LE VIRTÙ CRISTIANE (6)

LE VIRTÙ CRISTIANE (6)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni

Desclée e Lefebre e. C. Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE Ia

LE VIRTÙ TEOLOGALI E LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE

CAPO V.

LA VIRTÙ DELLA CARITÀ E GLI AMORI PARTICOLARI

Nel Capo II del Genesi, Moisè, dopo di aver descritto il delizioso soggiorno dell’Eden, nel quale il Signore aveva messo l’uomo, dice così: “E da questo luogo di delizie scaturiva un fiume ad innaffiare il paradiso, e questo fiume di là si spartiva in quattro capi o quattro fumi minori. L’uno di essi è detto Phison, e scorre nel paese dove nasce l’oro, l’altro Gehon, il terzo Tigri; il quarto è l’Eufrate.” Ora nel primo gran fiume, che fu uno dei più belli ornamenti dell’Eden, e che si apriva in quattro fiumi minori, vi ha un’immagine parlante del dono d’amore, datoci dal Signore. L’ amore in noi, in sustanza, è uno; ma poi, volgendosi a diversi obbietti, si divide non in quattro amori soltanto, come avveniva del fiume dell’Eden, sì bene in un numero indefinito di amori, i quali anzi possono esser tanti, quanti sono gli obbietti, in cui l’intelletto e il cuore umano trovano un raggio del vero, del bene e del bello divino. Anche in questa molteplicità di amori, noi specchiamo finitamente e imperfettamente il Signore Iddio che, sebbene massimamente uno, quando creò l’universo, “aperse in muovi amor l’eterno Amore.! (Parad. XXIX). Intanto, poiché noi si può, per virtù di grazia, metter le ali al nostro libero amore, e, di naturale che è, elevarlo anche ad amore soprannaturale di carità; ne segue che la carità può ben entrare in tutt’i nostri amori particolari, purché siano buoni. Cotesti amori sono moltissimi; e io accennerò soltanto i principali, perchè nei Cattolici. si accenda il desiderio di nobilitarli, e santificarli tutti nella virtù dolcissima della carità. Dirò dunque della carità soprannaturale nell’amore di sé, nell’amore coniugale, nell’amore domestico, in quello degli amici, e in ultimo volgerò in occhiata anche all’amore di quei beni esteriori, onde è tanto ricco l’universo. L’amore dei beni particolari, come fu detto, può diventare reo, o perché l’obbietto suo è malo, con qualche apparenza di bene, la quale se mancasse, l’amore tornerebbe impossibile, o per troppo o per troppo poco di vigore che l’amore abbia. E allora, per cotali forme d’amore disordinato, avviene che la creatura vada contro il suo Creatore, o per dirlo con Dante avviene che “Contra il Fattore adovra sua fattura”. Allorché poi l’obbietto dell’amore è buono, e non si trasmoda o per troppo o per troppo poco; l’amore naturale è buono, secondo natura. Ancora, si può più concisamente affermare, che, avendo Iddio messo una gradazione ordinatissima nei vari beni creati; l’amore, sempre che obbedisce a questa gradazione, è naturalmente buono, e se la turba e la capovolge risulta naturalmente reo. – Or dunque diamo una rapida occhiata ai vari amori particolari, che si sono qui avanti indicati, e accostiamoli alla carità soprannaturale; la quale fiammeggiante, possente .e feconda com’è, ha due forze, l’una d’impedire gli amori particolari che trasmodino, l’altra di nobilitarli e di incelarli. Tutti questi amori buoni sono tali, perché le creature, in quanto esistono, sono buone; ed essendo altresì effigiate sul tipo delle idee dell’intelletto divino, riescono acconce a svegliare desiderio di sé. Nondimeno, pel peccato d’origine, per i peccati attuali più o meno frequenti e gravi, onde l’uomo si corrompe e si disordina, per le tentatrici vanità del mondo, per la guerra interiore, che ciascuno sente in se stesso; questi amori dico, non prima spuntano nell’animo umano, intoppano in gravi difficoltà, sicché agevolmente diventano amori disordinati. E le principali difficoltà sono due: o che l’animo sia talmente preso da un amore particolare, che trasmodi, ed esca fuori del retto ordine suo: o che, l’amore umano pel suo smodato inchinamento alle cose corporee e basse, anziché elevarsi principalmente (com’è suo debito) a ciò che è spirituale e alto, discenda e si prostituisca in basso. Se, ponghiamo, un’affettuosa madre famiglia ecceda tanto nell’amore particolare del figliuolo, da dimenticare l’amore del consorte, del prossimo, di Dio; costei malamente ama, perché nel suo amore, benché in sustanza buono, c’è il troppo. E se, amando il figliuolo, l’amore non lo volge principalmente all’anima di lui, che è la parte più nobile e più degna di amore, ma invece lo volge tutto al corpo, che è cosa bassa e vile in comparazione dell’anima; ed ella ama disordinatamente, e però malamente. Ebbene ci ha forse nel mondo un balsamo, che valga a risanare, a riordinare, a nobilitare e a elevare in alto, fino a Dio, questi varj amori particolari? Vi ha indubbiamente; ed è un altro amore santo, celestiale, nobile, che è l’amore di carità. Quando un’onda vivace di carità scorre tra le onde svariate dei nostri amori umani, le raccoglie tutte in sé, comunicando ad esse la propria virtù. Nondimeno allorché l’amore particolare, qualunque esso sia, è sanato e rinvigorito dall’amore di carità, non ismette punto la sua natura di amore particolare e umano. Oltre a ciò, per il contatto che l’amore particolare e umano ha con l’amore universale e celeste, esso si trasfigura e, senza perdere la sua natura, si eleva all’ordine soprannaturale. Avviene di ciò, quel medesimo che avviene dell’occhio umano. Il quale, se guarda sempre e soltanto in basso, non vede che la terra; e, se per lo contrario guarda in alto, non perde la capacità a guardare la terra: ma le colline, i monti, il cielo, le stelle lucenti lo elevano in una regione immensamente più bella e viemaggiomente lo rallegrano. Per questo sponsalizio dell’amore umano con la carità, ciascun amore buono particolare riesce fontana di meriti per la vita eterna. Laonde gli amori di padre, di figlio, di marito, di moglie di amico nel Cristiano fervente, oltre alle dolcezze proprie di ciascuno di questi affetti, riescono sorgenti delle ineffabile ed eterne dolcezze della vita avvenire. Queste cose i figliuoli della Città del mondo o non le comprendono, o le stimano sogno di fantasie poetiche, e pure sono verissime. Lo potrebbero vedere. essi stessi; perciocché anche nella vita civile dei Cristiani si vedono ad occhio nudo le trasformazioni che l’amore umano ha subìto nel Cristianesimo e in tutta la sua vita. E ora volgendo dapprima uno sguardo all’amore particolare di sé, nel quale l’amante e l’amato sono un medesimo; si potrebbe forse assommare tutta la dottrina del Cattolicismo in questo nobile insegnamento di sant’Agostino: “Tu che ami gli uomini, li hai da amare o perché sono giusti o affinché diventino giusti. E dunque in pari modo tu che ami te stesso, ti devi amare o perché sei giusto o affinché lo diventi.” (De Trinitate 8, cap. 6.) – Nondimeno l’amare in questo modo sé stesso torna quasi impossibile, quando l’amore naturale non sia sanato e nobilitato dall’amore di carità; anzi, anche sanato da esso, non è senza grandi malagevolezze. La persona umana, dirò così, siede regina tra l’anima e il corpo suo, e ama l’una e l’altro non solo con amore necessario ma altresì con amore libero. Disgraziatamente dopo il peccato del primo padre, essa si sente spinta dai proprj inchinamenti a volgere l’amore più in basso, che in alto, più al corpo, che all’anima; onde assai delle volte ama più secondo la carne, che non secondo lo spirito. Or questo amore intemperante e disordinato che ama il corpo e tutte le cupidità sue sopra ogni cosa, è l’egoismo; l’egoismo, dico, che, impedendo all’amore di diffondersi fuori, lo ingrettisce, lo imbestia, lo chiude in uno strettojo di morte, e lo rende tarlo roditore di tutta la vita morale. E questo egoismo, quando invade anche lo spirito, e fa che esso ami sè stesso smodatamente fuori di Dio e del prossimo, diventa orgoglio; il quale è un egoismo un po’ più spirituale dell’altro, ma egoismo anch’esso. – Penetriamo. più addentro in questo argomento dell’amore che ciascuno ha da avere a sé medesimo, prendendo liberamente i pensieri dall’Angelico san Tommaso, e dichiarando alcune particolarità di quell’amore buono di sé, che in gran parte sboccia, come vago fiore, dall’amore di carità. L’uomo, che vive in carità, quando si tratta del proprio bene spirituale, deve amare sé più del prossimo, e di qualsiasi altra creatura; e ciò per questa ragione. L’uomo ha da amare sé e il prossimo, in quanto che l’uno e l’altro partecipano al bene divino. Ma, poiché ove si tratta di una stessa persona, l’unità dell’amante e dell’amato maggiore dell’unione tra due, cioè tra l’amante e il prossimo amato, è giusto che nei beni dello spirito noi amiamo più noi stessi che il prossimo. Da ciò segue, che nessun uomo deve volere il male proprio del peccato (ciò che sarebbe contrario all’ultimo fine della beatitudine) per liberare qualche suo fratello dal peccato. Per lo contrario l’uomo che vive in carità, deve più amare l’anima altrui, che il proprio corpo; e ciò, sia perché nell’ordine dei beni lo spirituale vale molto più del corporeo, sia perché nel soffrire qualche detrimento corporale per la persona amata, ama secondo la perfezione della virtù, e però ama anche se stesso, e il bene proprio spirituale. – Ma il Cristiano nell’anteporre il bene spirituale del prossimo al proprio corpo, deve forse andar tanto avanti dal metter la vita propria per la salute dell’anima del prossimo? Non certo sempre. Invero san Tommaso insegna così: (vedi 2, 2, q. 26, art. 4 in cor.)“La sollecitudine e la cura della vita del proprio corpo appartiene a ciascun individuo intimamente, e come cosa propria: non è lo stesso della salute spirituale del prossimo, da qualche caso particolare infuora. Però non è necessario, per necessità di carità, che l’uomo esponga la vita propria per la salute spirituale del prossimo, se non nel caso in cui ha obbligo stretto di provvedere ad essa. Nonpertanto che taluno offra la propria vita spontaneamente per la salute del prossimo, ciò appartiene non all’obbligo ma alla perfezione della carità” (2, 2, q. 26, art. 5 ad 1). E questa perfezione, elevata a un grado infinito e divino, è la perfezione della morte di Gesù Cristo; il quale, secondo la frase biblica, premuto sotto il torchio di dolori ineffabili, volle soffrire il tormento della Croce, e morì per la salute di tutto il genere umano. Questa medesima perfezione del dar la vita pel prossimo, Gesù la meritò e la ispirò ai molti milioni di martiri; i quali morirono di certo per testimoniare la fede, ma anche per la salute delle anime. Il sangue invero, da ciascun martire sparso sulla terra, riuscì seme di martiri novelli, e il sangue di tutti uniti insieme fu uno dei fonti di salute, dato alla Chiesa per salvare le anime; perciocché il martirio cristiano riesce uno dei validi argomenti della verità del Cristianesimo, e una forma nobilissima e fortissima di apostolato cattolico. – Se non che la fiamma viva e lucente della carità, che sana e nobilita l’amore di sé stesso, sana e nobilita altresì lamore conjugale. L’amore conjugale, anche guardato naturalmente, non è onesto e buono se non nel matrimonio indissolubile; perciocché solo nel matrimonio indissolubile raggiunge tutta la sua finalità. Nonpertanto questo amore conjugale, esso più di tutti gli altri, dopo il peccato di origine, tende a discendere in basso; e però esso più di tutti gli altri ha bisogno della sanatrice virtù della carità cristiana. – Di nessun altro amore la Scrittura divina dichiara la natura e la perfezione sua primitiva così particolarmente, come dell’amor conjugale. Iddio medesimo infonde questo amore in Adamo, creando da lui e come immagine di lui, la consorte Eva, e volendo che egli la tenga come un altro se stesso. Poi comanda ad entrambi che s’amino come fossero una sola persona, ché tanto vale il dire: saranno due in un solo corpo. Or questa nobile e strettissima forma d’amore, di due che sono uno, essa è la legge dell’indissolubile amor conjugale; una legge ammirabile, che il peccato rese difficile, ma che Cristo confermò e rese agevole, mercè la virtù illuminatrice e santificatrice del Sacramento matrimoniale. Ancora, benché questo amore conjugale sia, più che tutti gli altri, turbato dalla tirannia della concupiscenza (che senza esser peccato, viene dal peccato e al peccato c’inclina – Conc. Trid.); pure nel nuovo Testamento questo amore, dico, è levato a una grande altezza dall’Apostolo san Paolo. Il quale di esso e di nessun altro amore dice, che s’abbia da paragonare all’amore di Cristo colla Chiesa: “Mariti, amate le vostre mogli, come Gesù Cristo amò la Chiesa.” (Eph.V, 25). –   Or chi non sente in queste parole il soave profumo di celestialità e di santità, che Gesù Redentore vuol diffondere in questo amor conjugale, che le passioni hanno fatto cadere sì in basso, e che il Cristianesimo vuol levare assai in alto, e santificare, principalmente perché è il primo amore, onde sorge il genere umano, cioè le famiglie che lo formano? Profondo mistero di carità divina è questo, che nello stesso amore, cui il peccato ha più contaminato e gettato nel fango, in questo stesso amore sovrabbondi la divina bontà; sicché esso debba ricopiare, quanto le cose umane e basse possono ricopiare le divine e altissime, il tipo ineffabile di amore divino, onde Gesù Cristo amò e ama la sua immacolata e dolcissima Sposa la Chiesa. Intanto, l’amore di carità, quando abbellisca e vivifichi l’amore conjugale, non solo gl’impedisce di scendere tutto in basso, ma lo ordina, lo nobilita, e fa meritorio dell’eterno premio. Produce poi due etti principalissimi, ai quali è bene di fare un cenno. In questa forma di amore tra uomo e donna: brutali passioni sono riuscite, massimamente nel paganesimo, tanto ardenti e micidiali, da annientare nel  matrimonio l’amore onesto e conjugale; anzi ciò che resta nel matrimonio paganamente inteso non è neanche amore. A noi Cristiani la cosa pare al tutto assurda; ma ciò non impedisce che tra i pagani d’un tempo e i paganizzanti dell’età nostra la cosa sia certa, anche audacemente affermata dagli stessi maritati. Infatti, allorché nel matrimonio la donna è schiava, e tiranno l’uomo; dove è mai più l’amore onesto e conugale, anzi donde esso nascerebbe mai tra i conjugi? Né la tirannide, né la schiavitù furono o saranno mai sorgenti d’un sentimento così nobile, bello e ricco, com’è il sentimento di amore, L’una e l’altra, cioè la schiavitù e la tirannide, di lor natura alimentano capricci brutali e ignominie. Per restaurare dunque nel matrimonio il regno dell’amore, volto al bene e a tutte le finalità conjugali, il Cristianesimo insegna essere eguali nella sustanza l’uomo e la donna, dichiara la donna non serva, ma compagna dell’uomo, e poiché procedettero l’una dall’altro, li costituisce anzi, pel matrimonio una sola persona morale. Ma questo, che il Cristianesimo insegna, non si compie mai, se la carità del Signore, aleggiando intorno al talamo conjugale, non sani e non nobiliti l’amore dei conjugi, così spesso corrotto. Ben è vero che san Paolo vuole che le donne sieno soggette ai loro mariti, come al Signore, ma questo comandamento di soggezione è infinitamente distante dalla schiavitù pagana, e, non che impedisca l’amore, giova anzi a nutrirlo. Perciocché esso corrisponde alla natura stessa dell’uomo e della donna, all’indole di lei, a cui l’obbedire per amore è dolce, e contribuisce all’unità conjugale, la quale ha bisogno, anch’essa, di un certo ordine gerarchico. La soggezione della donna al marito in tutto ciò che non è peccato, costituisce l’obbedienza maritale; e l’obbedienza nel Cristianesimo, non che escludere l’amore, ne è la forma propria, sempre che l’amore sia tra due, l’uno inferiore all’altro. La carità dunque soprannaturale rinnova e alimenta nei matrimonj cristiani l’amore buono conjugale. – Un altro effetto mirabile della carità nell’amore conjugale è questo. La carità dà gran valore alle due finalità spirituali del matrimonio, cioè la piena unione intellettuale e morale dei conjugi, e l’educazione buona della prole. Tutti due questi beni sono impediti dalle cupidità, che tirano gli animi in basso, e l’uno e l’altro bene la carità li fa sentire e amare ai conjugi veramente Cristiani. I quali, anche se l’amore umano, per ragioni umane, con l’andare degli anni, tende a intiepidirsi; per la carità a poco a poco si unificano sempre più nei pensieri, nei desiderj, negli affetti, nelle speranze, nei dolori. E quel che più rileva, essi fermissimamente credono e sperano, che questa spiritualissima loro unione si accrescerà e si perfezionerà nel cielo, dove l’amore di Dio piuttosto che impedire i buoni e santi amori umani, li centuplica e li corona di dolcezze ineffabili. Quanto all’educazione dei figliuoli (poiché educare alcuno non è altro che farlo buono), la carità impedisce che l’educazione sia volta, come accade nei matrimonj pagani o paganeggianti, principalmente al corpo e ai beni terreni; ma eleva i figliuoli in più spirabil aere, mercè gli alti ideali della fede e della morale cristiana. La stessa coltura intellettuale dei figliuoli, la quale, senza Dio e senza il suo santo amore, riesce argomento di orgoglio, e finisce per essere anche essa vanità di vanità; per l’amore di Dio e del prossimo si eleva a una incommensurabile altezza. Gli studj, la letteratura, l’arte, la scienza servono allora non ad alimento di vanagloria e di basse cupidità, ma al perfezionamento proprio, alla glorificazione di Dio e al premio della vita eterna. – Dopo le cose