se ne fa quello che si vuole. Queste parole significano dunque l’impero delle Nazioni sulla città santa. Ora, perché San Giovanni nomina le Nazioni e non il loro capo? È perché nomina il corpo per la testa, poiché queste Nazioni professeranno sempre la setta di Maometto, che fu anche il fondatore del suo impero. Infatti, queste Nazioni non sono sempre esistite sotto questo stesso impero di Maometto per successione immediata, poiché questo regno subì dei cambiamenti e passò in altre mani; ma la setta rimase sempre, come vedremo più avanti. Ora, poiché il Profeta non descrive il capo di questa setta empia in persona, che era Maometto, tipo e precursore dell’Anticristo, ma descrive il tempo lungo il quale durerà l’impero di cui egli è fondatore, è con ragione che egli nomina le Nazioni che persevereranno costantemente nella sua setta, finché i quarantadue mesi e mezzo della sua durata siano completati. Vediamo quindi, da quanto appena detto, perché le armate dei crociati, a volte così numerosi e così forti, e perché così tante spedizioni belliche intraprese in vari momenti con uno scopo santo contro i Saraceni e i Turchi, ebbero un risultato così infausto. Infatti, a parte alcune delle cause principali che li fecero fallire, come la gelosia dei Greci, i peccati e gli scandali dei crociati, e altri vari ostacoli e calamità, non ci rimane che la volontà divina, che volle che le profezie sui regni, i tempi e le prevaricazioni si compissero. Questo, tuttavia, non impedisce a quei santi guerrieri che, essendo nella pace del Signore, siano caduti sotto il ferro del nemico, e in generale a tutti coloro che presero parte a quelle gloriose spedizioni, di essere ricompensati per i loro generosi sacrifici e le loro pie fatiche. Ed infatti non si può immaginare che queste imprese provengano da un’altra fonte che non sia l’ispirazione dello Spirito Santo con lo scopo di procurare ai soldati cristiani una morte gloriosa e meritoria versando il loro sangue per il nome di Gesù, come anche per spezzare la forza del nemico, per tenerlo nella paura e per impedirgli di andare oltre i suoi limiti nello sterminare i Cristiani.

SEZIONE II

SUL CAPITOLO XI

LA PERSECUZIONE DELL’ANTICRISTO E LA SETTIMA
ED ULTIMA TROMBA


§ 1.


Del tempo della persecuzione dell’Anticristo.

CAPITOLO XI. VERSETTTI 3-13.

Et dabo duobus testibus meis, et prophetabunt diebus mille ducentis sexaginta, amicti saccis. Hi sunt duæ olivæ et duo candelabra in conspectu Domini terræ stantes. Et si quis voluerit eos nocere, ignis exiet de ore eorum, et devorabit inimicos eorum: et si quis voluerit eos lædere, sic oportet eum occidi. Hi habent potestatem claudendi cælum, ne pluat diebus prophetiæ ipsorum: et potestatem habent super aquas convertendi eas in sanguinem, et percutere terram omni plaga quotiescumque voluerint. Et cum finierint testimonium suum, bestia, quæ ascendit de abysso, faciet adversum eos bellum, et vincet illos, et occidet eos. Et corpora eorum jacebunt in plateis civitatis magnæ, quæ vocatur spiritualiter Sodoma, et Ægyptus, ubi et Dominus eorum crucifixus est. Et videbunt de tribubus, et populis, et linguis, et gentibus corpora eorum per tres dies et dimidium: et corpora eorum non sinent poni in monumentis: et inhabitantes terram gaudebunt super illos, et jucundabuntur: et munera mittent invicem, quoniam hi duo prophetae cruciaverunt eos, qui habitabant super terram. Et post dies tres et dimidium, spiritus vitæ a Deo intravit in eos. Et steterunt super pedes suos, et timor magnus cecidit super eos qui viderunt eos. Et audierunt vocem magnam de cælo, dicentem eis: Ascendite huc. Et ascenderunt in cælum in nube: et viderunt illos inimici eorum. Et in illa hora factus est terræmotus magnus, et decima pars civitatis cecidit: et occisa sunt in terræmotu nomina hominum septem millia: et reliqui in timorem sunt missi, et dederunt gloriam Deo cæli.

[… Ma darò ai due miei testimoni che per mille duecento sessanta giorni profetino vestiti di sacco. Questi sono i due ulivi e i due candelieri posti davanti al Signore della terra. E se alcuno vorrà offenderli, uscirà fuoco dalla loro bocca, e divorerà i loro nemici; e se alcuno vorrà loro far male fa d’uopo che in tal guisa sia ucciso. Questi hanno potestà di chiudere il cielo, sicché non piova nel tempo del loro profetare: e hanno potestà sopra le acque per cangiarle in sangue, e di percuotere la terra con qualunque piaga ogni volta che vorranno. Finito poi che abbiano di rendere testimonianza, la bestia, che viene su dall’abisso, loro muoverà guerra, e li supererà, e li ucciderà. E i loro corpi giaceranno nella piazza della grande città, che spiritualmente si chiama Sodoma ed Egitto, dove anche il lor Signore è stato crocifisso. E gente d’ogni tribù, popolo, lingua, e nazione, vedranno i loro corpi per tre giorni e mezzo: e non permetteranno che i loro corpi siano seppelliti. E gli abitanti della terra godranno, e si rallegreranno sopra di essi: e si manderanno vicendevolmente dei presenti, perché questi due profeti hanno dato tormento agli abitatori della terra. Ma dopo tre giorni e mezzo lo spirito di vita che viene da Dio entrò in essi. E si alzarono in piedi, e un grande timore cadde sopra coloro che li videro. E udirono una gran voce dal cielo che disse loro: Salite quassù. E salirono in una nuvola al cielo: e i loro nemici li videro. E in quel punto avvenne un gran terremoto, e cadde la decima parte della città: e nel terremoto furono uccisi sette mila uomini: e il restante furono spaventati, e diedero gloria al Dio del cielo.]

I. Vers. 3. – E io darò il mio spirito ai miei due testimoni; ed essi, rivestiti di sacco, profetizzeranno mille duecento sessanta giorni. In questo testo, San Giovanni descrive il regno o piuttosto la tirannia dell’anticristo e la desolazione finale che viene dall’impero di Maometto e termina con quello dell’anticristo; cioè, che la figura diventa realtà, e che il regno del precursore diventa il consumatore di tutta l’iniquità. E questo nuovo impero nascerà, si formerà e trarrà il suo potere dal primo. È da questa vicinanza e affinità tra i due imperi che Dio stabilisce anche una vicinanza ed un’affinità di tempo, in modo che il secondo regno durerà tanti giorni quanto il primo sarà durato di anni. Questo è il motivo per cui San Giovanni esprime con verità la durata di entrambi i regni con quarantadue mesi, che, se ridotti a giorni profetici, fanno un periodo di milleduecentosettantasette anni e mezzo, che sarà la durata del regno di Maometto; ma se contiamo questi quarantadue mesi nel loro senso naturale, che è quello vero, e che è canonicamente riconosciuto nel secondo caso, ne segue che il tempo della persecuzione dell’Anticristo sarà di milleduecentosettantasette giorni e mezzo. È in quest’ultimo giorno che l’Anticristo, volendo ascendere al cielo, sarà gettato nell’inferno, come vedremo più avanti. La sua persecuzione sarà la più pericolosa e la più grande che abbia mai avuto luogo, come Gesù Cristo stesso predice chiaramente in San Matteo, (XXIV, 2): « La tribolazione allora sarà grande, come non c’è stata dal principio del mondo fino ad ora, né mai più ci sarà. »– Tuttavia, la bontà divina invierà molti robusti atleti della fede di Cristo, tra i quali si distingueranno soprattutto Enoch ed Elia, che predicheranno e faranno grandi prodigi nel Nome di Gesù, contro le imposture ed i falsi miracoli dell’anticristo; e quando avranno compiuto la loro missione e data la loro testimonianza, costui li metterà a morte. Perciò il testo continua: E darò il mio spirito ai miei due testimoni. Questi due testimoni saranno Enoch ed Elia; il primo ha vissuto sotto la legge naturale, il secondo sotto la legge di Mosè. Essi ritorneranno alla fine del mondo e testimonieranno Gesù Cristo di Nazareth con dei miracoli sorprendenti e con la loro potente predicazione contro l’anticristo e i suoi adepti. Essi persuaderanno le Nazioni e anche i Giudei che Gesù di Nazareth è veramente il Messia, il Figlio del Dio vivente, che è già venuto in questo mondo come Redentore, e che è stato veramente crocifisso in Gerusalemme dai sommi sacerdoti; che Egli è morto per la salvezza del mondo intero, che il terzo giorno è risorto dai morti, è salito al cielo ed è seduto alla destra di Dio, da dove verrà nell’ultimo giorno per giudicare i vivi e i morti. Così vediamo che, come San Giovanni Battista fu il precursore di Cristo, al suo primo avvento, così lo saranno Enoch ed Elia alla sua seconda apparizione. E come gli Apostoli gli resero testimonianza fino ai confini della terra che Egli è il Cristo, (Atti I: 8), così lo faranno Enoch ed Elia negli ultimi giorni del mondo. La loro testimonianza, dunque, sarà espressa dalle loro bocche, e sarà confermata dai loro prodigi che Gesù è il Cristo, e questo è ciò che il figlio della perdizione negherà formalmente. (I. Jo., II, 22): « Chi è mendace se non colui che nega che Gesù è il Cristo. È un anticristo colui che nega il Padre e il Figlio. » (Ibidem, IV, 1, 2, 3). E io darò, etc. Questo verbo è usato qui al futuro attivo, mentre nel latino più sopra è usato al passato passivo, per significare che Dio permette solo i mali, e che Egli è il rimuneratore e distributore di beni. E come ha sempre dato alla Chiesa e al suo popolo consolazioni e aiuti in proporzione alle necessità e alle tribolazioni che essi dovevano sopportare, così continuerà a farlo, specialmente nell’ultima e più pericolosa persecuzione. Egli darà dunque a questi due testimoni, scelti per questa occasione, una grande saggezza e una potente virtù contro l’Anticristo e contro i falsi profeti e i falsi Cristiani. E, rivestiti di cilicio, profetizzeranno per milleduecentosessanta giorni. Con queste parole, San Giovanni indica il tempo, l’ufficio e l’abito di questi due testimoni di Cristo Figlio di Dio. Questo tempo della loro predicazione sarà dunque di milleduecentosessanta giorni presi dai quarantadue mesi della tirannia dell’Anticristo e dei suoi adepti. L’ufficio di questi santi sarà la predicazione: essi profetizzeranno, cioè predicheranno alle Nazioni e ai Giudei la fine del mondo, il giudizio finale, la penitenza; e infine predicheranno che Gesù è il Cristo figlio di Dio, che verrà a giudicare i vivi e i morti. Questa è la loro destinazione e lo scopo al quale sono riservati, cioè per la conversione e la penitenza delle Nazioni e dei Giudei. Si parla di Enoch nell’Ecclesiastico, (XLIV, 16): « Enoch è piaciuto a Dio ed è stato trasportato in paradiso, per portare le nazioni alla penitenza. » E di Elia nello stesso Libro, (XLVIII, 9 e 10): « Tu (Elia) che sei stato portato in cielo in un turbine di fuoco e in un carro trainato da cavalli che lanciavano fiamme; tu che eri destinato, nei giorni del giudizio, ad addolcire l’ira del Signore, e scelto per riconciliare i cuori dei padri e dei figli, e per ristabilire le tribù di Giacobbe, etc. »

Vers. 4.Questi sono due ulivi e due candelabri in piedi alla presenza del Signore della terra. – Questi sono due ulivi e due candelabri. Queste parole devono essere prese sia in un senso passivo che in un senso attivo: passivo perché saranno unti con l’olio della santità, della carità e della sapienza celeste; attivo, perché verseranno l’olio della salvezza sulle ferite delle Nazioni e dei Giudei; ammorbidiranno i loro cuori, li illumineranno nella verità e nella fede in Gesù Cristo, e così metteranno fine alla dispersione di Israele. Perciò Gesù Cristo dice in San Matteo, (XVII, 11): « Verrà davvero Elia e restaurerà tutte le cose ». E in San Marco, (IX, 11): « È vero che prima di questo deve venire Elia e restaurare tutte le cose ». – Perciò il testo aggiunge che questi due ulivi e questi due candelabri sono in piedi alla presenza del Signore, cioè, essi sono riservati in vita, per volontà di Dio, per la penitenza e la conversione delle Nazioni e dei Giudei; per quelli tra le Nazioni ed i Giudei che esisteranno sulla terra negli ultimi giorni, ed aderiranno alla dottrina dell’anticristo. San Giovanni, rappresentando questi due Profeti sotto la figura di due candelabri, prende qui il contenitore per il contenuto. L’abito con cui i due Santi saranno vestiti durante la predicazione in tutto il mondo sarà lo stesso di quello indossato da San Giovanni Battista quando uscì dal deserto per predicare la penitenza, vale a dire il sacco e il cilicio, che sono gli unici indumenti adatti al degno svolgimento di questo ufficio. Questo dovrebbe far vergognare i predicatori e i pastori d’anime che, seguendo l’esempio dei mondani, osano adornarsi e mostrarsi nelle corti e nelle società del mondo con abiti lussuosi e con tutte le raffinatezze di una toilette effeminata!

II. Vers. 5. – Se qualcuno farà loro del male, il fuoco uscirà dalla loro bocca, etc. Queste e le seguenti parole esprimono la virtù e la potenza dei grandi miracoli e prodigi che questi due Santi saranno incaricati di operare negli ultimi giorni, per confondere l’impostura ed il potere dell’anticristo e dei falsi profeti. Poiché ciò che fu fatto in Egitto, ai tempi di Faraone, per mano di Mosè e Aronne, e ai tempi di Achab e Jezebel, per mano di Elia, sarà rinnovato negli ultimi giorni per la potenza di questi due Profeti. La loro prima e speciale virtù sarà quella di distruggere con il fuoco i nemici che l’anticristo e i suoi seguaci manderanno contro di loro per ucciderli; e questo prodigio sarà ripetuto frequentemente e pubblicamente durante la loro missione. Perciò è detto: Se qualcuno vuole far loro del male, cioè ucciderli e distruggerli, il fuoco uscirà dalla loro bocca, non realmente e in sostanza, ma con la loro voce imperativa. Perché con la parola di Dio comanderanno gli elementi, e i fulmini scenderanno dal cielo e divoreranno i loro nemici. Infatti, leggiamo nelle Scritture che questo prodigio si operò realmente alla parola di Elia, (IV. Reg . I. 9): « (Il re) mandò da lui (Elia) un capo di cinquanta soldati e i cinquanta soldati che comandava; salì da Elia, seduto sulla cima di un monte, e gli disse: Il re ti ordina di scendere, uomo di Dio. Ed Elia gli disse: Se io sono un uomo di Dio, scenda del fuoco dal cielo e divori te e i tuoi cinquanta uomini. Così il fuoco dal cielo scese e divorò lui e i cinquanta uomini che erano con lui. E Ocozia mandò un altro capitano di cinquanta uomini, che disse a Elia: O uomo di Dio, questo è ciò che dice il re: affrettati, vai giù. Ed Elia rispose: Se io sono un uomo di Dio, scenda del fuoco dal cielo e divori te e i tuoi cinquanta uomini. E subito scese il fuoco del cielo e divorò quell’uomo e i suoi cinquanta soldati. E Ocoziah mandò con lui un terzo capitano e i suoi cinquanta soldati. etc. » Inoltre, la virtù del potere di questi due Profeti sarà generale, vale a dire che faranno ricadere ogni tipo di male sulla testa di coloro che oseranno attaccarli ed i loro nemici cadranno nella loro stessa fossa che avranno scavato per loro per tendere loro trappole di qualsiasi tipo, sia di morte che di altri mali. Infatti, il testo aggiunge: E se qualcuno vorrà offenderli perirà allo stesso modo. Così Elia disperse tutti i profeti di Baal al torrente di Cison, quando Jezebel cercava di farlo morire con i suoi (III. Reg. XVIII). La terza virtù del loro potere si manifesterà in cielo, perché:

Vers. 6. – Hanno il potere di chiudere il cielo, per impedire che la pioggia cada mentre profetizzano. Questo accadde ai tempi di Achab, re d’Israele, per mano del profeta Elia, a causa dell’empietà e dell’idolatria in cui indulgevano quel re e il suo popolo, (III. Reg. XVII); poiché per tre anni non ci fu né rugiada né pioggia su quella terra, e il cielo era chiuso. – La quarta virtù del potere di questi Santi si manifesterà sulle acque, che essi cambieranno in sangue. Questo è ciò che Mosè e Aronne fecero quando colpirono le acque con il loro bastone. (Esodo, VII, 20). Perciò il testo dice: E hanno il potere di trasformare l’acqua in sangue. – La quinta virtù, la manifesteranno sulla terra colpendo essa e i suoi abitanti con ogni tipo di piaghe, secondo il testo: Hanno il potere ….. etc., di colpire la terra con ogni tipo di piaghe, tutte le volte che vorranno. Questo è ciò che fece Mosè, (Esodo, VIII, IX e X), quando mandò sul paese d’Egitto, rane, moscerini, mosche, locuste, grandine, fulmini, la peste sugli animali, le ulcere sugli uomini, le tenebre, la morte sui primogeniti e la espoliazione dell’oro e dell’argento. Con queste e molte altre piaghe, questi due Profeti colpiranno la terra verso la fine dei tempi, in presenza del figlio della perdizione, e in presenza delle Nazioni e del popolo d’Israele, come fecero Mosè e Aronne. E proprio come il faraone riuscì a imitare alcune di queste meraviglie con i suoi malefici, anche se in modo imperfetto, e resistette a questi due uomini di Dio e al suo popolo; così, negli ultimi giorni, l’anticristo godrà, per permesso di Dio, di un potere molto più grande per imitare Enoch ed Elia, ma non per eguagliarli in potenza nei grandi prodigi che essi opereranno per virtù di Dio, in cielo, sulla terra, sulle acque, sui frutti, sugli animali e sugli empi, che essi colpiranno con piaghe così crudeli che ne moriranno di dolore. Anche il figlio della perdizione, a sua volta, farà di queste cose, ma non potrà farle tutte, né così perfettamente, e le farà in uno spirito di iniquità e di menzogna, la virtù del diavolo, da cui sarà posseduto e che adorerà, etc.

Vers. 7. – E quando avranno finito la loro testimonianza, la bestia che sale dal pozzo senza fondo farà guerra con loro, li vincerà e li ucciderà. In queste parole e in quelle che seguono, San Giovanni descrive la guerra, la morte e la vittoria corporale in cui Dio concederà all’anticristo di trionfare su questi due Profeti, dopo la loro guerra e la loro vittoria spirituale contro di lui. L’anticristo è qui chiamato la bestia che sale dall’abisso. – E quando avranno finito la loro testimonianza, cioè quando sarà passato il tempo di milleduecentosessanta giorni, durante il quale predicheranno che Gesù di Nazareth è veramente il Messia, la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro. Con la bestia, San Giovanni designa l’anticristo, o il figlio della perdizione che apparirà nel mondo verso la fine dei tempi. 1°. È chiamato la bestia a causa della sua vita abominevole che trascorrerà nella lussuria e nella concupiscenza delle donne. 2°. A causa della sua crudeltà senza pari, con la quale, come il leopardo feroce, si accanirà contro i Cristiani. 3°. Una bestia feroce divora e fa a pezzi tutto ciò che incontra; e così l’Anticristo divorerà e mutilerà tutte le cose sante e sacre. Abolirà il Sacrificio continuo, calpesterà il Santo dei Santi, non temerà il Dio dei suoi padri, né si preoccuperà di alcun dio. (Dan. XI, 37). 4º Come il destino finale della bestia è di nascere e di vivere per essere uccisa o perire, così l’anticristo nascerà e sarà designato e scelto per non fare altro che il male, e per correre verso la sua rovina; ecco perché è chiamato il “figlio della perdizione”. La bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, e li vincerà e li ucciderà. 1°. Si dice che la bestia sorgerà dall’abisso, perché l’anticristo perverrà all’impero con le frodi più ingannevoli e le più occulte e con gli artifici più colpevoli; e con l’aiuto della potenza delle tenebre entrerà nel regno e si eleverà al di sopra di tutto, e poi perché possiederà i tesori d’oro, d’argento e di pietre le più preziose che siano nascoste negli abissi della terra e del mare; e questi tesori gli saranno rivelati e consegnati dal demone Moazim, che egli adorerà. (Dan, XI).  Infine, la parola abisso significa anche un’immensa quantità di acqua, il cui fondo è sconosciuto; e le acque, secondo l’Apocalisse, (XII), « sono i popoli, le nazioni e le lingue ». Ora, la quantità di queste acque che aderiranno alla dottrina dell’anticristo e lo riconosceranno, sarà quasi infinita. È da questo abisso che il figlio della perdizione sorgerà; ed è sulla sua immensa superficie, che sarà grande quanto il mondo, che si estenderà il suo impero. 2° La bestia che sorge dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. Dobbiamo notare qui che il verbo “sorgere” è al tempo presente, mentre i verbi “fare“, “vincere” e “uccidere” sono al tempo futuro. Questo per insegnarci che non è dal momento della sua ascensione al trono che l’anticristo sarà autorizzato a colpire i due Profeti, ma solo dopo che essi avranno reso e completato la loro testimonianza di Gesù Cristo, secondo l’espressione stessa di San Giovanni: Quando avranno finito la loro testimonianza, la bestia che sorge dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. 3º La guerra che l’Anticristo farà contro questi due Santi sarà di due tipi diversi: la guerra nei miracoli e la guerra nei tormenti. Infatti, la bestia cercherà di rivaleggiare con questi Santi profeti con prodigi stupefacenti ma falsi, che riuscirà a compiere con espedienti diabolici; e poiché non riuscirà a eguagliare in tutto e per tutto la loro virtù e il loro potere, che hanno da Dio stesso, la bestia vendicherà la sua sconfitta e la compenserà con tormenti ed atti tirannici contro la vita temporale di questi Profeti; con il permesso di Dio, li sconfiggerà e li ucciderà. Poi essa getterà il loro corpo e li esporrà sulle pubbliche piazze di Gerusalemme alla vista delle Nazioni e dei Giudei; e avrà cura di rendere pubblica la loro morte, in modo che tutti gli uomini, per quanto possibile, possano vedere e credere che essa ne è al di sopra di ogni virtù e potere. Ne consegue che:

Vers. 8. – E i loro corpi saranno deposti nei luoghi della grande città chiamata spiritualmente Sodoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso. Questa grande città è la Gerusalemme moderna. È chiamata la grande città a causa della sua grande popolazione e dell’immensa fama che avrà soprattutto allora. Sarà grande per le sue ricchezze, per i suoi tesori, per i popoli, le nazioni e le persone di lingue diverse che la abiteranno e vi giungeranno da ogni parte; perché in quel tempo Gerusalemme diventerà molto potente e famosa. Nelle piazze di quella città giacciono realmente i corpi dei due profeti Enoch ed Elia insieme a quelli di molti altri Santi martiri che furono costanti, fermi ed incrollabili nella confessione del santo Nome di Gesù, e che resistettero fino alla morte al figlio della perdizione. Tra loro ci saranno soprattutto i sacerdoti e i dottori della Chiesa di cui parla Daniele, (XI, 33): « Ed i saggi del popolo ne istruiranno molti, e cadranno sotto la spada, e nella fiamma, e in cattività, e nella rovina di quei tempi. » Questa persecuzione non avrà luogo solo a Gerusalemme, ma imperverserà in una maniera orribile e spaventosa su tutta la superficie della terra, e supererà di gran lunga tutte quelle precedenti, come annuncia Gesù Cristo in San Matteo, (XXIV, 21): « Grande sarà allora la tribolazione, come non c’è mai stata dal principio del mondo fino ad oggi, né ci sarà mai ». Questa città è chiamata spiritualmente, cioè allegoricamente, Sodoma, a causa della somiglianza che Gerusalemme avrà allora con Sodoma per i vizi consumati di ogni genere che vi saranno commessi, così come per tutta la terra. Perché in quel tempo il timore di Dio sarà sparito, e gli uomini si abbandoneranno al peccato con sicurezza, e come sarà il capo, tale sarà il popolo. Gli empi di questi ultimi tempi riprodurranno il riassunto e il culmine di tutte le scene di empietà che il mondo ha prodotto dalla sua origine. Inoltre, questa città è chiamata Egitto, perché Gerusalemme e il suo re faranno contro Gesù Cristo, ai giorni di Enoch e di Elia, quello che l’Egitto e il suo re Faraone fecero ai giorni di Mosè e di Aronne contro Dio. E come allora si lottava di miracolo in miracolo, di prodigio in prodigio, così accadrà alla fine dei tempi. Proprio come Faraone fece tutto i suoi sforzi per impedire ai figli d’Israele di entrare nella terra promessa, così l’anticristo userà tutto il suo potere per impedire ai Cristiani di entrare nel soggiorno promesso, che è la vita eterna. Tutte queste parole sono dette per allegoria, perché le scene dell’Antico Testamento erano la figura dei segreti e dei misteri del Nuovo. – Infine, per chiarire che questa città non sarà altro che Gerusalemme, il testo aggiunge: Dove anche il loro Signore fu crocifisso. Queste parole si applicano letteralmente alla morte di Gesù Cristo, che è il Signore di tutte le cose. E proprio come alla morte di Cristo i Giudei e i Gentili si rallegrarono ed il popolo osò bestemmiare, dicendo: (Matth. XXVII, 40): « Tu che distruggi il tempio di Dio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso. Se sei il Figlio di Dio, discendi dalla croce », così, alla morte di Enoch ed Elia, gli empi si rallegreranno e batteranno le mani in segno di applauso sulla loro morte e su quella dei giusti; e glorificheranno il figlio della perdizione, il loro falso messia. Lo esalteranno sopra ogni cosa e lo considereranno come Dio. La sua potenza sembrerà loro superiore ad ogni potere, perché ha vinto ed ucciso quei due Profeti che prima erano così potenti in parole e opere. Ecco perché li giudicheranno come dei maghi e dei falsi profeti, li volgeranno in derisione, e copriranno i loro corpi di sputi, e li tratteranno con ignominia.

Vers. 9. – 5°. E le tribù, i popoli, le lingue e le nazioni vedranno i loro corpi distesi per tre giorni e mezzo. Il giorno è preso qui per una settimana, che è il tempo stabilito per i lavori dell’uomo, come se la settimana non formasse che un giorno. Così i corpi dei due Profeti rimarranno esposti allo scherno degli empi, che ne faranno un trastullo per tre settimane e mezzo, e l’Anticristo godrà dei frutti della sua vittoria e del suo trionfo in mezzo alle scene le più orribili. Non sarà permesso seppellire questi corpi siccome serviranno da testimoni alle Nazioni riunite della grandezza, della potenza e persino della divinità del falso messia che li avrà sconfitti e uccisi. Ecco perché il testo aggiunge: E non permetteranno che siano messi nella tomba. Allora il figlio della perdizione si vedrà così glorificato da questa vittoria, e ne sarà così inebriato che, nella foga del suo entusiasmo, andrà a stare sulla cima del Monte degli Ulivi, per esservi adorato in pubblico come se fosse Dio. E per meglio manifestare la gloria della sua divinità, si metterà in condizione di celebrare la sua ascensione al cielo. A questa circostanza si riferiscono le parole del profeta Daniele, (XI, 45): « Egli si accamperà in Apadno, in mezzo ai mari (nazioni e popoli), sul famoso e santo monte; e arriverà alla sua cima, e nessuno lo aiuterà. »

Vers. 10. – E gli abitanti della terra si rallegreranno della loro morte; la festeggeranno e si scambieranno regali gli uni agli altri. Queste parole mostrano l’ebbrezza della gioia fino alla frenesia, che gli empi mostreranno durante questi ventiquattro giorni o tre settimane e mezzo che durerà il loro trionfo. E nella loro cecità esalteranno e glorificheranno l’anticristo; e come questi avrà avuto cura di rendere pubblica la sua vittoria su questi due così celebri Profeti, la massa degli uomini che coprono la faccia della terra si agiterà come le onde del mare; e le tribù, le nazioni e gli uomini di varie lingue accorreranno in quei giorni a Gerusalemme, per vedere questi cadaveri così rinomati, e contemplare il loro re divinizzato in tutta la gloria della sua maestà. Allora gli uomini danzeranno per la gioia sulla morte dei due Profeti e di altri uomini giusti che saranno stati martirizzati per il santo Nome di Gesù, come Erodiade danzò e si rallegrò sulla decapitazione di San Giovanni Battista. Essi erigeranno trofei e magnifiche statue all’Anticristo su tutta la terra, e bruceranno incenso sui suoi altari e lo adoreranno come loro dio e loro messia. Tutti gli uomini che crederanno in lui saranno invitati a festini, banchetti, danze, feste nuziali e voluttà di ogni tipo. Essi cercheranno di soddisfare tutti i desideri della carne, perché penseranno di aver raggiunto la pienezza del riposo, poiché la loro pace non sarà più disturbata dai due predicatori di penitenza. Saranno così storditi dalla felicità e dai baccanali di questi ventiquattro giorni di follie mondane, che non sospetteranno affatto gli ultimi e orribili mali che li sorprenderanno come un ladro. E si scambieranno regali gli uni agli altri, di villaggio in villaggio, di città in città, di paese in paese. Infatti, dopo la morte dei due Profeti, sarà dato potere alla bestia su tutti gli uomini potenti in opere e parole; e tutti questi saranno messi a morte in tutti le contrade della terra, o saranno costretti a fuggire nelle montagne e in luoghi deserti, per nascondersi negli antri delle rocce e nelle caverne oscure. Poiché nessuno oserà dichiararsi Cristiano in pubblico. – Dal canto loro, gli empi si rallegreranno, saranno nella gioia, nei festini e nei piaceri, ed il loro trionfo sarà completo sulla terra. Il Dio del cielo non darà più segni né in cielo né in terra né nelle acque dopo questi due Profeti, che insegnavano in precedenza la vera dottrina a molti, mantenendoli nella fede con i più grandi prodigi. Così che negli ultimi giorni, veramente tutti gli uomini adoreranno la bestia, e anche i Cristiani, tranne gli eletti, vedendo la morte ignominiosa dei loro Profeti, la pace dei malvagi, la vittoria dell’anticristo, il silenzio e l’apparente abbandono di Dio, ne prenderanno scandalo e faranno defezione. Essi bruceranno anche il loro incenso davanti all’altare della bestia, e dopo aver accettato il suo carattere nelle loro mani o alla fronte, come spiegheremo più tardi, adoreranno la sua immagine. San Giovanni ci indica ora la causa di questa folle gioia: perché questi due profeti tormentavano coloro che abitavano la terra, cioè: con i loro prodigi e i grandi miracoli che opereranno in cielo e in terra e nelle acque, per testimoniare a Gesù che egli è il Cristo, e colpendo la terra e i suoi abitanti con ogni sorta di piaga e flagello temporale, per costringerli a ricorrere alla penitenza e a salvare le loro anime. Ora, questi empi, ostinati nei loro peccati, ne saranno sovranamente contrariati, molto infastiditi da questo, e si rallegreranno di essere finalmente liberati dai loro mali fisici, perché questi due profeti tormenteranno coloro che abitavano la terra.

Vers. 11. – Ma dopo tre giorni e mezzo lo spirito di vita entrò in loro da parte di Dio. Queste parole e le seguenti ci indicano tutto ad un colpo il cambiamento nella mano destra dell’Onnipotente, che non permette agli empi di trionfare a lungo sui giusti. Ma dopo tre giorni e la metà di un giorno, cioè dopo questi tre giorni e mezzo, lo spirito di vita entrò in loro da Dio, che per la sua infinita potenza farà risuscitare questi due Profeti dai morti. Ed essi si alzarono in piedi; e grande paura venne su coloro che li videro. In effetti, il cambiamento improvviso e inaspettato di questa scena imponente sarà terribile per gli empi! Questa solenne trasformazione dello stato degli uomini sulla terra ci dà un’idea di quello che vedremo nell’altra vita. Agli occhi degli uomini, l’empio trionfa ed il giusto è oppresso; ma davanti a Dio, questi gemiti del giusto saranno trasformati in gloria e consolazione eterna, mentre il trionfo fugace ed effimero dell’empio sarà seguito da tormenti immensi nel loro rigore e interminabili nella loro durata. (Sap. V, 1): « Allora, i giusti insorgeranno con grande fermezza contro coloro che li avranno tormentati e avranno portato via i frutti dei loro lavori. I malvagi, a questa vista, saranno colti da confusione e da un terribile terrore; saranno stupiti quando vedranno improvvisamente, contro le loro aspettative, i giusti salvati. Diranno a se stessi, pentendosi e gemendo nei loro cuori: Questi sono quelli di cui ci prendevamo gioco e di cui portavamo come esempio di persone degne di ogni tipo di obbrobrio. Insensati che eravamo, la loro vita ci sembrava una follia e la loro morte una vergogna. Eppure eccoli qui elevati al rango di figli di Dio, e la loro porzione è con i Santi. »

III. Vers. 12. – E udirono una voce forte che diceva loro dal cielo: Salite qui. E salirono al cielo in una nuvola, alla vista dei loro nemici. Tutte le parole contenute in questo testo devono essere prese alla lettera, ed il loro significato è naturale e senza figura. Perché accadrà veramente che Dio, volendo dare pubblica e solenne testimonianza della verità della predicazione di questi due Profeti risorti dai morti, li farà salire in cielo in anima e corpo alla presenza di tutti i popoli, tribù e lingue, che saranno venuti da tutte le estremità della terra e si saranno portati, come un flutto di popolazione, verso il re di Gerusalemme. Allora l’anticristo si sentirà turbato da un terrore glaciale, fremerà di rabbia, e nell’eccesso del suo orgoglio e della sua infernale presunzione, volendo dare un’ultima prova della sua falsa divinità, e volendo anche trattenere il popolo nell’abisso dell’errore, con l’aiuto del potere dei demoni, si alzerà dal Monte degli Ulivi in aria, con grande maestà, e cercherà di raggiungere Enoch ed Elia per precipitarli sulla terra Ma in questo momento solenne, la virtù dell’Onnipotente lo colpisce e lo precipita nella più grande ignominia e confusione! – Un orribile terremoto scuote tutto il paese, gran parte di Gerusalemme cade in rovina, i falsi profeti e la maggior parte dei loro adepti vengono uccisi, e il figlio della perdizione, cadendo nelle voragini della terra aperta, viene gettato vivo nell’inferno. È allora che i resti dei Giudei e delle Nazioni, vedendo con i propri occhi la potenza di Dio e l’inganno del falso messia loro re, si convertiranno al Signore e al suo Cristo, e, presi da una terribile paura, si batteranno il petto e pronunceranno queste parole che Gesù Cristo ha predetto su di loro: Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Ecco perché San Giovanni aggiunge:

Vers. 13. – E in quella stessa ora ci fu un grande terremoto, e la decima parte della città cadde, e settemila uomini morirono nel terremoto; e il resto ebbe paura e diede gloria a Dio.

II.

Dell’ultima tromba e dell’ultimo “guai”.

CAPITOLO XI. – VERSETTI 14-19.

Væ secundum abiit: et ecce vae tertium veniet cito. Et septimus angelus tuba cecinit: et factæ sunt voces magnae in caelo dicentes: Factum est regnum hujus mundi, Domini nostri et Christi ejus, et regnabit in sæcula sæculorum. Amen.  Et viginti quatuor seniores, qui in conspectu Dei sedent in sedibus suis, ceciderunt in facies suas, et adoraverunt Deum, dicentes: Gratias agimus tibi, Domine Deus omnipotens, qui es, et qui eras, et qui venturus es: quia accepisti virtutem tuam magnam, et regnasti. Et iratæ sunt gentes, et advenit ira tua et tempus mortuorum judicari, et reddere mercedem servis tuis prophetis, et sanctis, et timentibus nomen tuum pusillis et magnis, et exterminandi eos qui corruperunt terram. Et apertum est templum Dei in cœlo: et visa est arca testamenti ejus in templo ejus, et facta sunt fulgura, et voces, et terræmotus, et grando magna.

 [Il secondo guai è passato: ed ecco che tosto verrà il terzo guai. E il settimo Angelo diede fiato alla tromba: e si alzarono grandi voci nel cielo, che dicevano: Il regno di questo mondo è diventato del Signor nostro e del suo Cristo, e regnerà pei secoli dei secoli: così sia. E i ventiquattro seniori, i quali siedono sui loro troni nel cospetto di Dio, si prostrarono bocconi, e adorarono Dio, dicendo: rendiamo grazie a te, Signore Dio onnipotente, che sei, e che eri, e che sei per venire: perché hai fatto uso della tua grande potenza, e ti sei messo a regnare. E le genti si sono adirate, ed è venuta l’ira tua e il tempo di giudicare i morti, e di rendere la mercede ai profeti tuoi servi, e ai santi, e a coloro che temono il tuo nome, piccoli e grandi: e di sterminare coloro che mandano in perdizione la terra. E si aprì il tempio di Dio nel cielo: e apparve l’arca del suo testamento nel suo tempio, e avvennero folgori, e grida, e terremoti e molta grandine.]

I. Dopo la tribolazione di questi grandi giorni e la rovina dell’Anticristo, non ci saranno più anni, ma solo giorni, che saranno ancora dati agli uomini per fare penitenza. Ed è in questi ultimi giorni che avranno luogo i grandi segni e gli orribili presagi che precederanno la dissoluzione del cielo e della terra e il grande giorno del giudizio. Questi segni e presagi si manifesteranno nei quattro elementi: nel sole, nella luna, nelle stelle, nel mare e sulle colline. Questo è ciò che leggiamo in San Matteo, (XXIV, 29): « E subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà e la luna non darà la sua luce; le stelle cadranno dal cielo e i cieli saranno scossi. E allora apparirà il segno del Figlio dell’uomo, che viene sulle nuvole del cielo con grande potere e maestà. Ed Egli manderà i suoi Angeli con una tromba e con un gran rumore, ed essi raccoglieranno i suoi eletti dai quattro venti, da un capo all’altro del cielo. » Leggiamo allo stesso modo in San Luca, (XXI, 25): « E ci saranno prodigi nel sole, nella luna e nelle stelle; e sulla terra lo sgomento dei popoli, a causa del fragore tumultuoso del mare e delle onde. E gli uomini avvizziranno di paura, aspettando quello che verrà su tutto l’universo; perché le virtù celesti saranno scosse, etc. » Così allora, dopo la caduta dell’anticristo, non ci saranno più mesi o anni, ma solo pochi giorni, pieni di ogni miseria, calamità ed orribili presagi. Perché allora tutta la stessa terra combatterà contro gli stolti che vivranno soprattutto in quei tempi.

Vers. 14. – Il  secondo “guai” è passato, e il terzo sta per venire. – (San Giovanni annuncia tre sventure per la Chiesa. Il primo è quando dice nel capitolo IX, 12: Il primo “guai” è passato, ed ecco altri due “guai” che vengono dopo. Ora egli annuncia che la prima sventura è passata, subito dopo aver descritto i mali causati alla Chiesa dall’eresia di Ario; e annuncia gli altri due “guai” che seguiranno, subito prima della descrizione dell’eresia di Lutero; infine, annuncia solo la fine del secondo “guai” dopo la caduta dell’anticristo, da cui possiamo concludere che San Giovanni vuole farci capire che l’eresia di Lutero, che riassume tutte le precedenti, deve anche essere considerata come l’inizio o il principio preparatorio che disporrà gradualmente gli uomini alla dottrina dell’anticristo. E la consolazione della sesta età può essere considerata come un ammorbidimento ed un riposo della Chiesa in mezzo al suo dolore, per farle recuperare le forze prima della terribile consumazione del secondo “guai”. Lutero preparò la strada all’anticristo, specialmente abolendo il Santo Sacrificio della Messa ed il celibato. Ma Dio, che deve sempre trionfare, e che sa trarre il bene dal male per la conservazione della sua Chiesa, le concederà la consolazione della sesta età, attraverso la conversione universale degli uomini, sia per ristorarla dalle sue passate fatiche e defezioni, sia per umiliare i suoi nemici, e per renderla più capace di sostenersi nell’ultima persecuzione. Anche se la fede deve diffondersi in tutta la terra nella sesta epoca, ci saranno sempre abbastanza uomini malvagi e perversi e dei libertini corrotti per sviluppare nuovamente il veleno del male contenuto nell’eresia del protestantesimo. Ed è così che verso la fine della sesta epoca, la fede comincerà a scomparire anche tra molti Cristiani. Senza questa e altre circostanze, la dottrina dell’anticristo non potrebbe penetrare ed estendersi sì lontano che quasi tutti gli uomini vi aderiranno. Il terzo “guai” è quello della consumazione dei tempi, una sventura così terribile per cui gli uomini moriranno di paura). – Questo terzo e ultimo “guai”, il più terribile di tutti, come l’ultima e definitiva tempesta, si riferisce alla consumazione dei secoli, alla dissoluzione del mondo e al giudizio universale. Inoltre, quest’ultimo Angelo che seguirà la tempesta non sarà come i precedenti, un angelo cattivo, ma piuttosto un Angelo buono. Questi sarà l’Arcangelo S. Michele, che come capo della Guerra, dopo aver terminato il combattimento, e riportato una vittoria definitiva ed eterna, chiamerà il suo popolo al Giudizio universale e alla risurrezione dei morti, affinché le opere e i pensieri segreti degli uomini siano resi manifesti alla luce del sole, ed così i soldati di Cristo, che hanno combattuto valorosamente, possano ricevere la loro ricompensa e la loro corona. I nemici di Dio e i soldati di lucifero, invece, saranno gettati nei tormenti dell’inferno. È la stessa cosa con la tromba di questo Angelo, di cui parla San Paolo nella sua Prima Lettera ai Corinzi, (c. XV), e la chiama anche l’ultima tromba. Egli dice inoltre (I. Thess, IV, 15): « Appena sarà dato il segnale dalla voce dell’Arcangelo e dalla tromba di Dio, il Signore stesso scenderà dal cielo, e quelli che sono morti in Gesù Cristo risorgeranno per primi, etc. » Vediamo lo stesso anche in San Matteo (XXIV, 31): « Egli manderà i suoi Angeli con una tromba e con un gran rumore, ed essi raccoglieranno i suoi eletti dai quattro venti, etc. » Così, al suono della tromba di questo settimo Angelo, l’epoca attuale finirà con le trombe, le guerre, i peccati e le calamità. Il sistema di questo mondo sarà dissolto, un nuovo cielo e una nuova terra saranno costituiti. Dio giudicherà il secolo con il fuoco che prova l’oro, e il mistero del regno di Dio sarà consumato, come ha predicato attraverso i Profeti suoi servi fin dall’inizio del mondo.

II. Vers. 15. – E il settimo angelo suonò; e il cielo risuonò di grandi voci, dicendo: Il regno di questo mondo è diventato il regno del Signore nostro e del suo Cristo, ed egli regnerà nei secoli dei secoli. Così sia. Queste e le seguenti parole descrivono la grande gioia che la Chiesa trionfante sperimenterà dopo la vittoria ottenuta sull’anticristo e sul mondo, perché finalmente sarà arrivato il grande giorno del Signore: un giorno in cui sarà fatta vendetta sui nemici della croce di Cristo, ed i giusti saranno ricompensati. E si udirono grandi voci nel cielo, che dicevano, etc. Cioè, nella Chiesa trionfante, ci saranno grandi acclamazioni al Signore Dio e al suo Cristo. Queste voci dal cielo saranno quelle dei Santi, cioè i loro desideri, le loro preghiere, le loro lodi e le loro azioni di grazie, che tutti i cori dei Santi martiri, dei vergini, degli Angeli e di tutti i Santi faranno intendere con acclamazione, dopo questa vittoria riportata sull’Anticristo, e dopo lo sterminio di tutti i suoi adepti sulla terra. E questi Santi diranno: Il regno di questo mondo è diventato il regno di Nostro Signore e del suo Cristo, ed Egli regnerà nei secoli dei secoli. Così sia. – Questa acclamazione si addice al Re dei re, che ha conquistato tutti gli altri, e che regna da solo, come Sovrano assoluto, senza alcuna opposizione, al quale tutti i sudditi sono perfettamente soggetti, e il cui regno è eterno. Perché satana non potrà più fare guerra a Lui né ai suoi amici, che lo serviranno nella gloria; mentre i suoi nemici gli saranno sottomessi nell’inferno e non potranno più uscirne. Di questo regno si parla nei Salmi di Davide, (Ps. CIX, 1): « Il Signore disse al mio Signore: siedi alla mia destra, finché non avrò fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi. » E in Daniele, (II, 44): « Al tempo di questi regni, il Dio del cielo susciterà un regno che non sarà mai distrutto, un regno che non passerà a nessun altro popolo, che rovescerà e ridurrà in polvere tutti questi regni e resterà in piedi per sempre. » Così è detto ancora in San Luca, (I, 33): « Il suo regno non avrà fine. »

Vers. 16. – E i ventiquattro vegliardi, seduti sui loro seggi davanti alla faccia di Dio, caddero faccia a terra e adorarono Dio, dicendo, etc. Con i ventiquattro vegliardi, San Giovanni designa l’universalità dei giudici che rappresenta già seduti sui loro seggi, per farci capire che il Giudizio universale è così vicino, che i giudici hanno già preso posto per giudicare tutti gli uomini. Questi ventiquattro vegliardi caddero faccia a terra ed adorarono Dio, dicendo, etc. Questi atti testimoniano la più perfetta sottomissione e adorazione che i Santi rendono al Signore Dio in cielo, in pace, in amore e verità: sono perfettamente sottomessi a Lui, riconoscendo, lodando, glorificando e adorando solo Lui, per la sua maggior gloria nei secoli dei secoli.

Vers.  17. Rendiamo grazie a te, o Signore Dio onnipotente, che sei, che eri e che vieni. Queste parole sono un atto della più giusta azione di grazie, con il quale i Santi attribuiscono a Dio Onnipotente, principio primo e fonte eterna di ogni bene, tutta la gloria e la felicità che godono in cielo. Perché in effetti, per tutto ciò che siamo e per tutto ciò che noi diventeremo è a Dio Padre che dobbiamo dare gloria, perché è da Lui, per primo, che abbiamo tutto ciò che possiamo possedere.

Vers. 18. – Poiché avete ricevuto la vostra grande potenza e il vostro regno, le nazioni si sono adirate, e il tempo della vostra ira è venuto, e il tempo di essere giudicati; e di dare la ricompensa ai profeti vostri servi, e ai Santi e a quelli che temono il vostro Nome, ai piccoli e ai grandi, e di sterminare coloro che hanno corrotto la terra. L’Apostolo specifica qui le cause di questa gioia luminosa e solenne dei Santi, la prima delle quali è: dai morti per causa vostra, è che avete ricevuto il vostro grande potere e che regnate. Questo è un modo di parlare degli uomini di cui si serve la Scrittura e serve anche per esprimere che Dio è immutabile, e che possiede in Lui tutto ciò che manifesta fuori da Lui; ed è in questo senso che ha ricevuto ed esercitato il suo grande potere contro gli empi, e che infine ha sottomesso e domato tutti i suoi nemici, per regnare da solo per tutta l’eternità. – Allo stesso modo si dice di un principe o di un guerriero: Il re gli diede una spada per combattere i suoi nemici, anche se la portava già. È nello stesso senso che si esprime il Salmista, Sal. XCII: « Il Signore ha regnato, si è rivestito di gloria e di maestà, il Signore si è rivestito di forza e si è preparato. » Dio ha indubbiamente operato molti prodigi nel corso del tempo, ma è soprattutto per la consumazione delle epoche che Egli riserva i suoi grandi colpi, quando Egli colpirà l’anticristo con tutti i suoi adepti, e che mostrerà segni e prodigi, e scuoterà il cielo e la terra, e verrà nell’ultimo giorno in grande potenza e maestà per giudicare tutti gli uomini, rendendo a ciascuno ciò che gli spetti, senza accezione di persone. È con ragione che la Chiesa trionfante manifesterà allora la sua gioia con veementi acclamazioni, perché il Signore Dio Onnipotente si sarà finalmente armato del suo grande potere per sterminare gli empi e tutti i re che hanno tiranneggiato i giusti, e per concedere ai buoni una ricompensa eterna nel suo regno. –  La seconda causa di queste acclamazioni è indicata in queste parole: Le nazioni sono adirate; e perché? Perché non potranno più dominare e opprimere, né affliggere il giusto, né derubare la vedova e l’orfano, né disprezzare il povero, né soddisfare i loro desideri malvagi; perché secondo il Salmista, (Sal. LVIII, 14): « Torneranno alla sera, avranno fame come cani e andranno in giro per la città. Si disperderanno in cerca di cibo, e se non saranno soddisfatti, mormoreranno. Ma quanto a me, canterò le lodi della tua potenza, e darò gloria alla vostra misericordia al mattino con canti di gioia perché vi siete dichiarato mio protettore e siete diventato il mio rifugio nel giorno della mia afflizione, etc. ». In questo mondo sono le vedove, gli orfani, i poveri, gli oppressi, i miserabili, i perseguitati e i Santi di Dio che corrono per le città, implorando, troppo spesso senza effetto, la misericordia di coloro che possiedono le sostanze della terra. Ma nell’altra vita, le circostanze saranno ben diverse, quando Gesù Cristo, il Re dei re, regnerà da solo per l’eternità nella giustizia, nella verità e nella santità, ecc. e il regno dei principi malvagi, dei tiranni e dei ricchi spietati sarà passato e sarà cambiato in tormenti eterni. È allora che questo tipo di nazioni si adirerà con il Regno eterno di Dio Onnipotente. (Sal. XCVIII, 1): « Il Signore ha stabilito il suo regno; i popoli siano commossi dall’ira; Egli che siede sui cherubini, la terra sia scossa. » Ma l’ira di queste nazioni sarà vana e la loro ira sarà perenne, e un verme le roderà continuamente, ed esse invecchieranno e si seccheranno nei loro interminabili dolori; e gli effetti della loro ira contro il Signore sarà molto più impotente che la sabbia del mare contro il firmamento. Per questo si dice: (Ps. CXI, 9): « Il peccatore lo vedrà e se ne irriterà; digrignerà i denti e si consumerà; ma il desiderio dell’empio perirà. » Perché saranno come cani affamati, senza speranza di essere mai sciolti dalle loro catene eterne, perché essi stessi sono stati senza pietà e misericordia sulla terra. – La terza causa della loro ira sarà: E il tempo della tua ira è venuto; cioè, il giorno della vendetta universale, il giorno delle tenebre e della grande tempesta che colpirà gli empi, è venuto. E saranno adirati invano; perché se l’ira di Dio è giusta e onnipotente per tutta l’eternità, la loro ira avrà meno effetto degli sforzi di una formica per rovesciare l’universo. (Sal. II, 4): « Colui che abita nei cieli si riderà di loro e il Signore se ne prenderà beffe. Allora Egli parlerà loro nella sua ira, e nella sua ira li riempirà di confusione. Poiché io sono stato designato da Lui in Sion, il suo santo monte, per annunciare i suoi comandamenti. » È di questa rabbia degli empi che David ha anche profetizzato: (Sal. XX, 9): « Voi li brucerete come una fornace ardente nel momento in cui mostrerete la vostra faccia; l’ira del Signore li getterà nella confusione ed il fuoco li divorerà. » Infine, lasciamo al lettore il compito di leggere i molti passi della Scrittura che si riferiscono all’ira del Signore nell’ultimo giorno. È questa stessa ira che la Chiesa canta nel suo Dies iræ, dies illa, etc. – La quarta causa si trova in queste parole: E il tempo sarà giudicato. I Santi si rallegreranno di questa ira e della giusta vendetta di Dio, e la attendono. È con questo che il Signore consola i suoi da questa vita nei morti per le loro tribolazioni, dicendo: Rom. XII, 19 « Non vendicatevi, ma lasciate passare l’ira. Perché sta scritto: La vendetta è mia e sono Io che la farò, dice il Signore. » – (Deut. XXIII, 22): « Il mio furore si è acceso come un fuoco; esso penetrerà nelle profondità dell’inferno; divorerà la terra con le sue più piccole erbe e brucerà le montagne fin nelle loro fondamenta. Io li sommergerò di mali; io scoccherò tutte le mie frecce contro di loro. La carestia li consumerà e gli uccelli li dilanieranno con i loro morsi crudeli. Metterò contro di loro i denti delle bestie, e la furia di quelli che strisciano ed arrampicano sulla terra. La spada li distruggerà all’esterno e il terrore all’interno, etc. ….. Ma a causa dell’ira dei loro nemici, ho ritardato, nel timore che i loro nemici non si inorgogliscano e dicano: La nostra mano potente, non il Signore, ha fatto tutte queste cose. Perché sono una razza senza consiglio e senza prudenza, che non aprono gli occhi! Che non comprendono! Che non ne prevedono la fine! etc. …. La vendetta è mia, e io pagherò il loro salario a tempo debito, perché il loro piede inciampi; il giorno della perdizione è vicino, e i tempi si affrettano a venire, etc. » Così è che nel giorno del giudizio Dio eseguirà la sua vendetta, i Santi se ne rallegreranno, essi lo desiderano in anticipo. Perché allora: 1°. tutte le ipocrisie saranno rivelate, gli ipocriti saranno turbati da un’orribile confusione, e i giusti insorgeranno con forza contro coloro che predominavano e splendevano nel mondo, ove essi erano disprezzati, respinti, misconosciuti, poveri e oppressi. – 2°. Tutti i segreti più nascosti saranno portati alla luce, e allora la gloria sarà data solo a Dio, e ognuno riceverà secondo le sue opere. Questo è lo scudo della pazienza che San Paolo raccomanda (in I Corinzi IV, 5): « Non giudicate dunque prima del tempo, finché non venga il Signore, il quale illuminerà ciò che è nascosto nelle tenebre e scoprirà i pensieri più segreti dei cuori, e allora ciascuno riceverà da Dio la lode che gli sarà dovuta. » – 3° Dio ci giudicherà tutti senza distinzione di sorta; e nessuno sarà dimenticato, né il povero né il ricco, né il suddito né il re, né il semplice fedele né il prelato. (Colossesi III, 24): « Servite il Signore Gesù Cristo. Perché colui che agisce ingiustamente riceverà la pena per la sua ingiustizia, e Dio non fa accezione di persone. » – La quinta causa dell’ira degli empi sarà la ricompensa per le fatiche, le tribolazioni e le buone opere dei Santi nel servizio di Dio, e per dare ricompensa ai Profeti vostri servi, ai Santi e a coloro che temono il vostro Nome, ai piccoli e ai grandi. San Giovanni designa tutte queste classi per farci capire che Dio non dimenticherà nessuno, e che ci saranno ricompense speciali per ognuno. (Baruch, III, 24): « O Israele, quanto è grande la casa di Dio e quanto sono ampi i luoghi che Egli possiede. » – E (Jo., XIV, 1): « Non sia turbato il vostro cuore. Voi credete in Dio, credete anche in me. Ci sono molte dimore nella casa di mio Padre. » – Infine, la sesta causa sarà lo sterminio generale e universale di tutti i malvagi e gli empi della terra; essi saranno distrutti da cima a fondo, tutti quelli che, dall’inizio del mondo e soprattutto alla fine, hanno versato il sangue dei giusti ed oppresso i loro simili, corrompendo la terra con la loro malvagità, e periranno come Sodoma, come l’Egitto e come gli uomini del diluvio di cui si parla in Genesi, VI, 11: « La terra era corrotta davanti a Dio e piena di iniquità ». Questo sterminio universale dei malvagi è espresso in queste parole: … e per sterminare quelli che hanno corrotto la terra.

III. Vers. 19E il tempio di Dio si aprì nel cielo, e l’arca della sua alleanza vi apparve, e ci furono lampi, voci, un terremoto e una grandine molto grande. Dopo le acclamazioni, le lodi, le azioni di grazia e i desideri della Chiesa trionfante di cui sopra, segue il solenne arrivo di Gesù Cristo nell’aria. E il tempio di Dio fu aperto nel cielo; vale a dire che il Figlio dell’uomo verrà e apparirà sulle nuvole, perché Egli è il tempio del Dio vivente, (Colossesi II, 9): « Poiché tutta la pienezza della Divinità abita in Lui corporalmente » e secondo San Giovanni, (II, 21), Egli chiama il Suo corpo un tempio. E vi apparve l’arca della sua alleanza, cioè la croce di Cristo, il segno del Figlio dell’uomo, apparirà in cielo nell’ultimo giorno. Perché il segno della croce è chiamato l’arca della sua alleanza? La ragione è che come il Suo Testamento e i Suoi segreti restarono nascosti e depositati nell’arca dell’alleanza dell’Antico Testamento, finché fossero spiegati e rinnovati; così la croce di Cristo è la vera arca del Nuovo Testamento, nel quale il mistero della nostra Redenzione rimarrà impenetrabile agli occhi degli empi fino al giorno del giudizio, quando la croce si manifesterà per la loro confusione, perché non avranno voluto accettarne l’eredità, considerandola una follia ed uno scandalo, secondo San Paolo: (I. Cor., I, 23): « Ma noi predichiamo Gesù Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i Gentili ». Ma quando quest’arca apparirà e la vedranno, gemeranno, ma troppo tardi. Apocalisse, I: « E tutte le tribù della terra, quando lo vedranno, si batteranno il petto. » La Scrittura dice ancora, (Jo. XIX , 37): « Vedranno chi è Colui che hanno trafitto. » E ci furono lampi, voci, un terremoto e una grande grandine. I lampi ci fanno capire l’immenso terrore che scenderà dal cielo, perché il Giudice eterno verrà a giudicare la terra ed il mondo con il fuoco. Le voci sono il lamento, il pianto e lo stridore di denti dei malvagi, e anche le grida di gioia, le acclamazioni e gli applausi dei Santi. Un terremoto, il più grande che ci sia mai stato, perché la terra e il mare consegneranno i loro cadaveri, tutti i morti usciranno dai loro sepolcri, e il Cristo scenderà dal cielo con migliaia di migliaia di Angeli e Santi per giudicare tutti gli uomini. E una grandine fortissima, cioè la più grande e orribile tempesta, in mezzo alla quale i dannati saranno gettati con i demoni nell’inferno dal fuoco che uscirà dalla bocca del Giudice sovrano, Gesù Cristo, che dirà loro: « Andate maledetti nel fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e i suoi angeli, etc., » Tutto ciò che è stato rivelato a San Giovanni in questo capitolo IX sull’Anticristo e sul Giudizio Universale è solo una descrizione generale e accidentale; lo scopo del Profeta in ciò, era di terminare tutta la sua rivelazione con la descrizione della settima tromba, omettendo così, per non interrompere il corso della sua narrazione, diverse descrizioni speciali e particolari degli orribili regni di Maometto e dell’Anticristo, e anche delle ultime piaghe, ecc. che gli furono rivelate nei nove capitoli successivi.

§ III.

Concordanza della profezia di Daniele con quella di San Giovanni sulle due ultime circostanze della fine del mondo.

I. Dal momento in cui il Sacrificio continuo sarà abolito e l’Anticristo sarà entrato nella pienezza del suo potere, il profeta Daniele calcola milleduecentonovanta giorni; mentre San Giovanni fissa quarantadue mesi che fanno tre anni e mezzo, e milleduecentosettantasette giorni e mezzo. Questi due Profeti differiscono quindi l’uno dall’altro di dodici giorni e mezzo. Ed è con ragione, perché Daniele annuncia la pienezza del regno dell’anticristo, mentre San Giovanni, che viene dopo di lui, annuncia questo regno come abbreviato dalla misericordia divina; come dice espressamente Gesù Cristo in San Matteo, (XXIV, 22): « Se quei giorni non fossero stati abbreviati, tutta la carne sarebbe stata distrutta; ma saranno abbreviati per amore degli eletti. » Questi giorni saranno quindi ridotti di dodici giorni e mezzo, dalla caduta dell’anticristo, che, come è stato detto, sarà gettato nell’inferno nel momento in cui vorrà salire in cielo al seguito di Enoch ed Elia. Così, l’anticristo, giunto alla pienezza del suo potere, lasciando da parte il tempo in cui farà guerra a tutti i regni e li sottometterà tutti, regnerà quarantadue mesi, cioè tre anni e mezzo, e milleduecentosettantasette giorni e mezzo. Ora, se sottraiamo quest’ultima cifra dai milletrecentotrentacinque giorni che Daniele ha fissato per la durata degli ultimi tempi, dalla morte dell’anticristo fino alla dissoluzione del mondo, non resteranno che cinquantasette giorni e mezzo perché gli uomini facciano penitenza. Ma come sta scritto in San Matteo, (XXIV, 36): « Questo giorno e quest’ora nessuno li conosce, nemmeno gli Angeli del cielo; solo il Padre mio li conosce », i milletrecentotrentacinque giorni di Daniele devono essere presi in un senso indeterminato in relazione all’ultima ora e all’ultimo giorno, come fa San Giovanni nel capitolo X, 7, quando dice anche in modo indeterminato: Ma nel giorno della voce del settimo Angelo, quando la tromba comincerà a suonare, il mistero di Dio sarà compiuto. Allora Daniele menziona i giorni come gli sono stati rivelati; ma l’ultimo giorno e l’ora della seconda venuta di Gesù Cristo non gli sono stati certamente rivelati in modo preciso, poiché Gesù Cristo stesso dice che sono riservati alla prescienza e alla volontà del Padre suo. Si può obiettare che San Giovanni abbia fissato in mille e duecento sessanta giorni la durata della testimonianza dei profeti Enoch ed Elia, e che dopo la loro morte l’anticristo regnerà per altri ventiquattro giorni; ora, queste due cifre addizionate insieme fanno mille duecento ottantaquattro giorni: dunque l’anticristo regnerà per più di ventiquattro mesi, e l’abbreviazione di questi giorni di calamità non avrebbe avuto luogo. La soluzione di questa difficoltà si trova nel fatto che questi due Profeti saranno apparsi per iniziare la loro missione molti giorni prima che l’anticristo entri nella pienezza del suo potere; perché questo passaggio del versetto 7, cap. XI, La bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, deve essere inteso al tempo presente e non al passato, cioè che la bestia non farà guerra contro di loro dopo essere completamente salita dall’abisso, ma mentre sale dall’abisso (Nota presa da Antonio Martini sull’interpretazione di 11 e 12 del cap. XII, sulla profezia di Daniele, dove vediamo che il venerabile Holzhauser è d’accordo con i Santi Padri nei suoi calcoli e nella sua interpretazione.). Dan, XII, 11: « Dal momento in cui il sacrificio continuo sarà abolito e l’abominazione della desolazione sarà stabilita, ci saranno milleduecentonovanta giorni. » Abbiamo visto più volte come i Profeti siano soliti parlare dei misteri della Chiesa di Cristo con espressioni prese dai riti della Chiesa giudaica. È così che San Girolamo, Teodoreto, Sant’Ireneo, Sant’Ippolito Martire e molti altri non dubitano che per sacrificio perpetuo si intenda il Sacrificio dell’Eucaristia, che l’anticristo vorrà far sparire dal mondo; come anche per abominio della desolazione si intende l’idolo, cioè l’anticristo stesso, che vorrà essere adorato come Dio. (Vedi II Tessalonicesi II: 4), così che dal tempo di queste due cose alla fine della persecuzione ci saranno tre anni e mezzo, e altri dodici o tredici giorni. Vedi Apoc. XI: 2, Dan. XII:12: « Beato colui che aspetta e che arriva a milletrecento trentacinque giorni. » Che significa: Beato colui che, dalla morte dell’anticristo, aspetta con pazienza, oltre al numero di giorni indicato sopra, altri quarantacinque giorni, nei quali il Signore e Salvatore verrà in tutto l’assetto della sua maestà. È così, che San Girolamo dice che questi milletrecentotrentacinque giorni fanno quarantacinque giorni in aggiunta ai milleduecentonovanta giorni, di cui si parla nel versetto precedente.


FINE DEL LIBRO QUINTO.

IL BEATO HOLZHAUSER INTERPRETA L’APOCALISE: LIBRO SESTO

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE (2)

Dom PAUL NAU

Monaco di Solesmes

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE

Saggio sull’autorità de loro insegnamento

Les Editions du Cèdre 13, Rue Mazarine PARIS

II.

