Dom PAUL NAU Monaco di Solesmes
UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE
Saggio sull’autorità del loro insegnamento
Les Editions du Cèdre 13, Rue Mazarine PARIS
III.
Chi ascolta voi, ascolta me…
Si deve dire che le Encicliche siano infallibili? Questa, come abbiamo visto, è la domanda che ancora divide i teologi e alla quale ci siamo posti il compito di dare una risposta. Il Concilio Vaticano, nel definire l’infallibilità papale, può aver contribuito a semplificare i termini del problema, ma non ha, ahimè, indirizzato le menti verso la sua soluzione definitiva. – I Cattolici hanno avuto la loro attenzione concentrata, per così dire, sull’affermazione solenne di questo privilegio unico. Li induceva in una tentazione di dividere gli Atti della Santa Sede in due classi: le definizioni, che erano riconosciute come infallibili, e gli altri documenti che erano invece esclusi dal beneficio dell’infallibilità. In quale di queste due categorie vanno collocate le Encicliche? Tutto il problema della loro autorità è stato troppo spesso ridotto a questa formula apparentemente molto chiara, ma che in realtà porta a un vicolo cieco. Limitare il tentativo di un’identificazione tra le Encicliche e le definizioni, era certamente una soluzione allettante per la sua stessa semplicità e per l’autorità che assicurava alle lettere papali; ma questo non era tuttavia senza pericolo. Se i teologi non potessero riconoscerne la validità, quale titolo proporrebbero per stabilire l’ineguagliabile autorità che i Pontefici rivendicano per le loro Encicliche? Senza dubbio alcuni autori, seguendo il card. Billot e l’arcivescovo Perriot, si sforzerebbero di estendere la portata della definizione vaticana, al di là dei giudizi dogmatici, ad altri atti pontifici, tra i quali comprenderebbero le Encicliche (BILLOT, Tractat. de Ecclesia Christi, Romæ 1921, Tom. I, p. 632. – PERRIOT, L’Ami du Clergé, 1903, pp. 196 e 200). La maggior parte dei teologi, tuttavia, non credevano che il testo conciliare fosse suscettibile di un’interpretazione così ampia. Di conseguenza, essi furono indotti a negare alle Encicliche il privilegio dell’infallibilità, e a contentarsi di rivendicare per esse, con un’autorità dello stesso ordine di quella dei decreti delle Congregazioni, il diritto all’obbedienza totale da parte dei Cattolici (Per esempio, L. CHOUPIN, S. J. Valore delle decisioni dottrinali e disciplinari della Santa-Sede. Parigi, 1929, p. 50 e seguenti e gli autori citati ibid.) Questa posizione salvaguardava il principio della piena sovranità pontificia; tuttavia, se ne vede l’insufficienza: anche con tale autorità, le Encicliche, senza essere infallibili, potevano conservare il carattere di regola di fede e di autentica fonte di dottrina, universalmente riconosciuto nelle lettere dei primi Papi, e ancora affermato per le loro Encicliche dai Pontefici contemporanei? (Per esempio Pio IX, Quanta Cura: “Noi vogliamo e ordiniamo che tutti i figli della Chiesa Cattolica ritengano come reprobi, proscritte e condannate, ognuna delle opinioni e dottrine malvagie descritte nelle lettere precedenti. Lettere apostoliche di Pio IX, Gregorio XVI, Pio VII (Bonne Presse), p. 13. – LEONE XIII, Immortale Dei: « Se i Cattolici ci ascoltano come dovrebbero, saprebbero esattamente cosa devono pensare e fare. In teoria, prima di tutto, in opinando quidem è necessario attenersi con incrollabile aderenza a tutto ciò che i Romani Pontefici hanno insegnato e insegneranno, e ogni volta che le circostanze lo richiedano, farne pubblica professione ». B. P., vol. II, p. 54. Pio XI a sua volta, Mortalium animos, dà le Encicliche come « una regola di pensiero e di azione per i Cattolici, unde catholici accipiant quid sibi sentiendum agendumque ». B. P. IV, 87). La risposta dei teologi moderni, lasciando aperto il problema essenziale, è stata solo una infelice ritirata, le cui conseguenze non si sono fatte attendere. – Né infallibile né irreformabile, l’Enciclica non potrebbe essere oggetto di revisione da parte dal Papa stesso? Le menti preoccupate porrebbero la domanda, e andrebbero anche oltre: un’Enciclica ostacolerebbe lo sviluppo di una tesi audace, metterebbe in questa revisione possibile, attesa, tutta la loro speranza o anticiperebbero addirittura questo intervento dichiarando l’Enciclica “superata” e collocandola, con tutto il rispetto dovuto al suo rango, nell’archivio delle “questioni chiuse senza conseguenze“. « Mio giovane amico – disse una persona grave ad un sacerdote che si riferiva a una Lettera di Pio X – quando avrai un po’ di esperienza, vedrai… un’Enciclica, dopo venti anni… » (Queste righe erano già state pubblicate quando Pio XII, nella sua Allocuzione del 18 settembre 1951 ai Padri di Famiglia francesi, affermava: « Gli stessi principi che nella sua Enciclica Divini illius Magistri, il nostro predecessore Pio XI ha così saggiamente evidenziato, riguardo all’educazione sessuale e alle questioni connesse, sono – triste segno dei tempi! – congedati con un gesto della mano o un sorriso: Pio XI, si dice, l’ha scritto venti anni fa, per il suo tempo. Da allora, abbiamo fatto molta strada. » – Doc. Cath. t. 48, col. 1285, 1286). – Dal punto di vista dei nostri autori, come possiamo rispondere? Poiché, infatti, se solo le definizioni sono infallibili e se le Encicliche non sono definizioni, come si può concedere loro il privilegio dell’infallibilità? E se non sono infallibili, ma al contrario suscettibili di errore, come si può proibire che un giorno, forse molto presto, siano messe in discussione? Con una tale problematica così sommaria, siamo alla stretta finale. Ma non è proprio questo il problema che richiederebbe una revisione? Quanti esempi ci sono in teologia di problemi apparentemente irrisolvibili, semplicemente perché partono da domande mal poste! – Invece di aggiungere un altro fardello ad un dossier già pesante, vorremmo provare a rivisitare il punto di partenza stesso del dibattito, con l’aiuto dei risultati della nostra inchiesta e della luce recentemente gettata dall’Enciclica Humani Generis. Alla domanda così posta: le Encicliche sono definizioni infallibili? … ci permetteremo di sostituirne altre due: Le Encicliche possono contenere definizioni? – Le Encicliche, anche se non contengono giudizi dogmatici, possono ancora partecipare al privilegio dell’infallibilità nel loro insegnamento ordinario? – Al problema, così precisato, sarà forse più facile dare infine una risposta.