dette, sarebbe quasi inutile il parlare della carità nella famiglia, perciocché l’amore di famiglia, quasi rivo da fonte, deriva dell’amore conjugale. quale amore di famiglia, come una fedele immagine ritrae l’originale, così esso ritrae con piena somiglianza la bontà o la reità dell’amore conjugale. Nondimeno io trascriverò qui alcune parole dell’Apostolo san Paolo, che, nel parlare con ispirata sapienza della famiglia cristiana, non ebbe chi lo agguagliasse mai. Eccole: “Figliuoli, siate obbedienti ai vostri genitori, perciocché ciò è giusto…. E voi, o‘ padri, non provocate ad ira i vostri figliuoli, ma allevateli nella disciplina e nelle istruzioni del Signore. Servi, siate obbedienti ai vostri padroni (terreni), con riverenza e sollecitudine nella semplicità del cuor vostro, come a Cristo…, servendo con amore, come pel Signore, e non come per gli uomini…. E voi, o padroni, fate altrettanto riguardo ad essi, ponendo da parte l’asprezza, e non ignorando che il nostro e il loro Padre è nei cieli, e che Egli non è accettatore di persone.’” (Ephes. I, 1 e seg.). Queste parole veramente d’oro sono sfavillanti di tanta spiritualità e di tanta luce, che basterebbero esse sole a nobilitare e a governare tutti gli amori di famiglia, l’amore cioè dei genitori e quelli dei figliuoli, l’amore dei padroni e quello dei servi; i quali tutti debbono essere quali membri (l’ uno più e l’altro meno nobile) d’un medesimo corpo, e diventare come una sola persona morale. – Principalmente però è da notare che nelle parole di san Paolo è ammirabile e nuovo il connubio nelle relazioni di famiglia tra l’amore e il principio gerarchico. L’amore deve governare tutte le relazioni domestiche: ed esso diventa poi comando in chi è superiore, e diventa obbedienza in chi è inferiore: sempre però nella sustanza deve restare amore, e amore che ci unisce anche a Dio e a Cristo: Obbedite come a Cristo; servite con amore, come al Signore, pensate che il vostro e il loro Padre è nei cieli. Le quali verità, se ci consolano e ci nobilitano grandemente, quando si pensa alle relazioni tra i genitori e i figliuoli, riescono al tutto ammirabili e nuove, allorché si guardi alle attinenze dei servi e dei padroni. La servitù, dico, quella che intende ad alcuni ufficj umili nelle case, il Cristianesimo la trasformò radicalmente, la costituì e la fece vivere non solo nell’amore tra il padrone e il servo, ma in un amore di carità che si eleva sino a Dio. Laonde il servo, secondo l’Apostolo, ami il padrone, ma lo ami in Dio, e così similmente il padrone ami il servo, ma lo ami in Dio, Padre dell’uno e dell’altro. Del rimanente il mutamento, avvenuto per le idee cristiane e pel soffio della carità nella relazione di servitù e di signoria domestica, si manifesta bellamente anche nel linguaggio nostro comune, in gran parte ringiovanito e nobilitato dal Cristianesimo. Il Cristianesimo, col diffondere nuove idee, ha creato molte parole nuove o ha dato significati nuovi alle antiche. Però il servo di casa, lo diciamo cristianamente non servo, ma domestico, che, è come dire persona che appartiene alla casa (domus) e alla famiglia. Che se forse non mai, come ai dì nostri, le relazioni tra padroni e domestici sono diventate spinose e arruffate, ciò dipende da che la coscienza cristiana, cioè il sentimento vivo, forte ed efficace del bene e del male, si è di molto affievolito e offuscato, sì nei padroni, sì nei domestici. Spesso le idee cristiane ci sfiorano la mente quasi come una bella poesia; ma non mettono radici nel cuore e nel sentimento, e allora poco o punto giovano. – Oltre le forme particolari d’amore già toccate, ve ne ha un’altra più spirituale, e forse più bella ancora: intendo l’amore di amicizia. L’amore d’ amicizia per fermo rassomiglia più di tutti gli altri a quello di carità; onde l’Angelico san Tommaso dà il nome di amore d’amicizia all’amore che Iddio ha verso di noi. Ciò non impedisce che anche questo amore d’amicizia, di per sé tanto puro e nobile, possa o corrompersi o, come le piante malaticce, imbozzacchire allorché l’aura celeste di carità non vi spiri dentro. L’ uomo specchia il proprio animo in tutt’i suoi amori; di che, juando l’animo è o disordinato, o uso a inclinarsi al basso, e a troppo ripiegarsi sopra sé stesso per egoi0smo, anche l’amore di amicizia riesce gelido o contaminato dagli stessi vizj. Però l’amore di amicizia esso altresì ha bisogno che la carità lo sani, lo ordini, lo nobiliti, e lo renda meritorio, secondo l’insegnamento della Bibbia nell’Ecclesiastico « Colui, che teme Iddio, ed egli avrà facilmente una buona amicizia.» (Eccl., VI, 14, 15). In quella guisa che san Paolo riesce ammirabile nel descrivere e nobilitare l’amore conjugale e familiare; così i Libri sapienziali dell’antico Testamento ci han lasciato una tale dipintura dell’amicizia, che la più bella e soave non si trova. Parla il Signore, ispiratore dei divini Libri, com’è naturale, dell’amicizia che vive nella carità, e la effigia così: “L’amico fedele è una protezione possente, e chi lo trova, ha trovato un tesoro. Nessuna cosa è da paragonarsi a un amico fedele, e neanche una massa d’oro e d’argento è degna di esser messa in bilancia con la fedeltà di lui. L’amico fedele è balsamo di vita e d’immortalità, e coloro che temono il Signore, lo troveranno. — Come l’unguento e la varietà degli odori rallegrano il cuore; così i buoni consigli dell’amico danno conforto all’animo. Non esca dall’animo tuo il tuo amico, e non ti dimenticare di lui, quando sii venuto in ricchezze.” (Proverb, XXVII; Eccles., XXXVII 6). — Gli stessi Libri sapienziali dipingono al vivo la perfidia dell’amicizia finta; e poi escono in queste parole: “Oh scelleratissima invenzione, donde sei uscita tu a ricoprire la terra di tante malvagità e perfidie!” (Eccles. XXVII, 3.). – E ora consideriamo un po’ addentro questa dolcissima virtù dell’amicizia cristiana, facendo in parte nostri i pensieri di sant’Agostino, dell’Angelico san Tommaso, e anche di Dante, che nella dottrina morale, come nella teologica, fu così fedele discepolo dell’Aquinate. La virtù dell’amicizia consiste nella concordanza e nell’unione degli animi in una medesima volontà. Ma, per costituire amicizia vera e secondo carità, questa unione deve riguardare in prima il fine ultimo della volontà umana, il quale è il bene. Questo fine l’amicizia se lo ha da mettere avanti agli occhi molto di più, che non i desiderj particolari di essa volontà. In quella medesima guisa che si direbbe vero amico di un infermo chi gli procurasse la salute, e non chi aderisse ai desiderj nocivi di lui; così s’ha da pensare d’ogni buona e vera amicizia cristiana. Laonde sant’Agostino in uno stupendo suo sermone distingue tre forme di amicizia possibili, dicendo così: “Vi ha degli amici, uniti di amicizia mala, la quale anzi non s’ ha a dire neanche amicizia; perciocché nasce da coscienza rea. Costoro commettono insieme opere male e pajono amici, perché li anima una stessa coscienza malvagia. Oltre di questa perfida amicizia, ve ne ha un’altra, la quale è materiale o piuttosto profana, ed essa consiste nella consuetudine dell’abitare, del parlare, e dello stare insieme con diletto; sicchè l’amico si rattrista se l’altro lo lascia; e quando vivono unitamente, l’uno non si vorrebbe mai dall’altro disgiungere. Questa amicizia è di per sé onesta; ma è amicizia di consuetudine non di ragione. Anche gli animali, in certo modo, hanno una simile amicizia. Due cavalli mangiano insieme, e desiderano di non separarsi; cammina l’uno, l’altro si affretta di seguirlo, come amico ad amico; se il padrone rattiene uno dei suoi cavalli, quando l’altro si allontana, il primo appena gli esce dalle mani che lo raffrena, va e corre con fuga verso il compagno. Vi ha infine un’altra amicizia assai superiore, e questa amicizia non è di consuetudine, ma di ragione. Essa nella vita presente si fonda tutta nella fedeltà e nella benevolenza, che gli amici hanno tra loro. Ancora, una tale amicizia ha il principale suo fondamento in tutto ciò che è divino, o che proceda da Dio. Laonde quando l’amico vede nell’amico il bene, ed ei lo ama, e così facendo ama in esso il suo Iddio. (August. « In quodam sermone, citato nel Flores Doctorum etc.). Oltre a ciò, l’amicizia buona è pure dolcissima cosa, in quanto che appaga i desiderj onesti e buoni degli amici, con i quali vive in concordia e unità di volere. In vero il Cristiano amico, come nota l’Angelico, si diletta del bene dell’amico suo, e comunica a lui il proprio bene; dona ciò che può all’amico, senza attender di essere richiesto, e così il dono suo riesce più spontaneo, più libero, più gradito. Chi lo riceve, non soffre del pensiero di gravare l’amico, anzi gode ed è grato a lui del libero suo amore. L’uno e l’altro prendono diletto di un modo di dare e di ricevere così nobile e santo. Ancora, l’amico, se, per un verso, si rattrista del male dell’amico suo, per un altro verso, se soffre egli stesso, rivela al suo diletto il male proprio quanto più tardi può, e attenuandolo, quanto può: va prontamente a lui, quando lo sa afflitto, e va non chiamato, perché l’aspettare l’invito gli parrebbe scemamento di amore. Per questa soave comunicazione dell’amicizia, la conversazione con gli amici ci riesce sopramodo dilettevole. Ed è giusto; perciocché la conversazione ci manifesta il bene dell’amico, che a noi è quasi bene proprio. E, poiché per il senso del vedere, meglio che per gli altri sensi, si conoscono le cose, segue che gli amici principalmente desiderano di vedersi. Infine, essendo certo che l’uomo può meglio conoscere e valutare i beni degli altri, che non i propri, ragionevolmente accade che l’uomo si diletti più del conversare con l’amico, che non con se stesso. Tali sono dunque le sante e nobili delicatezze dell’amicizia cristiana. Però Dante a ragione scrisse che non si può avere vita perfetta, senza amici, e che nell’amicizia buona la virtù d’un amico accresce quella dell’altro amico.  (Convit., I, 8; 1, e 3. — Qui cadrebbe opportuno di dire alcun che del dolcissimo e nobile amore di patria; ma ho in animo di parlarne distesamente altrove, Ora basti il considerare che le cose dette dell’amore di famiglia valgono egualmente per l’amore della patria, la quale è in senso largo la nostra seconda famiglia.). – Se non che l’uomo è stato così naturato da Dio, che ha propensione di amore non solo verso le persone, ma anche verso le cose sensibili. E con ragione; perciocché amore è tendenza al bene, e anche le cose senili sono buone, anzi molto buone, secondo che è detto nel Genesi: “ E Iddio vide tutto ciò che aveva fatto ed era molto buono.” (Gen. I, 31). Per quali ragioni tutte le cose create siano in sé buone, fu già accennato avanti; ma non è inutile ricordarlo anche qui. Sono buone, e anzi molto buone le cose create, perché riflettono anch’esse la luce dell’infinito Bene, che è Iddio. Certo, chi voglia paragonare questi riflessi della divina luce, con le nobili e spirituali immagini di Dio, che sono l’Angelo e l’uomo, li dirà riflessi pallidi e opachi, o piuttosto quasi ombre, in cui appena si vede qualche scintilla della divina Bellezza. Ma l’eterna Bellezza, che nelle cose create imperfettamente si specchia, è tanto fuori di ogni misura, che anche una piccola scintilla di luce sua basta per indurci ad amarle, e talvolta disgraziatamente, per la degenerata natura nostra, ad amarle anche troppo. – In vero tutta la natura materiale effigia Iddio in un modo misterioso, e parla a noi di Lui. Così la bellezza dei colli, dei campi, dei fiori, delle stelle effigia a noi la eterna Bellezza di Dio; il mare e l’indefinita e azzurra volta del cielo ci dànno immagine dell’Immenso, dell’Eterno, dell’Incomprensibile; l’ordine e la grande armonia del creato ci parla l’ ordine infinito e l’ eterna armonia, che regna in Dio, e anzi è Dio stesso; il sole infine con la sua luce effigia gli splendori del divino intelletto, e col suo calore ci specchia Iddio medesimo primo eterno e fiammeggiante Amore. Or, poiché anche le cose materiali, perché effigiano Iddio, sono veri beni; l’amore nostro per esse, secondo il divino ordinamento, doveva servirci come di scala al nostro amore a Dio; sicchè l’un amore non si disgiungesse mai dall’altro. Ma disgraziatamente, pel peccato d’origine tutte le gerarchie furono turbate e guaste, e principalmente le gerarchie di amore. Ne seguì che l’uomo quasi sempre ami disordinatamente i beni esteriori, e il disordine riesca tanto micidiale, che la scala di amori, la quale dovrebbe farci ascendere verso il Bene e l’Essere infinito, che è Dio, spesso ci fa discendere verso il male, e il non essere che è il nulla. – Oltre a ciò i beni materiali, da Dio creati, altri servono alla nostra vita, e ci dilettano per questo: altri la migliorano e pur ci dilettano: altri hanno per giunta un loro diletto particolare, che è del corpo, ma che lo sente lo spirito e tutta la persona. Così per esempio l’aria, l’acqua, il cibo ci mantengono la vita, le ricchezze e gli agi ce l’abbelliscono e migliorano; il canto degli uccelli e le melodie delle voci e degli istrumenti rallegrano l’udito; i fiori, la marina, i colli, la luce rallegrano l’occhio; e le frutta gustose, e il frumento, e il succo della vite ci riescono grati al gusto. Tutti questi beni noi li amiamo, e giustamente li amiamo. Ma, poiché il peccato ci trae in basso possentemente, assai delle volte noi li amiamo troppo; li amiamo tanto, sino a dimenticare tutta quella aurea serie di beni spirituali, che valgono tanto di più, e sino lo stesso Bene eterno infinito. – Le cose materiali dunque, che, per le ragioni dette, sono di per sé amabili; l’uomo, dopo il peccato, quasi sempre le ama troppo e disordinatamente e male; s’impiglia in esse, ed esse gl’impediscono il volo dell’anima verso i beni spirituali, e verso Iddio stesso. Ma la dolcissima carità, come sana e ordina e nobilita santifica gli altri amori particolari; così fa egualmente dell”amore alle cose sensibili. Produce tutti questi benefici effetti, sia per lume e per movimento di grazia interiore, sia per effetto suo proprio. L’amore di carità ci adusa a dare a ciascuno dei molti beni, tra i quali viviamo, il suo valore proprio, senza scemare o accrescere d’una sola dramma il pregio reale d’alcuno; onde solo per chi ha vera carità, l’oro è oro, l’argento è argento, il rame è rame; tutti i beni insomma si valutano per quel che sono. L’amore di carità ci dà norme sicure nel conoscerli, sia mercè la fede, sia mercè la comparazione di ciascun bene umano con l’infinito Bene. Dippiù ci abitua a vivere di amori nobili e altamente ideali, i quali naturalmente rimpiccioliscono alla nostra mente tutti gli amori dei beni materiali, e ci procura molti diletti spirituali interiori e nobili, che ci fanno o poco o punto desiderare quei diletti materiali, che ai peccatori pajono soli desiderabili. Soprattutto la dolcissima e benefica carità di Gesù Cristo, facendoci vivere più nella vita avvenire ed eterna, che nella vita presente e temporanea, c’induce a considerare come intoppo o come superfluità ogni amore, che, fuori dell’ordine e con troppa vivacità, ci leghi ai beni terreni. – Le cose, che ho detto sin qui in questo Capo, e nei precedenti intorno alla fede, alla speranza e alla carità, tre note in una sola armonia, sono, come uno sprazzo luminoso, messo in paragone di un oceano di luce. E nondimeno esse hanno prodotto in me che scrivo (perché non dirlo?) e spero producano in qualcuno dei miei lettori, due effetti principalissimi. Il primo è che mi hanno mostrato la bellezza delle tre celesti virtù, fede, speranza e carità, o piuttosto mi ci hanno fatto meglio e più profondamente pensare. L’altro è che, scrivendo mi si è chiarito e rinvigorito il convincimento, che errano grandemente coloro, i quali stimano queste virtù essere quasi fantasmi o sogni di asceti, senza fondamento alcuno nella natura umana, e anzi fatte per contradirla. Mille volte no. Fede, speranza e carità mi rassomigliano alla scala veduta in sogno da Giacobbe; la quale, se con la cima toccava il cielo, con la base era assai ben fondata su la terra. Esse sono indubbiamente virtù celestiali, ma corrispondono in modo ammirabile alle propensioni, ai desideri, ai bisogni della nostra mente, del nostro cuore, di tutta l’anima nostra. E l’anima nostra si sente migliore, più forte, più viva, più capace di moto, quando si eleva a queste nobili altezze, che non quando s’impantana negli amori del senso, delle vanità e delle ricchezze. Ben è vero che queste dottrine, come insegnò Gesù Cristo, le comprendono piuttosto gli umili, che non i sapienti del mondo; ma anche costoro sarebbe bene che almeno ci pensassero un po’ su, e non sarebbe, io credo, senza frutto. Per quanto l’uomo si voglia imbestiare tra le corruttele e le passioni, qualcosa di alto, di grande, di nobile resta sempre nel suo spirito, e almeno in alcune ore della vita, egli non può restar sordo alla voce interiore che gli grida: in alto, in alto il cuore: perché mai tu elevi con tanto compiacimento lo sguardo al cielo, e non vuoi levare la mente e il cuore a chi creò questo cielo, e, a nostro modo d’intendere, misteriosamente vi abita? E se, poniamo, qualche uomo mondano o paganeggiante o tentennante nel bene, oltre al pensare a queste virtù, con uno sforzo della volontà si avvicinasse un po’ ad esse; chi sa che non incomincerebbe, per impulso di grazia, a sentire anch’egli che il Signore è soave, molto soave a coloro i quali lo amano, e che il giogo di Cristo è pieno di dolcezze, e il peso della legge di lui è leggero?

