DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semìdoppio. – Paramenti verdi.

Questa Domenica, inserita nel Messale dopo il Sabato delle Quattro-Tempora, era anticamente libera. La liturgia della vigilia si prolungava, infatti, fino alla Domenica mattina, e quindi questo giorno non aveva Messa propria. La lezione del Breviario nella Domenica che segue le Quattro Tempora (4a Domenica di settembre) è quella del libro di Giuditta, che S. Ambrogio, nel 2° Notturno riporta a questo tempo di penitenza, attribuendo ai digiuni e all’astinenza di quest’eroina la sua miracolosa vittoria. Per continuare il riavvicinamento che abbiamo stabilito fra il Messale e il Breviario, possiamo anche studiare la Messa del Sabato delle Quattro Tempora, che era anticamente quella di questa Domenica in rapporto con la storia di Giuditta. – Nabuchodonosor, re degli Assiri, mandò Oloferne, generale del suo esercito, a conquistare la terra di Canaan. Quest’ufficiale assediò la fortezza di Betulia. Ridotti agli estremi, gli assediati decisero di arrendersi nello spazio di cinque giorni. Viveva allora in questa città una vedova chiamata Giuditta, che godeva grande riputazione. « Facciamo penitenza per i nostri peccati disse ella, e imploriamo il perdono da Dio con molte lacrime! Umiliamo le anime nostre davanti a Lui e preghiamolo di farci sperimentare la sua misericordia. Crediamo che questi flagelli, con i quali Dio ci castiga, ci sono mandati per correggerci e non per rovinarci ». E questa santa donna entrò allora nel suo oratorio rivestita di cilicio e con la testa cosparsa di cenere si prostrò a terra davanti al Signore. Compiuta la sua preghiera, mise le sue vesti più belle ed uscì dalla città con la sua ancella. Sul far del giorno giunse agli avamposti dei Caldei e dichiarò che era venuta per dare i suoi nelle mani di Oloferne. I soldati la condussero dal generale che fu colpito dalla sua grande bellezza « che Dio si compiacque di rendere ancor più abbagliante, poiché aveva per scopo non la passione, ma la virtù ». Oloferne credette alle parole di Giuditta e offrì in suo onore un gran banchetto. Nel trasporto della gioia bevve con intemperanza maggiore del solito e oppresso del vino si distese sul letto e si addormentò. Tutti si ritirarono allora e Giuditta restò sola presso di lui. Ella pregò il Signore di dar forza al suo braccio per la salvezza di Israele; poi, staccata la spada appesa al capo del letto, tagliò coraggiosamente la testa di Oloferne, la consegnò all’ancella ordinandole di nasconderla nella borsa da viaggio e ambedue rientrarono a Betulia quella notte medesima. Quando gli Anziani della città appresero quello che Giuditta aveva fatto, esclamarono: « Benedetto sia il Signore, che ha creato il cielo e la terra! ». L’indomani la testa sanguinante di Oloferne venne esposta sulle mura della fortezza. I Caldei gridarono al tradimento ma, inseguiti dagli Israeliti, furono massacrati o messi in fuga. Quando il Sommo Sacerdote venne da Gerusalemme con gli Anziani per festeggiare la vittoria, tutti acclamarono Giuditta, dicendo: «Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu la letizia di Israele, tu l’onore del nostro popolo ». S. Ambrogio, nel 2° Notturno della IV Domenica di Settembre commenta questa pagina della Bibbia dicendo: « Giuditta tagliò la testa ad Oloferne in forza della sua sobrietà ». Armata del digiuno, essa penetrò arditamente nel campo nemico. Il digiuno di una sola donna ha vinto le innumerevoli schiere degli Assiri ». La Messa del Sabato delle Quattro Tempora è piena di sentimenti analoghi. Le Orazioni implorano il soccorso della misericordia divina, appoggiandosi sul digiuno e sull’astinenza che ci rendono più forti dei nostri nemici. Perdonaci le nostre colpe, Signore, dice il l° Graduale. Vieni in nostro aiuto, o Dio nostro Salvatore; liberaci, per l’onore dei nome tuo ». – « O Signore, Dio degli eserciti, continua il 2° Graduale, presta l’orecchio alle preghiere dei tuoi servi ». « Volgi il tuo sguardo, o Signore; sino a quando volti da noi la tua faccia? aggiunge il 3° Graduale, abbi pietà dei tuoi servi ». — Le Lezioni fanno tutte allusioni alla misericordia di Dio verso il popolo, che ha fatto penitenza. Così parla il Signore degli eserciti: «Come ebbi l’intenzione di far del male ai vostri padri quando essi provocarono la mia collera, cosi in questi giorni ho avuto l’intenzione di fare del bene alla casa di Gerusalemme ». – Il racconto della liberazione del popolo ebreo dalla servitù assira per mezzo di Giuditta (nome che è il femminile di Giuda) dopo che essa ebbe digiunato è un’immagine della liberazione del popolo di Dio alla Pasqua, per mezzo di Gesù (della stirpe di Giuda) dopo la Quaresima. – Più tardi, allorché non si attese più la sera per celebrare il santo Sacrificio il Sabato delle Quattro Tempora, si prese per la 18° Domenica dopo Pentecoste, la Messa che era stata composta al VI secolo per la Dedicazione della Chiesa di San Michele a Roma e che fu celebrata il 29 settembre; infatti tutto il canto si riferisce alla consacrazione di una Chiesa. « Mi rallegrai quando mi dissero Andremo nella casa del Signore (Versetto All’Introito e Graduale). Mosè consacrò un altare al Signore, dice l’Offertorio. « Entrate nell’atrio del Signore e adoratelo nel Tempio Suo santo », aggiunge al Communio, e questa è una immagine del cielo ove affluiranno tutte le nazioni quando verrà la fine dei tempi indicata da questa Domenica e dalle seguenti che vengono alla fine del Ciclo. L’Alleluia è infatti quello delle Domeniche dopo l’Epifania, che annunziava l’ingresso dei Gentili nel regno dei cieli. L’Epistola parla di coloro che attendono la rivelazione di Nostro Signore al suo ultimo avvento; allora essi godranno eternamente, nella casa del Signore, la pace che, come dissero i Profeti, Egli accorderà a quelli che lo attendono (Intr., Graduale). Questa pace Gesù ce l’ha assicurata morendo sulla croce, che è il sacrificio vespertino. Questa pace e questo perdono noi lo godiamo già nella Chiesa, in grazia del potere accordato da Gesù ai suoi sacerdoti. Questa Messa, che segue il sabato delle Ordinazioni fa infatti allusione anche al sacerdozio. Come il Salvatore, che esercitò il suo ministero e guarì l’anima del paralitico guarendone il corpo, quelli che sono ora stati ordinati sacerdoti predicano la parola di Cristo (Epistola), celebrano il santo Sacrifizio (Offert.) e rimettono i peccati (Vangelo). E cosi preparano gli uomini a ricevere irreprensibili il loro divin Giudice (Epistola).

La predicazione evangelica è una testimonianza resa a Gesù Cristo. Quelli che l’accettano ricevono doni celesti in sovrabbondanza e possono attendere con fiducia l’avvento glorioso di Gesù alla fine dei tempi.

Giovanni Crisostomo così commenta la risposta data da Gesù agli Scribi che non gli riconoscevano la facoltà di perdonare i peccati: « Se non credete la potestà di rimettere le colpe, credete la facoltà di conoscere i pensieri, credete la virtù del sanare da malattie incurabili i corpi. Più facile sanare il corpo; ma giacché non credete alla maggiore meraviglia, ve ne mostrerò una minore ma aperta a i sensi.  »                                                                           

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Eccli XXXVI: 18
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël.

[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Ps CXXI: 1
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai per ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore].

Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël

[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Oratio

Orémus.
Dírigat corda nostra, quǽsumus, Dómine, tuæ miseratiónis operátio: quia tibi sine te placére non póssumus.

[Te ne preghiamo, o Signore, l’azione della tua misericordia diriga i nostri cuori: poiché senza di Te non possiamo piacerti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor 1: 4-8
Fratres: Grátias ago Deo meo semper pro vobis in grátia Dei, quæ data est vobis in Christo Jesu: quod in ómnibus dívites facti estis in illo, in omni verbo et in omni sciéntia: sicut testimónium Christi confirmátum est in vobis: ita ut nihil vobis desit in ulla grátia, exspectántibus revelatiónem Dómini nostri Jesu Christi, qui et confirmábit vos usque in finem sine crímine, in die advéntus Dómini nostri Jesu Christi.

[“Fratelli: Io rendo continuamente grazie al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù; perché in lui siete stati arricchiti di ogni cosa, di ogni dono di parola e di scienza, essendosi stabilita solidamente in mezzo a voi la testimonianza di Cristo, in modo che nulla vi manca rispetto a qualsiasi grazia; mentre aspettate la manifestazione di nostro Signor Gesù Cristo, il quale vi manterrà pure saldi sino alla fine, così da essere irreprensibili nel giorno della venuta del nostro Signor Gesù Cristo”.]

LE RICCHEZZE DEL CRISTIANESIMO.

Anche il lettore più zotico e disattento capisce subito che quando San Paolo afferma arricchiti in Gesù e per Gesù i Cristiani, arricchiti in tutti i modi, non parla di ricchezze materiali: il discorso dell’Apostolo si svolge su un piano diverso e superiore al piano della materia, che è il piano dello spirito. Però in quel piano la frase di San Paolo ha una verità, una esattezza matematica: N. S. Gesù col suo Vangelo ha, spiritualmente, arricchito l’umanità. C’è più vita al mondo e nella storia dopo di Lui, maggiore e migliore, più intensa e più alta. C’è più luce. La fede non è una barriera, un limite, è un progresso, uno slancio. Dove si ferma la ragione con la sua luce umana, comincia la fede con la sua luce divina, divina e umanizzata, messa per opera di Gesù, il Rivelatore, il Maestro, alla portata dell’umanità. Prima di Gesù c’è la filosofia, dopo Gesù accanto e oltre la filosofia c’è la Teologia. Prima c’è Dio — mistero — poi ci sono i Misteri di Dio. Il Cristiano sa tutto ciò che sapeva il pio pagano e sa molto di più. E anche il patrimonio di verità comuni, nella mente del Cristiano è più luminoso. Le stesse cose noi le sappiamo meglio. Meglio la sua grandezza, meglio la sua bontà, la giustizia così severa, la misericordia così grande. Il più umile Cristiano, sotto questo rispetto, è più avanti del più grande filosofo pagano. C’è una vita morale più ricca. Si vive nella sfera morale più intensamente, con maggiore severità e maggiore dolcezza. Nostro Signore ci ha tenuto ad affermare questa superiorità morale del suo Vangelo sulla antica Legge, non discutendo neanche la superiorità della Legge mosaica sulla etica pagana. Sinteticamente ha detto che la giustizia, la bontà dei suoi seguaci, deve essere superiore a quella degli Scribi e dei Farisei. E ha specificato una serie di superiorità morali, spirituali. La parola nostra è più sincera, deve essere tersa come uno specchio. – Non bisogna solo non nascondere la verità delle parole, bisogna non velarla. La morale giudaica, salvo le apparenze, provvede ad evitare il male sociale, la morale cristiana va al fondo della realtà, mette l’anima nella luce e al contatto di Dio. Dove il Cristianesimo trionfa è nel regno della carità, dell’amore. Dopo N. S. Gesù c’è più amore al mondo, un amore più operoso. Chi li aveva mai neanche lontanamente sognati i miracoli della carità cristiana nell’inverno dell’età pagana? Cera a Roma la Vestale; non c’era la Suora di carità. L’ha creata Gesù. Tra il paganesimo e il Cristianesimo, c’è la differenza dal verno alla primavera. Il nostro amore è più intimo. Non si benefica solo nel Cristianesimo, non si fa solo del bene, si fa del bene, perché si vuole bene. C’è la fratellanza dell’anima, oltre le divisioni sociali. Rimangono materialmente i poveri e i ricchi, ma poveri e ricchi non conta nulla; si è fratelli. La carità cristiana va oltre la divisione nazionale; ci sono ancora i greci, i romani, i barbari, ma greci, romani e barbari si sentono fratelli, si chiamano con questo bel nome, si amano con questo bel titolo.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. – Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps CXXI: 1; 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore.]

Alleluja

V. Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. Allelúja, allelúja

[V. Regni la pace nelle tue mura e la sicurezza nelle tue torri. Allelúja, allelúja]

Ps CI: 16

Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. Allelúja.

 [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: e tutti i re della terra la tua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. IX: 1-8
“In illo témpore: Ascéndens Jesus in navículam, transfretávit et venit in civitátem suam. Et ecce, offerébant ei paralýticum jacéntem in lecto. Et videns Jesus fidem illórum, dixit paralýtico: Confíde, fili, remittúntur tibi peccáta tua. Et ecce, quidam de scribis dixérunt intra se: Hic blasphémat. Et cum vidísset Jesus cogitatiónes eórum, dixit: Ut quid cogitátis mala in córdibus vestris? Quid est facílius dícere: Dimittúntur tibi peccáta tua; an dícere: Surge et ámbula? Ut autem sciátis, quia Fílius hóminis habet potestátem in terra dimitténdi peccáta, tunc ait paralýtico: Surge, tolle lectum tuum, et vade in domum tuam. Et surréxit et ábiit in domum suam. Vidéntes autem turbæ timuérunt, et glorificavérunt Deum, qui dedit potestátem talem homínibus”.