Lettere di unità

È alla natura stessa delle Encicliche che vorremmo ora chiedere la soluzione dell’apparente antinomia tra i due caratteri che abbiamo appena scoperto in questi atti pontifici: le Encicliche sono lettere, sono lettere circolari indirizzate dal Papa ai Vescovi.  Sono lettere. Senza dubbio questa parola può designare documenti che appartengono solo lontanamente al genere epistolare, di cui conservano solo l’indicazione del destinatario e quella dell’Autorità di provenienza. Le Bolle di canonizzazione dei santi sono Lettere, Litterae decretales, quelle che specificano i limiti di una diocesi o conferiscono poteri a un Vescovo sono anch’esse Litteræ Apostolicæ; è questo stesso nome che portano i Brevi delle indulgenze o di altri privilegi (Sotto il loro protocollo epistolare si nascondono veri e propri atti amministrativi o sentenze dogmatiche: beatificazione di un servo di Dio, delimitazione di un distretto territoriale, condanna di un errore, conferimento di un beneficio o privilegio. In tutto questo, come nelle nostre attuali lettere di credito o di scambio, non c’è nulla di una vera corrispondenza, di uno scambio di opinioni o di pensieri personali).  Le Encicliche, invece, sono lettere in un senso molto più stretto (CICERONE specifica così l’oggetto della lettera e ci sono, come sapete, più tipi di lettere; ma tra tutte la più autentica … è quella a cui si deve l’invenzione stessa delle lettere, quella che è nata dal desiderio di informare gli assenti, quando era di interesse per loro o per noi che fossero istruiti in qualcosa”. (Lettera CLXXIII, A Curion (Fam. II, 4 ), trans. Constans. Ed. “Les Belles Lettres”, t. III, p. 170-172). Non senza dubbio in questo stile abbandonato della corrispondenza privata (Rileggiamo, se vogliamo cogliere la sfumatura, la corrispondenza così piena di verve e finezze indirizzata da Benedetto XIV al Card. del Tonchino DE HEECKEREN, Correspondance de Benoît XIV, Paris, Pion 1912, 2 vol.- Siamo lontani dalle Encicliche dello stesso Papa.). Non è più uno scambio amministrativo ma personale, una conversazione scritta, sia che assuma il tono dell’insegnamento e si rivolga alla mente, sia quello dell’esortazione per condurre all’azione. Siamo in una corrispondenza ufficiale, senza dubbio, ma sempre in una corrispondenza.  Le Encicliche sono lettere; come stupirsi che non abbiano il rigore di espressione e la precisione dei termini propri dei testi legislativi o delle decisioni giudiziarie? Ma allo stesso tempo, queste lettere possono rivendicare un’autorità sovrana: come circolari del Papa ai Vescovi, emanano dal Pastore dei pastori. « Circulari » è infatti la traduzione latina della parola greca – εν κυκλος – « in cerchio ». Le Encicliche sono circolari indirizzate all’Episcopato.  La loro formula di indirizzo è nota: “Ai nostri venerabili fratelli, i Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi e altri Ordinari, in grazia e comunione con la Sede Apostolica, Pio XII, Papa… (Litteræ encyclicæ, Venerabitibus Pratribus, Patriarchis, Primatibus, Archiepiscopis, Episcopis aliisque locorum Ordinariis pacem et communionem cum Apostolica Sede habentibus. Pio Papa XII. Venerabiles Fratres Salutem et Apostolicam benedictionem. Summi Pontificatus; 20 ottobre 1939. BP. I, 198). A volte, oltre al corpo episcopale, sono indicati come destinatari il clero o anche i fedeli dell’universo. Questa estensione, tuttavia, rimane accidentale e non impedisce che le Encicliche siano soprattutto Lettere del Papa ai Vescovi. Una sola eccezione si può notare nei tempi moderni, che non fa che sottolineare ulteriormente il principio generale: quella dell’enciclica In Præclara, indirizzata da Benedetto XV, “ai professori e agli studenti di Lettere e Area del mondo cattolico”, in occasione del sesto centenario della morte di Dante (Dilectis Filiis Doctoribus et Alumnis Litterarum Artique optimarum Orbis Catholici In Præclara, 30 aprile 1921).  È ai Vescovi che il Papa si rivolge nelle Encicliche, e parla loro come loro capo. Questo carattere appare già nella prima Enciclica dei tempi moderni, Ubi Primum, scritta da Benedetto XIV, all’inizio del suo pontificato (3 dicembre 1740. Epistola Encyclica et Commonitoria ad omnes Episcopos. S. D. N. Benedicti Papæ XIV Bullarium, Venezia 1778, p. 2). Il Papa si appella esplicitamente al suo ufficio di Pastore dei Pastori: « Ai nostri Venerabili Fratelli, Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi, Benedetto XIV, Papa,  Venerabili fratelli, saluti e benedizione apostolica. Non appena piacque a Dio, ricco di misericordia, di elevare la nostra umile persona al seggio supremo di Pietro e di affidarci il potere vicario di Nostro Signore Gesù Cristo di governare tutta la sua Chiesa… Ci è sembrato di sentire questa voce divina risuonare nelle nostre orecchie: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore”. Con queste parole, il Pontefice di Roma, successore dello stesso Pietro, ha ricevuto dal Signore l’incarico di governare non solo gli agnelli del suo gregge, cioè i popoli di tutto il mondo, ma anche le pecore che sono i Vescovi, perché, come madri dei loro agnellini, generano i popoli in Cristo Gesù e li fanno rinascere. Accogliete dunque, Fratelli, in questa Lettera che vi indirizziamo, le parole del vostro Pastore; a voi che siete chiamati a partecipare all’ufficio che abbiamo ricevuto da Dio in pienezza, questi ammonimenti ed esortazioni faranno capire qual è la preoccupazione che ci spinge a non tralasciare nulla dei doveri del nostro ufficio e qual è la misura della nostra paterna carità nei vostri confronti (La lettera si conclude con un paterno invito rivolto ai Vescovi: “Con piena fiducia, venite a Noi che vi amiamo come Fratelli e aiutanti, come nostra corona nelle viscere di Gesù Cristo. Venite alla vostra Madre, che è anche la Madre, capo e padrona di tutte le chiese, la Santa Chiesa Romana, in cui la religione è nata, dove la fede poggia come su una roccia, dove l’unità del sacerdozio ha la sua fonte, dove la verità è insegnata senza corruzione. Non abbiamo desiderio più ardente, né più gradito, che unire i nostri sforzi ai vostri per procurare la gloria di Dio, la salvaguardia e la protezione della fede cattolica, e per ottenere la salvezza delle anime, per la quale siamo pronti a dare con gioia, se fosse necessario, il nostro sangue e la nostra vita. Ubi Primum. Bullarium, 1. c.). » Questa stessa enfasi si troverà in tutte le Encicliche inaugurali. All’inizio di ogni Pontificato, la prima preoccupazione di colui che è stato appena elevato alla sede di Pietro è di rafforzare i legami che lo uniscono al corpo episcopale di cui è a capo, di assicurare tra lui e i Vescovi l’unità di programma nel governo della Chiesa, l’unità di dottrina contro gli errori del giorno. E per raggiungere questo scopo, ricorre all’organo di un’Enciclica. Non possiamo passare in rassegna tutti i Pontificati, ma alcuni esempi saranno sufficienti. – Dopo la Rivoluzione Francese, fu da Venezia, dove si era svolto il Conclave, che Pio VII riprese il contatto con i Vescovi che erano stati isolati dalla Santa Sede per troppo tempo. Fu la consapevolezza del dovere affidatogli di “confermare i suoi fratelli” che lo invitò anche a prendere la sua penna: « Sono già passati due mesi… da quando Dio ha imposto alla nostra infermità il pesante fardello di guidare la sua Chiesa. Alla fine, dobbiamo obbedire, non tanto a un’usanza dei tempi più antichi, quanto a un nero affetto per voi. Formata molto tempo fa nelle relazioni di confraternita, la sentiamo oggi meravigliosamente accresciuta e giunta al suo culmine; perciò, niente è più dolce per Noi e più piacevole che conversare con voi almeno in queste Lettere. La natura del dovere particolare e principale del nostro ufficio, registrato ed espresso nelle parole: “Conferma i tuoi fratelli”, è ciò che ci impegna anche potentemente e ci determina a farlo. Perché in questi tempi – così sfortunati e così travagliati – Satana non meno che in passato “ha cercato di setacciarci tutti come il grano” (Dia Satis, 15 maggio 1800. BP. 240.). »  – È quasi negli stessi termini che Gregorio XVI si scusa per non aver potuto indirizzare prima la lettera ai Vescovi, « sollecitato più dal suo affetto per loro e dal dovere del suo ufficio, che da un’antica usanza ». Se la tempesta sorta all’inizio del suo Pontificato ha ritardato l’espressione del suo pensiero, non ha fatto altro che mettere in maggiore evidenza il pericolo di errori minacciosi, e l’Enciclica insiste più particolarmente sulla necessità dell’unione nella difesa della fede: « … Agiamo in unità di spirito per la nostra causa comune o, per meglio dire, per quella di Dio; e di fronte ai nemici comuni uniamo la nostra vigilanza, … uniamo i nostri sforzi. Agamus idcirco in unitate spiritus communem nostram seu vertus Dei causant et contra communes hostes, pro totius populi salute, una omnium sit vigilantia, una contentio. » Lo scopo dei vostri sforzi e l’oggetto della vostra continua vigilanza deve quindi essere quello di custodire il deposito della fede in mezzo a questa vasta cospirazione di uomini empi che vediamo, con il più grande dolore, formata per dissiparlo e perderlo. Si ricordi che il giudizio sulla sana dottrina di cui il popolo deve essere nutrito, e il governo e l’amministrazione di tutta la Chiesa, appartengono al Romano Pontefice…  Quanto ai Vescovi in particolare, il loro dovere è di rimanere inviolabilmente attaccati alla Cattedra di Pietro, di custodire il santo deposito con scrupolosa fedeltà, e di pascere il gregge di Dio che è loro sottoposto… » (Mirari Vos, 15 agosto 1832. BP. 205). Quest’ultima citazione ci aiuterà a capire il ruolo proprio delle Encicliche dottrinali. – Partendo da un’esortazione a conservare il deposito, Gregorio XVI mostra qui la procedura: l’unione dei vescovi intorno al Papa. Questo è infatti il principio stesso della costituzione della Chiesa, come ci ricorderà Pio IX (Per esempio Amantissimus Humani Generis dell’8 aprile 1862, Acta Pii IX, v. III, p. 425. Ut autem haec fidei, doctrinaeque unitas semper in sua servaretur Ecclesia, Petrum ex omnibus selegit unum, quem… inexpugnable Ecclesiæ suæ fundamentum et caput constitua, ut… pasceret oves et agnos confirmaret Fratres… ), e specialmente Leone XIII. Quest’ultimo Papa dedicò un’intera Enciclica a spiegare “il piano e lo scopo di Dio nella costruzione della società cristiana” (Satis Cognitum, 29 giugno 1896. BP. 5, 47.). – Questo è il piano. L’Autore divino della Chiesa, avendo decretato di darle l’unità di fede, di governo e di comunione, scelse Pietro e i suoi successori per stabilire in loro il principio e il centro dell’unità. Ecco perché San Cipriano scrive: « Il Signore si rivolge a Pietro: “Io ti dico che tu sei Pietro… Su uno solo costruisce la Chiesa… E sebbene dopo la sua risurrezione Egli dia uguale potere a tutti e dica loro: “Come il Padre mio mi ha mandato…”, tuttavia, per dare piena visibilità all’unità, Egli stabilisce in uno solo, con la sua autorità, l’origine e il punto di partenza di questa stessa unità. Nessuno, quindi, può avere una parte nell’autorità se non è unito a Pietro (Ibid.). È a Pietro, il fondamento della Chiesa, che è stata promessa l’indefettibilità. Da allora in poi, il modo per non fallire sarà quello di rimanere uniti a Pietro, di allineare il proprio insegnamento al suo. – Ma come rimanere uniti a Pietro, come conformare il proprio insegnamento a quello di Pietro? È qui che entra in gioco il ruolo delle Encicliche dottrinali. Senza dubbio in certe circostanze si può stabilire un contatto diretto tra il Papa e i Vescovi. Questo è il caso delle visite ad limina e soprattutto dei Concili Ecumenici. A volte, in caso di errore manifesto, il Papa interviene con una sentenza formale di condanna.  Ma è in ogni momento che il nemico si aggira, quærens quem devoret, che l’errore minaccia, che diventa insidioso, che, tra i pastori come tra il gregge, può sorgere l’esitazione. È allora che una lettera Enciclica indicherà ai Vescovi i punti più particolarmente minacciati, per rafforzare le loro certezze e per portare loro luci sicure per rettificare i fuorviati o per rassicurare i timidi. I capi delle diocesi dovranno solo fare propri questi insegnamenti di Roma (non sono solo portavoce del Papa, ma Pastori essi stessi, anche se subordinati), trasmetterli, spiegarli ai loro fedeli e portarli alla portata dei più umili. – La prima Enciclica di Benedetto XIV non aveva a che fare con questioni dottrinali. Sei anni dopo, nell’Italia settentrionale, sorse una discussione sulla legittimità di certi contratti. Questo era precisamente il caso dei prestiti ad interesse, la cui errata interpretazione sarebbe stata alla base degli abusi del capitalismo moderno. Il Papa ha indirizzato un’Enciclica ai Vescovi della regione dove era sorto il dibattito. Benedetto XIV non qualifica direttamente l’opinione errata, non la censura. Ma dopo aver preso il consiglio dei Cardinali e dei teologi competenti, indica ai Vescovi il principio delle decisioni che essi stessi dovranno prendere, e detta loro ciò che d’ora in poi, e senza ammettere ulteriori discussioni, dovrà servire come base del loro insegnamento: In questo modo sarete istruiti in tutto questo, Venerabili Fratelli, e quando terrete i sinodi, parlerete al popolo e lo istruirete nella dottrina cristiana, nulla di contrario ai sentimenti che abbiamo riferito sarà mai avanzato. Vi esortiamo di nuovo a usare tutta la vostra cura affinché, nelle vostre diocesi, nessuno abbia l’audacia di insegnare il contrario, né oralmente né per iscritto (Vix Pervenit, del 1° novembre 1745, trans. TIBERGHIEN, Tourcoing, 1914). – È allo stesso modo per assicurare tra i membri del corpo episcopale, del collegio docente della Chiesa, l’unità della dottrina, che saranno scritte tutte le grandi Encicliche, da Gregorio XVI a Pio XII. Abbiamo avuto modo di citare Mirari vos, e dovremmo almeno menzionare Quanta cura e tutta la serie di lettere in cui Leone XIII ricorda ai Vescovi, i principi su cui deve essere costruita la società umana e quelli che devono guidarla nelle sue relazioni con la Città di Dio. – Non fu un pensiero diverso, come abbiamo visto, quello che portò Pio X a scrivere la Pascendi, per delineare ai Vescovi le regole da seguire per arginare la marea montante del modernismo e contrastarla con la sana dottrina. Questo sembra essere ancora lo scopo di Pio XII nel trittico delle sue tre grandi Encicliche. “Nel suo messaggio inaugurale, espone i presupposti di un ordine per la ricostruzione individuale, sociale e politica dei popoli. Con Mystici Corporis, fa luce sulla vita interna della Chiesa nei suoi fondamenti dogmatici. Mediator, infine, mira alla vita intima ed esterna della Chiesa nel suo culto, mettendo in evidenza gli errori teorici e pratici che stanno proliferando negli ultimi anni (Mons. Fiorenzo ROMITA, Bollettino Ceciliano, Maggio-Giugno 1948). Conserveremo alcuni passaggi di Pio XI, più espliciti sul ruolo delle Encicliche come collegamento tra l’insegnamento del Sommo Pontefice e quello dei Vescovi.  All’inizio del suo Pontificato, il desiderio di questo Papa sarebbe stato quello di raccogliere intorno a sé il collegio dei Vescovi riprendendo le sessioni interrotte del Concilio Vaticano. In mancanza di questo contatto personale, l’Enciclica porterà il suo incoraggiamento e il suo pensiero a tutti. Ci avete dato una testimonianza impressionante del vostro zelo quando… in occasione del Congresso Eucaristico di Roma, siete venuti quasi tutti nella Città Eterna da tutte le parti del mondo.  Questa assemblea di pastori… Ci ha suggerito l’idea di convocare a tempo debito… una simile assemblea solenne per applicare i rimedi più appropriati dopo un tale sconvolgimento della società umana… Tuttavia, non osiamo risolverci a procedere senza indugio alla ripresa del Concilio Ecumenico aperto dal santissimo Papa Pio IX… che ha portato a termine solo una parte, anche se molto importante, del suo programma. In queste circostanze… la coscienza del nostro ufficio apostolico e dei nostri doveri paterni verso tutti, Ci ispira e Ci fa una specie di obbligo di aggiungere come nuove fiamme al fuoco che vi divora, nella certezza che le nostre esortazioni vi porteranno a dedicare una cura ancora più attenta alla parte di gregge che il Maestro ha affidato a ciascuno di voi… (Ubi Arcano, 23 dicembre 1922. BP. I, 165-166. ). Più tardi, quando fu istituita la festa di Cristo Re, un’altra Enciclica, Quas Primas, avrebbe portato ai Vescovi il tema del loro insegnamento pastorale: « Spetterà poi a voi rendere accessibile all’intelligenza e al sentimento del popolo tutto ciò che Noi diciamo sul culto di Cristo Re, per far sì che la celebrazione annuale di questa solennità porti frutti in molti modi, fin dall’inizio e in futuro. Vestrum erit quidquid… dicturi su mus, ad popularem intelligentiam et sensum accommodare. » (Quas Primas, 11 dicembre 1925. BP. S, 67. ). Qui vediamo in azione il processo stesso di custodire l’unità della fede nella Chiesa, come stabilito da Gregorio XVI, Pio IX e Leone XIII. Emanata dal Sovrano Pontefice, centro stesso dell’unità, l’Enciclica, rivolta ai Vescovi di tutto il mondo, spiegata e insegnata ai fedeli, sarà la sicura garanzia della comunità della dottrina e della fede. Pio XI tornerà più esplicitamente su questo punto nella Mortalium Animos, in relazione alle deviazioni dell’ecumenismo: « La coscienza del nostro Ufficio Apostolico ci proibisce di permettere che errori perniciosi conducano fuori strada il gregge del Signore. Perciò, Venerabili Fratelli, ci appelliamo al vostro zelo per impedire un tale male. Perché siamo convinti che con i vostri scritti e le vostre parole, ognuno sarà in grado di far comprendere facilmente ai suoi fedeli i principi e le ragioni che stiamo per esporre; e i Cattolici ne trarranno una regola di pensiero e di condotta per l’opera di riunire, in qualsiasi modo, in un solo corpo, tutti coloro che rivendicano il nome cristiano. Confidimus enim, per verba et scripta cujusque passe facilius et ad populum per-tingere et a populo intëlligi quæ mox principia rationes proposituri sumus, unde catholici accipiant quid sibi sentiendum agendumque » (Mortalium Animos, 6 gennaio 1928. BP. 4, 67. Vedi nello stesso senso Leone XIII, Cum Multa dell’8 dicembre 1882: « Spetterà a voi, cari Figli e Venerabili Fratelli, essere gli interpreti del nostro pensiero al popolo, e fare in modo, per quanto vi sarà possibile, che tutti conformino la loro condotta ai nostri consigli. BP. 7, 55. Vedi anche ard. SALIÈGE, 26 febbraio 1943: « È dovere del Vescovo far sentire la parola del Papa; provo gioia francese e orgoglio cristiano nel farvela sentire » citato in: Menus propos du Card. Saliège, I. Le Chrétien, ed. l’Equipe, Toulouse, p. 8). Se le Encicliche sono dunque il mezzo di unità tra il Papa e i Vescovi, i loro caratteri, che prima ci sembravano opposti, sono al contrario perfettamente armonizzati. Come stupirsi che non abbiano l’asciuttezza di un testo legislativo o giudiziario? Che ricordino la dottrina o denuncino l’errore, rimangono sempre lettere. Ma le lettere del Dottore supremo agli altri Dottori, per dare coesione all’insegnamento di tutti, procedono dalla più alta Autorità dottrinale sulla terra, sono al principio stesso del Magistero universale della Chiesa e dell’unità della fede, e la loro autorità e importanza non potrebbero quindi mai essere esagerate.

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Le Encicliche sono gli organi di coesione dottrinale tra i membri del corpo episcopale e il loro Capo, la garanzia dell’unità con l’insegnamento pontificio e quindi della fedeltà al deposito affidato da Cristo. Forse le nostre conclusioni si riveleranno affrettate. Non avremmo preso troppo alla lettera formule che sono indubbiamente molto solenni, ma che, a causa del loro carattere un po’ ieratico, siamo abituati a sorvolare rapidamente senza insistere troppo sul loro significato? Non potremmo trovare, a parte le Encicliche stesse e le loro formule stereotipate, il pensiero dei Sommi Pontefici chiaramente esposto? Nessuno di loro ha mai pensato di spiegarci, in un testo positivo, la natura e lo scopo delle Encicliche? Forse Benedetto XIV aveva previsto questo desiderio. In ogni caso, ha risposto in anticipo. Appena qualche anno dopo l’invio di Ubi Primum, il Papa pubblicò il suo Bollario o raccolta dei suoi atti pontifici, tra i quali fece inserire le sue Encicliche. L’ha preceduta con una prefazione dedicatoria, indirizzata “ai dottori e agli studenti di diritto dell’Università di Bologna“, che può essere giustamente considerata l’atto di nascita delle Encicliche moderne (Benedictus Papa XIV, Doctoribus et Scholaribus universis Bononiæ commorantibus et Juri canonico et civili studentibus. Bullarium. p. III.). È sorprendente non vedere questo documento citato più spesso, anche se è essenziale per lo studio delle Encicliche. Per comodità dei nostri lettori, riproduciamo qui i passaggi essenziali: Neque illud a Nobis prætereundum est, Romanis Pontificibus morem perpetuo fuisse, ut Episcopos universos, vel alicujus tantum Provinciæ ad Catholicam Fidem custodiendam, morumque disciplinam aut servandam, aut restaurandam Literis Encyclicis excitarent. Qua in re postremis hisce temporibus, usi sunt opera Congregationum… Divinæ targitatis beneficto ad summum Pontificatum evecti, Literas Encyclicas ad universos Episcopos, vel alicujus Provinciæ et nonullas etiam privatim ad aliquos episcopos dedimus, prout temporum ratio postulabat, quæ huic primo Volumini adjunguntur. Nel suo autem conscribendis Epistolis, veterem Prædecessorum nostrorum (si postrema tempora excipiantur) consuetudinem revocandam duximus, qua tpsi per se Literas Episcopis dabant, rati majorem vim id habiturum, cum amjyliorem Pontificiæ benevolentiæ significationem ipsius Pontificis Epistolæ testari videantur Episcopis, quibuscum Me Fraternitatis vinculo conjungitur quam quæ ab aliis, auctoritate licet Summi Pontificis, conscribuntur. p. IV). Il Papa doveva avvertire i lettori: era infatti la prima volta che documenti diversi da Costituzioni o Bolle, e da importanti Brevi, venivano inseriti in una raccolta di questo tipo (2 S) Il Papa fa qui appello ai suoi ricordi personali: Has Literas Præsules, qui erant a Secretis earum Congregationum, plerumque exorabant… Id nos diligentissime exequuti sumus, cum adhuc in minoribus munus a Secretis Congregationis Concilii per decern et amplius annos vbivimus. Typis emittimus hoc primum Volumen, quod nostras Constitutiones, videlicet Bullas, et aliqua Brevia, Literas Encyclicas, et alia hujusmodi complectitur. Ibidem, p. III. 2). Questa innovazione, inoltre, non è stata l’unica, né la principale, sulla quale il Sovrano Pontefice ha dovuto spiegarsi. Le Encicliche erano senza dubbio tradizionali nella Chiesa, e Benedetto XIV, nel riprendere il loro uso, si riferisce espressamente a questa antica usanza. Ma sotto i Pontificati precedenti, i Papi avevano cessato di usare loro stessi questo modo di insegnare e ne avevano abbandonato l’uso alle congregazioni romane (Non è stato quindi inutile, nell’inserire le Encicliche nel Bollario, ricordare la vera natura di queste Lettere, e far conoscere in ogni caso il motivo della loro ricomparsa tra gli altri testi pontifici. Questa ragione, secondo Benedetto XIV, è la stessa che in passato aveva portato i Papi a scrivere personalmente ai Vescovi: dare maggior peso alle Encicliche. Le lettere del Papa stesso non saranno forse un segno più certo di benevolenza verso i Vescovi, suoi fratelli nell’episcopato, che se fossero emesse da altri firmatari, anche su mandato del Sommo Pontefice? (lbid., p. IV, testo citato sopra). – Ma perché questo segno di benevolenza, se non per rendere più stretti i legami dei Vescovi, non solo con l’amministrazione pontificia, ma con lo stesso Capo del Collegio Apostolico, per stringere e rafforzare attorno al Pastore supremo la coesione del corpo dei pastori della Chiesa? Inoltre – e il grande canonista Benedetto XIV non aveva paura di scendere a questi umili dettagli – le Encicliche, atti personali del Sovrano, non dovranno essere rivestite di quelle formalità di cancelleria, garanzie di autenticità, che erano le pergamene speciali, le scritte complicate, i sigilli tradizionali delle Bolle e dei Brevi (Le Bolle scritte su pergamena ruvida, spessa, in una scrittura gotica molto ornata, e difficile da leggere, era sigillata con una palla di metallo (piombo o oro). Erano datate in Calende e Idi, e l’anno veniva contato non dal primo gennaio, ma dall’anniversario dell’Incarnazione, il 25 marzo. I Brevi, su membrane più sottili e in lettere latine, erano sigillati, su cera rossa, con il famoso anello del pescatore). Come garanzia contro i falsari, basterà che queste lettere siano stampate a Roma sotto gli occhi del Papa, sulla generosa e comoda carta dei torchi vaticani, e che la loro raccolta sia depositata negli archivi, in due copie firmate dallo stesso Sovrano Pontefice (Quia fortasse non deest aliquis, aut etiam non defuit, qui acceptis nostris Literis, Romæ licet impressisi nostroque Nomine inscriptis, dubius tamen incertusque haereat, utrum Ños ipsarum Auctores essemns; (quasi vero temeritas hominum eo devenire possit, ut aliquis, Nobis vitam agentibus, Literas Encyclicas nostro Nomine falso inscríbese, casque Romanis Typis commettere audeat) ad omnem dubitationem tollendam reponi jussimus duo codicis hujus exemplaria, quæ manu nostra subscripsimus, nostroque Signo obfirmavimus, unum in Archivio Castri S. Angeli, alterum in Archivio secreto Vaticano, ut hæc monumenta certa, ac perpetua faciamus, nec ulto unquam tempore Literis Encyclicis, aut alìis in hunc codicem relatis, sfides imminuatur. (Prefazione al Bullarium, p. IV.). Possiamo vedere quanto preziosi possano essere questi documenti nel rafforzare la coesione del corpo episcopale intorno al suo capo. Come atti personali del Papa, le Encicliche non possono non essere ricevute con attenzione dai Vescovi, mentre, come semplici lettere stampate, alleggerite di ogni inutile formalità, possono essere rapidamente inviate a tutte le estremità della cristianità per sbarrare la strada agli errori che rinascono continuamente. Non sosteniamo, tuttavia, che questa mancanza di solennità nella loro forma minimizzi la loro importanza: come abbiamo appena visto, questa semplicità è solo una conseguenza del loro carattere di atti personali del Sovrano Pontefice. E questi atti autentici del “Pastore dei Pastori”, indirizzati a coloro che partecipano al potere di governare e insegnare la Chiesa, hanno come oggetto proprio le questioni essenziali di questo ufficio: la vostra fede e la disciplina dei costumi. Tale era infatti, secondo Benedetto XIV, il loro contenuto nell’uso antico: Neque illud a Nobis prætereundum est Romanis Pontificibus morem perpetua fuisse, ut episcopos universos vel alicujus tantum provinciae ad catholicam fidem custodiendam, morumque disciplinam aut servandam aut restaurandam, Litteris encyclicis excitarent (Bullarium, p. IV, 1). – Questo antico uso è proprio quello che il Sovrano Pontefice vuole reintrodurre. Non possiamo quindi pesare troppo questi termini: fede e morale. Questo è precisamente l’oggetto della missione affidata dal Signore a Pietro e agli Apostoli e ai loro successori, il terreno sul quale l’assistenza divina è promessa loro nella misura in cui rimangono uniti al centro dell’unità, a Pietro, il fondamento incrollabile della Chiesa. – È necessario insistere di più sull’importanza capitale di questi documenti, grazie ai quali, dal suo stesso centro, si rafforza l’unità, si assicura la comunità di dottrina e di governo. Essi permettono ai pastori dispersi di avere un solo insegnamento e una sola azione in comune con il Pastore Supremo. Non è sorprendente, quindi, che Benedetto XIV abbia ordinato che le Encicliche fossero inserite nel Bollario e, alla fine della Lettera ai Dottori di Bologna, che questa raccolta fosse inclusa nel corpo stesso della Legge, nella raccolta “autentica” dei documenti emessi dalla Chiesa. La prefazione al Bollario di Bologna, tuttavia, è un ottimo esempio di questo. – La prefazione al Bollario di Benedetto XIV corrobora così pienamente la conclusione a cui la stessa lettura delle Encicliche ci aveva portato: queste Lettere, indirizzate dal Papa come Supremo Pastore ai Vescovi, suoi co-pastori, sono il vincolo della loro unità di dottrina e di governo, e come tali, stanno al principio dell’unità di fede e di disciplina nella Chiesa.

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La Lettera ai Dottori di Bologna non solo delinea i tratti essenziali di queste Encicliche, che vengono incluse per la prima volta nel Bollario, ma le presenta anche come eredi di una tradizione antica quanto la Chiesa: Veterem Prædecessorum nostrorum… consuetudinem revocandam duximus. È a questa tradizione, dunque, che dobbiamo fare riferimento se vogliamo portare alla luce la vera natura di questi documenti. In un recente articolo sull’Unione dei Vescovi e il Vescovo di Roma nei primi due secoli della Chiesa (La Vie spirituelle, supplemento, 15 maggio 1950, pp. 181-205), M. Jean Colson ha richiamato l’attenzione sul ruolo svolto nei primi secoli dalle lettere episcopali nel mantenere l’unità nella fede. Dopo aver ricordato alcuni degli scambi epistolari di cui si è conservata traccia, M. Colson conclude: « Tale è questa unione fraterna dei Vescovi che crea e mantiene l’unità della Chiesa attraverso una corrispondenza incessante, controllando la conformità delle opinioni di ogni Vescovo con tutto l’episcopato. Tutti i Vescovi, stabiliti fino ai confini della terra, mantengono così una comunicazione reciproca nello Spirito di Gesù Cristo (s. IGNAT. D’ANT. Eph., III, 2). E così è anche, come scrive Sant’Ireneo, che questa predicazione che la Chiesa ha ricevuto… sebbene sia sparsa in tutto il mondo, la custodisce con cura come se avesse una sola anima e un solo cuore, e con perfetta armonia la predica, la insegna e la trasmette, come se avesse una sola bocca. E se le lingue sulla superficie del mondo sono diverse, la forza della Tradizione è una e identica… (Adv. Hær, I, X, 2. PG. 7, 551). – Questa unità della Tradizione, fondamento dell’unità della Chiesa, è realizzata dall’episcopato. Il Vescovo nella sua comunità non è che un portavoce di quel grande corpo episcopale in cui si incarna lo Spirito di Gesù Cristo. È quindi importante che egli sia una voce fedele secondo l’insegnamento comune e tradizionale di cui è custode, in solidarietà con i suoi colleghi. Da qui la preoccupazione di ogni Vescovo, la necessità di sentirsi in comunione di pensiero con gli altri Vescovi, di controllare le sue idee e la sua condotta secondo il consiglio e la pratica dei suoi fratelli nell’episcopato (Vie spir., 1. e , p. 185). – È proprio questo stesso ruolo di collegamento tra Vescovi che, in un’opera dotta (De Litterìs Éncyclicis Dissertatio Francisci Dominici Bencini, abbatis sancti Pontii, ad Magnum Victorium Amedeum, Sardiniæ Regem. Augustæ Taurinorum MDCCXXVIII), un contemporaneo di Benedetto XIV, François Dominique Bencini, abate di Saint Pons, si mostrava essere quello delle Encicliche. « È di essi – scrive nella sua prefazione – che i prelati della Chiesa si sono serviti per conservare la purezza dei dogmi e l’unità dei cuori. Questa, se non mi sbaglio, è la ragione per cui le prime chiese apostoliche e quelle che fondarono furono in grado di mantenere il deposito della Santa Dottrina immacolato e libero da ogni macchia, interpolazione o frode. Questa è la pietra di paragone che ci permette ancora, come ai nostri padri, di verificare la tradizione autentica di ogni dogma e che garantisce l’antichità, l’universalità e l’unità della fede contro le novità profane di tutti i tempi, e questo senza difficoltà, ma con piena sicurezza » (Prœmium operis, II). In tutta la sua opera, gli piace sottolineare questo obiettivo essenziale delle Encicliche: « mantenere pura e integra l’unità della fede e dei costumi … (Fidei et morum integritatem puritatemque, (Prooemium IV) et animarum concordiam, fidei unitatem et consonam constantemque dogmatum confessionem » (§ 20, III).  – Queste espressioni, almeno per quanto riguarda l’idea che esprimono, ricordano troppo da vicino la prefazione del Bollario perché il confronto non sia necessario. Sembra difficile, inoltre, che Benedetto XIV non conoscesse questa Dissertazione. Come poteva lo storico dei costumi della Chiesa, il Cardinale Lambertini, e l’autore del De institutionibus Ecclesiæ, la cui prima preoccupazione dopo la sua elevazione alla sede papale fu di far continuare dai fratelli Ballerini la pubblicazione delle Lettere dei Papi, iniziata da Dom Coustant. (Epistolæ romanorum pontificum… a S. Clemente I usque ad Innocentinm III …studio et labore Domni Pétri Coustant, presbyteri et monachi Ördinis S. Benedicti e Congregatione S. Mauri. Tomus 1, ab anno Christi 67 ad annum 440. Parisiis, MDCCXXL – La pubblicazione è stata prematuramente interrotta dalla morte dell’autore. Solo il primo volume è stato pubblicato).  Come, finalmente, questo avido collezionista di libri nuovi (Cf. DE HEEG. Corrispondenza di Benedetto XIV, vol. I, p. 320, lettera del 26 aprile 1747), poteva egli ignorare un’opera pubblicata a Torino su un argomento che gli stava tanto a cuore, solo quattro anni prima della sua elevazione alla sede di Bologna?  In ogni caso, i dettagli forniti da Bencini, non solo sul ruolo delle Encicliche, ma sul modo stesso della loro efficacia, gettano una luce singolare sulle linee concise del Bollario.  Per l’abate di Saint-Pons, come per Benedetto XIV, le Encicliche sono effettivamente lettere circolari. Il loro nome deriva dal fatto che i loro destinatari sono ovunque, e Bencini cita Esichio che definisce il termine: “quod ubique circumit, ubique permeat“. Erano ancora chiamate “cattoliche” da καθολος universus, nella misura in cui erano rivolte all’universalità del mondo cristiano; così le Epistole cattoliche potrebbero essere considerate le prime Encicliche.  – Tuttavia, si era soliti riservare l’espressione “lettera Enciclica” a quelle indirizzate a tutti i Vescovi, o almeno a un grande gruppo di essi, da altri Vescovi e soprattutto dal Sommo Pontefice o dai patriarchi orientali (Quelle inviati annualmente ai loro suffraganei dai Patriarchi di Alessandria sono rimaste famose. Non solo tenevano i Vescovi d’Egitto in stretta comunione, ma erano indirizzate a Costantinopoli, dove venivano lette nella festa di Pasqua, mentre allo stesso tempo la lettera del patriarca di Costantinopoli veniva letta ad Alessandria. (PREDESTINATUS, Hær. I,, 89, PL. 53, 619). Sant’Epifanio parla anche di 70 Encicliche indirizzate da Sant’Alessandro ai vescovi della Palestina riguardo ad Ario. (EPIPH. Hær, LXIX, 4. P. G. 42-210.). Queste circolari, affidate a messaggeri scelti con cura (A volte Vescovi, per lo più diaconi. Cfr. BENCINI, § IX, De Dominicis cursoribus), dovevano essere pubblicamente ricevute, se non sempre sottoscritte dai loro destinatari… come segno di comunione con le chiese da cui emanavano queste lettere (Ursazio e Valente tentarono invano di fare pressione sui Vescovi per ottenere questa firma, per la loro stessa lettera: aut subscribite, aut ab ecclesia recedite. Episodio. S. Athanasii ad Solitarios. PG. 25, 733). Così, firmare un’Enciclica scritta da un eretico significava rendersi partecipe dei suoi errori, mentre rifiutare di aderire a una lettera di Roma o di ricevere la sua approvazione significava tagliarsi fuori dalla comunione cattolica (Esigenda di Papa Liberius nei confronti degli ariani che, in caso di rifiuto, dovevano essere esclusi dalla Chiesa). Possiamo vedere quale arma facile fossero le Encicliche, sempre a portata di mano, per chiudere ogni via di fuga agli errori e denunciarli a tutta la cattolicità. Per condannare uno scisma, non c’era bisogno di convocare un Concilio di Vescovi; soprattutto in tempi di persecuzione, quando tali riunioni risultavano impossibili, le Encicliche costituivano una sorta di Concilio permanente (Aug. Ad Bonif. I, 4. PL. 44, 638: …ut vero congregatione Synodi opus erat ut aperta pernicies damnaretur; quasi nulla hæresis aliquando sine Synodi congregatione damnata sit. Cfr. BENCINI, Dissertatio, proœmium, XIII: Erat nimirum, instar synodorum ipsa præsulum constabilita inter se… (B. elenca qui le varie forme di Encicliche) communicatio dogmatum fidei imitas et recta Divinarum Traditionum intelligentia).  Infatti, una volta sottoscritte dai Patriarchi e dai loro suffraganei, e soprattutto con l’approvazione romana, se non emanavano dal Sommo Pontefice, le Encicliche diventavano in un certo senso un atto del Magistero universale della Chiesa, in ogni caso, un segno indiscutibile della fede unica e cattolica e di conseguenza dell’autenticità del dogma (Così l’Enciclica sottoscritta da Papa Vigilio e dai Patriarchi di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme con la quale si condanna l’origenismo. LIBERATUS, Brev. c. 23. Acta Conc. Oec. Berlino, II, 5, p. 140. Vedi anche Cassiano, De Inc. I, c. Ult. PL. 50, 29: Sufficere ergo sotus nunc ad confutandum hæresim consensus omnium; quia indubitata veritatis manifestatio est auctoritas nniversorum; – e BENCINI, Dissertatio. § 4, ÎX: Encyclicas. communi episcoporum in suis cathedris sedentium consensu firmatas, representare Magisterium Ecclesiæ, earumque osares nota hæresis esse puniendos).Con il loro stesso rifiuto di aderire, i dissidenti si classificano tra gli eretici o scismatici.  Non dobbiamo quindi sorprenderci di sentire Sant’Alessandro di Alessandria parlare delle Encicliche come del “rimedio per eccellenza”, remedia præcipuo (Lettera I contro Arius, PG. 18, 570. 5), contro l’errore, San Gregorio di Nazianzo vedendo in essi i “segni di comunione”, communionis indices (S. GREG. DE NAZ. Epist. I ad Cledonium, PG. 37, 177), grazie al quale i Vescovi fedeli si distinguono dagli apollinaristi, e Sant’Avit assegna loro come obiettivo proprio quello che li farà riprendere da Benedetto XIV: stringere i legami di carità tra i Vescovi (Cfr. Epist. 27, 5 5 , 8 0 , 8 7 . P. L. 59, col. 243 e seguenti).  Segni di accordo tra le Chiese, le Encicliche erano considerate come testimonianze sicure della tradizione universale solo se avevano ricevuto almeno un’approvazione da Roma: Se infatti – citiamo ancora M. Côlson, che riassume Sant’Ireneo – i Vescovi di tutto il mondo sono i custodi dell’unica e identica Tradizione, la predicano, la informano, la trasmettono, con una sola anima, un solo cuore, una sola bocca, il Vescovo di Roma appare come il “sacramento” o segno efficace dell’unità della Chiesa universale, o nelle parole di Sant’Ireneo, la manifestazione più piena dell’unità e dell’identità della fede vivificante conservata nella Chiesa dagli Apostoli fino ai giorni nostri e tramandata con verità. Egli non è il custode della Tradizione. Ogni Vescovo nella sua chiesa custodisce questa Tradizione. Infatti, la Tradizione degli Apostoli è manifesta in tutto il mondo; chiunque voglia trovare la verità deve solo cercare in qualsiasi chiesa dove si possono enumerare i Vescovi istituiti dagli Apostoli e dai loro successori fino a noi. Il Vescovo in ogni chiesa è per i fedeli il sacramento dell’unità cattolica, è la bocca della Chiesa, predica, insegna, trasmette la Tradizione, la stessa cosa, in una lingua diversa. Qui e là egli incarna la Chiesa universale. Ma lo incarna solo nella misura in cui è nell’unità della cattolicità. E il ruolo del Vescovo di Roma è proprio quello di essere il sacramento di questa unità cattolica, perché è con la sua Chiesa e per l’autorità della sua origine, che ogni chiesa, cioè tutti i fedeli di ogni luogo, deve concordare, ed è in lei che, attraverso questi fedeli” (Ad. Hær. III, 2, PG. 7, 849. Il significato delle ultime parole, t ab his qui sunt undique, è molto contestato. Vedi JACQUIN, Année Thèologique, 1948, p. 95 e seguenti; e Revue des Sciences religieuses, gennaio 1950, p. 72; Christine MOHRMANN, Vigiliæ christianæ, gennaio 1949, p. 57 e seguenti), è stata conservata la Tradizione che viene dagli Apostoli (Art. citato, p. 203-294). Non ci stupiremo, quindi, di vedere i Papi affermare la necessità di questa approvazione da parte loro delle lettere episcopali. San Innocenzo si rivolge in questi termini ai Padri del Sinodo africano che avevano chiesto la conferma del decreto che volevano comunicare alle altre province:  I Padri, nei tempi passati, sotto un’ispirazione non solo umana, ma divina, decisero che qualsiasi cosa fosse fatta nelle province lontane non avrebbe avuto un valore definitivo finché non fosse stata sottoposta alla Santa Sede e avesse ricevuto dalla sua autorità tutta la sua forza (Epist. 29, 1. PL. 20, 582).  È dunque di questa sanzione del capo della cattolicità che i difensori della fede amano avvalersi nelle loro controversie con gli eretici. Il diacono Rustico, per esempio, nel basarsi sulle Encicliche di San Cirillo contro Nestorio, non manca di sottolineare che esse “sono state approvate da Roma: Epistolæ Cyrilli ad Nestorium quas et sanctissimus Cœlestinus Papa Magnæ Romæ ut proprias suscepit; e inoltre: Istas epistolas, id est suas, et orientalium de pace, transmissas, Cyrillus, Romanae ecclesiae Sedi, a sanctissimo Xisto confirman sategit (Disp. adv. Acephalos, P. L. 67, 1173 e 1176). Gli eretici, a loro volta, cercano di mettere questa autorità dalla loro parte e di sorprendere la vigilanza del Sommo Pontefice: “Se otterremo l’approvazione di Liberio“, dicono Ursatio e Valente, “non tarderemo a trionfare” (S. ATHANASUS, Ad. Solitarios, PG. 25, 733).  – L’imperatore stesso non si tirava indietro nell’offrire doni per ottenere l’adesione di Roma. Ma conosciamo la fiera risposta di Liberio: “Anche se rimango solo, la causa della fede non sarà diminuita, etiamsi solus sim, fidei tamen causa non ideo minuitur” (THEODORETO, Hist. Ecc, I, 2, c. 16. PG. 82, 1035). – Se l’approvazione romana era sufficiente a dare tanta forza alle lettere dei Vescovi provinciali o dei sinodi, quale accoglienza deve essere stata per un’Enciclica scritta dal Papa stesso. Era veramente considerato il segno per eccellenza dell’unità e della comunione di tutto il mondo cattolico “Velut prœlucens fax aderat et verae communionis tessera habebatur” (BENCINI, Dissertatio, § 6, XII).  Questo segno di unità non è mai mancato nella Chiesa. Abbiamo già visto Pio VII, nella sua Enciclica inaugurale, rivendicare una “usanza che risale ai tempi più remoti”. Ora è un’espressione quasi simile quella usata da Giovanni Diacono nella vita di San Gregorio Magno, dove riferisce che egli “secondo l’antica usanza dei suoi predecessori, secundum priscum decessornm morem, inviò la sua Enciclica di presa di possesso ai patriarchi di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme” (Gregorii Magni Vita, II, 8. PL. 75, 88.). Il Papa ricordava i doveri dei pastori, esponeva la professione di fede e denunciava gli eretici (Epis. 25. PL. 77, 468. Cfr. Enciclica inaugurale di San Gelasio, ep. II, PL. 59, 19). – Purtroppo, molte di queste Encicliche dei primi secoli sono andate perdute. Tuttavia, ci vorrebbero pagine intere solo per riassumere il ruolo svolto nella storia della Chiesa da quelle di cui abbiamo conservato le tracce. Qui possiamo solo ricordare rapidamente alcuni fatti e raccogliere alcune testimonianze.  Fu una lettera di San Vittore ai Vescovi d’Oriente che unificò la Chiesa e fissò la festa della Pasqua. Conosciamo le reazioni provocate dalle sanzioni con cui il Pontefice ha minacciato i recalcitranti. L’autorità del suo messaggio, tuttavia, non fu messa in discussione e fu riconosciuta da Vescovi come quello di Efeso, che potevano comunque rivendicare le più venerabili tradizioni apostoliche (Eusebio, H. E. V., 23, 24, PG. 20, 490-507. Un rapido riassunto si trova in COLSON, art. cit, p. 198-201).  Nel caso di quest’ultimo, saranno le Encicliche di San Cornelio ai sinodi africani a condannare gli errori di Novatiano e il suo atteggiamento nei confronti dei lapsi. La corrispondenza di San Cipriano dovrebbe essere riletta, perché è piena di indicazioni su questo argomento. Possiamo accontentarci di conservare una parola della sua lettera ad Antonianum, di cui trasmise gli scritti al Papa, affinché quest’ultimo potesse essere sicuro che Antonianum “comunico con lui, cioè con la Chiesa cattolica; ut… jam sciret te secum, id est cum catholica ecclesia communicare” (Ep. ad Antonianum, I. PL. 3, 768).  L’identificazione della comunione romana con l’appartenenza a tutta la Chiesa cattolica è rivelata anche dalla richiesta dei Vescovi riuniti in sinodo a Tiana, verso i loro fratelli orientali: aderire alle lettere di Liberio e dei Vescovi italiani, comunicare con loro e dare prova scritta della loro unione (Sozomene, Hist. Eccl., VI, 12 PG. 67, 1322-1323). Questa esigenza fu peraltro formulata dallo stesso Liberio nella sua Enciclica: “i recalcitranti daranno per scontato di essere, in compagnia di Ario, dei suoi discepoli e di altri serpenti, sabelliani, patripassiani ed eretici di ogni genere, rimossi ed esclusi dalla comunione della Chiesa che non ammette figli adulteri” (Ep. XV. PL. 8 , 1381. Diamo l’indirizzo e il saluto di questa lettera, dove troviamo, come nei suoi contemporanei, formule quasi simili a quelle delle nostre encicliche moderne. Urbis Romæ episcopus, ad universos Orientis orthodoxos episcopos. Dilectis Fratribus et comministris, …(seguendo i nomi di 64 vescovi) et omnibus Orientis orthodoxis episcopis, Liberius episcopus Italiæ, et Occidentis episcopi, in Domino sempiternam salutem). Di fronte al pelagianesimo, i Papi Innocenzo e Zosimo a loro volta alzarono la voce in Encicliche che i Padri furono d’accordo nel riconoscere come risolutive della controversia senza appello. « Perché esigere di nuovo un esame già istituito dalla Sede Apostolica? – scrive S. Agostino all’eretico Giuliano – Non si tratta più di far esaminare l’eresia dai Vescovi, ma di farla sopprimere dai poteri cristiani » (Ad.. Julianum, I, 2. c. 103, PL. 45, 1183). « Con la risposta del Papa la causa è chiusa… e grazie alle lettere di Innocenzo ogni esitazione su questo punto è rimossa » (Ad Bonif, 1, 2. c. 3. PL. 4 4 , 574).  Capræolus di Cartagine non parla diversamente dell’enciclica di San Zosimo, conosciuta sotto il nome di Tractatoria (Così chiamata da Marius Mercator, probabilmente perché scritta dopo una discussione (tractatus) in un sinodo, o indirizzata ad uno synod. Cfr. DU CANGE; BENCINI, Dissertatio, § 1, VI), a cui si aggiungevano le adesioni episcopali: « A che serve appellarsi al Concilio per cercare di difendere errori già riprovati dalla Sede Apostolica e dalla sentenza unanime dei Vescovi… Mettere in dubbio la dottrina già giudicata è entrare in dubbio contro la fede sempre professata finora » (Lettera al Sinodo di Efeso, PL. 63, 845-847). San Prospero unisce le Encicliche dei due Papi in un omaggio comune: Una volta Innocenzo con la sua spada apostolica decapitò l’errore… e papa Zosimo, di santa memoria, ratificando i Concili d’Africa, mise nelle mani dei Vescovi, per abbattere gli empi, la stessa spada di Pietro: ad impiorum detruncationem, gladio Pétri dexteras omnium armavit antistitum (Adv. Collat, c. 21. PL. 51, 271).  È necessario sottolineare questo testo che mette in evidenza il ruolo esatto della lettera pontificia indirizzata all’episcopato: dargli le armi sostenendolo sull’autorità della Pietra indefettibile. Troviamo lo stesso pensiero, ma presentato sotto l’altra faccia, quella dell’unanimità dei Vescovi intorno a Pietro, in queste parole di Papa San Celestino, alludendo a sua volta alle firme episcopali apposte alla Tractatoria: « La fede cattolica fu finalmente in pace quando Oriente e Occidente avevano colpito gli errori di Pelagio con i colpi di una sola frase: telis unitæ sententiæ » (Epist. XIII ad Nest. PL. 50, 469).  Queste righe sono state scritte nel 430. Dieci anni dopo, San Leone salì alla sede papale, le cui lettere eclisseranno quelle di tutti i suoi predecessori nella loro brillantezza. Sono spesso citati dai Papi (Per esempio, Leone XII, che nella sua enciclica inaugurale Ubi Primum, del 5 maggio 1824, si riferisce a San Leone e lo cita per sottolineare il ruolo del Papa nel mantenere l’unità: Si quis malorum omnium, quæ huc usque deploravimus, et aliorum. .., veram originem inquirere velit, intelliget profecto… semper eam fuisse et esse pertinacem contemptum auctoritatis Ecclesiæ, ejus nempe Ecclesiæ quæ docente S. Leone Magno (sermo 2 de nat. P.), ex ordinatissima caritate in Pétri Sede Petrum suscipit, In Petro ergo omnium fortitudo munitur, et divinæ gratiæ ita ordinatur auxilium, ut firmitas quæ per Chris tu m Petro tribultur, per Petrum apostolis conferatur. – Bullarii Rom. Cont., t. VIII, p. 53-57.), e colui tra loro che, per la tredicesima volta, renderà illustre il nome di Leone sulla Sede di Pietro, vi farà affidamento in quasi tutte le sue Encicliche, come per meglio sottolineare, attraverso quindici secoli, la continuità ininterrotta della stessa tradizione. Non è nostro compito qui seguirli nella storia, ma solo raccogliere alcune testimonianze dell’ineguagliabile autorità che è sempre stata riconosciuta loro. Conosciamo l’accoglienza riservata al Tomo di Leone dai Padri del Concilio di Calcedonia: “Quelli che hanno turbato il sinodo di Efeso poco tempo fa… aderiscano alla lettera di Leone, altrimenti siano condannati e considerati scomunicati” (Sed ant consentiant epistolis Leonis Papae, aut damnationem suscipiant et sciant quia excommunicati sunt. MANSI, vol. VII, 55 B). E la stessa sentenza di scomunica è pronunciata contro Dioscoro per la sola ragione che, al “brigantaggio” di Efeso, si era opposto alla lettura dell’Enciclica pontificia (Concilio di Calcedonia, atto III. HARDUIN, t. 2, p. 379).  Non è solo il Tomo a Flaviano, ma tutte le lettere di San Leone che i Papi hanno imposto come regola di fede, allo stesso modo dei decreti dei Concili. Così tra le condizioni di pace proposte all’imperatore dai legati di Ormisda, è stipulata “l’accettazione del santo Concilio di Calcedonia e le lettere del santo Papa Leone” (Corpus S.E.L. 35, 519. Questo e la maggior parte dei testi citati di seguito si trovano in: Textus et Documenta. 9, S. Leonis Magni Tomus, Romæ, 1932), e la formula di fede imposta cinque anni dopo al Patriarca di Costantinopoli recita: « Noi riceviamo e approviamo tutte le lettere del Beato Papa Leone che trattano della religione cristiana » (Corpus, 35, 521). – Ancora Papa Agapito richiederà alle autorità religiose e politiche di Costantinopoli di firmare una formula simile: probantes per omnia atque amplectentes epistulas beatæ memoriæ Leonis omnes, quas de fide conscripsit (Corpus, 35, 339.). – San Gelasio arriverà al punto di colpire con l’anatema chiunque rifiuti la Lettera di Leone a Flaviano o che osi discuterne anche solo una parte (Decretum Gelasii de Libris recipendis, Texte und U, 38, 4, 1912, p. 37), un anatema che San Gregorio non teme di rinnovare assimilando il rifiuto del Tomo a quello dei quattro concili (S. GREC. MAGN. p. VI, 2. Mon. Germano. Hist. Epis 1.1. p. 382). – Si vede che i Papi del XIX e XX secolo, invocando l’autorità apostolica per le loro lettere, non hanno innovato. Fin dall’inizio, le Encicliche furono considerate come una regola di fede; allontanarsi dalla loro dottrina significava separarsi dalla Chiesa. Forse anche questa autorità rigorosa indiscutibilmente riconosciuta alle lettere dei Papi di un tempo potrebbe fornire un pretesto per un’obiezione: questi venerabili documenti sono i primogeniti delle moderne Encicliche? Non è un grave errore equiparare le une alle altre? Senza dubbio le lettere di San Leone trattano gli articoli del simbolo in modo più diretto di quelle di Leone XIII, dove le conseguenze dei dogmi nella vita sociale sono più studiate. Tuttavia, come Benedetto XIV ha visto chiaramente, hanno tutti lo stesso oggetto: la fede e la morale. Sono anche ispirate dallo stesso pensiero: quello di rafforzare i legami di carità fraterna tra il Papa e i vescovi. Non abbiamo dimenticato i termini in cui Benedetto XIV e Pio VII hanno espresso i loro sentimenti. Non sono un’eco lontana di quelle in cui San Leone, ricevendo le risposte dei suoi fratelli nell’episcopato, lasciava traboccare la sua gioia: “Questa gioia è il frutto dell’amore fraterno del corpo episcopale, che ci permette di gustare in questo scambio epistolare tutto segnato dalla grazia, come la presenza di coloro le cui lettere leggiamo con cuore grato” (Omnium quidem litteras sacerdotum gratum nos relegere animo, fraterni collega charitas faeit, cum per spiritualem gratiam tamquam præsentes amplectimur, quibus sermone epistolis mutuo eommeantibus sociamur. Ep. VI ad Anastasium, I. PL. 54. 617). – Linee come queste non sono testi legislativi o giuridici? Non ricordano piuttosto quella semplicità di corrispondenza fraterna in cui abbiamo già riconosciuto una delle caratteristiche delle Encicliche moderne, e che crea un ultimo tratto di somiglianza tra le Lettere dei primi Papi e le loro controparti più giovani? Questo carattere di ampia e tranquilla esposizione, San Leone stesso lo rivendica per le sue Encicliche: Non è una nuova dottrina che il volume porta, ma un semplice richiamo a « ciò che la Chiesa cattolica crede e insegna universalmente sul mistero dell’incarnazione del Signore » (Epist. 29, PL. 54, 783.). « Le nostre lettere insegneranno alla vostra carità ciò che riteniamo divinamente rivelato e ciò che predichiamo senza cambiare nulla » (Epist. 34. PL. 54, 802, Ep. 33. PL. 54, 799.). E il loro scopo dichiarato è ancora lo stesso che noi, con Benedetto XIV, abbiamo riconosciuto nelle Encicliche: assicurare in tutta la Chiesa l’unità della fede: “ut abolito hoc, qui natus videbatur errore, in laudem et gloriam Dei per totum mundum una sit fides et una eademque confessio. Non dobbiamo quindi stupirci di vedere storici come Harnack e Mons. Batiffol attribuire questo stesso carattere alle lettere di San Leone. Batiffol scrive: « Non dobbiamo cercare nella lettera a Flaviano l’abbondante dottrina di Cirillo o di Teodoreto, ancor meno la scolastica di Leone di Bysanzio. Nessuna definizione della natura o della persona. Leone prende le sue prove dal simbolo battesimale, dalla Scrittura, vuole prove di fatto, concrete, elementari. Non anticipa le obiezioni. Pretende solo di dire ciò che ha imparato. Non si può dire che la sua lettera segni un progresso teologico e dogmatico in relazione all’unione ipostatica. È la cristologia media che il Papa impone come disciplina acquisita ai polemisti orientali e senza entrare nei problemi da loro sollevati (Dic. Thèol. Cat. IX, 1926). Nihil novi, niente di nuovo, disse Harnack a sua volta (Lehrbuch der Dogmengeschichte, II, 42), è portato dalla lettera di Leone. Le Encicliche dei primi secoli, come quelle dei nostri giorni, non sono infatti destinate a modificare il dogma: semplici dichiarazioni della fede romana, la loro ambizione è solo quella di unire in uno stesso insegnamento, intorno a quello di Pietro, i Vescovi di tutto il mondo, e di assicurare così la loro dottrina contro ogni possibilità di errore. Ritroviamo così, alla fine del nostro studio, queste due caratteristiche che una rapida lettura ci aveva fatto riconoscere nelle Encicliche dei tempi moderni e che ci sembravano opposte tra loro. Ma alla luce di un’indagine più precisa sulla natura di queste Lettere e sul loro ruolo proprio, questa antinomia si è risolta per rivelare, al contrario, una mirabile armonia. – Le Encicliche, lettere dei Papi ai loro fratelli nell’episcopato, non sono né decreti né leggi. Sono l’esposizione autentica della dottrina insegnata da Roma, sono situati all’articolazione stessa del Magistero pontificio e di quello della Chiesa universale, sono situati nel punto preciso in cui Pietro, fedele al suo dovere di confermare i suoi fratelli, propone loro il suo insegnamento come pietra incrollabile, fondamento e causa dell’assoluta indefettibilità della Chiesa. Qui siamo d’accordo con la conclusione di M. Colson: « Il Vescovo di Roma è il legame della fraternità episcopale che realizza l’unità di fede e di amore della Chiesa. Egli presiede, lui e la sua chiesa – perché è un tutt’uno del Vescovo con la sua Chiesa – nella carità universale, ed è da questo ruolo che derivano tutti i suoi privilegi, specialmente quello dell’infallibilità che, solo, permette alla successione episcopale di Roma di svolgere il suo ruolo e di essere, nelle parole di Sant’Ireneo, la manifestazione più piena dell’unità e dell’identità della fede vivificante che è stata conservata nella Chiesa fin dagli apostoli e trasmessa con verità » (COLSON, loc. cit. p. 205. 1).  La parola infallibilità è stata appena pronunciata. Le Encicliche avrebbero un titolo per rivendicarne il beneficio? Questa è proprio la domanda che era posta all’inizio del nostro studio. Questo studio può averci fornito alcuni degli elementi necessari per abbozzare una risposta. Sarebbe ora avventato tentare una conclusione?

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE (3)

IL BEATO HOLZHAUSER INTERPRETA L’APOCALISSE: LIBRO QUARTO

IL BEATO HOLZHAUSER INTERPRETA L’APOCALISSE:

LIBRO QUARTO

SUI CAPITOLI OTTO E NOVE

Apertura del settimo Sigillo, e i primi sei Angeli che suonarono la tromba.

SEZIONE I.

SUL CAPITOLO VIII.

I PRIMI QUATTRO ANGELI CHE QUI SUONARONO LA TROMBA.

§ 1.

L’apertura del settimo sigillo.

CAPITOLO VIII, VERSETTI 1-6.

Et cum aperuisset sigillum septimum, factum est silentium in cælo, quasi media hora. Et vidi septem angelos stantes in conspectu Dei: et datæ sunt illis septem tubæ. Et alius angelus venit, et stetit ante altare habens thuribulum aureum: et data sunt illi incensa multa, ut daret de orationibus sanctorum omnium super altare aureum, quod est ante thronum Dei. Et ascendit fumus incensorum de orationibus sanctorum de manu angeli coram Deo. Et accepit angelus thuribulum, et implevit illud de igne altaris, et misit in terram: et facta sunt tonitrua, et voces, et fulgura, et terræmotus magnus. Et septem angeli, qui habebant septem tubas, præparaverunt se ut tuba canerent.

[E avendo aperto il settimo sigillo, sì fece silenzio nel cielo quasi per mezz’ora. E vidi i sette Angeli che stavano dinanzi a Dio: e furono loro date sette trombe. E un altro Angelo venne, e si fermò avanti l’altare, tenendo un turibolo d’oro: e gli furono dati molti profumi affinchè offerisse delle orazioni di tutti i santi sopra l’altare d’oro, che è dinanzi al trono di Dìo.  E il fumo dei profumi delle orazioni dei santi salì dalla mano dell’Angelo davanti a Dio. E l’Angelo prese il turibolo, e lo empiè di fuoco dell’altare, e lo gettò sulla terra, e ne vennero tuoni, e voci, e folgori, e terremoto grande. E i sette Angeli, che avevano le sette trombe, si accinsero a suonarle.]

I. – Nell’apertura dei primi sei sigilli abbiamo visto la guerra della Chiesa contro i Giudei e i Gentili. Ora resta da descrivere, nell’apertura del settimo, la lotta di questa stessa Chiesa contro i principali eresiarchi ed i loro fautori, che tutti, fino alla consumazione dei secoli, sono inclusi sotto questo settimo sigillo. È anche sotto quest’ultimo sigillo che è designata la persecuzione di Giuliano l’Apostata e dei suoi figli, una persecuzione che fu di breve durata e che seguì il regno di Costantino Magno.

Vers. 1. – E quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, cioè quando Nostro Signore Gesù Cristo rivelò a San Giovanni le ultime persecuzioni che avrebbe ancora permesso contro la Sua Chiesa fino alla fine del mondo, ci fu un silenzio in cielo di circa mezz’ora. Questo silenzio annuncia una nuova afflizione che la Chiesa ebbe a subire, in effetti, da Giuliano l’Apostata. Ma poiché questa persecuzione durò poco tempo e questo tiranno fu presto portato via dalla morte, il testo dice: Ci fu silenzio in cielo per circa mezz’ora. C’è una sorta di silenzio tra un popolo quando tutti sono sotto l’impressione di terrore, della paura e dello stupore all’avvicinarsi di nuove calamità. Questo è quello che successe in effetti alla Chiesa di Gesù Cristo al tempo dell’imperatore Giuliano. Si fece silenzio in cielo, cioè nella Chiesa. Giuliano aveva professato la vera fede per vent’anni, anche se negli ultimi dieci anni della sua vita la religione che professava esternamente non era altro che una vile ipocrisia, frutto della paura che Costanzo gli ispirava. Non appena fu sul trono, libero da questo imbarazzo, rinunciò solennemente alla fede di Gesù Cristo. Non contento di questo, si fece incoronare sommo Pontefice con riti impuri, come vediamo in un inno romano composto dal sacerdote Prudenzo. Egli ordinò di riaprire i templi degli dèi per offrire loro delle vittime. Si fece anche pontefice dei sacrifici di Eleusi. Infine, fece grandi sforzi per ricostruire, a favore dei Giudei, il tempio di Gerusalemme che Tito aveva distrutto nell’assedio di quella città. Di contro, Giuliano chiuse le chiese dei Cristiani e proibì loro il sacrificio pubblico della Messa. Così ci fu silenzio nella Chiesa per circa mezz’ora. Ma Dio non sopportò a lungo questo infame persecutore, perché nell’anno 363, dopo un anno e mezzo di regno, fu ferito nella guerra persiana e ne morì. È quindi a proposito che nel testo si dica che questo silenzio durò solo mezz’ora: infatti, dopo la sua morte le chiese dei Cristiani furono riaperte, i templi degli idoli furono chiusi di nuovo, e la Religione di Gesù Cristo ricominciò a godere della sua gioia e del suo riposo sotto gli imperatori Gioviano e Valentiniano, suoi successori, e sotto il Sommo Pontefice San Damaso.

II. Vers. 2. E vidi i sette angeli in piedi davanti alla faccia di Dio; e furono date loro sette trombe. Si farà menzione in seguito di questi sette angeli e delle loro trombe.