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “VIX DUM A NOBIS”

… “Niente Dio ama tanto in questo mondo, quanto la libertà della sua Chiesa; coloro che vogliono non giovarle, ma dominarla, dimostrano senza dubbio di essere avversari di Dio; Dio vuole che la sua Sposa sia libera, non schiava“… La sentenza di S. Anselmo fa da compendio alla lettera Enciclica che S. S. Pio IX invia ai suoi Vescovi, ai prelati e al popolo cattolico dell’Impero austriaco, minacciati da inique leggi oppressive della libertà della Chiesa di Cristo, la Chiesa Cattolica romana, in dispregio di un recente concordato con la Sede apostolica, e questo ancor più grave perché in essere in un Impero difensore storico della Chiesa Cattolica e guidato da un Imperatore cattolico. Questo dimostra come da sempre la Chiesa abbia avuto ed abbia ed avrà sempre nemici esterni ed interni, soprattutto questi che sono poi i più subdoli ed i peggiori, perché ipocriti ed ingannevoli nelle loro apparenze ossequiose e devozione affettata verso l’Autorità divina incarnata sulla terra dal Sommo Pontefice Romano. Ma ancora una volta vediamo come nella storia coloro che abbiano combattuto o non difeso gli interessi del Regno di Dio sulla terra – cioè la Chiesa di Cristo – dopo un apparente successo iniziale, abbiano pagato caramente la loro rivolta contro Dio; l’Impero Austriaco, un tempo una delle maggiori potenze mondiali,  è ridotto ad un misero staterello senza importanza alcuna, inglobato in una unione europea alla quale è totalmente asservito e tributario di ricchezze utilizzate contro i propri interessi; la famiglia imperiale, alla quale il sovrano Pontefice si rivolgeva con affetto e amore paterno, in gran parte distrutta, demolita, esiliata, destituita di ogni influenza politica e di ogni potere territoriale. Il popolo tanto amato e baluardo nel passato nei confronti di popoli barbari ed infedeli, devastato da guerre, lutti e disastri. La storia si ripete sempre, ma non insegna nulla ai corifei del demonio delle sette di perdizione che, tristemente ingannati dal serpente maledetto, sperano di avere finalmente la meglio sulla Chiesa. Ma ogni tentativo è vano ed il Signore si riderà di loro, se ne prenderà beffe e alla fine li annienterà sommergendoli nello stagno eterno di fuoco.

Pio IX

Vix dum a nobis

Avevamo appena denunciato al mondo cattolico con la lettera del 24 novembre [in realtà: 21 novembre] dell’anno scorso la grande persecuzione scatenata specialmente in Prussia e in Svizzera contro la Chiesa di Dio, quando una nuova preoccupazione si è aggiunta al Nostro dolore con le notizie pervenuteci circa le violenze che incombono sulla stessa Chiesa, la quale, fatta simile allo Sposo divino, può giustamente lamentarsi con le parole del profeta: “Aggiungono dolore alle mie ferite” (Sal 69,27). Queste violenze tanto più Ci angosciano in quanto provengono dal Governo di quella Nazione Austriaca, che nei momenti più critici per la Cristianità aveva già combattuto con valore, strettamente unita alla Sede Apostolica, per la fede cattolica. – Infatti già da alcuni anni in codesto Impero sono state emanate leggi e disposizioni assolutamente contrarie ai più sacri diritti della Chiesa e ai patti solennemente sanciti: leggi e disposizioni che nella Nostra Allocuzione ai Venerabili Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa, tenuta il 22 giugno 1868, abbiamo dovuto, secondo il Nostro ufficio, condannare e dichiarare nulle. Ora poi vengono proposti all’esame e all’approvazione delle Assemblee pubbliche dell’Impero nuove leggi che presentano chiaro l’intento di asservire completamente la Chiesa, con suo gravissimo danno, all’arbitrio del potere civile, contro la divina volontà di Nostro Signore Gesù Cristo. – Il Creatore e Redentore del genere umano fondò la Chiesa come suo regno visibile sulla terra non solo per trasmettere col soprannaturale carisma dell’infallibile Magistero la sacra dottrina e per promuovere il culto divino del santo sacerdozio e la santificazione delle anime con il Sacrificio e con i Sacramenti, ma lo dotò anche di un proprio e pieno potere legislativo, giudiziario ed esecutivo per tutto ciò che riguarda il fine specifico del regno di Dio sulla terra. – Il potere soprannaturale del governo della Chiesa è, per lo stesso volere di Gesù Cristo, del tutto diverso e indipendente dal potere politico. Il regno di Dio sulla terra è il regno di una società perfetta e, come tale, è sostenuto e governato da proprie leggi, da propri diritti, da propri capi che vigilano attentamente, sapendo di dover rendere conto delle anime non ai governanti della società civile, ma a Gesù Cristo, Principe dei pastori, che li ha costituiti pastori e maestri, non soggetti, nell’esercizio del ministero di salvezza, a nessun potere terreno (cf. Eb XIII,17; Ef IV,11; 1Pt V,2). Perciò, come spetta ai Vescovi il dovere di governare, così spetta a tutti i fedeli, secondo l’ammonimento dell’Apostolo, il dovere di ubbidire e di stare sottomessi a loro; e i popoli cattolici hanno il sacrosanto diritto di non essere ostacolati da un governo civile in questo compito, imposto da Dio, di seguire la dottrina, la disciplina e le leggi della Chiesa. – Voi stessi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, vedete bene come Noi quale grave violazione di questa divina costituzione della Chiesa, quale intollerabile sovvertimento dei diritti della Sede Apostolica, dei Vescovi e del popolo cattolico contengono e apertamente sostengono quelle leggi, che ora sono al vaglio delle Assemblee Austriache. – Secondo tali leggi, infatti, la Chiesa di Gesù Cristo, in quasi tutte le sue disposizioni e attività che riguardano il governo dei fedeli, è considerata e ritenuta completamente soggetta e asservita al potere dell’autorità civile; e ciò è stabilito chiaramente come principio in quell’esposto delle Motivazioni, che spiegano la forza e il senso delle leggi proposte. E si dice anche espressamente che spetta al Governo civile dettare leggi sia in campo politico come in campo ecclesiastico, e vigilare e avere il controllo sulla Chiesa come su tutte le altre società private puramente umane che si trovano entro i confini dell’Impero. – Così il governo civile si arroga il compito sia di arbitrare e sindacare sull’ordinamento e sui diritti della Chiesa cattolica, sia di governarla in parte con le proprie leggi, in parte attraverso ecclesiastici che gli si sono venduti. Ne consegue che il potere terreno con l’arbitrio e la forza si sostituisce al potere sacro nel governo della Chiesa istituita da Dio per il ministero e per l’edificazione del corpo di Cristo. Contro una tale usurpazione del sacro in difesa del diritto e della verità cattolica, risponde il grande Ambrogio: “Si dice che tutto è lecito all’imperatore e che tutto è suo. Rispondo: Non pretendere, come pensi, di avere qualche diritto sulle cose divine; non gonfiarti, ma sii sottomesso a Dio. Sta scritto: a Dio, quello che è di Dio; a Cesare quello che è di Cesare. All’imperatore i palazzi, al sacerdote le Chiese“. – Per quanto poi riguarda le leggi a cui si riferisce l’esposto delle Motivazioni, benché sembri forse che esse presentino un’apparenza di moderazione se confrontate con le ultime leggi prussiane, in realtà hanno lo stesso fondamento e lo stesso carattere, e causeranno gli stessi danni alla Chiesa Cattolica nell’interno dell’Impero Austriaco. – Non intendiamo riandare passo per passo le singole leggi; ma non possiamo affatto passare sotto silenzio il torto gravissimo che dalla proposta stessa di queste leggi vien fatto a Noi e a questa Sede Apostolica, non meno che a voi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, e a tutto il popolo Cattolico di codesta Nazione. Infatti la Convenzione stipulata tra Noi e il serenissimo Imperatore nel 1855, garantita con solenne impegno da parte dello stesso Principe cattolico e promulgata a guisa di legge di Stato in tutto l’Impero, viene ora proposta alle Assemblee dell’Impero per essere dichiarata abrogata e nulla quasi in ogni sua parte; e ciò senza nessuna previa trattativa con questa Sede Apostolica, anzi in pieno dispregio delle Nostre giustissime rimostranze. In verità, nei tempi in cui la lealtà pubblica aveva ancora credito, un gesto simile non lo si sarebbe potuto rischiare; ora invece, in questa così triste situazione di cose, non solo si tenta, ma lo si fa. Contro questa violazione di un patto solennemente stipulato, protestiamo nuovamente davanti a voi, Nostri Diletti Figli e Venerabili Fratelli, ma con dolore molto più profondo denunciamo e riproviamo questo torto fatto a tutta la Chiesa in quanto la causa e il pretesto di questa abrogazione del Concordato e delle leggi connesse vengono attribuiti temerariamente alle definizioni della dottrina rivelata dettate dal Concilio Ecumenico Vaticano, e questi stessi dogmi cattolici sono empiamente chiamati innovazioni e stravolgimenti della dottrina della fede e della Costituzione della Chiesa cattolica. Se è vero che nella nazione Austriaca ci sono taluni che sotto la spinta di queste infami menzogne rinnegano la fede cattolica, è anche vero che l’augustissimo Imperatore insieme con i suoi gloriosi Avi e con tutta la famiglia imperiale la conserva e la professa, unitamente alla maggior parte di quel popolo a cui si danno leggi fondate su tali menzogne. – Così, dopo aver rescisso a Nostra insaputa e contro la Nostra volontà la solenne Convenzione che abbiamo stipulata col serenissimo Imperatore per provvedere alla salute delle anime e insieme al bene comune dello Stato, si adduce ora come pretesto una certa qual nuova forma di diritto e si rivendica al Governo civile un nuovo titolo giuridico per poter stabilire e decretare di propria iniziativa ciò che crederà opportuno circa gli affari spirituali ed ecclesiastici. – E questo si compie per riuscire, con l’ausilio delle leggi che ora vengono proposte, a ostacolare e impastoiare, mediante gravose obbligazioni, la inviolabile libertà della Chiesa nella cura delle anime, nel governo dei fedeli, nella formazione religiosa del popolo e dello stesso clero, nel dirigere la vita verso la perfezione evangelica, nell’amministrazione e nella proprietà dei beni; si tenta di ingenerare confusione nella disciplina cattolica, di favorire la defezione dalla Chiesa e di rafforzare, sempre con l’aiuto di quelle leggi, la coalizione e la cospirazione delle sette contro la vera fede di Cristo. Avremmo tutta la possibilità di ricordarvi quali e quanti mali si dovrebbero temere, se quelle leggi venissero promulgate. Ma un fatto, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, non può ingannare e raggirare la vostra prudenza: cioè, quasi tutti gli uffici e i benefici ecclesiastici, anzi perfino l’esercizio dei doveri pastorali, diventeranno così soggetti al potere civile, che i sacri Vescovi, se si adattassero (che ciò non avvenga!) alle nuove leggi, sarebbero costretti a tenere il governo delle diocesi, di cui dovranno rendere conto a Dio, non più secondo i saggi decreti della Chiesa, ma secondo la volontà e l’arbitrio di coloro che saranno a capo dello Stato. – Che cosa ci sarà poi da aspettarsi da quelle proposte di leggi che passano sotto il titolo di riconoscimento degli Ordini religiosi? Decisamente la forza nefasta e l’intento ostile di quelle leggi sono così chiari, che non c’è nessuno che non capisca che sono state pensate e preparate per rovinare e distruggere le Famiglie religiose. – Il danno poi che pende sui beni temporali è così grande, che a stento si differenzia da una pubblica confisca e da un saccheggio. Quei beni, se quelle leggi ostili saranno approvate, il Governo civile li avrà in suo potere, crederà di avere il diritto di dividerli, di conferirli e di impoverirli con tasse al punto che il possesso e l’uso che ne rimarrebbero, sarebbero visti non come un decoro, ma come una beffa per la Chiesa e un velo per coprire l’ingiustizia. – Se queste sono le leggi di cui si discute nelle Assemblee dell’Impero Austriaco, e se questi, come abbiamo dimostrato, sono i principi su cui si fondano, vi risultano palesi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, i pericoli imminenti che incombono sul gregge affidato alla vostra vigilanza. Sono chiamate in causa l’unità e la pace della Chiesa, alla quale si vuole togliere quella libertà che San Tommaso di Canterbury ha saggiamente definito “che è l’anima della Chiesa: senza di essa [la Chiesa] non ha forza né efficacia contro coloro che cercano di impossessarsi ereditariamente del santuario di Dio” . Questo pensiero è già stato espresso prima da un altro forte difensore della libertà, Sant’Anselmo, con queste parole: “Niente Dio ama tanto in questo mondo, quanto la libertà della sua Chiesa; coloro che vogliono non giovarle, ma dominarla, dimostrano senza dubbio di essere avversari di Dio; Dio vuole che la sua Sposa sia libera, non schiava” . Perciò vogliamo sempre più incitare e infiammare la vostra sollecitudine pastorale e lo zelo di cui ardete per la casa di Dio, perché vi adoperiate a tenere lontano il pericolo che incombe. Fatevi coraggio e affrontate una lotta degna del vostro valore. Siamo certi che non avrete meno coraggio e meno valore di altri Venerabili Fratelli, che altrove, tra crudeli angherie, sono esposti pubblicamente a insulti e tribolazioni per la libertà della Chiesa, e non solo accettano con gioia di essere spogliati dei propri beni, ma addirittura sostengono in carcere la battaglia dei patimenti (Eb X, 32ss.). – D’altra parte ogni nostra speranza è posta non nelle nostre forze, ma nella potenza di Dio; qui è in gioco la causa di Dio, il quale, con parole che non passeranno, ci ha ammonito e incoraggiato: “Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia: io ho vinto il mondo” (Gv XVI, 33). Perciò Noi, che per il Nostro ufficio Apostolico, con l’aiuto della grazia divina, siamo stati costituiti come guida in questa lotta così varia e atroce contro la Chiesa, vi annunciamo e promettiamo ciò che disse una volta il Santo Martire di Canterbury con parole che si applicano benissimo alla nostra epoca e al pericolo attuale: “La causa che i nemici della Chiesa muovono contro di noi, è una causa tra loro e Dio, perché noi non chiediamo a loro nient’altro se non ciò che Dio immortale, incarnandosi, ha lasciato per testamento eterno alla sua Chiesa. Nella fede e nella carità di Cristo sorgete insieme a noi in aiuto della Chiesa e con l’autorità e la prudenza che avete, opponetevi agli uomini, che non hanno nessuna possibilità di successo, se la Chiesa di Dio gode di libertà. Contiamo molto su di voi, specialmente perché si tratta della causa di Dio. Quanto a Noi, tenete per certo che siamo disposti ad affrontare la morte temporale piuttosto che continuare a sopportare le angustie di una miserevole schiavitù. Dall’esito di questa controversia dipenderà se la Chiesa in futuro dovrà piangere (che ciò non avvenga!) per continue tribolazioni, o godere di una perenne libertà“. – Nel tentativo, che dovete fare, per prevenire con la vostra autorità, prudenza e zelo i pericoli che incombono, voi sapete che nulla sarà più utile e più opportuno quanto riunirvi a consiglio e cercare e decidere insieme le ragioni e le vie più adatte a conseguire con maggior sicurezza ed efficacia lo scopo proposto. Se vengono attaccati i diritti della Chiesa, tocca a voi ergervi frontalmente e opporre un baluardo in difesa della casa di Israele. – La resistenza sarà tanto più forte, e la difesa tanto più valida, quanto più concordi e uniti saranno l’impegno e lo sforzo dei singoli, e con quanta più cura sarà messo in opera il piano d’azione preparato e deciso in vista delle varie emergenze, che potrebbero verificarsi. Perciò nuovamente vi esortiamo a riunirvi quanto prima, a scambiarvi i rispettivi punti di vista e a stabilire un piano sicuro da tutti approvato, con cui, in ragione del vostro ufficio, possiate tutti d’accordo respingere i mali che sovrastano, e difendere la libertà della Chiesa. Era giusto che vi mettessimo al corrente della vicenda, per non dare l’impressione di mancare al Nostro dovere in una situazione così grave. Siamo persuasi infatti che voi, anche senza le Nostre esortazioni, l’avreste fatto spontaneamente. Del resto, non abbiamo ancora perduto completamente la speranza che Dio voglia allontanare per altra via le calamità che si preannunciano. Ci inducono a ben sperare la pietà e la devozione del Nostro Carissimo Figlio in Cristo Francesco Giuseppe, Imperatore e Re. Con l’ultima lettera inviatagli oggi lo abbiamo scongiurato a non permettere mai che nel suo vastissimo impero la Chiesa sia ridotta in schiavitù e i suoi sudditi Cattolici messi in gravi difficoltà. – Ma poiché sono molti coloro che attentano alla Chiesa, e ogni lentezza è sempre gravida di pericoli, è assolutamente necessario che non siate inerti. Diriga Dio le vostre decisioni, e con il suo potente aiuto vi assista perché possiate stabilire e portare felicemente a termine soprattutto ciò che riguarda il decoro del suo nome per la salute delle anime. – Come auspicio di questo celeste aiuto e come testimonianza della Nostra benevolenza a voi, tutti e singoli, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, al Clero e ai fedeli affidati alla vostra cura, impartiamo con affetto la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 7 marzo 1874, nel ventottesimo anno del nostro Pontificato.