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C’è da meravigliarsi se i teologi non hanno ritenuto possibile identificare Encicliche e definizioni? Per capire la loro esitazione, basta confrontare questi due tipi di documenti. La Definizione, come il Giudizio Dogmatico, è un atto preciso del Sommo Pontefice, con il quale egli afferma, impegnando irrevocabilmente la sua suprema Autorità, che una verità è vincolante per i Cristiani (« Requiritur intentio manifesta definiendi doctrinam dando definitivam sententiam et doctrinam illam proponendo tenendam ab Ecclesia universali. » Collectio lacensis, t. VII Acta et décréta SS. Concilîi Vaticani – Relazione di Mons. GASSER – Col. 414, 2° – Citiamo d’ora in poi, Coll. Lac.). Se nelle Costituzioni che, il più delle volte, le promulgano, esse sono precedute o seguite da lunghe considerazioni, le definizioni stesse sono solitamente contenute in poche righe e hanno tutta la precisione di un testo giuridico. (Per esempio, la definizione dell’Assunzione della Madonna: « Perciò, dopo aver rivolto incessanti e supplichevoli preghiere a Dio e aver invocato le luci dello Spirito di Verità, per la Gloria di Dio Onnipotente che ha profuso la sua particolare benevolenza sulla Vergine Maria, per l’onore di suo Figlio, il Re immortale dei secoli e il vincitore della morte e del peccato, per aumentare la gloria della Sua augusta Madre e per la gioia e l’esultanza di tutta la Chiesa, per l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei beati Apostoli Pietro e Paolo e per la Nostra, Noi proclamiamo, dichiariamo e definiamo che è un dogma divinamente rivelato che Maria, l’Immacolata Madre di Dio, sempre Vergine, alla fine della sua vita terrena, è stata innalzata in anima e corpo alla gloria celeste. » Questo è il testo della definizione stessa, che occupa appena un terzo di una colonna della Documentation Catholique, t. XLVII, col. 1486; la Costituzione stessa è inserita in tredici colonne intere). – L’Enciclica, come abbiamo già visto, ha tutte le caratteristiche di una lettera, in cui il Sommo Pontefice affronta i problemi dottrinali nei toni più vari, assumendo talvolta la forma di un’esortazione, talvolta di un rimprovero, spesso di un’ampia esposizione teologica, eccezionalmente quella di un giudizio. – Le Encicliche non sono dunque delle definizioni; ma possono almeno contenerle? Messa in questi termini, sembra che il problema non possa che avere oggi una risposta affermativa. Le esitazioni che erano sorte in passato avevano il loro punto di partenza nel carattere imperativo delle definizioni, che erano vere leggi per la fede dei fedeli, e che era normale cercare in testi legislativi come quelli delle Costituzioni Apostoliche o “Decreta”, circondati da tutte le garanzie di forma, e oggetto di autentica promulgazione. (Cfr. Analecta juris pontificii, 1878, “La promulgation des lois“, col. 333-336. Molto recentemente nello stesso senso, R. NAZ., Dict. De Droit Canon., « Encyclical »: « Il Papa non sceglie la via dell’Enciclica per dare definizioni dogmatiche »). Questo argomento aveva già perso molto della sua forza dopo l’istituzione da parte di Pio X di un nuovo modo di promulgazione per i documenti romani, la loro iscrizione nella rivista ufficiale della Santa Sede, gli Acta Apostolicæ Sedis (Costituzione Promulgandi del 29 settembre 1908). Sappiamo che le Encicliche sono in primo piano negli Acta Apostolicæ Sedis, così come le Costituzioni e i Decreti. Non è più possibile arguire che per il fatto di non essere promulgate, si possa rifiutare il riconoscimento delle definizioni. Questo pretesto è mai stato valido? Senza dubbio, la Costituzione o il Decreto è lo strumento normale di una decisione vincolante, ma è lo strumento necessario, almeno quando si tratta di una sentenza del Papa stesso? Il relatore della Commissione della Fede al Concilio Vaticano già sottolineava che nessuna autorità al mondo, nemmeno quella di un Concilio ecumenico, potrebbe imporre al supremo Legislatore della Chiesa il metodo che debba usare per far conoscere le sue definizioni (cf. Col. Lac, col. 401-d, dove il relatore mostra che è impossibile per l’assemblea conciliare imporre la forma delle sue definizioni al Papa, senza cadere nell’errore che sostiene la superiorità del Concilio sul Papa. – La definizione dell’Assunzione è senza dubbio inscritta in una Costituzione dogmatica, ma era già pienamente valida prima della promulgazione di quest’ultima, dal momento in cui fu pronunciata oralmente dal Papa). « Di fatto e di diritto – scrive P. Pègues – non esiste una formula determinata che sia prescritta e necessaria. » (PÈGUES, O. P. L’Autoritè des Encycliques pontificales d’après S. Thomas, Revue Thomiste, 1904, p. 529. Vedi nello stesso senso il testo di GRÉGOIRE XVI citato qui sotto). Chi prova troppo non prova niente. Se l’argomento fosse stato impeccabile, avrebbe escluso dalle Encicliche, insieme alle definizioni, ogni decisione strettamente normativa. Ora, anche i teologi che rifiutano di riconoscere in esse delle definizioni hanno ammesso il carattere obbligatorio delle sentenze pontificie contenute nelle Encicliche. (Cfr. L. CHOUPIN, loc. cit.), e Pio XII nella Humani Generis, diede loro una conferma eclatante su questo punto (« Quodsi Summi Pontifices, in actibus suis de re hactenus controversa, data opera sententiam ferunt, omnibus patet, rem illam, secundum mentem ac voluntatem eorumdem Pontificum, quæstionem liberæ inter theologos disceptationis jam haberi non posse »). – Non c’è dubbio, quindi, che le Encicliche contengano giudizi dogmatici che devono essere imposti all’assenso dei fedeli. Affinché queste frasi siano riconosciute come vere definizioni, è solo necessario che soddisfino le condizioni specificate dal Concilio: « l’oggetto della definizione deve essere una questione di fede o di morale, il Sovrano Pontefice deve esercitare il suo ruolo di Dottore e Pastore universale, infine, l’atto stesso deve essere una sentenza senza appello » (« definimus; Romanum Pontificem, cum ex cathedra loquitur, id est, cum omnium Christianorum Pastoris et Doctoris munere fungens pro suprema sua Apostolica auctoritate doctrinam de fide vel moribus ab universa Ecclesia tenendam définit, per assistentiam divinam, ipsi in beato Petro promissam ea infallibilitate pollere, qua divinus Redemptor Ecctesiam suam in definenda doctrina de fide vel moribus instructam esse voluit; ideoqne eiusmodi Romani Pontificis definitiones ex sese, non autem ex consensu Ecclesiæ irreformabile esse. » Sess. 4, cap. 4, D B. 1839). « lnfallibilitas Romani Pontificis restricta est ratione subjecti, quando Papa loquitur tanquam doctor universalis et judex snpremns in cathedra Petri, id est, in centro, constitutus; restricta est ratione objecti, quando agitar de rebus fidei et morum; et ratione actus, quando définit quid sit credendum vel reiiciendum ab omnibus Christifidelibus » Relazione di Mons. GASSCH ai Padri del Concilio Vaticano sulle proposte di correzione del Vaticano, sulle correzioni proposte al Cap. IV delle Cost. de Ecclesia. Coll. lac, t. VII, col. 401 a.). – Fede e morale, il dominio delle definizioni, è anche, come abbiamo visto, quello delle encicliche (« ad catholicam fidem custodiendam, morumque disciplinam aut servandam aut restaurandam », Benedicti XIV Bullarium, p. IV). – Forse sarà utile ricordarlo per evitare malintesi molto frequenti, che la materia dottrinale e morale in cui si esercita il supremo Magistero