[“In quel tempo Gesù montato in una piccola barca, ripassò il lago, e andò nella sua città. Quand’ecco gli presentarono un paralitico giacente nel letto. E veduta Gesù la loro fede, disse al paralitico; Figliuolo, confida: ti son perdonati i tuoi peccati. E subito alcuni Scribi dissero dentro di sé: Costui bestemmia. E avendo Gesù veduti i loro pensieri, disse: Perché pensate male in cuor vostro? Che è più facile, di dire: Ti sono perdonati i tuoi peccati; o di dire: Sorgi e cammina? Or affinché voi sappiate che il Figliuol dell’uomo ha la potestà sopra la terra di rimettere i peccati: Sorgi, disse Egli allora al paralitico, piglia il tuo letto e vattene a casa tua. Ed egli si rizzò, e andossene a casa sua. Ciò udendo le turbe s’intimorirono e glorificarono Dio che tanta potestà diede ad uomini].

Omelia

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)                                

Sulla tiepidezza.

« Sed quia tepidus es, et nec frigidas, nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo. »

(Apoc. II, 16).

Possiamo noi, Fratelli miei, ascoltare senza terrore una tale sentenza dalla bocca di Dio stesso, contro un Vescovo che sembrava adempisse perfettamente tutti i doveri di un degno ministro della Chiesa? La sua vita era ben regolata, le sue ricchezze distribuite come coscienza esigeva. Lungi dal tollerare il vizio, vi si opponeva energicamente: non dava cattivi esempi, e la sua vita sembrava veramente degna d’essere imitata. Eppure, malgrado tutto ciò, vediamo che il Signore gli fa dire da S. Giovanni che se avesse continuato a vivere così, lo avrebbe rigettato, cioè punito e riprovato. Sì, F. M., questo esempio è tanto più spaventoso in quanto che molti seguono la stessa via, vivono in modo simile, eppure tengono certa la loro salute. Ahimè! F. M., quant’è grande il numero di coloro che non sono né tra i peccatori già riprovati agli occhi del mondo, né tra gli eletti. Su quale strada camminiamo noi? È giusta quella che noi percorriamo? Quello che ci deve far tremare è che non ne sappiamo nulla. Quale spaventosa incertezza!… Cerchiamo frattanto di conoscere se abbiamo la somma disgrazia di essere nel numero dei tiepidi. Io voglio mostrarvi 1° a quali segni potete conoscere se appartenete al numero dei tiepidi; 2° se avete la disgrazia di esser di questo numero, vi indicherò i mezzi per uscirne.