DOMENICA IV DOPO L’EPIFANIA (2022)

Domenica IV dopo l’EPIFANIA (2022)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Il Vangelo è tratto dallo stesso capo del Santo Vangelo della terza Domenica dopo l’Epifania. È il racconto di un nuovo miracolo. Gesù manifesta la sua divinità comandando ad elementi potenti ed indocili come le acque sconvolte ed i venti scatenati. E « l’Evangelista fa risaltare l’importanza del prodigio, opponendo alla grande agitazione delle onde », « la grande calma che ne segue » (Vang.). Ma è nella Chiesa che si esercita la regalità divina di Gesù; così i Padri hanno visto nei venti che soffiano in tempesta un simbolo dei demoni di cui l’orgoglio suscita le persecuzioni contro i Santi, e nel mare tumultuoso le passioni e la malvagità degli uomini; cause delle trasgressioni ai comandamenti e delle lotte fraterne. Nella Chiesa, al contrario, regna la gran legge della carità perché, se i tre primi precetti del Decalogo ci impongono l’amore di Dio, altri sette ci impongono, come conseguenza logica, l’amore del prossimo (Ep.). Dio infatti è nel prossimo perché, mediante la grazia siamo in certo modo il complemento del corpo di Cristo. È questo il mistero dell’Epifania. Gesù si rivela Figlio di Dio e tutti quelli che riconoscendolo tale, lo riconoscono loro Capo, divengono membri del suo Corpo mistico. Formando tutti un solo corpo nel Cristo, i Cristiani devono anche amarsi reciprocamente. Questa barca, dice S. Agostino, rappresenta la Chiesa la quale manifesta nei secoli la divinità di Cristo. È infatti alla protezione del Salvatore che Essa deve « malgrado la sua fragilità » (Or. Sec), se non è inghiottita in mezzo a tanti pericoli che la minacciano (Or.). Gesù, dice S. Giov. Crisostomo, sembra che dorma per costringerci a ricorrere a Lui, e salva sempre quelli che lo invocano.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCVI:7-8 Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae.

[Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda.]

Ps XCVI:1 Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.

[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Orémus

. Deus, qui nos, in tantis perículis constitútos, pro humána scis fragilitáte non posse subsístere: da nobis salútem mentis et córporis; ut ea, quæ pro peccátis nostris pátimur, te adjuvánte vincámus.

[O Dio, che sai come noi, per l’umana fragilità, non possiamo sussistere fra tanti pericoli, concédici la salute dell’anima e del corpo, affinché, col tuo aiuto, superiamo quanto ci tocca patire per i nostri peccati.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom XIII: 8-10

Fratres: Némini quidquam debeátis, nisi ut ínvicem diligátis: qui enim díligit próximum, legem implévit. Nam: Non adulterábis, Non occídes, Non furáberis, Non falsum testimónium dices, Non concupísces: et si quod est áliud mandátum, in hoc verbo instaurátur: Díliges próximum tuum sicut teípsum. Diléctio próximi malum non operátur. Plenitúdo ergo legis est diléctio.

[Lettura della Lettera del B. Paolo Ap. ai Romani. Rom XIII:8-10 – Fratelli: Non abbiate con alcuno altro debito che quello dell’amore reciproco: poiché chi ama il prossimo ha adempiuta la legge. Infatti: non commettere adulterio, non ammazzare, non rubare, non dire falsa testimonianza, non desiderare, e qualunque altro comandamento, si riassumono in questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. L’amore del prossimo non fa alcun male. Dunque l’amore è il compimento della legge.]

L’Apostolo aveva esortato i Fedeli di Roma ad obbedire ai principi della terra, a pagar loro il tributo, e rendere a ciascuno tutto quanto gli si deve: perciò conclude così: non vi resti altro debito con nessuno, se non quello dell’amore che ci dobbiamo sempre gli uni agli altri: La carità è un debito perpetuo, che il vero Cristiano paga sempre, né se ne affranca mai. Non vi è nessuno dei nostri fratelli che noi non dobbiamo amare; nessuno che non dobbiamo amar sempre. Può alcuno rendersi indegno della mia affezione per i suoi portamenti sregolati, viziosi, da ingrato, anche scandalosi, ma non potrebbe liberarmi dall’obbligo di amarlo: posso io disapprovare i fatti suoi, condannarne i mali costumi, ma non sono meno obbligato d’amare la sua persona. È un dovere di religione, da cui nulla può dispensarmi; è un comandamento eguale a quello di amare Dio, così positivo, così determinato, così permanente e così fermo.

Aspirazione. O divino Gesù, versate in cuore a noi lo spirito dì carità, sicché, la vostra grazia facendoci camminare sulle vostre orme, noi adempiamo fedelmente il precetto dell’amore del prossimo.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Graduale

Ps CI:16-17 Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.

[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua. Allelúja, allelúja.

[Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XCVI:1 Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ. Allelúja.

[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.

Matt VIII:23-27

“In illo témpore: Ascendénte Jesu in navículam, secúti sunt eum discípuli ejus: et ecce, motus magnus factus est in mari, ita ut navícula operirétur flúctibus, ipse vero dormiébat. Et accessérunt ad eum discípuli ejus, et suscitavérunt eum, dicéntes: Dómine, salva nos, perímus. Et dicit eis Jesus: Quid tímidi estis, módicæ fídei? Tunc surgens, imperávit ventis et mari, et facta est tranquíllitas magna. Porro hómines miráti sunt, dicéntes: Qualis est hic, quia venti et mare oboediunt ei?”

[In quel tempo: Gesù montò in barca, seguito dai suoi discepoli: ed ecco che una grande tempesta si levò sul mare, tanto che la barca era quasi sommersa dai flutti. Gesù intanto dormiva. Gli si accostarono i suoi discepoli e lo svegliarono, dicendogli: Signore, salvaci, siamo perduti. E Gesù rispose: Perché temete, o uomini di poca fede? Allora, alzatosi, comandò ai venti e al mare, e si fece gran bonaccia. Onde gli uomini ne furono ammirati e dicevano: Chi è costui al quale obbediscono i venti e il mare?]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA TRIBOLAZIONE

Giù dalle colline di Tiberiade e di Magdala precipitò improvviso un colpo di vento che si rovesciò sul lago. Corse un fremito per tutto lo specchio dell’acqua; una povera barca sorpresa remeggiava disperatamente per raggiungere la sponda. Il primo colpo di vento fu ben presto seguito da un secondo, da un terzo, e l’uragano diventò spaventoso. Pochi minuti prima; com’era delizioso il lago di Genezareth! L’ora del tramonto, la quiete dei colli in giro, la. frescura vespertina e non so quale profumo di purezza e di poesia riempivano l’anima di un vago benessere. E Gesù s’era messo in barca con gli Apostoli e poi s’era sdraiato appoggiando il capo sul cuscino dei rematori: la stanchezza d’una giornata operosa, il ritmico batter dei remi gli conciliarono il sonno e s’addormentò. E dormiva anche allora che la selvaggia tempesta mugghiava, e la notte era discesa a far più terribile quell’ora. Ad un tratto la barca, trascinata in un vortice, fece acqua da tutte le parti: i discepoli, per quanto avvezzi al mare, presi dallo spavento si gettarono sul Maestro scotendolo dal sonno, « Signore! salvaci che affondiamo ». Gesù rispose: « Gente di poca fede, di che avete paura? ». Senza turbarsi, si levò nel vento e nell’oscurità della burrasca, e disse: « Placati! ». E fu la bonaccia. – La vita è come un mare che dobbiamo attraversare su d’una fragile barchetta per raggiungere, all’altra sponda, il nostro eterno destino. Ma più spesso che sul mare, intorno a noi si scatena la tempesta delle tribolazioni e cerca di sommergerci. Ci sono delle ore in cui viene spontaneo il grido disperato dell’Idumeo: « Maledetto il giorno in cui si disse: è nato un uomo ». Ci sono delle ore così fosche che la fede nella Provvidenza vacilla e s’odono Cristiani, e perfino delle buone mamme di famiglia, bestemmiare contro la giustizia di Dio, negarne l’esistenza, buttarsi in preda alla disperazione. « Che cosa ho fatto di male? Dio è ingiusto. — Meglio fare il Barabba che si è più fortunati. — Se Dio è buono perché non m’aiuta? — Oh, se ci fosse davvero questo Dio… ». Non le avrete forse pronunciate anche voi, nella vostra vita, queste bestemmie? Modicæ fidei! gente di poca fede. – Per trovare la forza di sopportare le tribolazioni bisogna aver tanta e viva fede, poiché la fede ci persuade di due cose: la tribolazione viene da Dio, la tribolazione riconduce a Dio. LA TRIBOLAZIONE VIENE DA DIO. Non si parla mai di tribolazione senza ricorrere all’antico esempio di Giobbe. Come mai questo patriarca, che pur era un uomo come noi, seppe portare santissima pazienza e rassegnazione fra tutte le sciagure che l’opprimevano? Un giorno gli arriva in casa, trafelatissimo, un servo e gli dice: «I Sabei hanno rapito i buoi che aravano e gli asini che pasturavano; hanno passato a fil di spada i tuoi servi: io solo sfuggii per miracolo ». Parlava ancora costui che ne arrivò un altro: « Un fulmine ha incendiato il tuo ovile con tutte le pecore e con tutti i servi: io solo sono qui per miracolo ». Non aveva ancora finito che ne sopraggiunge un terzo: « Mentre i tuoi figli e le tue figlie banchettavano in casa del loro fratello maggiore, il vento ha rovesciato la casa seppellendoli sotto: io solo fui salvo, per miracolo ». Allora Giobbe stracciò il suo mantello, si prostrò a terra, adorò il Signore e disse: « Nudo son nato e nudo morrò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia benedetto il Signore » (Iob., 1,21); il Signore! dunque non i Sabei, non il fulmine, non il vento, ma Dio gli mandava i dolori. E quando perderà la salute, che perfin la moglie lo deriderà per la sua fiducia nella Provvidenza, egli saprà risponderle: « Tu parli come una donna stolta. Come dalle mani di Dio riceviamo volentieri le consolazioni, così dalle mani di Dio dobbiamo ricevere volentieri anche le tribolazioni ». Ecco il segreto che diede forza a Giobbe, che può dar forza anche a noi: ogni tribolazione vien da Dio, e dalle mani di Dio tutto si deve prendere volentieri perché è nostro padrone ed è nostro padre. Dio è Padrone: di noi, dei nostri cari, dei nostri beni; ed il padrone delle sue cose può far ciò che vuole, darne a noi o togliercele; donarci la salute e privarcene; metterci a fianco una persona amata e riprenderla quando a lui piace. Noi, sue povere creature, dobbiamo dire sempre: sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. – Dio è Padre: che ci ama, che vuole il nostro bene anche quando ci tormenta e ci fa piangere. Ho assistito una volta ad una vaccinazione di bambini. Le mamme stesse li portavano: ma i piccoli strillavano, sferravano i piedini come per fuggire dalle braccia materne, graffiavano, piangevano: « Mamma, cattiva cattiva ». Ma le mamme non si lasciavano commuovere e denudavano le braccine rosee e le sottoponevano alla lancetta pungente del dottore, perché le scalfisse fino al sangue. Così Dio fa con noi: ci sottopone alla vaccinazione del dolore, perché sa che è necessaria per scampare dalla malattia del peccato. Sotto l’angoscia noi, come un bambino che non capisce ancora, ci rivoltiamo contro Lui quasi a graffiarlo, ma il Signore che, come una mamma, vede più in là di quel che possiamo veder noi, non si lascia commuovere. Noi, quando entreremo in Paradiso e conosceremo ogni cosa, esclameremo: « Benedetta la severità di Dio! ». – Gesù Cristo, fratello nostro maggiore, ha sopportato tribolazioni infinite: la fatica, il disprezzo, la calunnia, il tradimento, la flagellazione, gli sputi negli occhi, la croce. Chi l’ha sostenuto nell’atroce martirio? Chi gli ha dato animo a bere l’amarissimo calice fino alla feccia? Il pensiero che quel calice glielo dava da bere suo Padre Iddio. Calicem quem dat mihi pater non bibam? – LA TRIBOLAZIONE CI RITORNA A DIO. Manasse, salito al trono di Giuda a dodici anni, corteggiato ed onorato da un popolo, nell’abbondanza dei favori divini, fece il male in cospetto al Signore. Alzò altari a Baal, piantò boschetti per gli idoli, riedificò le statue del demonio distrutte già da Ezechia, suo padre. Giunse perfino a mettere sulle braccia infocate di Moloch un suo figlio, e a lasciarlo bruciare in sacrificio al mostro. Il Signore allora suscitò gli Assiri che invasero il regno dell’empio re. Manasse, colto d’improvviso, fu vinto, preso, legato, trascinato a Babilonia. Nell’esilio obbrobrioso, il re prigioniero, solo e disprezzato, s’accorse che la mano di Dio gravava sopra il suo capo. Allora soltanto si ricordò del Signore, e si rivolse a Lui e lo scongiurò ad usargli misericordia. Postquam coangustatus est, oravit ad Dominum Deum suum. (II Par., XXXIII, 12). Così è di noi pure: quando siamo fortunati, quando la salute è buona e gli affari vanno bene, ci dimentichiamo di Dio come di una cosa inutile; e spesso calpestiamo la sua legge e viviamo lontani da Lui che ci ha creati. Ci vogliono le tribolazioni per aprirci gli occhi, per ricondurci a Dio. Non fu così, e sempre, anche del popolo di Israele? Quando Dio lo colmava di favori, il popolo cadeva nell’idolatria: incrassatus, impinguatus dereliquit Deum Factorem suum (Deut. XXXI, 15). Ma poiché il Signore riempì di tribolazione e di morte il suo cammino, ritornò a rifugiarsi nel suo Dio.Talvolta Iddio manda la tribolazione ad innocenti bambini, a uomini vissuti sempre nella giustizia; allora essa è una prova che Dio manda per accrescere i meriti dei suoi amici. Dio è come un padrone che fa lavorare molto quelli che vuol compensare molto.La tribolazione può essere anche un purgatorio terreno, col quale Iddio purifica le anime elette da ogni ombra di colpa, per riserbare ad essi nient’altro che gioia e premio; mentre la prosperità degli empi è un piccolo premio del poco bene che han fatto quaggiù, e dopo morte non avranno che dolore e castigo. – Dopo il martirio di S. Stefano, scoppiò in Palestina una persecuzione contro i Cristiani. Lazzaro, il resuscitato, le sorelle Maria Maddalena e Marta, avevano venduto la loro casa e i loro beni per beneficare i poveri e giravano di paese in paese predicando il Vangelo del Signore. Ben presto furono presi e imprigionati e poiché essi non volevano desistere dal predicare, e d’altra parte i Giudei non sapevano come farli tacere, li misero, legati, sopra una barcaccia vecchia e sconnessa e con loro posero anche Cedonio, il cieco nato guarito da Gesù; e poi li tirarono in alto mare. E là, smarriti sulle acque, legati nella barca che cigolava per ogni connessura, senza remi e senza vela, li abbandonarono alla mercé delle onde. Vennero le tenebre, soffiarono i venti, muggirono le procelle, ma sulla barca vi erano dei sinceri Cristiani che avevano in cuore una fede, e non perirono. Un mattino nel golfo di Marsiglia entrava una vecchia barcaccia, senza vela e senza remo. I curiosi che accorsero, videro legate in essa alcune persone preganti, con la serenità negli occhi e sulla fronte. Tirarono a secco la barca ed estrassero i prigionieri, Lazzaro, il risuscitato, le sorelle Maria e Marta, Cedonio, il cieco nato che riebbe la vista. Appena toccarono terra elevarono al cielo le mani e gridarono: « Gesù! ». Cristiani, quand’anche noi in qualche giorno della vita ci trovassimo come in un alto mare di tribolazioni, senza vela e senza remo, non perdiamoci di fede. Quella fede che ci fa conoscere come il dolore viene da Dio per ricondurci a Dio sarà la nostra forza, la nostra rassegnazione, la pazienza nostra fin che non entreremo nel porto del regno del cielo. Allora, toccando quella gioia senza confine, proromperemo in un grido di riconoscenza e d’amore: « Gesù! ».