non si limita alle verità formalmente rivelate, ma comporta inoltre, con tutte le prescrizioni della legge naturale (che appartiene anch’essa alla morale), ogni verità in stretta connessione della fede, che si rivela necessaria alla conservazione fedele del deposito rivelato. (Questa estensione del magistero, affermata da Pio IX nella sua lettera Tuas libenter del 21 dicembre 1863, è stata nuovamente affermata dal Concilio Vaticano alla fine della Costituzione Dei Filius: « Quoniam vero satis non est hæreticam pravitatem devitare nisi ii quoque errores diligenter fugiantur qui ad illam plus minusve accedunt, omnes officii monemus, servanai etiam constitutiones et decreta quibus pravæ hujusmodi opiniones quae isthic diserte non enumerantur ab hac sancta sede proscriptæ et prohibitæ sunt. » Const, de Fide Cath, post canones, DB. n° 1820. – Non c’è dubbio che le Encicliche siano inserite tra le Costituzioni, documenti maggiori della Santa Sede, e i semplici Decreti. – Cfr. J. C. FENTON, The doctrinal Authority of Papal Encyclicals, in The American Ecclesiastical Review, agosto 1949, p. 145. Fu per riservare questa estensione dell’oggetto del Magistero che furono scelti i termini della definizione dell’infallibilità del Papa nella Cost. Pastor æternus. Cfr. relazione GASSER, Col. lac. col. 415 e 575. Troppo spesso dimenticata, questa dottrina dovette essere oggetto di frequenti richiami, ad esempio, Decreto Lamentabili, prop. 5 – Pio XI, Casti connubii, Atti di Pio XI, B.P., VI, 307′, – Quadragesimo anno ibid. VII, 111, e molto recentemente Humani Generis di PIO XII, che riproduce il testo della Constit. Dei Filius, succitata). – La seconda condizione richiesta per una definizione non può mancare nemmeno nelle Encicliche, dove il Papa si esprime come Dottore universale, sia quando si rivolge solo ai Vescovi, per raggiungere tutto il gregge attraverso di loro, sia quando gli stessi fedeli siano inclusi tra i destinatari. Non mancano esempi in cui i Papi hanno esplicitamente rivendicato questo titolo nelle loro Encicliche (Pro Christi in terris vicarii ac supremi Pastoris et Magistri munere. Nostrum esse duximus Apostolicam attollere vocem…”. Casti connubi, B. P. VI, 245. Vedi altri esempi sopra). – Solo la terza condizione deve essere esaminata da vicino. È necessario, chiede il Concilio, che il Papa definisca, cioè intenda pronunciarsi con un giudizio inappellabile (Cfr. relazione di Mons. GASSER: « Vox définit significat, quod Papa suam sententiam… directe et terminative proférât, ita ut jam unusquisque fidelium certus esse possit de mente Sedis apostolices, de mente Romani Pontificis; ita quidem, ut certo sciat a Romano Pontifice hanc vel illam doctrinam haberi hæreticam, hæresi proximam, certam vel erroneam, etc…». Col. lac, col. 474-d, e 475-a.). – Questa intenzione, per creare un obbligo rigoroso per la fede, deve apparire chiaramente e non deve essere presupposta, soprattutto in una Lettera come l’Enciclica che, per sua natura, non è espressiva di questa intenzione. – Ascoltiamo Gregorio XVI nella sua opera « Il Trionfo della Santa Sede »: « Poiché l’uso costante della Chiesa e dei Pontefici consacra certe formule per indicare inequivocabilmente a tutta la cristianità il giudizio supremo e definitivo… ne consegue che se il Papa trascura queste formule e non esprime chiaramente che, nonostante questa omissione, intende e vuole definirsi giudice supremo della fede, si deve credere che non abbia reso il suo giudizio in questa veste (Il Trionfo della Santa Sede, Venezia, 1838, cap. XXIV, p. 558. – Tradotto da Analecta Juris Pontif. loc. cit., col. 344-345. Cfr. la relazione di Mons. GASSER: « verum hanc proprietatem ipsam et notant definitionis propri dictæ aliquatenus saltem etiam débet exprimere, cum doctrinam ab universali Ecclesia tenendam définit », coll. lac, col. 414-c. – Vedi anche HOUPIN, op. cit. p. 26: « È quando il Papa definisce, cioè quando decide definitivamente e con l’intenzione formale di chiudere tutte le discussioni o di impedirle, è allora e solo allora che è infallibile e che la sua decisione è vincolante per tutti, come articolo di fede »). Tuttavia, il significato del termine “solenne“, che è generalmente usato per designare le sentenze definitive, non deve essere frainteso. (Ha lo stesso significato nel termine “professione solenne”.) Il Papa – osserva giustamente il signor Chavasse – non è infallibile solo quando parla in circostanze solenni, come per esempio nella definizione del dogma dell’Immacolata Concezione, ma può esserlo in circostanze meno solenni; non è infatti secondo l’apparato esterno degli interventi che si deve giudicare della loro infallibilità (A. CHAVASSE. La Véritable conception de l’infaillibilité papale, in Eglise et Unité, Lille, 1948, p. 81). – Basta – affermava già il padre Pègues – che nel modo di esprimersi, qualunque sia la formula che vorrà usare, il Papa designi chiaramente la sua intenzione di risolvere definitivamente il dibattito, di fissare irrevocabilmente un punto di dottrina (L’autorité doctrinale des Encycliques Pontificales d’après S. Thomas, “Revue Thomiste”, 1904, p. 529). – Inoltre, nel suo eccellente articolo nel Dictionnaire de Théologie Catholique, M. Mangenot ha potuto scrivere: Il Papa potrebbe, se volesse, inserire delle definizioni nelle Encicliche (D. T. C. art. Encicliche cfr. PÈGUES, loc. cit. p. 531: “La definizione solenne può… essere comunicata al mondo cattolico per mezzo di un’enciclica“). Ma perché il condizionale, quando ci sono esempi già noti di definizioni in semplici Encicliche? Per citare solo una delle lettere papali di un tempo, la condanna di Pelagio da parte di Innocenzo I è ben considerata come una sentenza ex cathedra; tuttavia la leggiamo in una lettera ai Vescovi d’Africa, sorella maggiore delle nostre Encicliche (Epis. 29. In requirendis del 27.1.417: “Innocentius Aurelio et omnibus sanctis episcopis (seguono i nomi di 69 Vescovi), et ceteris qui in Carthaginensi concilio adfuerunt, dilectissimis fratribus in omino satutem“. P. L. 20-582). – Le cadette, non potrebbero contenerne, quando Benedetto XIV, e dopo di lui Pio VII, le presentano come i le fedeli continuatrici dei loro predecessori? (Benedetto XIV, « Veterem prædecessorum nostrorum… consuetudinem revocandam duximus . » Bullarium, p. IV. – PIE VII, « Dobbiamo infine obbedire, non tanto a un’usanza che risale ai tempi più remoti… quanto a una… » Diu satis. BP, p. 249. – La condanna di Lamennais,in Singulari nos, di GREGORIO XVI, sembra avere le caratteristiche di una definizione ex cathedra. La questione è stata discussa per Quanta Cura di PIO IX; è da notare però che il carattere di definizione per le condanne che portava era riconosciuto implicitamente; è da notare, tuttavia, che il carattere di definizione per le condanne che conteneva era implicitamente riconosciuto da coloro che, per negarlo al Sillabo, si sforzavano di mostrare che i due documenti non erano collegati. – Alcuni teologi hanno visto nella Pascendi di Pio X una definizione. Forse si potrebbe citare anche Casti connubii, dove le parole usate per introdurre l’affermazione della dottrina cristiana del matrimonio sono eccezionalmente solenni. « Pro Christi in terris Vicarii ac Supremi Pastoris et Magistri munere, Nostrum esse duximus Apostolicam attollere vocem… Ecclesia Catholica in signum legationes suæ divinæ, altam per os Nostrum extollit vocem atque denuo promulgat… » B.P. VI. 245 e 276). – Quando, in