I. — Parlandovi oggi, F. M., dello stato spaventevole di un’anima tiepida, non è mio disegno di farvi il ritratto pauroso e disperato di un’anima che vive nel peccato mortale, senza neanche il desiderio di uscirne: questa povera disgraziata non è che una vittima della collera di Dio per l’altra vita. Ahimè! tali peccatori mi ascoltano; essi sanno di chi parlo in questo momento….. Ma non andiamo più lontano; tutto ciò che direi non servirebbe che a indurirli di più. Parlandovi d’un’anima tiepida, F. M., io non voglio parlarvi di coloro che non si confessano, né fanno Pasqua; essi sanno benissimo che, malgrado tutte le loro preghiere e le altre buone opere, si perderanno. Lasciamoli nel loro accecamento, giacché vogliono restarvi. — Ma, mi direte, tutti quelli che si confessano, fanno la loro Pasqua e si comunicano spesso, non si salveranno? — Ve lo assicuro, amici miei, tutti no; perché se la maggior parte di coloro che frequentano i Sacramenti si salvasse, bisognerebbe convenire che il numero degli eletti non sarà così piccolo come realmente sarà. Ma, tuttavia, riconosciamolo: tutti quelli che avranno la somma ventura di andare in cielo, saranno scelti senz’altro tra coloro che frequentano i Sacramenti, e non tra quelli che non fanno Pasqua, né si confessano. Ah! mi direte, se tutti coloro che non fanno Pasqua, né si confessano si danneranno, dovrà essere ben grande il numero dei reprobi! — Sì, senza dubbio, sarà grande. E checché possiate dirne, se vivete da peccatori, dividerete la loro sorte. E questo pensiero non vi commuove?… Se non siete induriti fino all’ultimo segno, deve farvi fremere ed anche disperare. Ahimè! Dio mio! quant’è disgraziata una persona che ha perduta la fede! Lungi dall’approfittare di queste verità, quei poveri ciechi, al contrario, se ne rideranno; eppure dicano quel che vogliono, sarà come vi dico io: senza Pasqua e senza confessione, né cielo, né felicità eterna. O mio Dio! quanto è orribile l’accecamento del peccatore! Neppure intendo, F. M., per anima tiepida, chi vorrebbe essere del mondo senza cessare d’essere di Dio: voi lo vedrete ora prostrarsi davanti a Dio, suo Salvatore e Signore; ed ora prostrarsi davanti al mondo, suo idolo. Povero cieco, che stende una mano al buon Dio e l’altra al mondo; li chiama tutti e due in suo aiuto, promettendo a ciascuno il suo cuore! Egli ama Dio; vorrebbe almeno amarlo; ma vorrebbe anche piacere al mondo. Stanco alla fine di stare con tutti e due, termina col darsi al mondo. Vita strana, codesta vita che presenta uno spettacolo così singolare che non si riesce a persuadersi che possa essere la vita di una sola persona. Ve lo mostrerò in modo così chiaro che, forse, molti tra di voi se ne offenderanno; ma, poco m’importa; io vi dirò sempre ciò che devo dirvi: voi farete ciò che vorrete. – Io dico, F. M., che chi vuol essere del mondo senza cessare d’essere di Dio, conduce una vita così strana, che riesce impossibile conciliarne le differenti circostanze. Ditemi, osereste voi pensare che quella giovane che vedete a quei piaceri, a quelle riunioni mondane dove non si fa che male e bene mai, e, in esse si abbandona a tutto ciò che un cuore guasto e perverso può desiderare, è la stessa che avete visto, appena quindici giorni od un mese fa, al tribunale di penitenza confessare le sue colpe, protestando a Dio d’essere pronta a morire piuttosto che ricadere nel peccato? È proprio quella che avete visto accostarsi alla sacra Mensa cogli occhi dimessi e la preghiera sul labbro? Dio mio, quale orrore! Vi si può pensare senza provare una stretta al cuore? Credereste, F. M., che quella madre, la quale tre settimane or sono mandava la sua figliuola a confessarsi, giustamente raccomandandole di pensar bene a ciò che stava per compiere e dandole anche un rosario od un libro; oggi le dice di andare ad una festa da ballo, ad un matrimonio o a degli sponsali? Quelle stesse mani che le hanno dato un libro, ora sono affaccendate ad accomodare le sue vanità, affinché meglio piaccia al mondo. Ditemi, F. M., è proprio quella persona che stamattina in chiesa cantava le lodi di Dio, ed ora adopera la stessa lingua per cantare cattive canzoni, e per tenere discorsi i più infami? E forse il medesimo quel padrone o quel padre che or ora assisteva alla S. Messa con grande rispetto e sembrava voler passare santamente la Domenica e che invece vedete lavorare, e far lavorare i suoi dipendenti? Mio Dio! Quale orrore! come il buon Dio accomoderà tutto ciò nel giorno del giudizio? Ahimè! quanti Cristiani dannati! Io dico ancor di più, F. M., colui che vuol piacere al mondo ed al buon Dio, conduce una vita delle più disgraziate. Vedetelo. Ecco una persona che frequenta i piaceri, o che ha contratto qualche cattiva abitudine; quale non è il suo timore quando adempie i doveri di religione, cioè quando prega il buon Dio, quando si confessa e si comunica? Non vorrebbe esser vista da coloro coi quali ha danzato, e coi quali ha passato le notti nelle bettole dandosi ad ogni sorta di disordini. È riuscita ad ingannare il suo confessore, nascondendogli quanto ha fatto di peggio, ed ha ottenuto il permesso di comunicarsi, o meglio di fare un sacrilegio: vorrebbe comunicarsi o prima o dopo la Messa, cioè quando v’è meno gente. Ma essa è contenta di esser vista dalle persone dabbene, che ignorano la sua cattiva vita, e alle quali spera d’ispirare una buona opinione di sé. Con persone pie, parla di pietà; con gente senza religione non parlerà che dei piaceri del mondo. Essa arrossirebbe di compiere le sue pratiche religiose davanti ai compagni o compagne di stravizi. E questo è tanto vero, che un giorno uno m’ha domandato di comunicarlo in sacristia, perché nessuno lo vedesse. Che orrore! F. M., si può pensare, senza fremere, ad una tale condotta? – Ma andiamo avanti, e vedrete l’imbarazzo di queste povere persone che vogliono seguire il mondo senza abbandonare, almeno in apparenza, il buon Dio. Si avvicina la Pasqua. Bisogna andarsi a confessare; esse non lo desiderano, e neppure ne sentono il bisogno: desidererebbero anzi che la Pasqua venisse ogni trent’anni. Ma i loro genitori ci tengono ancora alla pratica esteriore della religione; essi sono contenti che i figli si accostino alla sacra Mensa, e li sollecitano anche di andarsi a confessare: in ciò fanno malissimo. Preghino piuttosto per essi e non li tormentino affinché abbiano a commettere dei sacrilegi; ahimè! ne faranno abbastanza lo stesso. Per liberarsi dall’importunità dei genitori, per salvare le apparenze, queste persone si uniranno insieme per sapere quale confessore bisogna scegliere, confessore che dia l’assoluzione la prima o almeno la seconda volta. “E già un po’ di tempo, dice uno, che i genitori mi tormentano perché non vado a confessarmi. Da chi andremo?„ — “Non bisogna andare dal nostro parroco; è troppo scrupoloso; certo non ci lascerebbe far Pasqua. Bisogna andar dal tale. Egli ha assolto il tale ed il tale, che ne hanno fatte al par di noi. Certo più di loro noi non ne abbiam commesso. „ E un’altra dirà: “Ti assicuro, che se non fosse pei miei genitori, io non farei Pasqua; poiché il catechismo ci dice che per fare una buona confessione bisogna abbandonare il peccato e le occasioni di peccato, e noi non facciamo né l’una cosa né l’altra. Te lo dico sinceramente: quando arriva la Pasqua per me è un bell’imbarazzo. Non vedo che l’ora di collocarmi per non avere più impicci. Allora farò la confessione generale di tutta la mia vita per riparare quella che faccio ora, altrimenti non vivrei contenta. „ — “Ebbene! gli dirà un’altra, bisognerà che ritorni da chi t’ha confessato fino ad ora: egli ti conoscerà meglio. „ — “Ah! certo no; io andrò da chi non voleva assolvermi, perché non voleva che mi dannassi. „ — “Ah! come sei ingenua! Ciò non importa, tutti i sacerdoti hanno lo stesso potere. „ — ” Va bene dir cosi fin che si è sani; ma quando si è ammalati si pensa diversamente. Un giorno, io andai a trovare una tale era gravemente ammalata: ed ella mi disse che mai sarebbe tornata a confessarsi da quei sacerdoti così larghi, che mentre sembra vi vogliano salvare, vi mandano all’inferno. „ E fanno infatti così questi poveri ciechi. « Padre, dicono al prete, io vengo a confessarmi da voi, porche il nostro parroco è troppo scrupoloso. Pretende che noi promettiamo cose che poi non possiamo fare; vorrebbe che fossimo dei santi, e ciò non è davvero possibile in mezzo al mondo. Vorrebbe che non ponessimo più piede alle feste da ballo, e che non frequentassimo né le osterie, né i divertimenti. Se si ha qualche cattiva abitudine non dà più l’assoluzione fino a che non l’abbiamo lasciata. Se bisognasse fare tutto questo non potremmo mai più fare la Pasqua. I miei genitori, che sono molto religiosi, mi stancano continuamente perché non faccio la Pasqua. Io farei tutto ciò che potrei; ma non si può promettere di non ritornar più a questi divertimenti, poiché non si sanno le occasioni che possono capitare. „ — “Ah! dirà il confessore ingannato da questo bel linguaggio, il vostro parroco è un po’ troppo scrupoloso. Fate il vostro atto di contrizione, vi darò l’assoluzione, e procurate di far sempre bene. „ Cioè, abbassate la testa; voi siete per calpestare il Sangue adorabile di Gesù Cristo, siete per vendere il vostro Dio come Giuda l’ha venduto ai suoi carnefici, e domani vi comunicherete, o meglio, andrete a crocifiggerlo. O orrore! O cosa abbominevole! Va, o Giuda infame, va alla sacra Mensa; va a dar la morte al tuo Dio e al tuo Salvatore! Lascia che la tua coscienza gridi; cerca solo di soffocarne i rimorsi, fin che lo potrai… Ma, F. M., io mi allontano troppo; lasciamo questi poveri ciechi nelle loro tenebre. Io credo, F. M., che voi desiderate sapere qual è lo stato d’un’anima tiepida. Ebbene! eccolo. Un’anima tiepida non è ancor morta del tutto agli occhi di Dio, perché la fede, la speranza e la carità, che sono la sua vita spirituale, non sono del tutto spente. Ma, è una fede senza zelo, una speranza senza fermezza, una carità senza ardore. Vi farò il ritratto d’un Cristiano fervente, d’un Cristiano cioè che desidera davvero di salvare la sua anima, ed insieme vi farò quello di un’anima tiepida nel servizio di Dio. Mettiamoli uno di fronte all’altro, e vedrete a quale dei due rassomigliate. – Un buon Cristiano non si accontenta di credere tutte le verità della nostra santa religione, ma le ama, le medita, cerca tutti i mezzi per impararle, desidera sentire la parola di Dio; più la sente e più desidera sentirla, perché vuole approfittarne, evitare cioè tutto ciò che Dio gli proibisce, e fare tutto ciò che Egli comanda. Le istruzioni non gli sembrano mai troppo lunghe; anzi questi sono i momenti più felici per lui, poiché impara il modo di condursi per andare in cielo e salvare la sua anima. Non solo crede che Dio lo vede in tutte le sue azioni e che dopo la morte le giudicherà tutte; ma trema ancora ogni qualvolta pensa dover egli render conto di tutta la sua vita ad un Dio, che non avrà misericordia pel peccato. E non si contenta di pensarvi e di tremare, ma lavora ogni giorno per correggersi; non cessa d’inventare ogni giorno nuovi mezzi per fare penitenza; conta per nulla ciò che ha fatto finora, e si addolora d’aver perduto molto tempo, nel quale avrebbe potuto raccogliere grandi tesori pel cielo. – Quanto invece è differente il Cristiano che vive nella tiepidezza! Accetta sì tutte le verità che la Chiesa crede ed insegna, ma in un modo così debole, che sembra credervi, direi, ben poco. Non dubita, è vero, che Dio lo vede, che egli è sempre alla sua santa presenza; ma con questo pensiero non è né più buono, né meno cattivo; cade con tanta facilità nel peccato come se non credesse nulla, è persuasissimo che, finché vive in questo stato, è nemico di Dio, ma non cerca per questo di uscirne. Sa che Gesù Cristo ha dato al sacramento della Penitenza la facoltà di rimettere i nostri peccati e di farci progredire nella virtù. Sa che questo Sacramento ci accorda grazie proporzionate alle disposizioni che vi portiamo; non importa: sempre la medesima negligenza, la medesima tiepidezza nella pratica. Sa che Gesù Cristo è veramente presente nel sacramento dell’Eucaristia, che è un nutrimento assolutamente necessario per l’anima sua; eppure vedete in lui ben poco desiderio di questo cibo. Le sue confessioni e le sue comunioni sono lontanissime l’una dall’altra; non vi si deciderà che all’occasione d’una grande festa, d’un giubileo o d’una missione, oppure perché gli altri vi vanno, ma non per il bisogno della sua povera anima. Non solo non si sforza per meritare questa grazia; ma non invidia nemmeno quelli che vi si accostano più spesso. Se gli parlate delle cose del buon Dio, vi risponde con una indifferenza, che vi mostra come il suo cuore sia poco sensibile ai conforti, che possiamo trovare nella nostra santa religione. Nulla lo commuove: ascolta la parola di Dio, è vero; ma spesso s’annoia; ascolta con fatica, per abitudine, come una persona che pensa di saperne o di fare abbastanza. Le preghiere un po’ lunghe lo disgustano. Il suo spirito è così pieno dell’azione che ha appena fatto, o di quella che sta per fare; la noia è sì grande, che la sua povera anima è come in agonia; vive ancora, si non è più capace di nulla per il cielo. – La speranza d’un buon Cristiano è ferma; la sua confidenza in Dio è irremovibile. Non perde mai di vista i beni ed i mali dell’altra vita. Il ricordo dei dolori di Gesù Cristo è continuamente presente al suo spirito; il suo cuore ne è sempre occupato. Ora porta il suo pensiero all’inferno, per capire quanto è grande la punizione del peccato e la disgrazia di chi lo commette, ciò che lo dispone a preferire la morte al peccato; ora per eccitarsi all’amor di Dio e per provare quant’è felice chi preferisce il buon Dio a tutto, porta il suo pensiero al cielo. Allora comprende quanto è grande la ricompensa di chi abbandona ogni cosa pel Signore; e non desidera che Lui, non vuole che Lui solo; i beni di questo mondo per lui sono nulla; ne gode al vederli disprezzati, e nel disprezzarli lui stesso; i piaceri del mondo gli fanno orrore. Pensa che, come seguace di un Dio crocifisso, la sua vita non deve essere che una vita di lagrime e di sofferenze. La morte non lo spaventa affatto, perché sa benissimo che essa sola può liberarlo dai mali della vita e riunirlo per sempre al suo Dio. Ma un’anima tiepida è ben lontana da questi sentimenti. I beni ed i mali dell’altra vita le importano quasi nulla: pensa al cielo sì, ma non ha il vero desiderio di andarvi. Sa che il peccato le ne chiude le porte; ciò non ostante, non cerca di correggersi, almeno in modo efficace: perciò è sempre la stessa. Il demonio l’inganna facendole prendere molte risoluzioni di convertirsi, di far meglio, d’essere più mortificata, più ritenuta nelle parole, più paziente nei dolori, più caritatevole verso il prossimo. Ma tutto questo non cambia la sua vita: son già venti anni, che ella è piena di buoni desideri, senza aver modificato in nulla le sue abitudini. Essa rassomiglia ad uno che invidia chi è su di un carro trionfale, ma non muove nemmeno un piede per salirvi. Non vorrebbe certo rinunciare ai beni eterni per quelli della terra; ma non desidera né di uscire da questo mondo, né di andare in cielo, e se potesse passare il suo tempo senza croci e senza angustie, non domanderebbe mai di uscire da questo mondo. Se la sentite dire che la vita è troppo lunga e troppo miserabile, è solo quando tutto non va a seconda de’ suoi desideri. Se il buon Dio por sforzarla in qualche modo a staccarsi dalla vita, le manda delle croci o delle miserie, eccola che si tormenta, si angustia, si abbandona alle lagrime, ai lamenti, e spesso ad una specie di disperazione. Sembra non voglia più riconoscere che è il buon Dio che le manda queste prove per suo bene, per staccarla dalla vita e attirarla a sé. Che cosa ho fatto per meritarmi tutto questo? pensa tra sé; molte altre più colpevoli non patiscono tutto ciò che soffro io. Nella prosperità, l’anima tiepida, non arriva fino a dimenticare il buon Dio. ma non dimentica neppure se stessa. Sa raccontare molto bene i mezzi adoperati per riuscire; crede che molti altre difficilmente avrebbero ottenuto il medesimo successo; è contenta nel ripeterlo o nell’udirlo ripetere; ogni volta che lo sente prova una novella gioia. Davanti a quelli che l’adulano, prende un’aria amabile, affettuosa, ma coloro che non le hanno portato tutto il rispetto ch’essa crede meritare, o che non sono stati riconoscenti ai suoi favori, li guarda con un’aria fredda, indifferente, e sembra dir loro ch’essi sono ingrati, che non meritavano di ricevere il bene ch’essa ha loro fatto. – Un buon cristiano, F . M., assai lontano dal credersi degno di qualche cosa, e capace di fare il minimo bene, non ha davanti agli occhi che la sua miseria. Non si fida di coloro che lo adulano, considerandoli quali altrettanti lacci che il demonio gli tende; i suoi migliori amici sono quelli che gli fanno conoscere i suoi difetti, perché sa che per correggersene bisogna assolutamente conoscerli. Fugge l’occasione del peccato, quanto può; ricordandosi che ben poco occorre per farlo cadere; non fa alcun assegnamento sulle sue risoluzioni, né sulle sue forze, e nemmeno sulla sua virtù. Conosce, per esperienza, che non è capace che di peccare, e mette ogni confidenza e speranza in Dio solo. Sa che il demonio nulla più teme quanto un’anima la quale ama la preghiera; e questo lo spinge a fare della sua vita una continua preghiera, un’unione intima con Dio. Il pensiero di Dio gli è frequente quanto il respiro; innalza spesso a Lui il suo cuore; si compiace di pensare a Lui, come al Padre suo celeste, all’amico, al suo Dio che l’ama, e che desidera così ardentemente di renderlo felice in questo mondo, e ancor più nell’altro. Un buon Cristiano, F. M., raramente si occupa delle cose della terra; e se gliene parlano mostra tanta indifferenza quanta ne mostra la gente del mondo quando si parla loro dei beni dell’altra vita. Infine, fa consistere la sua felicità nelle croci, nelle afflizioni, nella preghiera, nei digiuni o nel pensiero della presenza di Dio. Un’anima tiepida, non perde del tutto, se volete, la confidenza in Dio; ma non diffida abbastanza di se stessa. Sebbene si esponga assai spesso all’occasione di peccato, pure crede che non cadrà; e se cade, attribuisce la sua caduta al prossimo, e protesta che un’altra volta sarà più forte. – Chi ama veramente il buon Dio, F. M., ed ha a cuore la salute della sua anima, prende tutte le precauzioni possibili affin d’evitare l’occasione del peccato. Non si accontenta di evitare i grossi falli; ma sta attento per distruggere il minimo difetto che trova in sé. Considera sempre come un gran male tutto ciò che possa dispiacere anche solo minimamente a Dio; o meglio, tutto ciò che non piace a Dio, dispiace anche a lui. Egli si considera come ai piedi di una scala, alla sommità della quale deve salire; vede che per giungervi non ha tempo da perdere; e così cresce ogni giorno di virtù in virtù aspettando l’eternità. E un’aquila che fende l’aria; o meglio è un lampo che nulla perde della sua rapidità, dal momento in cui appare a quello in cui si dilegua. Sì, F. M., ecco che cosa fa un’anima che lavora per Dio e desidera vederlo. Come il lampo, essa non trova limiti né indugi, prima di inabissarsi nel seno del suo Creatore. Perché il nostro spirito si trasporta con tanta rapidità da un capo del mondo all’altro? È per mostrarci con quale rapidità dobbiamo portarci a Dio coi nostri pensieri e desiderii. Ma non è così l’amor di Dio in un’anima tiepida. Non si vedono in essa quei desideri e quelle fiamme ardenti che fanno sormontare tutti gli ostacoli che si oppongono alla salute. Se io volessi, F. M., dipingervi esattamente lo stato di un’anima che vive nella tiepidezza vi direi che essa è simile ad una tartaruga o ad una lumaca. Essa non cammina che trascinandosi per terra e la si vede appena cambiar posto. L’amor di Dio, che essa sente nel suo cuore, è simile ad una piccola scintilla nascosta sotto un cumulo di cenere; questo amore è avviluppato da tanti pensieri e desideri terreni, che, se non lo soffocano, ne impediscono il progresso e l’estinguono a poco a poco. L’anima tiepida giunge al punto d’essere indifferente per la sua rovina. Non ha che un amore senza tenerezza, senza attività e senza forza, che la sostiene appena in tutto ciò che è essenzialmente necessario per salvarsi; ma quanto al resto, lo riguarda come nulla o come cosa da poco. Ahimè! F. M., questa povera anima nella sua tiepidezza è come una persona tra due sonni. Vorrebbe agire; ma la volontà è talmente fiacca che non ha né la forza, né il coraggio per soddisfare i suoi desiderii. – È vero che un cristiano che vive nella tiepidezza adempie ancora molto regolarmente i suoi doveri, almeno in apparenza. Farà tutte le mattine la sua preghiera in ginocchio; frequenterà i Sacramenti, tutti gli anni, a Pasqua, ed anche più volte all’anno; ma in tutto questo v’è tanto disgusto, tanto rilassamento e tanta indifferenza, così poca preparazione, così poco cambiamento nel modo di vivere, che si vede chiaramente come egli adempia i suoi doveri per abitudine; perché ricorre una festa, ed è abituato a compierli in quella circostanza. Le sue confessioni e le sue comunioni non sono sacrileghe, se volete; ma sono confessioni e comunioni senza frutto, che, lungi dal renderlo più perfetto e più caro a Dio, lo rendono invece più colpevole. Quanto alle sue preghiere, Dio solo sa come son fatte: ahimè, senza preparazione. Alla mattina, non si occupa del buon Dio né della salute della sua povera anima; ma pensa solo a ben lavorare. Il suo spirito è talmente preoccupato dalle cose della terra, che il pensiero di Dio non vi trova posto. Pensa a ciò che farà durante il giorno, dove manderà i figli ed i domestici, come farà per terminare il suo lavoro. Per fare la preghiera si mette in ginocchio sì, ma non sa né che cosa vuol domandare al buon Dio, né che cosa gli è necessario, e neppure a chi si trova davanti; i suoi modi così poco rispettosi lo fanno conoscere. È un povero che, quantunque molto miserabile non vuol nulla, ed ama la sua povertà. È un ammalato quasi disperato, che disprezza medici e medicine ed ama le sue infermità. Voi vedete quest’anima tiepida parlare senza tanta difficoltà, e per il minimo pretesto, durante le sue preghiere; per un nonnulla le abbandona, almeno in parte, pensando che le farà in un altro momento. Vuol essa offrire la sua giornata a Dio, dire il Benedìcite e l’Agimus? Fa tutto questo, sì; ma spesso senza pensare a ciò che dice. Non interromperà lo stesso il suo lavoro. È un uomo? Farà girare il berretto od il cappello tra le mani, come per esaminare se è buono o no, quasi volesse venderlo. E una donna? Essa li reciterà tagliando il pane per la zuppa, o mettendo la legna sul fuoco, oppure sgridando i figli o i domestici. Le distrazioni nella preghiera non sono volontarie, se lo volete; si preferirebbe non averle; ma siccome bisogna sforzarsi un po’ per scacciarle, si lasciano andare e venire a lor piacimento. Un’anima tiepida non lavora forse, la Domenica, in opere che sembrano proibite a quelle persone che hanno un po’ di religione; ma fare qualche punto coll’ago, accomodare qualche cosa negli utensili di cucina, mandare i mandriani al campo durante le funzioni sotto pretesto che non c’è più nulla da dare alle bestie; di ciò essa non si fa scrupolo, e preferisce lasciar perire la propria anima e quelle dei propri operai, piuttosto che lasciar perire le bestie. Un uomo aggiusterà i suoi strumenti, le sue carrette pel domani; andrà a visitare i campi, turerà un buco, taglierà qualche corda; porterà e metterà in assetto altre cose. Che ne dite, F. M.? non è questa, ahimè! la pura verità ?… Un’anima tiepida si confesserà ogni mese ed anche più spesso. Ma, ahimè, quali confessioni! Nessuna preparazione, nessun desiderio di correggersi: oppure sono così deboli e così piccoli, che il primo colpo di vento li abbatte. Tutte le sue confessioni non sono che una ripetizione delle antiche, e fortunata se non v’è nulla da aggiungere. Vent’anni or sono, ella confessava ciò che oggi di nuovo accusa; fra vent’anni, se ella si confesserà ancora, sarà la medesima ripetizione. Un’anima tiepida, se volete, non commetterà gravi peccati, ma una piccola maldicenza, una bugia, un sentimento di odio, di avversione, di gelosia, una piccola dissimulazione non le costano molto. Se non le portate tutto il rispetto ch’essa crede meritare, ve lo farà scorgere sotto il pretesto che si offende il buon Dio; ma dovrebbe dire piuttosto perché si offende lei. È vero che non lascerà di frequentare i Sacramenti, ma le sue disposizioni sono degne di compassione. Il giorno in cui vuol ricevere il suo Dio, passerà una parte della mattina a pensare ai suoi affari temporali. Se è un uomo penserà alle compere ed alle sue vendite; se è donna, penserà alla cucina ed ai figli; se è una giovinetta, al modo con cui ella vestirà; se un giovinotto, vagheggerà qualche pensiero frivolo ecc. Essa chiude il suo Dio come in una prigione oscura e sporca. Non gli dà la morte, ma Egli è in questo cuore senza gioia e senza consolazione; tutte le sue disposizioni dicono che la sua povera anima non ha appena che un soffio di vita. Dopo ricevuta la santa Comunione, questa persona non pensa gran fatto al buon Dio più degli altri giorni. Il suo modo di vivere ci mostra che essa non ha conosciuto la grandezza della sua felicità. Una persona tiepida riflette poco sulla condizione dolorosa della sua povera anima, e non ritorna quasi mai sul passato; e se frattanto pensa a far meglio, crede che avendo confessato i suoi peccati deve stare perfettamente tranquilla. Assiste alla santa Messa presso a poco come ad un’azione ordinaria; vi pensa poco seriamente e non mette alcuna difficoltà a parlare di cose ben diverse mentre vi si reca; non penserà, forse nemmeno una volta, che va a partecipare al più grande di tutti i doni che il buon Dio nella sua onnipotenza può farci. Quanto ai bisogni dell’anima, vi pensa si, ma assai debolmente; spesso anche si presenta davanti alla presenza di Dio senza sapere che cosa vuol domandargli. Essa si fa poco scrupolo di accorciare per un lieve pretesto la Via Crucis, la processione e l’acqua benedetta. Durante le sacre funzioni non vuol dormire, è vero, ed anche ha paura di essere veduta; ma non si fa la minima violenza. Quanto poi alle distrazioni durante la preghiera o la santa Messa, non vorrebbe averle; ma siccome bisognerebbe combatterle un po’, le soffre con pazienza, senza però accoglierle. I giorni di digiuno si riducono quasi a nulla, o perché  si anticipa l’ora del pasto, o perché si fa colazione abbondantemente, come se fosse pranzo, sotto il pretesto, che il cielo non lo si guadagna colla fame. Quando fa qualche buona azione, la sua intenzione non è ben retta: ora è per un favore a qualcheduno, ora per compassione, e qualche volta per piacere al mondo. Per anime di questa fatta tutto ciò che non è peccato è anzi cosa buona… Esse amano di far il bene, ma vorrebbero che non costasse loro nulla, o almeno assai poco. Desidererebbero visitare gli ammalati, ma bisognerebbe che gli ammalati venissero a trovarle essi stessi! Hanno mezzi di fare elemosine; sanno che la tal persona ne ha bisogno; ma aspettano che essa venga a domandarla, invece di prevenirla, ciò che renderebbe la loro opera ben più meritoria. Diciamo meglio, F. M., una persona che conduce una vita tiepida, non lascia di fare molte buone opere, di frequentare i Sacramenti, di assistere regolarmente a tutte le sacre funzioni; ma in tutto ciò voi non vedete che una fede debole, languida, una speranza che alla minima prova vacilla, un amore per Dio e pel prossimo che è senza ardore e senza diletto; tutto ciò che essa fa non è completamente perduto, ma poco vi manca. Alla presenza di Dio, esaminate, F. M., da qual parte siete: dalla parte dei peccatori che hanno abbandonato tutto, che non pensano affatto alla salute della povera anima loro, che si immergono nel peccato senza rimorsi? O dalla parte delle anime giuste che non vedono né cercano che Dio solo, che sono sempre portate a pensar male di se stesse, e ne sono convinte, quando vengono avvertite dei loro difetti; che pensano sempre di essere mille volte più miserabili che non si creda, e che contano per nulla tutto ciò che hanno fatto fino ad ora? Oppure siete del numero di quelle anime lasse, tiepide ed indifferenti, come io ve le ho dipinte? Per quale via camminiamo noi? Chi potrà assicurarsi di non essere né  grande peccatore, né tiepido; ma di essere del numero degli eletti? Ahimè! F. M., quanti sembrano buoni Cristiani agli occhi del mondo, ed invece sono anime tiepide, agli occhi di Dio, che conosce il nostro interno!