– GESÙ E LE TEMPESTE DELLA CHIESA. La barca del lago di Genezareth, montata da Gesù e dai suoi primi discepoli, guidata da Pietro, rappresenta bene la Chiesa che ha ricevuto la missione divina di raccogliere nel suo grembo le anime, di condurle dalla riva della terra alla beata riva del cielo, senza lasciarle naufragare nei flutti ringhiosi e minacciosi provocati dalle passioni, « venti contrari alla vita serena ». Appena la navicella della Chiesa fu allestita e i primi passeggeri furono a bordo, già una furiosa tempesta l’assaliva. Era la collera dei Giudei che, illusi d’aver soffocato il Cristianesimo, avendo crocifisso il Cristo, non potevano sopportare di vederlo crescere ed espandersi sotto i loro occhi. S. Giovanni e S. Pietro furono imprigionati, S. Giacomo ucciso, Santo Stefano lapidato. A pochi passi dalla riva, la nave della Chiesa già pareva dovesse venir travolta. Ma Gesù si svegliò e fece un segno: Giovanni e Pietro evasero dalla prigione, dal sangue di Giacomo e Stefano germogliarono innumerevoli Cristiani. Paolo si convertì. Intanto da Roma giungevano le legioni imperiali a distruggere nel fuoco e nel sangue la nazione giudaica. E la barca della Chiesa prendeva il largo e continuava il suo cammino. Ed ecco una seconda tempesta, assai più violenta e lunga. Quella Roma che aveva rovesciato tutti i troni e i regni del mondo, aveva giurato di sommergere anche la barca di Pietro. Per tre secoli la Chiesa fu combattuta come la peggior nemica dell’Impero Romano; per tre secoli fu sparso il sangue dei Cristiani. Ma Gesù si risvegliò e fece un segno; allora l’imperatore Giuliano vinto e moribondo sul deserto orientale si strappa le bende e lancia in alto una manata di sangue, confessando la propria sconfitta. « Galileo, hai vinto tu! »; allora l’imperatore Costantino a Roma vede nel cielo sfolgorante la croce col motto: « Con questo segno vincerai », e proclama la libertà della Religione Cristiana. Intanto dalle nebbie e dalle selve nordiche discendono le orde barbariche a punire l’orgoglio romano. E la Chiesa? prende il largo sempre più, e procede per il suo cammino provvidenziale. L’islamismo sollevò un’altra paurosa procella contro la Chiesa, e s’avanzava per terra e per mare, minacciando di travolgere tutta la civiltà cristiana. Ma Gesù sì risvegliò e fece un segno: a quel segno l’Europa tutta si raduna e si precipita contro il colosso maomettano, l’arresta, l’infrange. Sulle acque di Lepanto la barca di Pietro passava vittoriosa, verso nuove conquiste. E già c’era sull’orizzonte una nuova bufera. Lutero, Calvino, Zuinglio avevano strappato dall’unità della fede popoli interi, bruciando chiese, devastando monasteri, insultando e massacrando preti e religiosi. La Germania; l’Inghilterra, la Svezia, la Danimarca, si levano contro la Chiesa. Ma Gesù si sveglia e fa un segno: ecco numerosi Santi rinnovarono lo spirito della carità e della verità; ecco un Concilio, il più grande di quanti ve ne furono, si raduna a Trento, condanna l’errore, definisce nettamente la verità e la morale religiosa. Intanto da Roma partono drappelli di missionari per l’Asia e l’America a conquistare nuove provincie all’impero dell’Amore, e la barca di Pietro si riempie di nuovi passeggeri, più numerosi dei disertori, prosegue la traversata dei secoli, sicura e possente. Ed ecco, poco più di duecento anni or sono, una filosofia incredula e una sanguinosa rivoluzione assaltare di nuovo la Chiesa con scaltrezza, disprezzo, calunnie, lenze inimmaginabili. E poi ecco un Cesare, Napoleone, novello arbitro del mondo, che sogna d’incatenare Pietro e la Chiesa e di avvinghiarli al carro del suo trionfo. Gesù si sveglia: Napoleone muore sull’isolotto di S. Elena e pensa al Dio invincibile davanti al quale aveva osato misurarsi, folle d’orgoglio; e il Papa a Roma guida di nuovo la barca della salvezza ai porti predestinati. Oggi ancora la Chiesa di Dio è assalita da ogni parte, in ogni maniera. Il Santo Padre, vecchio e dolente, leva il suo fievole gemito che fa tremare i cuori di tutti gli uomini. « Dagli estremi confini dell’Oriente sino all’ultimo Occidente — dice il Papa — giunge a noi il grido dei popoli, in cui Re e Governi veramente hanno congiurato insieme contro il Signore e contro la sua Chiesa. Vedemmo calpestati i diritti divini ed umani, i templi distrutti dalle fondamenta, religiosi e le sacre vergini scacciate dalle loro case, imprigionati, affamati, afflitti da obbrobriose sevizie; le schiere dei fanciulli e delle fanciulle strappate al grembo della Madre Chiesa, spinte a negare e a bestemmiare Cristo, e condotte ai peggiori delitti della lussuria; tutto il popolo cristiano minacciato, oppresso, in continuo pericolo di apostasia della Fede e di morte anche la più atroce ». (Da un discorso di Pio XI). – Quando si sveglierà Gesù? Noi non sappiamo né quando, né come Gesù si sveglierà. Forse tra poco e forse ancora fra molto. Questo è certo: che si sveglierà e le porte dell’inferno non prevarranno. In questa fermissima certezza noi gemiamo nella speranza, attendiamo, nella rassegnazione il giorno della vittoria e dell’amore. – GESÙ E LE TEMPESTE DELL’ANIMA. La vita dell’uomo è ben simile alla traversata, più o meno lunga, d’un lago: ogni momento ci stacchiamo remando da questa riva del tempo e ci avviciniamo alla sponda dell’eternità. Questa navigazione da principio è calma e felice come fu per gli Apostoli sul lago di Genezareth. In realtà gli anni della fanciullezza sono pieni di dolci sogni popolati da immagini soavi e gioconde. La terra è un paradiso terrestre per l’ingenuo fanciullo, a cui ogni cosa par nuova e bella, ed ogni giorno porta una promessa. I venti delle passioni e i marosi delle preoccupazioni dormono ancora, e le acque della vita scintillano tranquille e serene. Ma vien poi la giovinezza con i tumulti interiori, con i desideri violenti; viene la virilità con gli sconforti e crucci. Dal lago del cuore, che nella fanciullezza innocente pareva un limpido specchio, sono balzati rapidi venti, le onde grosse e minacciose: l’anima sbigottita si è trovata impotente di fronte a tanta forza avversa, si è sentita rapita verso l’abisso. Chi nella sua giovinezza non ha tremato per queste tempeste? Chi non fa tuttora la dura esperienza delle tentazioni e delle tribolazioni? E forse un giorno, l’anima s’è dimenticata di svegliare Gesù, e s’è lasciata trasportare da un furiosa ventata fuori della barca. Può darsi che siano anni e anni e molte anime naufragano in balìa delle passioni, senza più nessuna forza di resistenza, senza più nessuna speranza. Nel loro cuore il Gesù dell’infanzia felice, il che sulle ginocchia della madre hanno pregato, che hanno visto nei puri sogni a fanciullezza, che hanno atteso nella notte santa del Natale trattenendo il respiro nella speranza che si lasciasse scorgere nel deporre i doni, quel Gesù è sepolto in un sonno profondo che pare di morte. Sarà possibile risvegliarlo ancora dopo tant’anni? E se non sì risvegliasse più, che sarebbe ormai la vita? un naufragio. Non so dove l’abbia letto, ma in mente mi sta un racconto assai significativo. Quando i briganti Cinesi invasero il villaggio di Fiordaprile, il missionario dovette fuggire, ed ogni segno di religione fu cancellato. Anche la chiesetta fu ridotta ad abitazione del capo dei briganti. Dopo decine d’anni quel villaggio era ritornato pagano e più nessuno aveva memoria della santa Religione cristiana. Solo era rimasta una strana costumanza, che i padri insegnavano ai figli, e si tramandava di generazione in generazione. Passando davanti a un fianco di quella che era stata una chiesa, tutti si fermavano un istante, inchinavano rispettosamente la testa, e poi proseguivano; ma nessuno sapeva dare spiegazione. Un giorno passò nel villaggio di Fiordaprile un nuovo missionario e intuì in un fabbricato, nonostante le deformazioni, le linee d’una chiesa cristiana; e fece scrostare cautamente la calce da quel punto del muro verso il quale tutti solevano inchinarsi. Apparve la figura di Gesù sorridente, con le braccia aperte all’amplesso. – Cristiani, se le passioni come briganti selvaggi hanno invaso il villaggio dell’anima vostra, se il peccato ha detronizzato Iddio, ha cancellato ogni santo segno, non di meno voi non avete cessato dal rendere omaggio, tratto tratto almeno, alla Religione della vostra fanciullezza. Era un desiderio in certi momenti più forte di ogni cupidigia, era un’aspirazione insoffocata del cuore che a volte tornava a galla. Come il missionario della terra cinese, io scopro oggi in tante anime naufragate nella loro coscienza le linee del tempio di Dio, i segni sommersi del loro Battesimo. Raccoglietevi, Cristiani, scrostate con un buon esame di coscienza, con una santa confessione la calce del peccato e delle abitudini cattive. Riapparirà Gesù sorridente con le braccia aperte all’amplesso. Da troppo tempo Egli dorme, sommerso nelle profonde dimenticanze del vostro cuore; risvegliatelo coi gridi di una preghiera veemente e fiduciosa. Se Egli si sveglia, sarete salvi dalla tempesta. Nel Vangelo, si legge di alcune barche che seguivano sul lago quella di Gesù: Et aliæ naves erant cum illo (Mc., IV, 36). Di esse che è avvenuto? Non si sa. Fin che il lago restò in bonaccia esse, probabilmente, seguirono Gesù; ma al primo discatenarsi dei venti l’abbandonarono. C’è da temere che siano state travolte. Con Gesù si teme e si soffre per la tempesta, ma alla fine c’è salvezza e felicità. Quelli che per timore dei sacrifici al momento della tentazione o della tribolazione scappano indietro verso la riva del piacere trovano la morte e l’infelicità eterna. – Si dice che durante i temporali, S. Tommaso si rifugiasse in chiesa e si tenesse abbracciato al tabernacolo. Fuori il vento selvaggio ululava, la grandine crepitava sui tetti e contro i vetri, tra lampo e lampo rombavano paurosamente i tuoni. Ma egli stava sereno e sicuro: era con Gesù. Non altrimenti dobbiamo fare noi, o Cristiani, quando nel cielo della vita passano le burrasche: bisogna stringersi a Gesù. Egli non può perire, perciò tutti quelli che a Lui s’attaccano saranno salvi. Questo è il principale insegnamento che dobbiamo ricavare dal Vangelo che oggi leggiamo.  La navicella fragile è il simbolo dell’anima nostra che naviga sull’acque della vita; talvolta le tentazioni con una rabbia violenta sollevano la burrasca intorno ad essa, minacciandola di sprofondarla nel peccato. Guai se in quegli istanti non s’aggrappa a Gesù! Navicella fragile è anche la nostra famiglia che naviga sui flutti degli anni e delle vicende umane: ma talvolta le tribolazioni con soffocante assiduità sollevano la burrasca e cercano di sprofondarla nella disperazione. Guai se in certe ore di dolore e di lacrime amare non si avesse la fede in Gesù. Navicella fragile che porta Pietro e gli Apostoli è specialmente la Chiesa Cattolica; ma talvolta le persecuzioni, con diabolica perfidia, sollevano la burrasca per travolgerla, e sconquassarla se fosse possibile. Una volta fu la burrasca di sangue, poi quella delle eresie, oggi è quella dell’immoralità e del materialismo ateo. Guai se tutti i giorni Gesù non fosse con Essa! Ecco, dunque, tre pensieri da meditare: tre tempeste. Tempesta nell’anima: la tentazione. Tempesta nella famiglia: la tribolazione. Tempesta nella Chiesa: la persecuzione. – Ma noi accontentiamoci di indugiare sulle prime due. LA TENTAZIONE. Questa procella minacciosa per la nostra salvezza può essere agitata dal demonio, dalla carne, dal mondo. – Il demonio. Molti non ci credono più e lo dicono una fandonia dei nostri vecchi, ma non sanno quegl’infelici che l’ultima astuzia del demonio è quella di farsi credere morto. Raccontano che nell’Africa ci sono degli orsi che vanno alla caccia delle scimmie; ma queste, assai più snelle, come vedono le irsute fiere avanzarsi, si rifugiano sulla cima degli alberi. L’orso impotente, che fa allora? Distende la sua massa carnosa sotto la pianta e fa il morto. Ma appena le improvvide scimmie discendono al basso, di scatto si rizza, le azzanna, le sbrana. Io non so se gli orsi fan proprio così, ma son certo che proprio così fa il demonio a divorare le anime. E quelle che di lui non hanno più paura, e non temono di annegare nella burrasca delle sue tentazioni, credetelo, sono già sua preda sicura. Il demonio odia Iddio che per lui ha creato l’inferno, ma contro Dio nulla può fare. Odia gli uomini che, inferiori a lui per natura, potranno un giorno entrare in quel Paradiso da cui fu scacciato: ma contro di essi egli può molto, e se l’ascoltano, quando mette in mente laide fantasie e dubbi e bestemmie, può rovinarli per sempre. Non temiamo: alle tempeste del demonio ci salveremo sempre se con giaculatorie e preghiere desteremo Gesù che dorme sulla fragile navicella dell’anima nostra. Guardate il figliuolo di Tobia: in cammino verso un paese lontano, era entrato nel Tigri a lavarsi i piedi. Quando ecco un mostro discendere lungo la corrente per avventarsi contro lui e divorarlo. « Signore! — invocò il giovane — salvami, che mi viene addosso ». Bastò questo grido a salvarlo. Basta anche una giaculatoria, se detta con fede e amore, a salvarci dal nemico che come mostro discende contro di noi per divorarci: Resistite fortes in fide! – La carne. Dopo il peccatore originale la nostra carne cerca di ribellarsi al nostro spirito. E come un’acqua in tempesta, così essa si solleva a ondate contro di noi; e vuol soddisfare ai piaceri della gola fino a sentirsi male; e vuol soddisfare alla quiete floscia della pigrizia fino a trascurare il dovere; e vuol soddisfare alla bassa sensualità fino ai peccati più nefandi. Per salvarci dalla tempesta della nostra carne bisogna risvegliare Gesù con la mortificazione. Mortificare la gola con qualche rinuncia volontaria, col fuggire l’intemperanza, l’ubriachezza. Mortificare la pigrizia con alzarsi presto alla mattina per venire ogni giorno, se è possibile, alla Messa, con vincere il sonno alla sera per recitare devotamente il rosario e le preghiere. Mortificare soprattutto la passione impura. – Il mondo. Il demonio è un gran nemico, ma il mondo è più terribile ancora. Il mondo è tutto in malignità (I Giov., V, 19). Il mondo è un mare d’impudicizia ove annegano e l’anime e i corpi. È un mare più spaventoso di quello in cui una volta perì Faraone, sepolto nei flutti con tutta l’armata. Gesù per tutti ha pregato, per gli amici e per i nemici, perfino per i suoi crocifissori; solo per uno ha negato la sua preghiera: per il mondo. Non pro mundo rogo (Giov., XVII, 9). Ed il mondo ha mille mezzi per sommergere nella sua onda limacciosa la navicella dell’anima nostra. Ha le compagnie cattive, più maligne del demonio, perché non si possono mettere in fuga con le giaculatorie; ha i libri e le illustrazioni immorali che non arrossiscono nel dipingere le scene più corrotte; ha i divertimenti, i balli, i ritrovi… Chi vuole scampare dal naufragio, deve fuggire il mondo per accorrere a Gesù. E Gesù dorme nel silenzio della Chiesa, nella pace della nostra casa. Fortunati quelli che conoscono soltanto la strada della casa. e della Chiesa! – LA TRIBOLAZIONE. Ecco un’altra specie di tempesta che frequentemente solleva i suoi marosi in giro alla nostra famiglia, e ci fa tremare e ci fa piangere. Ora è la malattia, ora è la morte che si porta via le persone più care; or sono gli affari imbrogliati, ora è la miseria; talvolta sono le calunnie, il disonore, l’odio. Ricordiamo innanzi tutto che la tribolazione viene da Dio. Un servo si lamentava col suo padrone di essere dimenticato, di essere mal ricompensato, di essere mal tratatto. Il padrone ascoltò tutto in silenzio, e poi gli rispose: « Senti, cosa vuoi di più? Ti ho sempre trattato come il mio figliuolo, anzi meglio in certe occasioni, e ti lamenti? con qual coraggio? ». Davvero che a tante donne, a tanti Cristiani che imprecano la Provvidenza, Iddio potrebbe rispondere con le parole di quel padrone: « Senti, cosa vuoi di più? Ti ho sempre trattato come il mio Figliuolo Gesù Cristo, anzi meglio: a te non ho dato la corona di spine, non ho dato la flagellazione, la morte di croce. Tu sei più ricco di Lui che non aveva un sasso per dormire, tu sei più onorato di Lui ché non ti hanno ancora chiamato rivoluzionario e non ti hanno ancora sputato negli occhi. Che cosa vuoi di più? ». Ricordiamo anche che la tribolazione è per nostro bene. S. Ambrogio, sorpreso dalla notte cadente sul suo cammino; bussò ad una porta, chiedendo ospitalità. Fu accolto; discorrendo col capo di famiglia, venne a sapere che là non capitava mai la più piccola tribolazione. Il Santo ne fu spaventato e non volle più fermarsi nemmeno a dormire. « Fuggiamo di qua, — disse, — perché la collera di Dio è sopra questa casa ». E aveva ragione. Quando non ci sono dolori, l’anima s’attacca ai beni del mondo come se fosse stata creata solo per essi. Quando non ci sono dolori, l’anima prega poco e niente e quasi si persuade di non aver più bisogno di Dio. Quando non ci sono tribolazioni, l’uomo monta in superbia e s’illude di essere privilegiato sopra ogni altro, e disprezza chi soffre e non soccorre chi ha bisogno. Quando non c’è nulla da pensare, le nostre passioni diventano più furiose e facilmente ci travolgono nei peccati di impurità. Dopo tre giorni di deserto gli Israeliti assetati, giunsero alla fontana di Mara. Ma appena si intinsero le labbra, dovettero risputarla fino all’ultima stilla, perché era amarissima. Tutto il popolo gemette lungamente. « Dovremo dunque morire di sete? » Mosè allora si raccomandò a Dio, che gli indicò un legno: appena questo fu gettato nell’acqua tutti poterono dissetarsi in dolcezza (Ex., XV, 25). Ecco come noi possiamo vincere la tempesta della tribolazione. Non lamentandoci continuamente, non invidiando quelli che in apparenza stanno meglio di noi, non imprecando alla giustizia di Dio, ma ricorrendo a questo legno miracoloso: Il legno della pazienza, è il legno della rassegnazione, è il legno dell’accettazione. È il legno della croce su cui sta inchiodato Gesù. – Mentre sopra, nella luce del sole sfolgorante, la Roma pagana cercava di adescare i primi convertiti della Religione di Cristo, mentre nel circo e negli orti imperiali i Cristiani versavano il sangue e la vita in testimonio della loro fede, giù nelle catacombe, nella penombra mistica degli ambulatori, fra le arche dei martiri, un pittore con mano tremula di speranza e di salute, dipingeva: Ecco le onde di un lago in tempesta, sotto a un cielo rannuvolato; una barchetta con la vela squarciata rema alacremente; Qualcuno affoga… Ma il pilota s’è levato sulla prora e tende le braccia in alto. Ad un tratto le nubi si aprono, e attraverso il varco s’allunga la mano di Dio onnipotente. che li terrà galleggianti sui flutti (WILPERT, Le Catacombe, II, 445). – A noi, che dopo tanti secoli ridiscendiamo nelle Catacombe, quale tremito di commozione ridesta quella pittura ingenua e incerta. Chissà con che fiducia serena la guardavano, passando i neofiti che al giorno dopo dovevano essere uccisi! Chissà con quale proposito fermo a lei si volgevano quelli che erano costretti a vivere e lavorare tra i pericoli di quella Roma in corruzione! Anche per noi quella pittura dice ancora una profonda parola di fede: «Va, Cristiano! Per quante burrasche urtino contro la nave della tua anima e della tua famiglia, non temere! Leva le tue braccia al Cielo, «soffri, combatti e prega » che la mano di Dio non mancherà di salvarti.