un’Enciclica, il Papa impone una dottrina, indicando chiaramente la sua intenzione di pronunciare una sentenza definitiva, non c’è più alcun dubbio che in gioco ci sia l’infallibilità. Ci troviamo in presenza dell’autentica Regola di Fede. Anche se questa intenzione di definire è assente dalla sentenza pontificia, né i teologi né i fedeli possono sottrarsi al dovere dell’obbedienza e chi rifiutasse l’assenso interiore non potrebbe evitare la nota di temerità (« È chiaro che un tale atteggiamento sarebbe avventato e contrario all’obbedienza e alla prudenza. » C. VAN GESTEL, O.P. Introduzione all’insegnamento sociale della Chiesa, trans. Bourgy, p. 31. – Cfr. CHOUPÎN, op. cit. p. 50 – ss. PIO XI, Casti connubii. B.P. VI, 308). – Avendo Roma pronunciato, ogni controversia è d’ora in poi proibita. Ascoltiamo i Vescovi di questa chiesa che amava definirsi “gallicana” e che non può essere sospettata di sopravvalutare l’autorità dei documenti papali. Senza dubbio, nelle rimostranze indirizzate al Re dall’Assemblea del Clero nel 1755, non è ancora un’Enciclica che è in questione. (Ma la Costituzione Unigénitas, che i parlamenti rifiutarono di ricevere, proibì che fosse riconosciuta come “Regola di Fede“). Pertanto, accettando come terreno di discussione la posizione degli oppositori che, per sottrarsi all’autorità dottrinale di un atto della Santa Sede, cercavano già di contestarlo, la posizione della Chiesa veniva messa in discussione per una questione di forma, i prelati diedero ai loro argomenti una portata sufficientemente ampia da poter essere applicata a quei giudizi pontifici che non erano definizioni in senso proprio. « Non ci si rende conto – fanno notare a Luigi XV – che si attacca di petto la saggezza e l’autorità della Chiesa… che si contraddice M. Bossuet che dichiara che le condanne generali erano utilmente praticate nella Chiesa, per dare come un primo colpo agli errori incipienti, e spesso anche l’ultimo, secondo l’esigenza dei casi e il grado di ostinazione che si trova negli spiriti (Second écrit ou Mémoire de M. l’Eveque de Meaux, pour répondre à plusieurs Lettres de M. l’Archevêque de Cambrât Nouvelle édition des Œuvres de M. Bossuet, in-4°, tom. 6, p. 304), che si disconoscono infine i diversi usi che la Chiesa può fare della sua autorità in materia di dottrina. A volte Essa elabora dei Simboli che definiscono verità rivelate, a volte emette giudizi che condannano e riprovano: Essa può mettere in entrambi i casi lo stesso grado di precisione, dichiarare ciò che è eretico, come insegnare ciò che appartiene alla Fede; ma può anche, secondo la prudenza e la necessità dei suoi figli, limitarsi a una censura più generale, condannare i Libri, senza estrarre da essi alcuna proposizione condannabile, proscrivere delle proposizioni senza qualificarle nel dettaglio; Essa può allora giudicare che sia sufficiente che i suoi figli sappiano ciò che non devono credere, come si esprime S. Agostino. Chi può negare che questa conoscenza non sia benefica per i fedeli? E chi può sostenere che abbiano il diritto di chiedere alla Chiesa che faccia loro apprendere di più? Quanti esempi si potrebbero citare di leggi che non spiegano le ragioni particolari dei divieti che si pronunciano? E se si risponde che in questi esempi l’obbedienza consista nell’astenersi esteriormente dalle azioni proibite, si sta dicendo il vero, per quanto riguarda le leggi che un’autorità puramente umana ha portato; ma i giudizi, dettati dallo Spirito di verità catturano la mente arrestando la mano; e quando la Chiesa comanda ai suoi figli di considerare delle proposizioni dottrinali come tanti veleni nocivi alla loro Fede, una sottomissione interiore può solo garantirli dal pericolo di cui li si avverte (Raccolta dei Processi Verbali delle Assemblee Generali del Clero di Francia, Parigi 1778, t. VIII, 1″ parte. Pièces justificatives: “Remontrances au Roi concernant les refus des Sacrements“, col. 168.). Senza dubbio lo scrittore delle Rimostranze insisterà un po’ troppo, in seguito, sull’autorità supplementare che l’accettazione dei Vescovi aggiungerebbe, secondo lui, alle sentenze pontificie; non di meno il carattere decisivo di quelle è affermato con un’eloquenza degna di colui che è stato appena chiamato “Monsieur Bossuet”, e una chiarezza che due secoli dopo, l’Enciclica Humani generis lo ripeterà solo, ma questa volta in una formula altrimenti concisa. – Se i Papi si pronunciano espressamente nelle loro Encicliche un giudizio su una questione fino ad allora controversa, tutti capiscono che tale questione, nel pensiero e nella volontà dei Pontefici, non è più da considerare come una questione libera tra i teologi (B.P. p. 10. Esempi di ciò si trovano negli anni successivi alla ripresa delle Encicliche da parte di Benedetto XIV. Vix pervertit ai Vescovi d’Italia, 1-11-1745. Ex omnibus ai Vescovi di Francia, 16-10- 1756. Anche la lettera di Leone XIII sulle ordinazioni anglicane risolve categoricamente il dibattito. Abbiamo su questa intenzione del Papa l’espressa affermazione dello stesso Leone XIII nella sua lettera del 5-11-96 al card. Richard (Acta Sanctæ Sedis, vol. XXXIX, p. 664). Un testo del Card. RICHARD interpreta la Lettera Apostolica Testem Benevolentiæ nello stesso senso, testimonianza che J. C. FENTON (art. citato, p. 215) autorizza a vedere in questo documento pontificio come una definizione ex cathedra).
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L’eventuale presenza di definizioni nelle Encicliche, se già ci invita ad una lettura attenta, porta però solo una soluzione molto parziale al problema dell’autorità delle Lettere Pontificie, dove le Sentenze solenni appaiono solo come un’eccezione. L’insegnamento enciclicale appartiene normalmente al Magistero ordinario (“Magisterio ordinario hæc docentur…” Humani Generis), che può essere esercitato attraverso decisioni dottrinali sulle quali il Papa non intende impegnarsi irrevocabilmente, e che più comunemente assume la forma di un semplice richiamo (plerumque affirma – Humani Generis), o una dichiarazione ampia e dettagliata della dottrina già ricevuta nella Chiesa. È dunque in relazione a questo insegnamento ordinario che si porrà la questione, se vogliamo soprattutto definire la portata dottrinale delle Encicliche, il problema della loro infallibilità. – Abbiamo già esposto questo problema in questo modo: al di là delle definizioni che possano contenere, si può ancora parlare di infallibilità per l’insegnamento dato dalle Lettere Pontificie? La domanda, bisogna ammetterlo, sembra aver colto di sorpresa i teologi contemporanei, che hanno dato, un po’ frettolosamente sembra, le risposte più contraddittorie. Mentre i più astuti erano cautamente riservati (per esempio H. T. HURSTON, Enciclopedia Cattolica, art. Enciclica, che traduciamo: « È generalmente riconosciuto che il solo fatto che il Papa dia a un suo insegnamento la forma di un’Enciclica non la costituisce necessariamente come una locutio ex cathedra e non la investe di autorità infallibile. Il grado di coinvolgimento del Magistero della Santa Sede deve essere giudicato secondo le circostanze e il modo di espressione usato in ogni caso »), qualcun altro ha pensato di poter autorizzare una soluzione chiaramente affermativa da parte del Concilio Vaticano (es. DUBLAMCH, D. T. C. l’Infallibilità del Papa, col. 1705: « Poiché, secondo il decreto del Concilio Vaticano, il Papa possiede l’infallibilità data da Gesù alla sua Chiesa, e