Vers. 3. E venne un altro Angelo, che si fermò davanti all’altare. Quest’altro Angelo è San Damaso, che fu eletto Papa; ed è chiamato un altro, perché era l’opposto dei precedenti. Egli è annunciato tra gli altri Angeli di cui si parla qui, perché alcuni di questi lo hanno effettivamente preceduto, ma il maggior numero di essi è venuto dopo di lui. Essi sono rappresentati tutti insieme davanti al trono per ricevervi le trombe; ma gli angeli che seguivano costui qui in questione, cioè San Damaso, lo seguivano solo nel senso che fecero risuonare le loro trombe dopo di lui. Ecco perché ci viene detto, prima di tutto, di questo Papa o Angelo: e venne un altro Angelo, San Damaso che fu eletto Papa, ma non fu subito accettato. E si arrestò davanti all’altare, cioè dopo che San Damaso fu eletto Papa, fu confermato e stabilito nel suo Pontificato. È da notare che alla sua elezione, avvenuta nella basilica di Licino, egli fu sfidato dal diacono Ursicino, e che diverse persone di entrambi i partiti, che si erano formati in questa occasione, furono uccise in quel tempio, dove non ci si accontentò di combattere per i suffragi, ma si fece ricorso addirittura alla forza delle armi. Nonostante questa perturbazione, Damaso fu confermato con il consenso del clero e del popolo, e Ursicino fu assegnato alla Chiesa di Napoli. L’Apostolo esprime deliberatamente questa circostanza: E venne un altro Angelo, che stava davanti all’altare. Cioè, venne un altro Pontefice che governò effettivamente la Chiesa di Dio, perfettamente rappresentata qui dall’altare. Perché è sull’altare che Gesù Cristo viene immolato ed offerto ogni giorno nel santo Sacrificio della Messa, un Sacrificio incruento e propiziatorio accettato ogni giorno dalla mano del sacerdote dal Padre celeste. E venne un altro Angelo, ecc. ….. che portava un turibolo d’oro, cioè un altro Pontefice di grande pietà, saggezza e carità; perché queste tre virtù sono metaforicamente rappresentate dal turibolo d’oro, dal fuoco che vi si trova, e dal fumo che ne esce. Ora, questo Papa eccelleva in queste tre virtù. Fu egli che per primo confermò con la sua autorità la Sacra Bibbia tradotta da San Girolamo, e che fece sostituire il Simbolo niceno con quello costantinopolitano nella Messa. Istituì le collegiali, costruì templi e abbellì notevolmente il culto divino. Inoltre, ordinò che i Salmi fossero cantati a due cori in tutte le chiese, e fece inserire alla fine di ogni Salmo il Gloria Patri, ecc. E gli furono dati molti profumi. Ora segue il frutto della saggezza di questo Pontefice nel culto divino che egli ampliò notevolmente, e nella Religione che fece fiorire in tutta la Chiesa. E gli furono dati molti profumi. Questi profumi sono l’accrescimento ed il fervore della preghiera che egli diffuse tra i servi di Dio. Salmo (CXL, 2): « Che la mia preghiera si elevi, o Signore, come il fumo dell’incenso alla vostra presenza. » Si dice che questi profumi gli furono dati perché li usasse con la sua autorità per restaurare e propagare il culto divino che l’empio Giuliano aveva distrutto, e per rendere omaggio a Dio; affinché presentasse le preghiere di tutti i santi sull’altare d’oro che è davanti al trono di Dio. Queste parole mostrano l’ufficio del Sommo Pontefice, che è quello di estendere e conservare il culto divino da se stesso e con tutti i ministri inferiori, e di riportare la devozione del popolo cristiano a gloria di Dio. Affinché presentasse, ecc…., sull’altare d’oro che è l’Umanità di Gesù Cristo, o l’Agnello che è alla presenza del trono; perché in Lui e attraverso di Lui tutte le nostre preghiere e i nostri meriti sono presentati a Dio, poiché è su Gesù Cristo che si fondano le nostre preghiere e i nostri meriti, ed è attraverso Gesù Cristo che il Padre li accetta come graditi, e senza Gesù Cristo questi meriti e queste preghiere non avrebbero alcun valore per la vita eterna.

Vers. 4.E il fumo dell’incenso che procede dalle preghiere dei santi salì dalla mano dell’angelo davanti a Dio. Cioè, questo miglioramento del culto sacro fu  straordinariamente gradito alla Maestà Divina, perché questo culto era il frutto del lavoro, dell’industria, della saggezza e della devozione di questo santo Pontefice, che qui rappresenta la persona morale della Chiesa universale.

Vers. 5. – E l’Angelo prese l’incensiere, lo riempì di fuoco dall’altare e lo gettò sulla terra; e ci furono tuoni, voci, lampi e un grande terremoto. Seguì un’altra grande e buona opera che fu fatta sotto questo santo Pontefice, cioè il Concilio di Costantinopoli, in cui 150 Padri della Chiesa decretarono il dogma della divinità dello Spirito Santo contro l’empio Macedonio ed i suoi seguaci, che lo negavano, così come Ario aveva osato negarlo in precedenza nella seconda Persona. Ecco perché l’Apostolo San Giovanni dice qui: E l’Angelo prese l’incensiere. L’Angelo, cioè San Damaso, prese il turibolo dell’anatema per far condannare l’empio Macedonio e consegnarlo a satana nel Concilio generale di Costantinopoli, che fu unanime, e la cui unanimità è rappresentata dal turibolo, perché tutti i cuori e le menti vi erano riuniti come in un unico vaso contenente il fuoco della carità. Lo riempì con il fuoco dell’altare, cioè con la divinità dello Spirito Santo, che è designata dal fuoco. Si dice che questo Angelo riempisse l’incensiere con il fuoco dell’altare, perché fu con il consenso universale di tutta la Chiesa, rappresentata dall’altare, che questo Papa, come Capo supremo e giudice delle controversie in materia di fede, dichiarò questa verità della divinità dello Spirito Santo. E lo gettò sulla terra, definendo dall’alto della Cattedra apostolica, e pubblicando, per tutta la terra contro Macedonio e i suoi seguaci, che lo Spirito Santo è la Divinità stessa. E vennero tuoni, cioè scomuniche; e voci, o dichiarazioni di fede nello Spirito Santo; e lampi, cioè minacce di scomunica contro chiunque dovesse in futuro insegnare o credere qualcosa di contrario a questo dogma; ed un grande terremoto, cioè una grande alterazione e agitazione degli spiriti in queste circostanze. L’angelo gettò l’incensiere sulla terra, cioè contro i Macedoniani, spiriti terreni, le cui anime non potevano concepire altro che pensieri servili sullo Spirito Santo. Ed ecco i tuoni, le sante prediche su questo dogma della divinità dello Spirito Santo. E voci divine o lodi sulla sua divinità. E fulmini, cioè miracoli brillanti operati dalla sua virtù. E un grande terremoto; perché da questo i cuori degli uomini furono mossi e disposti a concepire pensieri giusti sulla divinità dello Spirito Santo.

Vers. 6. – Subito i sette Angeli che avevano le sette trombe si prepararono a suonarle. Vedremo, nel prossimo paragrafo, chi sono questi sette angeli con le loro trombe.

§ II

I primi due Angeli che suonarono la tromba.

CAPITOLO VIII VERSETTI 7-9.

Et primus angelus tuba cecinit, et facta est grando, et ignis, mista in sanguine, et missum est in terram, et tertia pars terræ combusta est, et tertia pars arborum concremata est, et omne foenum viride combustum est. Et secundus angelus tuba cecinit: et tamquam mons magnus igne ardens missus est in mare, et facta est tertia pars maris sanguis, et mortua est tertia pars creaturæ eorum, quæ habebant animas in mari, et tertia pars navium interiit.

[E il primo Angelo diede fiato alla tromba, e si fece grandine e fuoco mescolati con sangue, e furono gettati sopra la terra, e la terza parte della terra fu arsa, e la terza parte degli alberi furono arsi, e ogni erba verde fu arsa. E il secondo Angelo diede fiato alla tromba: e fu gettato nel mare quasi un gran monte ardente di fuoco, e la terza parte del mare diventò sangue, e la terza parte delle creature animate del mare morì, e la terza parte delle navi perì.]

I. Con i quattro angeli che suonano la tromba, che sono il soggetto dei prossimi due paragrafi, intendiamo gli eresiarchi che, dopo la sconfitta dei Giudei e dei gentili, iniziarono una nuova guerra contro la Chiesa di Gesù Cristo, attaccando il mistero della Santissima Trinità, la Divinità di Cristo e dello Spirito Santo, l’Umanità, la Persona, la Natura e la Volontà del Verbo incarnato, etc. Questi quattro eresiarchi rappresentano l’universalità di tutti gli altri eretici che derivano quasi tutti la loro origine da questi quattro principali, e che fondarono i loro errori sulle false dottrine di questi. Questo numero quattro è scelto di proposito, per similitudine con il numero degli animali, o dei quattro Evangelisti. Infatti, come la verità doveva essere predicata per le quattro parti del mondo, e seminata come grano dai quattro Evangelisti, così Dio premise che l’errore o la confusione fosse diffusa anche da questi quattro angeli che rappresentano tutti gli eretici. 1° Il diavolo, l’antico nemico dell’umanità, il padre degli eretici e dei bugiardi, si sforza di imitare ciò che Gesù-Cristo fa per la salvezza degli uomini, con atti simili nella forma esteriore, ma che in realtà tendono direttamente alla distruzione di ogni verità e di ogni bene. 2°. Si suona la tromba quando si vuole fare la guerra e prepararsi alla battaglia, o quando si vuole promulgare un decreto. Ora, il primo di questi atti è adatto agli ultimi tre angeli, e il secondo è adatto agli eresiarchi che, pieni di orgoglio, hanno diffuso i loro impuri dogmi ed errori in tutto il mondo in tempi diversi.

Vers. 7. – Il primo angelo suonò la tromba. Questo primo angelo fu Ario, un sacerdote di Alessandria, che, nell’anno di Gesù Cristo 315, sotto Alessandro, Vescovo di quella città e sotto l’imperatore Costantino il Grande e il Papa San Silvestro, osarono insegnare che Gesù Cristo è solo simile al Padre, ma non ha la sua stessa sostanza. Fu contro questa eresia che si tenne il primo Concilio di Nicea, uno dei quattro principali Concili di quel tempo, al quale aderirono 318 Vescovi cattolici. Ario, Fotino e Sabellio furono condannati. Sebbene Ario sia apparso prima di Giuliano l’Apostata e di Papa Damaso, il testo parla di lui al secondo luogo, perché fu solo dopo questi che la sua dottrina fu propagata e sviluppata a tal punto che la Chiesa ne gemette, ed il Breviario Romano, in occasione della festa di San Damaso, che si celebra l’11 dicembre, dice: “Il mondo si stupì nel vedersi ariano”. – Grandine e fuoco misto a sangue caddero sulla terra, e la terza parte della terra e degli alberi fu bruciata, e tutta l’erba verde è stata consumata. Qui seguono le tempeste, le lotte e gli immensi danni che la cristianità ha dovuto subire al suono di questa tromba. La grandine cadde sulla terra. Queste parole annunciano un temporale molto tempestoso che, nel linguaggio ordinario, viene solitamente indicato come una grandinata; questa tempesta infatti rovinò e divise il regno di Cristo in quel tempo. Leggiamo in Hist. eccl. 1. 10: « A causa di questa tempesta il volto della Chiesa divenne livido e orribile. Infatti, non era più combattuta da nemici stranieri come prima, ma era devastata da guerre e da lotte intestine. I fedeli si anatemizzavano a vicenda, e tutti pretendevano di essere nel seno della verità. »  La proprietà della grandine è quella di devastare i raccolti più fiorenti, i vigneti ed i campi, e di distruggere fiori, alberi e frutti, lasciando dietro di sé tracce di rovina; e tale fu la terribile conseguenza dell’eresia di Ario, che distrusse, per così dire, tutto lo splendore che il grande Costantino aveva dato alla Chiesa di Cristo. Grandine e fuoco misto a sangue caddero sulla terra, cioè il fuoco della gelosia e la grandine del dissenso che faceva scorrere il sangue, soprattutto sotto l’imperatore Valente, che, caduto in questa terribile eresia, perseguitò i Cattolici, a volte bruciandoli, a volte massacrandoli con il ferro o con altri nuovi generi di supplizi. – Cadde sulla terra, etc., perché quasi tutto l’universo era infettato da questo veleno, che penetrava ovunque, e che esercitò la sua influenza maligna per tanto lungo tempo, perché piaceva a quasi tutti gli uomini. E la terza parte della terra e degli alberi fu bruciata, e tutta l’erba verde fu consumata. Queste parole denotano la caduta generale dei Cristiani di quel tempo, e il notevole declino della vera Chiesa. Infatti, San Giovanni parla qui della terza parte della cristianità che disertò, cioè la terza parte dei laici, o del popolo, che egli designa con la parola terra, perché questa porzione del regno di Cristo era interamente assorbita dalle cose terrene e mondane. L’Apostolo parla anche della terza parte del clero, che egli designa con il termine di alberi, perché i sacerdoti devono essere superiori ai semplici fedeli, nella conoscenza delle sacre Scritture e nella pratica delle cose celesti, etc. Inoltre, gli ecclesiastici sono come alberi che devono dare frutti soprannaturali nella loro stagione, con la loro vita e la loro morale; e devono produrre foglie e frutti dai loro buoni esempi. Ora la terza parte di questi alberi perì, poiché, secondo la relazione di Sant’Ilario, 105 Vescovi furono infettati dall’errore ariano. E tutta l’erba fu consumata. San Giovanni si riferisce qui soprattutto ai Goti, che possono essere considerati come “erba verde”, perché, essendo disposti ad abbracciare il Cristianesimo, chiesero all’imperatore Valente dei sacerdoti per istruirli nei misteri e nei sacramenti della fede cattolica. Ma questo principe eretico mandò loro, invece, dei ministri ariani che li corruppero. Questa infame perfidia merita, senza dubbio, di essere punita con un furore tutto speciale da parte delle sue stesse vittime, nelle fiamme vendicative dell’eternità! Anno di Cristo 378.

II. Vers. 8Il secondo angelo suonò la tromba. Questo secondo angelo era Macedonio, Vescovo di Costantinopoli, che fece risentire le sue bestemmie contro lo Spirito Santo, rappresentandolo come una semplice creatura e come il servo del Figlio. Questo nuovo errore fu contrastato dal Concilio Ecumenico di Costantinopoli, il secondo dei Concili generali di quel tempo, al quale aderirono 150 Vescovi sotto Graziano e l’imperatore Teodosio, ed il Papa San Damaso nell’anno 381. E cadde nel mare come una grande montagna in fiamme. Questo eresiarca è paragonato ad una grande montagna in fiamme, a causa del suo orgoglio, della sua ambizione e della sua abominevole superbia, compiacendosi del suo errore con cui non negava, come Ario, la divinità del Figlio e dello Spirito Santo, ma negava solo la divinità dello Spirito Santo, dicendo che non è consustanziale al Padre. – Quest’uomo empio è raffigurato come un fuoco ardente, perché, essendo stato rigettato dalla sua sede episcopale, si infiammò, e bruciando di invidia, rabbia e furore, ed essendo stato costretto a ritirarsi come privato in un luogo segreto, chiamato i Chiostri, vicino a Costantinopoli, non cessò di vomitare dalla sua bocca impura il fuoco delle sue bestemmie contro lo Spirito Santo. E cadde nel mare. 1° Qui il mare è inteso a significare il mistero della Santa Trinità, che è impenetrabile agli occhi dell’intelligenza umana, come le profondità del mare lo sono ai nostri occhi, ed infinitamente di più. Inoltre, come le acque che bagnano la terra escono dal mare per ritornarvi, così tutti i beni naturali e soprannaturali vengono da Dio, uno in tre Persone, e devono tornare a questo stesso principio dal quale decorrono. 2° Il mare qui rappresenta lo stesso Spirito Santo; perché come il mare dà vita e prosperità a tutte le creature che sono in esso, che senza di esso non potrebbero esistere, così lo Spirito Santo è il mare vivificante in cui tutti noi abbiamo ricevuto la vita delle nostre anime nel Battesimo, ed è attraverso lo Spirito Santo che viviamo, perché se non fossimo irrigati con le sue acque della grazia, moriremmo presto. 3°. Per mare intendiamo ancora la Chiesa, a causa del Battesimo, poiché essa può essere considerata come il mare, dal momento che, come il mare è il ricettacolo di tutte le acque, così la Chiesa riceve e raccoglie tutti i fedeli attraverso il Battesimo. 4°. Il mare rappresenta anche il mondo, che è, infatti, come un mare in movimento, agitato dalle onde delle tentazioni e delle avversità, e che contiene il bene mescolato al male, proprio come il mare contiene i pesci buoni e quelli cattivi. – Ora, questa comparazione del mare in tutti i suoi significati ed accezioni qui citati, si applica perfettamente a questa grande montagna ardente caduta in questo mare di cui parla San Giovanni. Basta considerare attentamente la questione per convincersene. – E la terza parte del mare divenne sangue. 1° Il sangue qui rappresenta, in senso figurato, lo sconvolgimento che fu manifestato esternamente da questa eresia, riguardo alla credenza allo Spirito Santo e alla Santa Trinità, e riguardo al suo significato della Chiesa. 2° Si deve comprendere anche questo sangue nel suo significato proprio; infatti, questa eresia di Macedonio, come quella di Ario, fece versare molto sangue nel mondo, come si vede dalla storia della Chiesa.

Vers. 9. E la terza parte delle creature che vivono nel mare, morì, cioè la terza parte dei Cristiani perse la vita dell’anima che avevano prima attraverso la vera fede e l’amore nello Spirito Santo, quando ancora appartenevano alla Chiesa di Gesù Cristo, nella quale solo si può avere vita. E la terza parte delle creature che vivono nel mondo morì, cioè la terza parte dei Cristiani ha perso la vita dell’anima che prima  possedevano attraverso la vera fede e l’amore nello Spirito Santo, quando ancora appartenevano alla Chiesa di Gesù Cristo, nella quale solo si può avere vita. Così tutti coloro che abbandonarono la Chiesa per aderire alla perfidia di questa nuova eresia perirono immediatamente. Infatti, come pochi sono i pesci che possono vivere fuori dal mare, così sono poche le anime, e ancora meno, che possono vivere ed essere salvate fuori dalla vera Chiesa di Gesù Cristo. La terza parte è qui espressa in modo definito, ma va intesa in senso indefinito: significa in realtà una grande e notevole parte della cristianità. E la terza parte delle navi perì. Vale a dire che un numero considerevole di prelati e pastori d’anime furono infettati da questa eresia, quando avrebbero essi dovuto condurre i fedeli al porto sicuro della salvezza.

§ III.

Del terzo e quarto angelo.

CAPITOLO VIII. VERSETTI 10-13.

Et tertius angelus tuba cecinit: et cecidit de caelo stella magna, ardens tamquam facula, et cecidit in tertiam partem fluminum, et in fontes aquarum: et nomen stellae dicitur Absinthium, et facta est tertia pars aquarum in absinthium; et multi hominum mortui sunt de aquis, quia amaræ factæ sunt. Et quartus angelus tuba cecinit: et percussa est tertia pars solis, et tertia pars lunæ, et tertia pars stellarum, ita ut obscuraretur tertia pars eorum, et diei non luceret pars tertia, et noctis similiter. Et vidi, et audivi vocem unius aquilae volantis per medium cæli dicentis voce magna: Væ, væ, væ habitantibus in terra de ceteris vocibus trium angelorum, qui erant tuba canituri.

[E il terzo Angelo diede fiato alla tromba: e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una fiaccola, e cadde nella terza parte dei fiumi e delle fontane: e il nome della stella si dice Assenzio; e la terza parte dell’acque diventò assenzio: e molti uomini morirono di quelle acque, perché diventate amare. E il quarto Angelo diede fiato alla tromba; e fu percossa la terza parte del sole, e la terza parte della luna, e la terza parte delle stelle, di modo che la loro terza parte fu oscurata, e la terza parte del giorno non splendeva e similmente della notte. E vidi, e udii la voce di un’aquila che volava per mezzo il cielo, e con gran voce diceva: Guai, guai, guai agli abitanti della terra per le altre voci dei tre Angeli che stanno per suonare la tromba.]

I. Vers. 10Il terzo angelo suonò la tromba. Questo terzo angelo era l’eresiarca Pelagio, che aveva come discepolo ed imitatore il suo contemporaneo Celestino. Entrambi erano monaci. Essi propagarono i loro errori al tempo degli imperatori Onorio ed Arcadio, e sotto il Pontificato di Innocenzo I e di San Agostino, Vescovo di Ippona. Fu in questa occasione che la Chiesa celebrò il Concilio di Milano, che li condannò nell’anno 416. Anche il Concilio generale di Efeso fu riunito in quel periodo contro Nestorio. Pelagio infettò la Siria e le isole britanniche, sua patria, con la sua eresia, ed i suoi seguaci fecero lo stesso in altre terre. Pelagio, supponendo che il libero arbitrio debba essere anteposto alla grazia divina, insegnò: 1° che non è per la misericordia di Dio a causa di Gesù Cristo, e senza merito da parte nostra, che l’uomo è giustificato, ma che è attraverso le proprie virtù e le buone opere naturali che egli può ottenere per sé una vera e solida giustizia davanti a Dio; e che non è per la fede di Gesù Cristo, ma per le nostre forze, che possiamo ottenere la remissione dei nostri peccati. – 2°. Egli insegnò che la morte di Adamo non fu una punizione per il peccato, ma una conseguenza delle condizioni della natura. 3°. Egli affermò pure che il Battesimo non fosse necessario ai bambini, perché negava l’esistenza del peccato originale. 4°. Egli disse che i giusti sono esenti dal peccato di questo mondo, perché una volta che un uomo è diventato giusto, non può più peccare. 5°. Una volta che un uomo ha ricevuto la grazia del Battesimo, non può più abusare del suo libero arbitrio e non può più commettere il peccato. 6°. Infine, predicò che le preghiere della Chiesa per la conversione degli infedeli e dei peccatori o per la perseveranza dei Giusti fossero inutile, e che il libero arbitrio sia sufficiente per tutti.   – Ora è di questo eresiarca che l’Apostolo dice nella sua Apocalisse: Il terzo angelo suonò la tromba, cioè Pelagio cominciò a promulgare i suoi abominevoli vaneggiamenti. E una grande stella, ardente come una torcia, cadde dal cielo. Questa stella era Celestino, il suo discepolo e imitatore che, al suono della tromba del suo maestro, cadde dalla Chiesa militante nell’eresia. È chiamata una grande stella, perché era un uomo colto ed un uomo religioso, due qualità che davano alla sua dottrina un’apparenza di verità. Ecco perché l’Apostolo dice di questa stella … che bruciava come una torcia. Con queste parole esprime il potere di questo eresiarca. Poiché con la brillantezza della sua letteratura e sotto il suo abito di religioso, fu in grado di dare alla sua falsa dottrina una tale apparenza di verità e santità che riuscì a contagiare e sedurre un gran numero di uomini. È chiamato ardente, perché era un acerrimo nemico ed un formidabile avversario della grazia dello Spirito Santo. E cadde sulla terza parte dei fiumi e sulle fontane. I fiumi e le fontane sono una metafora usata da San Giovanni per esprimere il Battesimo e le grazie che lo Spirito Santo concede ai giusti in questa vita. Ora, questi sono i fiumi e le fontane di grazia, di cui questo eresiarca ha avvelenato la terza parte, facendo seccare queste sorgenti per un numero considerevole di fedeli che hanno smesso di credere in loro ed attingere da loro.

Vers. 11. – Il nome della stella era assenzio. Queste parole esprimono la proprietà di questa eresia che consisteva nel rendere la grazia dello Spirito Santo amara, odiosa e insipida agli uomini. Infatti, come l’acqua dolce è piacevole e desiderabile per chi ha sete, così la grazia dello Spirito Santo ed il Battesimo sono desiderabili per i peccatori, quando hanno fede in Gesù Cristo. Ma questo demone gettò l’assenzio della sua infame eresia su queste acque, e le rese amare agli uomini, che riempì di presunzione delle loro proprie forze e del loro libero arbitrio; dal momento che senza la grazia di Dio, la pratica delle buone opere è per sua natura amara come l’assenzio, specialmente dopo il peccato originale. E la terza parte delle acque fu trasformata in assenzio, cioè una grande e notevole parte dei credenti fu infettata e corrotta da questa empietà. E molti uomini morirono a causa delle acque, perché erano amare. Per uomini, l’Apostolo designa i prudenti ed i sapienti del mondo che sono morti della morte dell’anima, a causa delle acque, cioè a causa di quei dogmi perversi sulla grazia e sul Battesimo. Perché erano amari nell’apparenza e nella stima e nella falsa credenza degli uomini che li consideravano così, mentre al contrario erano pieni della dolcezza dello Spirito Santo che riempie l’anima alterata del peccatore con le acque della sua grazia.

II. Vers. 12. – Il quarto angelo suonò la tromba. Questo quarto angelo era l’eresiarca Nestorio, Vescovo di Costantinopoli, che apparve sotto Teodosio il Giovane e Papa Celestino, nell’anno di Cristo 428. In questa occasione fu convocato il Concilio generale di Efeso, il terzo dei quattro principali Concili di quel tempo, che condannò Nestorio per aver insegnato contro la verità della fede cattolica che Gesù Cristo, il Figlio di Dio, non era nato dalla beata Vergine Maria come Dio, ma solo come uomo; e che quindi, Maria non dovrebbe essere chiamata la Madre di Dio, ma solo la Madre di Cristo. Egli diceva anche che c’erano due persone in Gesù Cristo, come ci sono due nature, cioè la persona divina e la persona umana. Lo stesso Eutiche combatté mirabilmente questa eresia al tempo del Concilio; ma poiché si lasciò trascinare dall’odio contro la falsa dottrina di Nestorio, se ne dimenticò fino al punto di negare non solo le due persone in Gesù Cristo, il che era giusto, ma negò anche la le due nature, così che accusava coloro che confessavano esservi due nature in Gesù Cristo di essere nestoriani, sebbene fossero ben distinte l’una dall’altra. Questo nuovo eresiarca cadde in una tale follia che insegnò che Cristo non era nato dalla Vergine Maria secondo la carne, ma che il suo corpo, come raggio di luce solare, era sceso dal cielo sulla terra nel suo grembo, e che al momento della sua incarnazione, la sua carne fu cambiata nella Divinità. Così la prima di queste eresie fu l’occasione della seconda, nell’anno 448. Si convocò contro costui il Concilio di Calcedonia, l’ultimo dei quattro principali Concili di quel tempo sotto l’imperatore Marciano e il sovrano Pontefice Leone I, nell’anno 451. È per questa occasione che San Giovanni dice nel contesto: Il quarto angelo, Nestorio, suonò la tromba, predicando questa eresia. E fu colpita la terza parte del sole e la terza parte della luna. Il sole è inteso qui come la divinità e la luna come l’umanità di Cristo che è come lo sgabello di Dio. Il sole significa anche Gesù Cristo, e la luna la beata Vergine Maria, o la Chiesa Cattolica, tutti colpiti o attaccati sia dall’eresia di Nestorio che da quella di Eutiche, se non intrinsecamente, poiché in sé sono invulnerabili, almeno relativamente ai fedeli credenti che furono sedotti e colpiti di cecità dalle tenebre di questi errori.  – E la terza parte delle stelle, etc. – Le stelle sono i Vescovi, i prelati e i dottori che, essendosi lasciati avvolgere e accecare dalla notte di questi errori, si smarrirono e lasciarono la vera Chiesa di Cristo. E questi eresiarchi bestemmiavano contro il Nuovo e l’Antico Testamento e contro il Vangelo e i profeti. Perciò San Giovanni aggiunge subito: Così che la loro terza parte si oscurò, e il giorno perse la terza parte della sua luce, e la notte pure. Vale a dire, che le principali testimonianze del Nuovo Testamento, espressione del giorno, e quelle dell’Antico Testamento, designante la notte, riguardanti la vera umanità di Cristo, la sua incarnazione nel seno della beata Vergine Maria, e l’unità della sua Persona divina, furono così oscurate nella mente dei fedeli dalla perfidia di questi due eresiarchi, che queste testimonianze cessarono di brillare in tutta la loro verità agli occhi dei fedeli. Ora queste quattro eresie di cui si parla qui furono come la porta d’ingresso di tutte le eresie che seguirono, e anche di quelle che precedettero, poiché questi furono i prodromi, e quelle le conseguenze.

III. Vers. 13. – E vidi e udii la voce di un’aquila che volava in mezzo all’aria e diceva ad alta voce: “Guai, guai, guai a quelli che abitano sulla terra a causa dei tre angeli che devono suonare la tromba. In questo versetto, San Giovanni annuncia gli immensi mali e le tribolazioni che verranno sul mondo intero alla voce dei tre ultimi angeli. Una parte di queste calamità fu causata dalle precedenti eresie, e l’altra parte sarà prodotta dagli errori che descriveremo nei capitoli seguenti. – E vidi e sentii la voce di un’aquila che volava in mezzo all’aria, ecc. Quest’aquila è San Giovanni Evangelista stesso, che è salito nelle alte regioni del cielo, attraverso la rivelazione che gli è stata data. Egli vedeva nel suo spirito tutti gli eventi che dovevano essere compiuti nella Chiesa nel tempo, fino alla consumazione dei tempi. E poiché gli orrori di questi ultimi eventi dovevano superare anche quelli dei precedenti, si preoccupò di informarne tutta la cristianità, affinché i fedeli di buona volontà che ne sarebbero stati testimoni non si scandalizzassero, né cadessero o fossero fuorviati, perché i colpi che si possono prevedere sono solitamente meno funesti e disastrosi. Ho sentito la voce di un’aquila, etc, …che diceva ad alta voce, per fare presagire la grandezza delle tribolazioni avvenire: Guai! Guai, guai, guai agli abitanti della terra, a causa dei tre angeli che devono suonare la tromba. Per gli abitanti della terra si intende l’intera razza umana, ivi compresi i buoni ed i cattivi; perché tutti saranno vittime di questi eventi, come vedremo più avanti. – (Da ciò che è stato appena detto su quest’aquila che rappresenta San Giovanni Evangelista stesso, possiamo capire perché la sua Apocalisse sia stata così a lungo fraintesa; e possiamo vedere che lo scopo di questa rivelazione era soprattutto quello di informare la Chiesa degli ultimi e più grandi mali che dovevano affliggerla.).

SEZIONE II.

SUL CAPITOLO IX.

DEL QUINTO E SESTO ANGELO.

§ I.

Del quinto angelo che suonò la tromba.

CAPITOLO IX. VERSETTI 1-12.

Et quintus angelus tuba cecinit: et vidi stellam de caelo cecidisse in terram, et data est ei clavis putei abyssi. Et aperuit puteum abyssi: et ascendit fumus putei, sicut fumus fornacis magnæ: et obscuratus est sol, et aer de fumo putei: et de fumo putei exierunt locustæ in terram, et data est illis potestas, sicut habent potestatem scorpiones terræ: et præceptum est illis ne laederent foenum terrae, neque omne viride, neque omnem arborem : nisi tantum homines, qui non habent signum Dei in frontibus suis: et datum est illis ne occiderent eos: sed ut cruciarent mensibus quinque: et cruciatus eorum, ut cruciatus scorpii cum percutit hominem. Et in diebus illis quærent homines mortem, et non invenient eam: et desiderabunt mori, et fugiet mors ab eis. Et similitudines locustarum, similes equis paratis in prælium: et super capita earum tamquam coronae similes auro: et facies earum tamquam facies hominum. Et habebant capillos sicut capillos mulierum. Et dentes earum, sicut dentes leonum erant: et habebant loricas sicut loricas ferreas, et vox alarum earum sicut vox curruum equorum multorum currentium in bellum: et habebant caudas similes scorpionum, et aculei erant in caudis earum: et potestas earum nocere hominibus mensibus quinque: et habebant super se regem angelum abyssi cui nomen hebraice Abaddon, græce autem Apollyon, latine habens nomen Exterminans. Væ unum abiit, et ecce veniunt adhuc duo væ post hæc.

[E il quinto Angelo diede fiato alla tromba: e vidi una stella caduta dal cielo sopra la terra, e gli fu data la chiave del pozzo dell’abisso. E aprì il pozzo dell’abisso: e dal pozzo salì un fumo, come il fumo di una grande fornace: e il sole e l’aria si oscurò pel fumo del pozzo: e dal fumo del pozzo uscirono per la terra locuste, alle quali fu dato un potere, come lo hanno gli scorpioni della terra: E fu loro ordinato di non far male all’erba della terra, né ad alcuna verdura, né ad alcuna pianta: ma solo agli uomini, che non hanno il segno di Dio sulle loro fronti. E fu loro dato non di ucciderli, ma di tormentarli per cinque mesi: e il loro tormento (era) come il tormento che dà lo scorpione, quando morde un uomo. E in quel giorno gli uomini cercheranno la morte, né la troveranno: e brameranno di morire, e la morte fuggirà da loro. E gli aspetti delle locuste, simili ai cavalli preparati per la battaglia: e sulle loro teste una specie di corone simili all’oro; e i loro volti simili al volto dell’uomo. E avevano capelli simili ai capelli delle donne: e i loro denti erano come di leoni. E avevano corazze simili alle corazze di ferro, e il rumore delle loro ali simile al rumore dei cocchi a più cavalli correnti alla guerra: e avevano le code simili a quelle degli scorpioni, e v’erano pungiglioni nelle loro code: e il lor potere (era) di far male agli uomini per cinque mesi: e avevano sopra di loro per re l’angelo dell’abisso, chiamato in ebreo Abaddon, in greco Apollyon, in latino Sterminatore. Il primo guaì è passato, ed ecco che vengono ancora due guai dopo queste cose.]

I. La stella che cadde dal cielo al suono della tromba del quinto angelo era l’imperatore Valente, uno zelante e potente falsificatore dell’eresia di Ario. Questo errore cominciò ad assumere tali proporzioni sotto questo principe, al quale l’Apostolo riferisce giustamente il suono della quinta tromba, a causa del grande danno che fece alla Chiesa. Questo principe fece più danni sostenendo e propagando questa eresia di quanto ne avesse fatti Ario stesso nel predicarla e nel suonare la sua prima tromba. Sedotto dalle lusinghe di sua moglie, che si era lasciata prendere dalle insidie dell’arianesimo, e dalla perfida eloquenza di Eudosso, vescovo di Costantinopoli, il più colpevole di tutti gli ariani, questo imperatore divenne uno dei più ardenti sostenitori di questa setta. Fu battezzato dallo stesso vescovo e giurò di essere sempre fedele a questa empia dottrina; anzi, egli la protesse con un tale zelo che divenne un vero e proprio persecutore dei Cristiani ortodossi. Non risparmiò contro di loro né l’esilio né la tortura; li bandì dai templi e proibì tutte le loro assemblee. Fu un acerrimo nemico dei monaci d’Egitto, che sradicò dalla loro solitudine per farli servire nella milizia. La descrizione dei suoi atti di furore si trova in Teodoreto e Baronio, che li hanno descritti. Aggiungeremo solo che il più perfido dei suoi crimini fu che, su istigazione dell’empio Eudosso, inviò dei sacerdoti ariani ai Goti che chiedevano invece di abbracciare la vera fede di Gesù Cristo. – Egli agì allo stesso modo nei confronti dei Vandali, che poi divennero nemici così formidabili per i Cattolici che nello spazio di 150 anni inondarono la Tracia, la Gallia, la Spagna, l’Africa, l’Italia, la Borgogna e altri paesi con incessanti incursioni, finché finalmente, sotto l’imperatore Giustiniano, nell’anno 527, Belisario e Narste sconfissero e annientarono questi barbari. (Ut habetur 21. Lib. spec. Hist. et pluribus chronologiis). I Vandali erano un immenso popolo di barbari e bellicosi, molto abili nell’arte della guerra e terribili per la velocità della loro marcia. Un’idea delle loro devastazioni può essere formata dalle dolorose prove che la Germania ha dovuto subire nel nostro secolo, per mano dei protestanti.

Vers. 1. – E il quinto angelo suonò la tromba. Questo angelo è collocato al quinto posto, secondo l’ordine della narrazione e della rivelazione di San Giovanni, che ripercorre le conseguenze ed i terribili danni derivanti dall’errore di Ario. Si sa, infatti, che fu l’empio Eudosso, un uomo presuntuoso e perfido, … che suonò la tromba e convinse l’imperatore Valente ad abbracciare questo errore. L’Apostolo continua: E vidi una stella cadere dal cielo sulla terra. Si tratta qui di paragonare l’imperatore Valente ad una stella, a causa delle sue qualità distinte, che lo avrebbero fatto brillare tra migliaia di principi, se non le avesse offuscate nell’oscurità dell’arianesimo. Egli viene anche paragonato ad una stella, a causa dell’insegna della dignità imperiale, che dovrebbe sempre far brillare gli imperatori e innalzarli al di sopra dei principi e dei popoli che sono loro soggetti, con una conoscenza più profonda della vera fede e per la superiorità delle loro virtù. E vidi una stella, l’imperatore Valente, che era caduta dal cielo, cioè dalla Chiesa di Cristo sulla terra. L’Apostolo dice al passato che questo imperatore è caduto a causa della sua ostinazione e del suo giuramento, che effettivamente adempì, poiché morì ariano. Si dice anche che sia caduto dal cielo alla terra, perché è stato abbandonato, disprezzato, rifiutato da Dio, e persino privato degli onori della sepoltura ecclesiastica, dopo essere morto miseramente. E gli fu dato la chiave del pozzo dell’abisso. Questa chiave si riferisce al potere imperiale, che gli era stato dato dall’alto, e Dio gli permise di usarlo in modo empio per diffondere l’eresia di Ario ovunque. Ed essa aprì il pozzo dell’abisso, cioè aprì ovunque la strada a questo errore, gli accordò la più grande libertà, e lo sostenne in tutti i suoi sforzi portando via, quasi in tutta la terra, le chiese e i vescovadi dei Cattolici, per consacrarli al culto dell’errore. Il pozzo qui significa, per metafora, l’eresia di Ario stesso, e l’abisso significa l’inferno; perché come le acque che scorrono sulla terra vengono dall’abisso dei mari, così anche tutte le eresie che scorrono sul mondo, vengono dall’inferno.

Vers. 2.- Ed ella aprì la fossa dell’abisso, e dalla fossa uscì un fumo, come il fumo di una grande fornace; e il sole e l’aria furono oscurati dal fumo del pozzo.

II. Queste parole esprimono gli orribili mali che questa abominevole eresia produsse, sia nella Chiesa Cattolica che nell’Impero Romano. 1°. Per quanto riguarda la Chiesa, lo vediamo in queste parole: E dal pozzo si levò un fumo come il fumo di una grande fornace. Con il fumo, San Giovanni ci mostra l’esaltazione, la promozione e l’espansione dell’eresia di Ario; poiché il fumo sale nell’aria, oscura la luce, e si diffonde sulla terra, espandendosi nello spazio. Ora, tale è il carattere delle eresie che, dopo aver incontrato proponenti simili a lucifero, che ne è il primo autore, si elevano al di sopra di tutto e salgono alle più alte regioni dell’intelligenza, oscurano il sole o la luce della verità, la divorano come un cancro roditore, e si diffondono sulla terra, corrompendo gli uomini e sterminando persino coloro che vogliono opporvisi. L’eresia di Ario è qui paragonata al fumo di una grande fornace, a causa della sua immensa potenza e della sua lunga durata, che superò tutte le altre, poiché durò fino al regno di Giustiniano I, nell’anno 527, ed ebbe come colpevoli e seguaci i più potenti ed illustri imperatori, re, patriarchi, arcivescovi, vescovi, etc. che si possano vedere nella storia ecclesiastica. E il sole e l’aria erano oscurati dal fumo del pozzo. Queste parole indicano una proprietà particolare di questa eresia, che era la denigrazione del Nome di Cristo e della sua Chiesa; poiché il sole rappresenta Cristo, che era come oscurato nella sua gloria esterna; infatti, gli ariani negavano che Egli fosse il Figlio di Dio, vero Dio stesso e consustanziale al Padre; e con questa bestemmia Lo derubarono della Sua gloria divina davanti agli uomini. L’aria significa la Chiesa Cattolica, che è illuminata da Cristo, come il sole visibile diffonde la sua luce nell’aria. Ora, durante il regno di Valente e dei suoi potenti successori, la Chiesa fu veramente oscurata dall’arianesimo, a causa del gran numero di coloro che lo abbracciarono. Al tempo dell’imperatore Zenone, non c’era un solo monarca che fosse cattolico. Infine, si dice che il sole e l’aria furono oscurati dal fumo del pozzo, perché l’eresia di Ario non avrebbe mai conquistato un tale impero senza la protezione datagli da Valente.

III. Vers. 3. – E le locuste uscirono dal fumo del pozzo e si sparsero sulla terra. San Giovanni descrive con queste parole le orribili calamità che questa eresia diffuse nell’Impero Romano e in altri regni. Questi mali sono divisi in due parti, la prima delle quali è contenuta in queste parole: Fu dato loro di tormentarli (gli uomini) per cinque mesi. L’altra parte si trova in quest’altro passaggio: E il loro potere era di nuocere agli uomini per cinque mesi. Per comprendere queste cose, bisogna ricordare che Valente condusse nell’errore di Ario i Goti e i Vandali, che avevano chiesto di essere istruiti nella vera fede, e che li costrinse addirittura, con un trattato di alleanza, a far parte della sua setta, inviando loro sacerdoti ariani. Ma poco tempo dopo, per il giusto permesso di Dio, questo empio complotto cadde sulla testa di Valente stesso; infatti, i Goti, che erano divisi tra loro in più fazioni, si unirono di nuovo, pieni di fiducia nelle proprie forze, maltrattarono i Traci e devastarono crudelmente il loro paese. Valente, che si trovava allora ad Antiochia, appena informato dei fatti, riconobbe in questi atti l’effetto fatale dell’errore che aveva commesso, avendo perso per questa circostanza un potente alleato in quella nazione, così bellicosa e così utile a lui e al suo impero. Per quanto riguarda le sue truppe, ne aveva fatto così poco conto, che invece di assoldarli e cercare di accattivarseli, ne aveva chiesto un tributo, tanto è vero che Dio acceca quelli che da Lui si allontanano! – Dopo aver devastato la Tracia, i Goti marciarono su Costantinopoli; Valente inviò contro di loro Traiano, che fu immediatamente sconfitto, messo in fuga e costretto alla ritirata. Dopo questi antefatti, l’imperatore volle provare egli stesso la sorte delle armi, ma fu a sua volta sconfitto e sbaragliato presso Andrinopoli, ove perì miseramente, bruciato in una capanna, nell’anno 378. È dopo di questo che i Goti, i Vandali e altri barbari prevalsero ovunque fino al regno di Giustiniano, A. D. 527; infatti, verso il 403, nella fazione di Stilicone, che aveva precedentemente oppresso Abagasio, re dei Goti, tenendolo rinchiuso nelle difese del Tesin con un esercito di 200.000 uomini, i Vandali, gli Svevi, gli Alani, i Burgundi e tutte le orde barbariche invasero la Gallia. Fu allora che Alarico, re dei Goti, rivendicando il trono dei Galli che Onorio gli aveva dato, si irritò e venne ad assediare Roma nell’anno 409. Questa città dovette riscattarsi al prezzo di denaro, e, nonostante ciò, fu assediata una seconda volta dallo stesso Alarico, che la prese e la spogliò delle sue ricchezze per tre anni consecutivi, sottoponendola così a prove più dure, per così dire, che se l’avesse distrutta. Si può vedere da Lechmanius, 1. I, c. 31, e da Baronio, quanto l’Impero d’Occidente abbia dovuto soffrire per le incursioni di Attila, degli Unni e di altri barbari, durante il regno di Valentiniano III, nell’anno 451 d. C. Più tardi Roma fu nuovamente saccheggiata da Genserico, capo dei Vandali. Odoacre, a sua volta, devastò l’Italia con un potente esercito di Eruli, e se ne impadronì per 14 anni. Questo sfortunato Paese passò poi per molti anni sotto il giogo di Teodorico, re degli Ostrogoti, un principe barbaro ed avido, che sconfisse Odoacre presso Verona, nell’anno 475. Sotto l’imperatore Zenone, i Vandali passarono in Africa, e il loro re Unnerico consegnò ai Mori 4.966 Vescovi e sacerdoti, per essere deportati nei deserti, mentre gli Ostrogoti, da parte loro, occupavano l’Italia, la Gallia, la Borgogna e la Spagna. Così queste orde barbariche scorrazzavano di regno in regno e portavano rovina e desolazione, finché finalmente, verso l’anno di Gesù Cristo 510, Clodoveo, re dei Franchi, avendo abbracciato la fede cattolica, sconfisse e uccise Alarico, re dei Visigoti, che regnava da 22 anni nelle Gallie. (Era il secondo degli Alarico, re dei Visigoti, che fu ucciso per mano di Clodoveo sulle pianure di Vouillé, vicino a Poitiers, nel 507). Infine, nell’anno 527, Giustiniano il Grande, salito sul trono dell’impero, scacciò i Vandali dall’Africa con Belisario e Narsete, riconquistò Cartagine, annientò i Parti, che stavano devastando la Siria, uccise Totila, il quale, impadronitosi di Roma, l’aveva ridotta in cenere e aveva scacciato tutti i Goti dall’Italia. Così furono sterminate, dopo il corso di 150 anni, quelle nazioni feroci, e scomparvero con l’arianesimo, che l’imperatore Valente aveva suscitato, e fu da quel momento che la fede Cattolica cominciò a fiorire e a prosperare di nuovo. – Tuttavia, il veleno di Ario non scomparve completamente con tutto questo, perché Narsete fece esplodere con una specie di rabbia la gelosia che covava nel suo cuore contro Giustino il Giovane, governatore dell’Italia. Egli richiamò i Longobardi, di origine scandinava, che erano allora in Pannonia ed infettati dall’arianesimo (La Pannonia era una regione dell’Europa antica che faceva parte dell’Illiria occidentale: ora è la parte orientale del cerchio dell’Austria, tutta la bassa Ungheria, con la Schiavonia propriamente detta, e qualcosa delle province della Croazia, Bosnia e Serbia, nella Germania e nella Turchia europea. La Pannonia era divisa in diverse province, di cui le principali erano la Pannonia superiore e inferiore.), e si servì di questo potente e fedele alleato per cacciare i Goti. I Lombardi, partiti con gli Unni loro alleati, sotto la guida di Alboino loro re, nell’anno 570: occuparono prima la Gallia Cisalpina, poi invasero l’Italia e stabilirono la sede del loro potere a Pavia. San Gregorio, (Hom. 1 in Evangelium), e dopo di lui il diacono Paolo, 1. I, c. 5, raccontano che quando avvenne questa invasione, si videro di notte nel cielo segni terribili, dove si poteva distinguere nel cielo la presenza di armate di fuoco schierate in battaglia, e si vedeva anche scorrere il sangue umano che fu versato orribilmente in seguito. È con certezza che lo stesso San Gregorio considera (IV. Epist., lib. XXXIV, Dial. 3) l’invasione dei Longobardi in Italia come una delle più crudeli persecuzioni della Chiesa; poiché tutti i re, se si eccettua il solo Agilulfo, che, avendo rinunciato all’arianesimo per entrare nella fede cattolica con tutta la sua nazione, regnò in seguito per quarant’anni; tutti i re, dicevamo, si mostrarono i più fervidi difensori dell’empietà di Ario. Questo terribile flagello durò non meno di 150 anni, fino al regno di Pipino, che salì sul trono dei Galli nell’anno 751, e avendo preso Ravenna, su richiesta di Papa Stefano, represse Astolfo, che allora portava scompiglio in Italia e negli stati romani. Poi suo figlio Carlo Magno, su richiesta del Pontefice Adriano I, depose dal trono il successore e figlio di Astolfo, si impadronì della sua corona, e così finì la tirannia dei Longobardi. Infine, verso l’anno 774, con l’aiuto di Dio, questo pio e potente imperatore relegò la setta di Ario, con tutta la sua tirannia e crudeltà, nelle fosse dell’inferno, e la fede cattolica ricominciò a diffondersi in lungo e in largo, sia per terra che per mare, per la conversione degli Slavi in Pannonia, degli Unni, degli Svevi, dei Goti, degli Ostrogoti; e in Germania, dei Sassoni, dei Danesi e di quasi tutti i popoli germanici, soprattutto della zona settentrionale. Segue nel contesto:

IV. Vers. 3. E le locuste uscirono dal fumo del pozzo e si sparsero sulla terra. Per locuste intendiamo i barbari del nord, e specialmente e principalmente i Goti e i Vandali, infettati di arianesimo. È per metafora che l’Apostolo li rappresenta in forma di locuste, 1° per farci capire la moltitudine che doveva diffondersi ovunque, tra i popoli e le nazioni, come locuste; infatti, il martire Metodio, Giordano Goto e il diacono Paolo riferiscono che dal nord vennero i Mussageti, gli Unni, gli Amazzoni, i Cimbri, i Parti, i Longobardi, gli Eruli, gli Svevi, i Bulgari, i Danesi, i Daci, i Germani, gli Slavi, i Burgundi, i Livoni, i Servi, i Normanni e i Celti, etc. Tutte queste nazioni si sparsero sulla terra come locuste, nei tempi stabiliti e permessi da Dio, e devastarono tutto ciò che si presentava loro davanti, così da poter essere giustamente considerate come piaghe che Dio si era riservato per punire il mondo intero e la cristianità in particolare, secondo le parole del profeta Geremia, I, 14: « Il male verrà dall’aquilone su tutti gli abitanti della terra. » Ibidem, IV, 6, 7, 9: « Porterò un male orribile e una grande distruzione dall’aquilone. Il leone è uscito dalla sua tana, il ladro delle nazioni si è alzato, è uscito dal suo paese per fare della vostra terra una desolazione, i vostri villaggi saranno devastati e resteranno disabitati, ecc. » 2° Come le locuste saltano da un posto all’altro, e cercando il nutrimento rovinano i campi, i prati, i raccolti e i fiori, così queste barbare nazioni passarono dalla Spagna alla Tracia, all’Africa e di là in Italia, poi nelle Gallie, etc., depredando e devastando tutto. – 3º Come le cavallette sono molto agili e fuggono con un solo balzo dalla mano che cerca di afferrarle, così queste nazioni si stabilirono ora in un luogo, e subito dopo in un altro. E le locuste uscite dal fumo del pozzo si diffusero sulla terra, perché l’eresia di Ario trovò appoggio nell’imperatore Valente, e tutte queste nazioni ne furono contagiate; e queste locuste si diffusero, etc., … per un giusto giudizio di Dio, sulla terra dell’impero, contro Valente stesso, e poi sulle altre terre e regni, come abbiamo detto. E fu dato loro un potere come quello degli scorpioni della terra. Il potere che questo popolo aveva da Dio e dalla natura è paragonato a quello degli scorpioni, 1° a causa della loro arma: infatti lo scorpione ha sulla sua parte anteriore la forma di un arco, e porta nella sua coda una freccia che è un dardo velenoso, con cui dà la morte dell’uomo; e così queste nazioni avevano come arma una specie di balestra, per mezzo della quale lanciavano dardi acuti e sottili, la maggior parte dei quali velenosi con cui causavano lesioni gravi e persino mortali. – L’arma usata da queste nazioni aveva, inoltre, questa peculiare somiglianza con gli scorpioni, in quanto questi animali poggiano sulla loro parte anteriore delle braccia che hanno la forma di un arco; e così tutto il loro corpo, che termina con una coda armata di un pungiglione, rappresenta più o meno nella sua interezza la forma della balestra armata di una freccia. 2°. A causa della rapidità, perché lo scorpione è molto agile con la sua coda nel ferire l’uomo, e così queste nazioni erano molto abili e molto esperte nel maneggiare le loro armi, con le quali facevano piovere frecce mortali sui loro nemici. Ecco perché era molto difficile fare la guerra contro di loro, e la vittoria su di loro era raramente raggiunta. 3°. Questa somiglianza con lo scorpione si trova nella perfidia degli ariani, che era davvero come un veleno sottile e pericoloso, per mezzo del quale infettarono successivamente tutte le nazioni e quasi tutto il mondo, occupando uno dopo l’altro tutti i regni, e costituendo ovunque re ariani. 4°. Lo scorpione è un animale pericoloso, astuto e abile, che si nasconde nelle fessure delle pietre e negli angoli dei muri e delle case, per sorprendere gli uomini all’improvviso e ferire a morte chiunque non possa prevenirlo. Ora, tale era il carattere di queste nazioni barbare e feroci, molto astute nell’arte della guerra e molto ingegnose nell’invenzione di macchine, e allo stesso tempo prudenti e che sapevano perfettamente come tendere trappole ai loro nemici per sorprenderli all’improvviso e impadronirsi dei loro paesi e delle loro città. Così essi ricoprirono il mondo di rovine e devastazioni.

Vers. 4. E fu loro proibito di danneggiare l’erba della terra. Queste parole ci mostrano la limitazione del potere ariano secondo la volontà di Dio, per la conservazione della sua Chiesa ed a vantaggio dei suoi eletti. Perché la giustizia di Dio permette, nei suoi imperscrutabili consigli, la maggior parte dei mali e delle calamità di questo mondo, in modo tale però da non portare al loro completo sterminio; e Dio sa come moderare e dirigere i mali che ci infligge, in modo che possano servire come castighi inflitti ai peccatori e agli empi, e come prove per gli eletti. Dio sa anche trarre dal male, beni sublimi e mirabili. E ricevettero la proibizione, cioè la barbarie e la potenza di queste nazioni fu moderata e contenuta dai decreti di Dio. Per evitare che facessero del male all’erba della terra, cioè perché risparmiassero il popolo cristiano nei loro massacri, metaforicamente rappresentato dall’erba della terra. E a tutto ciò che era verde. Questo passaggio si applica alla nazione francese, che fu effettivamente risparmiata dai Goti e dai Vandali, e riservata come una giovane vite alla fede cattolica, che abbracciò con il suo re Clodoveo, che finalmente cedette alle continue sollecitazioni di Santa Clotilde, sua moglie, nell’anno 500 dell’era cristiana. Fu dopo una brillante vittoria ottenuta con l’aiuto del cielo sui Germani, che egli divenne Cattolico e liberò l’Italia dall’ariano Alarico, re dei Visigoti, che uccise. Fu loro proibito danneggiare l’erba della terra, etc. ….. e a tutti gli alberi, cioè i prelati e i sacerdoti, che scamparono quasi tutti alla morte, sebbene ebbero molto da soffrire, soprattutto in Africa, per mano di Unnerico, re dei Vandali. Ma solo agli uomini che non avevano il segno di Dio sulla fronte. Queste parole si riferiscono al resto dei pagani che non avevano ancora ricevuto il carattere del Battesimo; è noto, infatti, che un gran numero di essi fu ucciso in Africa dai Vandali, ed anche nelle altre regioni che i barbari invasero. Ma siccome gli ariani si vantavano del nome di Cristiani, risparmiarono i Cattolici dalla morte, sebbene li affliggessero con molte calamità, facendo loro soffrire l’esilio ed altre avversità, come vediamo nella storia ecclesiastica.

Vers. 5E fu dato loro di non ucciderli. Questo passaggio si riferisce di nuovo ai Cristiani menzionati sopra. Nello stesso passaggio, la Scrittura passa talvolta da certe persone ad altre, come se questi fossero gli stessi di prima. (Ps. LXXVII, 38): « Quando li colpì, allora lo cercarono, ecc. », dove è evidente che coloro che furono colpiti a morte dal Signore non fossero quelli che lo cercavano. Ora, allo stesso modo, San Giovanni parla qui degli abitanti dell’Africa, alcuni dei quali erano Cristiani ed altri pagani. E così, passando dagli uni agli altri, dice nello stesso testo: E fu dato loro, cioè Dio permise a queste nazioni, non di uccidere i Cristiani, ma di tormentarli. Questo è quello che è successo quando i Vescovi, i Dottori ed altri Cattolici furono mandati in esilio, e alcuni di loro furono anche maltrattati e perseguitati in vari modi senza perdere la vita. Infatti, come abbiamo detto, Unnerico, re dei Vandali, sollevò una forte persecuzione contro gli ortodossi in Africa, ed in un solo colpo consegnò 4.966 Vescovi e sacerdoti ai Mori, per essere portati via nei deserti. Il suo successore fece la stessa cosa ed anche di peggio: fece strappare la lingua ai Vescovi ortodossi, il che non impedì loro, per un miracolo di Dio, di parlare e predicare. Dalla storia emerge la crudeltà con cui devastarono la Francia e ne uccisero gli abitanti. Sappiamo dalla stessa fonte quanti danni causarono i Vandali e gli Unni in Gallia. Si ricorda che Alarico, re dei Goti, pose l’assedio a Roma, che in seguito rimosse, e che l’anno seguente tornò in quella città, di cui si impadronì e saccheggiò per tre anni, senza tuttavia mettere a ferro e fuoco i suoi abitanti. La storia non è forse piena delle crudeltà di Attila, re degli Unni, chiamato il flagello di Dio,  di Genserico, re dei Vandali, di Totila e Odoacre? E non sappiamo quanto questi ed altri barbari abbiano tormentato i Cristiani in mille modi diversi, a volte mettendoli in cattività, depredandoli e infliggendo loro orribili tormenti, nelle successive incursioni che fecero quasi in tutto il mondo? Per questo il testo aggiunge espressamente: E fu dato loro non di ucciderli, ma di tormentarli, a causa di vari crimini commessi dagli stessi Cristiani in diversi luoghi, e in Gallia in particolare, ed a causa dell’allentamento della disciplina ecclesiastica. Per cinque mesi. Queste parole designano la durata del potere e dell’impero di queste nazioni ariane. In questa occasione, bisogna notare che, nella Scrittura, i giorni contano come anni. Ora, come i mesi sono di 28, 30 o 31 giorni, prendendo un mese di 28 giorni, due mesi di 30 giorni, e altri due mesi di 31 giorni, si avranno cinque mesi, che fanno 150 giorni, cioè 150 anni, che è precisamente la durata del regno dei Goti, dall’anno di Gesù Cristo 377, fino all’anno 527, come è stato detto sopra. E il loro tormento era come quello dello scorpione quando punge un uomo. In queste parole troviamo un’altra caratteristica di queste nazioni; perché erano come una peste nella Chiesa Cattolica, infettando molti fedeli e facendoli morire spiritualmente, diffondendo il veleno dell’arianesimo nelle terre che occupavano. Perciò le ferite di questi nemici della Chiesa possono essere paragonate perfettamente al pungiglione dello scorpione; infatti, come questo animale, quando vuole fare del male, 1° prima apre la pelle della sua vittima con il suo pungiglione; 2. fa fluire il suo veleno nella ferita 3° che provoca una ferita pericolosa; 4° che porta anche alla morte, se non si portano in tempo i rimedi appropriati; così queste nazioni 1° irruppero nei regni con la forza delle armi, per avere l’opportunità di fare del male e stabilirvi il loro potere. 2° Diffusero il veleno dell’errore nel corpo della Chiesa, che è stabilita in tutta la terra, e avvelenarono con esso i vari popoli. 3° Fecero una ferita profonda e pericolosa, calpestando la Chiesa e tutte le cose sante e sacre. 4° Infine, causarono la morte spirituale di un gran numero di Cattolici, che abbandonarono la vera fede alla vista di un tale scandalo. I giusti che perseverarono nella loro fedeltà vennero afflitti e tormentati in presenza di tante calamità alle quali non potevano porre rimedio. Quindi l’Apostolo aggiunge immediatamente:

Vers. 6. – In quel tempo gli uomini cercheranno la morte e non la troveranno; vorranno morire e la morte fuggirà da loro.

V. È infatti caratteristica dei Santi e delle anime pie essere molto più angosciati che se dovessero sopportare la morte stessa, alla vista della perdita generale delle anime, la seduzione degli innocenti, la defezione dei fedeli, il disprezzo delle cose sante, la rovina delle chiese, l’esilio dei giusti e le bestemmie dei malvagi. Poiché non potevano porvi rimedio, né impedire la prevaricazione della quale gemevano nei loro cuori. È allora che piangevano alla presenza del Signore, desiderando morire piuttosto che vedere i mali del loro popolo. Ne abbiamo un esempio nella Scrittura, che riferisce: « È meglio per noi morire in battaglia che vedere i mali del nostro popolo e del nostro santuario » (I. Mach., III, 59). ». E in questo tempo gli uomini cercheranno la morte, etc. Queste parole significano l’afflizione e la desolazione di quel tempo dell’arianesimo; e poiché queste disgrazie erano immense, specialmente per i prelati della Chiesa, l’Apostolo aggiunge: vorranno morire, e la morte fuggirà da loro. Possiamo vedere, infatti, da quanto precede, quanto grande fosse questa afflizione e desolazione che durò il considerevole spazio di 150 anni;  ed invase successivamente quasi tutti i regni, e si  sa che la Chiesa e i suoi prelati non hanno mai tanto da soffrire come quando hanno come avversari imperatori, re e principi; infatti,  allora i pilastri stessi della Chiesa si sgretolano, come Dio permise in particolare al tempo di Zenone, quando la Religione Cattolica non aveva un solo principe regnante, tra i suoi fedeli. Si dice che: Gli uomini cercheranno la morte e non la troveranno, per marcare la differenza del loro stato da quello dei martiri; perché al tempo delle prime persecuzioni, i fedeli cercavano con gioia e trovavano una morte gloriosa in mezzo ai tormenti, mentre in questo, Dio permise che i suoi eletti fossero orribilmente e a lungo tormentati, senza che ottenessero la gloria del martirio; cosa che era la più dolorosa da sopportare per gli uomini giusti.

Vers. 7. – E la faccia delle locuste era come quella di cavalli pronti alla battaglia; portavano sul capo come delle corone che sembravano d’oro. In questo testo l’Apostolo continua a sviluppare e spiegare le parole precedenti; e come aveva detto che i Goti e i Vandali erano locuste, ora indica le condizioni e le proprietà di queste nazioni sotto questo nome di locuste. 1° E la faccia delle locuste, cioè dei Goti e dei Vandali, era simile a dei cavalli preparati per la battaglia, per annunciare che sarebbero stati bellicosi, feroci e coraggiosi. Perché, proprio come i cavalli che stanno per combattere e ascoltano i corni e trombe, agitano le loro criniere, schiumano, solcano la terra con i piedi, sono quasi indomabili, si mostrano magnanimi e manifestano il loro ardore con i nitriti, calpestano tutto, e corrono verso la vittoria attraverso tutti gli ostacoli. Così, questi popoli del Nord aspettavano e desideravano la battaglia, e segnalavano il loro ardore, il loro coraggio e la loro impavidità con gli stessi gesti. Perciò l’Apostolo dice che erano come cavalli preparati per la battaglia; perché i cavalli sono pronti a correre in battaglia ogni volta che al loro cavaliere piace condurveli. Ora tali erano questi popoli, giustamente chiamati il flagello di Dio, aspettando solo il segnale della volontà divina per andare nel mondo a punire i Cristiani. Ecco perché si dice: « Tutto il male verrà dall’aquilone ». È dunque con tanta eloquenza quanto verità che San Giovanni rappresenta questi popoli come cavalli preparati alla battaglia. 2° Queste (le locuste) portavano sulle loro teste delle corone che sembravano d’oro. Queste parole denotano la falsa brillantezza dell’abilità, dell’astuzia, della lungimiranza e della prudenza umana, proprietà con cui queste nazioni barbare dovevano superare gli altri popoli e persino i Cristiani, secondo le parole di Gesù Cristo: (Luc. XVI, 8) « I figli di questo secolo sono più abili nel condurre i loro affari che i figli della luce. » Esse portavano come delle corone che sembravano d’oro, non che fossero corone come quelle indossate dai re, ma perché la saggezza è spesso paragonata ad una corona; infatti, la saggezza deve formare dei re e incoronarli; e queste corone erano come corone che sembravano d’oro, cioè non erano assolutamente d’oro, ma assomigliavano all’oro, per esprimere la differenza della saggezza mondana dalla vera saggezza celeste, che solo è veramente come l’oro. 3°. E i loro volti erano come quelli degli uomini. Questo passaggio indica che queste nazioni dovevano essere cristiane. Perché bisogna sapere che in questo capitolo ci sono due diverse classi di uomini: – a. gli uomini che non sono segnati sulla fronte, e questi sono i gentili e i pagani, come è stato detto sopra; – b. e degli uomini semplicemente detti, che sono i Cattolici e i veri Cristiani di cui abbiamo parlato, parlando delle afflizioni che i Vandali inflissero loro. – In quel tempo gli uomini cercheranno la morte, cioè, perché queste nazioni barbare erano battezzate e si vantavano del nome di Cristiano, anche se non erano veramente tali, poiché erano infettati dall’errore di Ario, è con ragione che l’autore dell’Apocalisse dica che i volti erano simili a quelli degli uomini, per distinguerli perfettamente sia dai pagani che dai Cattolici.

Vers. 8. – 4° E i loro capelli erano come i capelli delle donne, perché queste nazioni lasciavano crescere i loro capelli, come si vede ancora qualche volta al giorno d’oggi. I capelli lunghi indicano forza, e anche se non sono più in uso, erano comunque molto utili ai guerrieri di quel tempo per preservarli contro il freddo e l’umidità nei bivacchi, ecc. La Scrittura dice che la forza di Sansone consisteva nei suoi capelli, che non tagliava, come facevano i nazirei tra i Giudei. Così sembra probabile che queste nazioni di cui parla San Giovanni avessero l’abitudine di lasciar crescere i loro capelli fin dall’infanzia senza mai tagliarli; ed è per questo che si dice che i loro capelli erano come quelli delle donne. – 5° E i loro denti come i denti di un leone. Queste parole indicano la ferocia, la furia e la forza che distingueva queste nazioni da tutte le altre. Infatti, come il leone è considerato il più forte e terribile degli animali, avendo la sua forza principale nella testa e nei denti, con i quali depreda, strappa e divora tutto ciò che incontra; così anche queste nazioni dovevano essere le più feroci, crudeli e potenti, per sbranare e divorare gli altri.