II. – Ma, mi direte, quali mezzi bisogna dunque adoperare per uscire da uno stato così sventurato? — F. M., se desiderate saperlo, state ben attenti. Lasciatemi tuttavia dirvi ancora che chi vive nella tiepidezza è ancor più in pericolo di chi vive nel peccato mortale, e che le conseguenze di questo stato sono forse più funeste. Eccovene la prova. Un peccatore che non fa Pasqua, o che ha abitudini cattive e peccaminose, piange di quando in quando sul suo stato, nel quale è risoluto di non morire; desidera anche di uscirne, ed un giorno lo farà. Ma un’anima che vive nella tiepidezza, non pensa ad uscirne, perché crede di essere in grazia di Dio. Che cosa dobbiamo concludere? Ecco, F. M. Quell’anima tiepida diviene un oggetto insipido, disgustoso e stomachevole agli occhi di Dio, che finisce per vomitarla dalla sua bocca; cioè la maledice e la rigetta. O mio Dio! quante anime fa perdere questo stato! Se si vuol far uscire un’anima tiepida dalla sua dolorosa condizione, questa risponde che non vuol essere una santa; che ne ha abbastanza d’andare in cielo. Voi non volete essere una santa, dite; ma in cielo non ci vanno che i santi. O esser santo, o esser dannato: non v’è via di mezzo. – Se volete uscire dalla tiepidezza, F. M., trasportatevi di quando in quando alla porta dell’abisso, dove si sentono le grida e le urla dei dannati, e vi formerete un’idea dei tormenti che essi soffrono per aver trattato con tiepidezza, anzi negligenza, l’affare della loro salute. Portate il vostro pensiero al cielo, e vedete la gloria dei Santi che hanno combattuto e si son fatti violenza mentre erano sulla terra. Trasportatevi, F. M., nel fondo dei deserti, e vi troverete quelle moltitudini di santi che hanno passato cinquanta, settant’anni a piangere i loro peccati nei rigori della penitenza. Vedete, F. M., ciò che han fatto per meritare il cielo. Vedete quale rispetto avevano della presenza di Dio; quale devozione nello loro preghiere, che duravano quanto la loro vita. Essi avevano abbandonato le ricchezze, i parenti, gli amici per non più pensare che a Dio solo. Vedete il loro coraggio nel combattere le tentazioni del demonio. Vedete lo zelo o la premura di quelli che erano chiusi nei monasteri per rendersi degni di accostarsi spesso ai Sacramenti. Vedete il loro gusto nel perdonare e nel far del bene a tutti quelli che li perseguitavano, li odiavano e parlavano male di loro. Vedete la loro umiltà, il disprezzo di se stessi, la felicità nel vedersi disprezzati, e quanto temevano di essere lodati e stimati dal mondo. Vedete con quale attenzione evitavano i più piccoli peccati e quante lagrime hanno versato sui loro trascorsi. Vedete quale purità d’intenzione in tutte le loro buone opere: non avevano di mira che Dio solo, ed a Lui solo desideravano di piacere. Che devo dirvi ancora? Vedete quelle schiere di martiri, mai sazi di patire, che salgono sui roghi con più gioia che i re sui loro troni. – Concludiamo, F. M. Non v’è stato più da temere che quello d’una persona, la quale vive nella tiepidezza, perché si convertirà più facilmente un grande peccatore piuttosto che una persona tiepida. Domandiamo con tutto il nostro cuore a Dio, se siamo in questo stato, di farci la grazia di uscirne, per prendere la via che tutti i Santi hanno presa, e arrivare alla felicità che essi godono. E ciò che vi auguro.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Exod. XXIV: 4; 5
Sanctificávit Móyses altáre Dómino, ófferens super illud holocáusta et ímmolans víctimas: fecit sacrifícium vespertínum in odórem suavitátis Dómino Deo, in conspéctu filiórum Israël.

[Mosè edificò un altare al Signore, offrendo su di esso olocausti e immolando vittime: fece un sacrificio della sera, gradevole al Signore Iddio, alla presenza dei figli di Israele.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes éfficis: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.

[O Dio, che per mezzo dei venerandi scambii di questo sacrificio, ci rendi partecipi della tua sovrana e unica divinità, concedi, Te ne preghiamo, che, come conosciamo la verità, cosí la conseguiamo con degna condotta.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XCV: 8-9
Tóllite hóstias, et introíte in átria ejus: adoráte Dóminum in aula sancta ejus.

 [Prendete le vittime ed entrate nel suo atrio: adorate il Signore nel suo santo tempio.]

Postcommunio

Orémus.
Grátias tibi reférimus, Dómine, sacro múnere vegetáti: tuam misericórdiam deprecántes; ut dignos nos ejus participatióne perfícias.

[Nutriti del tuo sacro dono, o Signore, Te ne rendiamo grazie, supplicando la Tua misericordia di renderci degni di raccoglierne il frutto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA TIEPIDEZZA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)                                

Sulla tiepidezza.

« Sed quia tepidus es, et nec frigidas, nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo. »

(Apoc. II, 16).

Possiamo noi, Fratelli miei, ascoltare senza terrore una tale sentenza dalla bocca di Dio stesso, contro un Vescovo che sembrava adempisse perfettamente tutti i doveri di un degno ministro della Chiesa? La sua vita era ben regolata, le sue ricchezze distribuite come coscienza esigeva. Lungi dal tollerare il vizio, vi si opponeva energicamente: non dava cattivi esempi, e la sua vita sembrava veramente degna d’essere imitata. Eppure, malgrado tutto ciò, vediamo che il Signore gli fa dire da S. Giovanni che se avesse continuato a vivere così, lo avrebbe rigettato, cioè punito e riprovato. Sì, F. M., questo esempio è tanto più spaventoso in quanto che molti seguono la stessa via, vivono in modo simile, eppure tengono certa la loro salute. Ahimè! F. M., quant’è grande il numero di coloro che non sono né tra i peccatori già riprovati agli occhi del mondo, né tra gli eletti. Su quale strada camminiamo noi? È giusta quella che noi percorriamo? Quello che ci deve far tremare è che non ne sappiamo nulla. Quale spaventosa incertezza!… Cerchiamo frattanto di conoscere se abbiamo la somma disgrazia di essere nel numero dei tiepidi. Io voglio mostrarvi 1° a quali segni potete conoscere se appartenete al numero dei tiepidi; 2° se avete la disgrazia di esser di questo numero, vi indicherò i mezzi per uscirne.