che per la Chiesa questa infallibilità può estendersi agli atti del Magistero Ordinario… si deve affermare che il Papa, insegnando da solo, in virtù del suo Magistero Ordinario, è infallibile nella stessa misura e alle stesse condizioni. » – MANOENOT, D. T. C. Enciclica: “Il privilegio dell’infallibilità si trova in quegli atti del Magistero Ordinario”), cosa che altri respinsero senza ulteriori qualificazioni: « Non bisogna dimenticare – scrisse uno di questi ultimi – che accanto al Magistero straordinario del Sommo Pontefice che si esercita con definizioni infallibili, c’è posto per un Magistero Ordinario che non gode di infallibilità (J. VILLAIN, S. J. t L’étude des Encycliques, in Les Etudes du prêtre d’aujourd’hui” Parigi, 1945, p. 187. – Vedi anche CHAVASSE, loc. cit, p. 80: “Le condizioni poste dal Concilio per l’infallibilità papale sono formalmente restrittive: il Papa è personalmente infallibile solo quando parla ex cathedra“). – Queste divergenze, tuttavia, possono essere spiegate. Erano inevitabili quando la gente insisteva nel chiedere al Concilio Vaticano una soluzione che non aveva intenzione di dare. Senza dubbio la Costituzione Pastor æternus aveva definito l’infallibilità personale del Papa, ma affermava il privilegio solo per le sentenze solenni. Taceva sul Magistero Ordinario. Questo, è vero, era stato espressamente riconosciuto come Regola dalla Costituzione Dei Filius, ma era stata aggiunta una parola: “Magistero Ordinario e Universale“, con l’intenzione, come sappiamo, di lasciare aperta la questione dell’infallibilità personale del Sommo Pontefice. ( « Ratio enim quare optamus ut haec vox universali apponatur voci magisterio, textus nostri, hæc est ut scilicet ne quis putet nos loqai hoc loco de Magisterio infallibili S. Sedis apostolicæ… Nullatenus ea fuit intentio Deputationis, hanc quæstionem de infallibilitate summi Pontifias, sive directe, sive indirecte tangere…» Relazione del vescovo MARTIN, Col. lac. col. 176). – Se era impossibile, senza chiedere ai testi del Concilio, leggere in essi una risposta affermativa, non era più legittimo basare su di essi una negazione. La Costituzione Dei Filius, introducendo nel suo testo la parola universale, aveva rifiutato di risolvere la questione dell’infallibilità personale del Sommo Pontefice, ma non intendeva escluderlo. La definizione di questa stessa infallibilità nella Costituzione Pastor aeternus era espressamente limitata alle sentenze solenni, ma non era “formalmente restrittiva” (È senza dubbio per distrazione che questa confusione si è insinuata nell’altrimenti eccellente articolo di M. CHAVASSE, citato sopra). Il testo del Concilio stesso non è restrittivo. Se le spiegazioni date dal relatore sembrano escludere dall’infallibilità qualsiasi atto che non sia una definizione, esse non contemplano il caso di una serie di atti, o di un insieme come quello costituito dal Magistero Ordinario), e di conseguenza lasciano aperto il problema dell’infallibilità del Papa nel suo Magistero Ordinario. Se questa sfumatura non è stata sempre compresa, è comunque importante; in ogni caso, essa vieta ai teologi di chiedere ai soli testi conciliari di ridurre le loro divergenze. – Più istruttiva, senza dubbio, sarebbe stata una riflessione sui principi richiamati dal Concilio, e sulle discussioni che hanno preceduto il voto sui testi finali. L’enfasi era stata posta sulla necessaria unità della Regola di Fede (Sant’Agostino aveva già fatto affidamento su questo nella sua polemica contro i Donatisti, come su una dottrina indiscussa: “In cathedra unitatis posuit Deus doctrinam veritatis“. Ep. 105 ad donatistas, 16, P.L. 83, col. 408.), nonché sull’impossibilità che contenga errori. È perché realizza di fatto questa unità che la proposta della stessa dottrina dal Magistero Universale della Chiesa può e deve, in nome e sotto la garanzia della prima Verità, impegnare la nostra fede. È perché crea questa unità di diritto, pronunciandosi sul contenuto della Regola di Fede con un atto senza appello, che la sentenza solenne è necessariamente infallibile. Questo, almeno, era l’argomento addotto a favore della definizione dell’infallibilità personale dal relatore della Commissione Fede (Coll. Lac, col. 390-391 e 399-d.), argomento che Leone XIII, citando San Tommaso, avrebbe un giorno ripreso (Leone XIII, Sapientiae Christianæ, B.P. II, 278, in cui cita San Tommaso: – 2a 2æ, q. I, art. 10 – Cfr. Contra Gentiles, 1. IV, с. 76, e BELLARMINO, De Romano Pontifice, 1. IV, с. 1 e 2). Ma questo pronunciamento definitivo è l’unico modo in cui il Papa può effettivamente realizzare l’unità dell’insegnamento ecclesiale intorno a lui? Un maestro – veramente degno di questo grande nome – non ha altro mezzo per stabilire tra sé e i suoi discepoli una intera coesione che formulare delle tesi precise che sarà necessario professare sotto pena di essere immediatamente bollato come dissidente? È molto più spesso e non meno efficacemente che otterrà questo stesso risultato, con il solo esposto quotidiano della sua dottrina, le spiegazioni date sulla sua coerenza interna, sulle sue implicazioni nelle altre discipline o nella condotta quotidiana della vita. In una parola, è il suo insegnamento ordinario che, oltre al ricorso eccezionale a dichiarazioni eclatanti, formerà intorno ad esso la stretta unità di una scuola. Questo insegnamento quotidiano, questo ritorno continuo, tal è proprio quello del Magistero Ordinario che il Sovrano Pontefice, come Pio XII, ricordava solo poco tempo fa (Allocuzione ai giovani sposi La gradita vostra Presenza, 21 gennaio 1942, Discorsi e Radiomessaggi di S. S. Pio XII, Milano, 1942, p. 355), esercitare nei suoi discorsi, nelle sue lettere e nei suoi messaggi, ma soprattutto nelle sue Encicliche. Abbiamo passato molto tempo a dimostrare che “fare l’unità” è la ragion d’essere di queste Lettere, segni di comunione, legami di fede e di carità, che si estendono fino ai più lontani confini del mondo cattolico, portando l’insegnamento del Pastore universale a tutti i fedeli e a serrare intorno alla Sede Apostolica la stretta unione di tutti i pastori. Abbiamo visto i Sommi Pontefici proporre espressamente come obiettivo delle loro Encicliche questa unità da raggiungere (Benedetto XIV ai Vescovi, Via pervenit, « Quando parlate al popolo… nulla ci sia di contrario ai sentimenti che abbiamo trasmesso. » Vedi qui sopra dove si possono trovare altre testimonianze. Possiamo citare ancora Leone XIII, agli operai francesi, il 19-9-91, a proposito della Rerum Novarum: « Senza consumare altro tempo prezioso in sterili discussioni, realizziamo in pratica ciò che, in principio, non può più essere oggetto di controversia »), per qualificare anche come “modernismo pratico” la sola negligenza nel far passare nella condotta di vita l’insegnamento enciclicale (Pio XI, Ubi Arcano, cfr. nota sotto). Pio XII è quindi ben in linea con i suoi predecessori quando esige da tutti l’adesione al contenuto di queste Lettere che ci vengono indirizzate nel nome stesso di Dio (“Né si pensi che ciò che viene proposto nelle Encicliche non richieda di per sé un assenso… a ciò che viene insegnato dal Magistero Ordinario, si applicano anche le parole “Chi ascolta voi, ascolta me“. Humani Generis, B. P., p. 10). I Papi di oggi, come quelli del quarto secolo, hanno sempre un solo scopo nello scrivere le loro Encicliche: « far regnare in tutto il mondo la stessa professione di una medesima fede « (« Ut… per