Vers. 9. – 6° Portavano corazze come corazze di ferro. I guerrieri indossano la corazza per parare i colpi del nemico. Questa parola corazza deriva dal cuoio; anticamente i guerrieri proteggevano il loro petto con il cuoio più duro e forte, quello dei cammelli o di altri animali, come si fa ora con le corazze di ferro. Ecco perché è detto nel testo: Portavano corazze come corazze di ferro. Cioè, queste nazioni marciavano verso il nemico con la massima precauzione, fortemente armate e ben equipaggiate, non esponendosi incautamente ai dardi ed alle lance. Le loro corazze erano fatte di un cuoio così duro e forte da essere perfettamente paragonabile al ferro, ed erano allo stesso tempo così flessibili e ben adattate che resistevano ai colpi come se fossero state di ferro. 7°. E il rumore delle loro ali era come il rumore dei carri con molti cavalli che corrono alla battaglia. Qui si dice che queste nazioni avevano le ali per esprimere la loro velocità nelle spedizioni belliche. Sembravano volare di regno in regno e di paese in paese con i loro eserciti, il cui rapido movimento produceva un rumore spaventoso e devastava tutto sul loro cammino, come è stato detto sopra, (Isaia VII:18): « In quel giorno il Signore chiamerà con un fischio la mosca che è alla fine del fiume d’Egitto e l’ape dell’Assiria. E verranno a riposare presso i ruscelli, nelle cavità delle rocce, sulle siepi e su ogni arbusto. »

1° Per mosche e api il profeta intende le nazioni in guerra. 2°. Per ali si intendono anche le ali degli eserciti di queste nazioni, che, essendo schierati in buon ordine di battaglia, volavano in combattimento ed attaccavano il nemico con tanto coraggio, animosità, vivacità e clamore, che la terra fu scossa. La stessa cosa si vede nella Scrittura (I. Mach, IX , 13): « E la terra fu mossa dalla voce degli eserciti. » E siccome queste nazioni avevano acquisito una grande reputazione di coraggio e di valore militare, non meno che di abilità nell’arte della guerra, ottennero facilmente la vittoria sul nemico prevenuto e demoralizzato. E quindi il rumore delle loro ali era come il rumore dei carri con molti cavalli che corrono alla battaglia. Poiché quando una grande moltitudine di combattenti corre in battaglia con i molti carri da guerra che di solito li accompagnano, fanno un rumore così orribile, che ispirano terrore e paura, e il suono delle trombe e dei corni non fanno che aggiungersi a questo orribile tumulto.  I cavalli stessi, eccitati e animati, corrono, saltano, nitriscono e alzano la criniera, mostrando così la loro gioia e il loro coraggio. Così facevano la guerra e andavano contro il nemico nazioni bellicose e barbare.

Vers. 10Le loro code erano simili a quelle degli scorpioni: esse avevano il pungiglione. Con queste code intendiamo metaforicamente le conseguenze disastrose delle incursioni di questi barbari, che furono una rovina ed una devastazione universale di tutti i regni che attraversarono in vari momenti. Queste parole indicano anche il danno considerevole che questi popoli hanno causato alla Chiesa. Le loro code avevano un pungiglione. Questi pungiglioni significano anche i vari errori che queste nazioni hanno lasciato dietro di essi, allo stesso modo in cui certi animali velenosi lasciano dietro di loro il loro pungiglione nella ferita che hanno inferto. 9°. E il loro potere era di nuocere agli uomini per cinque mesi. In questo passo ci viene mostrata la seconda parte dei mali che risultarono da questa eresia per la Chiesa in generale, e per l’Impero Romano in particolare. Vediamo prima di tutto la lunghezza del tempo durante il quale i Longobardi posero il loro giogo di ferro sull’Italia. Questi Longobardi erano una nazione malvagia, tana e centro di tutte le altre nazioni barbare che, quando gli Unni, che erano loro alleati, avevano abbandonato la Pannonia, seguirono il loro re Alboino per invadere la Gallia Cisalpina e poi l’Italia, e per esercitarvi le loro devastazioni per 150 anni, come spiegato sopra. Da ciò dobbiamo concludere che i primi cinque mesi di cui si parla nel testo designano il tempo dell’occupazione dell’Italia e di altre terre da parte dei Goti e dei Vandali, e gli altri cinque mesi indicano la durata del giogo dei Longobardi sotto il quale la Chiesa e l’Impero Romano ebbero tanto a gemere. È storicamente vero che il loro regno fu più lungo e durò da 190 a 200 anni; ma il testo ha comunque ragione nel dire che essi danneggiarono la Chiesa solo per 150 anni, poiché uno dei loro re, Agilulfo, essendo diventato Cattolico con tutta la nazione, cessò di essere ostile nel Corso di tutto il suo regno, che durò 40 anni. Ora, sottraendo questo numero al precedente, otteniamo, secondo il testo, la durata del tempo durante il quale essi fecero del male agli uomini. E il loro potere era quello di danneggiare gli uomini per cinque mesi. Se non c’è menzione del resto del loro regno, è perché sarebbe stato superfluo; ma lo Spirito Santo non ispira né scrive nulla di inutile.

Vers. 11. 10°-Avevano sopra di loro come re l’angelo dell’abisso, il cui nome in ebraico è Abaddon, e in greco Apollyon, e in latino lo Sterminatore. Attraverso questo Angelo re, lo Spirito Santo designa un essere di natura distinta e superiore; ed è l’angelo dei principati che, a capo dei suoi angeli malvagi, viene a sostenere i malvagi nella loro guerra empia e ad incitarli per affliggere, combattere e distruggere la Chiesa di Gesù Cristo, se possibile. Il testo indica solo uno e il principale di questi angeli, che è il rappresentante di tutti gli empi, gli eretici e i loro fautori e promotori, che hanno in comune solo uno stesso obiettivo, che è quello di fare incessantemente una guerra di rovina e di sterminio contro Gesù Cristo e la sua Chiesa. Per spiegare meglio questo passaggio, non dobbiamo passare sotto silenzio che, secondo San Dionigi e l’opinione generale dei santi Dottori, gli angeli decaduti conservarono intatte le loro qualità naturali; e, di conseguenza, continuarono a possedere tra loro la distinzione degli ordini, secondo la distinzione delle loro nature. Inoltre, i Dottori ammettono comunemente che un certo numero di angeli si dimostrarono ribelli a Dio in ciascuno degli ordini o nove cori, così che i loro nomi distintivi furono mantenuti tra i demoni. Ora, il primo di questi ordini nella gerarchia infernale è quello dei principati, per cui gli angeli malvagi hanno il diritto e il potere di preminenza nei diversi regni e nelle guerre generali e particolari. Quindi, da questo consegue che, in opposizione agli Angeli santi, che sono inviati da Dio per suscitare i regni e le nazioni al bene, gli angeli malvagi dello stesso ordine sono accreditati da lucifero onde incitare al male e alla tirannia contro i Cristiani, e per turbare la Chiesa militante con la guerra, etc. Tutto il male che possono fare nel regno di Dio, con il suo permesso, lo compiono attraverso i loro satelliti che governano e che sono gli empi, gli eretici e i cattivi Cristiani. Perché sebbene tutti i regni e tutti gli uomini abbiano angeli buoni e cattivi che li ispirino, gli Angeli buoni hanno il predominio sui cattivi, o i cattivi sui buoni, secondo la condizione di questi regni, secondo la scelta della volontà umana, e anche secondo ciò che Dio permette. Ed è dell’angelo malvagio che presiedeva alle guerre dei Goti e dei Vandali che il testo aggiunge: Esse (queste nazioni) avevano per re l’angelo dell’abisso. In uno Stato, il re è colui che ha il predominio su tutti gli altri, tutti i suoi sudditi gli obbediscono, ascoltano la sua voce e lo seguono anche in guerra. Ora, tutti gli eretici costituiscono un vero regno il cui principe è sempre stato e sempre sarà lucifero, che, attraverso i suoi vari capi a lui subordinati, guida i settari e gli empi nella guerra di questo mondo contro Cristo e la sua Chiesa, a qualunque classe e tempo essi appartengano. Ed è solo da Dio che deriva il suo potere, o almeno il permesso di nuocere agli uomini nei grandi come nei piccoli stati. Essi avevano per re l’angelo dell’abisso, il cui nome in ebraico è Abaddon, in greco Apollyon e in latino lo Sterminatore. Qui la domanda è perché questo nome dell’angelo dell’abisso si esprime in tre lingue. Per rispondere a questa domanda, dobbiamo sapere che San Giovanni ha scritto l’Apocalisse per la Chiesa universale; ora, queste tre lingue sono le principali, e contengono o rappresentano tutte le altre. Inoltre, queste tre lingue rappresentano, attraverso le principali nazioni e le principali epoche di queste lingue, tutta la Chiesa cattolica dalla sua origine alla sua consumazione.  – 1°. La Chiesa ebbe origine e cominciò a fiorire tra i Giudei più distinti per la loro santità, che si convertirono alla fede di Gesù Cristo, e il cui numero era davvero molto esiguo in proporzione a tutta la nazione. Ora fu da questi stessi Giudei, che erano diventati Cristiani, che sorsero i primi eretici che, sobillati da satana, intrapresero la guerra alla Chiesa di Cristo. Sappiamo dagli Atti degli Apostoli come le loro principali rivendicazioni fossero la circoncisione e il giogo della legge di Mosè, che cercavano di imporre ai gentili. 2° Poi venne la Chiesa greca, formata dai gentili, che brillava principalmente per il numero, l’istruzione e la virtù dei suoi santi maestri. Ma molti di questi greci, sedotti dall’angelo dell’abisso, dichiararono una guerra feroce contro la Chiesa di Gesù Cristo, insegnando i dogmi più pericolosi e introducendo scismi contro i sovrani Pontefici, i legittimi successori di San Pietro. Il più malvagio di questi fu Ario, che, come è stato detto, essendo sostenuto dall’imperatore Valente, corruppe i Goti e i Vandali. Ma, per un giusto giudizio di Dio, questo empio potere fu finalmente spezzato, e questa Chiesa greca, con tutto il suo impero, macchiato da mille errori, cadde sotto il potere dei Turchi e divenne loro tributaria, come lo è ancora in parte. (Si veda la Storia Ecclesiastica). 3°. Alla Chiesa greca e all’Impero d’Oriente sono succeduti la Chiesa latina e l’Impero d’Occidente, attraverso la conversione di tutte le nazioni che ne facevano parte, particolarmente ai tempi di Carlo Magno. Questa Chiesa manterrà il suo impero in Occidente fino alla venuta del figlio della perdizione. Nel momento in cui la Chiesa è diventata latina, essa aveva 800 anni. Era allora nella sua quarta età, godendo di una pace e di una tranquillità perfette. Fu libera da ogni eresia per duecento anni, fino a Berengario il Sacramentario, che insorse contro di essa nelle Gallie. Questo eresiarca negò, come abbiamo già detto, la transustanziazione e la presenza reale del corpo e del sangue di Nostro Signore Gesù Cristo nella Santissima Eucaristia. satana, o l’angelo dell’abisso, non può soffrire che la Chiesa sia in pace; perciò, cercò più volte dopo Berengario di continuare la guerra contro la Chiesa per mezzo di uomini empi, come vediamo nella Storia Ecclesiastica. Ma tutti i suoi sforzi furono paralizzati, e causarono piccolo o nessun danno alla Chiesa, che riuscì sempre a sopprimere gli eretici con la pietà dei suoi principi, con la vigilanza dei suoi Pontefici, e soprattutto con la protezione di Dio. Se esaminiamo le varie eresie, possiamo vedere che hanno preparato il mostro Lutero, quel drago infernale a cui la Germania diede la luce nel 1517, e il cui scopo evidente era la completa rovina della Chiesa latina. Questo eresiarca richiamò dall’inferno tutte le eresie precedenti e le vomitò dalla sua bocca impura contro questa Chiesa, come vedremo in seguito. È dunque chiaro, da quanto abbiamo appena detto, perché San Giovanni, scrivendo per la Chiesa universale, dà il nome di questo angelo dell’abisso in tre lingue: è per farci capire che si tratta sempre dello stesso demone, già re, capo e dottore dei Goti e dei Vandali, che presiedeva alla setta di Ario attraverso i Longobardi. Ed è questo stesso diavolo che sarà il capo, il re, il dottore e il seduttore di tutti gli eretici che verranno in seguito, e specialmente di quelli dei nostri giorni che negano il Capo visibile della Chiesa.

Vers. 12Il primo “guai” è passato, ed ecco altri due “guai” che vengono dopo.

§ II.

Del sesto angelo che suona la tromba.

CAPITOLO IX. – VERSETTI 13-19

Et sextus angelus tuba cecinit: et audivi vocem unam ex quatuor cornibus altaris aurei, quod est ante oculos Dei, dicentem sexto angelo, qui habebat tubam: Solve quatuor angelos, qui alligati sunt in flumine magno Euphrate. Et soluti sunt quatuor angeli, qui parati erant in horam, et diem, et mensem, et annum, ut occiderent tertiam partem hominum. Et numerus equestris exercitus vicies millies dena millia. Et audivi numerum eorum. Et ita vidi equos in visione: et qui sedebant super eos, habebant loricas igneas, et hyacinthinas, et sulphureas, et capita eorum erant tamquam capita leonum: et de ore eorum procedit ignis, et fumus, et sulphur. Et ab his tribus plagis occisa est tertia pars hominum de igne, et de fumo, et sulphure, quae procedebant de ore ipsorum. Potestas enim equorum in ore eorum est, et in caudis eorum, nam caudæ eorum similes serpentibus, habentes capita: et in his nocent.

[E il sesto Angelo diede fiato alla tromba: e udii una voce dai quattro angoli dell’altare d’oro, che è dinanzi agli occhi di Dio, la quale diceva al sesto Angelo, che aveva la tromba: Sciogli i quattro angeli che sono legati presso il gran fiume Eufrate. E furono sciolti i quattro angeli che erano preparati per l’ora, il giorno, il mese e l’anno a uccidere la terza parte degli uomini. E il numero dell’esercito a cavallo venti mila volte dieci mila. E udii il loro numero. E così vidi nella visione i cavalli: e quelli che vi stavano sopra avevano corazze di colore del fuoco, del giacinto e dello zolfo, e le teste dei cavalli erano come teste di leoni: e dalla loro bocca usciva fuoco, e fumo, e zolfo. E da queste tre piaghe; dal fuoco, dal fumo e dallo zolfo che uscivano dalle loro bocche fu uccisa la terza parte degli uomini. Poiché il potere dei cavalli sta nelle loro bocche e nelle loro code. Le loro code, infatti, sono simili a serpenti, hanno teste, e con esse recano nocumento.]

I. Vers. 13. – E il sesto angelo suonò la tromba. Quando dunque il regno dei Longobardi e dei Goti fu distrutto e l’eresia di Ario fu consegnata all’inferno, la Chiesa di Cristo godette di un perfetto riposo e non ebbe nessuna eresia da deplorare dall’anno 800 d.C. fino all’apparizione del diacono Berengario nelle Gallie nell’anno 1048, che osò negare la presenza reale di Gesù Cristo nella Santissima Eucaristia. Nell’anno 1117, Durando di Wandoch insegnò, con un altro settario in Aragona, che il matrimonio non è che un concubinato sotto mentite spoglie; ma entrambi furono bruciati, e così fu messa fine all’eresia nascente. Ugualmente tutte le eresie che apparvero furono soppresse dalla loro origine, così che la Chiesa latina e l’Impero d’Occidente non ebbero alcun evento avverso considerevole da deplorare fino al 1517, quando Martin Lutero, che può essere considerato il principe degli eresiarchi, apparve in Germania. Il santo Profeta non descrive tutti i mali minori che colpiranno la Chiesa, ma si limita ai principali, lasciando da parte quegli eresiarchi intermedi e poco importanti che furono solo, come abbiamo detto, il prodromo della grande sventura che stiamo per descrivere. E questo è il motivo per cui si applica a raffigurare in questa quinta epoca, e sotto la figura del sesto angelo che suona la tromba, il più grande e terribile degli eresiarchi, con tutti i suoi caratteri e con tutte le conseguenze dei suoi errori. Basta esaminare il contesto, la natura e il carattere di questo eresiarca e dei suoi errori, per essere convinti che si tratti effettivamente di Martin Lutero che San Giovanni designa letteralmente con il sesto angelo che ha suonato la tromba.

1º Poiché lucifero, il re delle tenebre, trovò in Lutero uno strumento utile per l’esecuzione dei suoi piani, lo scelse come suo capo nella guerra di sterminio che stava per dichiarare contro la Chiesa latina. lucifero diede a questo monaco, per guidarlo, un dottore di consumata malizia e astuzia, che San Giovanni chiama giustamente l’angelo dell’abisso e il dottore di tutti gli eresiarchi, come abbiamo visto sopra, e il cui nome in latino significa Sterminatore. Ora, si sa che Lutero stesso si è spesso gloriato di questo nome, che in effetti gli si addice.

2° Di conseguenza, Martin Lutero deve essere considerato il peggiore ed il più pericoloso di tutti gli eresiarchi, poiché vomita errori contro la Chiesa latina che sono così perversi e numerosi al punto che non c’è un solo punto di fede o di morale che questo eretico o i suoi seguaci abbiano lasciato intatto. Ne seguì una tale confusione di idee, e gli spiriti erano così divisi tra loro, che questo male può essere considerato come un andare all’infinito. Infatti, non si troverà nemmeno una provincia, una città, una frazione, una famiglia, come dire, nemmeno due uomini della stessa casa, che siano d’accordo tra loro su tutti i punti della loro credenza. Il principio fondamentale di questo male ha la sua fonte nella libera interpretazione e nell’esame privato della Sacra Scrittura. Ed è da questo principio che sono sorte un’infinità di sette diverse, i cui principali e primi capi furono Thomas Münzer, Giovanni Ecolampadio, Andrea Carlostadio, Zwinglio, Giovanni Calvino, George David, Christopher Schapler, Philippo Melantone, Martin Bucer, Giovanni di Westfalia, Balthasar Parimontano, Giovanni di Leide, John Spangenberg, Michel Servet, John Brenz, Theodore Bezel, Luke Sterenberg, che erano deisti o trinitari; Louis Alemann che era ateo, ecc. Si veda il catalogo di Lindau, vescovo di Rüremonde, su Martin Lutero, e sull’origine e la patria di tutti gli eresiarchi di quel tempo.

3° Abbiamo imparato fin troppo bene a conoscere, per nostra disgrazia, il carattere peculiare di questa eresia, che è quello di eccitare alla guerra e alla sedizione, come Lutero stesso si compiaceva di pubblicare nei suoi discorsi e scritti, e secondo l’espressione preferita di Zwinglio: Il Vangelo richiede sangue. Questa dottrina sediziosa e sanguinaria di Lutero, proclamata e predicata pubblicamente con libelli e predicazioni contro Dio ed i monarchi, causò davvero un terribile spargimento di sangue. Eccitati dalla voce di Lutero, e stimolati alla rivolta da Münzer, Carlostadio, Bucer e altri, una massa di uomini fuorviati, noti con il nome di “contadini”, invasero i monasteri e le chiese di Svevia, Alsazia, Turingia e Franconia, per saccheggiarli e distruggerli. Nella sola Franconia furono saccheggiati fino a 300 monasteri e 180 castelli. Questi ribelli non risparmiarono né persone né beni, e si abbandonarono a tali eccessi nei massacri che facevano dei nobili, che fu intrapresa una guerra aperta contro i contadini, in cui caddero più di 130.000 di questi insensati. Quante vittime dovettero pagare con il loro sangue il furore di Zwinglio nella guerra civile che afflisse così crudelmente la Svizzera! Seguirono le guerre di Francia e Belgio, iniziate nel 1595; poi la guerra di Smalkade, nel 1547; la guerra di Livonia; il massacro di San Bartolomeo, o la guerra civile scatenata da Calvino, che fu preso per un dittatore; e infine la guerra dei protestanti propriamente detta, o guerra dei trent’anni, che iniziò nell’anno 1618 e durò quasi ininterrottamente fino al deplorevole trattato di pace che fu così fatale alla Religione Cattolica, nell’anno 1650. Quante migliaia e persino milioni di vittime caddero in Europa per il ferro, per il fuoco e per la peste? Quante migliaia di Cattolici persero la vita in Inghilterra, specialmente al tempo di Elisabetta, con la pena capitale e per altri tormenti? Lo spirito di questa eresia era così sanguinario, che non risparmiava nemmeno i suoi stessi re e principi: ne troviamo un orribile esempio dato recentemente dagli scozzesi, che hanno tradito e consegnato il loro legittimo sovrano, Carlo Stuart, e dagli inglesi, che lo hanno fatto decapitare con pubblica sentenza, senza nemmeno averlo ascoltato.

4°. L’eresia di Lutero causò tre grandi e orribili mali alla Chiesa e all’Impero Romano, che potrebbero essere paragonati a tre piaghe. Il primo fu la confusione e l’oscuramento delle verità della fede, derivanti da errori opposti tra loro, la cui varietà è sorprendente come il loro numero. Il significato legittimo della Scrittura fu quasi interamente corrotto da Lutero e dai suoi empi seguaci; le versioni della Bibbia furono pubblicate in un numero così grande e così poco conforme l’una all’altra, che non si sapeva più cosa credere o rifiutare. – Il secondo male fu come un grande fuoco acceso nelle menti degli uomini, che raggiunse un tale livello di irritazione che li vide sollevarsi gli uni contro gli altri, stati contro stati, regni contro regni. Tanti orribili e crudeli massacri che si susseguivano quasi senza interruzione, e per così tanto tempo, costarono la vita di centinaia di migliaia di uomini. Tale fu la terribile conseguenza di questa libertà, o piuttosto di questa licenza, che fu predicata al popolo per persuaderlo che né gli uomini né gli Angeli avevano alcun diritto di imporre loro delle leggi, se non nella misura in cui erano disposti ad accettarle. Il celibato era stato definito una tirannia. Il potere e la giurisdizione del Sommo Pontefice, dei Vescovi e dei prelati della Chiesa, furono tenuti in disprezzo, e tutti i precetti ecclesiastici furono violati. Il diritto di impadronirsi dei beni, dei principati e delle dignità della Chiesa era attribuito ai principi temporali, mentre i sacerdoti avevano solo il diritto di essere mantenuti. Gli inferiori si ribellarono ai loro superiori e ci si scrollò dal giogo del Signore. Gli stessi ecclesiastici si spogliavano delle loro vesti per sposarsi. I principi e i nobili cominciarono a odiare il Sommo Pontefice, i Vescovi e i sacerdoti, spogliarono i vescovadi, le prebende, i benefici e i monasteri, etc. e quando l’imperatore volle impedirglielo, presero le armi e si rivoltarono contro di lui. Chi vuole saperne di più su questa tragedia infame, legga la storia degli eventi che si svolsero dal 1525 al 1650. Ma non abbiamo ancora visto la fine di questi mali in Inghilterra, Scozia e Irlanda, e la Germania non sarà in pace a lungo. Ora, chiunque esamini attentamente e spassionatamente la causa di queste disgrazie, sarà costretto ad attribuirla unicamente a questa terribile eresia. – 3) Il terzo male che produsse fu la corruzione di tutta la morale e la disciplina, sia ecclesiastica che civile; perché è noto che non c’è un solo punto della morale e di tutto ciò che riguarda i buoni costumi, che Lutero non abbia avvelenato col suo respiro pestilenziale. Da ciò possiamo concludere che questo eresiarca non solo ha condotto una guerra spirituale o morale, ma che ha attaccato e addirittura sconvolto, politicamente parlando, quasi tutto l’Impero Romano.

5°. Il linguaggio di Lutero e dei suoi seguaci era presuntuoso, superbo ed audace, tanto da non risparmiare alcuna cosa, per quanto santa, né alcuna verità, anche la più antica e meglio stabilita. La sua bocca, come quella di un leone, strappava e divorava tutto; vomitava, per così dire, sarcasmo, disprezzo e calunnie contro l’autorità del Sommo Pontefice, e contro la scienza e la virtù dei santi Padri, non risparmiando nella sua furia né uomini, né Angeli, nemmeno la santissima Trinità. Per convincercene, leggiamo i suoi scritti, e soprattutto i discorsi pubblici che fece nelle assemblee di Worms, e in particolare quello del De Destructione, che è il più importante lib. Contro il re d’Inghilterra.

6° Questa eresia invase in breve tempo non solo tutta la Germania, ad eccezione della Baviera e del Tirolo, ma anche quasi tutti i popoli del Nord. Si diffuse in Francia, Belgio, Ungheria e Polonia. Inghilterra, Scozia, Danimarca, Svezia e quasi tutte le città imperiali si separarono dalla Chiesa latina. Come un torrente devastante, trascinò dietro di sé i principi dell’impero, e prese un tale incremento di forza ed estensione, che si diffuse in breve tempo e si estese e continua ad estendersi per terra e per mare, poiché la sua dottrina lusinga il potere e l’avarizia dei principi, e il gusto depravato di una generazione carnale. – satana, non potendo fare nulla nel mondo da solo, si servì di Lutero per permesso divino, ed ebbe fin troppo successo nell’esecuzione dei suoi piani infernali, perché ogni carne aveva corrotto le sue vie, e nessuno si accontentava di vivere secondo la sua condizione. Il popolo cercava la licenziosità, i principi e i nobili gli onori e le ricchezze, e il clero, disgustato dal celibato, si dava alle voluttà. C’è dunque da meravigliarsi che tutti questi stati abbiano accettato così facilmente la lusinghiera ma perversa dottrina di Lutero? È a questa generazione perversa che San Paolo rivolge queste parole così piene di verità (II Tim. IV, 3): « Verrà il giorno in cui gli uomini non sopporteranno più la sana dottrina e moltiplicheranno a loro piacimento i maestri che lusingheranno il loro orgoglio; e chiuderanno i loro orecchi alla verità e li apriranno alle favole. » Le affermazioni di Lutero erano così stravaganti che ogni uomo ragionevole deve essere colto da stupore nel vedere monarchi così grandi innamorarsi di esse; ma, ahimè, questi principi hanno moltiplicato i maestri a loro piacimento, che hanno lusingato il loro orgoglio e la loro lussuria, come fanno tuttora.

7° Infine, questa eresia di Lutero distillò un veleno ancora più fatale nella pseudopolitica e nell’ateismo, i cui principali propagatori furono Machiavelli, Bodin ed altri. Infatti, le loro opere sono venerate da principi, nobili e molti uomini illustri che tuttavia si vantano di essere Cattolici. E questo nuovo, mascherato sotto apparenze lusinghiere per i sensi, infetta ed avvelena negli spiriti degli uomini tutto ciò che i primi errori, che ne sono gli elementi, avevano lasciato intatto. La sua essenza pestilenziale si è insinuata nei consigli dei principi, degli Stati e delle repubbliche, che ispira, governa e dirige. – È attraverso di essa che tutto viene detto, sentito, tollerato, permesso e attuato contro la verità e la giustizia. E questa è la coda e le conseguenze finali di questo drago e della sua fatale dottrina. Perché Machiavelli e Bodin, e soprattutto i seguaci di Calvino, raccolsero questa essenza di veleno dalle piante del campo dell’errore, e la mescolarono con lo spirito infernale, per produrre sulle anime l’effetto che Lutero stesso non era stato in grado di ottenere. Fu infatti con l’infusione di questa essenza nelle menti e nei cuori che lucifero riuscì ad impedire la vera riforma e la conversione del mondo alla fede cattolica. Con questo mezzo rese impossibile la restituzione dei beni della Chiesa, insegnò agli uomini a nascondere la fede e impregnò gran parte della nobiltà di principi falsi e abominevoli. Con questo rese inutili tutti gli sforzi che sono stati tentati con la discussione ed anche con la forza delle armi, per guarire l’Europa e specialmente la Germania. È proprio vero che la saggezza o piuttosto l’astuzia di questo mondo prevale facilmente sugli uomini! (Luca, XVI, 8): « I figli di questo mondo sono più abili dei figli della luce nel condurre i loro affari. » Abbiamo visto le parole di Gesù Cristo adempiersi in Germania, (Matth. XII, 43): « Quando lo spirito immondo esce da un uomo, vaga in luoghi aridi, cercando riposo, e non lo trova. E dice: “Tornerò a casa mia da dove sono venuto”. E quando ritorna, la trova vuota, pulita e adornata. Poi va e prende con sé altri sette spiriti più malvagi di lui, ed entrando vi dimorano, e l’ultimo stato di quell’uomo diventa peggiore del primo; e così sarà questa generazione criminale. » Vediamo, infatti, tutte le eresie moderne risolversi in una sola, e finire nello pseudopoliticismo e nell’ateismo. Ognuno si forma una coscienza ed una religione a sua scelta, che basa sui suoi principi politici. Cos’altro è la religione degli pseudo-politici e degli atei se non pura ipocrisia? Poiché essi dicono in cuor loro: che mi importa della religione? Dio non esiste, è una parola; non c’è altra vita che questa. E così si prendono gioco delle più grandi verità. È di questa razza empia che parla il santo re Davide quando dice: (Sal. XIII, 1): « Lo stolto ha detto in cuor suo: “Non c’è Dio”. Sono perversi e corrotti, e sono abominevoli in tutti i loro affetti. Non ce n’è uno che faccia del bene, neppure uno….. La loro gola è un sepolcro aperto; hanno usato la loro lingua per ingannare con abilità; il veleno degli aspidi è sotto le loro labbra. La loro bocca è piena di maledizioni e di amarezza; i loro piedi si affrettano a spargere sangue. Tutte le loro vie tendono solo ad affliggere ed opprimere gli altri; essi non hanno conosciuto la via della pace; il timore del Signore non è davanti ai loro occhi; non capiranno questi operatori di iniquità, che divorano il mio popolo come un pezzo di pane? Etc. » Da questo compendio storico passiamo ora al testo.

II. Vers. 13E il sesto angelo suonò la tromba. Questo sesto angelo era Martin Lutero, il principe degli eresiarchi, e uno di quelli descritti sotto le sette trombe. Egli suonò la sua declamando contro le indulgenze e diffondendo i suoi orribili errori, con i suoi discorsi, con i suoi scritti e con i suoi seguaci. (De occasione et causa hujus apostasiæ vide Doctorem Gabriel. Prateolum, Marcassium, Lib. 10. Elench. Alfabet. Hæreticorum). Fu contro questo eresiarca che si riunì il Concilio Ecumenico di Trento, sotto gli imperatori Carlo V e Ferdinando, e con i Pontefici Paolo III, Marcello II, Paolo IV, Pio IV e Pio V. Lutero fu condannato all’unanimità come eretico, i suoi libri erano già stati condannati a Roma il 7 luglio 1520, ed egli stesso era stato scomunicato in precedenza da Leone X, lo stesso Papa che aveva concesso e pubblicato le indulgenze della Chiesa in Germania. La cura di questa pubblicazione era stata affidata all’Elettore di Magonza, il quale, secondo l’usanza, la affidò ai Domenicani; e fu questo che eccitò la gelosia, l’avarizia e l’orgoglio di Lutero e dei suoi seguaci, fino all’apostasia. E udii una voce dai quattro angoli dell’altare d’oro, che è davanti a Dio.

Vers. 14. – Una voce disse al sesto angelo che aveva la tromba: Slegate i quattro angeli che sono incatenati sul grande fiume Eufrate. Con l’altare, San Giovanni designa qui la Chiesa universale, ovvero i prelati, i Vescovi, i dottori ed i sacerdoti uniti al loro capo, il Sommo Pontefice. Essi sono veramente chiamati l’altare, perché è in essi e attraverso di essi che le preghiere e le buone opere del Cristianesimo sono offerte quotidianamente a Dio Padre attraverso Gesù Cristo; ed è da questo altare che l’incenso del pentimento e del dolore sale al cielo. Perciò questo altare è chiamato d’oro, perché solo la Chiesa è continuamente illuminata dalla saggezza eterna che l’oro rappresenta. Si dice anche che questo altare sia davanti a Dio, perché la Chiesa Cattolica è sempre presente agli occhi del Signore, che la custodisce e la protegge in modo molto speciale, e le impedisce di cadere in qualsiasi errore o di essere vinta da qualsiasi nemico. Se i suoi membri sono colpevoli di qualche colpa, Egli li castiga e li corregge come un buon Padre, secondo la Sua promessa in Paralipomeni, II, c. VII, 15, a proposito del tempio di Salomone, che era la figura della Chiesa Cattolica: « I miei occhi saranno aperti e i miei orecchi attenti alla preghiera di chi mi invoca in questo luogo, perché ho scelto questo luogo e l’ho santificato, affinché i miei occhi e il mio cuore siano sempre fissi su di esso. » Così una cosa che è davanti a Dio significa, secondo la Scrittura, la cura, la sollecitudine, la preoccupazione e l’amore paterno del Signore per essa. Ora, tale è la Chiesa di Gesù Cristo, che Egli ha acquistato con il Suo prezioso sangue. Abbiamo un esempio di questa sollecitudine e vigilanza nella storia naturale degli animali: chi non ha avuto occasione di ammirare nelle femmine degli uccelli la loro vigile sollecitudine e le loro ali di protezione per i loro piccoli? – Questo altare di cui parla San Giovanni nel suo testo, aveva quattro angoli, per significare ancora meglio la Chiesa che si estende nelle quattro parti del mondo, in Oriente e in Occidente, nel Nord e nel Sud; e come la Chiesa universale sia l’assemblea di tutti i fedeli del mondo riuniti sotto un solo capo, che è il nostro santo Padre il Papa, e poiché ogni volta che si riunisce in un Concilio generale, tutti i prelati e tutti i dottori del mondo sono convocati, ecco perché troviamo queste parole piene di significato e di verità nell’Apocalisse: E udii una voce che veniva dai quattro angoli dell’altare d’oro. Questa voce era la voce del Santo Concilio di Trento che usciva dai quattro angoli dell’altare. Era uno, perché questo Concilio era generale e condannò con voce unanime, e consegnò a satana, l’empio Lutero con tutti i suoi errori. Questa voce disse al sesto angelo, Martin Lutero, che aveva la tromba, e al quale Dio aveva permesso di predicare, di propagare, di diffondere da sé e dai suoi seguaci, gli errori più numerosi, più vari e più biechi, che le sue passioni sfrenate, il suo orgoglio indomabile e la sua impareggiabile audacia, erano stati in grado di produrre. Scatenare i quattro angeli; è un modo di parlare per provocare qualcuno alla battaglia e dichiarargli guerra, quando tutti gli altri mezzi di pacificazione sono stati esauriti per risolvere una questione urgente e necessaria. Così procedette Gesù Cristo quando vide che il diavolo era entrato nel cuore di Giuda, che doveva tradirlo e consegnarlo ai Giudei, e gli disse, (Jo. XIII, 27): « Fai presto quello che stai per fare ».  Ed è così che noi stessi agiamo quando vediamo che non c’è altro modo di sfuggire ad un nemico che una giusta difesa; ci prepariamo risolutamente alla battaglia e attacchiamo senza paura il nemico che ci insulta. Questa espressione imperativa: “Slegate“, non è dunque altro che una provocazione alla guerra spirituale contro la furia di satana e di tutto l’inferno, che si serviva di questo eresiarca per cercare di sterminare la Chiesa latina. Abbiamo detto che questa espressione di “Slegate” è imperativa, ordinando al Sovrano Pontefice e al Concilio di Trento, in effetti, di emettere una sentenza di scomunica e di condanna contro l’empio Lutero ed i suoi seguaci; e questa fu l’occasione che più accese la sua furia e lo eccitò alle più vergognose diatribe contro i Sovrani Pontefici, contro i santi Concili, le indulgenze, il celibato, le dignità, il potere, l’autorità ed i beni ecclesiastici. Di questo ci si può convincere per mezzo dei suoi scritti e dei suoi discorsi. Inoltre, questo nemico infernale sobillava i principi dell’impero, il popolo e persino gli ecclesiastici contro il Papa, i Vescovi ed i prelati, cercando sempre e con ogni mezzo di sterminare la Chiesa. Questo, almeno, si vede chiaramente negli sforzi che sono stati fatti e vengono fatti ancora al giorno d’oggi. Slega i quattro angeli che sono incatenati sul grande fiume Eufrate. Con il grande fiume Eufrate intendiamo l’Impero Romano che è chiamato un grande fiume. – 1°. Per la moltitudine di popoli che la compongono. Perché l’Europa, che appartiene interamente a questo impero, è molto popolosa, secondo queste parole dell’Apocalisse … (c. XVII, 15): « Le acque che hai visto, dove siede la prostituta, sono i popoli, le nazioni e le lingue. » 2° Perché l’Eufrate era uno dei quattro grandi fiumi del paradiso terrestre, secondo la Genesi, (II, 14): « Il quarto fiume è l’Eufrate »; così l’Impero Romano era uno dei quattro principali imperi del mondo e anche il più grande, il più potente ed il più durevole, come vediamo nella storia romana e nelle profezie di Daniele, II. – Quale non fu la potenza di questo impero, che era come il ferro, e che, come il ferro, rompeva e sottometteva tutti i re della terra e li rendeva ad esso tributari, anche se attualmente questo impero è molto piccolo, ed anche così diviso, in cui si vede solo confusione, come il Profeta aveva predetto. 3º Come l’Eufrate è molto grande verso la sua sorgente, ma poi si divide in vari fiumi, così l’Impero romano fu dapprima immenso, poi diminuì col tempo e si divise in vari regni e repubbliche che si separarono da esso o per ribellioni, o per defezioni dalla fede cattolica, o infine per qualche altra circostanza; così che ora ne rimane solo una piccola parte, piena di problemi, come abbiamo detto. Il numero quattro è spesso usato per esprimere la totalità di una cosa; così vediamo in San Matteo, XXIV, 31: « Egli manderà i suoi angeli con una tromba e un grande rumore, ed essi raccoglieranno i suoi eletti dai quattro venti », cioè tutti gli eletti. Ora, allo stesso modo, i quattro angeli menzionati qui da San Giovanni devono essere intesi come l’universalità dei malvagi che Lutero ha convocato per fare guerra alla Chiesa di Dio. E questi malvagi si dividono in due categorie: 1. Quella degli ecclesiastici che questo eresiarca reclutò tra il suo stesso popolo e tra un numero infinito di altri ordini religiosi e secolari, come Carlostadio, Munzer, Ecolampadio, Zuinglio, Calvino e un gran numero di altri. 2. La seconda categoria è costituita dai principi dell’impero e dai cosiddetti dottori della Riforma, che Lutero scatenò come bestie feroci contro gli imperatori e i re, per distruggere le chiese e i monasteri e per impadronirsi dei beni ecclesiastici e dei vescovadi. Fece tutto questo soprattutto in odio al Sommo Pontefice, ai Vescovi e ai sacerdoti, e per avversione alla Chiesa e alla fede cattolica, che i santi Padri, i Dottori e tutti i Santi hanno sempre adornata, mantenuto pura e incontaminata attraverso tutte le epoche e le difficoltà del tempo. I più perversi di questi principi empi e aggressori furono l’Elettore di Sassonia, che abolì i vescovadi e tutti i monasteri nei suoi stati, gli Elettori di Brandeburgo, di Heidelberg, di Brunswich, il Langravio d’Assia, i re di Svezia, di Danimarca e d’Inghilterra, ed un numero infinito di altri principi, duchi, marchesi, conti palatini, baroni e nobili. Tutto il Nord e anche quasi tutto l’Impero Romano d’Oriente, d’Occidente e del Nord si sono uniti contro la Chiesa Latina, al suono della tromba di questo sesto angelo, perché nessuno di loro poteva sopportare la sana dottrina del Santo Concilio di Trento. Slega i quattro angeli che sono incatenati dal potere dell’Impero; perché questi empi erano trattenuti dalla forza e dal giogo del potere di Dio che l’Impero Romano rappresentava, e cercavano di rompere le loro catene ululando come cani incatenati. Perché in quei giorni i principi dell’impero, i re e molti degli ecclesiastici erano come il cane furioso e lo stallone che nitrisce, a causa delle loro passioni sfrenate e della loro sete di ricchezze e di onori. Ma Dio nella sua potenza li tenne legati fino a quando la misura delle iniquità dell’Impero Romano fu piena, e la vendetta divina permise che questi uomini empi fossero sciolti da Lutero, per castigare quell’Impero e la sua Chiesa Latina. È quindi giusto che il testo dica: “Slegate i quattro angeli“, per indicare il permesso divino, senza il quale i nostri nemici rimangono incatenati ed incapaci di fare del male. La Germania e perfino l’Impero Romano avevano da molto tempo questo principio malvagio nel loro seno, e questi terribili disastri sarebbero avvenuti prima, se Dio non li avesse ritardati per aspettare che i peccatori facessero penitenza. Poiché tutti gli stati e le condizioni avevano corrotto i loro modi, i sudditi non volevano più obbedire, gli ecclesiastici violavano la disciplina e, considerando il celibato insopportabile, reclamavano a gran voce il matrimonio. Principi e nobili divennero insaziabili e bramarono altri onori, ricchezze e dignità. La vista di ricchezze in prebende, vescovadi e prelature suscitò la loro avarizia, e nella loro gelosia concepirono l’odio più profondo contro coloro che le possedevano. Per controllarli, aggiunsero la calunnia agli scandali di cui il clero ha purtroppo fornito tanti esempi. Tutti gli uomini hanno dimenticato Dio sulla terra e si sono immersi fino al collo nel fango della voluttà, degli onori, delle ricchezze. Così tutto fu preparato per una rovina generale che Dio, nella sua misericordia, trattenne per un po’ di tempo, finché finalmente lasciò esplodere la sua ira. Tale fu il destino dell’Impero Romano e della Chiesa Latina, che iniziò nell’anno 800 dell’era cristiana, quando passò ai Germanici, e continua fino ad oggi. Vediamo, dunque, nella loro storia che dalla loro origine fino all’anno 1517, cioè nello spazio di sette secoli, furono liberi da ogni eresia e rovina, eccetto solo quella di Berengario e di pochi altri eretici di poca importanza che abbiamo menzionato; infatti la mano di Dio teneva legato satana e tutti questi eresiarchi, che possono essere considerati come i prodromi del male, come abbiamo già detto, e non riuscirono mai a portare la furia dell’inferno contro la Chiesa fino al giorno della vendetta celeste.

III. Vers. 15E subito furono sciolti i quattro angeli, che erano pronti per l’ora, il giorno, il mese e l’anno in cui avrebbero dovuto uccidere la terza parte degli uomini. In queste parole seguono gli effetti del permesso divino con cui Lutero ottenne il grande potere delle tenebre per commettere con il massimo successo gli orribili mali con cui afflisse così crudelmente la Chiesa latina. Perché non è solo il male che ha fatto sugli uomini del suo tempo; ma dobbiamo considerarlo come il grande colpevole e la causa prima di tutti i disastri che i suoi errori hanno prodotto e produrranno ancora in futuro. Il primo di questi mali fu l’effervescenza che eccitava su un numero quasi infinito di ecclesiastici di ogni grado e condizione, insegnando loro, con la sua dottrina, a liberarsi del giogo della disciplina della Chiesa, e poi ad andare in giro per l’Europa come cavalli sfrenati, manifestando i loro desideri carnali con orribili nitriti, e pervertendo milioni di uomini con i loro scandali. Il secondo di questi mali fu quello di eccitare con discorsi e scritti i principi dell’impero alla più lunga e disastrosa guerra che sia mai stata o sarà.  E subito i quattro angeli furono sciolti, vale a dire, all’insieme degli empi e dei malvagi fu permesso di essere pronti e, per così dire, arruolati sotto le bandiere di lucifero, al quale furono venduti per fare il male, come fece Achab in passato, (III. Reg. XXI), che disse a Elia: « In cosa mi hai trovato tuo nemico? Ed Elia gli rispose: Perché tu ti sei venduto per fare il male agli occhi del Signore. » Noi vediamo un tale principe nella persona di Federico V che, insieme ai suoi alleati, fece versare in sì grande abbondanza il sangue dei Cristiani. Tali furono anche Enrico VIII, re d’Inghilterra, Elisabetta sua figlia, e successivamente Gustavo Adolfo, re di Svezia, che, a capo dei protestanti, divorò quasi tutta la Germania fino al midollo delle ossa, dopo averla sottoposta ai più sanguinosi oltraggi che possano umiliare una nazione. È fin troppo noto, infatti, l’orribile spargimento di sangue che questo principe provocò, così come i suoi stupri, le sue vessazioni, i suoi omicidi, i sacrilegi, ed altre infamie. Ora la prima fonte di questi incalcolabili mali, passati e futuri, fu la dottrina di Lutero. – E subito i quattro angeli, che erano pronti per l’ora, il giorno, il mese e l’anno, etc. Con questo l’Apostolo designa i vari periodi delle guerre del protestantesimo, i cui tempi sono fissati all’ora, al giorno, al mese e all’anno, secondo quanto piace alla volontà divina di permettere ai capi delle guerre di fermare e di determinare l’esecuzione dei loro piani. Dove dovevano uccidere la terza parte degli uomini. Qui l’Apostolo indica un numero definito per esprimersi in modo indeterminato; e con questa terza parte degli uomini si intende la maggior parte dei Cristiani che sono stati e saranno effettivamente uccisi da queste guerre. Per uomini, intendiamo indistintamente i buoni e i cattivi, i Cattolici e gli empi, che queste guerre dovevano e devono ancora coinvolgere. Per l’ora, il giorno, il mese e l’anno sono appositamente designati i periodi principali delle guerre protestanti; così l’ora indica chiaramente la guerra dei contadini, che durò poco tempo, e nella quale, tuttavia, 130.000 uomini furono uccisi dalla Lega svedese e da Antonio di Lorena. L’ora indica anche le guerre civili in Svizzera in Francia e in Belgio che furono brevi ma crudeli. Il giorno indica la guerra smalcadica che fu più lunga di quella dei contadini, ma che fu comunque abbreviata dall’imperatore Carlo V, famoso per le sue brillanti vittorie sui nemici più formidabili. Il mese annuncia la violenta guerra conosciuta come la Guerra dei Trent’anni, che durò dal 1619 al 1649. Questi trent’anni sono infatti designati dai trenta giorni del mese; perché sappiamo che nei profeti un giorno conta come un anno. Infine, per l’anno, l’Apostolo indica tutte le guerre e le sedizioni che avranno luogo in Europa, fino all’estinzione di questa crudele eresia.

Vers. 16. – E il numero di questo esercito di cavalleria era di duecento milioni. Con questo esercito, San Giovanni designa in generale tutte le milizie e le truppe che l’Europa, nelle diverse circostanze, ha messo sul piede di guerra, e continuerà a mettere per i quattro angeli, a causa di questa eresia empia e sanguinaria; ed il numero di queste milizie supererà tutto ciò che si poteva credere e supporre riguardo alle risorse dell’Europa. Eppure, sembrerebbe che questa guerra dovesse essere già esaurita, se consideriamo tutte le battaglie sanguinose di cui è già stata teatro per 125 anni. Infatti, quasi tutti i regni, principati e repubbliche furono insanguinati a causa di questi errori, come si vede da quanto precede. Ora, se sommiamo i numeri di tutte queste truppe, otterremo un numero incredibile, che San Giovanni stesso indica con una cifra prodigiosa in questi termini: E il numero di questo esercito di cavalleria era di duecento milioni. Diciamo un numero prodigioso, e il lettore sarà d’accordo con noi, se considera il numero ancora più sorprendente di fanteria che questa cavalleria così numerosa presuppone secondo l’arte della guerra. Anche il Profeta non si esprime in altro modo per non dire nulla di superfluo, ed infatti non annuncia un solo esercito, poiché ce ne sono stati e ce ne sarà un numero molto grande. Il suo scopo è quello di farci capire che tutti questi eserciti, per quanto numerosi e diversi possano essere, non formano che un unico esercito, moralmente parlando, poiché tutti devono tendere allo stesso fine e servire la stessa causa, che è quella di combattere per o contro i principi di Lutero. Tutte queste truppe sono uno strumento nelle mani di Dio per castigare questa epoca carnale con il massacro della terza parte degli uomini. Perché ho sentito il loro numero. Con queste parole il Profeta vuol dire che non è a caso, né senza motivo, che cita questo numero definito indicando un altro numero indeterminato; ma egli stesso afferma che questo numero di duecento milioni gli è stato indicato e che l’ha sentito in spirito.

IV. Vers. 17. – E così i cavalli mi sono apparsi nella visione. Il Profeta passa ora dalla descrizione dei mali fisici alla descrizione dei mali spirituali o morali di questa eresia. E, in primo luogo, descrive come ha visto la natura e le proprietà di questo esercito spirituale. Egli dice che i cavalli gli sono apparsi in questo modo nella visione. Ora questo modo di vedere è puramente intellettuale, ed è perfettamente adatto al suo oggetto, che è la guerra spirituale, così come l’altro modo di sentire, che presuppone una partecipazione fisica dell’orecchio, era adatto al primo dettaglio dei mali materiali. E così i cavalli mi sono apparsi nella visione. Per cavalli intendiamo i sacerdoti malvagi e gli empi che, avendo gettato via il giogo di ogni disciplina, e avendo abbandonato le briglie delle loro passioni, rinunciarono alla fede cattolica e corsero come cavalli selvaggi dietro a Lutero. Il numero di coloro che manifestavano le loro passioni sfrenate, con una sorta di nitrito dietro le voluttà della carne, era grande come quella di un grande esercito di cavalleria. 1°. Come lo stallone, quando viene messo in libertà, alza la criniera, scodinzola, spumeggia, corre, nitrisce dietro alla sua femmina, e diventa così indomabile da non essere preso da nessuno; così quegli uomini empi e sacrileghi che non hanno saputo mantenersi come eunuchi (Matth., XIX, 12: « Ci sono eunuchi che sono usciti dal grembo di loro madre come tali; ci sono alcuni che gli uomini hanno reso eunuchi da se stessi, per il regno dei cieli: Chi può intendere, intenda »), per il timore di Dio, credendosi liberati dalla dottrina di Lutero, dal vincolo della disciplina ecclesiastica, del celibato e della moralità, cominciarono ad alzare la criniera del loro orgoglio, a lanciare la loro schiuma contro la Chiesa di Dio, a pervertire gli uomini e a correre dietro a tutte le voluttà della carne. Non si lasciavano guidare da nessuno, per poter soddisfare più liberamente le loro passioni, non pensando che si esponevano così ad essere legati, dopo la loro morte, nella prigione eterna dell’inferno. Dobbiamo anche intendere letteralmente, con questi cavalli, i predicatori, cioè i ministri della riforma che hanno vissuto, che vivono ancora, … e che vivranno per preservare e propagare l’opera sovversiva di Lutero. Ora questi sono i maestri di cui parla San Paolo (II Tim., IV, 3), e il loro numero forma una grande armata. – 2 ° Gli stalloni in libertà calpestano tutto sotto i loro piedi, anche le cose più preziose che incontrano, perché sono privi di ragione; ed è così che Calvino, Zuinglio, Ecolampadio, Carlostadio, ed un’infinità di altri, guidati da Lutero, cioè dall’angelo che li ha liberati, hanno calpestato tutto. Come cavalli sfuriati, correvano attraverso il giardino della Chiesa che era in Europa, senza risparmiare nemmeno i fiori di quel giardino, cioè le vergini che avevano dedicato la loro vita ed il loro sangue a Gesù Cristo per preservare la loro verginità. Essi osarono attaccarle con le loro impure sollecitazioni, dicendo che dovevano abbandonare il loro stato e sposarsi. Essi non risparmiarono neppure i maestosi ed antichi alberi dei Santi Padri, alberi così fecondi per la loro dottrina sui sacramenti; né le piantagioni, né le opere, né gli abbellimenti dei Concili generali e provinciali, nemmeno gli orticoltori nella continua successione dei Sovrani Pontefici, da San Pietro all’attuale Papa che rimasero, nonostante queste offese, fermi ed incrollabili come eterni monumenti di verità. Essi attaccarono e cercarono di devastare tutte le piante della Chiesa, che sono tanto numerose quanto sono i miracoli e le virtù cristiane prodotte dalla fede cattolica. I loro piedi sono l’orgoglio, il disprezzo, la presunzione, la pazzia e l’empietà, e con questi piedi essi infangarono o attaccarono il Santo Battesimo, il Cristo, la Beata Vergine, la Santissima Trinità, i Santi Padri, la successione continua degli Apostoli, l’invocazione dei Santi, il libero arbitrio, quel grande dono che Dio ha dato alla natura, e infine, tutti gli articoli della fede e della morale; poiché nulla era al riparo dai loro insulti. Dico la verità e non mento: vorrei che Gesù Cristo mi rendesse anatema per i miei fratelli, che sono gli allemanni, e per tutti gli europei che sono accecati da questi cavalli di emissari, se si potesse, con questo mezzo, aprire i loro occhi alla verità, che si trova solo nella Chiesa Romana Una, Santa, Cattolica e Apostolica. – 3°. Come i cavalli sono leggeri nella corsa, soprattutto se ben cavalcati, così i cavalli emissari di Lutero portarono il veleno del suo errore con una corsa veloce, e in un attimo lo diffusero in tutta Europa, essendo cavalcati dai demoni, che sono i loro cavalieri, come vedremo più avanti. 4° Capestro. I cavalli sono animali molto forti e robusti che, una volta lasciati liberi dalle briglie, possono causare grandi danni a un campo o a una piantagione, e non si lasciano più facilmente domare. Ora, i cavalli emissari di Lutero erano anche molto forti, e nella loro erronea predicazione facevano affidamento sul potere di principi, re, Repubbliche, di ricchi commercianti, di città opulente come lo erano soprattutto agli inizi. Fu con l’aiuto di un tale potente protezione che essi causarono impunemente tanta rovina spirituale alle anime e facendo versare lacrime di sangue in abbondanza. E non sarà facile domarli, a causa del potere dei principi sui quali contano, e ai quali servono da maestri che lusingano il loro orgoglio e la loro avidità, secondo il linguaggio della Scrittura. Questi principi proteggono tali dottori, perché insegnano loro una dottrina conforme ai loro desideri, come, per esempio, mantenere ingiustamente i beni della Chiesa, le prelature, le dignità, i principati ed i vescovadi. – La storia della riforma ci fornisce una chiara prova della difficoltà, soprattutto nei primi tempi, di domare questi cavalli: come quando il pio e potente imperatore Ferdinando II impiegò tutte le sue forze per ristabilire l’ordine pubblico nei suoi stati, rimuovendo questi facinorosi che esponevano anime ad ogni vento di dottrina. Ma è noto che tutti i suoi sforzi furono paralizzati, e che dovette fare la pace con il nemico e accettare un trattato di pace che fece cadere la fede cattolica in uno stato peggiore del primo. Perché tutti i nemici della Chiesa, per quanto divisi possano essere, sono uniti e in perfetto accordo quando si tratta di attaccare gli interessi della fede, o di causarle qualche danno. Troviamo una figura vera, anche se poco lusinghiera di questo accordo degli empi, nella vita agricola: è quando un padrone di fattoria vuole mettere del ferro nel grugno di un maiale per impedirgli di fare di nuocere, che tutti gli altri animali accorrono alle sue grida, e minacciano colui che sta eseguendo l’operazione. E i cavalli mi apparvero nella visione come segue: coloro che li cavalcavano avevano corazze di fuoco, giacinto e zolfo. Con queste parole, il Profeta indica e descrive i cavalieri di questi cavalli che non sono altro che demoni. Si sa, infatti, che Lutero stesso confessò, nei suoi scritti, di avere frequenti rapporti con un demone che lo spingeva e lo spronava, per così dire, al male. Lo stesso vale per tutti i suoi discepoli e seguaci, e specialmente per quelli che negano il Capo visibile della Chiesa nell’epoca presente; tutti hanno dei demoni che servono come loro capi e li dirigono. Infatti, 1°. Colui che cavalca un cavallo, lo governa. – 2°. Lo tiene ben stretto per la briglia e lo dirige dove vuole. – 3°. Lo punge con il suo sperone per farlo correre, e per imprimergli tutti i movimenti che desidera: a volte lo fa andare avanti, a volte indietro, a volte lo fa caracollare. Ora, questo è il modo in cui i demoni hanno agito su tutti i discepoli e seguaci di Lutero, in qualsiasi forma siano apparsi, e questo è il modo in cui agiranno su coloro che appariranno di nuovo in futuro. Poiché essi li dominano sempre e li dirigono verso il male, ed essi, come cavalli addomesticati e flessibili, obbediscono senza vergogna agli impulsi dei loro cavalieri, calpestando la morale, la disciplina e gli articoli di fede. Se questi cavalli sono molli e senza fuoco, i loro cavalieri si servono dello sperone, cioè ispirano loro un falso zelo ed una specie di furore mescolato ad orgoglio, arroganza ed invidia, per meglio incitarli alla corsa e diffondere più rapidamente l’empietà, con il falso pretesto e sotto l’apparenza di bontà e verità. Fu in questa veste, almeno, che si presentarono alle città imperiali e si fecero strada presso i principi, presentando loro le ricchezze della Chiesa e dicendo loro, come fece il diavolo nella tentazione di Gesù Cristo: « Vi daremo tutte queste cose se vi inchinerete e ci adorerete. » È anche allo stesso modo che questi cavalli correvano a far risuonare i loro nitriti nelle orecchie degli ecclesiastici, di qualunque stato essi fossero, questa falsa e licenziosa interpretazione del passo di San Paolo, (I. Cor. VII, 9): « È meglio sposarsi che bruciare. » Con il loro rapido corso propagarono in tutta Europa, in un attimo, le loro falsità così lusinghiere per le passioni degli uomini. Ma questi cavalli non solo si sottomettevano ai loro cavalieri con la loro obbedienza e flessibilità per l’attacco, ma anche per la fuga. Gli eretici, infatti, rifuggivano con avversione tutto ciò che era contrario al diavolo; perciò, respingevano con orrore il segno della croce, l’acqua santa, i Sacramenti le cerimonie sacramentali, le reliquie dei Santi, e soprattutto la presenza reale del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo nella santissima Eucaristia. Essi rifiutarono specialmente il santo nome della Beata Vergine Maria, così terribile per i demoni, in conseguenza di quell’antica inimicizia con cui la profezia divina si compie quotidianamente. (Gen. III, 15): « Io porrò inimicizia tra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; essa ti schiaccerà la testa, e tu la insidierai nel calcagno. » Ora, gli eretici moderni manifestano, con tutte le loro azioni, questo vecchio e antico odio verso la Donna per eccellenza, che gli Angeli e gli Arcangeli  venerano, e i re e i principi e tutte le generazioni l’hanno sempre lodata e sempre la loderanno, secondo San Luca 1,48: « D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. » Poi, come i demoni fin dall’inizio si mostrarono ribelli contro Dio loro Creatore, e per gelosia spinsero i nostri primi genitori alla disobbedienza, così questi cavalli emissari scossero il giogo dell’obbedienza alla santa Chiesa romana, e incitarono gli Stati dell’impero a ribellarsi contro i loro legittimi padroni e contro il sovrano Pontefice, il vero successore di San Pietro, e capo della Chiesa universale. Allora, cosa potrebbe essere più odioso e terribile per i diavoli del santo Sacrificio della Messa? Ora, gli eretici moderni, veri precursori dell’Anticristo, hanno fatto ogni sforzo per distruggerlo, e infatti rifiutarono il Sacrificio continuo, come farà l’Anticristo, secondo la profezia di Daniele, XII, 11: « E dal momento in cui il sacrificio continuo sarà abolito, ecc. » I demoni non desiderano altro che il sangue dei Cristiani, e cercano che omicidi, le discordie, guerre, sedizioni, etc., e fomentano i malvagi, che tengono sotto il loro dominio. Ora, non è questo il vero ritratto di questi cavalli emissari che la tromba del sesto angelo anima incessantemente al massacro ed alla devastazione, come abbiamo visto sopra? È quindi chiaro da tutto ciò che precede, che i cavalieri di questi cavalli sono i demoni che li dominano e li spingono al male, e vediamo dai dettagli che seguono nel testo, circa le armi e le uniformi di questi cavalieri, che il Profeta ha designato questi demoni alla lettera. Infatti, aggiunge: Quelli che li cavalcavano avevano corazze di fuoco, giacinto e zolfo, cioè erano notevoli per le loro corazze di fuoco, fumo e zolfo. Ora, queste tre cose si trovano nell’inferno, ed i demoni che lo abitano e che ne escono per fare guerra a Gesù Cristo sulla terra, sembrano brillare, secondo il testo, per queste corazze, per farci capire meglio cosa siano questi cavalieri. Infatti, come un re indossa una corazza d’oro, un ufficiale una corazza d’argento e un soldato una corazza di ferro, ognuno secondo il suo grado e la sua posizione, così i demoni indossavano una corazza di fuoco, fumo e zolfo. Queste parole indicano anche, letteralmente, i vari tipi di corazze che questi demoni indossavano a cavallo, per essere più terribili nel loro attacco contro la Chiesa di Gesù Cristo; e diciamo tre tipi, che sono: – 1°. lo zelo dell’odio implacabile e l’invidia nera che satana ispirò, attraverso i suoi falsi maestri, ai principi e ai grandi contro la Chiesa Romana, contro il sovrano Pontefice, contro i Cardinali, gli Arcivescovi, i Vescovi, i prelati, contro gli ordini religiosi, e in generale contro tutto il clero. L’esperienza quotidiana ci mostra l’incredibile odio e gelosia con cui gli eretici sono infiammati contro la Chiesa di Cristo. E questa è l’armatura con cui satana sapeva perfettamente come proteggere i suoi soldati per la battaglia. Perché un cuore pieno di odio e di avversione non si lascia facilmente convincere e persuadere dalla sana dottrina, da un buon consiglio o da un’ammonizione. Perciò è detto nel testo: Quelli che vi sedevano sopra avevano corazze di fuoco. Perché come il fuoco brucia e consuma, così il falso zelo dell’odio e dell’invidia consuma i cuori degli eretici, e li brucerà per sempre. – 2. Il secondo tipo di armatura è la confusione e la novità attraente della dottrina di questa eresia sulla fede e la morale. Per questo motivo non è stato facile combatterla. Perché non appena un errore veniva confutato, ne sorgevano infiniti altri ancora più sorprendenti. Questo era uno stratagemma nuovo e molto intelligente che satana impiegava nella sua guerra contro la Chiesa latina, ed era con l’aiuto di questa forte armatura che egli respingeva ogni colpo e marciava senza paura contro il suo nemico. Questa seconda armatura era del colore del giacinto, o del fumo; perché il giacinto assomiglia all’aria oscurata, e questo colore rappresenta perfettamente la confusione degli errori di Lutero. In effetti, 1°. il fumo è prodotto dal fuoco. 2°. Esso oscura l’aria. 3. Offusca la vista. 4°. È confuso e simile al caos; non può essere compresso, e se lo si comprime da una parte, si diffonde da un’altra. 5°. Infine, fa sgorgare le lacrime dagli occhi. Ora, tale è l’eresia moderna: 1°. Essa offre un quadro di errori i più numerosi e variati, e la confusione che ne deriva è dovuta al fuoco della gelosia e dell’invidia degli eretici contro i Cristiani; infatti, essi si dilettano ad insegnare e praticare in odio al Sommo Pontefice e alla Chiesa Romana tutto ciò che sia contrario ad essi. 2° Questa eresia oscurò con i suoi errori l’Europa, la cui fede era pura e chiara come l’aria in un bel giorno d’estate. 3°. Talmente turbò e offuscò la vista, cioè l’intelligenza e la sana ragione degli uomini, che non è più possibile distinguere quale sia la vera dottrina e la via che conduce alla vita eterna. 4°. È come un caos di tutti gli errori precedenti, che non sono stati dissipati, e più si vuole rimuovere le nuvole ed i vapori, più essi salgono da tutte le parti. 5°. Essa fece versare abbondanti lacrime, ed anche lacrime di sangue, specialmente in Germania, e ne farà versare ancor più. Ora, perché il profeta ha paragonato questo male al giacinto e non al fumo? La ragione è che, sebbene gli errori di questa dottrina non fossero in realtà altro che fumo, tuttavia apparivano plausibili all’esterno e avevano un’apparenza di solidità; e questi emissari li presentavano con questi falsi colori per renderli piacevoli agli uomini carnali di cui lusingavano i desideri, almeno per la vita presente. È così che i demoni sono abituati a presentare il male sotto colori e con ragioni in apparenza buone, per meglio riuscire ad ingannare gli uomini. Così vediamo da questo che è con buona ragione che il Profeta si è servito di queste corazze di giacinto per raffigurare questi nemici di Cristo e della sua Chiesa. – 3°. Il terzo tipo di corazza fu l’allentamento della disciplina ecclesiastica e della morale cristiana, che furono sostituite da una vita carnale e da una libertà licenziosa. Così che satana, attraverso questa eresia, ha aperto la porta a tutti i vizi e voluttà, persuadendo gli uomini, attraverso i suoi ministri, che la via del cielo è molto facile e coperta di rose … Dio non punisce il peccato così rigorosamente come insegnano i Cattolici. Egli ebbe cura particolare nel predicare la massima libertà della carne contrariamente al celibato, agli ordini religiosi, alle vergini ed ai sacerdoti. satana fu come un pescatore che, per mezzo di questa eresia, stese una grande rete sulle grandi acque d’Europa, e fece un’immensa pesca che fece arrostire nelle fiamme eterne; e il fetore del fumo che veniva da questo fuoco di lussuria, infettò tutta l’Europa.  È con questa terza armatura che satana protesse i suoi cavalieri ai quali diede corazze di zolfo. Infatti lo zolfo designa metaforicamente il fetore e l’infezione dei peccati disonesti. Questi erano dunque i tre tipi di armatura spirituale con cui i demoni erano coperti ed equipaggiati per intraprendere questa terribile guerra che satana aveva dichiarato alla Chiesa latina.