 IL CREDO

Offertorium

Ps CXVII:16; CXVII:17

Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini.

[La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta

Concéde, quaesumus, omnípotens Deus: ut hujus sacrifícii munus oblátum fragilitátem nostram ab omni malo purget semper et múniat.

[O Dio onnipotente, concedici, Te ne preghiamo, che questa offerta a Te presentata, difenda e purifichi sempre da ogni male la nostra fragilità.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Luc IV:22 Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei.

[Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

Postcommunio

Orémus. Múnera tua nos, Deus, a delectatiónibus terrenis expédiant: et coeléstibus semper instáurent aliméntis.

[I tuoi doni, o Dio, ci distolgano dai diletti terreni e ci ristorino sempre coi celesti alimenti.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (190)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXVII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

I. — La morte e l’immortalità.

D. La vita soprannaturale che descrivesti è destinata secondo te a proseguire e non finisce con la morte?

R. Niente finisce con la morte. Scavare una fossa e coprirla con la nostra argilla non può essere una fine per l’immenso movimento spirituale in cui il Vangelo ci lancia. La terra non è che una soglia; al di là vi è quello che Carlyle chiama «il più Alto Mondo ».

D. Perché toglierci la vita e restituircela?

R. La vita non ci è « tolta »; è solamente « cambiata »: mutatur, non tollitur, come dice la liturgia, ed è la parte che noi prendiamo, per noi stessi e per altri, alla morte riparatrice di Cristo.

D. Tuttavia siamo distrutti.

R. L’io terreno è di fatto distrutto; perché l’anima non è l’uomo. Ma l’anima è la parte essenziale dell’uomo, e l’uomo completo sarà un giorno ristabilito.

D. Comprendi tu una tale divisione, una tale separazione?

R. Il mistero del nostro essere è quello di trovarsi così per natura in una regione di frontiera, che partecipa di due sfere, e forma un composto instabile la cui dissociazione crea il dramma della morte, ma la cui unione e riunione hanno qualche cosa di sublime. L’unione in noi della materia e dello spirito suggella in un angolo dell’universo, poi altrove, l’unità dell’opera divina.

D. Frammenti dell’universo che si muove e si disgrega incessantemente, non dobbiamo noi subirne la sorte?

R. Frammenti dell’universo Spirituale, scintille di spirito, non dobbiamo noi avere la sorte dello spirito, imitare e raggiungere lo spirito?

D. Perchè lo spirito non finirebbe come il resto?

R. Perché esso comincia sempre. Là dove l’evoluzione della vita ha un termine anticipatamente segnato, definito da una curva di una inflessione continua, il termine raggiunto significa la morte. Ma l’evoluzione dello spirito è illimitata, a guisa di una curva che si apre incessantemente. La ghianda ha compiuto il suo destino quando ha prodotto la quercia, ricca di un’altra ghianda; lo spirito ha davanti a sé l’infinito della indagine e degli acquisti possibili, l’infinito della verità e del bene. Per lui, ogni realizzazione è un abbozzo, o meglio un punto di partenza, finché non è pervenuto a incontrare il suo oggetto supremo. E quest’oggetto è indubbiamente per lui un punto fisso, ma che per la sua infinità inesauribile lo lancia di nuovo, invece di frenare e di arrestare il suo sforzo.

D. Ma l’anima non è tutto spirito.

R. L’anima non è tutto Spirito, perché anima il corpo, e sotto questo rapporto essa è corporea. Tuttavia, siccome il suo compito di animatrice non impiega tutte le sue energie e quindi non è uguale a tutta la sua sostanza, il dire che l’uomo è un composto di corpo e di anima è dire che è un composto di materia e di spirito, e, secondo quello che precede, di morte e di vita.

D. Come spieghi a te stesso la sopravvivenza?

E. Per una parte di sé, quella che vedi, l’uomo è un frammento dell’universo, un convegno delle forze generali. Ma, per rapporto a questo fondo di sostanza e a queste energie della parte bassa, vi è un’eccedenza di essere e di attività che il pensiero svela, e l’amore, la libertà, la sensibilità superiore, la vita morale mettono in opera. È quello che abbiamo rilevato a proposito della creazione dell’uomo, In ragione di questa eccedenza, di questo soprappiù per rapporto all’ambiente fisico, noi non possiamo supporre che l’anima dipenda nel suo sbocciare, nel suo essere attuale, né per conseguenza nella sua durata e nel suo fine, unicamente dalle potenze cosmiche; essa le oltrepassa e deve sopravvivere ad esse. Essa nasce nell’occasione di un’opera di carne; è soggetta all’azione delle forze che si rivelano nella carne, senza tuttavia ridurre la sua attività interiore o le sue manifestazioni a una risultante di queste forze abbandonate al determinismo. Dunque, la sua sorte non dipende, a titolo esclusivo, dal luogo in cui agisce presentemente; essa ha un avvenire proprio; la ruota della fortuna non la trascina se non in parte nella sua rotazione; una scossa, ed eccola prendere la tangente.

D. In due parole…

R. Quello che spiega l’immortalità della vita è l’immortale della vita.

D. Questo spiega, mi dici; ma questo prova?

E. Questo prova sotto certe condizioni, cioè se si ammette che Dio non distrugge Egli stesso quello che non porta in sé un principio di distruzione. D’altronde, se, per l’anima, si tratta di una immortalità cosciente e attiva, bisogna credere possibile un funzionamento spirituale indipendente da ciò che si chiama cervello pensante.

D. Come pensare senza l’organo del pensiero?

E. Appunto, il cervello non è propriamente l’organo del pensiero. Gli è indispensabile quaggiù, ma per l’elaborazione della sua materia, che è l’esperienza fisica. Il pensiero, propriamente parlando, è indipendente dal cervello, non vi è neppure proporzione precisa tra l’attività pensante e l’attività del cervello, come ha dimostrato Bergson.

D. Se il cervello è indispensabile al pensiero quaggiù, come tu ammetti, perché non gli è indispensabile altrove?

R. Uno stesso potere, collocato in diverse condizioni, può avere diverse esigenze.

D. Da che dipenderebbe, secondo te, la differenza?

R. Qui c’è mistero; ma si può credere che si tratti, per l’anima, di una differenza di orientamento e di attenzione profonda. Unita al corpo, essa è assorbita dal corpo e assediata dalle sue oscure chiarezze al punto di non poter aprirsi a un’altra luce. La sua propria luce spirituale le sfugge prima dell’esperienza delle cose; essa non si rende conto che è spirito se non dopo aver fatto atto di spirito riguardo ai corpi.

D. È una condizione sorprendente!

R. Sorprendente di fatto, ma che dipende dalla debolezza di quest’anima, posta nel più basso grado degli spiriti, in vicinanza alla natura corporea. Quando si riflette a questa condizione, si capisce che l’anima, povera di spiritualità per natura, e immersa nel corpo che tenta di accaparrare tutte le sue energie disponibili, possa essere come offuscata da questo corpo, abbagliata di materia, se si può dire così, e resa impotente a

percepire lo spirito, perfino quello che è in lei e che è lei. La pellicola di luce che circola sopra la nostra terra non basta forse a nasconderci tutto il cielo? I nostri deboli occhi, abbagliati, non possono valicare questo sbarramento di luce; bisogna aspettare la notte perché si riaccendano le stelle. La notte rivelatrice, per l’anima, è la morte.

D. Perché la morte sarà una rivelazione?

R. Perché l’anima, sciolta, sarà resa alla sua natura spirituale, e, cosciente di se stessa immediatamente, voglio dire senza il rigiro dei sensi, potrà inoltre sperimentare l’invisibile.

D. Quale invisibile?

R. Gli altri spiriti, diventati ora del suo dominio e, se posso dire così, del suo mondo; ma specialmente Dio, se a questo Dio piace di fare verso l’anima — per una discesa d’intelligibile, invece che per una salita — l’antico ufficio dell’universo.

D. Perché lo vorrebbe Egli?

R. Perché è il fine della sua creazione, e soprannaturalmente, il fine di tutta l’opera redentrice. Quaggiù, noi siamo abbandonati all’universo per l’informazione della nostra mente come per la nutrizione della nostra carne; l’universo, espressione dell’idealità creatrice, vestigio di Dio ossia sua immagine, ce ne comunica quello che può e quello che noi ne sappiamo estrarre; ma il contatto di Dio, che è il termine del grande movimento che opera l’anima attraverso alla vita, ci congiunge alla sorgente stessa di questa idealità: noi attingeremo da essa come un tempo dal tesoro dei fatti circostanti, come la carne beve il succo del mondo.

D. Perché desidereremmo un tale avvenire?

R. Perché tal è la destinazione che Dio ci dà, e del resto questa brama, checché ne pensino alcuni, è insita nel più profondo della nostra natura.

D. Aspiriamo noi a pensare in Dio?

R. Noi aspiriamo a pensare in Dio perché aspiriamo a pienamente vivere, perché la nostra piena vita è in Dio, e il pensiero, per lo spirito, è la stessa essenza della vita, condizione fondamentale di ogni altra attività del nostro essere.

D. Da che cosa riconosci tu un tale istinto?

R. Da quella inquietudine infaticabile e inestinguibile che è in noi, da quel tormento dell’infinito che è lo stimolo del pensiero, la molla dell’azione, e che spiega la loro storia. Noi pensiamo per cercar di captare in effigie quello che non si può raggiungere in sé; parliamo per coprire il grido che è in fondo ai nostri cuori; operiamo per scansare il cammino sovrano, decisivo, che talvolta non osiamo tentare perché le sue esigenze ci fanno paura, e che ad ogni modo non possiamo che iniziare, nelle condizioni di questo mondo. Nell’essere umano vi è una attesa essenziale che tutto può soddisfare, veduto in desiderio, in aspettativa, cioè in quanto al suo fantasma, ma che niente può soddisfare nella sua realtà acquistata, nel suo chiaro possesso. – Ogni uomo può dire come Barrès nelle sue Memorie postume: « Ho camminato verso l’orizzonte per cogliervi qualche cosa che non esiste »,

D. Tu descrivi le nature che si chiamano precisamente inquiete,

R. Io descrivo la natura stessa, che è un’inquietudine sostanziale, se così posso parlare, poiché nessuna soddisfazione, per quanto sostanziale apparisca essa stessa, non l’acquieta mai.

D. Ecco ciò che bisognerebbe far vedere.

R. Non è forse evidente, che la cosa posseduta non ci soddisfi punto, e che tosto si passa ad altro? Quello che noi bramiamo dopo, essendo della stessa forma, non ci può soddisfare maggiormente, e di fatto, sopravvenendo, non ci soddisfa più. Un possesso non è che un desiderio spento; un ricordo non è che « un desiderio che si rimpiange » (FLAUBERT): quello che si possiede o si è posseduto non è dunque ciò che era veramente desiderato. La nostra brama ha sbagliato oggetto, diciamo anzi che ha sbagliato universo, e che avrebbe dovuto risonare, al di là di tutti gli echi di questo mondo, in un altro mondo.