totum mundum una sit fides et una eademque confestio » S. Leone M., ep. 33, P. L. 54, col. 799.3). Non è, tuttavia, generalmente un’affermazione isolata in un’Enciclica, ma piuttosto un insieme che da solo sarà capace di raggiungere necessariamente questa unità. Con il Magistero Ordinario, infatti, non ci troviamo più, come nel caso della definizione, in presenza di un giudizio formulato solennemente, ma di un insegnamento nel senso comune del termine. – Dom Guéranger invitò una volta il Vescovo Dupanloup a non confondere questi due atti (Dom Guéranger, De la Monarchie pontificale, Parigi, 1870, p. 269). È importante distinguere la loro natura, nello stesso tempo il modo in cui ciascuno di essi opera l’unità intorno a sé. Il giudizio si esprime interamente in un’affermazione categorica, in un atto preciso, in cui il giudice della fede impegna la sua autorità (e se si tratta di una definizione, al grado supremo e senza appello), per imporre una dottrina ai Cattolici o per escluderla. Stabilisce dei confini, di solito suppone una controversia o un’esitazioei (« Se i Papi nei loro atti emettono espressamente una sentenza su una questione che era finora controversa … » – scrive Pio XII in Humani Generis, B.P., p. 10). La missione dell’insegnamento non è quella di decidere, ma di far conoscere; non mette fine a una divergenza, ma salva dall’ignoranza o dall’oblio. È all’interno di una dottrina già ricevuta che viene ad assicurare una continuità e una trasmissione fedele, a volte una valorizzazione più completa (« Il più delle volte ciò che viene esposto nelle Encicliche appartiene già d’altra parte alla dottrina cattolica », ibidem). – Di solito implica una molteplicità di espressioni e una continuità di esercizio, integra un intero insieme. Così non è creando per tutta la Chiesa un obbligo giuridico su un punto di dottrina che l’insegnamento delle Encicliche raggiunge la comunione di tutti nello stesso pensiero, è esponendo questo pensiero, non solo ai fedeli, ma ai pastori, che l’insegnamento delle Encicliche diventa una realtà non solo per i fedeli, ma per gli stessi pastori per orientare la propria predicazione; è insistendo su di esso, facendo notare le deviazioni che sopravvengono, ritornandovi in caso di negligenza o di oblio, riducendo con questo stesso ritorno le esitazioni che, qua o là, potrebbero aver cominciato ad apparire. In ogni caso, senza dubbio, un appello al Sommo Pontefice stesso rimane teoricamente possibile, e può sorgere una divergenza momentanea. A parte il caso del giudizio solenne, una singola affermazione non è necessariamente, da sola, rappresentativa di tutta la Chiesa, di per sé rappresentativa di una dottrina, l’intero insegnamento pontificio non vi è impegnato interamente. Ma se si tratta di un soggetto direttamente affrontato in una lettera Enciclica, se questa si inserisce in un insieme o in una continuità, se è oggetto di un richiamo e di un’insistenza, come spesso accade con le grandi Lettere dottrinali, non ci possono essere dubbi sul contenuto autentico dell’insegnamento pontificio. Di conseguenza, rifiutare di aderirvi, cessare di aderirvi per una stretta comunione di pensiero, è necessariamente rompere l’unione della dottrina, è introdurre la dualità nella fede. Come si può allora ammettere per questo insegnamento, almeno nel gruppo che abbiamo appena definito, la possibilità di deviare dalla verità e di sbagliare sulla regola della fede? Se questa ipotesi impossibile fosse assunta, o l’errore non fosse notato, o i Vescovi trascurassero almeno di segnalarlo, tutta la Chiesa sarebbe presto sviata dallo stesso Centro di Unità; (« Tota igitur Ecclesia errare posset, sequens determinationem Papæ, si Papa in tali definitione posset errare. » Coll. Lac. col. 391; L’argomento si applica anche all’insegnamento ordinario. Il semplice fatto di non parlare contro un errore portato dalla lettera pontificia al proprio gregge non dovrebbe essere interpretato dai Vescovi come un’approvazione? “Error cui non resistitur approbatur” citato da Cano in un testo del De Locis 1. S, c* 4, su cui THOMÀSSIN osserva – Diss. in Concil., p. 716-: “Ubi vides et Pontificum et conciliorum provincialium decretis, ex silentio Ecclesiæ universalis, œcumenicæ synodo, parem accedit auctoritatem.”); altrimenti, per rimanere fedeli alla verità, per mantenere i loro greggi in essa, i pastori avrebbero dovuto rompere questa unità, allontanarsi nel loro insegnamento da quello di Roma. Saremmo agli antipodi della tradizione che lega irrevocabilmente la sicurezza della dottrina con la comunione realizzata intorno al Romano Pontefice (per esempio S. Cipriano: “Deus unus et Christus unus, et una Ecclesia et cathedra una super Petram Domini voce fundata… Quisqui ” alibi collegerit spargit.» Ep. plebi universæ. P. L. IV, col. 336 – su S. Girolamo: « Cathedram Pétri et fidem apostolico ore laudatam censui consulendam. Super hanc petram ædificatam Ecclesiam scio. Quicumque extra hanc domum agnum comederit, profanus est ». Episodio. 15 ad Damasum. P. L. XXII, col. 355. Vedi altre testimonianze qui sotto). – Nell’uno o nell’altro caso, ci darebbe una smentita alle promesse divine: Pietro non sarebbe più la roccia da cui la Chiesa trae la sua unità, oppure avrebbe cessato di essere il fondamento sicuro della sua fede. – La conclusione, quindi, è che il privilegio dell’inerranza deve essere riconosciuto per un insegnamento da cui la fede universale dipende così strettamente e circa il quale Dio stesso, la prima Verità, si è fatto garante. Senza dubbio, in tutto il rigore dei termini, la parola infallibilità deve essere pronunciata solo in relazione all’insieme a cui abbiamo appena accennato (« La garanzia infallibile dell’assistenza divina non è limitata ai soli atti del Magistero solenne, ma si estende anche al Magistero Ordinario, senza tuttavia coprirne ed assicurarne ugualmente ogni atto. Essa garantisce assolutamente l’insegnamento della Chiesa universale unita al Papa; ma il Papa, che può esercitare questo Magistero da solo, può anche beneficiare da solo di questa infallibilità. P. LÀBOURDETTE, O. P. Les Enseignements de l’Encyclique Humani Generis, in “Revue Thomiste”, 1950, p. 38.); tuttavia, ognuno degli atti che lo compongono deve anche beneficiare dell’assistenza divina in quanto contribuisce a rappresentare l’insegnamento pontificio, ad assicurare per la sua parte l’unità dottrinale nella Chiesa. Questo mostra il titolo eccezionale che avrà l’Enciclica, « l’atto più alto del Magistero supremo dopo la definizione ex cathedra » (L. CHOUPIN, S. J., Le Motu proprio “Præstantia” di S. S. Pio X, in “Etudes religieuses“, 1908, t. CXIV, p. 123. Cfr. MANGENOT, D. T. C. art. “Encicliche“: « Se non sono giudizi solenni, poiché non hanno né la forma né le condizioni esterne di tali giudizi, sono almeno atti del Magistero Ordinario del Sovrano Pontefice e si avvicinano a giudizi solenni quando trattano materie che potrebbero essere oggetto di definizioni »), atti di cui abbiamo ricordato le immense ripercussioni, non solo sulla fede dei fedeli, ma sull’insegnamento stesso dei pastori. Se un semplice esposto dottrinale, non può mai pretendere l’infallibilità di una definizione se non alla maniera di un asintoto (Nessun atto del Magistero Ordinario, senza cessare di essere tale, può rivendicare da solo la prerogativa connessa all’esercizio del giudizio supremo. Un atto isolato è infallibile solo se il giudice supremo vi impegna la sua