V. E le teste dei cavalli erano come teste di leoni. In queste e nelle seguenti parole il profeta procede a descrivere la natura e le proprietà di questi cavalli. Si concepirà senza dubbio un’idea mostruosa e orribile, se ce li immaginiamo con il ventre, i piedi ed il corpo di un cavallo, la testa di un leone, una gola infernale e una coda di serpenti. Questo, tuttavia, è ciò che verificheremo nel dettaglio.

1°. Si dice nel testo che le teste dei cavalli erano come le teste dei leoni, e questo è giusto. Perché come la testa di un leone è molto forte, e divora e lacera con i suoi denti tutto ciò che gli si avvicina, così questi cavalli, animati dalla potenza del leone, sono come le teste di un leone. – Così questi cavalli, mossi dal suono della tromba del sesto angelo, osarono attaccare e divorare con i loro denti maledetti quasi tutti gli articoli di fede, per quanto santi, autentici e antichi fossero. Essi non risparmiarono nulla che appartenesse ai buoni costumi, né le cose sacre, le cerimonie sacramentali né il culto della Beata Vergine e dei Santi. Come il leone in preda al furore lancia sguardi infuocati, fa cadere dalla sua bocca la schiuma della sua rabbia, fa risuonare le valli con il suo terribile ruggito, e diffonde il terrore della carneficina e il timore della morte ovunque vada, così questi cavalli dell’empietà, animati dal fuoco dell’odio, infiammati dal furore dell’invidia, e bruciando della sete di vendetta contro il Sovrano Pontefice e tutti i prelati della Chiesa, strapparono e divorarono con i loro denti di leone tutte le cose sante ed anche i Sacramenti.

2°. Il profeta aggiunge: E dalla loro bocca uscì fuoco, fumo e zolfo. Abbiamo detto che il fuoco denota l’ardore della gelosia, lo zelo dell’odio e l’invidia nera di cui questi cavalli erano infiammati dai demoni che li cavalcavano e che li lanciavano per tutta l’Europa per fare guerra al Sovrano Pontefice e alla Chiesa latina. Con questo fuoco bruciavano tutti i precetti morali e i dogmi della fede cattolica. Abbiamo anche detto che riempirono questa stessa Europa di fumo e di zolfo con la confusione della loro dottrina, della falsità della loro morale e dal fetore della loro vita licenziosa. Ora, secondo il testo, questi tre orrori sono usciti dalla loro bocca, cioè essi li predicarono e diffusero con i loro discorsi e scritti. Perché cosa potevano predicare se non ciò di cui i loro cuori erano pieni? E di cosa potevano essere pieni, se non del male che i demoni ispiravano loro? Così questi cavalli emissari diffondevano attraverso le loro bocche ciò che i demoni che li cavalcano, indossavano come armatura. Perché è proprietà dei demoni volere il male che satana fa commettere nel mondo dai suoi ministri, che sono gli empi e i malvagi. E la bocca dell’empio è simile al l’inferno, dal quale escono e usciranno per tutta l’eternità fuoco, fumo e zolfo, e divoreranno questi malfattori nei secoli dei secoli. È di questi stessi empi che Davide ha scritto così bene, (Sal. V, 10): « La verità non è nelle loro labbra; il loro cuore è pieno di vanità, la loro bocca è un sepolcro aperto e la loro lingua è piena di inganno. Giudicateli, o Signore, ecc. » – E (Sal. XII, 5): « La loro gola è un sepolcro aperto, hanno usato la loro lingua per ingannare con abilità, il veleno degli aspidi è sotto le loro labbra. La loro bocca è piena di maledizioni e di amarezza; i loro piedi si affrettano a spargere sangue. Angoscia e desolazione sono le loro vie; non hanno conosciuto il sentiero della pace. » – 3° Il fuoco, il fumo e lo zolfo delle corazze che i cavalieri portavano sono chiamati piaghe: 1° per significare l’influenza fatale che essi esercitarono in Europa sulla Chiesa latina per permesso di Dio. Perché la misura dei peccati degli uomini era piena, tutta la carne aveva corrotto le sue vie, e tutta l’Europa si era prostituita, lontano da Dio suo Signore, all’orgoglio, all’avarizia, alla lussuria e a tutti i piaceri della carne, e alla felicità della vita presente. Fu come risultato di questa tracimazione che questa eresia partorì e produsse una generazione di uomini che le erano perfettamente affini, e che divennero figli del dolore per la disgrazia del mondo intero.  – 2°. Queste corazze sono chiamate piaghe, perché Dio non può infliggere un castigo maggiore ad un popolo od una nazione che permettendone l’abbandono della vera fede e la caduta nell’eresia. Così Dio, nella sua bontà e misericordia, ha cura di annunciare questi terribili castighi spesso con cento e anche duecento anni di anticipo, per eccitare il popolo alla penitenza, ma se essi perseverano nei loro vizi ed errori, Egli fa finalmente esplodere la sua ira con una completa rovina. Infatti. Secondo l’espressione dell’Apostolo, (Eb. X, 31): « È terribile cadere nelle mani del Dio vivente. » Ed è per questo che il santo Re-profeta ci avverte, (Sal. II, 10): « Ora, o re, aprite i vostri cuori alla comprensione; imparate, voi che giudicate la terra. Servite il Signore con timore e gioite in Lui con tremore. Abbracciate rettamente la disciplina, in modo che il Signore non si irriti, e voi non periate fuori dalla via della giustizia, quando improvvisa si accenderà la sua ira. » Vedere quanto detto, in Lib. I, cap. II. – 4º Segue la grande devastazione causata da queste tre piaghe.

Vers. 18. – E con queste tre piaghe, il fuoco, il fumo e lo zolfo che usciva dalle loro bocche, la terza parte degli uomini venne uccisa. Per la terza parte degli uomini si intende qui una parte considerevole del Cristianesimo che abbandonò la vera fede e perì di una morte spirituale, o per il fuoco della gelosia o per il veleno dell’odio contro il sovrano Pontefice e la Chiesa e i suoi ministri, che questi emissari rendevano odiosi, sia per la confusione della loro dottrina e la diversità dei loro errori, sia infine per le attrazioni di una vita voluttuosa e di una libertà di coscienza senza limiti o restrizioni. Così il Profeta indica qui letteralmente che la terza parte degli uomini perse la vita spirituale a causa di questa eresia, nello stesso modo in cui aveva detto sopra, anche alla lettera, che la terza parte degli uomini fu uccisa fisicamente. Ora, questa morte spirituale di una terza parte della Cristianità può essere facilmente dimostrata dal numero di regni, province o città che erano e sono ancora infettati, totalmente o in parte, da abominevole eresia. – Infatti, se confrontiamo la moltitudine di eretici nel mondo con il numero di Cattolici che sono rimasti fedeli, possiamo facilmente comprendere la grandezza del male e la notevole rovina causata da questa eresia, che dobbiamo deplorare con lacrime di sangue.

Vers. 19. – 5º Perché il potere di questi cavalli è nella loro bocca e nella loro coda. Queste parole indicano la causa dei mali che questa eresia continuerà a produrre come conseguenza dei suoi principi, come è già indicato dalla congiunzione “perchè”, che è messa all’inizio. 1° Il potere di questi cavalli è nella loro bocca, che usavano per vomitare calunnie e menzogne contro il Sommo Pontefice, contro i prelati e in generale contro tutta la Chiesa, cercando di renderli odiosi, specialmente ai principi e alla nobiltà, e di persuadere tutti che non era opportuno che gli ecclesiastici possedessero ancora dignità, principati e ricchezze, a causa dell’abuso che essi ne facevano. Con i loro discorsi artificiosi e con l’apparenza di serietà e di ragione che pretendevano di darsi, ingannarono una moltitudine innumerevole di persone di ogni stato e condizione; e fu con tali mezzi che attirarono così tante persone alla loro setta, osando vantarsi di essere ispirati ed inviati da Dio per scuotere il giogo della schiavitù del diavolo. Tale era il loro linguaggio contro la Chiesa Cattolica. Essi aprirono anche la loro bocca per bestemmiare e per predicare che l’uso delle carni ai pasti è permesso ogni giorno, e che non si è più legati a nessun precetto della Chiesa. Inoltre, insegnarono e pubblicarono in tutta Europa che il Papa non doveva essere obbedito, e che il celibato doveva essere abolito, etc. E poiché la loro dottrina, così disastrosa per la Chiesa, era generalmente accettata da re, principi, nobili, città imperiali e da gran parte del popolo, il Profeta ha ragione nel dire che il potere di questi cavalli è nella loro bocca. 2º Dice anche che il loro potere è nelle loro code. Si deve notare che egli indica queste code al plurale, perché ce ne saranno diverse di generi diversi. La prima di queste code è l’ipocrisia e l’adulazione, di cui si servirono, come gli animali usano le loro code per adulare gli uomini; e questi eretici le usarono per coprire la turpitudine e dissipare il fetore della loro dottrina e dei loro vizi. – La seconda coda furono i principi, le città imperiali, le repubbliche e i governi, che essi condussero nell’errore e nella perdizione, persuadendoli che potevano con coscienza pulita prendere o conservare i beni della Chiesa, le dignità, i principati, le prebende e i vescovadi, ed essi correvano dietro a tali maestri che sapevano così bene come lusingare le loro passioni, come i bambini corrono dietro alle noci. C’è da meravigliarsi, allora, che, sostenuti da tali poteri, questi cavalli, nitrendo e agitando le loro criniere, abbiano osato e osino ancora lanciare la loro schiuma in modo così impudente contro la Chiesa latina? Questa seconda coda serviva loro anche per nascondere la loro turpitudine e dissipare il fetore della loro eresia, in quanto la gente semplice, vedendo i grandi e i dotti, i ricchi e i signori, i principi ed i governanti gradire e proteggere una tal dottrina, non potevano fare altro che perdere la testa. – La terza coda è lo pseudopoliticiamo e l’indifferentismo introdotti recentemente nel mondo da Machiavelli, Bodin ed altri filosofi; così come l’ateismo, che si possono considerare tutti come le ultime conseguenze di tanti princìpi falsi e contraddittori di questa dottrina, e di conseguenza anche come la coda di questi cavalli, poiché la coda è aderente al corpo come le conseguenze di un principio risultano dal corpo della dottrina: ne sono l’ultima ragione, come la coda è l’ultimo membro dell’animale. Siccome l’ultima soluzione del grande problema della fede cattolica è Dio, così, al contrario, l’ultima conseguenza della dottrina di Lutero è la negazione di Dio. Ed è per questo che tanti principi e governanti, persuasi dalle contraddizioni e dalle infinite variazioni delle sette moderne, e conservando il primo lievito di odio che il protestantesimo aveva ispirato in troppi di loro, anche tra i  Cattolici, finirono per non credere in altra verità che la religione e la ragion di stato; e si accontentarono di conservare le cerimonie esteriori e apparenti per riuscire a meglio contenere il loro popolo nella sottomissione; e dissero nell’empietà nei loro cuori: « Non c’è nessun Dio. » – 6° Il Profeta descrive poi la natura e le proprietà di queste code, e usa volutamente la congiunzione perché, per rendere chiara alla Chiesa latina la causa di tanta rovina e desolazione. Perché le loro code assomigliano a serpenti e hanno teste che feriscono. 1°. Le code di questi cavalli sono paragonate a serpenti, a causa delle lusinghe che usano. Infatti, come il serpente sedusse i nostri progenitori con le lusinghe nel Paradiso terrestre, e fece mangiare loro il frutto proibito, così i seguaci di Lutero sedussero e continuano a sedurre il popolo, lusingandoli nei loro desideri, e convincendoli a mangiare le vivande proibite e ad indulgere senza paura nella voluttà e nella licenziosità. Essi a questo scopo si servono di menzogne, tanto lusinghiere quanto speciose, e anche quando è necessario, fanno uso dei testi della Scrittura, di cui distorcono il significato, dicendo, per esempio, (Matth. XV. 11): « Non è ciò che entra nella bocca che contamina l’uomo »; e (I. Cor, VII, 9): « È meglio sposarsi che bruciare. » Inoltre, i serpenti non sono facili da prendere, perché se uno vuole afferrarne uno, corre un grande rischio di essere morso e di ricevere una ferita spesso mortale. Ecco come sono le code, ossia le conseguenze dell’attuale eresia. Perché, chi è colui che possa vantarsi di aver compreso l’astuzia degli eretici? Chi sarà capace di sradicare la falsa filosofia, la falsa politica e l’ateismo che si sono insinuati come un veleno anche nelle membra dei Cattolici stessi? Gloria a lui che potrà far discendere dai loro pulpiti quei dottori delle tenebre che predicano l’errore e la menzogna come vipere che minacciano la morte con il loro orribile sibilo! Felice l’uomo che, con l’aiuto di Dio, potrà impadronirsi e dominare principi, re, repubbliche, città imperiali e tutti i poteri su cui si basa questo errore! La storia ci dice che Ferdinando II, un imperatore tanto pio quanto potente, tentò di farlo, così come Ferdinando III; ma ahimè, il risultato dei loro sforzi fu un’orribile ferita che ricevettero nel tentativo di catturare questi terribili serpenti. 3º La natura del serpente lo obbliga a strisciare sulla terra, e questo è precisamente ciò che fanno quegli eretici, la cui faccia, come quella del serpente, è costantemente inclinata verso le cose terrene, cercando solo onori, ricchezze e piaceri. – 4°. Secondo Genesi III, 1, « Il serpente era il più astuto di tutti gli animali che il Signore Dio aveva posto sulla terra. » Lo stesso vale per la generazione attuale, che è la più astuta di tutte quelle che sono esistite finora. È certo che i protestanti hanno usato la più raffinata astuzia contro la Chiesa. Basta leggere per convincersene, gli atti della cancelleria di Anhalt, così come i decreti dei loro concili, e vi si vedrà tutta l’astuzia che li ha ispirati contro i Cattolici e contro l’Impero Romano; e si capirà che non è sbagliato paragonarli ai serpenti più astuti. – 5°. Se Dio, nella sua maledizione, ha stabilito l’inimicizia tra il serpente e la donna, tra la razza dell’uno e dell’altra, (Gen. III), possiamo allora capire quale inimicizia Dio ha permesso che esistesse tra questa nuova razza di serpenti e la Donna per eccellenza, la beata Vergine Maria, Madre del Dio fatto uomo, che sarà benedetta tra tutte le donne. – 6°. Si dice che queste code abbiano delle teste, per farci capire che i fautori e i seguaci di questa eresia sarebbero re, principi e un gran numero di persone distinte e potenti, che sono davvero come la testa, o i capi dei popoli. Inoltre, non è senza motivo che il profeta designa diverse teste, per significare che i dogmi del protestantesimo, avendo come base solo il principio del libero esame, avrebbero necessariamente seguito una moltitudine di sette diverse, poiché ogni autorità che avrebbe potuto interferire con la falsa libertà di coscienza doveva essere respinta. Non è proprio questo che l’esperienza ha purtroppo fin troppo bene dimostrato, a partire dalle scandalose controversie sulla presenza di Cristo in tutti i luoghi, sulla comunicazione degli idiomi divini, sul numero dei sacramenti, sulla fede dei bambini nell’amministrazione del Battesimo, sull’uso e le cerimonie della messa in tedesco, etc. etc. Era sufficiente che un concistoro o un concilio provinciale ammettesse e proclamasse qualche regola su questo argomento, perché altri concili e concistori la rifiutassero e addirittura la deridessero. Non è una prova evidente chiara che nessuno di loro fosse sostenuto dell’assistenza infallibile e della promessa dello Spirito Santo che avrebbe impedito loro di errare e dividersi? Queste teste significano anche la saggezza, l’intelligenza e la prudenza umana con cui questa generazione sorpassa di molti i Cattolici; infatti, secondo San Luca, (XVI, 8): « I figli di questo secolo sono più scaltri dei figli della luce nel condurre i loro affari », non è questo che abbiamo sperimentato soprattutto all’inizio di questa quinta epoca, nel vedere i protestanti superare di gran lunga i Cattolici nell’arte di fingere, di combinare piani occulti e di tendere trappole? Nel talento di acquisire ricchezze ed estendere il commercio, nei negoziati di successo, nel perfezionamento dei sistemi di attacco e di difesa delle fortezze e dei luoghi di guerra, nelle leggi e nei regolamenti civili della polizia esterna, nel lusso di una brillante educazione per la gioventù, etc.? Quando il Profeta ci dice che avranno delle teste, vuole avvertirci dei notevoli danni che questa generazione perversa causerà alla Chiesa e all’Impero Romano; e completa la descrizione di questa eresia dicendo: Le loro code sono come serpenti.… Hanno delle teste con le quali feriscono. Cioè, essi danneggeranno la Chiesa e l’Impero Romano in particolare con questi tre tipi di code di cui abbiamo parlato sopra, e che tutta la potenza ed il vigore di questa eresia, quando starà per finire, consisterà in queste tre code. Così che chiunque riuscirà a tagliare queste code metterà fine all’esistenza di questa eresia.  – Che Dio conceda che venga presto questo potente monarca, che rovesci le repubbliche, abbatta le città imperiali e marittime che non sono altro che nidi di vipere, e soffochi le grida e i sibili di questi predicatori e serpenti, e dopo aver umiliato gli eretici e gli scismatici, metta fine a tutti gli errori! Il Profeta non ha descritto nessuna eresia con tanta forza e chiarezza, e con paragoni così sensati come quella moderna, per far conoscere meglio alla Chiesa latina i mali che ne risulteranno. Portando questo mostro davanti ai nostri occhi, l’Apostolo avverte, anche a noi stessi, di mantenere fedelmente la fede cattolica romana, e di camminare sobriamente, castamente, divinamente e santamente in presenza di questa orribile bestia, affinché il nostro ministero non sia deriso e svilito. Inoltre, il Profeta ci avverte di evitare la lussuria, i piaceri della tavola, l’orgoglio, la fornicazione, l’avidità e l’ostentazione, per non offendere i deboli tra noi. Invece, dobbiamo sforzarci di brillare con la nostra vita e la nostra dottrina come una luce nelle tenebre. Osserviamo la disciplina del Signore, per evitare che la sua ira scoppi e permetta che tutto ciò che ancora possediamo in Europa sia divorato da questa bestia orribile. Leggete ciò che è scritto nel piccolo libro che tratta dei sette animali e di alcuni altri segreti particolari riguardanti la Germania.

§ III.

Riassunto dei mali causati dai Cattolici malvagi a se stessi.

CAPITOLO IX. VERSETTI 20-21.

Et ceteri homines, qui non sunt occisi in his plagis, neque pœnitentiam egerunt de operibus manuum suarum, ut non adorarent dæmonia, et simulacra aurea, et argentea, et ærea, et lapidea, et lignea, quæ neque videre possunt, neque audire, neque ambulare, et non egerunt pœnitentiam ab homicidiis suis, neque a veneficiis suis, neque a fornicatione sua, neque a furtis suis.

[E gli altri uomini che non furono uccisi da queste piaghe, neppure fecero penitenza delle opere delle loro mani, in modo da non adorare i demoni e i simulacri d’oro, e d’argento, e di bronzo, e di pietra, e di legno, i quali non possono né vedere, né udire, né camminare, e non fecero penitenza dei loro omicidii, né dei loro veneficii, né della loro fornicazione, né dei loro furti.]

I. E gli altri uomini che non furono uccisi da queste piaghe non si pentirono delle opere delle loro mani, affinché non adorassero più i demoni, etc. Questo testo contiene un ammirevole riassunto dei notevoli mali che noi Cattolici abbiamo causato alla Chiesa con le nostre opere perverse. Perché pur essendo rimasti nella vera fede, ci siamo quasi alleati con la bestia, per combattere contro la nostra santa Madre Chiesa. E gli altri uomini, cioè i resti dei Cattolici, che non furono uccisi da queste piaghe, che non abbandonarono la vera fede: … E gli altri uomini. Questa costruzione non sembra completa a prima vista, perché non c’è nessun verbo e nessun attributo. Ma bisogna sapere che questo verbo e questo attributo esistono comunque, e si trovano in queste parole del testo che precede: E che hanno teste che feriscono. In latino la connessione è fatta meglio, a causa del pronome illis, che è dei tre generi, invece del pronome francese elle, che è femminile. Gli altri uomini sono dunque anche il soggetto del verbo ferire che si trova nel verso che precede, e l’attributo si trova nella parola: di cui o con queste teste; cioè con queste teste di cui gli altri uomini si feriscono. Con questo collegamento di frasi, il profeta ci mostra in modo mirabile il legame o almeno l’avvicinamento che univa quasi i resti dei Cattolici ai protestanti.  Di conseguenza, il Profeta vuole farci capire che anche noi, cattivi Cattolici, avremmo portato la nostra parte di legna a questo orribile fuoco che doveva incendiare l’Europa. E questi mali di cui saremo colpevoli contro la Chiesa si dividono in due specie: la prima è la cosiddetta saggezza e l’astuzia del serpente che presiedono nei consigli delle potenze del secolo, e le ispirano di opprimere la Chiesa privandola delle sue immunità, e facendo uso di ogni tipo di titolo falso e specioso per invadere il potere spirituale, per gravare di imposizioni le rendite e persino le persone ecclesiastiche, le corporazioni, i seminari, etc.; e per togliere loro diritti, entrate, decime, etc. E se la Chiesa, dal canto suo, li minaccia di scomunica o simili, essi ridono e se ne fanno beffe e continuano nel loro peccato. Non è questo il peggior segno che tutta l’Europa è sull’orlo della rovina e della prevaricazione? Perché quale peggior segno può esserci in un bambino se non quello di deridere la verga con cui sua madre lo minaccia? Ora, è in questo che i cattivi Cattolici sono particolarmente vicini agli eretici, poiché fanno in modo occulto e celato ciò che gli eretici facevano alla luce del sole e con tanto splendore. Oggi stanno portando via ciò che i loro padri hanno fondato con una pia intenzione, ma non si arricchiscono perché continuano ad essere nel bisogno e nelle difficoltà finanziarie, perché la benedizione di Dio non è su di loro. Le parole del Saggio sono rivolte a tutti questi rapitori: (Prov, XI, 24): « Alcuni danno ciò che è loro e sono sempre ricchi; altri rubano i beni degli altri e sono sempre poveri. » Che questi ultimi si persuadano a cessare al più presto questa usurpazione del potere ecclesiastico, queste esazioni, queste imposizioni, questa oppressione del clero. Che comincino a temere la terribile spada della Chiesa, poiché essa attira la maledizione di Dio sulle loro famiglie e sui figli dei loro figli. Ne abbiamo un terribile esempio in Carlo Stuart, re d’Inghilterra, i cui predecessori pretesero essere i capi della Chiesa: egli venne decapitato e perse la sua corona a causa delle maledizioni che Enrico VIII ed Elisabetta avevano attirato su questa sfortunata dinastia. È così che Dio punisce i crimini degli uomini fino alla terza e alla quarta generazione. – Il secondo tipo di male che i Cattolici causarono alla loro Madre Chiesa furono i grandi peccati dei principi, del clero e del popolo, per i quali non fu fatta alcuna penitenza, secondo l’espressione del profeta stesso; infatti, egli aggiunge, (verso 21): E non fecero penitenza per i loro omicidi, i loro venefici, le loro impudicizie ed i loro furti. È già per i nostri enormi peccati che Dio ha permesso questa fatale eresia in Germania e in gran parte dell’Europa; ed è perché continuiamo a peccare che Egli permette che duri ancor così a lungo. Perché a quale altra causa possiamo attribuire un così triste risultato degli sforzi dell’imperatore Ferdinando II, per la riforma della fede e la restituzione dei beni della Chiesa, se non ai nostri peccati? Questo principe aveva in mano tutti i mezzi per riuscire; il suo lavoro era iniziato bene, e l’aveva anche persino rafforzato con brillanti vittorie, e tuttavia, a causa dei peccati dei Cattolici, quale fu il risultato di tutto ciò se non un trattato di pace che comprometteva ulteriormente la loro situazione? È a causa dei vizi che continuiamo ad assecondare, e per i quali non siamo disposti a fare penitenza dopo averli riconosciuti e confessati, che Dio, nella sua ira, ha impedito questa riforma della fede e questa restituzione dei beni della Chiesa, che avevamo iniziato in modo insufficiente, poiché non vi abbiamo aggiunto la riforma dei nostri costumi. In questo, il Signore agisce come un padre gravemente offeso dalla condotta indegna di suo figlio, che disereda strappando il testamento che aveva fatto in suo favore, etc. Perché non adorino più i demoni, gli idoli d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra e di legno che non vedono, non sentono e non camminano. Queste parole specificano sette enormi peccati che sono la causa per cui Dio non ha pietà dell’Europa e che non risuscita la Chiesa oppressa sotto il giogo degli eretici. Il primo peccato è l’idolatria occulta dei superstiziosi, di cui l’Europa, e specialmente la Germania, abbondava prima dell’ultima guerra, e che già cominciano a riapparire. Coloro che indulgono in queste superstizioni mantengono un commercio segreto con i demoni che adorano in questi abomini, come un tempo i gentili li adoravano negli idoli; ed è così che dimenticano Dio, il loro Creatore. Ora questo è un grande peccato, che il testo esprime con queste parole: Perché non adorino più i demoni. Il secondo peccato è l’avarizia, che è abominevole davanti al Signore. Il Profeta lo descrive metaforicamente come idolatria, dicendo: Idoli d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra e di legno. Come i pagani facevano la maggior parte dei loro idoli d’oro, d’argento, di bronzo, etc., così gli uomini di questo tempo non danno valore e amore ad altro se non a questi oggetti vani, e ne fanno gli idoli dei loro cuori avidi. Le ragioni per cui il Profeta chiama l’avidità idolatria sono le seguenti: 1. Perché è caratteristico dei Profeti designare questo tipo di cose con enigmi e metafore. 2. L’Apostolo San Paolo pure chiama l’avarizia idolatria, perché l’una è un crimine grande quanto l’altro. (Ephes. V, 5): « Sappiate che nessun fornicatore, nessun avaro, il cui vizio è l’idolatria, sarà erede del regno di Gesù Cristo. » 3. Proprio come l’idolatria fa apostatare, così coloro che vogliono diventare ricchi, secondo San Paolo, cadono nelle insidie del diavolo. (1 Tim. II, 9): « Coloro che vogliono diventare ricchi cadono nella tentazione e nella trappola di satana e in molti desideri inutili e perniciosi, che gettano gli uomini nell’abisso della perdizione e della dannazione. Perché il desiderio di ricchezza è la radice di ogni male. E alcuni di quelli che ne sono posseduti si sono allontanati dalla fede. »  – Ora, non è questo che abbiamo visto in Europa, e specialmente in Germania, a causa della loro cupidigia per i beni della Chiesa? Gli avari sono idolatri che adorano il denaro come degli idoli, mettendo tutta la loro fiducia nella ricchezza e commettendo fornicazione con essa dimenticando Dio ed ignorando le leggi divine ed umane. – 5° Siccome niente è di più vano, più vile e più imperfetto degli idoli; il più piccolo moscerino dovrebbe essere molto più stimato, sembra, dell’oro, dell’argento, del legno, del bronzo, e della pietra, per i quali, tuttavia, gli uomini abbandonano Dio loro Creatore e l’Essere per eccellenza. Il Profeta esprime così il suo stupore di fronte a questa follia con queste parole: Gli idoli d’oro, d’argento, ecc. che non possono vedere, sentire o camminare. – Il terzo peccato è l’invidia, l’odio, l’ira; sono la collera, le risse, i processi ingiusti, il desiderio di dominare e la cupidigia; così come anche le guerre ingiuste, da cui risultano innumerevoli omicidi. L’Europa in generale non abbonda forse di omicidi di questo tipo? Quante guerre ingiuste, tra le quali citeremo solo quella di Mantova, quella della Francia contro l’Impero Romano a sostegno dei protestanti, quando Ferdinando II voleva introdurre la riforma della fede e restaurare i beni della Chiesa; e infine, la guerra contro il re di Spagna non fu intrapresa per una profonda gelosia? Si vuole essere Cattolici, ma non si vuole vivere da Cattolici. – Si appoggeranno persino, se necessario, i nemici della fede con armi, i cattivi consigli e il denaro, senza alcun motivo se non l’interesse a legittimare tali alleanze. Quante altre guerre ingiuste sono state intraprese! Di quanti omicidi ci siamo resi colpevoli in tante rivoluzioni!!! O peccatori che siamo, quando finalmente riconosceremo i nostri crimini? Ecco perché il Profeta aggiunge: E non fecero penitenza per i loro omicidi. – Il quarto peccato è l’omicidio particolare. Quanti omicidi non dobbiamo deplorare? Quante donne incinte distruggono i loro frutti? Quante madri, o orrore della natura! Che sono così crudeli da versare il proprio sangue, il sangue dell’innocente? Quanti venefici nascosti o conosciuti nella società e nelle famiglie! Questo è ciò che il testo indica espressamente: non hanno fatto penitenza …. per i loro venefici. – Il quinto peccato è quello della carne, espresso in queste parole: E non si pentirono….. delle loro impudicizie. Qui il Profeta indica la specie per il genere; ma la sua parola contiene tutti i peccati di lussuria in generale di cui il mondo è così lordato, che possiamo ben applicare ad esso queste parole che la Scrittura rivolge agli uomini che vissero prima del diluvio: « Tutta la carne aveva corrotto le sue vie. » Ah, qui non servono parole ma lacrime! – Il sesto peccato è l’ingiustizia che regna ovunque, e che il Profeta indica con queste parole: E non si pentirono… dei loro peccati. Anche qui si cita la specie per il tipo, come ne abbiamo molti esempi nei Profeti. Per piccoli latrocini intende quindi l’ingiustizia in generale, in cui sono inclusi tutti i tipi di furto, di qualsiasi natura. Ora, chi non si lamenta di un’ingiustizia fattagli in questo modo, o almeno chi non ne è stato mai minacciato? Ma sono molti coloro che rubano la proprietà di altri e che finalmente riconoscono i loro torti e che riparano alle loro ingiustizie? Non cercano, al contrario, di aumentare la loro fortuna con ogni mezzo, giusto o ingiusto – per essi non fa differenza – ispirati come sono dalla loro insaziabile avarizia? – Il settimo peccato di quest’epoca, che deve essere considerato come il complemento della nostra perdizione, è l’impenitenza finale espressa così chiaramente dal profeta: E il resto degli uomini ….. non si pentì delle opere delle proprie mani. E più in basso: Non fecero penitenza per i loro omicidi, etc. Tale è l’ultima sentenza riportata da San Giovanni, l’arcicancelliere dei temuti consigli di Dio!!! O sacerdoti e laici di tutta l’Europa e soprattutto della Germania, apriamo finalmente gli occhi per vedere il terribile pericolo che ci minaccia! Dio ha gettato uno sguardo di collera sulla Chiesa sua figlia; e dopo più di cento anni ci hanno afflitto e travolto la guerra, la carestia, i dissensi, le eresie, gli scismi, rivoluzioni e malattie di ogni tipo! E non facciamo penitenza per tutto questo, perseveriamo nella ricerca criminale dei piaceri della carne; noi siamo ancora ansimanti per la sete di beni deperibili e gonfi per l’orgoglio della vita. Gli occhi delle nostre anime sono oscurati dalle nostre passioni, e non possiamo vedere l’abisso in cui stiamo precipitando. Ah, svegliamoci finalmente dal nostro sonno di morte! Per amore di Gesù Cristo che ci ha amati fino al sacrificio sul Calvario; per amore delle nostre anime e per l’amore di coloro che verranno dopo di noi, facciamo tutti insieme uno sforzo di salvezza, affinché il Signore non ci lasci cadere alla fine nelle profondità dell’abisso sul quale siamo sospesi, affinché l’orribile bestia non divori questa bella Europa, e che non ci sia più nessuno che possa salvarci. Così sia.

FINE DEL LIBRO QUARTO

IL BEATO HOLZHAUSER INTERPRETA L’APOCALISSE: LIBRO QUINTO

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO – S. S. PIO VI “NOVÆ HÆ LITTERÆ”

Questa lettera Enciclica è un accorata condanna delle ingiurie che Vescovi  e prelati francesi, apostati ed usurpanti, perpetravano ai danni della Chiesa di Cristo, dei canoni ecclesiastici, nonché delle disposizioni della Santa Sede. « … In tutta la terra non s’è mai udito nulla di simile; ora tutta la Chiesa è stata offesa, il Santuario è trattato ignominiosamente e, quel ch’è peggio, la pietà patisce persecuzione dall’empietà… Infatti, se un solo membro soffre, tutte le altre parti si dolgono insieme con lui“, (S. Atanasio) … con quanto maggior diritto Noi, di fronte all’improvvisa occupazione di quasi tutte le Chiese di fiorentissimo Regno, siamo costretti ad esclamare che nulla mai di simile è accaduto alla Chiesa di Dio! – E cosa dobbiamo mai dire oggi, se non che ancora una volta, nulla di simile è mai accaduto nella Chiesa di Cristo, dalla quale è stato cacciato il legittimo Sommo Pontefice in un Conclave manipolato e mistificato, sostituito da burattini cabalisti i cui fili sono mossi da burattinai al servizio del demonio, autore infame di una falsa chiesa, anzi di una vera e propria antichiesa, invasa da finti prelati del c. d. novus ordo e dagli ancor più eretici e scismatici pseudotradizionalisti privi di giurisdizione mai ricevuta da nessuno, ancor meno dal vero Pontefice, anzi in antitesi netta e autori di orribili bestemmie verso il Vicario di Cristo, il Cristo stesso, e quindi verso la Maestà del Dio uno e trino. – Poi il Santo Padre continua ancora citando le parole di un antico Sinodo romano che compendiano bene il suo pensiero e che oggi ancor più sono vere nell’appropriazioni indebite di false giurisdizioni mai conferite (pensiamo alle marionette lefebvriane, ai ridicoli sedevacantisti e ai cani sciolti apolidi e senza regole canoniche, o meglio sciacalli sciolti) … « Se qualcuno avrà invaso scientemente i confini altruisarà giudicato reo di violenza. Perché si corre? Perché ci si affretta a conculcare le regole della Chiesa? Le leggi umane vengono rispettate ed i precetti divini sono disprezzati; si temono la spada presente e la pena temporale, e si trascura la punizione divina, che ha le fiamme eterne della Geenna. Vedrete a cosa avrà portato la presunzione: perciò se qualcuno avrà osato fare Ordinazioni in una Diocesi altrui e vorrà sostenerle, sappia che vacilla dal suo stato proprio colui che avrà invaso la Chiesa non sua. Qui non si tratta di affari civili; queste non sono promozioni mondane“. Attenti quindi, a tutti i ladri e briganti che non entrano dalla porta della Chiesa (cioè la giurisdizione affidata dal Pontefice e la missione canonica di un Vescovo in unione con il vero Papa Gregorio XVIII … il fuoco della geenna aspetta essi ed i loro fedeli scientemente o meno, ingannati da una falsa pietà e da un’iniqua apparenza di santità…

Pio VI

Novæ hæ litteræ

1. Questa nuova lettera che vi indirizziamo vi renderà testimonianza di quanto il Nostro animo da una parte gioisca e dall’altra sia rattristato per il diverso esito delle Nostre ammonizioni, contenute nella lettera emanata il 13 aprile dell’anno scorso; per altro, quali fossero queste ammonizioni, vi è ben noto, così come non l’ignora alcun Vescovo del mondo cattolico. Per quanto concerne la gioia, Voi per primi, diletti Figli Nostri Cardinali di Santa Romana Chiesa, e Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, Ce ne date abbondantissimo motivo. Confermati infatti dalle Nostre paterne voci, sempre più avete fatto risplendere la lodevole vostra costanza; alcuni fra voi, tollerando con animo invitto l’esilio fuori dalle vostre chiese e fuori dallo stesso regno; altri schiavizzati nelle stesse chiese dalle ingiurie e dalle persecuzioni degli avversari; altri ancora sopportando persino lo squallore del carcere, come in particolare abbiamo capito dalla tua lettera essere toccato a Te, venerabile fratello Vescovo di Senez, degno perciò del maggiore elogio. Quasi tutti (se si eccettuano quattro infelicissimi pastori) sia presenti, sia assenti, si sono impegnati al massimo per diffondere la Nostra lettera, affinché i fedeli di tutte le Diocesi si attenessero alle nostre ammonizioni.

2. Perciò, Noi, assieme a San Leone, “ringraziamo Dio e speriamo fortemente di esultare in futuro, dacché abbiamo riscontrato che la Fraternità Cattolica è arricchita da un tale spirito di Fede che nessuna tentazione eretica potrà indebolire in alcun modo i vostri cuori… Sebbene dunque grandi spazi fisici Ci dividano, siamo tuttavia uniti con voi nella Fede…, e rendiamo grazie per la concordia della vostra professione: purché la vostra concordia perseveri, con l’aiuto di Dio, secondo le parole dell’Apostolo: “A voi è stato fatto dono della grazia in nome di Cristo, non soltanto perché crediate in Lui, ma anche perché soffriate nel Suo nome” Le vostre pene sono anche le Nostre. “Soffriamo infatti – come dicevano i Padri di Sardica al tempo della persecuzione Ariana – con i nostri fratelli che soffrono, e facciamo nostri i loro patimenti, ed abbiamo mischiato le nostre lacrime con le vostre.

3. Anche voi avete consolato il Nostro animo, diletti figli Canonici e Parroci degni di singolare lode, e voi professori universitari, in particolare della Sorbona, eminenti per sapienza e rigorosi per comportamento in questa delicata vicissitudine della Religione; voi, Rettori dei Seminari, Ecclesiastici di qualunque altro genere, Vergini consacrate ed anche Laici, che – attenendovi alle Nostre esortazioni – vi siete mantenuti costanti nella Fede ed avete fatto fronte ai vostri doveri in modo tale che, sull’esempio dei vostri Pastori, molti di voi hanno affrontato con grande virtù ingiurie, esilio, carcere ed altre vessazioni. Non pochi infatti, tra il clero dello stesso vostro secondo Ordine, deputati all’Assemblea nazionale francese, uomini egregi e famosi per la loro cultura e l’impegno in difesa della buona causa, si sono onorati di far presenti a Noi i sensi della loro costanza, del loro ossequio e della loro osservanza, a mezzo di lettere mandateci sei mesi fa; lo stesso fecero altri Ecclesiastici del secondo Ordine, insieme al venerabile fratello Francesco, Vescovo di Clairmont, con una lettera inviataci il 22 gennaio; altri ancora il 17 febbraio di quest’anno. Perciò in questa sede li ricordiamo e li lodiamo.

4. Maggior consolazione Ci avete arrecato voi, diletti figli del secondo Ordine Ecclesiastico, che – appena uditi il Nostro parere e le Nostre ammonizioni – avete imitato l’illustre esempio di alcuni antichi Vescovi della Gallia. Quelli infatti, dopo aver approvato insieme con i Vescovi orientali l’erronea formula del Concilio di Rimini, rendendosi conto che la loro semplicità era stata ingannata, ritrattarono tutto ciò che per ignoranza avevano approvato, respingendo quei sacerdoti apostati che, per ignoranza o empietà di alcuni, erano stati collocati al posto di fratelli indegnamente mandati in esilio; così anche voi solleciti disdiceste quell’empio giuramento che vi era stato estorto con la paura, con l’ignoranza, con l’inganno, detestando gli errori contenuti nel giuramento, allontanandovi da quegli intrusi e ricongiungendovi infine per vostra volontà ai legittimi pastori dai quali vi eravate allontanati. Le ritrattazioni di tal fatta furono talmente tante che ogni giorno ne recava delle nuove; di conseguenza, coloro che – completamente accecati – preferirono restare nell’errore, sono rimasti gravemente disonorati presso tutti gli Ordini e sono decaduti dalla stima anche di coloro che li avevano spinti sulla strada dell’apostasia, come Ci è stato riferito da molti Vescovi.

5. Perciò non è da stupirsi se il Nostro gaudio sarà, grazie a voi, tanto più grande e comune a tutta la Chiesa; per cui riteniamo che sia da seguire con voi la stessa benevola condotta che San Leone adottò con alcuni Vescovi orientali che avevano avuto parte nella cacciata di San Flaviano dalla sede di Costantinopoli. Così infatti egli scrisse ad Anatolio, Vescovo di Costantinopoli: “Quanto poi a quei fratelli che abbiamo saputo essere desiderosi della comunione con Noi, poiché si pentono di non essere rimasti saldi contro il potere e il terrore e di avere offerto consenso all’altrui scelleratezza; dal momento che la paura li aveva così ottenebrati da farli partecipare con trepido ossequio alla condanna di un Vescovo cattolico innocente ed all’accoglimento di orribili malvagità, vogliamo che costoro si rallegrino della comunione e della pace con Noi ogni volta che condannano in piena consapevolezza le malvage azioni e preferiscono accusarsi piuttosto che difendersi. E la Nostra benignità non può in alcun modo essere condannata, poiché accogliamo penitenti coloro che ci dispiacque veder ingannati“.

6. Ci consola ancora la notizia che l’intruso di Roven abbia lasciato la sede che aveva occupato e che altri intrusi abbiano preso la fuga. Ascoltando dunque queste notizie abbiamo considerato quel che di buono deriva dalla loro abdicazione e dalla loro fuga. Infatti, abdicazioni e fughe di questo tipo danno chiaramente ai Fedeli la misura di come gli intrusi si rendessero conto del disonore intrapreso e da quali stimoli di coscienza fossero animati allorché – sotto maschera dell’episcopato – più di tutti gli altri alimentavano e fomentavano lo scisma. D’altra parte la Nostra gioia in questa circostanza non può essere completa. Non ci sfugge infatti che l’intruso di Roven, proprio nel momento in cui abdica l’incarico, anziché ritrattare il sacramento e detestare l’errore, ha nuovamente esibito la propria pervicacia; ed anche gli altri che hanno preso la fuga hanno dato prove non equivoche della loro pertinacia, cosicché si rende necessario che tanto questi – quanto altri che imitassero il loro esempio – rendano piena soddisfazione alla Chiesa. Diversamente non potranno giovarsi della comunione né con Noi né con la Chiesa, poiché “tale grazia non deve essere né rigidamente negata né sconsideratamente elargita“, come insegna San Leone.

7. Fin qui per quanto riguarda la gioia. Ora parliamo del dolore. Ci addolora infatti profondamente che molti membri del secondo Ordine Ecclesiastico ed una gran parte dei Laici, nonostante le Nostre ammonizioni, si siano tuttavia confermati nell’errore. Ma Ci addolora ancora di più che nello stesso errore abbiano perseverato sia il Vescovo di Autun, principale causa dello scisma, sia l’Arcivescovo di Sens e i Vescovi di Viviers e d’Orléans, i quali, essendo legittimi pastori, non potevano assolutamente ignorare né i doveri né i ruoli del ministero, né la gravità delle offese che recavano a tutto il corpo della Chiesa francese, senza contare che in virtù del loro titolo erano vincolati più strettamente ad ottemperare alle Nostre disposizioni. Inoltre richiamavano su di sé e facevano proprie le colpe dei Popoli loro soggetti. In effetti, perché ai pastori siano attribuiti i peccati degli inferiori, basta soltanto la negligenza, come insegna, San Leone, “dal momento che le colpe degli ordini inferiori a nessuno sono da imputare meglio che ai Rettori trascurati e negligenti, che spesso nutrono la pestilenza che s’è insinuata, rinviando l’adozione della medicina necessaria“. Allo stesso modo, tanto più condannabili saranno quegli infelici Vescovi che, anziché porgere le mani salvifiche ai traviati dall’errore, col loro esempio hanno spinto al male anche i buoni.

8. In verità Ci duole profondissimamente la stessa espansione di questo scisma, per descrivere la quale non potranno mai essere trovate parole sufficientemente gravi. Mentre infatti, al tempo della Nostra prima lettera, non Ci risultavano che otto Vescovi sacrileghi consacrati ed empiamente intrusi in altrettante Chiese, poco dopo Ci giunse la terribile notizia che le mani erano state illecitamente imposte a così tanti che nel breve volgere di giorni quasi tutte le Chiese di codesto Regno erano state occupate da intrusi.

9. Se Sant’Atanasio per l’invasione di una sola Chiesa in Alessandria (quella che Giorgio aveva occupato sulla base dell’editto del Principe contro la disposizione dei Canoni Ecclesiastici) a buon diritto e giustamente proruppe in queste parole: “In tutta la terra non s’è mai udito nulla di simile; ora tutta la Chiesa è stata offesa, il Santuario è trattato ignominiosamente e, quel ch’è peggio, la pietà patisce persecuzione dall’empietà… Infatti, se un solo membro soffre, tutte le altre parti si dolgono insieme con lui“, con quanto maggior diritto Noi, di fronte all’improvvisa occupazione di quasi tutte le Chiese di fiorentissimo Regno, siamo costretti ad esclamare che nulla mai di simile è accaduto alla Chiesa di Dio!

10. Un antichissimo Sinodo romano, che i Vescovi francesi avevano consultato, oltre che su altri punti, anche sul fatto che parecchi Vescovi di altre Diocesi avevano precipitosamente invaso le loro, impartendovi Ordinazioni irregolari e svolgendovi altri atti contro la giurisdizione, rispose loro gravemente: “Se qualcuno avrà invaso scientemente i confini altruisarà giudicato reo di violenza. Perché si corre? Perché ci si affretta a conculcare le regole della Chiesa? Le leggi umane vengono rispettate ed i precetti divini sono disprezzati; si temono la spada presente e la pena temporale, e si trascura la punizione divina, che ha le fiamme eterne della Geenna. Vedrete a cosa avrà portato la presunzione: perciò se qualcuno avrà osato fare Ordinazioni in una Diocesi altrui e vorrà sostenerle, sappia che vacilla dal suo stato proprio colui che avrà invaso la Chiesa non sua. Qui non si tratta di affari civili; queste non sono promozioni mondane“. Se, come dicevamo, il predetto Sinodo condannò in tal modo quei Vescovi che avevano occupato soltanto parti delle Diocesi altrui, quanta maggior riprovazione meriteranno non soltanto tutti gli pseudo-vescovi (che, scelti contro le norme ed ordinati in modo sacrilego, hanno invaso – senza missione canonica – Sedi Episcopali che avevano i loro legittimi Pastori, occupando così per intero le Diocesi) ma anche quattro Pastori legittimi: tre di loro, conformandosi ai decreti dell’Assemblea Nazionale, occuparono una parte delle Diocesi altrui ed abbandonarono una parte delle loro; l’altro poi, consacrando per primo gli intrusi, con l’aiuto di due Vescovi assistenti, ha finito col diventare il “padre” degli pseudo-vescovi, dando motivo a che le altre Sedi fossero invase e, abbandonando la propria, consentendo l’avvento di un intruso.

11. Di sicuro non può accadere “che si compia con esito favorevole ciò che ha avuto un cattivo principio“. Sarebbe lungo e troppo triste riferire qui dello stato della Chiesa francese, sconvolta in ogni sua parte, e dei gravissimi danni che sono stati recati alla Religione dagli intrusi. Basti riflettere sul fatto che un regime profano e sacrilego ha sostituito quello sacro e legittimo. Infatti, costoro che si gloriano d’essere chiamati “Vescovi costituzionali” danno prova di capir bene che non sono “Vescovi cattolici“; perciò rifuggono dai sacri ministeri e ne allontanano anche coloro che, sulla base delle norme Ecclesiastiche, possono essere definiti i soli pastori legittimi, e lo sono. Quando essi si sono introdotti abusivamente nelle Sedi Episcopali, hanno inserito nel governo delle Parrocchie altri loro simili, che la Chiesa avversa e respinge, e che soltanto la Costituzione riconosce ed approva: gente che corrompe i Sacri Ordini e l’amministrazione dei Sacramenti e che, per dirla con poche parole, sottomette al potere temporale la Chiesa e la sua autorità di matrice divina; sostituisce alla verità l’errore; l’empietà alla pietà, secondo la schietta interpretazione della predetta Costituzione.

12. Poiché è sempre stato tipico degli eretici e degli scismatici servirsi della simulazione, così anche questi intrusi non hanno nulla di più tradizionale che indurre le genti in errore mediante l’inganno, mentre coprono quasi tutte le loro azioni con il manto della carità; proteggono e lodano le riforme costituzionali come se fossero su misura per la più antica e la più pura disciplina ecclesiastica; si vantano di esser in sincera comunione con la Chiesa e con questa Sede Apostolica. A questo soltanto mirano le lettere “nunciatorie” che, seguendo l’esempio dei primi intrusi, Ci hanno mandato anche altri in seguito; a questo mirano anche le “esortazioni” alle preghiere da recitare per la Nostra salute e la Nostra conservazione.

13. Ma questo stile di contestazione e di preghiera si riconosce derivato, chiaro come da un archetipo, dalle empie scuole degli scismatici e degli eretici. Infatti, leggiamo che Fozio scrisse al Santo Pontefice Niccolò, Lutero a Leone X, Pietro Paolo Vergerio il giovane a Giulio III; e tutti, mentre fingevano obbedienza e sintonia con la Sede Apostolica, si lamentavano della malvagità con la quale era giudicata la loro dottrina, insultavano contemporaneamente la Santa Sede e disseminavano i loro cattivi errori.

14. Così anche gli odierni Vescovi intrusi hanno di recente pubblicato un’opera nella quale hanno raccolto tutti i pensieri erronei, scismatici ed eretici, spesso contestati e rifiutati, dei quali sono pieni parecchie loro Lettere Pastorali ed alcuni libelli, non senza grave offesa alla storia della Chiesa. A quest’opera hanno premesso l’insidioso titolo “Accord de vrais principes de l’Eglise, de la morale et de la raison, sur la Constitution Civile du Clergé de France par les Evêques des départements membres de l’Assemblée Nationale Constituant. A Paris 1791“, aggiungendo alla fine di quest’opera iniqua, per meglio ingannare il popolo, una falsa lettera, presentata come se fosse stata a Noi spedita. Ma, per istruzione dei buoni e per consolidare la loro perseveranza, non smetteremo di render noto il pestilenziale veleno che emana da ogni parte di quell’opera indegna.

15. Frattanto non possiamo tacere il doppio inganno, uno peggiore dell’altro, che i Vescovi intrusi divulgano imperterriti per distogliere il popolo dall’obbedienza dovuta ai Nostri Ammonimenti Apostolici. Il primo inganno concerne la negata autenticità delle Nostre lettere; non c’è nessun commento più congruo se non che ciò si attaglia perfettamente alla fonte dalla quale proviene. Con quale buona fede, infatti, si può dubitare della verità delle Nostre lettere, che, firmate di Nostro pugno, sono state mandate ai Metropolitani francesi e che, per Nostro ordine, furono edite presso la Stamperia Romana e fatte circolare non soltanto nel Regno di Francia ma in tutte le parti del mondo cattolico, così come accadrà anche per questa Nostra? Come dunque può essere definito apocrifo quel documento che è Nostro, che deriva unicamente da Noi, che è stato divulgato con tanta solennità da non lasciare spazio ad alcun dubbio; che, in definitiva, è tale che con poca fatica chiunque può distinguerlo dagli altri documenti, falsi e corrotti, che i Refrattari fecero circolare fra il popolo a Nostro nome, con somma audacia e manifesta calunnia, per procurare approvazione alla Costituzione Civile del Clero, che Noi avevamo rifiutato sin dall’inizio con sommo orrore?

16. L’altro fraudolento, raggirante inganno degl’Intrusi riguarda la mancanza di una certa forma “civile” nella pubblicazione delle Nostre lettere. Infatti essi certamente non ignorano, e a nessun altro può sfuggire, che allo stato attuale delle cose in Francia una forma di questo tipo non poteva essere adottata; cosicché coloro che utilizzano tale forma null’altro hanno in mente se non facilitare la crescita impunita dello scisma e dell’intrusione. Non sfugge infatti che questa forma “civile” non è necessaria, soprattutto quando si tratta di “causa maggiore“, che compete a Noi e che è stata resa nota attraverso i Vescovi. Proprio questo tutti i Cattolici riconoscono, e Valentiniano Augusto affermò con chiare parole nella “Novella” che segue la lettera di San Leone Magno ai Vescovi della provincia viennese: “Questa stessa sentenza [di San Leone] avrebbe dovuto aver valore in Francia anche senza la sanzione imperiale. Che cosa infatti non dovrebbe essere consentito nelle Chiese all’autorità di un Pontefice tanto grande?“. Lo stesso clero francese lo riconobbe quando si trattò di divulgare le lettere encicliche del Nostro predecessore Pio VI: “Non avete alcun bisogno dell’approvazione regia per divulgare come Regola la risposta della Santa Sede Apostolica su un tema esclusivamente spirituale“.

17. Quel che abbiamo detto fin qui sul lacrimevole stato dello scisma, al quale gli Intrusi si dedicano in modo ammirevole, è percepibile da chiunque lo esamini attentamente; perciò a buon diritto possiamo esclamare con Sant’Atanasio: “Non avete ancora capito che il Cristianesimo viene distrutto e che il Demonio, cerca, con l’inganno e sotto altre fattezze, di sconfiggere la Chiesa?“.

18. In tanto grave perturbazione delle vicende della Chiesa francese ed in altrettanta gravità e notorietà del crimine, Noi avremmo potuto fin da ora procedere contro i contumaci, con la comminata pena della scomunica, dal momento che per oltre undici mesi dal giorno dei Nostri Ammonimenti, da parte loro non giunse alcun segno di pentimento. Nondimeno, poiché abbiamo visto che il Nostro Ammonimento ha avuto esito non inutile presso molti, e avendo ritenuto di dover aspettare un certo tempo perché anche altri si adeguassero; tenendo soprattutto presente la grande bontà di Dio, il quale tollera i peccatori con molta pazienza e non vuole portarli alla perdizione, ma indurli alla penitenza; dopo aver ascoltato il parere di una scelta Congregazione dei venerabili Nostri fratelli, i Cardinali di Santa Romana Chiesa, riunitasi davanti a Noi il 19 gennaio di quest’anno, abbiamo ritenuto di dover agire fin qui con benignità nei confronti dei contumaci, per vedere se ritornino in sé e si rivolgano a Dio. Infatti non ci siamo ancora spogliati della misericordia paterna nei loro confronti ed in un certo senso, “come una madre non può dimenticarsi del suo bambino, per non dover avere pietà del figlio del suo ventre“, così la Santa Romana Chiesa non può dimenticarsi dei suoi figli, per quanto ribelli ed ostinati, e nei loro confronti è mossa più da pietà che da rabbia. Per questo motivo Noi, non senza gran pianto e lamento, temendo la frammentazione delle Nostre viscere, Ci asteniamo per ora dal comminare la sentenza di scomunica, accettando anche di differire più oltre la pena, affinché possa aver luogo il pentimento. Rimane tuttavia confermata la pena di sospensione inflitta con la Nostra lettera del 13 aprile.

19. Perciò abbiamo deciso di presentare questa nuova e perentoria Ammonizione, da valere anche come seconda e come terza, in base alla quale, contando sessanta giorni dalla data di questa Lettera per la seconda, ed altri successivi sessanta per la terza, disponiamo quanto segue:

20. Per primi ammoniamo, come è giusto, sollecitandoli al doveroso pentimento, i sacrileghi consacratori dei Vescovi intrusi e gli assistenti (Carlo Maurizio Vescovo di Autun; Giovanni Battista Vescovo di Babilonia e Giovanni Giuseppe Vescovo di Lidda), i quali in certo modo sono gli autori del funestissimo scisma, poiché con le prime azioni che osarono compiere, cioè le consacrazioni degli pseudo-Vescovi, precedettero tutti gli altri nell’atrocità del crimine.

21. Ammoniamo inoltre tutti gli pseudo-Vescovi intrusi che, senza elezione, ordinazione o missione legittima, hanno invaso le Sedi Episcopali – sia quelle antiche, sia quelle di recente ed illegittima costituzione – la maggior parte delle quali era retta dai legittimi Presuli, mentre quelle che erano vacanti erano rette dai Vicari capitolari, secondo le leggi prescritte dal Concilio di Trento.

22. Ammoniamo anche l’Arcivescovo di Sens, il Vescovo di Orléans, il Vescovo di Viviers e Pier Francesco Martello, coadiutore dell’Arcivescovo di Sens. Di costoro, i primi tre, quantunque abbiano ricevuto correttamente il vescovado, hanno tuttavia osato invadere parti di altre Diocesi e rinunciare a porzioni delle proprie, attenendosi ai decreti dell’Assemblea nazionale; tutti, poi, allo stesso modo dei Vescovi consacratori, degli assistenti e di tutti i Vescovi intrusi, non si sono vergognati di sottomettersi alla Costituzione civile del clero, prestando puramente e semplicemente quel giuramento civico che Noi avevamo definito “fonte ed origine di tutti gli avvelenati errori” nella Nostra lettera del 13 aprile.

23. Ammoniamo i Parroci e coloro che con qualunque nome esercitano in titolo la cura delle anime, i quali, oltre ad imbrattarsi con quel giuramento sacrilego, hanno invaso intere Parrocchie, sia vecchie sia di recente ed illegittima istituzione, oppure ne hanno invaso delle parti, per istituzione ricevuta (per altro senza valore) dai Vescovi intrusi o dall’Arcivescovo di Sens o dai Vescovi d’Orléans e di Viviers (legittimi, in verità, ma legati col giuramento civico) che hanno operato al di fuori dei confini delle rispettive Diocesi, anche se alcuni di loro in precedenza avevano correttamente ricevuta l’investitura delle Parrocchie.

24. Infine ammoniamo anche tutti i Vicari e gli altri Preti, con qualunque nome chiamati, delegati all’esercizio della giurisdizione ed allo svolgimento degl’incarichi ecclesiastici dai Vescovi intrusi, i quali non possono trasferire ad altri un diritto che essi stessi non possiedono.

25. Avendo tutti così ammoniti, se a Noi non risulterà che, nell’arco di tempo precedentemente assegnato, ciascuno abbia fatto, in favore della Chiesa, la penitenza dovuta per i suoi peccati, allora certamente “ci addoloreremo, ci rattristeremo, piangeremo e ci sentiremo le viscere lacerate, come se fossimo spogliati delle nostre stesse membra“; tuttavia non Ci dorremo in modo da non procedere, in una vicenda così grave, secondo la gravità dei delitti, la moltitudine dei delinquenti e la pericolosità del contagio, da non comportarci come richiedono il ministero apostolico e le norme canoniche, scagliando cioè la sentenza di scomunica, notificandola pubblicamente ed indicando costoro come allontanati dalla comunione con la Chiesa, da considerarsi scismatici pervicaci e perciò da evitare.

26. Ancor oggi Noi rivolgiamo quest’ultima ammonizione canonica, piena di sollecitudine paterna e di moderazione, ai Vescovi consacratori, agli Assistenti, ai Vescovi intrusi ed ai loro Vicari, ai Vescovi che han prestato giuramento, ai Parroci parimenti intrusi; ai Vicari ed ai Sacerdoti delegati o approvati dai Vescovi intrusi; dal momento che il loro crimine è di gran lunga più grave e pericoloso, sia per la natura stessa del peccato, sia per la dignità ed autorevolezza della persona che lo compie; fattori, entrambi, che contribuiscono moltissimo a corrompere gli altri, insieme con l’esempio e l’uso della giurisdizione usurpata. Nondimeno vogliamo che si considerino ammoniti anche gli altri: gli autori e i fautori della Costituzione pubblicata, tutti quelli che hanno giurato, specialmente gli Ecclesiastici e soprattutto i Parroci, i Superiori ed i Rettori dei Seminari, i Professori ed i Presidi di Università e Collegi, perché non pensino di schivare a suo tempo analoga pena, se persisteranno ostinati e contumaci nel loro delitto.

27. Mentre diciamo queste cose, mentre Ci affidiamo a queste minacce, chiamiamo Dio a testimone di quanto non vorremmo esser costretti ad usare queste armi spirituali, se potessimo farne a meno. Con animo ben disposto abbiamo sempre dato spazio alla moderazione e alla misericordia, facendo ricorso alla severità malvolentieri e soltanto se costretti dalla necessità. Proprio per questo ancora una volta e con il massimo vigore, nel nome delle viscere di Gesù Cristo, preghiamo coloro che in qualunque modo hanno avuto parte in questo scisma, ed in particolare i sacri Ministri, e li scongiuriamo affinché riflettano su quanto sia indegno, perverso e miserrimo, per i Fedeli, specialmente Ecclesiastici, favorire ed assecondare questo scisma pestilenziale; esso è nato per l’iniquo consiglio dei filosofi innovatori che costituivano la maggior parte dell’Assemblea Nazionale, e si sarebbe quasi estinto sul nascere se i Fedeli e gli Ecclesiastici l’avessero contrastato. Inorridiscano dunque meditando quanto l’attesa d’un terribile giudizio, simile ad un fuoco, consumerà coloro per colpa dei quali lo scisma (che col loro ravvedimento potrebbe cessare) perdura ancora e si espande e cresce nelle fiorentissime regioni francesi.

28. Mancano forse famosi “eccitamenti dei francesi” per ritrattare il giuramento civico? Eppure è noto che molti fra i più illustri intellettuali francesi si dimostrarono docili nel detestare gli errori precedentemente propugnati. Infatti, già all’inizio del V secolo il monaco Leporio pubblicò la ritrattazione dei suoi errori, che fu letta nel quinto Sinodo africano e fu inviata ai Vescovi francesi; il sacerdote Lucidio ne indirizzò un’altra al Sinodo di Arles; non diversamente si comportò Giovanni Gerson, che formulò la sua ritrattazione basandosi sugli insegnamenti dei libri di San Bonaventura. A questi sono seguiti Pietro de Marca e Francesco Fénelon, Arcivescovo di Cambrai, meritevole del più elogiativo ricordo, e molti altri scrittori francesi, al cospetto dei quali chi potrà arrossire e ancora ostinatamente rifiutare di imitarli, loro che seppero trasformare il loro errore in gloria e vanto singolari? Una convinta speranza ci induce a ritenere che la mano di Dio non si arresterà sopra gli intrusi e gli scismatici; che i loro animi traviati saranno richiamati sulla via della salvezza, e, sollecitati dagli esempi di antenati così famosi, con la ritrattazione dell’empio giuramento condanneranno le consacrazioni sacrileghe, rinunceranno agli incarichi sacerdotali precedentemente occupati e riconosceranno i legittimi pastori.

29. Voi intanto, Venerabili Fratelli, che – udito l’ultimo ammonimento di questa Nostra lettera – Ci pare di vedere agitati e tremanti per la salvezza del Vostro gregge e Ci par di udire esclamare con San Paolo “Chi di voi cadrà infermo, senza che questo indebolisca anche me? Chi sarà scandalizzato senza che anch’io mi senta avvampare?“; Voi, dicevamo, mentre renderete pubblica questa Nostra lettera, aggiungete le vostre alla Nostra preoccupazione, levando preghiere più fervide a Dio Ottimo e Massimo, ripetendo le esortazioni ed i vostri consigli, affinché – in tanta crudezza dei tempi ed in tanta confusione degli animi – possiate consolidare la fermezza dei fedeli che sono rimasti tali e recare aiuto alla debolezza di coloro che sono caduti. Ma soprattutto mettete sotto gli occhi di coloro che sono caduti che niente servirà tanto alla loro salvezza eterna, niente alla loro vera gloria, niente alla gioia dell’intera Chiesa, niente sarà così gradito quanto questo sacrificio di obbedienza, al quale li invitiamo, li preghiamo, li scongiuriamo per le viscere del nostro Dio e per l’avvento del Signore Nostro Gesù Cristo. Facendo queste cose, continuerete ad essere quel che già siete, cioè “buoni ministri di Gesù Cristo, cresciuti nelle parole della Fede e della corretta dottrina che avete sempre seguito“.

30. Voi pure, diletti Figli Canonici di rispettabili Capitoli, Parroci, Sacerdoti, altri ministri del clero francese, infine, Fedeli tutti abitanti nel Regno francese, che vi siete distinti dagli altri per la costanza e l’impegno religioso, unite le vostre preghiere alle Nostre ed a quelle dei vostri Pastori, ed implorate nella cenere, nell’orazione, nel digiuno, “Perdona, o Dio, il Tuo popolo“. Poiché Dio è buono e misericordioso, quando vedrà il pianto dei Sacerdoti e dei cittadini, di certo sarà compassionevole ed avrà pietà. Perciò sopportate con pazienza gli infortuni che vi sono capitati e che forse ancora vi accadranno, “fintanto che la destra di Dio onnipotente distruggerà tutte le armi del demonio, al quale perciò si permette di tentare arditamente qualcosa, perché poi sia sconfitto con maggior gloria dei fedeli di Cristo; poiché dove la verità è maestra non vengono mai meno, fratelli carissimi, i conforti divini“.