I. — Parlandovi oggi, F. M., dello stato spaventevole di un’anima tiepida, non è mio disegno di farvi il ritratto pauroso e disperato di un’anima che vive nel peccato mortale, senza neanche il desiderio di uscirne: questa povera disgraziata non è che una vittima della collera di Dio per l’altra vita. Ahimè! tali peccatori mi ascoltano; essi sanno di chi parlo in questo momento….. Ma non andiamo più lontano; tutto ciò che direi non servirebbe che a indurirli di più. Parlandovi d’un’anima tiepida, F. M., io non voglio parlarvi di coloro che non si confessano, né fanno Pasqua; essi sanno benissimo che, malgrado tutte le loro preghiere e le altre buone opere, si perderanno. Lasciamoli nel loro accecamento, giacché vogliono restarvi. — Ma, mi direte, tutti quelli che si confessano, fanno la loro Pasqua e si comunicano spesso, non si salveranno? — Ve lo assicuro, amici miei, tutti no; perché se la maggior parte di coloro che frequentano i Sacramenti si salvasse, bisognerebbe convenire che il numero degli eletti non sarà così piccolo come realmente sarà. Ma, tuttavia, riconosciamolo: tutti quelli che avranno la somma ventura di andare in cielo, saranno scelti senz’altro tra coloro che frequentano i Sacramenti, e non tra quelli che non fanno Pasqua, né si confessano. Ah! mi direte, se tutti coloro che non fanno Pasqua, né si confessano si danneranno, dovrà essere ben grande il numero dei reprobi! — Sì, senza dubbio, sarà grande. E checché possiate dirne, se vivete da peccatori, dividerete la loro sorte. E questo pensiero non vi commuove?… Se non siete induriti fino all’ultimo segno, deve farvi fremere ed anche disperare. Ahimè! Dio mio! quant’è disgraziata una persona che ha perduta la fede! Lungi dall’approfittare di queste verità, quei poveri ciechi, al contrario, se ne rideranno; eppure dicano quel che vogliono, sarà come vi dico io: senza Pasqua e senza confessione, né cielo, né felicità eterna. O mio Dio! quanto è orribile l’accecamento del peccatore! Neppure intendo, F. M., per anima tiepida, chi vorrebbe essere del mondo senza cessare d’essere di Dio: voi lo vedrete ora prostrarsi davanti a Dio, suo Salvatore e Signore; ed ora prostrarsi davanti al mondo, suo idolo. Povero cieco, che stende una mano al buon Dio e l’altra al mondo; li chiama tutti e due in suo aiuto, promettendo a ciascuno il suo cuore! Egli ama Dio; vorrebbe almeno amarlo; ma vorrebbe anche piacere al mondo. Stanco alla fine di stare con tutti e due, termina col darsi al mondo. Vita strana, codesta vita che presenta uno spettacolo così singolare che non si riesce a persuadersi che possa essere la vita di una sola persona. Ve lo mostrerò in modo così chiaro che, forse, molti tra di voi se ne offenderanno; ma, poco m’importa; io vi dirò sempre ciò che devo dirvi: voi farete ciò che vorrete. – Io dico, F. M., che chi vuol essere del mondo senza cessare d’essere di Dio, conduce una vita così strana, che riesce impossibile conciliarne le differenti circostanze. Ditemi, osereste voi pensare che quella giovane che vedete a quei piaceri, a quelle riunioni mondane dove non si fa che male e bene mai, e, in esse si abbandona a tutto ciò che un cuore guasto e perverso può desiderare, è la stessa che avete visto, appena quindici giorni od un mese fa, al tribunale di penitenza confessare le sue colpe, protestando a Dio d’essere pronta a morire piuttosto che ricadere nel peccato? È proprio quella che avete visto accostarsi alla sacra Mensa cogli occhi dimessi e la preghiera sul labbro? Dio mio, quale orrore! Vi si può pensare senza provare una stretta al cuore? Credereste, F. M., che quella madre, la quale tre settimane or sono mandava la sua figliuola a confessarsi, giustamente raccomandandole di pensar bene a ciò che stava per compiere e dandole anche un rosario od un libro; oggi le dice di andare ad una festa da ballo, ad un matrimonio o a degli sponsali? Quelle stesse mani che le hanno dato un libro, ora sono affaccendate ad accomodare le sue vanità, affinché meglio piaccia al mondo. Ditemi, F. M., è proprio quella persona che stamattina in chiesa cantava le lodi di Dio, ed ora adopera la stessa lingua per cantare cattive canzoni, e per tenere discorsi i più infami? È forse il medesimo quel padrone o quel padre che or ora assisteva alla S. Messa con grande rispetto e sembrava voler passare santamente la Domenica e che invece vedete lavorare e far lavorare i suoi dipendenti? Mio Dio! Quale orrore! come il buon Dio accomoderà tutto ciò nel giorno del giudizio? Ahimè! quanti Cristiani dannati! Io dico ancor di più, F. M., colui che vuol piacere al mondo ed al buon Dio, conduce una vita delle più disgraziate. Vedetelo. Ecco una persona che frequenta i piaceri, o che ha contratto qualche cattiva abitudine; quale non è il suo timore quando adempie i doveri di religione, cioè quando prega il buon Dio, quando si confessa e si comunica? Non vorrebbe esser vista da coloro coi quali ha danzato, e coi quali ha passato le notti nelle bettole dandosi ad ogni sorta di disordini. È riuscita ad ingannare il suo confessore, nascondendogli quanto ha fatto di peggio, ed ha ottenuto il permesso di comunicarsi, o meglio di fare un sacrilegio: vorrebbe comunicarsi o prima o dopo la Messa, cioè quando v’è meno gente. Ma essa è contenta di esser vista dalle persone dabbene, che ignorano la sua cattiva vita, e alle quali spera d’ispirare una buona opinione di sé. Con persone pie, parla di pietà; con gente senza religione non parlerà che dei piaceri del mondo. Essa arrossirebbe di compiere le sue pratiche religiose davanti ai compagni o compagne di stravizi. E questo è tanto vero, che un giorno uno m’ha domandato di comunicarlo in sacristia, perché nessuno lo vedesse. Che orrore! F. M., si può pensare, senza fremere, ad una tale condotta? – Ma andiamo avanti, e vedrete l’imbarazzo di queste povere persone che vogliono seguire il mondo senza abbandonare, almeno in apparenza, il buon Dio. Si avvicina la Pasqua. Bisogna andarsi a confessare; esse non lo desiderano, e neppure ne sentono il bisogno: desidererebbero anzi che la Pasqua venisse ogni trent’anni. Ma i loro genitori ci tengono ancora alla pratica esteriore della religione; essi sono contenti che i figli si accostino alla sacra Mensa, e li sollecitano anche di andarsi a confessare: in ciò fanno malissimo. Preghino piuttosto per essi e non li tormentino affinché abbiano a commettere dei sacrilegi; ahimè! ne faranno abbastanza lo stesso. Per liberarsi dall’importunità dei genitori, per salvare le apparenze, queste persone si uniranno insieme per sapere quale confessore bisogna scegliere, confessore che dia l’assoluzione la prima o almeno la seconda volta. “E già un po’ di tempo, dice uno, che i genitori mi tormentano perché non vado a confessarmi. Da chi andremo?„ — “Non bisogna andare dal nostro parroco; è troppo scrupoloso; certo non ci lascerebbe far Pasqua. Bisogna andar dal tale. Egli ha assolto il tale ed il tale, che ne hanno fatte al par di noi. Certo più di loro noi non ne abbiam commesso. „ E un’altra dirà: “Ti assicuro, che se non fosse pei miei genitori, io non farei Pasqua; poiché il catechismo ci dice che per fare una buona confessione bisogna abbandonare il peccato e le occasioni di peccato, e noi non facciamo né l’una cosa né l’altra. Te lo dico sinceramente: quando arriva la Pasqua per me è un bell’imbarazzo. Non vedo che l’ora di collocarmi per non avere più impicci. Allora farò la confessione generale di tutta la mia vita per riparare quella che faccio ora, altrimenti non vivrei contenta. „ — “Ebbene! gli dirà un’altra, bisognerà che ritorni da chi t’ha confessato fino ad ora: egli ti conoscerà meglio. „ — “Ah! certo no; io andrò da chi non voleva assolvermi, perché non voleva che mi dannassi. „ — “Ah! come sei ingenua! Ciò non importa, tutti i sacerdoti hanno lo stesso potere. „ — “Va bene dir cosi finché si è sani; ma quando si è ammalati si pensa diversamente. Un giorno, io andai a trovare una tale che era gravemente ammalata: ed ella mi disse che mai sarebbe tornata a confessarsi da quei sacerdoti così larghi, che mentre sembra vi vogliano salvare, vi mandano all’inferno. „ E fanno infatti così questi poveri ciechi. « Padre, dicono al prete, io vengo a confessarmi da voi, perché il nostro parroco è troppo scrupoloso. Pretende che noi promettiamo cose che poi non possiamo fare; vorrebbe che fossimo dei santi, e ciò non è davvero possibile in mezzo al mondo. Vorrebbe che non ponessimo più piede alle feste da ballo, e che non frequentassimo né le osterie né i divertimenti. Se si ha qualche cattiva abitudine non dà più l’assoluzione fino a che non l’abbiamo lasciata. Se bisognasse fare tutto questo non potremmo mai più fare la Pasqua. I miei genitori, che sono molto religiosi, mi stancano continuamente perché non faccio la Pasqua. Io farei tatto ciò che potrei; ma non si può promettere di non ritornar più a questi divertimenti, poiché non si sanno le occasioni che possono capitare. „ — “Ah! dirà il confessore ingannato da questo bel linguaggio, il vostro parroco è un po’ troppo scrupoloso. Fate il vostro atto di contrizione, vi darò l’assoluzione, e procurate di far sempre bene. „ Cioè, abbassate la testa; voi siete per calpestare il Sangue adorabile di Gesù Cristo, siete per vendere il vostro Dio come Giuda l’ha venduto ai suoi carnefici, e domani vi comunicherete, o meglio, andrete a crocifiggerlo. O orrore! O cosa abbominevole! Va, o Giuda infame, va alla sacra Mensa; va a dar la morte al tuo Dio e al tuo Salvatore! Lascia che la tua coscienza gridi; cerca solo di soffocarne i rimorsi, fin che lo potrai… Ma, F. M., io mi allontano troppo; lasciamo questi poveri ciechi nelle loro tenebre. Io credo, F. M., che voi desideriate sapere qual è lo stato d’un’anima tiepida. Ebbene! eccolo. Un’anima tiepida non è ancor morta del tutto agli occhi di Dio, perché la fede, la speranza e la carità, che sono la sua vita spirituale, non sono del tutto spente. Ma, è una fede senza zelo, una speranza senza fermezza, una carità senza ardore. Vi farò il ritratto d’un Cristiano fervente, d’un Cristiano cioè che desidera davvero di salvare la sua anima, ed insieme vi farò quello di un’anima tiepida nel servizio di Dio. Mettiamoli uno di fronte all’altro, e vedrete a quale dei due rassomigliate. – Un buon Cristiano non si accontenta di credere tutte le verità della nostra santa Religione, ma le ama, le medita, cerca tutti i mezzi per impararle, desidera sentire la parola di Dio; più la sente e più desidera sentirla, perché vuole approfittarne, evitare cioè tutto ciò che Dio gli proibisce, e fare tutto ciò che Egli comanda. Le istruzioni non gli sembrano mai troppo lunghe; anzi questi sono i momenti più felici per lui, poiché impara il modo di condursi per andare in cielo e salvare la sua anima. Non solo crede che Dio lo veda in tutte le sue azioni e che dopo la morte le giudicherà tutte; ma trema ancora ogni qualvolta pensi dover egli render conto di tutta la sua vita ad un Dio, che non avrà misericordia pel peccato. E non si contenta di pensarvi e di tremare, ma lavora ogni giorno per correggersi; non cessa d’inventare ogni giorno nuovi mezzi per fare penitenza; conta per nulla ciò che ha fatto finora, e si addolora d’aver perduto molto tempo, nel quale avrebbe potuto raccogliere grandi tesori pel cielo. – Quanto invece è differente il Cristiano che vive nella tiepidezza! Accetta sì tutte le verità che la Chiesa crede ed insegna, ma in un modo così debole, che sembra credervi, direi, ben poco. Non dubita, è vero, che Dio lo vede, che egli è sempre alla sua santa presenza; ma con questo pensiero non è né più buono, né meno cattivo; cade con tanta facilità nel peccato come se non credesse nulla, è persuasissimo che, finché vive in questo stato, è nemico di Dio, ma non cerca per questo di uscirne. Sa che Gesù Cristo ha dato al sacramento della Penitenza la facoltà di rimettere i nostri peccati e di farci progredire nella virtù. Sa che questo Sacramento ci accorda grazie proporzionate alle disposizioni che vi portiamo; non importa: sempre la medesima negligenza, la medesima tiepidezza nella pratica. Sa che Gesù Cristo è veramente presente nel sacramento dell’Eucaristia, che è un nutrimento assolutamente necessario per l’anima sua; eppure vedete in lui ben poco desiderio di questo cibo. Le sue confessioni e le sue comunioni sono lontanissime l’una dall’altra; non vi si deciderà che all’occasione d’una grande festa, d’un giubileo o d’una missione, oppure perché gli altri vi vanno, ma non per il bisogno della sua povera anima. Non solo non si sforza per meritare questa grazia; ma non invidia nemmeno quelli che vi si accostano più spesso. Se gli parlate delle cose del buon Dio, vi risponde con una indifferenza, che vi mostra come il suo cuore sia poco sensibile ai conforti, che possiamo trovare nella nostra santa religione. Nulla lo commuove: ascolta la parola di Dio, è vero; ma spesso s’annoia; ascolta con fatica, per abitudine, come una persona che pensa di saperne o di fare abbastanza. Le preghiere un po’ lunghe lo disgustano. Il suo spirito è così pieno dell’azione che ha appena fatto, o di quella che sta per fare; la noia è sì grande, che la sua povera anima è come in agonia; vive ancora, ma non è più capace di nulla per il cielo. – La speranza d’un buon Cristiano è ferma; la sua confidenza in Dio è irremovibile. Non perde mai di vista i beni ed i mali dell’altra vita. Il ricordo dei dolori di Gesù Cristo è continuamente presente al suo spirito; il suo cuore ne è sempre occupato. Ora porta il suo pensiero all’inferno, per capire quanto è grande la punizione del peccato e la disgrazia di chi lo commette, ciò che lo dispone a preferire la morte al peccato; ora per eccitarsi all’amor di Dio e per provare quant’è felice chi preferisce il buon Dio a tutto, porta il suo pensiero al cielo. Allora comprende quanto è grande la ricompensa di chi abbandona ogni cosa pel Signore; e non desidera che Lui, non vuole che Lui solo; i beni di questo mondo per lui sono nulla; ne gode al vederli disprezzati, e nel disprezzarli lui stesso; i piaceri del mondo gli fanno orrore. Pensa che, come seguace di un Dio crocifisso, la sua vita non debba essere che una vita di lagrime e di sofferenze. La morte non lo spaventa affatto, perché sa benissimo che essa sola può liberarlo dai mali della vita e riunirlo per sempre al suo Dio. Ma un’anima tiepida è ben lontana da questi sentimenti. I beni ed i mali dell’altra vita le importano quasi nulla: pensa al cielo sì, ma non ha il vero desiderio di andarvi. Sa che il peccato le ne chiude le porte; ciò non ostante, non cerca di correggersi, almeno in modo efficace: perciò è sempre la stessa. Il demonio l’inganna facendole prendere molte risoluzioni di convertirsi, di far meglio, d’essere più mortificata, più ritenuta nelle parole, più paziente nei dolori, più caritatevole verso il prossimo. Ma tutto questo non cambia la sua vita: son già venti anni, che ella è piena di buoni desideri, senza aver modificato in nulla le sue abitudini. Essa rassomiglia ad uno che invidia chi è su di un carro trionfale, ma non muove nemmeno un piede per salirvi. Non vorrebbe certo rinunciare ai beni eterni per quelli della terra; ma non desidera né di uscire da questo mondo, né di andare in cielo, e se potesse passare il suo tempo senza croci e senza angustie, non domanderebbe mai di uscire da questo mondo. Se la sentite dire che la vita è troppo lunga e troppo miserabile, è solo quando tutto non va a seconda de’ suoi desideri. Se il buon Dio per sforzarla in qualche modo a staccarsi dalla vita, le manda delle croci o delle miserie, eccola che si tormenta, si angustia, si abbandona alle lagrime, ai lamenti, e spesso ad una specie di disperazione. Sembra non voglia più riconoscere che è il buon Dio che le manda queste prove per suo bene, per staccarla dalla vita e attirarla a sé. Che cosa ho fatto per meritarmi tutto questo? pensa tra sé; molte altre più colpevoli non patiscono tutto ciò che soffro io. Nella prosperità, l’anima tiepida, non arriva fino a dimenticare il buon Dio, ma non dimentica neppure se stessa. Sa raccontare molto bene i mezzi adoperati per riuscire; crede che molte altre difficilmente avrebbero ottenuto il medesimo successo; è contenta nel ripeterlo o nell’udirlo ripetere; ogni volta che lo sente prova una novella gioia. Davanti a quelli che l’adulano, prende un’aria amabile, affettuosa, ma coloro che non le hanno portato tutto il rispetto ch’essa crede meritare, o che non sono stati riconoscenti ai suoi favori, li guarda con un’aria fredda, indifferente, e sembra dir loro ch’essi sono ingrati, che non meritavano di ricevere il bene ch’essa ha loro fatto. – Un buon Cristiano, F. M., assai lontano dal credersi degno di qualche cosa, e capace di fare il minimo bene, non ha davanti agli occhi che la sua miseria. Non si fida di coloro che lo adulano, considerandoli quali altrettanti lacci che il demonio gli tende; i suoi migliori amici sono quelli che gli fanno conoscere i suoi difetti, perché sa che per correggersene bisogna assolutamente conoscerli. Fugge l’occasione del peccato, quanto può; ricordandosi che ben poco occorre per farlo cadere; non fa alcun assegnamento sulle sue risoluzioni, né sulle sue forze, e nemmeno sulla sua virtù. Conosce, per esperienza, che non è capace che di peccare, e mette ogni confidenza e speranza in Dio solo. Sa che il demonio nulla più teme quanto un’anima la quale ama la preghiera; e questo lo spinge a fare della sua vita una continua preghiera, un’unione intima con Dio. Il pensiero di Dio gli è frequente quanto il respiro; innalza spesso a Lui il suo cuore; si compiace di pensare a Lui, come al Padre suo celeste, all’amico, al suo Dio che l’ama, e che desidera così ardentemente di renderlo felice in questo mondo, e ancor più nell’altro. Un buon Cristiano, F. M., raramente si occupa delle cose della terra; e se gliene parlano mostra tanta indifferenza quanta ne mostra la gente del mondo quando si parla loro dei beni dell’altra vita. Infine, fa consistere la sua felicità nelle croci, nelle afflizioni, nella preghiera, nei digiuni o nel pensiero della presenza di Dio. Un’anima tiepida, non perde del tutto, se volete, la confidenza in Dio; ma non diffida abbastanza di se stessa. Sebbene si esponga assai spesso all’occasione di peccato, pure crede che non cadrà; e se cade, attribuisce la sua caduta al prossimo, e protesta che un’altra volta sarà più forte. – Chi ama veramente il buon Dio, F. M., ed ha a cuore la salute della sua anima, prende tutte le precauzioni possibili affin d’evitare l’occasione del peccato. Non si accontenta di evitare i grossi falli; ma sta attento per distruggere il minimo difetto che trova in sé. Considera sempre come un gran male tutto ciò che possa dispiacere anche solo minimamente a Dio; o meglio, tutto ciò che non piace a Dio, dispiace anche a lui. Egli si considera come ai piedi di una scala, alla sommità della quale deve salire; vede che per giungervi non ha tempo da perdere; e così cresce ogni giorno di virtù in virtù aspettando l’eternità. È un’aquila che fende l’aria; o meglio è un lampo che nulla perde della sua rapidità, dal momento in cui appare a quello in cui si dilegua. Sì, F. M., ecco che cosa fa un’anima che lavora per Dio e desidera vederlo. Come il lampo, essa non trova limiti né indugi, prima di inabissarsi nel seno del suo Creatore. Perché il nostro spirito si trasporta con tanta rapidità da un capo del mondo all’altro? È per mostrarci con quale rapidità dobbiamo portarci a Dio coi nostri pensieri e desiderii. Ma non è così l’amor di Dio in un’anima tiepida. Non si vedono in essa quei desideri e quelle fiamme ardenti che fanno sormontare tutti gli ostacoli che si oppongono alla salute. Se io volessi, F. M., dipingervi esattamente lo stato di un’anima che vive nella tiepidezza vi direi che essa è simile ad una tartaruga o ad una lumaca. Essa non cammina che trascinandosi per terra e la si vede appena cambiar posto. L’amor di Dio, che essa sente nel suo cuore, è simile ad una piccola scintilla nascosta sotto un cumulo di cenere; questo amore è avviluppato da tanti pensieri e desideri terreni, che, se non lo soffocano, ne impediscono il progresso e l’estinguono a poco a poco. L’anima tiepida giunge al punto d’essere indifferente per la sua rovina. Non ha che un amore senza tenerezza, senza attività e senza forza, che la sostiene appena in tutto ciò che è essenzialmente necessario per salvarsi; ma quanto al resto, lo riguarda come nulla o come cosa da poco. Ahimè! F. M., questa povera anima nella sua ltiepidezza è come una persona tra due sonni. Vorrebbe agire; ma la volontà è talmente fiacca che non ha né la forza, né il coraggio per soddisfare i suoi desiderii. – È vero che un Cristiano che vive nella tiepidezza adempie ancora molto regolarmente i suoi doveri, almeno in apparenza. Farà tutte le mattine la sua preghiera in ginocchio; frequenterà i Sacramenti, tutti gli anni, a Pasqua, ed anche più volte all’anno; ma in tutto questo v’è tanto disgusto, tanto rilassamento e tanta indifferenza, così poca preparazione, così poco cambiamento nel modo di vivere, che si vede chiaramente come egli adempia i suoi doveri per abitudine; perché ricorre una festa, ed è abituato a compierli in quella circostanza. Le sue confessioni e le sue comunioni non sono sacrileghe, se volete; ma sono confessioni e comunioni senza frutto, che, lungi dal renderlo più perfetto e più caro a Dio, lo rendono invece più colpevole. Quanto alle sue preghiere, Dio solo sa come son fatte: ahimè, senza preparazione. Alla mattina, non si occupa del buon Dio né della salute della sua povera anima; ma pensa solo a ben lavorare. Il suo spirito è talmente preoccupato dalle cose della terra, che il pensiero di Dio non vi trova posto. Pensa a ciò che farà durante il giorno, dove manderà i figli ed i domestici, come farà per terminare il suo lavoro. Per fare la preghiera si mette in ginocchio sì, ma non sa né che cosa vuol domandare al buon Dio, né che cosa gli è necessario, e neppure a chi si trova davanti; i suoi modi così poco rispettosi lo fanno conoscere. È un povero che, quantunque molto miserabile non vuol nulla, ed ama la sua povertà. È un ammalato quasi disperato, che disprezza medici e medicine ed ama le sue infermità. Voi vedete quest’anima tiepida parlare senza tanta difficoltà, e per il minimo pretesto, durante le sue preghiere; per un nonnulla le abbandona, almeno in parte, pensando che le farà in un altro momento. Vuol essa offrire la sua giornata a Dio, dire il Benedìcite e l’Agimus? Fa tutto questo, sì; ma spesso senza pensare a ciò che dice. Non interromperà lo stesso il suo lavoro. È un uomo? Farà girare il berretto od il cappello tra le mani, come per esaminare se è buono o no, quasi volesse venderlo. È una donna? Essa li reciterà tagliando il pane per la zuppa, o mettendo la legna sul fuoco, oppure sgridando i figli o i domestici. Le distrazioni nella preghiera non sono volontarie, se lo volete; si preferirebbe non averle; ma siccome bisogna sforzarsi un po’ per scacciarle, si lasciano andare e venire a lor piacimento. Un’anima tiepida non lavora forse, la Domenica, in opere che sembrano proibite a quelle persone che hanno un po’ di religione; ma fare qualche punto coll’ago, accomodare qualche cosa negli utensili di cucina, mandare i mandriani al campo durante le funzioni sotto pretesto che non c’è più nulla da dare alle bestie: di ciò essa non si fa scrupolo, e preferisce lasciar perire la propria anima e quelle dei propri operai, piuttosto che lasciar perire le bestie. Un uomo aggiusterà i suoi strumenti, le suo carrette pel domani; andrà a visitare i campi, turerà un buco, taglierà qualche corda; porterà e metterà in assetto altre cose. Che ne dite, F. M.? non è questa, ahimè! la pura verità ?… Un’anima tiepida si confesserà ogni mese ed anche più spesso. Ma, ahimè, quali confessioni! Nessuna preparazione, nessun desiderio di correggersi: oppure sono così deboli e così piccoli, che il primo colpo di vento li abbatte. Tutte le sue confessioni non sono che una ripetizione delle antiche, e fortunata se non v’è nulla da aggiungere. Vent’anni or sono, ella confessava ciò che oggi di nuovo accusa; fra vent’anni, se ella si confesserà ancora, sarà la medesima ripetizione. Un’anima tiepida, se volete, non commetterà gravi peccati, ma una piccola maldicenza, una bugia, un sentimento di odio, di avversione, di gelosia, una piccola dissimulazione non le costano molto. Se non le portate tutto il rispetto ch’essa crede meritare, ve lo farà scorgere sotto il pretesto che si offende il buon Dio; ma dovrebbe dire piuttosto perché si offende lei. È vero che non lascerà di frequentare i Sacramenti, ma le sue disposizioni sono degne di compassione. Il giorno in cui vuol ricevere il suo Dio, passerà una parte della mattina a pensare ai suoi affari temporali. Se è un uomo penserà alle compere ed alle sue vendite; se è donna, penserà alla cucina ed ai figli; se è una giovinetta, al modo con cui ella vestirà; se un giovinotto, vagheggerà qualche pensiero frivolo ecc. Essa chiude il suo Dio come in una prigione oscura e sporca. Non gli dà la morte, ma Egli è in questo cuore senza gioia e senza consolazione; tutte le sue disposizioni dicono che la sua povera anima non ha appena che un soffio di vita. Dopo ricevuta la santa Comunione, questa persona non pensa gran fatto al buon Dio più degli altri giorni. Il suo modo di vivere ci mostra che essa non ha conosciuto la grandezza della sua felicità. Una persona tiepida riflette poco sulla condizione dolorosa della sua povera anima, e non ritorna quasi mai sul passato; e se frattanto pensa a far meglio, crede che avendo confessato i suoi peccati deve stare perfettamente tranquilla. Assiste alla santa Messa presso a poco come ad un’azione ordinaria; vi pensa poco seriamente e non mette alcuna difficoltà a parlare di cose ben diverse mentre vi si reca; non penserà, forse nemmeno una volta, che va a partecipare al più grande di tutti i doni che il buon Dio nella sua onnipotenza possa farci. Quanto ai bisogni dell’anima, vi pensa sì ma assai debolmente; spesso anche si presenta davanti alla presenza di Dio senza sapere che cosa vuol domandargli. Essa si fa poco scrupolo di accorciare per un lieve pretesto la Via Crucis, la processione e l’acqua benedetta. Dorante le sacre funzioni non vuol dormire, è vero, ed anche ha paura di essere veduta; ma non si fa la minima violenza. Quanto poi alle distrazioni durante la preghiera o la santa Messa, non vorrebbe averle; ma siccome bisognerebbe combatterle un po’, le soffre con pazienza, senza però accoglierle. I giorni di digiuno si riducono quasi a nulla, o perché  si anticipa l’ora del pasto, o perché si fa colazione abbondantemente, come se fosse pranzo, sotto il pretesto, che il cielo non lo si guadagna colla fame. Quando fa qualche buona azione, la sua intenzione non è ben retta: ora è per un favore a qualcheduno, ora per compassione, e qualche volta per piacere al mondo. Per anime di questa fatta tutto ciò che non è peccato, è anzi cosa buona… Esse amano di far il bene, ma vorrebbero che non costasse loro nulla, o almeno assai poco. Desidererebbero visitare gli ammalati, ma bisognerebbe che gli ammalati venissero a trovarle essi stessi! Hanno mezzi di fare elemosine; sanno che la tal persona ne ha bisogno; ma aspettano che essa venga a domandarla, invece di prevenirla, ciò che renderebbe la loro opera ben più meritoria. Diciamo meglio, F. M., una persona che conduce una vita tiepida, non lascia di fare molte buone opere, di frequentare i Sacramenti, di assistere regolarmente a tutte le sacre funzioni; ma in tutto ciò voi non vedete che una fede debole, languida, una speranza che alla minima prova vacilla, un amore per Dio e pel prossimo che è senza ardore e senza diletto; tutto ciò che essa fa non è completamente perduto, ma poco vi manca. Alla presenza di Dio, esaminate, F. M., da qual parte siete: dalla parte dei peccatori che hanno abbandonato tutto, che non pensano affatto alla salute della povera anima loro, che si immergono nel peccato senza rimorsi? O dalla parte delle anime giuste che non vedono né cercano che Dio solo, che sono sempre portate a pensar male di se stesse, e ne sono convinte, quando vengono avvertite dei loro difetti; che pensano sempre di essere mille volte più miserabili che non si creda, e che contano per nulla tutto ciò che hanno fatto fino ad ora? Oppure siete del numero di quelle anime lasse, tiepide ed indifferenti, come io ve le ho dipinte? Per quale via camminiamo noi? Chi potrà assicurarsi di non essere né  grande peccatore, né tiepido; ma di essere del numero degli eletti? Ahimè! F. M., quanti sembrano buoni Cristiani agli occhi del mondo, ed invece sono anime tiepide, agli occhi di Dio, che conosce il nostro interno!