autorità al punto da vietarsi di ritornarvi – revocabile, infatti, non potrebbe esserlo senza riconoscere che è passibile di errore – ma un tale atto, senza appello, è proprio quello che costituisce il giudizio solenne e come tale si oppone al Magistero Ordinario. « Neque etiam dicendus est Pontifex infallibilis simpliciter ex auctoritate papatus, sed ut subest divinæ assistentiæ dirigenti in hoc certe et indubie. Nam auctoritate papatus Pontifex est semper supremus judex in rebus fidei et morum et omnium christianorum pater et doctor; sed assistentia divina ipsi promissa qua fit, ut errare non possit, solummodo tunc gaudet, quum munere supremi iudicis in controversiis fidei et universatis Ecclesiæ doctoris reipsa et actu fungitur. – Coll. Lac, col. 399-b.), qui almeno si deve parlare di questa equivalenza pratica (Ecco come il semplice fatto di essere affermato direttamente in un’Enciclica, può rendere certa una dottrina finora considerata probabile tra i teologi. « Nunc… omnino certa habenda ex verbis Summi Pontificis » PII XII, dice l’arcivescovo OTTAVIANI, in relazione a una tesi finora contestata sull’origine della giurisdizione episcopale – Institutiones Juris publici ecclesiastici, Romæ, 1947, I, 413). Le esitazioni dei teologi sull’infallibilità delle lettere papali avrebbero dovuto rendercene conto: ci troviamo in presenza di un limite, ogni affermazione (si tratta, ovviamente, di affermazioni che non sono giudizi dogmatici in senso stretto) presa separatamente, si avvicina solo all’estremo dell’infallibilità, che, invece, è rigorosamente implicita nel caso di convergenza sulla stessa dottrina di una serie di documenti, la cui continuità esclude da sola ogni possibilità di dubbio sul contenuto autentico dell’insegnamento romano. – Questa impareggiabile autorità delle Encicliche non sorprende se si fa attenzione a collocarle nel loro vero posto, nel Magistero Universale, o, nelle parole di Sant’Ireneo, in: « Quella predicazione ricevuta dagli Apostoli » che la Chiesa «…custodisce con cura come se avesse una sola anima e un solo cuore… che predica, insegna e trasmette, come se avesse una sola bocca » (Adv. Hær. I. X, 2. P. G. VII, col. 551). Queste, sono almeno atti del Magistero Ordinario del Sommo Pontefice, e si avvicinano a giudizi solenni quando trattano questioni che potrebbero essere oggetto di definizioni. È solo qui che si rivela « la funzione privilegiata di questo principio di unità che integra », nelle parole di Leone XIII, « la costituzione e l’equilibrio stesso della Chiesa » (Satis Cognitum, B.P., V. 39). « L’autore divino della Chiesa – continua il grande Papa – avendo deciso di darle unità di fede, di governo, di comunione, scelse Pietro e i suoi successori per stabilire in loro il principio e come il centro di questa unità di fede » – … Ecco perché San Cipriano ha potuto dire: «C’è una via facile per arrivare alla fede, e la verità è contenuta in una parola. Il Signore disse a Pietro: Io ti dico che tu sei Pietro… ».È su uno solo che Egli costruisce la Chiesa; e anche se dopo la Resurrezione conferisce a tutti lo stesso potere… tuttavia, per mettere in piena luce l’unità, in uno solo stabilisce con la sua autorità, l’origine e il punto di partenza di quella stessa unità (Ibid., p. 47). Nell’immenso concerto dell’insegnamento universale, la voce di Pietro non è solo una tra le altre, ma è quella che dà il tono, che custodisce e sostiene l’insieme. Sia che lo gridi ad alta voce con un giudizio solenne, sia che lo mantenga più discretamente attraverso la vigilanza e il continuo richiamo delle sue Encicliche, è sempre essa la voce che regola l’unità, e solo sono assicurate circa la loro giustezza le voci che rimangono in armonia con essa. Non è questa, inoltre, l’intima convinzione di tutti i fedeli? « Credo nella Chiesa cattolica », professano nel loro Credo. Ma dalle labbra di chi raccolgono le parole della Chiesa? Quelle di alcuni educatori, quelle dei loro catechisti, del loro parroco. Come sarebbero assicurati di incontrarvi il pensiero autentico di Dio che parla attraverso la sua Chiesa, se non fosse sufficiente per loro sapere che questi sacerdoti sono in unione con il loro Vescovo, che rimane lui stesso rimane unito al centro dell’unità, alla sede del Romano Pontefice? Essendo il Centro e la Causa dell’unità infallibile, come potrebbe essere soggetto all’errore? Stupirsi di non vedere questa dottrina esplicitamente insegnata dal Concilio Vaticano e usarla come pretesto per scartarla, sarebbe dimenticare lo scopo dei decreti e delle definizioni. – Uno dei più illustri teologi che contribuirono alla preparazione degli schemi spiegò « che sarebbe stato un errore cercare in essi l’espressione di ogni verità ammessa », essendo il loro scopo primario quello di opporsi all’errore (Coll. Lac, col. 1612). Senza dubbio le discussioni stesse contribuirono a portare in primo piano le dottrine che erano state contestate dagli oppositori. Per essere state, da questi illustri giocolieri, respinte nell’ombra, quelle stesse che furono l’oggetto di simili dibattiti, non hanno perso nulla della loro tranquilla certezza. Quello che abbiamo appena ricordato, collegandolo come una conclusione teologica dei dogmi vaticani, non sarebbe anche uno di queste? Possiamo basarci sulle testimonianze di Bossuet e Fénelon, anch’esse basate sulla tradizione antica. È il Vescovo di Meaux che parla di « questa Cattedra romana così celebrata dai Padri, che l’hanno esaltata come la continuazione, la primizia della Cattedra apostolica, la fonte dell’unità, e nel posto di Pietro il grado eminente della cattedra sacerdotale; la Chiesa madre, che tiene in mano la guida di tutte le altre chiese; il Capo dell’episcopato, da cui procede il raggio del governo; la Cattedra principale, l’unica Cattedra in cui solo tutti mantengono l’unità. In queste parole si sente San Ottatto, Sant’Agostino, San Cipriano, San Prospero, Sant’Avito, San Teodoreto, il Concilio di Calcedonia ed altri; l’Africa, i Galli, la Grecia, l’Asia, l’Oriente e l’Occidente uniti insieme »(BOSSUET. Sermone sull’unità della Chiesa, parte 1. Oeuvres wtoires, ed. URB. et LEV, Paris, 1923, t. VI, p. 116). Ascoltiamo Fenelon che si riferisce egli stesso alla professione di fede imposta da Papa Ormisda ai Vescovi orientali: « Dio non voglia che qualcuno prenda un atto così solenne, con il quale i Vescovi scismatici tornarono all’unità, come un complimento vago e lusinghiero, che non significhi nulla di preciso e serio. Si tratta qui della promessa del Figlio di Dio fatta a San Pietro, che è verificata di secolo in secolo dagli eventi. Hæc quæ dicta sunt probantur effectibus. Cosa sono questi eventi? Che la Religione Cattolica è inviolabilmente conservata pura nella Sede Apostolica. È che questa Chiesa, come sentiremo presto dire da M. Bossuet, Vescovo di Meaux, è ancora vergine, e che Pietro parlerà sempre dal suo pulpito, e che la fede romana è sempre la fede della Chiesa. È che non c’è differenza tra coloro che sono privati della comunione della Chiesa Cattolica, e quelli che non sono uniti in tutto nel sentimento con questa Sede. Così chi contraddice la fede romana, che è il centro della tradizione comune, contraddice quella di tutta la Chiesa. Al contrario, chi rimane unito alla dottrina di questa Chiesa sempre vergine non rischia nulla per la sua fede » (FÉNELON. Deuxième Mandement sur la Constitution Unigenitus – Œuvres complètes, Paris, 1851. t. V, p. 175). Non si può negare