31. Soprattutto vi raccomandiamo e v’ingiungiamo di mantenervi sempre strettamente a contatto con i vostri Pastori, affinché non comunichiate in alcun modo, e men che meno nelle cose divine, con gli intrusi ed i refrattari, con qualunque nome vengano chiamati; allo stesso modo guardatevi dallo scellerato opuscolo di cui si diceva prima, il capzioso “Accord des vrais principes“, dalle lettere pastorali e “nunciatorie“e da qualunque genere di scritto diffuso od in via di diffusione da parte di coloro che, mentre difendono la Costituzione civile del clero, in realtà danno vigore allo scisma. Allo stesso modo che nelle Nostre precedenti lettere già avevamo contestato e condannato tale Costituzione, così ancora con questa Lettera riproviamo, rigettiamo e condanniamo la predetta opera, le lettere pastorali e “nunciatorie” e tutti gli altri scritti, sulla base del supremo ufficio Apostolico del quale siamo rivestiti.

32. Nell’immensità della Sua benevolenza, Dio voglia dar forza alle Nostre cure pastorali, affinché coloro che fra voi sono rimasti fedeli si rafforzino, e coloro che sono caduti si rialzino. Questo chiediamo a Dio, implorandolo ed inginocchiandoci – per usare le parole dell’apostolo Paolo agli Efesini – davanti al Padre Signore nostro Gesù Cristo “affinché vi conceda di fortificarvi nella virtù secondo le ricchezze della sua gloria, per mezzo del suo spirito che scende nel cuore dell’uomo, e di fare abitare Gesù Cristo nei vostri cuori, radicati e consolidati nella caritàCome pegno di questi doni celesti, diletti Figli, Venerabili Fratelli e diletti Figli, Noi vi impartiamo dal più profondo del cuore, paternamente e con amore, la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 19 marzo 1792, anno diciottesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semìdoppio. – Paramenti verdi.

Questa Domenica, inserita nel Messale dopo il Sabato delle Quattro-Tempora, era anticamente libera. La liturgia della vigilia si prolungava, infatti, fino alla Domenica mattina, e quindi questo giorno non aveva Messa propria. La lezione del Breviario nella Domenica che segue le Quattro Tempora (4a Domenica di settembre) è quella del libro di Giuditta, che S. Ambrogio, nel 2° Notturno riporta a questo tempo di penitenza, attribuendo ai digiuni e all’astinenza di quest’eroina la sua miracolosa vittoria. Per continuare il riavvicinamento che abbiamo stabilito fra il Messale e il Breviario, possiamo anche studiare la Messa del Sabato delle Quattro Tempora, che era anticamente quella di questa Domenica in rapporto con la storia di Giuditta. – Nabuchodonosor, re degli Assiri, mandò Oloferne, generale del suo esercito, a conquistare la terra di Canaan. Quest’ufficiale assediò la fortezza di Betulia. Ridotti agli estremi, gli assediati decisero di arrendersi nello spazio di cinque giorni. Viveva allora in questa città una vedova chiamata Giuditta, che godeva grande riputazione. « Facciamo penitenza per i nostri peccati disse ella, e imploriamo il perdono da Dio con molte lacrime! Umiliamo le anime nostre davanti a Lui e preghiamolo di farci sperimentare la sua misericordia. Crediamo che questi flagelli, con i quali Dio ci castiga, ci sono mandati per correggerci e non per rovinarci ». E questa santa donna entrò allora nel suo oratorio rivestita di cilicio e con la testa cosparsa di cenere si prostrò a terra davanti al Signore. Compiuta la sua preghiera, mise le sue vesti più belle ed uscì dalla città con la sua ancella. Sul far del giorno giunse agli avamposti dei Caldei e dichiarò che era venuta per dare i suoi nelle mani di Oloferne. I soldati la condussero dal generale che fu colpito dalla sua grande bellezza « che Dio si compiacque di rendere ancor più abbagliante, poiché aveva per scopo non la passione, ma la virtù ». Oloferne credette alle parole di Giuditta e offrì in suo onore un gran banchetto. Nel trasporto della gioia bevve con intemperanza maggiore del solito e oppresso del vino si distese sul letto e si addormentò. Tutti si ritirarono allora e Giuditta restò sola presso di lui. Ella pregò il Signore di dar forza al suo braccio per la salvezza di Israele; poi, staccata la spada appesa al capo del letto, tagliò coraggiosamente la testa di Oloferne, la consegnò all’ancella ordinandole di nasconderla nella borsa da viaggio e ambedue rientrarono a Betulia quella notte medesima. Quando gli Anziani della città appresero quello che Giuditta aveva fatto, esclamarono: « Benedetto sia il Signore, che ha creato il cielo e la terra! ». L’indomani la testa sanguinante di Oloferne venne esposta sulle mura della fortezza. I Caldei gridarono al tradimento ma, inseguiti dagli Israeliti, furono massacrati o messi in fuga. Quando il Sommo Sacerdote venne da Gerusalemme con gli Anziani per festeggiare la vittoria, tutti acclamarono Giuditta, dicendo: «Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu la letizia di Israele, tu l’onore del nostro popolo ». S. Ambrogio, nel 2° Notturno della IV Domenica di Settembre commenta questa pagina della Bibbia dicendo: « Giuditta tagliò la testa ad Oloferne in forza della sua sobrietà ». Armata del digiuno, essa penetrò arditamente nel campo nemico. Il digiuno di una sola donna ha vinto le innumerevoli schiere degli Assiri ». La Messa del Sabato delle Quattro Tempora è piena di sentimenti analoghi. Le Orazioni implorano il soccorso della misericordia divina, appoggiandosi sul digiuno e sull’astinenza che ci rendono più forti dei nostri nemici. Perdonaci le nostre colpe, Signore, dice il l° Graduale. Vieni in nostro aiuto, o Dio nostro Salvatore; liberaci, per l’onore dei nome tuo ». – « O Signore, Dio degli eserciti, continua il 2° Graduale, presta l’orecchio alle preghiere dei tuoi servi ». « Volgi il tuo sguardo, o Signore; sino a quando volti da noi la tua faccia? aggiunge il 3° Graduale, abbi pietà dei tuoi servi ». — Le Lezioni fanno tutte allusioni alla misericordia di Dio verso il popolo, che ha fatto penitenza. Così parla il Signore degli eserciti: «Come ebbi l’intenzione di far del male ai vostri padri quando essi provocarono la mia collera, cosi in questi giorni ho avuto l’intenzione di fare del bene alla casa di Gerusalemme ». – Il racconto della liberazione del popolo ebreo dalla servitù assira per mezzo di Giuditta (nome che è il femminile di Giuda) dopo che essa ebbe digiunato è un’immagine della liberazione del popolo di Dio alla Pasqua, per mezzo di Gesù (della stirpe di Giuda) dopo la Quaresima. – Più tardi, allorché non si attese più la sera per celebrare il santo Sacrificio il Sabato delle Quattro Tempora, si prese per la 18° Domenica dopo Pentecoste, la Messa che era stata composta al VI secolo per la Dedicazione della Chiesa di San Michele a Roma e che fu celebrata il 29 settembre; infatti tutto il canto si riferisce alla consacrazione di una Chiesa. « Mi rallegrai quando mi dissero Andremo nella casa del Signore (Versetto All’Introito e Graduale). Mosè consacrò un altare al Signore, dice l’Offertorio. « Entrate nell’atrio del Signore e adoratelo nel Tempio Suo santo », aggiunge al Communio, e questa è una immagine del cielo ove affluiranno tutte le nazioni quando verrà la fine dei tempi indicata da questa Domenica e dalle seguenti che vengono alla fine del Ciclo. L’Alleluia è infatti quello delle Domeniche dopo l’Epifania, che annunziava l’ingresso dei Gentili nel regno dei cieli. L’Epistola parla di coloro che attendono la rivelazione di Nostro Signore al suo ultimo avvento; allora essi godranno eternamente, nella casa del Signore, la pace che, come dissero i Profeti, Egli accorderà a quelli che lo attendono (Intr., Graduale). Questa pace Gesù ce l’ha assicurata morendo sulla croce, che è il sacrificio vespertino. Questa pace e questo perdono noi lo godiamo già nella Chiesa, in grazia del potere accordato da Gesù ai suoi sacerdoti. Questa Messa, che segue il sabato delle Ordinazioni fa infatti allusione anche al sacerdozio. Come il Salvatore, che esercitò il suo ministero e guarì l’anima del paralitico guarendone il corpo, quelli che sono ora stati ordinati sacerdoti predicano la parola di Cristo (Epistola), celebrano il santo Sacrifizio (Offert.) e rimettono i peccati (Vangelo). E cosi preparano gli uomini a ricevere irreprensibili il loro divin Giudice (Epistola).

La predicazione evangelica è una testimonianza resa a Gesù Cristo. Quelli che l’accettano ricevono doni celesti in sovrabbondanza e possono attendere con fiducia l’avvento glorioso di Gesù alla fine dei tempi.

Giovanni Crisostomo così commenta la risposta data da Gesù agli Scribi che non gli riconoscevano la facoltà di perdonare i peccati: « Se non credete la potestà di rimettere le colpe, credete la facoltà di conoscere i pensieri, credete la virtù del sanare da malattie incurabili i corpi. Più facile sanare il corpo; ma giacché non credete alla maggiore meraviglia, ve ne mostrerò una minore ma aperta a i sensi.  »                                                                           

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Eccli XXXVI: 18
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël.

[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Ps CXXI: 1
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai per ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore].

Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël

[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Oratio

Orémus.
Dírigat corda nostra, quǽsumus, Dómine, tuæ miseratiónis operátio: quia tibi sine te placére non póssumus.

[Te ne preghiamo, o Signore, l’azione della tua misericordia diriga i nostri cuori: poiché senza di Te non possiamo piacerti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor 1: 4-8
Fratres: Grátias ago Deo meo semper pro vobis in grátia Dei, quæ data est vobis in Christo Jesu: quod in ómnibus dívites facti estis in illo, in omni verbo et in omni sciéntia: sicut testimónium Christi confirmátum est in vobis: ita ut nihil vobis desit in ulla grátia, exspectántibus revelatiónem Dómini nostri Jesu Christi, qui et confirmábit vos usque in finem sine crímine, in die advéntus Dómini nostri Jesu Christi.

[“Fratelli: Io rendo continuamente grazie al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù; perché in lui siete stati arricchiti di ogni cosa, di ogni dono di parola e di scienza, essendosi stabilita solidamente in mezzo a voi la testimonianza di Cristo, in modo che nulla vi manca rispetto a qualsiasi grazia; mentre aspettate la manifestazione di nostro Signor Gesù Cristo, il quale vi manterrà pure saldi sino alla fine, così da essere irreprensibili nel giorno della venuta del nostro Signor Gesù Cristo”.]

LE RICCHEZZE DEL CRISTIANESIMO.

Anche il lettore più zotico e disattento capisce subito che quando San Paolo afferma arricchiti in Gesù e per Gesù i Cristiani, arricchiti in tutti i modi, non parla di ricchezze materiali: il discorso dell’Apostolo si svolge su un piano diverso e superiore al piano della materia, che è il piano dello spirito. Però in quel piano la frase di San Paolo ha una verità, una esattezza matematica: N. S. Gesù col suo Vangelo ha, spiritualmente, arricchito l’umanità. C’è più vita al mondo e nella storia dopo di Lui, maggiore e migliore, più intensa e più alta. C’è più luce. La fede non è una barriera, un limite, è un progresso, uno slancio. Dove si ferma la ragione con la sua luce umana, comincia la fede con la sua luce divina, divina e umanizzata, messa per opera di Gesù, il Rivelatore, il Maestro, alla portata dell’umanità. Prima di Gesù c’è la filosofia, dopo Gesù accanto e oltre la filosofia c’è la Teologia. Prima c’è Dio — mistero — poi ci sono i Misteri di Dio. Il Cristiano sa tutto ciò che sapeva il pio pagano e sa molto di più. E anche il patrimonio di verità comuni, nella mente del Cristiano è più luminoso. Le stesse cose noi le sappiamo meglio. Meglio la sua grandezza, meglio la sua bontà, la giustizia così severa, la misericordia così grande. Il più umile Cristiano, sotto questo rispetto, è più avanti del più grande filosofo pagano. C’è una vita morale più ricca. Si vive nella sfera morale più intensamente, con maggiore severità e maggiore dolcezza. Nostro Signore ci ha tenuto ad affermare questa superiorità morale del suo Vangelo sulla antica Legge, non discutendo neanche la superiorità della Legge mosaica sulla etica pagana. Sinteticamente ha detto che la giustizia, la bontà dei suoi seguaci, deve essere superiore a quella degli Scribi e dei Farisei. E ha specificato una serie di superiorità morali, spirituali. La parola nostra è più sincera, deve essere tersa come uno specchio. – Non bisogna solo non nascondere la verità delle parole, bisogna non velarla. La morale giudaica, salvo le apparenze, provvede ad evitare il male sociale, la morale cristiana va al fondo della realtà, mette l’anima nella luce e al contatto di Dio. Dove il Cristianesimo trionfa è nel regno della carità, dell’amore. Dopo N. S. Gesù c’è più amore al mondo, un amore più operoso. Chi li aveva mai neanche lontanamente sognati i miracoli della carità cristiana nell’inverno dell’età pagana? Cera a Roma la Vestale; non c’era la Suora di carità. L’ha creata Gesù. Tra il paganesimo e il Cristianesimo, c’è la differenza dal verno alla primavera. Il nostro amore è più intimo. Non si benefica solo nel Cristianesimo, non si fa solo del bene, si fa del bene, perché si vuole bene. C’è la fratellanza dell’anima, oltre le divisioni sociali. Rimangono materialmente i poveri e i ricchi, ma poveri e ricchi non conta nulla; si è fratelli. La carità cristiana va oltre la divisione nazionale; ci sono ancora i greci, i romani, i barbari, ma greci, romani e barbari si sentono fratelli, si chiamano con questo bel nome, si amano con questo bel titolo.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. – Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps CXXI: 1; 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore.]

Alleluja

V. Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. Allelúja, allelúja

[V. Regni la pace nelle tue mura e la sicurezza nelle tue torri. Allelúja, allelúja]

Ps CI: 16

Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. Allelúja.

 [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: e tutti i re della terra la tua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. IX: 1-8
“In illo témpore: Ascéndens Jesus in navículam, transfretávit et venit in civitátem suam. Et ecce, offerébant ei paralýticum jacéntem in lecto. Et videns Jesus fidem illórum, dixit paralýtico: Confíde, fili, remittúntur tibi peccáta tua. Et ecce, quidam de scribis dixérunt intra se: Hic blasphémat. Et cum vidísset Jesus cogitatiónes eórum, dixit: Ut quid cogitátis mala in córdibus vestris? Quid est facílius dícere: Dimittúntur tibi peccáta tua; an dícere: Surge et ámbula? Ut autem sciátis, quia Fílius hóminis habet potestátem in terra dimitténdi peccáta, tunc ait paralýtico: Surge, tolle lectum tuum, et vade in domum tuam. Et surréxit et ábiit in domum suam. Vidéntes autem turbæ timuérunt, et glorificavérunt Deum, qui dedit potestátem talem homínibus”.

[“In quel tempo Gesù montato in una piccola barca, ripassò il lago, e andò nella sua città. Quand’ecco gli presentarono un paralitico giacente nel letto. E veduta Gesù la loro fede, disse al paralitico; Figliuolo, confida: ti son perdonati i tuoi peccati. E subito alcuni Scribi dissero dentro di sé: Costui bestemmia. E avendo Gesù veduti i loro pensieri, disse: Perché pensate male in cuor vostro? Che è più facile, di dire: Ti sono perdonati i tuoi peccati; o di dire: Sorgi e cammina? Or affinché voi sappiate che il Figliuol dell’uomo ha la potestà sopra la terra di rimettere i peccati: Sorgi, disse Egli allora al paralitico, piglia il tuo letto e vattene a casa tua. Ed egli si rizzò, e andossene a casa sua. Ciò udendo le turbe s’intimorirono e glorificarono Dio che tanta potestà diede ad uomini].

Omelia

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)                                

Sulla tiepidezza.

« Sed quia tepidus es, et nec frigidas, nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo. »

(Apoc. II, 16).

Possiamo noi, Fratelli miei, ascoltare senza terrore una tale sentenza dalla bocca di Dio stesso, contro un Vescovo che sembrava adempisse perfettamente tutti i doveri di un degno ministro della Chiesa? La sua vita era ben regolata, le sue ricchezze distribuite come coscienza esigeva. Lungi dal tollerare il vizio, vi si opponeva energicamente: non dava cattivi esempi, e la sua vita sembrava veramente degna d’essere imitata. Eppure, malgrado tutto ciò, vediamo che il Signore gli fa dire da S. Giovanni che se avesse continuato a vivere così, lo avrebbe rigettato, cioè punito e riprovato. Sì, F. M., questo esempio è tanto più spaventoso in quanto che molti seguono la stessa via, vivono in modo simile, eppure tengono certa la loro salute. Ahimè! F. M., quant’è grande il numero di coloro che non sono né tra i peccatori già riprovati agli occhi del mondo, né tra gli eletti. Su quale strada camminiamo noi? È giusta quella che noi percorriamo? Quello che ci deve far tremare è che non ne sappiamo nulla. Quale spaventosa incertezza!… Cerchiamo frattanto di conoscere se abbiamo la somma disgrazia di essere nel numero dei tiepidi. Io voglio mostrarvi 1° a quali segni potete conoscere se appartenete al numero dei tiepidi; 2° se avete la disgrazia di esser di questo numero, vi indicherò i mezzi per uscirne.

I. — Parlandovi oggi, F. M., dello stato spaventevole di un’anima tiepida, non è mio disegno di farvi il ritratto pauroso e disperato di un’anima che vive nel peccato mortale, senza neanche il desiderio di uscirne: questa povera disgraziata non è che una vittima della collera di Dio per l’altra vita. Ahimè! tali peccatori mi ascoltano; essi sanno di chi parlo in questo momento….. Ma non andiamo più lontano; tutto ciò che direi non servirebbe che a indurirli di più. Parlandovi d’un’anima tiepida, F. M., io non voglio parlarvi di coloro che non si confessano, né fanno Pasqua; essi sanno benissimo che, malgrado tutte le loro preghiere e le altre buone opere, si perderanno. Lasciamoli nel loro accecamento, giacché vogliono restarvi. — Ma, mi direte, tutti quelli che si confessano, fanno la loro Pasqua e si comunicano spesso, non si salveranno? — Ve lo assicuro, amici miei, tutti no; perché se la maggior parte di coloro che frequentano i Sacramenti si salvasse, bisognerebbe convenire che il numero degli eletti non sarà così piccolo come realmente sarà. Ma, tuttavia, riconosciamolo: tutti quelli che avranno la somma ventura di andare in cielo, saranno scelti senz’altro tra coloro che frequentano i Sacramenti, e non tra quelli che non fanno Pasqua, né si confessano. Ah! mi direte, se tutti coloro che non fanno Pasqua, né si confessano si danneranno, dovrà essere ben grande il numero dei reprobi! — Sì, senza dubbio, sarà grande. E checché possiate dirne, se vivete da peccatori, dividerete la loro sorte. E questo pensiero non vi commuove?… Se non siete induriti fino all’ultimo segno, deve farvi fremere ed anche disperare. Ahimè! Dio mio! quant’è disgraziata una persona che ha perduta la fede! Lungi dall’approfittare di queste verità, quei poveri ciechi, al contrario, se ne rideranno; eppure dicano quel che vogliono, sarà come vi dico io: senza Pasqua e senza confessione, né cielo, né felicità eterna. O mio Dio! quanto è orribile l’accecamento del peccatore! Neppure intendo, F. M., per anima tiepida, chi vorrebbe essere del mondo senza cessare d’essere di Dio: voi lo vedrete ora prostrarsi davanti a Dio, suo Salvatore e Signore; ed ora prostrarsi davanti al mondo, suo idolo. Povero cieco, che stende una mano al buon Dio e l’altra al mondo; li chiama tutti e due in suo aiuto, promettendo a ciascuno il suo cuore! Egli ama Dio; vorrebbe almeno amarlo; ma vorrebbe anche piacere al mondo. Stanco alla fine di stare con tutti e due, termina col darsi al mondo. Vita strana, codesta vita che presenta uno spettacolo così singolare che non si riesce a persuadersi che possa essere la vita di una sola persona. Ve lo mostrerò in modo così chiaro che, forse, molti tra di voi se ne offenderanno; ma, poco m’importa; io vi dirò sempre ciò che devo dirvi: voi farete ciò che vorrete. – Io dico, F. M., che chi vuol essere del mondo senza cessare d’essere di Dio, conduce una vita così strana, che riesce impossibile conciliarne le differenti circostanze. Ditemi, osereste voi pensare che quella giovane che vedete a quei piaceri, a quelle riunioni mondane dove non si fa che male e bene mai, e, in esse si abbandona a tutto ciò che un cuore guasto e perverso può desiderare, è la stessa che avete visto, appena quindici giorni od un mese fa, al tribunale di penitenza confessare le sue colpe, protestando a Dio d’essere pronta a morire piuttosto che ricadere nel peccato? È proprio quella che avete visto accostarsi alla sacra Mensa cogli occhi dimessi e la preghiera sul labbro? Dio mio, quale orrore! Vi si può pensare senza provare una stretta al cuore? Credereste, F. M., che quella madre, la quale tre settimane or sono mandava la sua figliuola a confessarsi, giustamente raccomandandole di pensar bene a ciò che stava per compiere e dandole anche un rosario od un libro; oggi le dice di andare ad una festa da ballo, ad un matrimonio o a degli sponsali? Quelle stesse mani che le hanno dato un libro, ora sono affaccendate ad accomodare le sue vanità, affinché meglio piaccia al mondo. Ditemi, F. M., è proprio quella persona che stamattina in chiesa cantava le lodi di Dio, ed ora adopera la stessa lingua per cantare cattive canzoni, e per tenere discorsi i più infami? E forse il medesimo quel padrone o quel padre che or ora assisteva alla S. Messa con grande rispetto e sembrava voler passare santamente la Domenica e che invece vedete lavorare, e far lavorare i suoi dipendenti? Mio Dio! Quale orrore! come il buon Dio accomoderà tutto ciò nel giorno del giudizio? Ahimè! quanti Cristiani dannati! Io dico ancor di più, F. M., colui che vuol piacere al mondo ed al buon Dio, conduce una vita delle più disgraziate. Vedetelo. Ecco una persona che frequenta i piaceri, o che ha contratto qualche cattiva abitudine; quale non è il suo timore quando adempie i doveri di religione, cioè quando prega il buon Dio, quando si confessa e si comunica? Non vorrebbe esser vista da coloro coi quali ha danzato, e coi quali ha passato le notti nelle bettole dandosi ad ogni sorta di disordini. È riuscita ad ingannare il suo confessore, nascondendogli quanto ha fatto di peggio, ed ha ottenuto il permesso di comunicarsi, o meglio di fare un sacrilegio: vorrebbe comunicarsi o prima o dopo la Messa, cioè quando v’è meno gente. Ma essa è contenta di esser vista dalle persone dabbene, che ignorano la sua cattiva vita, e alle quali spera d’ispirare una buona opinione di sé. Con persone pie, parla di pietà; con gente senza religione non parlerà che dei piaceri del mondo. Essa arrossirebbe di compiere le sue pratiche religiose davanti ai compagni o compagne di stravizi. E questo è tanto vero, che un giorno uno m’ha domandato di comunicarlo in sacristia, perché nessuno lo vedesse. Che orrore! F. M., si può pensare, senza fremere, ad una tale condotta? – Ma andiamo avanti, e vedrete l’imbarazzo di queste povere persone che vogliono seguire il mondo senza abbandonare, almeno in apparenza, il buon Dio. Si avvicina la Pasqua. Bisogna andarsi a confessare; esse non lo desiderano, e neppure ne sentono il bisogno: desidererebbero anzi che la Pasqua venisse ogni trent’anni. Ma i loro genitori ci tengono ancora alla pratica esteriore della religione; essi sono contenti che i figli si accostino alla sacra Mensa, e li sollecitano anche di andarsi a confessare: in ciò fanno malissimo. Preghino piuttosto per essi e non li tormentino affinché abbiano a commettere dei sacrilegi; ahimè! ne faranno abbastanza lo stesso. Per liberarsi dall’importunità dei genitori, per salvare le apparenze, queste persone si uniranno insieme per sapere quale confessore bisogna scegliere, confessore che dia l’assoluzione la prima o almeno la seconda volta. “E già un po’ di tempo, dice uno, che i genitori mi tormentano perché non vado a confessarmi. Da chi andremo?„ — “Non bisogna andare dal nostro parroco; è troppo scrupoloso; certo non ci lascerebbe far Pasqua. Bisogna andar dal tale. Egli ha assolto il tale ed il tale, che ne hanno fatte al par di noi. Certo più di loro noi non ne abbiam commesso. „ E un’altra dirà: “Ti assicuro, che se non fosse pei miei genitori, io non farei Pasqua; poiché il catechismo ci dice che per fare una buona confessione bisogna abbandonare il peccato e le occasioni di peccato, e noi non facciamo né l’una cosa né l’altra. Te lo dico sinceramente: quando arriva la Pasqua per me è un bell’imbarazzo. Non vedo che l’ora di collocarmi per non avere più impicci. Allora farò la confessione generale di tutta la mia vita per riparare quella che faccio ora, altrimenti non vivrei contenta. „ — “Ebbene! gli dirà un’altra, bisognerà che ritorni da chi t’ha confessato fino ad ora: egli ti conoscerà meglio. „ — “Ah! certo no; io andrò da chi non voleva assolvermi, perché non voleva che mi dannassi. „ — “Ah! come sei ingenua! Ciò non importa, tutti i sacerdoti hanno lo stesso potere. „ — ” Va bene dir cosi fin che si è sani; ma quando si è ammalati si pensa diversamente. Un giorno, io andai a trovare una tale era gravemente ammalata: ed ella mi disse che mai sarebbe tornata a confessarsi da quei sacerdoti così larghi, che mentre sembra vi vogliano salvare, vi mandano all’inferno. „ E fanno infatti così questi poveri ciechi. « Padre, dicono al prete, io vengo a confessarmi da voi, porche il nostro parroco è troppo scrupoloso. Pretende che noi promettiamo cose che poi non possiamo fare; vorrebbe che fossimo dei santi, e ciò non è davvero possibile in mezzo al mondo. Vorrebbe che non ponessimo più piede alle feste da ballo, e che non frequentassimo né le osterie, né i divertimenti. Se si ha qualche cattiva abitudine non dà più l’assoluzione fino a che non l’abbiamo lasciata. Se bisognasse fare tutto questo non potremmo mai più fare la Pasqua. I miei genitori, che sono molto religiosi, mi stancano continuamente perché non faccio la Pasqua. Io farei tutto ciò che potrei; ma non si può promettere di non ritornar più a questi divertimenti, poiché non si sanno le occasioni che possono capitare. „ — “Ah! dirà il confessore ingannato da questo bel linguaggio, il vostro parroco è un po’ troppo scrupoloso. Fate il vostro atto di contrizione, vi darò l’assoluzione, e procurate di far sempre bene. „ Cioè, abbassate la testa; voi siete per calpestare il Sangue adorabile di Gesù Cristo, siete per vendere il vostro Dio come Giuda l’ha venduto ai suoi carnefici, e domani vi comunicherete, o meglio, andrete a crocifiggerlo. O orrore! O cosa abbominevole! Va, o Giuda infame, va alla sacra Mensa; va a dar la morte al tuo Dio e al tuo Salvatore! Lascia che la tua coscienza gridi; cerca solo di soffocarne i rimorsi, fin che lo potrai… Ma, F. M., io mi allontano troppo; lasciamo questi poveri ciechi nelle loro tenebre. Io credo, F. M., che voi desiderate sapere qual è lo stato d’un’anima tiepida. Ebbene! eccolo. Un’anima tiepida non è ancor morta del tutto agli occhi di Dio, perché la fede, la speranza e la carità, che sono la sua vita spirituale, non sono del tutto spente. Ma, è una fede senza zelo, una speranza senza fermezza, una carità senza ardore. Vi farò il ritratto d’un Cristiano fervente, d’un Cristiano cioè che desidera davvero di salvare la sua anima, ed insieme vi farò quello di un’anima tiepida nel servizio di Dio. Mettiamoli uno di fronte all’altro, e vedrete a quale dei due rassomigliate. – Un buon Cristiano non si accontenta di credere tutte le verità della nostra santa religione, ma le ama, le medita, cerca tutti i mezzi per impararle, desidera sentire la parola di Dio; più la sente e più desidera sentirla, perché vuole approfittarne, evitare cioè tutto ciò che Dio gli proibisce, e fare tutto ciò che Egli comanda. Le istruzioni non gli sembrano mai troppo lunghe; anzi questi sono i momenti più felici per lui, poiché impara il modo di condursi per andare in cielo e salvare la sua anima. Non solo crede che Dio lo vede in tutte le sue azioni e che dopo la morte le giudicherà tutte; ma trema ancora ogni qualvolta pensa dover egli render conto di tutta la sua vita ad un Dio, che non avrà misericordia pel peccato. E non si contenta di pensarvi e di tremare, ma lavora ogni giorno per correggersi; non cessa d’inventare ogni giorno nuovi mezzi per fare penitenza; conta per nulla ciò che ha fatto finora, e si addolora d’aver perduto molto tempo, nel quale avrebbe potuto raccogliere grandi tesori pel cielo. – Quanto invece è differente il Cristiano che vive nella tiepidezza! Accetta sì tutte le verità che la Chiesa crede ed insegna, ma in un modo così debole, che sembra credervi, direi, ben poco. Non dubita, è vero, che Dio lo vede, che egli è sempre alla sua santa presenza; ma con questo pensiero non è né più buono, né meno cattivo; cade con tanta facilità nel peccato come se non credesse nulla, è persuasissimo che, finché vive in questo stato, è nemico di Dio, ma non cerca per questo di uscirne. Sa che Gesù Cristo ha dato al sacramento della Penitenza la facoltà di rimettere i nostri peccati e di farci progredire nella virtù. Sa che questo Sacramento ci accorda grazie proporzionate alle disposizioni che vi portiamo; non importa: sempre la medesima negligenza, la medesima tiepidezza nella pratica. Sa che Gesù Cristo è veramente presente nel sacramento dell’Eucaristia, che è un nutrimento assolutamente necessario per l’anima sua; eppure vedete in lui ben poco desiderio di questo cibo. Le sue confessioni e le sue comunioni sono lontanissime l’una dall’altra; non vi si deciderà che all’occasione d’una grande festa, d’un giubileo o d’una missione, oppure perché gli altri vi vanno, ma non per il bisogno della sua povera anima. Non solo non si sforza per meritare questa grazia; ma non invidia nemmeno quelli che vi si accostano più spesso. Se gli parlate delle cose del buon Dio, vi risponde con una indifferenza, che vi mostra come il suo cuore sia poco sensibile ai conforti, che possiamo trovare nella nostra santa religione. Nulla lo commuove: ascolta la parola di Dio, è vero; ma spesso s’annoia; ascolta con fatica, per abitudine, come una persona che pensa di saperne o di fare abbastanza. Le preghiere un po’ lunghe lo disgustano. Il suo spirito è così pieno dell’azione che ha appena fatto, o di quella che sta per fare; la noia è sì grande, che la sua povera anima è come in agonia; vive ancora, si non è più capace di nulla per il cielo. – La speranza d’un buon Cristiano è ferma; la sua confidenza in Dio è irremovibile. Non perde mai di vista i beni ed i mali dell’altra vita. Il ricordo dei dolori di Gesù Cristo è continuamente presente al suo spirito; il suo cuore ne è sempre occupato. Ora porta il suo pensiero all’inferno, per capire quanto è grande la punizione del peccato e la disgrazia di chi lo commette, ciò che lo dispone a preferire la morte al peccato; ora per eccitarsi all’amor di Dio e per provare quant’è felice chi preferisce il buon Dio a tutto, porta il suo pensiero al cielo. Allora comprende quanto è grande la ricompensa di chi abbandona ogni cosa pel Signore; e non desidera che Lui, non vuole che Lui solo; i beni di questo mondo per lui sono nulla; ne gode al vederli disprezzati, e nel disprezzarli lui stesso; i piaceri del mondo gli fanno orrore. Pensa che, come seguace di un Dio crocifisso, la sua vita non deve essere che una vita di lagrime e di sofferenze. La morte non lo spaventa affatto, perché sa benissimo che essa sola può liberarlo dai mali della vita e riunirlo per sempre al suo Dio. Ma un’anima tiepida è ben lontana da questi sentimenti. I beni ed i mali dell’altra vita le importano quasi nulla: pensa al cielo sì, ma non ha il vero desiderio di andarvi. Sa che il peccato le ne chiude le porte; ciò non ostante, non cerca di correggersi, almeno in modo efficace: perciò è sempre la stessa. Il demonio l’inganna facendole prendere molte risoluzioni di convertirsi, di far meglio, d’essere più mortificata, più ritenuta nelle parole, più paziente nei dolori, più caritatevole verso il prossimo. Ma tutto questo non cambia la sua vita: son già venti anni, che ella è piena di buoni desideri, senza aver modificato in nulla le sue abitudini. Essa rassomiglia ad uno che invidia chi è su di un carro trionfale, ma non muove nemmeno un piede per salirvi. Non vorrebbe certo rinunciare ai beni eterni per quelli della terra; ma non desidera né di uscire da questo mondo, né di andare in cielo, e se potesse passare il suo tempo senza croci e senza angustie, non domanderebbe mai di uscire da questo mondo. Se la sentite dire che la vita è troppo lunga e troppo miserabile, è solo quando tutto non va a seconda de’ suoi desideri. Se il buon Dio por sforzarla in qualche modo a staccarsi dalla vita, le manda delle croci o delle miserie, eccola che si tormenta, si angustia, si abbandona alle lagrime, ai lamenti, e spesso ad una specie di disperazione. Sembra non voglia più riconoscere che è il buon Dio che le manda queste prove per suo bene, per staccarla dalla vita e attirarla a sé. Che cosa ho fatto per meritarmi tutto questo? pensa tra sé; molte altre più colpevoli non patiscono tutto ciò che soffro io. Nella prosperità, l’anima tiepida, non arriva fino a dimenticare il buon Dio. ma non dimentica neppure se stessa. Sa raccontare molto bene i mezzi adoperati per riuscire; crede che molti altre difficilmente avrebbero ottenuto il medesimo successo; è contenta nel ripeterlo o nell’udirlo ripetere; ogni volta che lo sente prova una novella gioia. Davanti a quelli che l’adulano, prende un’aria amabile, affettuosa, ma coloro che non le hanno portato tutto il rispetto ch’essa crede meritare, o che non sono stati riconoscenti ai suoi favori, li guarda con un’aria fredda, indifferente, e sembra dir loro ch’essi sono ingrati, che non meritavano di ricevere il bene ch’essa ha loro fatto. – Un buon cristiano, F . M., assai lontano dal credersi degno di qualche cosa, e capace di fare il minimo bene, non ha davanti agli occhi che la sua miseria. Non si fida di coloro che lo adulano, considerandoli quali altrettanti lacci che il demonio gli tende; i suoi migliori amici sono quelli che gli fanno conoscere i suoi difetti, perché sa che per correggersene bisogna assolutamente conoscerli. Fugge l’occasione del peccato, quanto può; ricordandosi che ben poco occorre per farlo cadere; non fa alcun assegnamento sulle sue risoluzioni, né sulle sue forze, e nemmeno sulla sua virtù. Conosce, per esperienza, che non è capace che di peccare, e mette ogni confidenza e speranza in Dio solo. Sa che il demonio nulla più teme quanto un’anima la quale ama la preghiera; e questo lo spinge a fare della sua vita una continua preghiera, un’unione intima con Dio. Il pensiero di Dio gli è frequente quanto il respiro; innalza spesso a Lui il suo cuore; si compiace di pensare a Lui, come al Padre suo celeste, all’amico, al suo Dio che l’ama, e che desidera così ardentemente di renderlo felice in questo mondo, e ancor più nell’altro. Un buon Cristiano, F. M., raramente si occupa delle cose della terra; e se gliene parlano mostra tanta indifferenza quanta ne mostra la gente del mondo quando si parla loro dei beni dell’altra vita. Infine, fa consistere la sua felicità nelle croci, nelle afflizioni, nella preghiera, nei digiuni o nel pensiero della presenza di Dio. Un’anima tiepida, non perde del tutto, se volete, la confidenza in Dio; ma non diffida abbastanza di se stessa. Sebbene si esponga assai spesso all’occasione di peccato, pure crede che non cadrà; e se cade, attribuisce la sua caduta al prossimo, e protesta che un’altra volta sarà più forte. – Chi ama veramente il buon Dio, F. M., ed ha a cuore la salute della sua anima, prende tutte le precauzioni possibili affin d’evitare l’occasione del peccato. Non si accontenta di evitare i grossi falli; ma sta attento per distruggere il minimo difetto che trova in sé. Considera sempre come un gran male tutto ciò che possa dispiacere anche solo minimamente a Dio; o meglio, tutto ciò che non piace a Dio, dispiace anche a lui. Egli si considera come ai piedi di una scala, alla sommità della quale deve salire; vede che per giungervi non ha tempo da perdere; e così cresce ogni giorno di virtù in virtù aspettando l’eternità. E un’aquila che fende l’aria; o meglio è un lampo che nulla perde della sua rapidità, dal momento in cui appare a quello in cui si dilegua. Sì, F. M., ecco che cosa fa un’anima che lavora per Dio e desidera vederlo. Come il lampo, essa non trova limiti né indugi, prima di inabissarsi nel seno del suo Creatore. Perché il nostro spirito si trasporta con tanta rapidità da un capo del mondo all’altro? È per mostrarci con quale rapidità dobbiamo portarci a Dio coi nostri pensieri e desiderii. Ma non è così l’amor di Dio in un’anima tiepida. Non si vedono in essa quei desideri e quelle fiamme ardenti che fanno sormontare tutti gli ostacoli che si oppongono alla salute. Se io volessi, F. M., dipingervi esattamente lo stato di un’anima che vive nella tiepidezza vi direi che essa è simile ad una tartaruga o ad una lumaca. Essa non cammina che trascinandosi per terra e la si vede appena cambiar posto. L’amor di Dio, che essa sente nel suo cuore, è simile ad una piccola scintilla nascosta sotto un cumulo di cenere; questo amore è avviluppato da tanti pensieri e desideri terreni, che, se non lo soffocano, ne impediscono il progresso e l’estinguono a poco a poco. L’anima tiepida giunge al punto d’essere indifferente per la sua rovina. Non ha che un amore senza tenerezza, senza attività e senza forza, che la sostiene appena in tutto ciò che è essenzialmente necessario per salvarsi; ma quanto al resto, lo riguarda come nulla o come cosa da poco. Ahimè! F. M., questa povera anima nella sua tiepidezza è come una persona tra due sonni. Vorrebbe agire; ma la volontà è talmente fiacca che non ha né la forza, né il coraggio per soddisfare i suoi desiderii. – È vero che un cristiano che vive nella tiepidezza adempie ancora molto regolarmente i suoi doveri, almeno in apparenza. Farà tutte le mattine la sua preghiera in ginocchio; frequenterà i Sacramenti, tutti gli anni, a Pasqua, ed anche più volte all’anno; ma in tutto questo v’è tanto disgusto, tanto rilassamento e tanta indifferenza, così poca preparazione, così poco cambiamento nel modo di vivere, che si vede chiaramente come egli adempia i suoi doveri per abitudine; perché ricorre una festa, ed è abituato a compierli in quella circostanza. Le sue confessioni e le sue comunioni non sono sacrileghe, se volete; ma sono confessioni e comunioni senza frutto, che, lungi dal renderlo più perfetto e più caro a Dio, lo rendono invece più colpevole. Quanto alle sue preghiere, Dio solo sa come son fatte: ahimè, senza preparazione. Alla mattina, non si occupa del buon Dio né della salute della sua povera anima; ma pensa solo a ben lavorare. Il suo spirito è talmente preoccupato dalle cose della terra, che il pensiero di Dio non vi trova posto. Pensa a ciò che farà durante il giorno, dove manderà i figli ed i domestici, come farà per terminare il suo lavoro. Per fare la preghiera si mette in ginocchio sì, ma non sa né che cosa vuol domandare al buon Dio, né che cosa gli è necessario, e neppure a chi si trova davanti; i suoi modi così poco rispettosi lo fanno conoscere. È un povero che, quantunque molto miserabile non vuol nulla, ed ama la sua povertà. È un ammalato quasi disperato, che disprezza medici e medicine ed ama le sue infermità. Voi vedete quest’anima tiepida parlare senza tanta difficoltà, e per il minimo pretesto, durante le sue preghiere; per un nonnulla le abbandona, almeno in parte, pensando che le farà in un altro momento. Vuol essa offrire la sua giornata a Dio, dire il Benedìcite e l’Agimus? Fa tutto questo, sì; ma spesso senza pensare a ciò che dice. Non interromperà lo stesso il suo lavoro. È un uomo? Farà girare il berretto od il cappello tra le mani, come per esaminare se è buono o no, quasi volesse venderlo. E una donna? Essa li reciterà tagliando il pane per la zuppa, o mettendo la legna sul fuoco, oppure sgridando i figli o i domestici. Le distrazioni nella preghiera non sono volontarie, se lo volete; si preferirebbe non averle; ma siccome bisogna sforzarsi un po’ per scacciarle, si lasciano andare e venire a lor piacimento. Un’anima tiepida non lavora forse, la Domenica, in opere che sembrano proibite a quelle persone che hanno un po’ di religione; ma fare qualche punto coll’ago, accomodare qualche cosa negli utensili di cucina, mandare i mandriani al campo durante le funzioni sotto pretesto che non c’è più nulla da dare alle bestie; di ciò essa non si fa scrupolo, e preferisce lasciar perire la propria anima e quelle dei propri operai, piuttosto che lasciar perire le bestie. Un uomo aggiusterà i suoi strumenti, le sue carrette pel domani; andrà a visitare i campi, turerà un buco, taglierà qualche corda; porterà e metterà in assetto altre cose. Che ne dite, F. M.? non è questa, ahimè! la pura verità ?… Un’anima tiepida si confesserà ogni mese ed anche più spesso. Ma, ahimè, quali confessioni! Nessuna preparazione, nessun desiderio di correggersi: oppure sono così deboli e così piccoli, che il primo colpo di vento li abbatte. Tutte le sue confessioni non sono che una ripetizione delle antiche, e fortunata se non v’è nulla da aggiungere. Vent’anni or sono, ella confessava ciò che oggi di nuovo accusa; fra vent’anni, se ella si confesserà ancora, sarà la medesima ripetizione. Un’anima tiepida, se volete, non commetterà gravi peccati, ma una piccola maldicenza, una bugia, un sentimento di odio, di avversione, di gelosia, una piccola dissimulazione non le costano molto. Se non le portate tutto il rispetto ch’essa crede meritare, ve lo farà scorgere sotto il pretesto che si offende il buon Dio; ma dovrebbe dire piuttosto perché si offende lei. È vero che non lascerà di frequentare i Sacramenti, ma le sue disposizioni sono degne di compassione. Il giorno in cui vuol ricevere il suo Dio, passerà una parte della mattina a pensare ai suoi affari temporali. Se è un uomo penserà alle compere ed alle sue vendite; se è donna, penserà alla cucina ed ai figli; se è una giovinetta, al modo con cui ella vestirà; se un giovinotto, vagheggerà qualche pensiero frivolo ecc. Essa chiude il suo Dio come in una prigione oscura e sporca. Non gli dà la morte, ma Egli è in questo cuore senza gioia e senza consolazione; tutte le sue disposizioni dicono che la sua povera anima non ha appena che un soffio di vita. Dopo ricevuta la santa Comunione, questa persona non pensa gran fatto al buon Dio più degli altri giorni. Il suo modo di vivere ci mostra che essa non ha conosciuto la grandezza della sua felicità. Una persona tiepida riflette poco sulla condizione dolorosa della sua povera anima, e non ritorna quasi mai sul passato; e se frattanto pensa a far meglio, crede che avendo confessato i suoi peccati deve stare perfettamente tranquilla. Assiste alla santa Messa presso a poco come ad un’azione ordinaria; vi pensa poco seriamente e non mette alcuna difficoltà a parlare di cose ben diverse mentre vi si reca; non penserà, forse nemmeno una volta, che va a partecipare al più grande di tutti i doni che il buon Dio nella sua onnipotenza può farci. Quanto ai bisogni dell’anima, vi pensa si, ma assai debolmente; spesso anche si presenta davanti alla presenza di Dio senza sapere che cosa vuol domandargli. Essa si fa poco scrupolo di accorciare per un lieve pretesto la Via Crucis, la processione e l’acqua benedetta. Durante le sacre funzioni non vuol dormire, è vero, ed anche ha paura di essere veduta; ma non si fa la minima violenza. Quanto poi alle distrazioni durante la preghiera o la santa Messa, non vorrebbe averle; ma siccome bisognerebbe combatterle un po’, le soffre con pazienza, senza però accoglierle. I giorni di digiuno si riducono quasi a nulla, o perché  si anticipa l’ora del pasto, o perché si fa colazione abbondantemente, come se fosse pranzo, sotto il pretesto, che il cielo non lo si guadagna colla fame. Quando fa qualche buona azione, la sua intenzione non è ben retta: ora è per un favore a qualcheduno, ora per compassione, e qualche volta per piacere al mondo. Per anime di questa fatta tutto ciò che non è peccato è anzi cosa buona… Esse amano di far il bene, ma vorrebbero che non costasse loro nulla, o almeno assai poco. Desidererebbero visitare gli ammalati, ma bisognerebbe che gli ammalati venissero a trovarle essi stessi! Hanno mezzi di fare elemosine; sanno che la tal persona ne ha bisogno; ma aspettano che essa venga a domandarla, invece di prevenirla, ciò che renderebbe la loro opera ben più meritoria. Diciamo meglio, F. M., una persona che conduce una vita tiepida, non lascia di fare molte buone opere, di frequentare i Sacramenti, di assistere regolarmente a tutte le sacre funzioni; ma in tutto ciò voi non vedete che una fede debole, languida, una speranza che alla minima prova vacilla, un amore per Dio e pel prossimo che è senza ardore e senza diletto; tutto ciò che essa fa non è completamente perduto, ma poco vi manca. Alla presenza di Dio, esaminate, F. M., da qual parte siete: dalla parte dei peccatori che hanno abbandonato tutto, che non pensano affatto alla salute della povera anima loro, che si immergono nel peccato senza rimorsi? O dalla parte delle anime giuste che non vedono né cercano che Dio solo, che sono sempre portate a pensar male di se stesse, e ne sono convinte, quando vengono avvertite dei loro difetti; che pensano sempre di essere mille volte più miserabili che non si creda, e che contano per nulla tutto ciò che hanno fatto fino ad ora? Oppure siete del numero di quelle anime lasse, tiepide ed indifferenti, come io ve le ho dipinte? Per quale via camminiamo noi? Chi potrà assicurarsi di non essere né  grande peccatore, né tiepido; ma di essere del numero degli eletti? Ahimè! F. M., quanti sembrano buoni Cristiani agli occhi del mondo, ed invece sono anime tiepide, agli occhi di Dio, che conosce il nostro interno!

II. – Ma, mi direte, quali mezzi bisogna dunque adoperare per uscire da uno stato così sventurato? — F. M., se desiderate saperlo, state ben attenti. Lasciatemi tuttavia dirvi ancora che chi vive nella tiepidezza è ancor più in pericolo di chi vive nel peccato mortale, e che le conseguenze di questo stato sono forse più funeste. Eccovene la prova. Un peccatore che non fa Pasqua, o che ha abitudini cattive e peccaminose, piange di quando in quando sul suo stato, nel quale è risoluto di non morire; desidera anche di uscirne, ed un giorno lo farà. Ma un’anima che vive nella tiepidezza, non pensa ad uscirne, perché crede di essere in grazia di Dio. Che cosa dobbiamo concludere? Ecco, F. M. Quell’anima tiepida diviene un oggetto insipido, disgustoso e stomachevole agli occhi di Dio, che finisce per vomitarla dalla sua bocca; cioè la maledice e la rigetta. O mio Dio! quante anime fa perdere questo stato! Se si vuol far uscire un’anima tiepida dalla sua dolorosa condizione, questa risponde che non vuol essere una santa; che ne ha abbastanza d’andare in cielo. Voi non volete essere una santa, dite; ma in cielo non ci vanno che i santi. O esser santo, o esser dannato: non v’è via di mezzo. – Se volete uscire dalla tiepidezza, F. M., trasportatevi di quando in quando alla porta dell’abisso, dove si sentono le grida e le urla dei dannati, e vi formerete un’idea dei tormenti che essi soffrono per aver trattato con tiepidezza, anzi negligenza, l’affare della loro salute. Portate il vostro pensiero al cielo, e vedete la gloria dei Santi che hanno combattuto e si son fatti violenza mentre erano sulla terra. Trasportatevi, F. M., nel fondo dei deserti, e vi troverete quelle moltitudini di santi che hanno passato cinquanta, settant’anni a piangere i loro peccati nei rigori della penitenza. Vedete, F. M., ciò che han fatto per meritare il cielo. Vedete quale rispetto avevano della presenza di Dio; quale devozione nello loro preghiere, che duravano quanto la loro vita. Essi avevano abbandonato le ricchezze, i parenti, gli amici per non più pensare che a Dio solo. Vedete il loro coraggio nel combattere le tentazioni del demonio. Vedete lo zelo o la premura di quelli che erano chiusi nei monasteri per rendersi degni di accostarsi spesso ai Sacramenti. Vedete il loro gusto nel perdonare e nel far del bene a tutti quelli che li perseguitavano, li odiavano e parlavano male di loro. Vedete la loro umiltà, il disprezzo di se stessi, la felicità nel vedersi disprezzati, e quanto temevano di essere lodati e stimati dal mondo. Vedete con quale attenzione evitavano i più piccoli peccati e quante lagrime hanno versato sui loro trascorsi. Vedete quale purità d’intenzione in tutte le loro buone opere: non avevano di mira che Dio solo, ed a Lui solo desideravano di piacere. Che devo dirvi ancora? Vedete quelle schiere di martiri, mai sazi di patire, che salgono sui roghi con più gioia che i re sui loro troni. – Concludiamo, F. M. Non v’è stato più da temere che quello d’una persona, la quale vive nella tiepidezza, perché si convertirà più facilmente un grande peccatore piuttosto che una persona tiepida. Domandiamo con tutto il nostro cuore a Dio, se siamo in questo stato, di farci la grazia di uscirne, per prendere la via che tutti i Santi hanno presa, e arrivare alla felicità che essi godono. E ciò che vi auguro.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Exod. XXIV: 4; 5
Sanctificávit Móyses altáre Dómino, ófferens super illud holocáusta et ímmolans víctimas: fecit sacrifícium vespertínum in odórem suavitátis Dómino Deo, in conspéctu filiórum Israël.

[Mosè edificò un altare al Signore, offrendo su di esso olocausti e immolando vittime: fece un sacrificio della sera, gradevole al Signore Iddio, alla presenza dei figli di Israele.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes éfficis: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.

[O Dio, che per mezzo dei venerandi scambii di questo sacrificio, ci rendi partecipi della tua sovrana e unica divinità, concedi, Te ne preghiamo, che, come conosciamo la verità, cosí la conseguiamo con degna condotta.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XCV: 8-9
Tóllite hóstias, et introíte in átria ejus: adoráte Dóminum in aula sancta ejus.

 [Prendete le vittime ed entrate nel suo atrio: adorate il Signore nel suo santo tempio.]

Postcommunio

Orémus.
Grátias tibi reférimus, Dómine, sacro múnere vegetáti: tuam misericórdiam deprecántes; ut dignos nos ejus participatióne perfícias.

[Nutriti del tuo sacro dono, o Signore, Te ne rendiamo grazie, supplicando la Tua misericordia di renderci degni di raccoglierne il frutto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA TIEPIDEZZA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)                                

Sulla tiepidezza.

« Sed quia tepidus es, et nec frigidas, nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo. »

(Apoc. II, 16).

Possiamo noi, Fratelli miei, ascoltare senza terrore una tale sentenza dalla bocca di Dio stesso, contro un Vescovo che sembrava adempisse perfettamente tutti i doveri di un degno ministro della Chiesa? La sua vita era ben regolata, le sue ricchezze distribuite come coscienza esigeva. Lungi dal tollerare il vizio, vi si opponeva energicamente: non dava cattivi esempi, e la sua vita sembrava veramente degna d’essere imitata. Eppure, malgrado tutto ciò, vediamo che il Signore gli fa dire da S. Giovanni che se avesse continuato a vivere così, lo avrebbe rigettato, cioè punito e riprovato. Sì, F. M., questo esempio è tanto più spaventoso in quanto che molti seguono la stessa via, vivono in modo simile, eppure tengono certa la loro salute. Ahimè! F. M., quant’è grande il numero di coloro che non sono né tra i peccatori già riprovati agli occhi del mondo, né tra gli eletti. Su quale strada camminiamo noi? È giusta quella che noi percorriamo? Quello che ci deve far tremare è che non ne sappiamo nulla. Quale spaventosa incertezza!… Cerchiamo frattanto di conoscere se abbiamo la somma disgrazia di essere nel numero dei tiepidi. Io voglio mostrarvi 1° a quali segni potete conoscere se appartenete al numero dei tiepidi; 2° se avete la disgrazia di esser di questo numero, vi indicherò i mezzi per uscirne.