II. – Ma, mi direte, quali mezzi bisogna dunque adoperare per uscire da uno stato così sventurato? — F. M., se desiderate saperlo, state ben attenti. Lasciatemi tuttavia dirvi ancora che chi vive nella tiepidezza è ancor più in pericolo di chi vive nel peccato mortale, e che le conseguenze di questo stato sono forse più funeste. Eccovene la prova. Un peccatore che non fa Pasqua, o che ha abitudini cattive e peccaminose, piange di quando in quando sul suo stato, nel quale è risoluto di non morire; desidera anche di uscirne, ed un giorno lo farà. Ma un’anima che vive nella tiepidezza, non pensa ad uscirne, perché crede di essere in grazia di Dio. Che cosa dobbiamo concludere? Ecco, F. M. Quell’anima tiepida diviene un oggetto insipido, disgustoso e stomachevole agli occhi di Dio, che finisce per vomitarla dalla sua bocca; cioè la maledice e la rigetta. O mio Dio! quante anime fa perdere questo stato! Se si vuol far uscire un’anima tiepida dalla sua dolorosa condizione, questa risponde che non vuol essere una santa; che ne ha abbastanza d’andare in cielo. Voi non volete essere una santa, dite; ma in cielo non ci vanno che i santi. O esser santo, o esser dannato: non v’è via di mezzo. – Se volete uscire dalla tiepidezza, F. M., trasportatevi di quando in quando alla porta dell’abisso, dove si sentono le grida e le urla dei dannati, e vi formerete un’idea dei tormenti che essi soffrono per aver trattato con tiepidezza, anzi negligenza, l’affare della loro salute. Portate il vostro pensiero al cielo, e vedete la gloria dei Santi che hanno combattuto e si son fatti violenza mentre erano sulla terra. Trasportatevi, F. M., nel fondo dei deserti, e vi troverete quelle moltitudini di Santi che hanno passato cinquanta, settant’anni a piangere i loro peccati nei rigori della penitenza. Vedete, F. M., ciò che han fatto per meritare il cielo. Vedete quale rispetto avevano della presenza di Dio; quale devozione nello loro preghiere, che duravano quanto la loro vita. Essi avevano abbandonato le ricchezze, i parenti, gli amici per non più pensare che a Dio solo. Vedete il loro coraggio nel combattere le tentazioni del demonio. Vedete lo zelo o la premura di quelli che erano chiusi nei monasteri per rendersi degni di accostarsi spesso ai Sacramenti. Vedete il loro gusto nel perdonare e nel far del bene a tutti quelli che li perseguitavano, li odiavano e parlavano male di loro. Vedete la loro umiltà, il disprezzo di se stessi, la felicità nel vedersi disprezzati, e quanto temevano di essere lodati e stimati dal mondo. Vedete con quale attenzione evitavano i più piccoli peccati e quante lagrime hanno versato sui loro trascorsi. Vedete quale purità d’intenzione in tutte le loro buone opere: non avevano di mira che Dio solo, ed a Lui solo desideravano di piacere. Che devo dirvi ancora? Vedete quelle schiere di martiri, mai sazi di patire, che salgono sui roghi con più gioia che i re sui loro troni. – Concludiamo, F. M. Non v’è stato più da temere che quello d’una persona la quale vive nella tiepidezza, perché si convertirà più facilmente un grande peccatore piuttosto che una persona tiepida. Domandiamo con tutto il nostro cuore a Dio, se siamo in questo stato, di farci la grazia di uscirne, per prendere la via che tutti i Santi hanno presa, e arrivare alla felicità che essi godono. E ciò che vi auguro.