D. Di certi felici successi non diciamo noi che sorpassano la nostra attesa?

R. La nostra attesa è sempre ingannata, anche quando è superata; perché quello che attendevamo da queste fortune misurate in se stesse, l’attendevamo in noi come pienezza, ed è la pienezza che non viene.

D. Non sempre siamo ingannati in tal modo.

R. Siamo sempre ingannati davanti a qualsiasi oggetto, in possesso di qualsiasi beatitudine, appena cade il velo d’una passione allucinata o d’uno sragionamento puerile, appena l’anima profonda si desta. E questo ci dice che il fine di questa vita non è in lei stessa; questo ce lo dice con più evidenza che la sventura, che l’ingiustizia subìta, che le delusioni affatto diverse cagionate dalle nostre impotenze e dai nostri spropositi. – La norma secondo la quale si giudica della nostra miseria e dell’insufficienza di tutte le cose visibili è la felicità.

D. È necessario che noi abbiamo quello che ci manca?

R. È forse naturale che la nostra idea, la nostra aspirazione abbiano più ampiezza del nostro essere e della somma dei nostri poteri? Non vi è qui un segno?

D. Un segno di che?

R. Un segno della nostra vocazione sovrumana e sopraterrena. Perché, infine, non bisogna forse credere nell’anima propria, come dice la Scrittura? L’appello interiore è un fatto proprio come la gravitazione; il suo punto di partenza è assai più profondo e ben altrimenti alta è la sua portata. Qual è il significato di questo fatto, se non vi è niente fuori dell’esperienza? Come mai l’idea della pienezza può anche solamente entrare nei nostri fragili cuori, se non siamo fatti per la pienezza? Se tutto termina in una mediocrità irremissibile, perché, in noi, questa provvista di speranze illimitate? Noi non possiamo raggiungere quello che è evidentemente il nostro fine, quello verso il quale, per l’autentico impulso del desiderio profondo, la natura ci slancia. La traiettoria umana si delinea, lascia vedere le sue coordinate, ed essa non si percorre punto. – Noi siamo un albero la cui specie è nota e che, sul suo terreno di nascita, non presenta il suo getto normale, la sua fioritura, la sua fruttificazione naturali. È «una sconciatura » (PASCAL). Non può finire così ogni cosa.

D. Perchè?

È. Perché la natura naturante, in noi, non s’inganna, e non inganna noi. Essa non si può dirigere verso il vuoto. Uscita dall’ambiente universale, essa lo riflette e ne esprime la legge, Non si cerca naturalmente se non ciò che si può trovare. Se non vi fosse erba vi sarebbe l’erbivoro? Colui che constata il desiderio insaziabile nel quale consiste essenzialmente l’essere umano e nega che sia possibile la sua soddisfazione rassomiglia all’uomo che ha fame e nega il pane.

D. Il sentimento di pienezza non ci è estraneo.

R. Noi lo proviamo quando proiettiamo sopra i nostri oggetti l’immensità del sogno e nascondiamo così a noi stessi la loro esiguità. Questi oggetti ci appariscono allora uccelli dell’infinito presi al laccio; per quanto insignificanti, per quanto caduchi, la nostra illusione li pervade di eternità e ne prende come un possesso infinito per l’ampiezza del gesto. Ma non è questo la smagliante conferma che l’infinito, solo l’infinito ci contenta? Chi ignora quale malinconia segreta vi si trova in tutte queste pienezze fallaci, appena si sposta un poco il velo d’errore! In fondo ai nostri stati felici vi è un sentimento nostalgico, e a che cosa si riferisce esso se non a un misterioso al di là?

D. Credi tu che molti sappiano queste cose?

R. I più non le sanno, ma tutti le provano. Altro è il sentimento e altro l’analisi che se ne fa. Quando, in una chiesa, vediamo dei Cristiani supplicanti, noi non abbiamo alcun dubbio che i più rechino lì, per un sollievo, i loro fardelli di vita terrena, che essi esprimano i loro desideri umani, le loro inquietudini temporali, e che forse sia questo solo che pensano di offrire a Dio; ma scava più a fondo, e troverai altra cosa, che i migliori, e tutti, scorgono ad intervalli: voglio dire, l’appetito dell’indefinibile e del perdurevole faciente corpo con questi oggetti, ma infinitamente distinto dall’ispirazione che essi provocano, l’appetito dell’al di là di tutto, del Tutto, del Tutto misterioso.

D. Che diresti di coloro che cercano al di sotto dell’uomo, invece di cercare al di sopra?

R. Il loro sentimento è lo stesso. Ciò che essi si propongono, nelle oscure regioni che loro aprono i sensi, è ancora l’infinito, riconoscibile dalla sua ombra. Spaventoso capovolgimento, fatale illusione del povero allucinato che piomba in un mare pieno di notte per pescare degli astri.

D. Tutto questo non si riferisce che all’ampiezza degli oggetti della vita, e non alla durata di quest’ultima. Pensi tu che noi vogliamo vivere eternamente?

R. Noi vogliamo vivere senz’altro, e questo esige la vita eterna. Perché, sapendo che dobbiam morire, ripugniamo noi invincibilmente a crederlo, se non perché ciò ci è inconcepibile? Noi non vogliamo perire. Non possiamo rassegnarci a un mondo che crolla, sentendo qualcosa che non crolla. Sotto la chiarezza degli oggetti che occupano e ingannano il nostro appetito di vivere, scorre un fiume di notte che ci trascina giorno per giorno, verso la notte eterna, e il nostro cuore non vi può consentire. «Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa » (PASCAL).

D. Eppure il nostro appetito di vivere, nel fatto, si attacca a questa vita limitata,

R. È impossibile capire che ci si affanni tanto ‘per preservare «un lampo tra due notti» (ENRICO POINCARÉ). Bisogna che si abbia il sentimento profondo di un’altra vita, anche se non lo si confessa.

D. Sopravviviamo a noi stessi per via dei nostri discendenti e delle opere nostre.

R. Almeno lo tentiamo, ed è una testimonianza. Questa vita che si sforza di vincere il tempo, non è forse l’effetto e il segno dell’eternità inclusa nel desiderio? Noi vogliamo, in tutta la misura del possibile, rendere imperiture le opere nostre; nei nostri figli, nelle nostre istituzioni, nelle nostre glorie, noi vediamo delle assicurazioni contro la morte; ameremmo vederci delle speranze d’immortalità. Ma che cosa è ciò, in realtà, se non una povera aggiunta, una dilazione concessa al desiderio, prima dell’inevitabile e prossimo inghiottimento?

D. Questa sopravvivenza in altri soddisfa la generosità, se non il desiderio proprio.

R. È bello essere generosi, e nulla è più commovente che il sentimento d’un padre, d’un amico, d’un patriota, che dice: Che importa la mia vita, purché i miei figli siano felici, il mio amico prosperi, il mio paese abbia il trionfo? Ma che malinconia, nel contemplatore di questa bellezza, e quale segreta delusione al cuore stesso di colui che vi si eleva, se essi vengano a dire a se stessi: Oggi, domani, dopo domani, che importa? io lavoro per la morte!

D. La sapienza è di contentarsi della propria misura, a più forte ragione di potere oltrepassarla un poco.

R. Questa sapienza si può attingere da Dio, ed è la rassegnazione cristiana, sorella della speranza; essa può essere puramente stoica ed è certamente bella, ma non risolve affatto il problema. È urtante, è contradittorio che la natura spinga i suoi esseri a voler durare sempre e imponga loro per sapienza la rinunzia e questo stesso volere. L’anima non vi si risolve punto; ne fanno testimonianza tutte le letterature, del pari che ogni cuore. Del rimanente, come osservò Renan, «è quando l’uomo è buono che egli vuole che la virtù corrisponda a un ordine eterno; è quando egli contempla le cose in modo disinteressato che egli trova la morte ributtante e assurda. Come non supporre che l’uomo veda il meglio appunto in tali momenti? ».

D. Pensi tu che noi possiamo afferrare direttamente, în noi, questo sentimento dell’eternità che dici insito nei nostri pensieri e implicito in tutti i nostri procedimenti?

R. Non sappiamo scandagliare noi stessi. Vi sono tanti momenti che ci sentiamo immortali! Momenti di contemplazione religiosa, filosofica, scientifica, artistica; momenti d’estasi fuori del pensiero, fuori del tempo, perfino fuori del nostro oggetto, nell’amore; momenti di poesia davanti alla natura, in unione con le forze eterne; momenti di eroismo in cui sentiamo che si può aver fiducia nella sorte e che la grande vita non muore…: tutto questo dice la nostra essenza Vera, e, come diceva un eroe della grande guerra, «che cosa è una palla al cuore? essa gli può far del bene ».

D. Riassumendo, tu dici: la vita è eterna o non è niente?

R. «Tutto quello che deve finire non è niente» (S. AGOSTINO). Fuori dell’eternità, noi siamo come colui che si trastulla a costruire castelli di carta sull’orlo del suo sepolcro.

D. La cooperazione con altri non ci rialza?

R. Termino la mia frase: — e che aderisce a una società di mutuo soccorso per costruire meglio i castelli di carta, sostenerli, ripararli, ricostruirli… davanti al comune sepolcro.

D. In tali condizioni, la morte prende un valore che le si concede di rado.

R. Proprio Renan disse che morire è compiere un atto « di una portata incalcolabile ».

D. Non sai quanti, oggi, negano la vita eterna?

R. Il numero dei negatori non cambia nulla alle verità. I negatori, se fossero sinceri con se stessi, direbbero anche: « Io scorgo la vita che guarda attraverso alle orbite vuote della morte » (SHAKESPEARE). Io aggiungo che in simile materia la negazione è condannevole in ogni ipotesi.

D. Perché?

R. Perché nessuno, senza un’estrema temerità, può pretendere di essere sicuro che l’immortalità non ci sia punto, e chi non è convinto della sua realtà dovrebbe almeno rispettare il mistero.

D. La negano generalmente per fini pratici; si ha paura che l’ideale faccia perdere il senso della realtà.

R. Ciò avviene quando non si sa che cosa sia ideale e pratica, che cosa sia eternità di tempo. Si dimentica che «il Vangelo e il calendario agricolo sono opera d’uno stesso autore » (MAURIZIO BARRÈS).

D. Non vi è però una certa opposizione tra l’idea dell’eternità e le cure terrene?

R. Le cure eccessive, sì, le impazienze, le preoccupazioni appassionate, ma non l’attività normale. La vita eterna ispira al vero Cristiano una maniera sublime di ricevere la vita e la morte, i beni e i mali; ma non ammollisce il suo coraggio. Pensa che la civiltà moderna, e si può dire ogni civiltà, fu costruita da gente che credeva all’eternità, e tutte le nostre inquietudini di avvenire, come ti dicevo, vengono dal fatto che vi si crede meno.

D. Da che dipende questo?

R. Dal fatto che la vita eterna è l’autentico sostegno della vita temporale, che, senza questo, poggerebbe sul falso e si protenderebbe sul vuoto; è il suo appoggio dietro, il suo trattore davanti. Io ho bisogno di assicurarmi della vita eterna per credere alla serietà di questa, e al contrario sarebbe sorprendente che ciò che mi difende contro ogni scoraggiamento potesse spezzare il mio coraggio.

D. A chi sono più utili queste riflessioni sopra l’altra vita?

R. Sono indispensabili a tutti; perché « tutte le nostre azioni e tutti i nostri pensieri devono prendere vie così differenti secondo lo stato di questa eternità, che è impossibile fare un passo con senso e con giudizio senza regolarlo con la mira di questo punto, che dev’essere il nostro ultimo oggetto » (Pascal). Ma evidentemente, ci guadagnano a ricordarsene quelli soprattutto che hanno più da soffrire e da combattere. Questi pensieri della morte, del giudizio, della retribuzione eterna sono lo stimolo e il freno, il sostegno e la forza di rinsavimento di molto anime. Essi rendono felici degli individui ai quali questo mondo rifiuta tutto; avverano il paradosso delle Beatitudini evangeliche, e provocano la lunga pazienza delle prove della vita quotidiana, come l’eroica pazienza dei martiri.

D. Donde viene che essi ci sfuggono incessantemente?

R. È la conseguenza del fenomeno che descrivevo a proposito dell’anima pensante. La luce del giorno ci nasconde l’immensità del cielo: così gli oggetti della vita, più evidenti, accaparrano l’anima e solo essi le appariscono reali; così il tempo, presente in noi per il fluire della carne, fa credere illusoria l’eternità, e siccome tuttavia il sentimento dell’eternità rimane, lo si trasferisce al tempo; ci figuriamo vagamente che questo tempo fugace non debba finire.

D. Ciò è incosciente?

R. Per lo più; ma avviene pure che ciò sia volontario, e allora l’insensato o il peccatore si vuole procurare una pace illusoria. « Senza darci pensiero noi corriamo al precipizio, dopo esserci posto qualche cosa davanti per impedirci di vederlo » (PASCAL).

D. Queste parole sono tragiche!

R. «Leggi anche queste: « Tra noi e l’inferno o il cielo, non vi è di mezzo che la vita, che è la cosa più fragile del mondo ».

D. Se si pensasse così costantemente, non si potrebbe più vivere.

R. Forse si vivrebbe meglio a pensarci sovente. In quanto al pensarci costantemente, nessuno lo raccomanda. La buona vita esige la nostra attenzione, anzi il nostro entusiasmo; una volta mirata la meta, e richiamata al pensiero di tempo in tempo, non c’è bisogno d’ipnotizzarsi sulla morte.

D. Che pensi delle trasmigrazioni, di quelle altre vite, anteriori o posteriori, di cui trattano gli spiritisti, i teosofi?…

R. Prima di tutto penso col popolo: « Nessuno mai se ne è accorto »; i teosofi s’immaginano, suppongono; gli spiritisti si fidano di fenomeni mal conosciuti, in cui il ridicolo fa a pugni col sublime: lì non vi è proprio nulla da sapere. Dopo ciò, dico col Vangelo, correggendo la formula popolare con una riserva divinamente giustificata: Nessuno è salito in cielo, salvo colui che è disceso dal cielo, il Figliuolo dell’Uomo che è in cielo.

D. L’idea di trasmigrazione ha un significato morale; si tratta di purificazioni successive, di una prova della libertà.

R. Tutto questo ha soddisfazione nel sistema cattolico, e con garanzie di verità, invece dell’asserzione arbitraria del pensatore. Gesù dice quello che sa; il teosofo dice quello che non sa. In fatto di prova, questa è più che sufficiente, e Dio non ha bisogno di tante esperienze per sapere ciò che valgo; Egli scruta i reni e i cuori e li giudica in conseguenza.

D. Dove va dunque l’anima nostra dopo la morte?

R. Questa domanda, presa alla lettera, non ha senso. L’anima non va in nessun posto, giacché non è un corpo e perciò non è soggetta alle localizzazioni nello spazio. La morte, per l’anima, non è punto un cambiamento di luogo, ma un cambiamento di stato; l’anima funziona diversamente; percepisce altre cose; è in relazione con altri esseri.

D. E arriva così alla fissità?

R. A una fissità che non è un’immobilità, ma che, rispetto all’indagine attuale, è un termine, e, rispetto alla morte vivente che è la vita del corpo, una immutabile vita. Noi abbandoniamo la regione in cui tutto passa, per entrare in quella in cui tutto è.

D. Tu concepisci questo come un’armonia dell’opera divina?

R. Sarà di fatto l’armonia di tutto, in ragione della quale Leone Bloy parlava del « grande organo della vita eterna ».

D. E il punto di arrivo di tutto?

R. «La terra è come le arie di marcia della Chiesa; essa è per salire al cielo » (C. PÉGUY).

D. È forse quello che tu chiami, credo a modo degli Alessandrini, la rientrata in Dio, ossia il Ritorno a Dio?

R. Tutto il movimento della natura materiale, della vita, del pensiero, dell’attività morale e sociale degli esseri di fatto non è che un vasto riflusso. La creazione è un immenso sollevamento di marea che sfugge dall’oceano divino e che vi ritorna.

D. Ma non ciascuna morte individuale esprime questo ritorno.

R. Nel sollevamento della marea, non tutte le onde arrivano nello stesso tempo, e sono precedute da spruzzaglie. E nel giudizio universale si spiegherà sotto i «nuovi cieli» sulla « nuova terra » la grande massa delle acque.