I. — Parlandovi oggi, F. M., dello stato spaventevole di un’anima tiepida, non è mio disegno di farvi il ritratto pauroso e disperato di un’anima che vive nel peccato mortale, senza neanche il desiderio di uscirne: questa povera disgraziata non è che una vittima della collera di Dio per l’altra vita. Ahimè! tali peccatori mi ascoltano; essi sanno di chi parlo in questo momento….. Ma non andiamo più lontano; tutto ciò che direi non servirebbe che a indurirli di più. Parlandovi d’un’anima tiepida, F. M., io non voglio parlarvi di coloro che non si confessano, né fanno Pasqua; essi sanno benissimo che, malgrado tutte le loro preghiere e le altre buone opere, si perderanno. Lasciamoli nel loro accecamento, giacché vogliono restarvi. — Ma, mi direte, tutti quelli che si confessano, fanno la loro Pasqua e si comunicano spesso, non si salveranno? — Ve lo assicuro, amici miei, tutti no; perché se la maggior parte di coloro che frequentano i Sacramenti si salvasse, bisognerebbe convenire che il numero degli eletti non sarà così piccolo come realmente sarà. Ma, tuttavia, riconosciamolo: tutti quelli che avranno la somma ventura di andare in cielo, saranno scelti senz’altro tra coloro che frequentano i Sacramenti, e non tra quelli che non fanno Pasqua, né si confessano. Ah! mi direte, se tutti coloro che non fanno Pasqua, né si confessano si danneranno, dovrà essere ben grande il numero dei reprobi! — Sì, senza dubbio, sarà grande. E checché possiate dirne, se vivete da peccatori, dividerete la loro sorte. E questo pensiero non vi commuove?… Se non siete induriti fino all’ultimo segno, deve farvi fremere ed anche disperare. Ahimè! Dio mio! quant’è disgraziata una persona che ha perduta la fede! Lungi dall’approfittare di queste verità, quei poveri ciechi, al contrario, se ne rideranno; eppure dicano quel che vogliono, sarà come vi dico io: senza Pasqua e senza confessione, né cielo, né felicità eterna. O mio Dio! quanto è orribile l’accecamento del peccatore! Neppure intendo, F. M., per anima tiepida, chi vorrebbe essere del mondo senza cessare d’essere di Dio: voi lo vedrete ora prostrarsi davanti a Dio, suo Salvatore e Signore; ed ora prostrarsi davanti al mondo, suo idolo. Povero cieco, che stende una mano al buon Dio e l’altra al mondo; li chiama tutti e due in suo aiuto, promettendo a ciascuno il suo cuore! Egli ama Dio; vorrebbe almeno amarlo; ma vorrebbe anche piacere al mondo. Stanco alla fine di stare con tutti e due, termina col darsi al mondo. Vita strana, codesta vita che presenta uno spettacolo così singolare che non si riesce a persuadersi che possa essere la vita di una sola persona. Ve lo mostrerò in modo così chiaro che, forse, molti tra di voi se ne offenderanno; ma, poco m’importa; io vi dirò sempre ciò che devo dirvi: voi farete ciò che vorrete. – Io dico, F. M., che chi vuol essere del mondo senza cessare d’essere di Dio, conduce una vita così strana, che riesce impossibile conciliarne le differenti circostanze. Ditemi, osereste voi pensare che quella giovane che vedete a quei piaceri, a quelle riunioni mondane dove non si fa che male e bene mai, e, in esse si abbandona a tutto ciò che un cuore guasto e perverso può desiderare, è la stessa che avete visto, appena quindici giorni od un mese fa, al tribunale di penitenza confessare le sue colpe, protestando a Dio d’essere pronta a morire piuttosto che ricadere nel peccato? È proprio quella che avete visto accostarsi alla sacra Mensa cogli occhi dimessi e la preghiera sul labbro? Dio mio, quale orrore! Vi si può pensare senza provare una stretta al cuore? Credereste, F. M., che quella madre, la quale tre settimane or sono mandava la sua figliuola a confessarsi, giustamente raccomandandole di pensar bene a ciò che stava per compiere e dandole anche un rosario od un libro; oggi le dice di andare ad una festa da ballo, ad un matrimonio o a degli sponsali? Quelle stesse mani che le hanno dato un libro, ora sono affaccendate ad accomodare le sue vanità, affinché meglio piaccia al mondo. Ditemi, F. M., è proprio quella persona che stamattina in chiesa cantava le lodi di Dio, ed ora adopera la stessa lingua per cantare cattive canzoni, e per tenere discorsi i più infami? È forse il medesimo quel padrone o quel padre che or ora assisteva alla S. Messa con grande rispetto e sembrava voler passare santamente la Domenica e che invece vedete lavorare e far lavorare i suoi dipendenti? Mio Dio! Quale orrore! come il buon Dio accomoderà tutto ciò nel giorno del giudizio? Ahimè! quanti Cristiani dannati! Io dico ancor di più, F. M., colui che vuol piacere al mondo ed al buon Dio, conduce una vita delle più disgraziate. Vedetelo. Ecco una persona che frequenta i piaceri, o che ha contratto qualche cattiva abitudine; quale non è il suo timore quando adempie i doveri di religione, cioè quando prega il buon Dio, quando si confessa e si comunica? Non vorrebbe esser vista da coloro coi quali ha danzato, e coi quali ha passato le notti nelle bettole dandosi ad ogni sorta di disordini. È riuscita ad ingannare il suo confessore, nascondendogli quanto ha fatto di peggio, ed ha ottenuto il permesso di comunicarsi, o meglio di fare un sacrilegio: vorrebbe comunicarsi o prima o dopo la Messa, cioè quando v’è meno gente. Ma essa è contenta di esser vista dalle persone dabbene, che ignorano la sua cattiva vita, e alle quali spera d’ispirare una buona opinione di sé. Con persone pie, parla di pietà; con gente senza religione non parlerà che dei piaceri del mondo. Essa arrossirebbe di compiere le sue pratiche religiose davanti ai compagni o compagne di stravizi. E questo è tanto vero, che un giorno uno m’ha domandato di comunicarlo in sacristia, perché nessuno lo vedesse. Che orrore! F. M., si può pensare, senza fremere, ad una tale condotta? – Ma andiamo avanti, e vedrete l’imbarazzo di queste povere persone che vogliono seguire il mondo senza abbandonare, almeno in apparenza, il buon Dio. Si avvicina la Pasqua. Bisogna andarsi a confessare; esse non lo desiderano, e neppure ne sentono il bisogno: desidererebbero anzi che la Pasqua venisse ogni trent’anni. Ma i loro genitori ci tengono ancora alla pratica esteriore della religione; essi sono contenti che i figli si accostino alla sacra Mensa, e li sollecitano anche di andarsi a confessare: in ciò fanno malissimo. Preghino piuttosto per essi e non li tormentino affinché abbiano a commettere dei sacrilegi; ahimè! ne faranno abbastanza lo stesso. Per liberarsi dall’importunità dei genitori, per salvare le apparenze, queste persone si uniranno insieme per sapere quale confessore bisogna scegliere, confessore che dia l’assoluzione la prima o almeno la seconda volta. “E già un po’ di tempo, dice uno, che i genitori mi tormentano perché non vado a confessarmi. Da chi andremo?„ — “Non bisogna andare dal nostro parroco; è troppo scrupoloso; certo non ci lascerebbe far Pasqua. Bisogna andar dal tale. Egli ha assolto il tale ed il tale, che ne hanno fatte al par di noi. Certo più di loro noi non ne abbiam commesso. „ E un’altra dirà: “Ti assicuro, che se non fosse pei miei genitori, io non farei Pasqua; poiché il catechismo ci dice che per fare una buona confessione bisogna abbandonare il peccato e le occasioni di peccato, e noi non facciamo né l’una cosa né l’altra. Te lo dico sinceramente: quando arriva la Pasqua per me è un bell’imbarazzo. Non vedo che l’ora di collocarmi per non avere più impicci. Allora farò la confessione generale di tutta la mia vita per riparare quella che faccio ora, altrimenti non vivrei contenta. „ — “Ebbene! gli dirà un’altra, bisognerà che ritorni da chi t’ha confessato fino ad ora: egli ti conoscerà meglio. „ — “Ah! certo no; io andrò da chi non voleva assolvermi, perché non voleva che mi dannassi. „ — “Ah! come sei ingenua! Ciò non importa, tutti i sacerdoti hanno lo stesso potere. „ — “Va bene dir cosi finché si è sani; ma quando si è ammalati si pensa diversamente. Un giorno, io andai a trovare una tale che era gravemente ammalata: ed ella mi disse che mai sarebbe tornata a confessarsi da quei sacerdoti così larghi, che mentre sembra vi vogliano salvare, vi mandano all’inferno. „ E fanno infatti così questi poveri ciechi. « Padre, dicono al prete, io vengo a confessarmi da voi, perché il nostro parroco è troppo scrupoloso. Pretende che noi promettiamo cose che poi non possiamo fare; vorrebbe che fossimo dei santi, e ciò non è davvero possibile in mezzo al mondo. Vorrebbe che non ponessimo più piede alle feste da ballo, e che non frequentassimo né le osterie né i divertimenti. Se si ha qualche cattiva abitudine non dà più l’assoluzione fino a che non l’abbiamo lasciata. Se bisognasse fare tutto questo non potremmo mai più fare la Pasqua. I miei genitori, che sono molto religiosi, mi stancano continuamente perché non faccio la Pasqua. Io farei tatto ciò che potrei; ma non si può promettere di non ritornar più a questi divertimenti, poiché non si sanno le occasioni che possono capitare. „ — “Ah! dirà il confessore ingannato da questo bel linguaggio, il vostro parroco è un po’ troppo scrupoloso. Fate il vostro atto di contrizione, vi darò l’assoluzione, e procurate di far sempre bene. „ Cioè, abbassate la testa; voi siete per calpestare il Sangue adorabile di Gesù Cristo, siete per vendere il vostro Dio come Giuda l’ha venduto ai suoi carnefici, e domani vi comunicherete, o meglio, andrete a crocifiggerlo. O orrore! O cosa abbominevole! Va, o Giuda infame, va alla sacra Mensa; va a dar la morte al tuo Dio e al tuo Salvatore! Lascia che la tua coscienza gridi; cerca solo di soffocarne i rimorsi, fin che lo potrai… Ma, F. M., io mi allontano troppo; lasciamo questi poveri ciechi nelle loro tenebre. Io credo, F. M., che voi desideriate sapere qual è lo stato d’un’anima tiepida. Ebbene! eccolo. Un’anima tiepida non è ancor morta del tutto agli occhi di Dio, perché la fede, la speranza e la carità, che sono la sua vita spirituale, non sono del tutto spente. Ma, è una fede senza zelo, una speranza senza fermezza, una carità senza ardore. Vi farò il ritratto d’un Cristiano fervente, d’un Cristiano cioè che desidera davvero di salvare la sua anima, ed insieme vi farò quello di un’anima tiepida nel servizio di Dio. Mettiamoli uno di fronte all’altro, e vedrete a quale dei due rassomigliate. – Un buon Cristiano non si accontenta di credere tutte le verità della nostra santa Religione, ma le ama, le medita, cerca tutti i mezzi per impararle, desidera sentire la parola di Dio; più la sente e più desidera sentirla, perché vuole approfittarne, evitare cioè tutto ciò che Dio gli proibisce, e fare tutto ciò che Egli comanda. Le istruzioni non gli sembrano mai troppo lunghe; anzi questi sono i momenti più felici per lui, poiché impara il modo di condursi per andare in cielo e salvare la sua anima. Non solo crede che Dio lo veda in tutte le sue azioni e che dopo la morte le giudicherà tutte; ma trema ancora ogni qualvolta pensi dover egli render conto di tutta la sua vita ad un Dio, che non avrà misericordia pel peccato. E non si contenta di pensarvi e di tremare, ma lavora ogni giorno per correggersi; non cessa d’inventare ogni giorno nuovi mezzi per fare penitenza; conta per nulla ciò che ha fatto finora, e si addolora d’aver perduto molto tempo, nel quale avrebbe potuto raccogliere grandi tesori pel cielo. – Quanto invece è differente il Cristiano che vive nella tiepidezza! Accetta sì tutte le verità che la Chiesa crede ed insegna, ma in un modo così debole, che sembra credervi, direi, ben poco. Non dubita, è vero, che Dio lo vede, che egli è sempre alla sua santa presenza; ma con questo pensiero non è né più buono, né meno cattivo; cade con tanta facilità nel peccato come se non credesse nulla, è persuasissimo che, finché vive in questo stato, è nemico di Dio, ma non cerca per questo di uscirne. Sa che Gesù Cristo ha dato al sacramento della Penitenza la facoltà di rimettere i nostri peccati e di farci progredire nella virtù. Sa che questo Sacramento ci accorda grazie proporzionate alle disposizioni che vi portiamo; non importa: sempre la medesima negligenza, la medesima tiepidezza nella pratica. Sa che Gesù Cristo è veramente presente nel sacramento dell’Eucaristia, che è un nutrimento assolutamente necessario per l’anima sua; eppure vedete in lui ben poco desiderio di questo cibo. Le sue confessioni e le sue comunioni sono lontanissime l’una dall’altra; non vi si deciderà che all’occasione d’una grande festa, d’un giubileo o d’una missione, oppure perché gli altri vi vanno, ma non per il bisogno della sua povera anima. Non solo non si sforza per meritare questa grazia; ma non invidia nemmeno quelli che vi si accostano più spesso. Se gli parlate delle cose del buon Dio, vi risponde con una indifferenza, che vi mostra come il suo cuore sia poco sensibile ai conforti, che possiamo trovare nella nostra santa religione. Nulla lo commuove: ascolta la parola di Dio, è vero; ma spesso s’annoia; ascolta con fatica, per abitudine, come una persona che pensa di saperne o di fare abbastanza. Le preghiere un po’ lunghe lo disgustano. Il suo spirito è così pieno dell’azione che ha appena fatto, o di quella che sta per fare; la noia è sì grande, che la sua povera anima è come in agonia; vive ancora, ma non è più capace di nulla per il cielo. – La speranza d’un buon Cristiano è ferma; la sua confidenza in Dio è irremovibile. Non perde mai di vista i beni ed i mali dell’altra vita. Il ricordo dei dolori di Gesù Cristo è continuamente presente al suo spirito; il suo cuore ne è sempre occupato. Ora porta il suo pensiero all’inferno, per capire quanto è grande la punizione del peccato e la disgrazia di chi lo commette, ciò che lo dispone a preferire la morte al peccato; ora per eccitarsi all’amor di Dio e per provare quant’è felice chi preferisce il buon Dio a tutto, porta il suo pensiero al cielo. Allora comprende quanto è grande la ricompensa di chi abbandona ogni cosa pel Signore; e non desidera che Lui, non vuole che Lui solo; i beni di questo mondo per lui sono nulla; ne gode al vederli disprezzati, e nel disprezzarli lui stesso; i piaceri del mondo gli fanno orrore. Pensa che, come seguace di un Dio crocifisso, la sua vita non debba essere che una vita di lagrime e di sofferenze. La morte non lo spaventa affatto, perché sa benissimo che essa sola può liberarlo dai mali della vita e riunirlo per sempre al suo Dio. Ma un’anima tiepida è ben lontana da questi sentimenti. I beni ed i mali dell’altra vita le importano quasi nulla: pensa al cielo sì, ma non ha il vero desiderio di andarvi. Sa che il peccato le ne chiude le porte; ciò non ostante, non cerca di correggersi, almeno in modo efficace: perciò è sempre la stessa. Il demonio l’inganna facendole prendere molte risoluzioni di convertirsi, di far meglio, d’essere più mortificata, più ritenuta nelle parole, più paziente nei dolori, più caritatevole verso il prossimo. Ma tutto questo non cambia la sua vita: son già venti anni, che ella è piena di buoni desideri, senza aver modificato in nulla le sue abitudini. Essa rassomiglia ad uno che invidia chi è su di un carro trionfale, ma non muove nemmeno un piede per salirvi. Non vorrebbe certo rinunciare ai beni eterni per quelli della terra; ma non desidera né di uscire da questo mondo, né di andare in cielo, e se potesse passare il suo tempo senza croci e senza angustie, non domanderebbe mai di uscire da questo mondo. Se la sentite dire che la vita è troppo lunga e troppo miserabile, è solo quando tutto non va a seconda de’ suoi desideri. Se il buon Dio per sforzarla in qualche modo a staccarsi dalla vita, le manda delle croci o delle miserie, eccola che si tormenta, si angustia, si abbandona alle lagrime, ai lamenti, e spesso ad una specie di disperazione. Sembra non voglia più riconoscere che è il buon Dio che le manda queste prove per suo bene, per staccarla dalla vita e attirarla a sé. Che cosa ho fatto per meritarmi tutto questo? pensa tra sé; molte altre più colpevoli non patiscono tutto ciò che soffro io. Nella prosperità, l’anima tiepida, non arriva fino a dimenticare il buon Dio, ma non dimentica neppure se stessa. Sa raccontare molto bene i mezzi adoperati per riuscire; crede che molte altre difficilmente avrebbero ottenuto il medesimo successo; è contenta nel ripeterlo o nell’udirlo ripetere; ogni volta che lo sente prova una novella gioia. Davanti a quelli che l’adulano, prende un’aria amabile, affettuosa, ma coloro che non le hanno portato tutto il rispetto ch’essa crede meritare, o che non sono stati riconoscenti ai suoi favori, li guarda con un’aria fredda, indifferente, e sembra dir loro ch’essi sono ingrati, che non meritavano di ricevere il bene ch’essa ha loro fatto. – Un buon Cristiano, F. M., assai lontano dal credersi degno di qualche cosa, e capace di fare il minimo bene, non ha davanti agli occhi che la sua miseria. Non si fida di coloro che lo adulano, considerandoli quali altrettanti lacci che il demonio gli tende; i suoi migliori amici sono quelli che gli fanno conoscere i suoi difetti, perché sa che per correggersene bisogna assolutamente conoscerli. Fugge l’occasione del peccato, quanto può; ricordandosi che ben poco occorre per farlo cadere; non fa alcun assegnamento sulle sue risoluzioni, né sulle sue forze, e nemmeno sulla sua virtù. Conosce, per esperienza, che non è capace che di peccare, e mette ogni confidenza e speranza in Dio solo. Sa che il demonio nulla più teme quanto un’anima la quale ama la preghiera; e questo lo spinge a fare della sua vita una continua preghiera, un’unione intima con Dio. Il pensiero di Dio gli è frequente quanto il respiro; innalza spesso a Lui il suo cuore; si compiace di pensare a Lui, come al Padre suo celeste, all’amico, al suo Dio che l’ama, e che desidera così ardentemente di renderlo felice in questo mondo, e ancor più nell’altro. Un buon Cristiano, F. M., raramente si occupa delle cose della terra; e se gliene parlano mostra tanta indifferenza quanta ne mostra la gente del mondo quando si parla loro dei beni dell’altra vita. Infine, fa consistere la sua felicità nelle croci, nelle afflizioni, nella preghiera, nei digiuni o nel pensiero della presenza di Dio. Un’anima tiepida, non perde del tutto, se volete, la confidenza in Dio; ma non diffida abbastanza di se stessa. Sebbene si esponga assai spesso all’occasione di peccato, pure crede che non cadrà; e se cade, attribuisce la sua caduta al prossimo, e protesta che un’altra volta sarà più forte. – Chi ama veramente il buon Dio, F. M., ed ha a cuore la salute della sua anima, prende tutte le precauzioni possibili affin d’evitare l’occasione del peccato. Non si accontenta di evitare i grossi falli; ma sta attento per distruggere il minimo difetto che trova in sé. Considera sempre come un gran male tutto ciò che possa dispiacere anche solo minimamente a Dio; o meglio, tutto ciò che non piace a Dio, dispiace anche a lui. Egli si considera come ai piedi di una scala, alla sommità della quale deve salire; vede che per giungervi non ha tempo da perdere; e così cresce ogni giorno di virtù in virtù aspettando l’eternità. È un’aquila che fende l’aria; o meglio è un lampo che nulla perde della sua rapidità, dal momento in cui appare a quello in cui si dilegua. Sì, F. M., ecco che cosa fa un’anima che lavora per Dio e desidera vederlo. Come il lampo, essa non trova limiti né indugi, prima di inabissarsi nel seno del suo Creatore. Perché il nostro spirito si trasporta con tanta rapidità da un capo del mondo all’altro? È per mostrarci con quale rapidità dobbiamo portarci a Dio coi nostri pensieri e desiderii. Ma non è così l’amor di Dio in un’anima tiepida. Non si vedono in essa quei desideri e quelle fiamme ardenti che fanno sormontare tutti gli ostacoli che si oppongono alla salute. Se io volessi, F. M., dipingervi esattamente lo stato di un’anima che vive nella tiepidezza vi direi che essa è simile ad una tartaruga o ad una lumaca. Essa non cammina che trascinandosi per terra e la si vede appena cambiar posto. L’amor di Dio, che essa sente nel suo cuore, è simile ad una piccola scintilla nascosta sotto un cumulo di cenere; questo amore è avviluppato da tanti pensieri e desideri terreni, che, se non lo soffocano, ne impediscono il progresso e l’estinguono a poco a poco. L’anima tiepida giunge al punto d’essere indifferente per la sua rovina. Non ha che un amore senza tenerezza, senza attività e senza forza, che la sostiene appena in tutto ciò che è essenzialmente necessario per salvarsi; ma quanto al resto, lo riguarda come nulla o come cosa da poco. Ahimè! F. M., questa povera anima nella sua ltiepidezza è come una persona tra due sonni. Vorrebbe agire; ma la volontà è talmente fiacca che non ha né la forza, né il coraggio per soddisfare i suoi desiderii. – È vero che un Cristiano che vive nella tiepidezza adempie ancora molto regolarmente i suoi doveri, almeno in apparenza. Farà tutte le mattine la sua preghiera in ginocchio; frequenterà i Sacramenti, tutti gli anni, a Pasqua, ed anche più volte all’anno; ma in tutto questo v’è tanto disgusto, tanto rilassamento e tanta indifferenza, così poca preparazione, così poco cambiamento nel modo di vivere, che si vede chiaramente come egli adempia i suoi doveri per abitudine; perché ricorre una festa, ed è abituato a compierli in quella circostanza. Le sue confessioni e le sue comunioni non sono sacrileghe, se volete; ma sono confessioni e comunioni senza frutto, che, lungi dal renderlo più perfetto e più caro a Dio, lo rendono invece più colpevole. Quanto alle sue preghiere, Dio solo sa come son fatte: ahimè, senza preparazione. Alla mattina, non si occupa del buon Dio né della salute della sua povera anima; ma pensa solo a ben lavorare. Il suo spirito è talmente preoccupato dalle cose della terra, che il pensiero di Dio non vi trova posto. Pensa a ciò che farà durante il giorno, dove manderà i figli ed i domestici, come farà per terminare il suo lavoro. Per fare la preghiera si mette in ginocchio sì, ma non sa né che cosa vuol domandare al buon Dio, né che cosa gli è necessario, e neppure a chi si trova davanti; i suoi modi così poco rispettosi lo fanno conoscere. È un povero che, quantunque molto miserabile non vuol nulla, ed ama la sua povertà. È un ammalato quasi disperato, che disprezza medici e medicine ed ama le sue infermità. Voi vedete quest’anima tiepida parlare senza tanta difficoltà, e per il minimo pretesto, durante le sue preghiere; per un nonnulla le abbandona, almeno in parte, pensando che le farà in un altro momento. Vuol essa offrire la sua giornata a Dio, dire il Benedìcite e l’Agimus? Fa tutto questo, sì; ma spesso senza pensare a ciò che dice. Non interromperà lo stesso il suo lavoro. È un uomo? Farà girare il berretto od il cappello tra le mani, come per esaminare se è buono o no, quasi volesse venderlo. È una donna? Essa li reciterà tagliando il pane per la zuppa, o mettendo la legna sul fuoco, oppure sgridando i figli o i domestici. Le distrazioni nella preghiera non sono volontarie, se lo volete; si preferirebbe non averle; ma siccome bisogna sforzarsi un po’ per scacciarle, si lasciano andare e venire a lor piacimento. Un’anima tiepida non lavora forse, la Domenica, in opere che sembrano proibite a quelle persone che hanno un po’ di religione; ma fare qualche punto coll’ago, accomodare qualche cosa negli utensili di cucina, mandare i mandriani al campo durante le funzioni sotto pretesto che non c’è più nulla da dare alle bestie: di ciò essa non si fa scrupolo, e preferisce lasciar perire la propria anima e quelle dei propri operai, piuttosto che lasciar perire le bestie. Un uomo aggiusterà i suoi strumenti, le suo carrette pel domani; andrà a visitare i campi, turerà un buco, taglierà qualche corda; porterà e metterà in assetto altre cose. Che ne dite, F. M.? non è questa, ahimè! la pura verità ?… Un’anima tiepida si confesserà ogni mese ed anche più spesso. Ma, ahimè, quali confessioni! Nessuna preparazione, nessun desiderio di correggersi: oppure sono così deboli e così piccoli, che il primo colpo di vento li abbatte. Tutte le sue confessioni non sono che una ripetizione delle antiche, e fortunata se non v’è nulla da aggiungere. Vent’anni or sono, ella confessava ciò che oggi di nuovo accusa; fra vent’anni, se ella si confesserà ancora, sarà la medesima ripetizione. Un’anima tiepida, se volete, non commetterà gravi peccati, ma una piccola maldicenza, una bugia, un sentimento di odio, di avversione, di gelosia, una piccola dissimulazione non le costano molto. Se non le portate tutto il rispetto ch’essa crede meritare, ve lo farà scorgere sotto il pretesto che si offende il buon Dio; ma dovrebbe dire piuttosto perché si offende lei. È vero che non lascerà di frequentare i Sacramenti, ma le sue disposizioni sono degne di compassione. Il giorno in cui vuol ricevere il suo Dio, passerà una parte della mattina a pensare ai suoi affari temporali. Se è un uomo penserà alle compere ed alle sue vendite; se è donna, penserà alla cucina ed ai figli; se è una giovinetta, al modo con cui ella vestirà; se un giovinotto, vagheggerà qualche pensiero frivolo ecc. Essa chiude il suo Dio come in una prigione oscura e sporca. Non gli dà la morte, ma Egli è in questo cuore senza gioia e senza consolazione; tutte le sue disposizioni dicono che la sua povera anima non ha appena che un soffio di vita. Dopo ricevuta la santa Comunione, questa persona non pensa gran fatto al buon Dio più degli altri giorni. Il suo modo di vivere ci mostra che essa non ha conosciuto la grandezza della sua felicità. Una persona tiepida riflette poco sulla condizione dolorosa della sua povera anima, e non ritorna quasi mai sul passato; e se frattanto pensa a far meglio, crede che avendo confessato i suoi peccati deve stare perfettamente tranquilla. Assiste alla santa Messa presso a poco come ad un’azione ordinaria; vi pensa poco seriamente e non mette alcuna difficoltà a parlare di cose ben diverse mentre vi si reca; non penserà, forse nemmeno una volta, che va a partecipare al più grande di tutti i doni che il buon Dio nella sua onnipotenza possa farci. Quanto ai bisogni dell’anima, vi pensa sì ma assai debolmente; spesso anche si presenta davanti alla presenza di Dio senza sapere che cosa vuol domandargli. Essa si fa poco scrupolo di accorciare per un lieve pretesto la Via Crucis, la processione e l’acqua benedetta. Dorante le sacre funzioni non vuol dormire, è vero, ed anche ha paura di essere veduta; ma non si fa la minima violenza. Quanto poi alle distrazioni durante la preghiera o la santa Messa, non vorrebbe averle; ma siccome bisognerebbe combatterle un po’, le soffre con pazienza, senza però accoglierle. I giorni di digiuno si riducono quasi a nulla, o perché  si anticipa l’ora del pasto, o perché si fa colazione abbondantemente, come se fosse pranzo, sotto il pretesto, che il cielo non lo si guadagna colla fame. Quando fa qualche buona azione, la sua intenzione non è ben retta: ora è per un favore a qualcheduno, ora per compassione, e qualche volta per piacere al mondo. Per anime di questa fatta tutto ciò che non è peccato, è anzi cosa buona… Esse amano di far il bene, ma vorrebbero che non costasse loro nulla, o almeno assai poco. Desidererebbero visitare gli ammalati, ma bisognerebbe che gli ammalati venissero a trovarle essi stessi! Hanno mezzi di fare elemosine; sanno che la tal persona ne ha bisogno; ma aspettano che essa venga a domandarla, invece di prevenirla, ciò che renderebbe la loro opera ben più meritoria. Diciamo meglio, F. M., una persona che conduce una vita tiepida, non lascia di fare molte buone opere, di frequentare i Sacramenti, di assistere regolarmente a tutte le sacre funzioni; ma in tutto ciò voi non vedete che una fede debole, languida, una speranza che alla minima prova vacilla, un amore per Dio e pel prossimo che è senza ardore e senza diletto; tutto ciò che essa fa non è completamente perduto, ma poco vi manca. Alla presenza di Dio, esaminate, F. M., da qual parte siete: dalla parte dei peccatori che hanno abbandonato tutto, che non pensano affatto alla salute della povera anima loro, che si immergono nel peccato senza rimorsi? O dalla parte delle anime giuste che non vedono né cercano che Dio solo, che sono sempre portate a pensar male di se stesse, e ne sono convinte, quando vengono avvertite dei loro difetti; che pensano sempre di essere mille volte più miserabili che non si creda, e che contano per nulla tutto ciò che hanno fatto fino ad ora? Oppure siete del numero di quelle anime lasse, tiepide ed indifferenti, come io ve le ho dipinte? Per quale via camminiamo noi? Chi potrà assicurarsi di non essere né  grande peccatore, né tiepido; ma di essere del numero degli eletti? Ahimè! F. M., quanti sembrano buoni Cristiani agli occhi del mondo, ed invece sono anime tiepide, agli occhi di Dio, che conosce il nostro interno!

II. – Ma, mi direte, quali mezzi bisogna dunque adoperare per uscire da uno stato così sventurato? — F. M., se desiderate saperlo, state ben attenti. Lasciatemi tuttavia dirvi ancora che chi vive nella tiepidezza è ancor più in pericolo di chi vive nel peccato mortale, e che le conseguenze di questo stato sono forse più funeste. Eccovene la prova. Un peccatore che non fa Pasqua, o che ha abitudini cattive e peccaminose, piange di quando in quando sul suo stato, nel quale è risoluto di non morire; desidera anche di uscirne, ed un giorno lo farà. Ma un’anima che vive nella tiepidezza, non pensa ad uscirne, perché crede di essere in grazia di Dio. Che cosa dobbiamo concludere? Ecco, F. M. Quell’anima tiepida diviene un oggetto insipido, disgustoso e stomachevole agli occhi di Dio, che finisce per vomitarla dalla sua bocca; cioè la maledice e la rigetta. O mio Dio! quante anime fa perdere questo stato! Se si vuol far uscire un’anima tiepida dalla sua dolorosa condizione, questa risponde che non vuol essere una santa; che ne ha abbastanza d’andare in cielo. Voi non volete essere una santa, dite; ma in cielo non ci vanno che i santi. O esser santo, o esser dannato: non v’è via di mezzo. – Se volete uscire dalla tiepidezza, F. M., trasportatevi di quando in quando alla porta dell’abisso, dove si sentono le grida e le urla dei dannati, e vi formerete un’idea dei tormenti che essi soffrono per aver trattato con tiepidezza, anzi negligenza, l’affare della loro salute. Portate il vostro pensiero al cielo, e vedete la gloria dei Santi che hanno combattuto e si son fatti violenza mentre erano sulla terra. Trasportatevi, F. M., nel fondo dei deserti, e vi troverete quelle moltitudini di Santi che hanno passato cinquanta, settant’anni a piangere i loro peccati nei rigori della penitenza. Vedete, F. M., ciò che han fatto per meritare il cielo. Vedete quale rispetto avevano della presenza di Dio; quale devozione nello loro preghiere, che duravano quanto la loro vita. Essi avevano abbandonato le ricchezze, i parenti, gli amici per non più pensare che a Dio solo. Vedete il loro coraggio nel combattere le tentazioni del demonio. Vedete lo zelo o la premura di quelli che erano chiusi nei monasteri per rendersi degni di accostarsi spesso ai Sacramenti. Vedete il loro gusto nel perdonare e nel far del bene a tutti quelli che li perseguitavano, li odiavano e parlavano male di loro. Vedete la loro umiltà, il disprezzo di se stessi, la felicità nel vedersi disprezzati, e quanto temevano di essere lodati e stimati dal mondo. Vedete con quale attenzione evitavano i più piccoli peccati e quante lagrime hanno versato sui loro trascorsi. Vedete quale purità d’intenzione in tutte le loro buone opere: non avevano di mira che Dio solo, ed a Lui solo desideravano di piacere. Che devo dirvi ancora? Vedete quelle schiere di martiri, mai sazi di patire, che salgono sui roghi con più gioia che i re sui loro troni. – Concludiamo, F. M. Non v’è stato più da temere che quello d’una persona la quale vive nella tiepidezza, perché si convertirà più facilmente un grande peccatore piuttosto che una persona tiepida. Domandiamo con tutto il nostro cuore a Dio, se siamo in questo stato, di farci la grazia di uscirne, per prendere la via che tutti i Santi hanno presa, e arrivare alla felicità che essi godono. E ciò che vi auguro.

LO SCUDO DELLA FEDE (174)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (X)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO SECONDO

I MISTERI

IV. — Il mistero del peccato originale.

D. Tu hai fatto un’asserzione relativamente al peccato originale, ma non ignori lo scandalo che provoca questa nozione nell’anima contemporanea.

R. Lo ignoro così poco che spesso ho dovuto pensarvi e sono prontissimo a udirti.

D. Donde ti viene questa idea d’un peccato originale?

R. Mi viene dalla fede.

D. Non pretendi di arrivarci anche per dimostrazione?

R. No; per quanto sia utile all’interpretazione della nostra vita, questa idea non ha nulla di assolutamente indispensabile. Tuttavia la sua forza esplicativa è tale, che si ha il diritto di sottoscrivere a questa proposizione di Pascal: « L’uomo è inconcepibile senza questo mistero più che questo mistero non sia inconcepibile all’uomo ».

D. Pascal confessa una difficoltà dalle due parti.

R. Vi è difficoltà dalle due parti, e per questo noi collochiamo il peccato originale tra i misteri. Ma la partita non è uguale; si deve riconoscere insieme l’eminente difficoltà di concepire l’uomo senza il peccato originale, e la sparizione della difficoltà in presenza del dogma.

D. Dove sta la difficoltà di cui parli?

R. In quelle contradizioni della natura umana — grandezza e miseria — di cui l’autore dei Pensieri e dopo di lui Bossuet fecero un così incomparabile quadro.

D. In che cosa ciò si risolve?

R. In questo che la condizione umana apparisce così come un paradosso. Se noi siamo a un tempo grandi e miserabili, e non solo sotto diversi aspetti, ciò che si potrebbe comprendere, ma in qualche modo sotto lo stesso aspetto, considerato che le nostre stesse miserie sono grandi e le nostre stesse grandezze sono miserabili, considerato che le nostre miserie procedono da aspirazioni sublimi e le nostre grandezze vanno scegliendo miserabili oggetti, allora non siamo noi inclinati a pensare che lì sotto vi è qualche mistero?

D. Perché?

È. Perché la natura non conosce il paradosso; perché sembra che così la Provvidenza, nel suo più alto campo, contradica a se stessa.

D. Il caso dell’uomo è forse singolare a questo riguardo?

R. Sì, perché il contrasto del quale parliamo dipende da quel potere infinito di aspirazione che appartiene solo all’uomo. Lì sta il tragico della nostra condizione. Onde Pascal si arroga il diritto di dire: «Solo l’uomo è miserabile ».

D. Non assicurate voi che le contradizioni di questa vita si devono risolvere altrove?

R. Noi lo diciamo, e senza questo la nostra condizione umana sarebbe inaccettabile. Ma quando pure ciò fosse a titolo provvisorio, il piano della natura sembra veramente mancato; esso ci urta; ci pare un’organizzazione della sconfitta, e per giunta un’arte di assecondare l’ingiustizia; perché là dove la natura non ci affligge, ci tenta; per lo più ci trascina, ed è peggio.

D. Non esageri forse?

R. I segni della nostra ingiustizia nativa sono abbastanza visibili; noi siamo dediti a un egoismo mostruoso, a un orgoglio incoercibile, a una cupidigia sfrenata. In noi, l’iniquità è costitutiva, e colui che non la trova in sé la denunzia tutti i giorni negli altri; colui che non la trova in sé prova del resto un accecamento che conclude per il vizio originale di un’altra specie. «Forse che l’uomo che è diventato veramente cosciente di se stesso può veramente rispettare se stesso? » scrive Dostojewski. Questa vita che è molto al di sotto della nostra attesa, è pure, sembra, al di sotto del suo proprio diritto; essa non soddisfa alla sua propria destinazione, neppure provvisoria, e pare che accusi il suo autore, una volta ammesso il carattere del vero Dio: bontà e sapienza.

D. Di fronte a questi mali, il peccato originale è la sola ipotesi?

R. È la più naturale. Nell’umanità, tutto succede come in un individuo che si fosse liberamente corrotto, o in una razza imbastardita per i suoi vizi.

D. Riprendi tu così il ragionamento di Pascal?

R. «Per me, dice egli, confesso che appena la religione cristiana scopre questo principio che la natura degli uomini è corrotta e decaduta da Dio, questo apre gli occhi a vedere dovunque il carattere di questa Verità; perché la natura è tale, che marca dovunque un Dio perduto, e nell’uomo, e fuori dell’uomo, e una natura corrotta ». E ancora: « L’uomo non sa in quale posto mettersi; egli è visibilmente traviato e caduto dal suo vero posto senza poterlo ritrovare. Egli lo cerca con inquietudine e senza successo, nelle tenebre impenetrabili », « Ciò che c’è di grande nell’uomo, dice alla sua volta Bossuet, è un resto della sua prima istituzione; ciò che c’è di basso è il disgraziato effetto della sua caduta». Sono « miserie di grande signore » aveva detto più brevemente Pascal, « miserie d’un re spodestato ». « Contempla questo edifizio, si legge nel Sermone per la professione della signora di La Vallière, e ci vedrai dei segni di una mano divina; ma la disuguaglianza dell’opera ti farà presto osservare che il peccato vi ha mescolato del suo ».

D. Pascal pretende che la natura marchi un Dio perduto  «e nell’uomo, e fuori dell’uomo », e tu estendi forse gli effetti del peccato originale alla stessa creazione materiale?

R. Abbiamo veduto che l’uomo e il suo ambiente sono a questo riguardo solidali, e necessariamente solidali. Onde San Paolo dice senza distinguere: La creazione geme tutta quanta e soffre quasi le doglie del parto. « E i gemiti della creazione sono pieni della miseria non scandagliabile dell’uomo » (V. Hugo).

D. Ciò può sollevare attorno al peccato originale molti problemi!

R. Renouvier li solleva tutti, e prima di lui, Schopenhauer, Kant, e molti altri. Per Schopenhauer, vi è un peccato alla base dell’essere stesso, Il Cristianesimo è più riservato. Ma, come ti dicevo, sollevando un problema, avviene che se ne sollevino mille, e dei più gravi. I nostri misteri sono oscuri, ma sono grandi e, quando sono ammessi, tutto si spiega; senza di essi, tutto è miserabilmente piccolo, e niente si spiega.

D. Insomma tu ripeti dei vecchi miti.

R. Sì, il mito di Prometeo, il mito di Pandora, ed altri. Ho detto che è naturale il ritrovare nelle religioni istintive degli elementi della religione rivelata; è una confermazione; forse è l’indicazione d’una sorgente comune, rispettata qui, e alterata là.

D. In che consiste materialmente questo peccato di razza? Bisogna prendere alla lettera la storia del « frutto proibito »?

R. Nulla a ciò ti obbliga. Si tratta d’un fatto morale.

D. E qual è questo fatto morale?

R. Si può discutere della sua natura precisa; ma ogni peccato è una rivolta contro Dio, un rifiuto dell’ordine, e, a questo titolo, un orgoglio folle, anche se l’occasione di questo orgoglio è un fatto di sensualità, come si crede qui di solito.

D. Si tratterebbe in qualche modo di un doppio peccato?

E. Siccome la caduta originale ha deciso di tutto l’uomo, sarebbe naturale pensare che essa comprendesse a un tempo la sensualità, quest’orgoglio della carne, e l’orgoglio, questa sensualità dello spirito. Tuttavia, come nell’uomo ancora giusto lo spirito è a capo e facilmente domina, il primo peccato dev’essere prima di tutto un peccato d’orgoglio. Ecco l’opinione di S. Tommaso. È anche quella di Pascal, perché l’uomo peccatore « volle rendersi centro di se stesso », in vece di gravitare intorno al suo Sole.

D. Ciò si comprende con facilità per quello che riguarda un individuo; ma ciò che apparisce odioso, è la trasmissione d’un peccato individuale a tutta una razza.

È. Respingo la parola odioso, ma ammetto una volta di più il mistero.

D. Un mistero d’ingiustizia?

È. Rigetto ancora questa parola. Il pregiudizio è antico e molto diffuso: nondimeno chiedo alla tua lealtà di rinunziarvi, dopo la spiegazione che sta per seguire.

D. Ascolto.

R. Anzitutto mi permetto di osservare che migliaia d’anime purissime infinitamente delicate in fatto di giustizia, hanno riverito questo mistero, e l’incredulo, anche virtuoso, qui non ha privilegio.

D. Ammetto.

R. Dopo ciò io ragiono. Un’ingiustizia è la privazione d’un diritto. Là dove non c’è nessun diritto, ci può essere dell’arbitrio, del capriccio, tutto quello che vuoi; ma non c’è ingiustizia. Trovi tu ingiusto che un figlio di tubercolotico sia tubercolotico? che il figlio di un degenerato per colpa sua sia anche lui degenerato, anzi proclive a certi vizi senza che ci sia colpa da parte sua?

D. Ne domanderei volentieri conto alla Provvidenza.

E. La Provvidenza ti ha già esposto che essa s’incarica di trarre da ciò del bene, se gl’interessati vi consentono. Ma proseguo. Condizioni originali ci sono imposte a tutti per il fatto dei nostri ascendenti. A volte noi lo possiamo deplorare; ma non abbiamo il diritto di dire: È ingiusto. Non vi è mai ingiustizia nei dati d’un problema morale; ce ne potrebbe essere solamente nella sua soluzione, e la ragione è che l’ingiustizia suppone una giustizia a cui essa si opponga, e la giustizia il diritto. Ora di che cosa siamo noi privati in conseguenza del peccato originale? Siamo noi privati d’un diritto acquisito, d’una situazione meritata, o anche solo d’un bene in proporzione con ciò che noi siamo? No. Ci si ritira quella grazia di prima creazione alla quale l’obiettante non crede punto; si mette fine a quello stato quasi miracoloso che lo scandalizza, intendo la nostra elevazione al di sopra della natura e di quei formidabili poteri che alternativamente ci affascinano e ci schiacciano. L’incredulo ride di questi privilegi, li trova superflui: è davvero curioso vederli reclamare sotto pena d’ingiustizia!

D. L’ingiustizia è nel fatto che ci si ritira questa grazia per causa di altri.

R. Si taccerebbe d’ingiustizia un monarca che concedesse a un signore della sua corte un privilegio ereditario sotto certe condizioni di servizio, e che poi lo ritirasse perché  il servizio non è stato compiuto? La discendenza di quel signore sarebbe intanto privata; ma essa non avrebbe il diritto di lagnarsi salvo che le si togliessero inoltre i diritti che essa può avere d’altronde.

D. Ma se il vassallo rientrasse più tardi in grazia? Ora non è questo il caso nostro? Adamo, provando la sventura, non si è rialzato dalla sua colpa?

R. Sì certamente.

D. Perché egli non ci ha trasmesso il suo ravvedimento?

R. Perché questo ravvedimento non gli appartiene. Noi siamo potenti per demolire, ma nel soprannaturale non potremmo ricostruire. Il ravvedimento di Adamo e la grazia che lo consacra vengono ad Adamo per il canale della redenzione, per mezzo di quel Figlio lontano e meritevole che è Cristo, nuovo Adamo, « secondo primo uomo », che salva l’altro salvando tutta la stirpe. Di questa salute, Adamo pentito può ben godere il beneficio, e dopo lui i suoi discendenti; ma né essi né lui sono atti a trasmetterla. Se un capo di famiglia rovina i suoi figli e dissipa le loro speranze, è se poi un benefattore sostiene la sua vita e quella de’ suoi figli stessi, il danaro ricevuto non passerà per questo in eredità.

D. Ciò sarebbe possibile e sarebbe più generoso.

R. Sarebbe un altro piano, e ne giudicheremo un po’ più innanzi.

D. Ad ogni modo, tu ragioni come se gli effetti della caduta fossero tutti negativi. Ora si può ridurre così al negativo tutta « questa miseria dell’uomo » di cuì tu facesti così caso?

R. Gli effetti del peccato originale son negativi alla base, o per dir meglio privativi; noi siamo spogliati, e ne seguono degli effetti positivi per il corso naturale delle cose, come se i miei eredi di cui sopra, privati della loro nobiltà, cadessero per fatto loro o per fatto altrui in nuove sventure.

D. Tu chiami gli uomini peccatori in Adamo: dunque li ritieni responsabili, e una responsabilità non è una cosa negativa.

R. Qui vi è un equivoco. Il peccato originale è un peccato in noi; ma è un peccato di natura, uno stato, e che implica una responsabilità collettiva, in ragione del capo della stirpe, ma non una responsabilità individuale. Perciò non puniamo, propriamente parlando, colui che ne è affetto; ma poiché egli appartiene a una stirpe peccatrice, non sarà trattato come colui che appartiene a una stirpe fedele, e questa disuguaglianza non sarà ingiusta più che non lo siano le ineguaglianze sociali sotto un regime di uguaglianza di fronte alla legge, o ancora alle disuguaglianze naturali.

D. Pure tu dici dannati i bambini morti senza battesimo, ed è veramente a cagione del peccato originale.

R. Questi bambini son degli innocenti in ciò che li riguarda personalmente; d’altra parte hanno sopra di sé una colpevolezza di stirpe, e per questa ragione non godranno del benefizio gratuito annesso all’integrità di questa stirpe, all’innocenza primitiva o alla redenzione. Ma noi non li diciamo dannati in questo senso che essi sarebbero infelici; i più dei teologi, tra i quali S. Tommaso, prevedono anzi per essi una beatitudine naturale. Onde conviene eliminare qui questa parola dannazione che si presta a un grave equivoco.

D. Resta la privazione, come dici. Oro credi tu che vada pe’ suoi piedi che tutta una stirpe sia così rappresentata dal suo capo per il possesso o per la perdita d’un bene gratuito, sia pure, ma inestimabile?

R. Questo non va pe’ suoi piedi; è una libera disposizione divina, ma si ricollega a queste grandi leggi di solidarietà e di eredità, sempre più in onore nella scienza.

D. Queste leggi non si negano; per lo meno alla base, sono leggi fisiche: come avviene che ci sia solidarietà morale senza che la volontà dei discendenti partecipi alla volontà del peccatore? Nelle società umane, vi è solidarietà giuridica, perché vi è un vincolo giuridico delle volontà; vi è una specie di delegazione, del contratto mutuo, del consenso unanime.

R. Tu ne parli con precauzione, e a buon diritto. Il « contratto sociale » ha un valore interpretativo; ma tu ben sai che questo vincolo giuridico è fittizio nell’immensa maggioranza dei casi di responsabilità collettiva, sia in bene, sia in male. Di solito è la solidarietà naturale, è, come qui, l’eredità, che decidono di tutto. Difatti un’anima individuale non è attaccata a un solo corpo, ma a parecchi, a tutti quelli della sua discendenza, e per essa di tutta la stirpe.

D. Tu fai poco conto dell’individuo.

R. Sono oggi ben rari quelli i quali non riconoscono che la responsabilità puramente individuale è un pregiudizio razionalista, condannato dalla scienza sociale e dall’esperienza.

D. Confessa che qui ci resta molta oscurità.

R. Lo riconosco, ma tu parlavi di scandalo. Del resto io ho da presentare più di un’altra considerazione. Anzitutto queste leggi di solidarietà, che si sono rivolte contro di noi, potevano pure lavorare per noi; Adamo fedele ci avrebbe trasmesso tutti i suoi privilegi.

D. Dio ben sapeva che cosa ne sarebbe avvenuto.

R. Questo modo di ragionare non è accettabile; è inquinato di antropomorfismo. Abbiamo veduto, parlando della Provvidenza, che le previsioni di Dio e la sua stessa causalità non sottraggono niente alle nostre responsabilità, non modificano in nulla le relazioni temporali tra effetti e cause. Del rimanente, se tu invochi le previsioni di Dio, seguile sino in fondo, e tieni conto di ciò che non è più solamente previsione, ma disposizione effettiva, disposizione ora notificata e ora operante, cioè la redenzione. Tu ti lamenti del fatto che la legge di solidarietà ci abbia nocciuto nell’Eden: rallegrati del fatto che essa ci favorisce sul Calvario. Questi due fatti sono strettamente legati dalla Provvidenza; solo un gioco di astrazione permette di dissociarli, ed è un brutto gioco; infatti trascurare di ringraziare Dio per la redenzione a fine di prenderlo in fallo nella creazione è il fatto d’una triste ingratitudine.

D. L’eredità di Cristo non è gratuita come sarebbe stata l’altra; bisogna cooperare.

R. È gratuita per il bambino battezzato. Se l’adulto deve cooperare, cioè fare atto di libera attività virtuosa, pensi tu che gli eredi di un Adamo rimasto innocente ne sarebbero stati dispensati? Quello che Adamo non avrebbe perduto per tutti, ciascuno l’avrebbe ancora potuto perdere per conto proprio; tutti in qualche modo avrebbero dovuto riconquistarlo, preservarlo, accrescerlo. In nessuna combinazione religiosa l’uomo morale è esonerato dallo sforzo.

D. Lo sforzo sarebbe stato più facile, trovando davanti a sé minori ostacoli e molto maggiori soccorsi.

R. Facciamo il conto. Dopo la nostra adesione a Cristo, le nostre debolezze congenite si volgono in diminuzione delle nostre colpe, in lode delle nostre virtù; in certi casi, la nostra responsabilità peccatrice è annullata dalla violenza improvvisa dell’allettamento; in caso di eroismo, avviene l’opposto e ci vien contato il doppio. Tutto sommato, nulla è perduto a cagione della prima colpa, nulla è perduto se non per una tenace cattiva volontà personale. Questa situazione non è ingiusta.

D. Ciononostante io non posso trattenermi dal giudicarla arbitraria, capricciosa. Riprendo così le tue proprie parole.

R. Ne siamo noi davvero giudici? È serio criticare Dio sulla costituzione del suo universo morale più che su quella dell’universo fisico, dove noi abbiamo riconosciuta la nostra incompetenza? È il fine che decide; i piani ci sfuggono. E devono sfuggirci tanto più in quanto non si tratta qui unicamente delle leggi profonde della natura umana, già così misteriose, ma di un ordine di leggi anche più recondite, quelle del soprannaturale. Il rapporto soprannaturale dell’uomo con Dio oltrepassa l’esperienza; gli effetti della sua rottura devono avere una portata non meno segreta; essi si nascondono nel mistero di Dio intimo comunicato, e dell’unione singolare, in Lui, degli esseri invitati a questo contatto, al di sopra del tempo e di tutte le condizioni particolari.

D. Questo può abolire la personalità?

R. Anzi la personalità si rinforza, come ogni cosa al tocco del suo Creatore; ma nello stesso tempo le diverse personalità si ravvicinano; per una parte esse sfuggono agli effetti del tempo, e perciò si comprende meglio come l’una conti per l’altra, come ce lo rivelerà la comunione dei santi, e come, quaggiù, siano tutte unite nel loro capo di stirpe, formando con lui una particolarissima unità.

D. I diritti della giustizia individuale rimangono.

R. Anzi sono rinforzati, come ho detto della personalità stessa; ma vi si sovrappone una giustizia collettiva, e il congegnamento esatto ci sfugge. Il bambino morto senza battesimo e il bambino battezzato ci fanno vedere la formula alla prova, ma non ce la spiegano punto. Il primo di questi due piccoli esseri non è condannato personalmente; gli si concedono all’opposto tutti i benefizi della natura nella sua piena espansione: dunque la giustizia individuale rimane. Ma a differenza del secondo che ha potuto entrare nell’unità soprannaturale costituita dalla stirpe del Nuovo Adamo, egli non ha parte alla eredità particolare di questa stirpe; egli non è stato un eletto.

D. Perché lui, e non un altro?

E. Io ti rimando alla questione del Battesimo. Qui parliamo di solidarietà, e dico: La solidarietà soprannaturale è particolare. Essere uni in Dio, in Dio intimo, in Dio Trinità, è qualche cosa, e non è senza effetti; il caso di Cristo, vincolo del sacro fascio, ce lo insegnerà meglio. Io ne concludo che non possiamo giudicare del peccato originale e della sua trasmissione alla discendenza d’Adamo secondo i soli dati della nostra esperienza già così confusi. I bambini nel seno della loro madre non respirano come noi; una stirpe soprannaturalizzata parimenti non può aspirare Dio, se posso dire così, e poi espirarlo nelle stesse condizioni onde si adotta o si rigetta un servizio civile. La solidarietà è qui più stretta, perché il nodo dell’individuo alla stirpe è più stretto, e questo nodo è così serrato perché noi siamo legati a Dio, insieme, e ci premiamo in qualche modo nella Trinità.

D. In una parola, Adamo era noi, ed è per questo che noi pecchiamo in lui.

R. La formula è eccessiva; ma ridotta alla sua misura, è vera. Noi siamo in mezzo alle rovine appunto perché Adamo ha in sé compromesso l’edifizio morale.

D. Io resto un po’ perplesso.

R. Non vorrei trarti da una perplessità con un rimprovero; ma posso rischiare una questione che io risolvetti precedentemente contro me stesso: fuori del peccato originale, ti senti tu innocente?

D. No; ma è un poco la colpa del peccato originale; l’hai messo tu stesso all’origine delle fragilità.

R. Esso è all’origine delle fragilità, ma non per questo alla sorgente di ogni responsabilità. I mali che si attribuiscono al peccato originale sono in gran parte l’effetto dei peccati personali, accumulati e aggravati l’uno dall’altro. – Non fu detto a proposito della stessa morte: Gli uomini non muoiono, ma si uccidono? L’assenza dei doni soprannaturali facilita certamente questo stato di cose, ma non l’impone, non lo scusa. Pecchiamo tutti, tutti quanti; pecchiamo nonostante le grazie di riparazione; facciamo del peccato originale una specie di abitudineaccettata e della quale così noi diventiamo resèpnsabili. Il modo con cui ci comportiamo con Dio deve incuterci dei timori sopra ciò che sarebbero stati i nostri modi d’agire se fossimo nati « nell’innocenza dei primordi », come dice Bossuet.

D. Queste sono ipotesi.

E. Sono serie presunzioni, che alleggeriscono la responsabilità divina quanto all’istituzione di questo piano di solidarietà che ti urta. Perché finalmente che diresti, se Dio, apparendoti come a Giobbe per spiegarsi con te circa la sua condotta, si esprimesse così: Io vidi voi tutti, nell’Eden! I tempi si aprivano davanti a me. Trovandovi così al di sotto della vostra propria coscienza, io non Potevo attribuirvi una superiorità molto grande, per rapporto all’eredità del vostro progenitore peccatore. Taluni di noi avrebbero forse ragioni fondate di ricusare questo giudizio?  Ma non sono essi che si lamentano. I santi stimano cosa affatto naturale essere puniti in Adano: essi si sentono punibili; ma coloro che sono molto più punibili non lo sentono affatto. Essi dicono: Io non c’ero! Ma io dico loro: Tu c’eri; perché i tempi per me non hanno nessuna importanza, e fatta astrazione dal tempo, tutta questa fiumana di peccati individuali che dovevano seguire, non è forse anche un peccato di razza? Io vi ho ritenuti per peccatori in Adamo perché vi vedevo peccatori come Adamo. Qualcuno di voi si leverà per dire: Io, per conto mio, non merito di essere nato in un mondo di peccato, con le condizioni del peccato, perché, da parte mia, io sono senza peccato? Uno solo ha detto questo di sua propria autorità: il mio Cristo, e a una sola è stato dato per grazia di ripeterlo: la Madre sua. Ciò non si verifica di nessun altro.

D. Quando Dio parla, sì ha sempre torto!

R. Io credo che Egli parli, e dica come una volta: « È cosa buona! ».

IL BEATO HOLZHAUSER INTERPRETA L’APOCALISSE: LIBRO TERZO

LIBRO TERZO

SUI CAPITOLI SEI E SETTE

Apertura e spiegazione dei sette sigilli; della consolazione per la Chiesa trionfante e militante delle tribolazioni passate

SEZIONE I.

SUL CAPITOLO VI.

DELL’APERTURA E DELLA SPIEGAZIONE DEI PRIMI SEI SIGILLI.

I. San Giovanni, dopo aver descritto a sufficienza la natura della Chiesa di Gesù Cristo, la costituzione universale del suo regno e la maestà che ne deriva con la rivelazione divina che gli è stata fatta, passa a descrivere in dettaglio i particolari che segnaleranno il progresso della Chiesa fino alla consumazione dei tempi. Egli enumera, per esempio, le orribili persecuzioni, le eresie, i regni dei tiranni; così come le consolazioni che la Chiesa riceverà, ciascuna a suo tempo. Tutte queste cose sono rivelate all’apertura dei sette sigilli. Ma prima di cominciare, è opportuno osservare qui: 1° Che i cavalli e coloro che li cavalcano significano, in questa descrizione, una guerra spirituale tra il regno di Cristo ed il regno di questo mondo. 2°. L’Apostolo raffigura quattro tipi di cavalieri, per significare che questa guerra spirituale avrà luogo nelle quattro parti del mondo. 3°. Egli divide questa guerra generale in due periodi principali: – a. quello dei Giudei e dei Gentili; e – b. quello degli eretici e dell’Anticristo, fino alla consumazione dei tempi. La prima era è contenuta e descritta nell’apertura dei primi sei sigilli; e la seconda nel settimo ed ultimo, come dimostrerà il seguito. 4 ° Le voci dei quattro Evangelisti sono aggiunte qui come testimonianza della verità che deve essere predicata nelle quattro parti del mondo, ed è questa testimonianza che sarà l’occasione di tutte le guerre e le persecuzioni dei tiranni.

§ 1.

Dell’apertura dei primi quattro sigilli e dei quattro cavalieri che furono mostrati a San Giovanni all’apertura di questi sigilli.

CAPITOLO VI. – VERS. 1-8 .

Et vidi quod aperuisset Agnus unum de septem sigillis, et audivi unum de quatuor animalibus, dicens tamquam vocem tonitrui: Veni, et vide. Et vidi: et ecce equus albus, et qui sedebat super illum, habebat arcum, et data est ei corona, et exivit vincens ut vinceret. Et cum aperuisset sigillum secundum, audivi secundum animal, dicens: Veni, et vide. Et exivit alius equus rufus: et qui sedebat super illum, datum est ei ut sumeret pacem de terra, et ut invicem se interficiant, et datus est ei gladius magnus. Et cum aperuisset sigillum tertium, audivi tertium animal, dicens: Veni, et vide. Et ecce equus niger: et qui sedebat super illum, habebat stateram in manu sua. Et audivi tamquam vocem in medio quatuor animalium dicentium: Bilibris tritici denario et tres bilibres hordei denario, et vinum, et oleum ne læseris. Et cum aperuisset sigillum quartum, audivi vocem quarti animalis dicentis: Veni, et vide. Et ecce equus pallidus: et qui sedebat super eum, nomen illi Mors, et infernus sequebatur eum, et data est illi potestas super quatuor partes terræ, interficere gladio, fame, et morte, et bestiis terræ.

[E vidi come l’Agnello aveva aperto uno dei sette sigilli, e sentii uno dei quattro animali che diceva con voce quasi di tuono: Vieni, e vedi. E mirai: ed ecco un caval bianco, e colui che v’era sopra aveva un arco, e gli fu data una corona, e uscì vincitore per vincere. E avendo aperto il secondo sigillo, udii il secondo animale che diceva: Vieni, e vedi. E uscì un altro cavallo rosso: e a colui che v’era sopra fu dato di togliere dalla terra la pace, affinché si uccidano gli uni e gli altri, e gli fu data una grande spada. E avendo aperto il terzo sigillo, udii il terzo animale che diceva: Vieni, e vedi. Ed ecco un cavallo nero: e colui che v’era sopra aveva in mano una bilancia. E udii come una voce tra i quattro animali che diceva: Una misura di grano per un denaro, e tre misure d’orzo per un denaro, e non far male al vino, né all’olio. E avendo aperto il quarto sigillo, udii la voce del quarto animale che diceva: Vieni, e vedi. Ed ecco un cavallo pallido: e colui che vi era sopra ha nome la Morte, e le andava dietro l’inferno, e le fu data potestà sopra la quarta parte della terra per uccidere colla spada, colla fame, colla mortalità e colle fiere terrestri.]

I. L’apertura del primo sigillo è la spedizione bellica di Gesù Cristo, il quale, venendo in questo mondo per fargli guerra, decretò con le più giuste ragioni di sottometterlo al suo potere e di piegare sotto il giogo della fede tutti i suoi nemici. L’esercito che inviò in tutto il mondo a questo scopo era composto dai dodici Apostoli e dall’assemblea di tutti i fedeli. Perciò San Giovanni dice:

Vers. 1. – E vidi, nell’immaginazione e nello spirito, che l’Agnello aveva aperto ed eseguito l’uno, il primo ed il principale dei sette sigilli, secondo la volontà del Padre suo, che ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, fatto uomo, e lo costituì Re dell’universo. Ma poiché né i Giudei né i Gentili lo avrebbero accolto, Cristo fu obbligato a prendere l’offensiva e a fare la guerra contro di loro con il suo esercito, per poter entrare nel suo regno e nella sua gloria. Ed io intesi, ancora in immaginazione e in spirito, l’uno, il primo, dei quattro animali, cioè dei quattro Evangelisti; e cioè, San Matteo, che dice nello stesso capitolo in cui descrive la terribile guerra che Gesù Cristo conduceva contro il mondo: « Ecco, Io vi invio come pecore in mezzo ai lupi. » E udii una dei quattro animali che diceva come con voce di tuono: in effetti San Matteo, il primo testimone della verità evangelica, annuncia a gran voce la terribile guerra che seguirà la predicazione del Vangelo, … dicendo: Vieni e vedi. Questo è un modo di parlare per attirare l’attenzione di qualcuno su qualcosa. Ho guardato, in spirito e nell’immaginazione.

Vers. 2. – E vidi un cavallo bianco. E colui che vi sedeva sopra aveva un arco, e gli fu data una corona, ed egli uscì vittorioso per conquistare.

II. Questo testo descrive il generale in capo di questo esercito e il suo potere e la sua forza. E ho visto un cavallo bianco. Questo cavallo è l’assemblea degli Apostoli e dei discepoli di Cristo. Si dice che sia bianco per metafora, a causa del candore, della purezza, della verità, della semplicità e della santità del suo esercito. Perché come il cavallo bianco deriva il suo nome e colore dal candore dei suoi crini, così i Santi ottengono la loro santità, il candore della loro purezza, dalla grazia santificante. Sono paragonati ad un cavallo, a causa della forza e della velocità con cui hanno viaggiato in tutto il mondo in un tempo molto breve ed hanno predicato il Vangelo ed il Nome di Nostro Signore Gesù Cristo. Queste parole si applicano a Cristo, che è il grande Condottiero di questa guerra, e che è rappresentato come assiso sopra i suoi, che dirige con il freno del timore del Signore, e sprona con gli stimoli dell’amore per Dio e per il prossimo, e con l’aiuto della sua santa Grazia, di cui gli Apostoli e gli altri discepoli della Chiesa primitiva erano abbondantemente forniti. L’arco designa la virtù e le armi con cui Cristo doveva combattere i suoi nemici. Queste armi sono la predicazione ed i miracoli. Infatti Cristo dirigeva la predicazione degli Apostoli come l’arco dirige la freccia verso il suo bersaglio (Marco, XVI, 20): « Essi partirono e predicarono ovunque, il Signore operava con loro e confermava la sua parola con i miracoli che l’accompagnavano. » L’efficacia e la potenza invincibile della parola è espressa di nuovo nella Lettera agli Ebrei, IV, 12: « La parola di Dio è viva ed efficace, e più penetrante di una spada a doppio taglio. » E gli fu data una corona, che significa il potere regale, perché a Cristo è stato dato tutto il potere in cielo e in terra. Gesù Cristo è dunque il Re dei re, il Signore dei dominatori, ed ha ricevuto da Padre suo la corona del regno eterno, la corona della vittoria che ha ottenuto, nella sua Risurrezione e Ascensione, su tutti i re, sui tiranni di questo mondo e su tutte le potenze infernali. E uscì su quel cavallo bianco con i suoi Apostoli e discepoli, per andare attraverso il mondo come un conquistatore, e per sottomettere i suoi avversari. Si recò prima in Giudea, dove in un giorno il suo Apostolo San Pietro convertì tremila uomini, (Act. II), e in un altro giorno cinquemila, (Atti IV), … Egli partì … per conquistare il mondo intero, mettendo i governanti delle nazioni sotto il suo dominio e sotto il giogo della fede. Perché in breve tempo, attraverso la predicazione degli Apostoli e degli altri discepoli il Signore « che agiva con loro e confermava la sua parola con i miracoli che l’accompagnavano », il Vangelo fu predicato e la fede cattolica si diffuse fino alle estremità della terra, già durante la vita di San Pietro, come si vede nella storia e negli Atti degli Apostoli, e come è annunciato nel libro dei Salmi, (XVIII, 4): « Il suo splendore si diffuse in tutto l’universo; risuonò fino ai confini della terra. »

Verss. 3 e 4.E quando ebbe aperto il secondo sigillo, sentii il secondo animale dire: “Vieni e vedi”. E subito uscì un altro cavallo rosso; e fu dato a colui che lo cavalcava di bandire la pace dalla terra e di consegnare gli uomini alla spada gli uni degli altri; e gli fu data una grande spada. Con queste parole, l’Apostolo descrive il primo ed uno dei più terribili tiranni della Chiesa, Domiziano Nerone, che osò, su istigazione di satana, fare guerra agli Apostoli ed attaccare i Cristiani, che sono l’armata di Gesù Cristo. Questo crudele nemico diede alle fiamme, nel buio della notte, gran parte della città di Roma per il piacere di rappresentare l’incendio di Troia. Egli approfittò di questa occasione per accusare i Cristiani di Roma, ed eccitare contro di loro la prima persecuzione, che infuriò soprattutto nella città. Il suo odio arrivava al punto di servirsi come giocattoli delle vittime che cadevano. Li si vestiva con pelli di animali, per eccitare la furia dei cani contro di essi; o li si crocifiggeva e venivano cosparsi di pece per servirsene come torce notturne. Il numero di Cristiani bruciati in questa persecuzione, fu così grande che era impossibile per loro essere salvati. Il numero di Cristiani bruciati in questa persecuzione fu così grande che il grasso umano ne lasciava traccia scorrendo nell’arena degli anfiteatri. Questo crudele tiranno fece morire San Pietro, San Paolo, Seneca, il suo precettore, e non risparmiò nemmeno sua madre, né sua moglie, né suo fratello e le sue sorelle. L’Apostolo, quindi, applica giustamente a lui la descrizione data sopra. E quando ebbe aperto il secondo sigillo, io intesi il secondo animale che diceva: “vieni e vedi”. Questo secondo animale è San Luca, che qui testimonia la verità dei santi martiri che Nerone fece sgozzare; infatti, è stato detto sopra che questo animale era come un vitello, poiché il suo Vangelo inizia con il sacerdozio, per cui i vitelli venivano sacrificati come ostia gradita al Signore Dio. E così i giusti ed i Cristiani furono sacrificati dagli empi, e il loro sangue e la loro morte furono un sacrificio molto gradito a Dio Padre, attraverso il suo Figlio Gesù, che fu immolato per tutti noi.

III. Vers. 4. – E subito uscì un altro cavallo rosso.  Questo cavallo è il popolo romano sotto Domiziano-Nerone. È chiamato propriamente rosso a causa dell’incendio della città di Roma e del rogo di tanti Cristiani; inoltre, a causa dello spargimento del loro sangue, come è stato detto sopra. E fu dato a colui che vi sedeva sopra, cioè Dio permise all’imperatore Nerone, che sedeva a Roma nell’anno 53, di essere così crudele con i Cristiani. È nello stesso senso che Gesù Cristo disse a Pilato, (Jo. XIX, 11): « Tu non avresti alcun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto. » – E fu dato a colui che lo montava di bandire la pace dalla terra, 1° nei confronti dei Cristiani che egli aveva perseguitato e messo in fuga, soprattutto a Roma ed ancora altrove. 2°. Anche a quanto riguardo del suo impero, che era turbato da malefici, crudeltà, carneficine e cieca tirannia. Per questo si dice di lui che bandì la pace dalla terra che Ottaviano Augusto aveva dato a tutto l’universo. E per consegnare gli uomini alla spada, gli uni degli altri.  Questo si verificò in occasione della sua perfidia. Nerone fu assassinato, Sergio Galba, il maggiore, usurpò l’impero ed adottò come figlio Pisone il Giovane, di costumi corrotti, che designò come suo successore. Quest’ultimo fu ucciso nel foro dai soldati del fazioso Ottone. Tre mesi dopo, lo stesso Ottone, sconfitto dall’esercito di Vitellio, si diede la morte da sé. E l’anno non è ancora finito che Vitellio, sconfitto in tre battaglie combattute a Roma dai partigiani di Vespasiano, fu trascinato nudo per le strade della città, sgozzato e infine gettato nel Tevere. E gli si diede una grande spada, cioè il potere di uccidere i Cristiani. Infatti, Nerone fu il primo degli imperatori romani a sollevare la persecuzione contro la Chiesa, e ad uccidere i principali Apostoli, Pietro e Paolo, e un gran numero di Cristiani sia nella città che in tutto l’impero.

IV . Vers. 5. Quando ebbe levato il terzo sigillo, udii il terzo animale dire: “Vieni e vedi”; ed ecco un cavallo nero, e colui che vi sedeva sopra aveva in mano una bilancia.

Vers. 6. E udii una voce come di mezzo ai quattro animali, che diceva: Una misura di frumento è venduta per una dracma, e tre misure d’orzo per una dracma. Non rovinate il vino e l’olio.  – Queste parole descrivono il sacco della città di Gerusalemme e lo sterminio della sinagoga dei Giudei, che doveva avvenire per adempiere la parola di Cristo. (Matth. XXIII e Lc. XIII). Quando ebbe sollevato il terzo sigillo, udii il terzo animale dire: “Vieni e vedi”. – Con questo terzo animale si intende l’evangelista San Marco, che è stato paragonato sopra ad un leone, perché il suo Vangelo inizia con la predicazione della penitenza di San Giovanni Battista ai Giudei, che rigettarono la sua parola come rifiutarono quella di Gesù Cristo stesso. È dunque per una giusta conseguenza della durezza dei loro cuori che Cristo rivela qui a San Giovanni questo castigo e lo sterminio della nazione e della sinagoga dei Giudei. Ed ecco un cavallo nero. Questo cavallo nero è la città di Gerusalemme con i suoi abitanti. È nero: 1° a causa della cecità dei Giudei e della sinagoga, che uccisero il nostro Signore Gesù Cristo, rifiutarono di credere nella sua divinità e resistettero allo Spirito Santo, anche dopo aver assistito alla Risurrezione del Salvatore. 2°. Questo cavallo è nero a causa della carestia inaudita che, secondo il rapporto dello storico giudeo Giuseppe, uccise fino a 1.100.000 anime a Gerusalemme. Tito, figlio di Vespasiano, bloccò la città e la circondò con un muro di quaranta stadi (5.000 passi, circa due leghe), e costruì tredici forti fuori dalle mura, ognuno di 1.250 passi di circonferenza, per ridurre più facilmente gli abitanti. Quest’opera immensa fu terminata in tre giorni, cioè con una velocità ben al di là delle forze umane, in modo che la parola di Cristo potesse compiersi. (Luca, XIX, 43): « Poiché i giorni verranno su di te, ed i tuoi nemici ti circonderanno di mura, e ti chiuderanno dentro, e ti schiacceranno da ogni parte. E ti getteranno a terra, te ed i tuoi figli che sono in te, e non lasceranno in te pietra su pietra. » –  Questo è ciò che si adempì alla lettera, quando Tito rivoltò la città di Gerusalemme da cima a fondo e la occupò. E colui che lo montava fu Flavio Vespasiano, che salì sul trono dell’Impero nell’anno di Gesù Cristo 69. Fu suo figlio ad assediare la città ed a portare la città e tutta la nazione giudaica sotto il suo potere nell’anno 79. … e aveva in mano una bilancia: era la bilancia della giustizia divina, di cui egli era l’esecutore. Perché fu per ordine di Dio che questo figlio di Vespasiano distrusse miseramente la nazione giudaica con la carestia, con la spada e con la cattività, per punirli della loro incredibile malizia e crudeltà, e per vendicare la morte di Gesù Cristo. (Luca, XIX, 44). – Questa vendetta non era, infatti, lo scopo di Tito e del suo esercito, perché rovinassero questa nazione in quanto che si era ribellata all’Impero romano, come vediamo nella storia di Giuseppe, (De bello Jud.). Perciò il testo dice: Aveva una bilancia in mano, non nella sua mente o nella sua intenzione e volontà. Perché lui era solo lo strumento della giustizia divina, che usava la mano di Tito per eseguire i suoi decreti. E udii una voce come dal mezzo dei quattro animali, che diceva, ecc. Queste parole contengono la sentenza di condanna pronunciata dalla giustizia divina contro il popolo giudaico, a causa del suo inaudito crimine. – Ed ho sentito una voce, la voce della giustizia divina, come dal mezzo dei quattro animali, bestie, cioè dal trono di Dio, attorno al quale vi sono i quattro animali, sia nel regno militante che nel regno trionfante di Cristo. E udii una voce come dal mezzo dei quattro animali, cioè i quattro animali pronunciarono questa sentenza di giustizia divina, nella loro illustre veste di arcicancellieri del regno di Gesù Cristo. Queste parole mostrano anche che Tito, in ciò che fece contro i Giudei, era solo l’esecutore della vendetta divina: perché è da Dio solo che viene la punizione dei crimini. (Amos, III, 6): « Si farà forse del male nella città, che non l’abbia fatto il Signore? » – Una misura di grano è venduta per una dracma, e tre misure di orzo per una dracma. Per comprendere queste parole, dobbiamo notare ciò che Ugo di Firenze dice sulla fine della guerra romana contro i Giudei: « I romani, stanchi alfine di tanta carneficina, cercarono di vendere i loro prigionieri come schiavi. Ma, poiché c’erano molti più venditori che compratori, si videro presentare spesso casi in cui si consegnavano fino a trenta schiavi Giudei per un pezzo d’argento. I Giudei avevano comprato il loro Padrone per trenta denari. Così, invece, ed al contrario, se ne vendettero fino a ben trenta per un solo denaro ». – 2°. Bisogna anche notare che la parola del testo latino bilibris è composta da bis, due, e libra, libbre, cioè due libbre che compongono un denaro. – 3 ° Infine, si deve sapere che cinque Giudei designano un libro, perché i cinque libri di Mosè furono accettati da tutti i Giudei e da ciascuno di loro in particolare. Gli altri libri, chiamati Sadducei, non sono accettati dai Giudei. – 4°. Il grano significa il più potente, il più abile e il più nobile dei Giudei; l’orzo, invece, che è un tipo di grano inferiore, indica la classe bassa di questo popolo. – 5 ° Con il vino e con l’olio, che il testo raccomanda di non alterare, intendiamo i Cristiani che furono effettivamente risparmiati dall’esercito di Tito. Infatti, prima dell’assedio di Gerusalemme, i Cristiani che erano in città ed in Giudea furono avvertiti da un Angelo e attraversarono il Giordano per rifugiarsi nella città di Pella, che faceva parte del regno di Agrippa, alleato dei Romani. Inoltre, il vino significa metaforicamente la carità verso Dio, e l’olio, la carità verso il prossimo. Da tutto quello che si è appena detto, si può capire questo passaggio: La misura di grano, cioè dieci tra principali dei Giudei, è venduta per una dracma, e tre misure d’orzo, cioè trenta persone del basso popolo, una dracma. Non rovinare il vino e l’olio, cioè i Cristiani dovevano essere perseverati.