LO SCUDO DELLA FEDE (174)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (X)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO SECONDO

I MISTERI

IV. — Il mistero del peccato originale.

D. Tu hai fatto un’asserzione relativamente al peccato originale, ma non ignori lo scandalo che provoca questa nozione nell’anima contemporanea.

R. Lo ignoro così poco che spesso ho dovuto pensarvi e sono prontissimo a udirti.

D. Donde ti viene questa idea d’un peccato originale?

R. Mi viene dalla fede.

D. Non pretendi di arrivarci anche per dimostrazione?

R. No; per quanto sia utile all’interpretazione della nostra vita, questa idea non ha nulla di assolutamente indispensabile. Tuttavia la sua forza esplicativa è tale, che si ha il diritto di sottoscrivere a questa proposizione di Pascal: « L’uomo è inconcepibile senza questo mistero più che questo mistero non sia inconcepibile all’uomo ».

D. Pascal confessa una difficoltà dalle due parti.

R. Vi è difficoltà dalle due parti, e per questo noi collochiamo il peccato originale tra i misteri. Ma la partita non è uguale; si deve riconoscere insieme l’eminente difficoltà di concepire l’uomo senza il peccato originale, e la sparizione della difficoltà in presenza del dogma.

D. Dove sta la difficoltà di cui parli?

R. In quelle contradizioni della natura umana — grandezza e miseria — di cui l’autore dei Pensieri e dopo di lui Bossuet fecero un così incomparabile quadro.

D. In che cosa ciò si risolve?

R. In questo che la condizione umana apparisce così come un paradosso. Se noi siamo a un tempo grandi e miserabili, e non solo sotto diversi aspetti, ciò che si potrebbe comprendere, ma in qualche modo sotto lo stesso aspetto, considerato che le nostre stesse miserie sono grandi e le nostre stesse grandezze sono miserabili, considerato che le nostre miserie procedono da aspirazioni sublimi e le nostre grandezze vanno scegliendo miserabili oggetti, allora non siamo noi inclinati a pensare che lì sotto vi è qualche mistero?

D. Perché?

È. Perché la natura non conosce il paradosso; perché sembra che così la Provvidenza, nel suo più alto campo, contradica a se stessa.

D. Il caso dell’uomo è forse singolare a questo riguardo?

R. Sì, perché il contrasto del quale parliamo dipende da quel potere infinito di aspirazione che appartiene solo all’uomo. Lì sta il tragico della nostra condizione. Onde Pascal si arroga il diritto di dire: «Solo l’uomo è miserabile ».

D. Non assicurate voi che le contradizioni di questa vita si devono risolvere altrove?

R. Noi lo diciamo, e senza questo la nostra condizione umana sarebbe inaccettabile. Ma quando pure ciò fosse a titolo provvisorio, il piano della natura sembra veramente mancato; esso ci urta; ci pare un’organizzazione della sconfitta, e per giunta un’arte di assecondare l’ingiustizia; perché là dove la natura non ci affligge, ci tenta; per lo più ci trascina, ed è peggio.

D. Non esageri forse?

R. I segni della nostra ingiustizia nativa sono abbastanza visibili; noi siamo dediti a un egoismo mostruoso, a un orgoglio incoercibile, a una cupidigia sfrenata. In noi, l’iniquità è costitutiva, e colui che non la trova in sé la denunzia tutti i giorni negli altri; colui che non la trova in sé prova del resto un accecamento che conclude per il vizio originale di un’altra specie. «Forse che l’uomo che è diventato veramente cosciente di se stesso può veramente rispettare se stesso? » scrive Dostojewski. Questa vita che è molto al di sotto della nostra attesa, è pure, sembra, al di sotto del suo proprio diritto; essa non soddisfa alla sua propria destinazione, neppure provvisoria, e pare che accusi il suo autore, una volta ammesso il carattere del vero Dio: bontà e sapienza.

D. Di fronte a questi mali, il peccato originale è la sola ipotesi?

R. È la più naturale. Nell’umanità, tutto succede come in un individuo che si fosse liberamente corrotto, o in una razza imbastardita per i suoi vizi.

D. Riprendi tu così il ragionamento di Pascal?

R. «Per me, dice egli, confesso che appena la religione cristiana scopre questo principio che la natura degli uomini è corrotta e decaduta da Dio, questo apre gli occhi a vedere dovunque il carattere di questa Verità; perché la natura è tale, che marca dovunque un Dio perduto, e nell’uomo, e fuori dell’uomo, e una natura corrotta ». E ancora: « L’uomo non sa in quale posto mettersi; egli è visibilmente traviato e caduto dal suo vero posto senza poterlo ritrovare. Egli lo cerca con inquietudine e senza successo, nelle tenebre impenetrabili », « Ciò che c’è di grande nell’uomo, dice alla sua volta Bossuet, è un resto della sua prima istituzione; ciò che c’è di basso è il disgraziato effetto della sua caduta». Sono « miserie di grande signore » aveva detto più brevemente Pascal, « miserie d’un re spodestato ». « Contempla questo edifizio, si legge nel Sermone per la professione della signora di La Vallière, e ci vedrai dei segni di una mano divina; ma la disuguaglianza dell’opera ti farà presto osservare che il peccato vi ha mescolato del suo ».

D. Pascal pretende che la natura marchi un Dio perduto  «e nell’uomo, e fuori dell’uomo », e tu estendi forse gli effetti del peccato originale alla stessa creazione materiale?

R. Abbiamo veduto che l’uomo e il suo ambiente sono a questo riguardo solidali, e necessariamente solidali. Onde San Paolo dice senza distinguere: La creazione geme tutta quanta e soffre quasi le doglie del parto. « E i gemiti della creazione sono pieni della miseria non scandagliabile dell’uomo » (V. Hugo).

D. Ciò può sollevare attorno al peccato originale molti problemi!

R. Renouvier li solleva tutti, e prima di lui, Schopenhauer, Kant, e molti altri. Per Schopenhauer, vi è un peccato alla base dell’essere stesso, Il Cristianesimo è più riservato. Ma, come ti dicevo, sollevando un problema, avviene che se ne sollevino mille, e dei più gravi. I nostri misteri sono oscuri, ma sono grandi e, quando sono ammessi, tutto si spiega; senza di essi, tutto è miserabilmente piccolo, e niente si spiega.

D. Insomma tu ripeti dei vecchi miti.

R. Sì, il mito di Prometeo, il mito di Pandora, ed altri. Ho detto che è naturale il ritrovare nelle religioni istintive degli elementi della religione rivelata; è una confermazione; forse è l’indicazione d’una sorgente comune, rispettata qui, e alterata là.

D. In che consiste materialmente questo peccato di razza? Bisogna prendere alla lettera la storia del « frutto proibito »?

R. Nulla a ciò ti obbliga. Si tratta d’un fatto morale.

D. E qual è questo fatto morale?

R. Si può discutere della sua natura precisa; ma ogni peccato è una rivolta contro Dio, un rifiuto dell’ordine, e, a questo titolo, un orgoglio folle, anche se l’occasione di questo orgoglio è un fatto di sensualità, come si crede qui di solito.

D. Si tratterebbe in qualche modo di un doppio peccato?

E. Siccome la caduta originale ha deciso di tutto l’uomo, sarebbe naturale pensare che essa comprendesse a un tempo la sensualità, quest’orgoglio della carne, e l’orgoglio, questa sensualità dello spirito. Tuttavia, come nell’uomo ancora giusto lo spirito è a capo e facilmente domina, il primo peccato dev’essere prima di tutto un peccato d’orgoglio. Ecco l’opinione di S. Tommaso. È anche quella di Pascal, perché l’uomo peccatore « volle rendersi centro di se stesso », in vece di gravitare intorno al suo Sole.

D. Ciò si comprende con facilità per quello che riguarda un individuo; ma ciò che apparisce odioso, è la trasmissione d’un peccato individuale a tutta una razza.

È. Respingo la parola odioso, ma ammetto una volta di più il mistero.

D. Un mistero d’ingiustizia?

È. Rigetto ancora questa parola. Il pregiudizio è antico e molto diffuso: nondimeno chiedo alla tua lealtà di rinunziarvi, dopo la spiegazione che sta per seguire.

D. Ascolto.

R. Anzitutto mi permetto di osservare che migliaia d’anime purissime infinitamente delicate in fatto di giustizia, hanno riverito questo mistero, e l’incredulo, anche virtuoso, qui non ha privilegio.

D. Ammetto.

R. Dopo ciò io ragiono. Un’ingiustizia è la privazione d’un diritto. Là dove non c’è nessun diritto, ci può essere dell’arbitrio, del capriccio, tutto quello che vuoi; ma non c’è ingiustizia. Trovi tu ingiusto che un figlio di tubercolotico sia tubercolotico? che il figlio di un degenerato per colpa sua sia anche lui degenerato, anzi proclive a certi vizi senza che ci sia colpa da parte sua?

D. Ne domanderei volentieri conto alla Provvidenza.

E. La Provvidenza ti ha già esposto che essa s’incarica di trarre da ciò del bene, se gl’interessati vi consentono. Ma proseguo. Condizioni originali ci sono imposte a tutti per il fatto dei nostri ascendenti. A volte noi lo possiamo deplorare; ma non abbiamo il diritto di dire: È ingiusto. Non vi è mai ingiustizia nei dati d’un problema morale; ce ne potrebbe essere solamente nella sua soluzione, e la ragione è che l’ingiustizia suppone una giustizia a cui essa si opponga, e la giustizia il diritto. Ora di che cosa siamo noi privati in conseguenza del peccato originale? Siamo noi privati d’un diritto acquisito, d’una situazione meritata, o anche solo d’un bene in proporzione con ciò che noi siamo? No. Ci si ritira quella grazia di prima creazione alla quale l’obiettante non crede punto; si mette fine a quello stato quasi miracoloso che lo scandalizza, intendo la nostra elevazione al di sopra della natura e di quei formidabili poteri che alternativamente ci affascinano e ci schiacciano. L’incredulo ride di questi privilegi, li trova superflui: è davvero curioso vederli reclamare sotto pena d’ingiustizia!