questa prerogativa, inoltre, senza mettersi in opposizione con la più antica e venerabile tradizione. – La “Seconda Lettera sulla Costituzione Unigenitus” ricordava, contemporaneamente alla testimonianza di Ormisda, il famoso passo in cui Sant’Ireneo propone due modi altrettanto sicuri di riconoscere l’autenticità e l’apostolicità di una dottrina: l’insegnamento costante di tutte le chiese, o quello del solo « Presidente della Fede ». Ed ecco la ragione di tale sicurezza: Perché è con questa Chiesa, a causa della sua eminente principalitas (La parola corrisponde sia a “primato” che a “principato”), che ogni chiesa, cioè i fedeli di ogni luogo, devono concordare; ed è in essa, più che altrove, che le tradizioni che vengono dagli Apostoli sono state conservate (Adv. Hær., III, 3, 2, P. G. VII, col. 849. Per la giustificazione della traduzione adottata, vedi Christine MOHRMANN, Vigiliæ Christianæ, gennaio 1949, p. 57 – e H. HOLSTEIN S. J., loc. cit, che conclude: « La pietra di paragone dell’Ortodossia sarà dunque la conformità con ciò che la Chiesa di Roma conserva ed insegna: è necessario che, dappertutto, tutte le Chiese si trovino in accordo con quella Chiesa che gode della principalitas privilegiata delle Chiese apostoliche, con quella comunità di Cristiani di tutto il mondo, nella quale la tradizione apostolica è stata conservata intatta e viva fin dall’inizio.»). – È come un “principio di unità” che San Cipriano rappresenta a sua volta la Chiesa di Roma, in un passaggio in cui sarebbe perfettamente arbitrario limitare la sua portata alle sentenze solenni. Parlando degli eretici, che si erano sforzati, per meglio diffondere le loro dottrine, di farsi coprire dall’autorità del Papa: Essi osano – egli grida – fare vela verso la Cattedra di Pietro e la Chiesa principale, fonte dell’unità del corpo episcopale. Hanno dimenticato chi sono questi romani, la cui fede è stata lodata dalla bocca dell’Apostolo stesso, e nei quali “l’errore non può trovare accesso”? (Epist. 59 ad Cornelium, n° 14 P. L. III, col. 818. Vedi sopra, altri testi nello stesso senso). È davvero utile moltiplicare le testimonianze, quando la dottrina che afferma la possibilità di incontrare l’errore nella Chiesa di Roma è stata oggetto di una solenne riprovazione? Questa è infatti una delle proposizioni di Pietro di Osma, che fu colpito da Sisto IV con varie censure, arrivando fino alla nota di eresia: « Ecclesia Urbis Romæ errare potest ». (Prop. 7, condannata dalla bolla Licet ea, del 9 agosto 1478. DENZ. BAN. Enchiridion, n° 730.). Non ci si sorprenderà quindi di vedere l’importanza attribuita, tra i luoghi teologici, all’insegnamento ordinario della Santa Sede e specialmente alle Lettere papali. Quando i teologi, quando i Concili, o i Papi stessi, come ha fatto recentemente Pio XII nel suo Magnificentissimus Deus, cercano nel passato “testimonianze, indici, vestigia, testimonia, indici, vestigia“, che permettono loro di riconoscere una dottrina come autenticamente contenuta nel deposito della fede, la ritengono certa, anche se gli strumenti sono pochi, purché tra questi possano annoverare l’insegnamento costante del Sovrano Pontefice, la fede autentica della Chiesa Romana (« Mirum videri non débet quod existimet Canus res fidei non numero episcoporum, sed pondere et auctoritate Romani Pontificis definiri. .. atque ubi discordes sunt inter se Episcopi ei parti semper adhærendum pro qua stat Romanus Pontifex. » TOUBNELY, De Ecclesia, p. 223 – ed. di Venezia, 1731). Le stesse Encicliche non ne danno forse una prova definitiva? I loro lettori, anche se un po’ distratti, avranno certo notato la formula solenne con cui i Papi testimoniano la loro costante preoccupazione di collegare la propria dottrina a quella dei « loro predecessori di immortale memoria ». Se a volte lo esplicitano, se lo rivendicano contro una falsa interpretazione, si preoccupano soprattutto, nella prospettiva stessa di san Ireneo, di mostrare come prova e a garanzia della sua autenticità, la continuità rigorosa dell’insegnamento pontificale (A parte i testi che si trovano in tutte le Encicliche, è da notare l’abitudine di segnare gli anniversari delle Encicliche stesse, Quadragesimo anno, Ærant Ecclesiæ, etc. La realtà è ben lontana dal perpetuo « bilanciamento » dal « pendolo oscillante », dalla « successione di cadute accettate », che è stata data come caratteristica dell’insegnamento enciclicale. Questa immagine, troppo spesso usata, non prova nulla, se non che chi la usa non ha letto le Encicliche, almeno non in modo da fare attenzione a non farsi ingannare da una semplice evoluzione semantica. Senza dubbio Pio VI condanna il governo popolare (Allocuzione concistoriale del 17-6-93), mentre Pio XII (Messaggio di Natale 1944) specifica solo le condizioni di una sana democrazia, ma per escludere il governo delle “masse“, termine che copre esattamente il termine “popolo” usato da Pio VI. Al contrario, Pio XII amplia il significato di democrazia per permetterle, in termini espliciti, di includere la monarchia, che Pio VI opponeva al governo del popolo. Altre parole, stessa dottrina). – Assistito dallo Spirito Santo nel cui Nome si rivolge a noi in ciascuna di queste Lettere, l’insegnamento ordinario delle Encicliche, come ci appare attraverso la loro continuità, non può essere soggetto a revisione. Anche una definizione solenne non potrebbe contraddirla, perché, divinamente assistita, e non potrebbe mai pronunciarsi contro una dottrina infallibilmente preservata dall’errore (Collect. Lac, col. 404. – Cfr. anche la lettera di Mons. DESCHAMPS a Mons. Ketteler sulla distinzione tra il fatto e l’atto di accordo delle Chiese, prima della definizione: « Certamente il Papa non può definire – come dice Sant’Agostino – se non ciò che è nel deposito della rivelazione, nella Sacra Scrittura e nella tradizione “quam Apostolica Sedes et Romana cum ceteris tenet perseveranter Ecclesia“. Questo è il fatto che il Papa nota prima di definire come ha sempre fatto… e come l’assistenza divina promessagli garantisce che farà sempre. » R.S.P.T. 1935, p. 298). Qualunque sia il modo in cui la parola divina ci raggiunga, essa esige sempre lo stesso atteggiamento da parte nostra. Potremmo noi senza pericolo – scrive Dom Guéranger in una delle pagine più belle del suo Anno Liturgico – imporre limiti alla nostra docilità agli insegnamenti che ci vengono nello stesso tempo dallo Spirito e dalla Sposa che sappiamo essere uniti in modo indissolubile (Apoc. XXII, 17)? Sia che quindi, la Chiesa ci intimi ciò che dobbiamo credere mostrandoci la sua pratica, o con la semplice enunciazione dei suoi sentimenti, o se dichiari solennemente la definizione attesa, dobbiamo guardare ed ascoltare con sottomissione di cuore; infatti, la pratica della Chiesa è tenuta nella verità dallo Spirito che la vivifica; rinunciare ai propri sentimenti in qualsiasi momenti, è l’aspirazione continua di questo Spirito che vive in essa; e per quanto riguarda le sentenze che Essa pronuncia, non è Essa sola che le pronuncia, ma lo Spirito che le pronuncia in Essa ed attraverso di Essa. Quando è il suo Capo visibile che dichiara la dottrina, sappiamo che Gesù si degnò di pregare affinché la fede di Pietro non venisse meno, cosa che ottenne dal Padre suo e per la quale ha affidato allo Spirito il compito di mantenere Pietro in possesso di un dono così prezioso per noi » (L’Anno Liturgico, Parigi 1950: “Il Giovedì della Pentecoste“, t. III, p. 609).