V. Vers. 7. – Quando ebbe sollevato il quarto sigillo, udii la voce della quarta bestia che diceva: “Vieni, e vedi”.

Vers. 8. –  Ed ecco un cavallo pallido, e colui che lo cavalcava si chiamava Morte, e l’inferno lo seguiva, e gli fu dato il potere sulle quattro parti della terra di uccidere gli uomini con la spada, con la carestia, la mortalità e le bestie selvatiche. – Dopo che la nazione giudaica, acerrima nemica di Gesù Cristo e di tutti i Cristiani, fu sconfitta e distrutta, Domiziano sollevò la seconda persecuzione generale e scatenò una guerra crudele contro il Cristianesimo. Quando ebbe tolto il quarto sigillo, sentii la voce del quarto animale che diceva: “Vieni e vedi”. Questa è la persona stessa di San Giovanni Evangelista, considerata in particolare, come occupante il quarto posto di onore e dignità nel regno militante e trionfante di Cristo, e come confermante, con la sua testimonianza la verità del Vangelo. Ed ecco un cavallo pallido. È il popolo romano che è pallido per la paura del tiranno Domiziano, un principe crudele e avido. Questo imperatore spinse la sua furia fino a farsi chiamare Dio. Inoltre, mandò in esilio o fece massacrare un gran numero di senatori e nobili, imputando loro dei crimini per impadronirsi dei loro beni. Di conseguenza, tutto il resto del popolo, sia a Roma che nelle province, concepì il più grande timore di essere trattato nello stesso modo. Ora, siccome la paura produce il pallore, qui si dice veramente che il popolo romano di allora assomigliava ad un cavallo pallido. E colui che la cavalcò, l’imperatore Domiziano, che fu elevato all’impero nell’anno di Gesù Cristo 81, fu chiamato Morte: 1°. Perché, come è stato detto, fece massacrare un gran numero di innocenti, soprattutto Cristiani, contro i quali sollevò la seconda persecuzione, che può essere considerata una continuazione e una conseguenza di quella di Nerone. 2°. Perché gli fu teso un agguato e fu ucciso egli stesso dal liberto del console Clemente, che egli aveva condannato con il pretesto di empietà; e così scomparve e la sua stessa memoria fu cancellata. E l’inferno lo seguiva. Cioè, essendo morto nella sua empietà in modo improvviso e imprevisto, questo disgraziato fu gettato nelle voragini dell’inferno. E gli fu dato il potere sulle quattro parti della terra, in cui si estendeva allora l’Impero Romano, di uccidere gli uomini con la spada, con la carestia, con la moria e con le bestie selvatiche. Queste parole mostrano la crudeltà di questa persecuzione attraverso la varietà dei tormenti ed i vari tipi di morte che l’accompagnavano. Questo tiranno fece morire gli uomini: – 1°. Con la spada. Fu per suo ordine, infatti, che un gran numero di Cristiani morirono di spada in tutte le parti del suo impero. – 2° Con la fame, poiché molti morirono in prigione, divorati dalla fame. – 3° con la mortalità. Queste parole designano in generale i diversi supplizi che si inflissero ai Cristiani per metterli a morte: li si impiccava, si affogavano, venivano bruciati e soffocati. – 4°. E con le bestie selvatiche, cioè si dilettarono in quel particolare tipo di tormento che consisteva nell’esporre i Cristiani, per scherno e per divertimento, ad essere divorati dalle bestie feroci. Basta leggere, per esserne convinti, le storie ecclesiastiche, il martirologio e le vite dei Santi.

§ II.

Sull’apertura del quinto sigillo.

CAPITOLO VI. – VERSETTI 9-11.

Et cum aperuisset sigillum quintum, vidi subtus altare animas interfectorum propter verbum Dei, et propter testimonium, quod habebant: et clamabant voce magna, dicentes: Usquequo Domine (sanctus et verus), non judicas, et non vindicas sanguinem nostrum de iis qui habitant in terra? Et datæ sunt illis singulae stolae albæ: et dictum est illis ut requiescerent adhuc tempus modicum donec compleantur conservi eorum, et fratres eorum, qui interficiendi sunt sicut et illi.

[E avendo aperto il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di quelli che erano stati uccisi per la parola di Dio e per la testimonianza che avevano, e gridavano ad alta voce, dicendo: Fino a quando. Signore santo e verace, non fai giudizio, e non vendichi il nostro sangue sopra coloro che abitano la terra? E fu data ad essi una stola bianca per uno: e fu detto loro che si dian pace ancor per un poco di tempo sino a tanto che sia compito il numero dei loro conservi e fratelli, i quali debbono essere com’essi trucidati.]

Vers. 9. – All’apertura del quinto sigillo ho visto sotto l’altare le anime di coloro che hanno dato la loro vita per la parola di Dio e per renderne testimonianza.

Vers. 10. E tutti gridarono a gran voce, dicendo: “O Signore, che sei santo e verace, fino a quando tarderai a giudicare e a vendicare il nostro sangue su coloro che abitano sulla terra?

Vers. 11. – E a ciascuno di loro fu data una veste bianca. E fu detto loro di riposare ancora un po’, finché il numero di coloro che servivano Dio come loro fosse completato, così come il numero dei loro fratelli che dovevano soffrire la morte come loro.All’apertura del quinto sigillo, vediamo la continuazione delle persecuzioni contro i Cristiani, persecuzioni che continuarono dall’imperatore Traiano a Diocleziano, cioè per lo spazio di duecento anni. Infatti, nell’anno 98 d.C. Ulpio Traiano, di origine spagnola, sollevò la terza persecuzione contro la Chiesa di Cristo. Questo principe immaginava di aver ottenuto il suo trono da Giove stesso, che aveva sempre venerato con grande pietà; e siccome era pure molto superstizioso nel culto degli idoli, fu il primo a richiamare l’antica religione alla memoria del senato, facendosi un dovere di preservarla. il primo a ricordare al senato l’antica religione e a farne un dovere di conservazione, perché a quel tempo, secondo Giovenale e Plutarco, i Cristiani si stavano moltiplicando in tutto il mondo e gli idoli stavano cadendo nell’oblio e nel disprezzo, le vittime non trovavano più compratori e la maggior parte degli oracoli erano diventati muti. Questo è ciò che diede origine alla terza persecuzione dei Cristiani. La Chiesa, tuttavia, godette di un momento di riposo sotto Adriano ed Antonino Pio, che non emise alcun editto contro di essa. Ma nell’anno di Cristo 161, Marco Aurelio Antonio, salito al trono, scatenò una nuova tempesta contro il Cristianesimo, e questa quarta persecuzione portò via Policarpo, Giustino ed un numero considerevole di fedeli. Sotto i principi Commodo, Antonio, Elio, Pertinace e Tito Giuliano, la Chiesa fu di nuovo in pace per un periodo, fino al regno di Settimio Severo, nell’anno 193. Allora iniziò la quinta persecuzione, in cui morì, tra gli altri, Sant’Ireneo. Questo tiranno era così terribile che molti fedeli lo consideravano l’Anticristo. Antonio Bassanio Caracalla, Macrino, Eliogabalo e Marco Aurelio Severo non esercitarono alcuna nuova ostilità. L’autore della sesta persecuzione fu Giulio Massimiano. Questa venne attribuita alla grande gelosia di questo principe contro la famiglia alessandrina, diversi membri della quale professavano la fede di Gesù Cristo. Egli salì al trono nell’anno 235. Decio, un altro acerrimo nemico dei Cristiani, iniziò a regnare nell’anno 249, e fu l’autore della settima persecuzione. Dio la permise a causa del lassismo della disciplina ecclesiastica. Questo è chiaramente dimostrato da San Cipriano, un testimone oculare, nella sua opera Liber de lapsis, quando dice: « Sono venuti i tormenti, tormenti infiniti senza via d’uscita, che non procurano il sollievo della morte. Supplizi che non conducono facilmente alla corona di gloria, ma che fanno gemere le vittime fino a indebolirle, tranne alcune che Dio, nella sua misericordia, si degna di chiamare alla gloria eterna con una morte più rapida della tortura. » Gregorio di Nissa, il taumaturgo, dice anche: « Il potere civile non ha omesso alcun mezzo, né pubblico né privato, per catturare i fedeli e punire coloro che praticavano le massime della fede. – Si metteva tutto in opera, il terrore delle minacce, e l’infinita varietà dei supplizi: la spada, il fuoco, i pozzi, gli strumenti e i dispositivi per strappare le membra, le sedie di ferro arroventate dal fuoco, i cavalletti, gli artigli di ferro, ed altri innumerevoli tormenti venivano costantemente escogitati per terrorizzare gli uomini, ancor prima di essere messi alla prova. L’unica preoccupazione di coloro che esercitavano il loro potere in questo modo era che non si potesse superare la loro raffinatezza e scelleraggine. Gli uni si facevano denunciatori, altri giudici ed altri ancora inquisitori di coloro che fuggivano. Questi tiranni gettano occhi bramosi sui beni dei fedeli per impadronirsene; oppure perseguivano, con un pretesto di pietà e religione, quelli che abbracciavano la fede. » – Un gran numero di Cristiani furono costretti ad abbandonare la loro patria ed a ritirarsi nelle solitudini delle montagne e nelle regioni deserte. Tra questi, viene menzionato Paolo, il principe degli anacoreti. Inoltre, molti di questi sventurati rinunciarono alla fede in questa persecuzione, alcuni sacrificando pubblicamente agli idoli, ed altri, pur senza rinnegare direttamente la religione, accettarono i libelli per debolezza (Certificati per mezzo dei quali alcuni Cristiani si ripararono mettevano al riparo dalle persecuzioni) dai prefetti e dagli impiegati civili, per non essere costretti a sacrificare pubblicamente agli dei. Nell’anno 254, Licinio Valerio divenne imperatore e, seguendo il consiglio di un mago d’Egitto, ordinò l’ottava persecuzione, in cui morì San Cipriano, Vescovo di Cartagine. Questa persecuzione fu così grave che Dionigi di Alessandria (Apud Eusebium, Hist. 1. 7, c. 9.) credeva che il più terribile dei tempi fosse arrivato, e che la profezia sull’anticristo, contenuta nell’Apocalisse di San Giovanni, si fosse avverata con Valerio. La nona persecuzione ebbe luogo sotto Galliano nell’anno 262. – Varie calamità, tuttavia, lo costrinsero a rallentare la sua furia. Ma questa persecuzione fu riaccesa nell’anno 272 da Valerio Aureliano, che la continuò. Ci furono molti altri imperatori intermedi che regnarono tra di questi tiranni, e sotto i quali molti Cristiani ottennero la corona del martirio; ma sono da distinguere da quelli che abbiamo menzionato, perché attaccarono e perseguitarono più che altro la Chiesa con gli editti che emanarono o rinnovarono, mentre quelli non lo facevano. Questo era il volto della Chiesa, che per un lasso di trecento anni nuotò continuamente nel sangue dei suoi martiri, e questo, per un sorprendente permesso di Dio contro i suoi amici ed il suo Sposo che gli è sì caro. Queste persecuzioni ci spiegano quel grande grido e stupore dei Santi di Dio sotto l’altare, di cui si parla nel seguito.

Vers. 9All’apertura del quinto sigillo, cioè di queste persecuzioni quasi continue, ho visto, in immaginazione e in spirito, sotto l’altare, le anime di coloro che hanno dato la loro vita, cioè le anime dei martiri, i cui corpi giacevano sotto l’altare. È un modo di parlare che troviamo in Esodo (I, 5): « Tutte le anime (cioè tutti gli uomini) che sono nati da Giacobbe, ecc. » Sotto il regno di questi tiranni non c’erano chiese o altari fissi, ma altari di legno che venivano eretti in luoghi segreti, soprattutto nelle cripte dei martiri, dove venivano deposti i loro corpi. Ecco perché l’Apostolo dice di aver visto, sotto l’altare, le anime di coloro che avevano dato la loro vita per la parola di Dio. Queste parole si applicano ai dottori che hanno subito il martirio per la predicazione della parola di Dio e per averne dato testimonianza.  Lo stesso si dice dei semplici fedeli che furono sacrificati, perché, lungi dal voler rinnegare Gesù Cristo, proclamavano a gran voce di credere in Lui.

Vers. 10. – E tutti gridarono con un grande urlo, dicendo, ecc. Queste parole devono essere interpretate moralmente, come è detto in Genesi, IV, 10: « La voce del sangue di tuo fratello grida dalla terra a me. » Ora, la voce del sangue innocente dei martiri grida al Signore ancora più forte, perché la persecuzione ed il potere degli empi era più generale, più crudele e più lungo. Tutti questi martiri gridavano forte, dicendo: “Signore, che sei santo e verace, fino a quando ritarderai?” Cioè, fino a quando Tu, Signore, che sei santo e verace, che sei giusto, che vedi l’iniquità degli empi, permetterai che gli innocenti siano puniti? Queste parole esprimono grande stupore che Dio permetta che la sua amata e santa Chiesa nuoti nel sangue di così tanti martiri per tre secoli, mentre gli empi trionfano. Questo stato dei Santi dovrebbe insegnarci a soffrire per il Nome di Gesù; e questo passaggio ci mostra che Dio non dimostra sempre il suo amore in questo mondo con consolazioni e prosperità, ma spesso, al contrario, con tribolazioni, persecuzioni e il disprezzo degli uomini.  Signore, che sei santo e verace, fino a quando ritarderai a giudicare e a vendicare il nostro sangue su coloro che abitano sulla terra? cioè sui tiranni ed i loro ministri che governano il mondo.

Vers. 11.E a ciascuno di loro fu data una veste bianca. Queste vesti bianche significano la gloria celeste che fu data ad ogni martire e santo, secondo la misura dei loro meriti. Ecco perché è detto nel testo che una veste bianca fu data a ciascuno, cioè la gloria eterna a ciascun martire in particolare. Fu detto loro di riposare ancora un po’, finché il numero di coloro che servivano Dio come loro non fosse stato completato, così come il numero dei loro fratelli che dovevano soffrire la morte come loro. – Con queste parole, Dio consola la sua Chiesa, di cui i santi martiri erano i rappresentanti, appellandosi e rivendicando la giustizia divina, e le promette il riposo, che la Chiesa ha effettivamente ottenuto poi sotto Costantino il Grande. È fu detto loro, cioè che questi martiri ricevettero una risposta divina. 1° Riguardo alla Chiesa militante, fu detto loro di essere pazienti e di sottomettersi alla volontà divina, che si è compiaciuta da tutta l’eternità di permettere queste persecuzioni per la maggior gloria dei suoi servi. Inoltre, è stato detto loro, di aspettare ancora un po’, fino all’ultima persecuzione, che fu la più crudele di tutte, e che fu sollevata da Diocleziano e Massimiano, come vedremo più avanti. Fino a quando il numero di coloro che hanno servito Dio come loro, così come il numero dei loro fratelli, cioè, fino a quando il numero degli altri martiri che avevano servito Dio come loro nel ministero di Cristo, e dei loro fratelli nell’amore di Gesù Cristo, e che dovevano soffrire la morte al tempo di Diocleziano, nell’ultima delle dieci principali persecuzioni, così come pure quelli che furono sacrificati nelle persecuzioni precedenti, fosse stato completato. 2º Questi Martiri hanno ricevuto una risposta divina sulla Chiesa trionfante. Fu detto loro che dovevano riposare, che i loro corpi dovevano rimanere nei loro sepolcri ancora per un po’, fino al giorno dell’ultimo giudizio. Un po’ più a lungo, vale a dire che questo tempo è breve rispetto all’eternità. (I Giov. 2, 18): « Figlioli, questa è l’ultima ora. » È allora che questi martiri risorgeranno con corpi gloriosi e riceveranno la seconda veste, che è la gloria del corpo. Fu detto loro di riposare ancora un po’, fino a quando il numero di coloro che servivano Dio come loro fosse completato, così come il numero dei loro fratelli che dovevano soffrire la morte, cioè fino alla consumazione dei secoli, in modo che tutti fossero sacrificati come loro per il Nome di Gesù Cristo.

§ III.

L’apertura del sesto sigillo.

CAPITOLO VI. – VERSETTI 12-17.

Et vidi cum aperuisset sigillum sextum: et ecce terraemotus magnus factus est, et sol factus est niger tamquam saccus cilicinus: et luna tota facta est sicut sanguis: et stellæ de cælo ceciderunt super terram, sicut ficus emittit grossos suos cum a vento magno movetur:   et cælum recessit sicut liber involutus: et omnis mons, et insulæ de locis suis motæ sunt: et reges terræ, et principes, et tribuni, et divites, et fortes, et omnis servus, et liber absconderunt se in speluncis, et in petris montium: et dicunt montibus, et petris: Cadite super nos, et abscondite nos a facie sedentis super thronum, et ab ira Agni: quoniam venit dies magnus irae ipsorum: et quis poterit stare?

[E vidi, aperto che ebbe il sesto sigillo: ed ecco si fece un gran terremoto, e il sole diventò nero, come un sacco di pelo: e la luna diventò tutta come sangue: “e le stelle del cielo caddero sulla terra, come il fico lascia cadere i suoi fichi acerbi quand’è scosso da gran vento. E il cielo si ritirò come un libro che si ravvolge, e tutti i monti e le isole furono smosse dalla sede: e i re della terra, e i principi, e i tribuni, e i ricchi, e i potenti, e tutti quanti servi e liberi si nascosero nelle spelonche e nei massi delle montagne: e dicono alle montagne ed ai massi: Cadete sopra di noi, e nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello: perocché è venuto il gran giorno della loro ira: e chi potrà reggervi?].

I. Vers. 12 . E vidi, quando il sesto sigillo fu aperto, che ci fu un grande terremoto, e il sole divenne nero come i capelli, e tutta la luna divenne come il sangue. All’apertura di questo sesto sigillo, l’Apostolo descrive la decima e ultima persecuzione, istigata da Diocleziano e dal suo collega Massimiano, nell’anno di Gesù Cristo 303. San Giovanni ne fa l’oggetto di un sigillo separato, perché fu la più crudele, la più lunga persecuzione, e fu l’ultima. Essa durò dodici anni, fino all’impero di Costantino il Grande, che sconfisse Massenzio. Lo storico Sulpicio la descrive in questi termini: « Quasi tutta la terra fu cosparsa del sangue dei martiri in questa orribile tempesta. I fedeli cercarono allora questa morte gloriosa con più foga di quanto non facciano ora per i vescovadi, con deplorevoli intrighi. Mai guerra ha stancato di più il mondo, mai abbiamo ottenuto un trionfo più brillante, ed è quello che non siamo stati sconfitti in dieci anni di massacri. Per quanto riguarda il numero di vittime cadute in questo terribile disastro, se il resto della sua durata può essere giudicato dal quadro di un solo mese, il numero di martiri salirebbe senza dubbio a una cifra esorbitante; infatti, è riportato nel libro dei Pontefici romani che in soli trenta giorni perirono ben 17.000 Cristiani. Ed è tutt’altro che certo che questo furore sia diminuito in seguito, perché, al contrario, non faceva che aumentare di giorno in giorno con i nuovi editti che apparivano. Si sa che solo in Egitto, al tempo di Diocleziano, 144.000 persone furono messe a morte e 72.000 mandate in esilio. In tutte le altre province prevalse lo stesso furore, tranne forse in quelle governate da Costanzo Cloro, padre di Costantino il Grande, che, sebbene pagano, trattò le sue province con meno rigore. Nessuno poteva vendere o comprare prima di aver bruciato incenso davanti agli idoli posti nelle varie località. C’erano agenti nelle isole, nei porti e nei villaggi, per impedire la fornitura di farina o acqua a tutti coloro che non volevano sacrificare agli dei. » (Vide Baron). – Di tutte le persecuzioni, la più grande fu quella in cui si bruciarono tutti i libri che si potevano ottenere, costringendo i Cristiani a consegnarli. Quelli di loro che erano spaventati dall’atrocità delle torture e rinunciavano ai loro libri erano chiamati traditori. Il numero di essi era considerevole. Ma era infinitamente più grande il numero di quelli che preferirono la morte più crudele a questo tradimento. La Chiesa Cattolica celebra una festa in onore di questi il 2 gennaio di ogni anno, sotto il titolo: Commemorazione a Roma di un gran numero di santi martiri che, disprezzando l’editto dell’imperatore Diocleziano, con il quale si ingiungeva loro di consegnare i sacri canoni, preferirono consegnare i loro corpi ai carnefici, piuttosto che gettare le cose sacre ai cani. – In mezzo a tante atrocità, molti Cristiani fuggirono verso i barbari, dove furono accolti con benevolenza, anche se ne divennero schiavi. I loro padroni tollerarono almeno il loro libero esercizio della religione. Si veda l’editto di Costantino a favore dei Cristiani, in Eusebio, 1. II, 15 (Vide Baron.). – Poiché gli imperatori erano determinati a far scomparire completamente la Religione cristiana, pensarono che fosse necessario iniziare dai loro stessi soldati, per evitare che, nel far rispettare i loro editti in tutto l’impero, ci fossero Cristiani armati a resistere. – Fu in questa occasione che l’intera Legione Tebana, comandata da San Maurizio, fu massacrata dai soldati dell’imperatore. Una notte di Natale, 20.000 Cristiani furono bruciati nei loro templi. Tra questi santi martiri si nomina San Marcellino Papa, San Sebastiano, Serena la moglie di Diocleziano, e i santi Luciano, Vincenzo, Cristoforo, Biagio, Gervasio, Protasio, Cosma e Damiano, Quirino, Gorgone, Agnese, Lucia, Pantaleone, Bonifacio, Metodio, Clemente, Augrano, Eufemia, Giorgio, Barbara, e un numero infinito di altri. Le chiese furono distrutte e devastate in tutto il mondo; i Cristiani di tutti i ranghi furono massacrati, così che in molte province non si poté trovare alcuna traccia della fede di Cristo. Fu ordinato che il giorno della Pasqua o della resurrezione di Nostro Signore, tutti i Cristiani fossero messi a morte e le loro chiese devastate. Arrivarono persino a far violentare le vergini e poi a costringerle a vivere in case pubbliche, dove venivano trascinate con la forza. È in questa occasione che San Basilio scrive, 1. De Virg.: « Nel pieno della persecuzione, delle vergini scelte a causa della loro fedeltà allo Sposo divino, furono consegnate ad aguzzini empi per servire loro da trastullo; ma esse riuscirono a conservare la loro verginità, anche quella fisica, aiutate dalla grazia di Colui per il quale erano così gelose di farlo, poiché Egli le difese, le protesse e le rese pure da ogni contaminazione, respingendo tutti gli sforzi dei loro infami aggressori. » Fu anche in questa persecuzione che ad Augusta, Affra, che era stata una pubblica peccatrice, e sua madre Ilaria, e tre giovani ragazze, Digna, Eupomia ed Eutropia, insieme a tutte le altre persone di entrambi i sessi in quella famiglia, si convertirono alla fede di Gesù-Cristo, e successivamente ottennero la corona del martirio. L’Apostolo continua quindi con ragione con queste parole:

II. Vers. 12 E vidi quando il sesto sigillo fu aperto, e ci fu un grande terremoto. Con questo terremoto si intende una profonda agitazione, un disturbo molto grande, uno stato di agitazione e di convulsione nel regno di Gesù Cristo sulla terra, perché in tutte le parti dell’Impero Romano, i giudici e i prefetti furono eccitati dagli editti e dai decreti di Diocleziano e Massimiano al massacro e all’annientamento dei fedeli. Il sole divenne nero come un cilicio. Il “sole” si riferisce a Cristo, che è il sole della giustizia e la luce della verità. Il sole è il Nome di Cristo, che è il Sole di Rettitudine e la Luce della Verità. Egli fu denigrato nella sua stessa reputazione e nei suoi membri, i Cristiani, che furono accusati di essere avvelenatori e maghi. E si diceva che i maestri che li avevano istruiti e addestrati in questi vizi fossero Gesù Cristo e gli Apostoli, così come gli altri discepoli. In questo modo i gentili denigravano il Nome di Gesù più che potevano. Tutta la luna divenne come sangue. Qui la “luna” significa la Chiesa; perché come la luna riceve la sua luce come dal sole, così la Chiesa riceve la luce della verità da Gesù Cristo, che è il sole della giustizia. Inoltre, la Chiesa, come la luna, va e viene con i tempi, e sotto la tirannia di Diocleziano e Massimiano, la Chiesa divenne tutta rossa per il sangue dei martiri; infatti, come abbiamo detto sopra, innumerevoli Cristiani venivano allora massacrati come animali in tutte le parti della terra.

Vers. 13. – E le stelle caddero dal cielo sulla terra, come quando il fico, scosso da un grande vento, lascia cadere i suoi fichi verdi. Queste stelle sono i personaggi eminenti nel regno di Cristo, che essendo stati scossi dalla paura della morte e dei supplizi, caddero nell’idolatria. Tra questi vi fu Papa Marcellino, anche se poi fece penitenza e subì coraggiosamente il martirio per la fede di Gesù Cristo. Anche molti altri caddero. La furia di questa persecuzione fu così grande che la sede di Roma rimase vacante per sette anni e mezzo. Come quando il fico lascia cadere i suoi fichi verdi. Qui i Cristiani sono paragonati a fichi verdi, a causa della loro debolezza, essendo esposti a tante crudeltà. Infatti, come i fichi verdi sono i primi frutti acerbi dell’albero di fico, e sono facilmente spazzati via da un grande vento; così i Cristiani che non avevano ancora sviluppato profonde radici nell’amore di Gesù Cristo, e quelli che non erano ancora maturi nella pazienza, si staccarono dall’albero della Chiesa, e furono gettati a terra dal vento di quella orribile e così tempestosa persecuzione.

Vers. 14. – Il cielo disparve come un libro arrotolato. Qui il “cielo” significa il regno e la Chiesa di Cristo, che furono dispersi dal vento di quella furiosa tempesta, e gettati ai quattro venti del cielo come i fogli di un libro strappato. Infatti, la sede di San Pietro cessò di esistere a Roma, e i Cristiani furono dispersi; alcuni si nascosero nelle grotte, altri si rifugiarono sulle montagne; alcuni si ritirarono nei deserti, altri cercarono riparo tra le nazioni barbare. Allo stesso modo, come abbiamo detto sopra, i libri sacri da cui i Cristiani traevano la loro dottrina furono, per ordine dell’imperatore, strappati, bruciati e distrutti. – E tutte le montagne e le isole furono scosse dai loro posti. Qui dobbiamo prendere il contenitore per il contenuto. Infatti, come è stato ripetuto più di una volta, la furia di questa persecuzione fu così grande che i Cristiani fuggirono sui monti e sulle isole, che erano quasi inaccessibili, e fu fatta ogni possibile diligenza per scoprirli lì, cosa che non si era mai vista nelle altre persecuzioni. E quando finalmente venivano trovati, venivano trascinati alla tortura e alla morte. E così vediamo da quanto precede, che questi due imperatori avevano cospirato con tutto il mondo per sterminare completamente il Cristianesimo. Per questo l’Apostolo dice: “E tutti i monti e le isole furono scossi dai loro posti da questa guerra crudele di Diocleziano e Massimiano, che tentarono di sottomettere all’Impero Romano quasi tutti i regni, principati, isole e nazioni, e anche i luoghi più fortificati dell’Oriente e dell’Occidente. Essi e i loro colleghi estesero i limiti dell’Impero, ad est fino alle Indie, a sud fino all’Etiopia, a nord fino alle nazioni selvagge e barbare dei Sarmati, e a ponente fino al regno di Genserico, e all’Oceano Britannico. È in conseguenza di tutto questo che l’Apostolo aggiunge:

III. Vers. 15. – I re della terra, i principi, i tribuni, i ricchi, i forti e tutti gli uomini liberi o schiavi si nascosero nelle grotte e nelle rocce dei monti.

Vers. 16.- E dissero ai monti e alle rocce: Cadeteci addosso e nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello:

Vers. 17 Perché il gran giorno della loro ira è venuto; e chi potrà resistere? Queste parole esprimono l’angoscia prodotta dalla tirannia di quei tempi, quando tutti i Cristiani furono messi alle strette. Infatti, come è stato detto, non erano al sicuro nelle isole delle nazioni, né nei luoghi più fortificati, né nelle montagne deserte, né tra i barbari dove si erano rifugiati; poiché questi tiranni si erano resi padroni di tutte le nazioni, occupando tutte le terre, penetrando in tutto il mondo, e nessun paese era riuscito a sfuggire al loro dominio. Perciò questi miseri fedeli furono costretti a nascondersi nelle grotte e nelle rocce delle montagne. I re della terra, i principi, i tribuni e i ricchi, i forti e tutti gli uomini, liberi o schiavi, ecc. L’Apostolo menziona qui sette classi di uomini, forti e deboli, tutti oggetto della crudeltà del tiranno, per mostrare con ciò la differenza di questa persecuzione dalle altre, nelle quali, per la maggior parte, solo i prelati, i capi delle chiese ed i predicatori erano perseguitati, o quelli che si esponevano volontariamente; mentre in questa, tutti furono puniti. In seguito, per “re”, designa il Pastore sovrano della Chiesa ed i Patriarchi; per principi, indica i Vescovi; per tribuni, designa gli altri Prelati; per ricchi: i nobili e la classe distinta del popolo; per forti, i soldati cristiani; per schiavi, i fedeli che erano fuggiti ai barbari ai quali si erano dati in schiavitù; infine, per liberi, indica tutto il resto del popolo cristiano, suddito dell’Impero Romano. – E dissero ai monti e alle rocce: Cadeteci addosso e nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono. Queste parole esprimono il desiderio dei Cristiani di morire in tale angoscia; poiché non erano al sicuro nelle grotte e nelle rocce delle montagne, dove molti si erano rifugiati come un estremo rifugio; dovevano persino temere di essere cercati, scoperti, traditi o denunciati, ed infine trascinati ad una morte orribile. Questi miserabili desideravano morire ed essere schiacciati sotto le rocce, piuttosto che essere esposti alle lunghe e crudeli torture per rinnegare la fede di Gesù Cristo, come era purtroppo successo a molti dei loro fratelli. – E dissero ai monti e alle rocce: Cadete su di noi e nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono; cioè liberateci dall’orribile persecuzione di Diocleziano e Massimiano, che sedevano sul trono dell’Impero Romano. E salvateci dall’ira dell’Agnello, cioè dall’ira di Gesù Cristo, che i Cristiani pensavano fosse irritato con la sua Chiesa, perché permetteva che fosse perseguitata così a lungo e così crudelmente. Si credeva anche che Diocleziano fosse l’anticristo; che fosse arrivato l’ultimo giorno del giudizio, e che la Chiesa e il regno di Gesù Cristo sulla terra fossero finiti, tanto era deplorevole la posizione di tutta la cristianità. Per questo il testo aggiunge: Perché è venuto il gran giorno della loro ira, cioè il tempo dell’ultima persecuzione che Gesù Cristo descrive in San Matteo, XXIV. Questo regno di Diocleziano è chiamato un grande giorno, a causa della tirannia che superava tutto ciò che si era visto fino ad allora. Questo permesso di Dio è espresso dall’ira dell’Agnello, perché Gesù Cristo castiga i suoi eletti come se fosse in collera, e lo fa per far ad essi espiare i loro peccati e per aumentare la loro gloria e la ricompensa nei cieli. Dio, nella sua bontà, permette queste punizioni temporali per impedire ai suoi fedeli di perire eternamente e di essere gettati con gli empi nei tormenti dell’inferno. E chi può sopravvivere! Questo è un grido di debolezza umana. Questo grido esprime anche la difficoltà di resistere al tiranno ed ottenere la vittoria del martirio, come ne abbiamo un esempio nella caduta del santo Papa Marcellino.

SEZIONE II.

SUL CAPITOLO VII.

LA CONSOLAZIONE DELLA CHIESA MILITANTE E DELLA CHIESA TRIONFANTE PER LE TRIBOLAZIONI PASSATE.

I. Vers. 1. – Poi vidi quattro angeli in piedi ai quattro angoli della terra, che trattenevano i quattro venti, per impedire che soffiassero sulla terra e sul mare e su qualsiasi albero. L’Apostolo, dopo aver descritto la persecuzione di Diocleziano, parla della consolazione che fu concessa alla Chiesa di Dio al tempo di Costantino il Grande, figlio di S. Elena. Questo capitolo deve essere considerato sotto due rapporti, e contiene due parti: in primo luogo, vediamo descritta la consolazione concessa alla Chiesa militante, come si può vedere nel versetto seguente:

Vers. 2. E vidi un altro Angelo che saliva da oriente, portando il segno del Dio vivente, ecc. In secondo luogo, questo capitolo descrive la consolazione della Chiesa trionfante, come segue:

Vers. 9. Dopo questo vidi una grande moltitudine, ecc. …. con le palme in mano.

§ I.

Della consolazione e della liberazione della Chiesa militante dal giogo e dalle persecuzioni dei tiranni.

CAPITOLO VII. VERSETTI 1-8.

Post hæc vidi quatuor angelos stantes super quatuor angulos terræ, tenentes quatuor ventos terræ, ne flarent super terram, neque super mare, neque in ullam arborem. Et vidi alterum angelum ascendentem ab ortu solis, habentem signum Dei vivi: et clamavit voce magna quatuor angelis, quibus datum est nocere terrae et mari, dicens: Nolite nocere terræ, et mari, neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum. Et audivi numerum signatorum, centum quadraginta quatuor millia signati, ex omni tribu filiorum Israel. Ex tribu Juda duodecim millia signati: ex tribu Ruben duodecim millia signati: ex tribu Gad duodecim millia signati: ex tribu Aser duodecim millia signati: ex tribu Nephthali duodecim millia signati: ex tribu Manasse duodecim millia signati: ex tribu Simeon duodecim millia signati: ex tribu Levi duodecim millia signati: ex tribu Issachar duodecim millia signati: ex tribu Zabulon duodecim millia signati: ex tribu Joseph duodecim millia signati: ex tribu Benjamin duodecim millia signati.

[Dopo queste cose vidi quattro Angeli che stavano sui quattro angoli della terra, e ritenevano i quattro venti della terra, affinché non soffiassero sopra la terra, né sopra il mare, né sopra alcuna pianta. E vidi un altro Angelo che saliva da levante, e aveva il sigillo di Dio vivo: e gridò ad alta voce ai quattro Angeli, ai quali fu dato di far del male alla terra e al mare, dicendo: Non fate male alla terra e al mare, né alle piante, fino a tanto che abbiamo segnati nella loro fronte i servi del nostro Dio. E udii il numero dei segnati, cento quarantaquattro mila segnati, di tutte le tribù dei figliuoli d’Israele. Della tribù dì Giuda dodici mila segnati: della tribù di Ruben dodici mila segnati: della tribù di Gad dodici mila segnati: della tribù di Aser dodici mila segnati: della tribù di Neftali dodici mila segnati: della tribù di Manasse dodicimila segnati: della tribù di Simeone dodici mila segnati: della tribù di Levi dodici mila segnati: della tribù di Issacar dodicimila segnati: Mella tribù di Zàbulon dodici mila segnati: della tribù di Giuseppe dodici mila segnati: della tribù di Beniamino dodici mila segnati.]

I. Vers. 1. – Poi vidi quattro Angeli in piedi ai quattro angoli della terra, che trattenevano i quattro venti, per impedire che soffiassero sulla terra e sul mare e su qualsiasi albero. Queste parole suggeriscono una breve continuazione della persecuzione precedente, da parte dei quattro imperatori che allora regnavano nelle quattro parti dell’Impero Romano, e che erano: Galerio, Massenzio, Massimino e Licinio. Perciò l’Apostolo dice: “Dopo questo, cioè dopo la persecuzione di Diocleziano e Massimiano, che deposero le redini dell’impero, vidi quattro angeli, cioè i quattro imperatori e persecutori della Chiesa sopra menzionati, in piedi e che governavano o regnavano ai quattro angoli della terra, nelle quattro parti dell’Impero Romano, che si estendeva fin quasi alle estremità del mondo. Li ho visti trattenere i quattro venti, per impedire che soffiassero sulla terra, cioè impedissero a tutti i dottori della Chiesa di predicare il Vangelo e la parola di Dio. Di questo vento si parla nel libro del Cantico dei Cantici (IV, 16): « Aquilone, alzati; vieni, vento del sud, soffia nel mio giardino, esalta tutti i suoi profumi. » Infatti come la terra è resa feconda dai venti, così il giardino della Chiesa militante è reso fecondo dal soffio della predicazione. Li ho visti trattenere i quattro venti, per impedire che soffiassero sulla terra e sul mare e su qualsiasi albero. Qui l’Apostolo scambia il contenitore per il contenuto. Infatti, alcuni Cristiani vivevano nei deserti, altri nelle isole, altri ancora nelle foreste, per paura delle persecuzioni. Ora tutti questi luoghi sono designati dalle parole mare, terra e alberi.

II. Vers. 2E vidi un altro Angelo che saliva da levante. San Giovanni descrive ora la soppressione di questi quattro tiranni da parte dell’imperatore Costantino il Grande, nell’anno di Cristo 312. E vidi un altro Angelo, che è cioè un Angelo opposto ai primi; questo fu Costantino il Grande, che salì dall’Oriente; che salì all’Impero per disposizione di Cristo, che è il Sole di giustizia, per riportare la pace nella Chiesa. Infatti, mentre Massenzio, che aveva ucciso Severo, esercitava la sua tirannia a Roma, la nobiltà chiese a Costantino, figlio di Costanzo Cloro, allora governatore nelle Gallie, di liberare la città dalla servitù di Massenzio. Questo Angelo, che stava salendo da levante, portava il segno del Dio vivente, cioè il segno di Cristo. È infatti riportato (Hist. ecc. 1. IX), che Costantino, venendo a Roma per opporsi alla tirannia di Massenzio, meditava spesso sulle disposizioni da prendere in questa guerra; e, sebbene non avesse ancora ricevuto il Battesimo, stava tuttavia pregando Dio per ottenere la vittoria, quando, alzando gli occhi al cielo, vide lo stendardo della croce brillare nell’aria. E mentre questa straordinaria visione lo colpiva con stupore, sentì gli Angeli che circondavano la croce che gli dicevano: « Con questo segno tu vincerai ». Rassicurato della vittoria, fece mettere il segno della croce sulle bandiere dei suoi soldati, proprio come gli era apparso; ed essendosi mosso contro Massenzio, lo sconfisse e ne risultò trionfante.

Vers. 3E gridò ad alta voce ai quattro Angeli ai quali era stato dato di danneggiare la terra e il mare. Dicendo: “Non fate del male alla terra, al mare e agli alberi, finché non abbiamo segnato sulla fronte i servi del nostro Dio”. Queste parole descrivono la potenza, la grande pietà e l’ardente zelo di Costantino il Grande per la Religione cristiana. E gridò ad alta voce ai quattro Angeli, cioè a quei quattro persecutori e ai loro ministri stabiliti nelle quattro parti dell’impero. E comandò a loro e a tutti i sudditi dell’impero di chiudere i templi del paganesimo, di rinunciare agli idoli, e di abbracciare la fede dei Cristiani. Ordinò anche la costruzione di chiese in tutto la terra, ed egli stesso costruì a Roma la basilica di San Giovanni in Laterano e molti altri edifici sacri, che adornò con grandi spese e riempì di immense ricchezze. Egli emanò delle leggi contro il culto degli idoli, mise a tacere i falsi oracoli, impedì l’erezione di nuovi simulacri e mise fine ai sacrifici occulti. Proibì i combattimenti tra gladiatori nelle città, …e non permise che esse fossero contaminate da sangue umano. Il culto del Nilo da parte di uomini effeminati non fu più tollerato. Ecco perché proibì la morte degli ermafroditi come colpevoli di adulterio. Diede anche delle leggi ai governatori delle province, per la santificazione della Domenica, e per far rispettare le feste dei martiri. (Hist. Eccl., 1. IV. De vita Constantini.). Riservò certi diritti in tutte le città, sul tributo che dovevansi pagare; e ne assegnò le entrate alle chiese e al clero di ogni località, assicurandone il possesso in perpetuo. La decisione delle difficoltà sollevate dai tribunali civili contro la Chiesa, fu devoluta ai Vescovi, e volle che tutte le loro sentenze avessero forza di legge. Egli diede anche ai Vescovi piena giurisdizione sui loro chierici. Stabilì dappertutto le immunità ecclesiastiche, favorì le belle lettere, istituì numerose scuole e fondò delle biblioteche. Accordò ai professori molti privilegi ed immunità, e dotò le loro cattedre di considerevoli ritenute. È così che questo Imperatore gridò ad alta voce, dicendo: “Non danneggiate la terra, il mare o gli alberi, impedendo e rovinando la fede e la Religione di Cristo; … e così soppresse il potere dei quattro tiranni e dei loro ministri, in modo che non fosse più possibile per loro danneggiare i Cristiani. Infatti, combatté contro Massenzio e lo uccise. La stessa sorte toccò a Licinio, che maltrattò crudelmente i fedeli ad Alessandria e in Egitto; gli altri due tiranni dovettero cedere al suo potere. Così che, per quanto la Chiesa di Gesù Cristo fosse stata precedentemente nell’abiezione, nella desolazione e nelle avversità, allo stesso modo fu onorata, esaltata e consolata dal grande Costantino, principe tanto pio quanto potente, il cui regno durò trentatré anni. Non danneggiate la terra, etc. … , finché non avremo segnato sulla fronte i servi del nostro Dio. Queste parole significano la pratica pubblica del santo Battesimo che Costantino stesso ricevette da San Silvestro, e che introdusse in tutto l’impero con i suoi decreti, così come con il suo esempio. Infine, relegò all’inferno ed ebbe completamente rovinato gli idoli insozzati da tanti orrori e falsità. – Si deve osservare qui che queste parole, finora citate nel testo, non sono da prendere in un senso ristretto ma illimitato, così come quando si dice: quest’uomo non si è pentito mentre viveva, si intende dire che è morto senza fare penitenza, poiché non ci si può più pentire dopo la morte. Così questo passaggio, fino a quando abbiamo segnato sulla fronte, ecc., deve essere inteso in questo senso: che questi quattro tiranni non debbano mai più nuocere ai Cristiani.

III. Vers. 4E sentii che il numero di coloro che erano stati segnati era di centoquarantaquattromila, da tutte le tribù dei figli d’Israele. Vediamo qui il risultato di questa repressione dei tiranni, che fu la moltiplicazione dei Cristiani sotto il regno di Costantino il Grande. E sentii (in immaginazione e in spirito) che il numero di coloro che furono segnati, cioè il numero di coloro che furono battezzati e credettero, era di centoquarantaquattromila. L’Apostolo cita un numero finito per un numero infinito, come spesso accade nella Sacra Scrittura. Perché il numero di Battesimi in tutto l’impero superò di gran lunga questa cifra a quel tempo della Chiesa. Di tutte le tribù dei figli d’Israele. Il nome d’Israele appartiene ora, nel suo vero senso, a tutte le nazioni rigenerate in Gesù Cristo mediante il Battesimo, secondo questa parola di Osea (II, 24): « E io dirò a colui che è stato chiamato “non mio popolo”: Tu sei il mio popolo. » Possiamo anche citare qui quest’altro passo di Isaia, (XLIV, 3): « Farò scendere il mio spirito sulla tua razza e la mia benedizione sui tuoi discendenti. I vostri figli cresceranno tra le piante, come salici presso i ruscelli. Uno dirà: Io sono del Signore; un altro si glorierà nel nome di Giacobbe; un altro scriverà con la sua mano: Io sono del Signore; e si glorierà nel nome d’Israele. » Ora questo passaggio si applica alle nazioni convertite a Gesù Cristo. Allo stesso modo l’Apostolo dice (Rom. II, 28): « Il Giudeo non è colui che lo è esteriormente, né la circoncisione è quella che si fa nella carne, e che è solo esteriore; ma Giudeo è colui che è Giudeo interiormente », attraverso la fede di Gesù Cristo e la circoncisione spirituale del cuore. Ce n’erano dodicimila della tribù di Giuda. In conseguenza di ciò che è stato appena detto, queste dodici tribù devono essere intese letteralmente come i dodici Apostoli del Nuovo Testamento, che corrispondono e sono assimilati ai dodici Patriarchi del Vecchio Testamento. Infatti, come attraverso questi, tutte le generazioni d’Israele discendono da Giacobbe secondo la carne, così attraverso gli Apostoli, tutte le generazioni dei Cristiani discendono da Gesù Cristo, secondo la seconda promessa e secondo lo Spirito. – E al posto della tribù di Dan, dalla quale si dice che nascerà l’Anticristo, l’Apostolo pone qui la tribù di Giuseppe, come San Mattia prese il posto di Giuda il prevaricatore.

§ II.

La consolazione della Chiesa trionfante per le passate tribolazioni, e le vittorie ottenute dai santi Martiri nelle persecuzioni.

CAPITOLO VII. VERSETTI 9-17.

Post hæc vidi turbam magnam, quam dinumerare nemo poterat, ex omnibus gentibus, et tribubus, et populis, et linguis: stantes ante thronum, et in conspectu Agni, amicti stolis albis, et palmae in manibus eorum: et clamabant voce magna, dicentes: Salus Deo nostro, qui sedet super thronum, et Agno. Et omnes angeli stabant in circuitu throni, et seniorum, et quatuor animalium: et ceciderunt in conspectu throni in facies suas, et adoraverunt Deum, dicentes: Amen. Benedictio, et claritas, et sapientia, et gratiarum actio, honor, et virtus, et fortitudo Deo nostro in saecula saeculorum. Amen. Et respondit unus de senioribus et dixit mihi: Hi, qui amicti sunt stolis albis, qui sunt? et unde venerunt? Et dixi illi: Domine mi, tu scis. Et dixit mihi: Hi sunt, qui venerunt de tribulatione magna, et laverunt stolas suas, et dealbaverunt eas in sanguine Agni. Ideo sunt ante thronum Dei, et serviunt ei die ac nocte in templo ejus: et qui sedet in throno, habitabit super illos: non esurient, neque sitient amplius, nec cadet super illos sol, neque ullus æstus: quoniam Agnus, qui in medio throni est, reget illos et deducet eos ad vitæ fontes aquarum, et absterget Deus omnem lacrimam ab oculis eorum.

[Dopo questo vidi una turba grande che ninno poteva noverare, di tutte le genti, e tribù, e popoli, e lingue, che stavano dinanzi al trono e dinanzi all’Agnello, vestiti di bianche stole con palme nelle loro mani: e gridavano ad alta voce, dicendo: La salute al nostro Dio, che siede sul trono, e all’Agnello. E tutti gli Angeli stavano d’intorno al trono, e ai seniori, e ai quattro animali: e si prostrarono bocconi dinanzi al trono, e adorarono Dìo, dicendo: Amen. Benedizione, e gloria, e sapienza, e rendimento di grazie, e onore, e virtù, e fortezza al nostro Dio pei secoli dei secoli, così sia. E uno dei seniori mi disse: Questi, che sono vestiti di bianche stole, chi sono? e donde vennero? E io gli risposi: Signor mio, tu lo sai. Ed egli mi disse: Questi sono quelli che sono venuti dalla grande tribolazione, e hanno lavato le loro stole, e le hanno imbiancate nel sangue dell’Agnello. Perciò sono dinnanzi al trono di Dio, e lo servono dì e notte nel suo tempio: e colui che siede sul trono abiterà sopra di essi: non avranno più fame, né sete, né darà loro addosso il sole, né calore alcuno: poiché l’Agnello, che è nel mezzo del trono, li governerà, e li guiderà alle fontane delle acque della vita, e Dio asciugherà tutte le lacrime dagli occhi loro.]

Vers. 9. Poi vidi una grande moltitudine che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua, in piedi davanti al trono, ecc. In queste e nelle seguenti parole, l’Apostolo descrive e rivela lo stato beato di tutti i santi Martiri esistenti nella Chiesa trionfante, che, al tempo di Diocleziano e dei tiranni che lo precedettero, passarono alla vita eterna attraverso molte tribolazioni ed una morte crudele. Lo scopo di questa descrizione di San Giovanni è di confortare e consolare i soldati cristiani che dovranno ancora soffrire fino alla consumazione dei secoli, per la fede, per la giustizia e per la gloria di Dio nella Chiesa militante, ecc. Dopo questo: queste due parole devono essere intese, secondo l’ordine delle cose rivelate, ho visto una grande moltitudine di martiri e santi che, nei primi tre secoli della Chiesa, sono arrivati alla gloria celeste. Che nessuno poteva contare. L’Apostolo non specifica il numero di questi martiri, per far capire che era immenso, come si può vedere da quanto detto sopra: … da ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Egli cita questi quattro diversi tipi di moltitudini per dire che una moltitudine di uomini di tutte le nazioni della terra, nelle quattro parti del mondo, è giunta alla vita eterna attraverso il martirio, e anche per farci capire che nessuna classe di uomini è esclusa dalla gloria celeste. Ho visto questa moltitudine in piedi davanti al trono. Queste parole esprimono lo stato di quei Santi che godono della visione beatifica di Dio e della stabilità del riposo eterno. – E davanti all’Agnello, cioè godendo della presenza dell’umanità di Gesù Cristo, che potranno contemplare in tutta la misura dei loro desideri. Essi saranno anche rivestiti di vesti bianche, etc., cioè arricchiti della gloria, delle ricompense e delle aureole speciali proporzionate alle loro lotte, alle loro opere e ai loro meriti. Infine, staranno davanti al trono, … con le palme delle mani, come segno della loro completa vittoria, che non potrà mai essere raggiunta nella vita presente, poiché i più grandi Santi devono sempre combattere quaggiù, in qualsiasi situazione si trovino. Si vede quindi, da quanto appena detto, che questa descrizione non può che riferirsi allo stato della Chiesa trionfante in cielo.

Vers. 10. – E gridarono a gran voce. Queste parole indicano l’ufficio speciale dei Santi in cielo, insieme alla veemenza e all’ardore dell’amore con cui lodano e glorificano Dio e l’Agnello, per la gratitudine della loro salvezza, di cui sono sicuri per tutta l’eternità, dicendo: La salvezza è del nostro Dio seduto sul trono e dell’Agnello, cioè che la salvezza, la felicità e tutte le cose buone di cui godono vengono da Dio e dall’Agnello.

II. Vers. 11. – E tutti gli Angeli stavano intorno al trono, i vegliardi ed i quattro animali, e si prostravano con la faccia davanti al trono e adoravano Dio. E seguì un applauso generale di tutti i santi Angeli per la salvezza di questi gloriosi martiri. E tutti gli Angeli stavano in piedi, pronti ad eseguire ogni volontà divina, intorno al trono, agli anziani e ai quattro animali. Questi Angeli della Chiesa trionfante formano tre gerarchie, divise in nove cori. Erano in piedi intorno al trono di Dio e ai Vegliardi, cioè i Profeti, gli Apostoli, i quattro animali, i quattro Evangelisti e i dottori, dove essi sono continuamente pronti a servire Dio loro Creatore, come indica l’espressione “in piedi”. Si prostrarono con la faccia davanti al trono e adorarono Dio. Queste parole esprimono la più perfetta sottomissione, il rispetto e l’umiltà con cui questi spiriti angelici adorano, per tutta l’eternità, Gesù Cristo, vero Dio e uomo allo stesso tempo, dandogli ogni lode e gloria per lo stato della loro beatitudine, ed esprimendo la loro gratitudine a Lui per il trionfo dei santi Martiri, dicendo: “Amen“.

Vers. 12. – Benedizione, gloria, sapienza, azioni di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Così sia. Ciò significa che questi Angeli benedicono Dio, lo lodano e ne glorificano la potenza, il Nome e la sapienza, in ciò che concerne i suoi attributi eterni. Essi gli rendono azioni di grazie per le tribolazioni che questi santi Martiri hanno sopportato e che hanno dato loro una così grande gloria. Onore, nelle chiese pubbliche e sugli altari che furono costruiti in tutto l’universo dopo l’ultima persecuzione di Diocleziano. Potenza, nei miracoli compiuti come testimonianza della fede. Forza, nella resistenza ai tiranni e ai persecutori della Chiesa. Infine, l’ammirevole costanza dei santi Martiri, il cui numero quasi infinito di entrambi i sessi ha trionfato su tutti i tormenti e ha raggiunto il regno celeste. Ora, questi santi Angeli dichiarano che tutti questi trionfi devono essere attribuiti al Signore, unica fonte e oceano di ogni bene; poi finiscono con la parola Amen. Così sia, per esprimere il loro ardente desiderio che sia così.

III. VERSETTO 13. – Allora uno degli anziani rispose e disse: “Chi sono questi che appaiono in vesti bianche e da dove vengono? È con la più grande saggezza che uno degli anziani qui fa una domanda su queste persone, su ciò che siano e come siano pervenute allo stato di beatitudine. Egli pone questa domanda per la consolazione, la gioia e la speranza dei giusti, in mezzo a tutte le avversità che soffriranno sulla terra, per mano degli empi, per permesso di Dio. Lo fa anche per farci capire che il martirio e la morte dei giusti non sono una disgrazia per loro, ma piuttosto il passaggio ad uno stato che è la riunione di ogni bene e di ogni gloria. (Sap. III, 1): « Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio e il tormento della morte non le toccherà. Apparivano morti agli occhi degli stolti, la loro partenza dal mondo era considerata un colmo di afflizioni e la loro partenza dal mondo come un grande dolore, e la loro separazione da noi come una completa rovina; eppure, essi sono in pace. » Questo è ciò che gli empi saranno costretti a confessare e a deplorare loro stessi all’ultimo giudizio, per la loro vergogna eterna; ma … sarà troppo tardi. (Sap. V, 1): «Allora i giusti insorgeranno con grande fermezza contro coloro che li hanno tormentati ed hanno tolto loro il frutto del loro lavoro. A questa vista gli empi saranno turbati e avranno grande paura; saranno stupiti quando vedranno improvvisamente i giusti salvati contro le loro aspettative. Diranno dentro di sé nel loro cuore, presi dal rimpianto e sospirando: Questi sono coloro che un tempo venivano derisi da noi e che noi additavamo ad esempio di persone degne di ogni tipo di oppressione. Insensati com’eravamo, la loro vita ci sembrava una follia e la loro morte un’onta. Eppure eccoli elevati al rango di figli di Dio, e la loro porzione è con i santi. » Allora uno dei vegliardi prendendo la parola mi disse, etc. Questo vegliardo è San Pietro, il primo dei prelati della Chiesa. Chi sono questi che appaiono vestiti di bianco e da dove vengono?

Vers. 14. – Io gli risposi: Signore, voi lo sapete. San Giovanni ricevette immediatamente dalla Verità Eterna una risposta piena di istruzioni per noi.  Ed egli mi disse: Questi sono coloro che sono venuti qui dopo grandi afflizioni; cioè, sono coloro che sono stati il rimprovero degli uomini sulla terra, e che hanno sopportato ogni sorta di tormento: le ruote, il fuoco, le bestie, la spada, la prigione e l’esilio; ed anche coloro che sono usciti da questo mondo per il martirio, al tempo delle terribili tribolazioni di Diocleziano, Massimiano e degli altri tiranni loro predecessori, e che hanno lavato e rese bianche le loro vesti nel sangue dell’Agnello. Queste parole esprimono l’aureola del martirio che fu loro conferito a causa della testimonianza che diedero alla fede di Gesù Cristo. Perché il sangue dei Martiri è moralmente preso per il sangue dell’Agnello, perché quel sangue è il sangue delle sue membra, nelle quali Egli soffre la persecuzione, come Egli stesso dice (Atti, IX, 4): – « Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? » Si dice anche che hanno lavato e rese bianche le loro vesti nel sangue dell’Agnello, perché tutti i meriti e la morte dei Santi sono fondati sui meriti, la morte ed il Sangue dell’Agnello Gesù Cristo, nel quale sono radicati, come il tralcio nella vite, e al quale sono uniti come il frutto all’albero, e come la pianta alla semenza, etc.

Vers. 15. – Perciò essi sono davanti al trono di Dio e lo servono giorno e notte, etc. Qui segue la degna e piena ricompensa che è data loro in proporzione alle loro tribolazioni, e che è espressa da queste parole: … è per questo. Queste parole specificano ulteriormente le otto beatitudini che corrispondono agli otto gradi di virtù che sono difficili da raggiungere, e le otto vittorie principali che i Cristiani devono vincere per raggiungere il regno celeste. Queste sono le otto ricompense o beatitudini che Gesù Cristo ha promesso ai suoi soldati in Matteo V. Questo numero otto designa anche l’universalità e la sazietà di tutti i beni del cielo, come vedremo.

IV. Il primo grado delle virtù cristiane è la povertà di spirito di cui il Cristiano deve essere armato, in modo che sia disposto a perdere tutti i beni temporali piuttosto che negare la fede. Deve anche essere pronto, in mezzo alla persecuzione, a distribuire i suoi beni ai poveri, come fecero San Lorenzo e tutti gli altri Martiri quando i tiranni perseguitavano i fedeli nei loro beni temporali. Ora è a questo generoso sacrificio di tutti i beni temporali che Gesù Cristo promette il regno dei cieli, che è la stabilità eterna nella gloria e nella felicità. Anche San Giovanni aggiunge in questa occasione: Perciò essi sono davanti al trono di Dio, durante l’eternità, e lo vedono faccia a faccia, così com’è. – Il secondo grado è la mitezza, la dolcezza e la pazienza con cui i santi Martiri sopportarono il giogo e soffrirono la tirannia dei re della terra, seguendo l’esempio di Gesù Cristo loro maestro. Si sono lasciati immolare come agnelli senza lamentarsi, vincendo così il male con il bene. Ora, è come ricompensa per questa virtù che viene loro promessa la seconda beatitudine che consiste nel possesso della terra, cioè nella perfetta libertà e nel godimento eterno del sovrano Bene; poiché essi regneranno con Gesù Cristo loro Capo per tutti i secoli dei secoli, così come regnano con Lui sulla terra, poiché è per regnare che servono Dio. Per questo San Giovanni aggiunge: E lo servono giorno e notte nel suo tempio, cioè lo servono giorno e notte nel riposo, nella libertà e nella beatitudine eterna, lodando il loro Creatore, senza avere mai nulla da temere. (Ps. LXXX, 5): « Beati coloro che abitano nella la tua casa, o Signore, essi ti loderanno per sempre. » Per “tempio” intendiamo qui l’Empireo, il palazzo del Re eterno, il tabernacolo incorruttibile, in cui Dio abita con i Santi e con gli Angeli, come vedremo nel capitolo XXI. – Il terzo grado è il pianto dei giusti ed il loro gemito nelle avversità, nell’instabilità, nei tormenti, nelle tentazioni e nelle innumerevoli miserie e calamità di questo mondo. Ma, d’altra parte, viene loro promessa la piena consolazione e la perfetta felicità, che consisterà nell’essere con Gesù Cristo, e di regnare con questo Monarca infinitamente giusto, santo e potente, la cui bontà, potenza e regno rimarranno fissi ed immutabili per tutta l’eternità. Ecco perché San Giovanni dice: E colui che siede sul trono regnerà su di loro. Poiché non saranno più soggetti a nessun re della terra per servirlo, né il loro felice stato cambierà più nei secoli dei secoli, perché il nostro Signore Gesù Cristo, il Re dei re, il Signore dei signori, il cui giogo è facile e il cui fardello è leggero, sarà il loro re. Egli regnerà su di loro per tutta l’eternità ed essi non saranno mai più separati da Lui. – Il quarto grado è lo zelo della giustizia, al quale è promessa la perfetta soddisfazione di tutti i desideri e la sazietà di tutti i beni. Perché i giusti ed i Santi di Dio sulla terra, vedendo che questo mondo è pieno di mali, provano una tale afflizione di spirito nel non potervi porre rimedio, che può essere paragonata agli ardori della fame e della sete. Perché quale grande dolore provano quando vedono l’oppressione dei poveri, degli orfani e delle vedove, e quando vedono gli empi prevalere sui giusti! Sono testimoni delle follie dei malvagi e del disprezzo dei saggi; contemplano con dolore tutti i beni la cui realizzazione è impedita: tante anime che periscono, tante guerre e processi ingiusti; infine, essi sono costretti a riconoscere, senza potervi porre rimedio, che non c’è né giustizia, né verità, né timore di Dio, né carità, né buona fede nella maggior parte degli uomini! Ora è a queste persone giuste che San Giovanni applica queste parole consolanti:

Vers. 16. – Non avranno più fame né sete, perché saranno pienamente soddisfatti e contenti in tutti i loro desideri, conoscendo dall’alto i decreti della volontà divina. (Sal. XVI, 17): « Quanto a me, o Signore, rivestito di giustizia, vedrò il tuo volto; sarò soddisfatto quando la tua immagine mi apparirà. »  Questi giusti non saranno più soggetti alle infermità del corpo per tutta l’eternità. – Il quinto grado delle virtù cristiane è essere misericordiosi amando i poveri, i miserabili, gli afflitti, le vedove e gli orfani; aiutando i bisognosi, ed essendo mite, gentile, benevolo e compassionevole verso il prossimo, nella carità di Gesù Cristo. Per questa virtù l’Apostolo promette a coloro che la praticano la misericordia di Dio, che li preserverà dalle pene dell’inferno e li rassicurerà contro ogni tribolazione nei secoli dei secoli. Infatti, aggiunge: E il calore del sole e di nessun altro fuoco li disturberà più; cioè, Gesù Cristo, il Sole di Giustizia, tormenterà nell’inferno solo gli empi, i tiranni e gli uomini senza pietà; e nessuna delle grandi e numerose tribolazioni di questo mondo disturberà coloro che hanno mostrato misericordia. – Il sesto grado è una vita santa, immacolata, casta, sobria e pia in questo mondo. Questa virtù sarà ricompensata con la visione eterna di Dio nel suo regno, dove nulla di contaminato può entrare.

Vers. 17. – Perché l’Agnello, che è in mezzo al trono, sarà il loro pastore. Per Agnello si intende qui l’umanità di Cristo, nella quale e attraverso la quale, come in una luce ardente, i beati vedranno eternamente lo splendore della Divinità. Perché l’Agnello che è in mezzo al trono, cioè al cielo, (Matth. V), nel quale il Signore nostro Gesù Cristo si manifesterà glorioso e mirabile a tutti i Santi. L’Agnello ….. sarà il loro pastore, perché è attraverso l’umanità di Cristo, posta tra la Divinità e le creature, che i beati godranno della visione beatifica; e anche perché i giusti saranno diretti dalla volontà ineffabile di Gesù Cristo, da cui dipenderanno assolutamente. E il Signore non permetterà più loro di sbagliare o di peccare durante tutta l’eternità. Ma rimarranno perfettamente uniti al loro Creatore nel perfetto riposo, e saranno come assorbiti in lui in modo ineffabile. Ora, è attraverso l’aiuto dell’umanità di Cristo che essi godranno eternamente di questa felicità infinita. Per questo non dovranno più temere di perdere la visione beatifica di cui godranno con un piacere sempre nuovo, perché non c’è nulla che possano ancor più possedere. – Il settimo grado è una certa libertà e una santa pace sulla terra, per mezzo della quale i giusti domineranno i loro affetti malvagi e conterranno le loro passioni nella calma e nella sottomissione. È da questo che essi resteranno saldi nelle calamità, nelle avversità e nelle persecuzioni, non perdendo mai la calma e la pace del cuore, e riposando in Dio, sulla testimonianza della loro buona coscienza. L’Apostolo promette loro la figliolanza di Dio, con la quale i desideri dei Santi saranno pienamente realizzati e soddisfatti, poiché non c’è nulla di più grande che essi possano possedere, niente di più degno che possano desiderare, niente di più dolce di cui si possa godere, niente di più meraviglioso che possano contemplare, questo loro Dio con tutte le sue perfezioni! E li condurrà alle fonti delle acque vive, cioè all’immortalità e alla sazietà di tutti i beni e di tutti i desideri possibili. È per esprimere questa varietà e molteplicità di beni che San Giovanni dice al plurale: Li condurrà alle fonti di acque vive. Di conseguenza, otterremo questa pienezza di felicità e questa filiazione divina dopo la resurrezione universale dei corpi, quando saremo chiamati figli di Dio, e vedremo il nostro Creatore faccia a faccia e così come Egli è. – Infine, l’ottavo grado delle virtù consiste nel soffrire con pazienza e con umiltà le persecuzioni, le avversità, le catene, il carcere, la perdita dei beni temporali e persino la morte, per amore della giustizia e della fede di Gesù Cristo. È di quest’ultimo grado che San Giovanni dice: E Dio asciugherà dai loro occhi ogni lacrima, cioè Dio non permetterà più alcun motivo di afflizione contro di essi, ma concederà loro una consolazione piena e perfetta. Per quanto hanno sofferto, di tanto saranno consolati; così che nessuno di loro si lamenterà delle loro passate tribolazioni ed avversità, poiché godranno dei beni eterni che avranno ottenuto in proporzione ai dolori che hanno sopportato ed ai sacrifici che hanno dovuto fare.

FINE DEL TERZO LIBRO

IL BEATO HOLZHAUSER INTERPRETA L’APOCALISSE: LIBRO QUARTO