D. L’ingiustizia è nel fatto che ci si ritira questa grazia per causa di altri.

R. Si taccerebbe d’ingiustizia un monarca che concedesse a un signore della sua corte un privilegio ereditario sotto certe condizioni di servizio, e che poi lo ritirasse perché  il servizio non è stato compiuto? La discendenza di quel signore sarebbe intanto privata; ma essa non avrebbe il diritto di lagnarsi salvo che le si togliessero inoltre i diritti che essa può avere d’altronde.

D. Ma se il vassallo rientrasse più tardi in grazia? Ora non è questo il caso nostro? Adamo, provando la sventura, non si è rialzato dalla sua colpa?

R. Sì certamente.

D. Perché egli non ci ha trasmesso il suo ravvedimento?

R. Perché questo ravvedimento non gli appartiene. Noi siamo potenti per demolire, ma nel soprannaturale non potremmo ricostruire. Il ravvedimento di Adamo e la grazia che lo consacra vengono ad Adamo per il canale della redenzione, per mezzo di quel Figlio lontano e meritevole che è Cristo, nuovo Adamo, « secondo primo uomo », che salva l’altro salvando tutta la stirpe. Di questa salute, Adamo pentito può ben godere il beneficio, e dopo lui i suoi discendenti; ma né essi né lui sono atti a trasmetterla. Se un capo di famiglia rovina i suoi figli e dissipa le loro speranze, è se poi un benefattore sostiene la sua vita e quella de’ suoi figli stessi, il danaro ricevuto non passerà per questo in eredità.

D. Ciò sarebbe possibile e sarebbe più generoso.

R. Sarebbe un altro piano, e ne giudicheremo un po’ più innanzi.

D. Ad ogni modo, tu ragioni come se gli effetti della caduta fossero tutti negativi. Ora si può ridurre così al negativo tutta « questa miseria dell’uomo » di cuì tu facesti così caso?

R. Gli effetti del peccato originale son negativi alla base, o per dir meglio privativi; noi siamo spogliati, e ne seguono degli effetti positivi per il corso naturale delle cose, come se i miei eredi di cui sopra, privati della loro nobiltà, cadessero per fatto loro o per fatto altrui in nuove sventure.

D. Tu chiami gli uomini peccatori in Adamo: dunque li ritieni responsabili, e una responsabilità non è una cosa negativa.

R. Qui vi è un equivoco. Il peccato originale è un peccato in noi; ma è un peccato di natura, uno stato, e che implica una responsabilità collettiva, in ragione del capo della stirpe, ma non una responsabilità individuale. Perciò non puniamo, propriamente parlando, colui che ne è affetto; ma poiché egli appartiene a una stirpe peccatrice, non sarà trattato come colui che appartiene a una stirpe fedele, e questa disuguaglianza non sarà ingiusta più che non lo siano le ineguaglianze sociali sotto un regime di uguaglianza di fronte alla legge, o ancora alle disuguaglianze naturali.

D. Pure tu dici dannati i bambini morti senza battesimo, ed è veramente a cagione del peccato originale.

R. Questi bambini son degli innocenti in ciò che li riguarda personalmente; d’altra parte hanno sopra di sé una colpevolezza di stirpe, e per questa ragione non godranno del benefizio gratuito annesso all’integrità di questa stirpe, all’innocenza primitiva o alla redenzione. Ma noi non li diciamo dannati in questo senso che essi sarebbero infelici; i più dei teologi, tra i quali S. Tommaso, prevedono anzi per essi una beatitudine naturale. Onde conviene eliminare qui questa parola dannazione che si presta a un grave equivoco.

D. Resta la privazione, come dici. Oro credi tu che vada pe’ suoi piedi che tutta una stirpe sia così rappresentata dal suo capo per il possesso o per la perdita d’un bene gratuito, sia pure, ma inestimabile?

R. Questo non va pe’ suoi piedi; è una libera disposizione divina, ma si ricollega a queste grandi leggi di solidarietà e di eredità, sempre più in onore nella scienza.

D. Queste leggi non si negano; per lo meno alla base, sono leggi fisiche: come avviene che ci sia solidarietà morale senza che la volontà dei discendenti partecipi alla volontà del peccatore? Nelle società umane, vi è solidarietà giuridica, perché vi è un vincolo giuridico delle volontà; vi è una specie di delegazione, del contratto mutuo, del consenso unanime.

R. Tu ne parli con precauzione, e a buon diritto. Il « contratto sociale » ha un valore interpretativo; ma tu ben sai che questo vincolo giuridico è fittizio nell’immensa maggioranza dei casi di responsabilità collettiva, sia in bene, sia in male. Di solito è la solidarietà naturale, è, come qui, l’eredità, che decidono di tutto. Difatti un’anima individuale non è attaccata a un solo corpo, ma a parecchi, a tutti quelli della sua discendenza, e per essa di tutta la stirpe.

D. Tu fai poco conto dell’individuo.

R. Sono oggi ben rari quelli i quali non riconoscono che la responsabilità puramente individuale è un pregiudizio razionalista, condannato dalla scienza sociale e dall’esperienza.

D. Confessa che qui ci resta molta oscurità.

R. Lo riconosco, ma tu parlavi di scandalo. Del resto io ho da presentare più di un’altra considerazione. Anzitutto queste leggi di solidarietà, che si sono rivolte contro di noi, potevano pure lavorare per noi; Adamo fedele ci avrebbe trasmesso tutti i suoi privilegi.

D. Dio ben sapeva che cosa ne sarebbe avvenuto.

R. Questo modo di ragionare non è accettabile; è inquinato di antropomorfismo. Abbiamo veduto, parlando della Provvidenza, che le previsioni di Dio e la sua stessa causalità non sottraggono niente alle nostre responsabilità, non modificano in nulla le relazioni temporali tra effetti e cause. Del rimanente, se tu invochi le previsioni di Dio, seguile sino in fondo, e tieni conto di ciò che non è più solamente previsione, ma disposizione effettiva, disposizione ora notificata e ora operante, cioè la redenzione. Tu ti lamenti del fatto che la legge di solidarietà ci abbia nocciuto nell’Eden: rallegrati del fatto che essa ci favorisce sul Calvario. Questi due fatti sono strettamente legati dalla Provvidenza; solo un gioco di astrazione permette di dissociarli, ed è un brutto gioco; infatti trascurare di ringraziare Dio per la redenzione a fine di prenderlo in fallo nella creazione è il fatto d’una triste ingratitudine.

D. L’eredità di Cristo non è gratuita come sarebbe stata l’altra; bisogna cooperare.

R. È gratuita per il bambino battezzato. Se l’adulto deve cooperare, cioè fare atto di libera attività virtuosa, pensi tu che gli eredi di un Adamo rimasto innocente ne sarebbero stati dispensati? Quello che Adamo non avrebbe perduto per tutti, ciascuno l’avrebbe ancora potuto perdere per conto proprio; tutti in qualche modo avrebbero dovuto riconquistarlo, preservarlo, accrescerlo. In nessuna combinazione religiosa l’uomo morale è esonerato dallo sforzo.

D. Lo sforzo sarebbe stato più facile, trovando davanti a sé minori ostacoli e molto maggiori soccorsi.

R. Facciamo il conto. Dopo la nostra adesione a Cristo, le nostre debolezze congenite si volgono in diminuzione delle nostre colpe, in lode delle nostre virtù; in certi casi, la nostra responsabilità peccatrice è annullata dalla violenza improvvisa dell’allettamento; in caso di eroismo, avviene l’opposto e ci vien contato il doppio. Tutto sommato, nulla è perduto a cagione della prima colpa, nulla è perduto se non per una tenace cattiva volontà personale. Questa situazione non è ingiusta.

D. Ciononostante io non posso trattenermi dal giudicarla arbitraria, capricciosa. Riprendo così le tue proprie parole.

R. Ne siamo noi davvero giudici? È serio criticare Dio sulla costituzione del suo universo morale più che su quella dell’universo fisico, dove noi abbiamo riconosciuta la nostra incompetenza? È il fine che decide; i piani ci sfuggono. E devono sfuggirci tanto più in quanto non si tratta qui unicamente delle leggi profonde della natura umana, già così misteriose, ma di un ordine di leggi anche più recondite, quelle del soprannaturale. Il rapporto soprannaturale dell’uomo con Dio oltrepassa l’esperienza; gli effetti della sua rottura devono avere una portata non meno segreta; essi si nascondono nel mistero di Dio intimo comunicato, e dell’unione singolare, in Lui, degli esseri invitati a questo contatto, al di sopra del tempo e di tutte le condizioni particolari.

D. Questo può abolire la personalità?

R. Anzi la personalità si rinforza, come ogni cosa al tocco del suo Creatore; ma nello stesso tempo le diverse personalità si ravvicinano; per una parte esse sfuggono agli effetti del tempo, e perciò si comprende meglio come l’una conti per l’altra, come ce lo rivelerà la comunione dei santi, e come, quaggiù, siano tutte unite nel loro capo di stirpe, formando con lui una particolarissima unità.

D. I diritti della giustizia individuale rimangono.

R. Anzi sono rinforzati, come ho detto della personalità stessa; ma vi si sovrappone una giustizia collettiva, e il congegnamento esatto ci sfugge. Il bambino morto senza battesimo e il bambino battezzato ci fanno vedere la formula alla prova, ma non ce la spiegano punto. Il primo di questi due piccoli esseri non è condannato personalmente; gli si concedono all’opposto tutti i benefizi della natura nella sua piena espansione: dunque la giustizia individuale rimane. Ma a differenza del secondo che ha potuto entrare nell’unità soprannaturale costituita dalla stirpe del Nuovo Adamo, egli non ha parte alla eredità particolare di questa stirpe; egli non è stato un eletto.

D. Perché lui, e non un altro?

E. Io ti rimando alla questione del Battesimo. Qui parliamo di solidarietà, e dico: La solidarietà soprannaturale è particolare. Essere uni in Dio, in Dio intimo, in Dio Trinità, è qualche cosa, e non è senza effetti; il caso di Cristo, vincolo del sacro fascio, ce lo insegnerà meglio. Io ne concludo che non possiamo giudicare del peccato originale e della sua trasmissione alla discendenza d’Adamo secondo i soli dati della nostra esperienza già così confusi. I bambini nel seno della loro madre non respirano come noi; una stirpe soprannaturalizzata parimenti non può aspirare Dio, se posso dire così, e poi espirarlo nelle stesse condizioni onde si adotta o si rigetta un servizio civile. La solidarietà è qui più stretta, perché il nodo dell’individuo alla stirpe è più stretto, e questo nodo è così serrato perché noi siamo legati a Dio, insieme, e ci premiamo in qualche modo nella Trinità.

D. In una parola, Adamo era noi, ed è per questo che noi pecchiamo in lui.

R. La formula è eccessiva; ma ridotta alla sua misura, è vera. Noi siamo in mezzo alle rovine appunto perché Adamo ha in sé compromesso l’edifizio morale.

D. Io resto un po’ perplesso.

R. Non vorrei trarti da una perplessità con un rimprovero; ma posso rischiare una questione che io risolvetti precedentemente contro me stesso: fuori del peccato originale, ti senti tu innocente?

D. No; ma è un poco la colpa del peccato originale; l’hai messo tu stesso all’origine delle fragilità.

R. Esso è all’origine delle fragilità, ma non per questo alla sorgente di ogni responsabilità. I mali che si attribuiscono al peccato originale sono in gran parte l’effetto dei peccati personali, accumulati e aggravati l’uno dall’altro. – Non fu detto a proposito della stessa morte: Gli uomini non muoiono, ma si uccidono? L’assenza dei doni soprannaturali facilita certamente questo stato di cose, ma non l’impone, non lo scusa. Pecchiamo tutti, tutti quanti; pecchiamo nonostante le grazie di riparazione; facciamo del peccato originale una specie di abitudineaccettata e della quale così noi diventiamo resèpnsabili. Il modo con cui ci comportiamo con Dio deve incuterci dei timori sopra ciò che sarebbero stati i nostri modi d’agire se fossimo nati « nell’innocenza dei primordi », come dice Bossuet.

D. Queste sono ipotesi.

E. Sono serie presunzioni, che alleggeriscono la responsabilità divina quanto all’istituzione di questo piano di solidarietà che ti urta. Perché finalmente che diresti, se Dio, apparendoti come a Giobbe per spiegarsi con te circa la sua condotta, si esprimesse così: Io vidi voi tutti, nell’Eden! I tempi si aprivano davanti a me. Trovandovi così al di sotto della vostra propria coscienza, io non Potevo attribuirvi una superiorità molto grande, per rapporto all’eredità del vostro progenitore peccatore. Taluni di noi avrebbero forse ragioni fondate di ricusare questo giudizio?  Ma non sono essi che si lamentano. I santi stimano cosa affatto naturale essere puniti in Adano: essi si sentono punibili; ma coloro che sono molto più punibili non lo sentono affatto. Essi dicono: Io non c’ero! Ma io dico loro: Tu c’eri; perché i tempi per me non hanno nessuna importanza, e fatta astrazione dal tempo, tutta questa fiumana di peccati individuali che dovevano seguire, non è forse anche un peccato di razza? Io vi ho ritenuti per peccatori in Adamo perché vi vedevo peccatori come Adamo. Qualcuno di voi si leverà per dire: Io, per conto mio, non merito di essere nato in un mondo di peccato, con le condizioni del peccato, perché, da parte mia, io sono senza peccato? Uno solo ha detto questo di sua propria autorità: il mio Cristo, e a una sola è stato dato per grazia di ripeterlo: la Madre sua. Ciò non si verifica di nessun altro.

D. Quando Dio parla, sì ha sempre torto!

R. Io credo che Egli parli, e dica come una volta: « È cosa buona! ».