II. — Il giudizio particolare.

D. Credi tu a un giudizio dell’anima dopo la morte?

R. Noi crediamo che subito dopo la morte, l’anima prende la direzione di vita che conviene ai suoi meriti.

D. Dove pensi che abbia luogo questo giudizio?

R. Là dov’è l’anima, là dov’è Dio, e ho già detto che questo non è un luogo materiale. Noi siamo sempre in Dio; non c’è bisogno di viaggio per raggiungerlo. La vita eterna è essenzialmente uno stato, non un luogo, e se essa è tale nella sua pienezza, tale è pure nel suo cominciamento.

D. È strano!

R. Sì, quale mistero, che uno possa immergere in Dio tutta la sua vita senza accorgersene, e quale risveglio, trovarsi tutt’a un tratto davanti a Lui nella piena luce!

LE VIRTÙ CRISTIANE (5)

LE VIRTÙ CRISTIANE (5)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C. – Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE Ia

LE VIRTÙ TEOLOGALI E LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE

CAPO IV.

LA VIRTÙ DELLA CARITÀ: L’amore del prossimo.

Nella virtù teologale della carità, secondo che ci venne fatto di definirla, vivono tre nostri nobilissimi amori; cioè l’amore di Dio, l’amore di noi stessi, e l’amore del prossimo: non ci vivono però allo stesso modo. Chi ha il prezioso tesoro della carità nell’anima, ama Iddio Bene sommo per sé medesimo, essendo esso di sua natura infinitamente amabile; ama poi sé e il prossimo, guardando sé e il prossimo in quel supremo e ottimo Bene, a cui si sente congiunto per creazione e per redenzione intimissimamente, e più che figliuolo non sia stato mai congiunto al padre o alla madre sua. Or questo amore, che lega l’anima in carità a Dio, a sé e al prossimo, benché si apra in tre amori; pure, risulta tanto stretto, che ciascuno dei tre non istà mai senza dell’altro; onde allorché se ne disnodi uno, gli altri due pure si sciolgono. In effetti non ci ha amore di carità verso Dio, che non sia in pari tempo amore buono di sé e del prossimo; né ci ha amore di carità a sé e al prossimo che non sia altresì amore di Dio. In somma la carità noi la possiamo rassomigliare al getto d’una fontana limpidissima, nella quale l’acqua dal basso zampilla in alto, e dall’alto ritorna in basso. Egualmente, per virtù soprannaturale di grazia, l’amore di carità, da noi che siamo in basso, zampilla verso Dio nell’alto, e poi da quell’altezza smisurata, a cui è giunta, ridiscende in noi stessi e nel prossimo. Indi risale e ridiscende sempre con non interrotta alternativa; e solo un atto malvagio del nostro libero arbitrio, rompendo l’amicizia dell’anima nostra con Dio, interrompe questo salire e discendere dell’amore dall’uomo, ricco di grazia, a Dio, e da Dio all’uomo. A questa unità dei tre amori, di cui s’è parlato, parrebbe contradire il fatto che sì nel Deuteronomio, sì nei santi Evangeli questi tre amori ci sono comandati non in un solo ma in due comandamenti: il primo che è dell’amore di Dio, e l’altro dell’amore di sè e del prossimo. Ma, come è detto nella Somma Teologica di san Tommaso, il secondo comandamento d’amore è compreso nel primo, al medesimo modo che le conseguenze d’un principio qualsiasi sono in esso principio comprese. Or, poiché non tutti gli uomini hanno tanto lume e vigore d’ intelletto, da vedere le conseguenze chiare nei principj loro; Iddio provvidissimo volle per i meno capaci distinguere l’unico precetto in due. (Sum. 2, 2 quæst. 44 art. 2 in corso.). Teniamo dunque bene a mente questa intima e perfetta unione dei tre amori; perciocchè essa è veramente il centro di tutta la sfera ampissima delle virtù cristiane, le quali non sono altro che irradiamento di questo amore uno o triplice, secondo che diversamente si considera. Dopo san Giovanni e san Paolo, pochi uomini compresero sì addentro il mistero dell’amore santo, come quel dottissimo e santo Vescovo d’Ippona Agostino, che, essendo stato prima amatore passionato del mondo, la divina grazia trasformò in amatore passionatissimo di Dio e del prossimo. Bello è sentirlo enfaticamente esclamare: “L’amore di Dio e l’amore del prossimo esso è etica, è logica, è fisica; esso è tutta la salute delle nazioni.?” (Epist.). Altra volta poi, infiammato com’era di accesa carità, scrisse: “Se tu, o uomo, ami con amore di carità, fa pure ciò che vuoi e farai bene… Studiati di tener dentro dell’anima tua ben abbarbicata la radice dell’amore buono; perciocchè da essa non germoglierà altro che bene.” (De laudibus charitatis), Laonde, quando il medesimo Santo, nel suo aureo Libro della Città di Dio, abbracciò in una sola occhiata tutto il genere umano, dalla creazione alla consumazione sua, e lo vide diviso in due grandi Città, l’una di Dio, e l’altra del mondo, una simboleggiata da Gerusalemme, e l’altra da Babilonia; allora con alta e ottima sapienza affermò che “queste due Città vivono di due amori; la prima dell’amore di Dio, la seconda di quell’amore inordinato di sé, che egli chiama amore del secolo, e che possiamo anche dire egoismo.” (Super Ps. 64).” Ancora, nella stessa Città di Dio aggiunge che “ogni creatura, essendo nella sustanza buona, può essere amata bene e male: bene, se la si ami secondo l’ordine suo, male se la si ami seguendo la perturbazione di questo ordine. ” (De Civit. Dei. L. XV). E ora, che abbiamo veduto dove nasca e dove si alimenti l’amore di carità verso noi stessi e il prossimo, volgiamoci un tratto a considerare in modo particolare il secondo comandamento di carità : “amerai il prossimo come te stesso.” Parlando del prossimo, parliamo anche di noi medesimi; perciocchè nessuno è tanto prossimo all’uomo, quanto ciascun uomo a se stesso. Che se vi ha qualche particolarità da indicare intorno all’amore di sé, ne faremo un cenno poi. L’amore del prossimo, che, dopo la promulgazione dell’Evangelo, fu più comunemente detto dilezione o carità fraterna, ha tante e sì nobili attinenze con Gesù Cristo, che chi non lo guarda e studia in Lui, mai non lo comprende appieno. È giusto anzi dire che si farebbe bene a studiarlo più spesso e più profondamente, di quel che non si faccia, in Gesù Cristo. Bellissimi sono pure gli esempj, che Gesù medesimo ce ne ha dati nei Santi suoi; ma, come questi, per le loro sembianze particolari e più umane, possono giovarci per un certo rispetto; il tipo divino della carità fraterna, che è Gesù Cristo, li comprende tutti nella sua universalità, e ha una bellezza e un’efficacia assai maggiore. In vero volgendo io umilmente e amorosamente la mente a Gesù Cristo, Maestro supremo della fraterna carità, ciò che mi colpisce più, e mi par più degno di nota, lo trovo nelle parole stesse, da lui adoperate nel darci cotesti precetti. “Il comandamento mio, Egli dice, è questo che vi amiate l’un l’altro, come Io ho amato voi. Un nuovo comandamento dò a voi che vi amiate anche voi l’un l’altro come io v’ho amati… Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore l’uno per l’altro. ” (Joan. XV, 13; XIII, 34 e 35). Son poche e brevi queste parole dell’Evangelo; ma da esse sfavilla una così soave e smagliante luce d’insegnamenti intorno alla carità fraterna, che né prima né poi se ne vide mai maggiore. Ponderiamo dunque bene le parole del Vangelo, e apriamo la mente alla luce bellissima che diffondono. – Dunque il comandamento della fraterna carità è comandamento di Gesù Cristo. Come mai questo, se la legge di natura è pur la legge antica questo comandamento lo conobbe, e lo promulgò? — È comandamento di Gesù Cristo, perché è il comandamento, che ei predilige sopra tutti gli altri — È  comandamento nuovo. Come mai nuovo, se già era stato dato? E nuovo, perché quasi dimenticato dagli uomini, e perché doveva essere elevato a perfezione nuova. Ancora, questo comandamento della carità fraterna dobbiamo mirare, benché essa sia tanto alta, che il raggiungerla, è assolutamente impossibile. La misura è: amare gli uomini, come Gesù Cristo gli ha amati e gli ,ama. Infine la carità fraterna (e qui vedo la maggiore importanza della cosa) è il segno di riconoscimento dei credenti in Gesù Cristo e nella Chiesa sua; è il vessillo, o piuttosto è la pacifica orifiamma della milizia cristiana. Certo, nel nostro vessillo, o piuttosto nella nostra pacifica orifiamma, non manca la luce di nessuna virtù; ma l’oro e la fiamma che sfavillano visibilmente e principalmente nel vessillo cristiano sono (è bene tenerlo sempre a mente) oro e fiamma di carità fraterna. Di nessun altro comandamento, datoci da Gesù Cristo, si dicono cose simili a queste; e ciò non può stare che sia avvenuto senza profonde ragioni. Neppure dell’amore di Dio, che certo primeggia sull’amor fraterno, e che illumina e infiamma l’amore fraterno, Gesù disse parole somiglianti. Per quali ragioni mai? Le ragioni di questo, direi privilegio della carità fraterna possono esser molte. Io farò cenno di una sola, che la mente mi suggerisce, mentre che scrivo, e che mi pare ottima. Il primitivo intendimento di Dio nel creare l’uomo, e mettergli intorno l’universo, con tutte le sue inenarrabili bellezze, fu che l’uomo dovesse dal conoscimento di sé, dei suoi simili e delle altre creature salire al conoscimento di Dio, e, anche per giusta conseguenza, dall’ordinato amore di sé e delle creature salire all’amore di Dio. Cotesta dottrina è chiaramente insegnata da San Paolo in alcune parole « della sua Lettera ai Romani, le quali sono di questo tenore: “Ciò, che di Dio può conoscersi, è manifesto negli uomini (cioè nell’interno lume donato loro da Dio), e le invisibili cose di Dio, per le cose fatte comprendendosi, si veggono: per esse si vede anche l’eterna potenza e l’essere di Dio: onde siamo inescusabili se non lo conosciamo.” Parimenti, poiché in chi ha luce d’intelletto, il conoscimento è il principio dell’amore, ne segue che l’uomo doveva anche dall’amore di sé, dei simili e delle altre creature ascendere all’amore di Dio. Nel regno della gloria l’amor nostro ha un moto e un ordine inverso all’ordine e al moto della vita presente. Nel futuro regno della gloria, dall’amore di Dio, come da un’altissima cima, il cuor nostro discenderà all’amore delle creature; perciocché quel primo ed eterno Amore c’investirà pienamente e sarà fonte d’ogni altro amore. Nella vita presente però dall’amore delle creature che nella vita soprannaturale è ordinato e santificato dalla divina grazia, dobbiamo d’ordinario ascendere all’amore di Dio. Ora il peccato d’origine e gli altri peccati che seguirono, hanno onninamente turbato e capovolto quest’ordine L’amore di noi stessi, dei nostri simili e delle altre creature visibili, per effetto dell’orgoglio, dell’egoismo e delle cupidità, anzi che elevarci all’amore di Dio, ci allontanano da esso. Fu dunque ottimo e sapientissimo consiglio di Dio che la redenzione di Gesù Cristo (detta a ragione da san Paolo nuova creazione) rinnovasse, per mezzo d’ una santa carità fraterna (derivante dall’amore di Dio) l’ordine primitivo. Per tal modo quello stesso amore delle creature, che, avvelenato dalla colpa, per quattromila anni allontanò tutto il genere umano da Dio; quello stesso, santificato poi e nobilitato dalla carità di Gesù Cristo, diventò lo strumento più efficace per crescere la fiamma dell’amore buono nelle anime, e ravvicinare tutto l’universo a Dio. – Ma, che che sia di questa ragione, quello che ho detto privilegio della carità fraterna, si scorge altresì in tutta l’economia del Cristianesimo, e riesce sempre più evidente a chi guarda con intelletto d’amore lo stesso Gesù Cristo nella sua natura, nella sua vita, nei suoi prodigi, nei suoi insegnamenti. Gesù Cristo, eterno Verbo del Padre, Dio da Dio, e dal Padre eternamente generato, per amore degli uomini assume la natura umana, e si fa amico anzi fratello primogenito di tutti gli uomini. Per amore fraterno Egli vive trentatré anni tra gli uomini, bambino, fanciullo, adolescente, giovane; per amore fraterno paga il debito del peccato di tutti, e tutti redime dalla schiavitù del male. Inoltre, Gesù ama le anime di tutto il genere umano, illuminandole delle verità, che fanno ad esse conoscere l’eterna e incommutabile Bellezza. Per amore dei corpi nostri risana miracolosamente gli uomini o ciechi o mutoli o paralitici oppressi da febbre o storpj; per amore di essi li alimenta col miracolo dei pani, se famelici, o anche li risuscita, se morti. Le sue più soavi e belle parabole, come quelle del Samaritano, e del figliuol prodigo, sono, quasi direi, un cantico nuovo di amore fraterno. Quando la Maddalena gli unge i piedi con un unguento di nardo di spigo di gran pregio, e li asciuga con le trecce dei proprj capelli; Gesù prende occasione dal fatto per dire che la carità di lei sarà predicata a quanti conosceranno il Vangelo. Per inculcarci l’amore del prossimo egli, Maestro divino, lava i piedi ai suoi discepoli, e comanda che essi facciano il medesimo. Nel giudizio universale, che spesso ci vien dipinto con colori foschi e paurosi; Gesù fa comparire non la giustizia austera con le terribilità sue, ma la bella e soave figura della carità fraterna, dicendo che essa sarà il criterio principale del premio o della pena eterna. Infine il maggiore sforzo dell’amore era sembrato, sin allora agli uomini il morire per l’amico; e Gesù muore anche per i suoi nemici. Anzi, poiché tutti gli uomini fratelli di Gesù Cristo, per i loro peccati, erano nemici di Lui, in quanto era Dio; è necessario conchiudere che tutta la vita di Cristo non solo si consumò nell’amore fraterno, ma in un amore fraterno che fu in pari tempo amore dei nemici. – Benediciamo dunque il Signore, che fondò il Cristianesimo sulla pietra preziosa dell’amore fraterno, ci dette questo amore dolcissimo per vessillo della nostra santa milizia, e ci lasciò tali esempj di mutuo amore, che la mente umana si smarrisce nel pensarli, intanto che ne ritrae consolazioni ineffabili. Alla luce, fulgida più che oro, di questo amore fraterno, datoci da Gesù Cristo, non solo la filantropia, ma tutte le altre forme di amore umano impallidiscono, e appena pajono ombre d’amore. In vero questo amore fraterno, donatoci da Gesù Signore, poiché vive nell’amore di Dio, si appropria (quanto può creatura) le perfezioni dello stesso Iddio, in cui l’amore e l’essere sono un medesimo. In quella guisa che ogni raggio prende la luce dal sole; così avviene del nostro amore fraterno, che, mentre, a modo del sole, si diffonde su tutte le creature, viene in noi dal Creatore. Come Iddio è buono, possente e santo; così buono, possente e santo è il nostro amore fraterno; e dippiù, come Iddio è sapiente, previdente e provvidente; così il nostro amore è saggio e prevede e provvede ai bisogni del prossimo. Da quel seme di carità di Dio, che vive nella nostra carità fraterna e la abbellisce, e la feconda, procede che di questo amore, e di nessun altro si possa dire ciò che scrisse san Paolo nella sua prima ai Corinti. ‘Quando io parlassi, dice l’Apostolo, e dicono con lui tutti coloro che amano il prossimo in Dio; quando io parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, se non ho la carità, sono come un bronzo suonante o un cembalo squillante. E quando avessi dono di profezia, e intendessi tutt’i misteri, tutto lo scibile; e quando avessi tale una fede da traslocare le montagne, se non ho la carità sono un niente. E, quando distribuissi in nutrimento dei poveri tutte le mie facoltà, e quando sacrificassi il mio corpo a essere bruciato, se non ho la carità, a nulla mi giova. La carità è paziente, è benefica; la carità non è astiosa, non è insolente, non si gonfia; non è ambiziosa, non cerca il proprio interesse; non si muove ad ira, non pensa male; non gode dell’ingiustizia, ma fa suo godimento il godimento della verità; a tutto s’accomoda, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.” (I Cor. XIII, 1 e segg.). Se non che l’amore fraterno secondo Gesù Cristo, ha una dote sua propria, che lo distingue da tutti gli amori umani. Questi amori sono più o meno particolari; e l’amore fraterno di carità è universale; tanto universale, che effigia in certo modo l’immensità e l’onnipresenza di Dio. Cotesto nostro amore fraterno trasvola sul tempo, e su lo spazio; o piuttosto abbraccia tutta la distesa del tempo e dello spazio, sino a che peregriniamo su la terra, e poi vive e fiammeggia fuori del tempo e dello spazio nell’eterno regno di Dio. Noi Cristiani amiamo gli uomini di tutt’i tempi; sicché non ci ha uomo, da Adamo insino all’ultimo nato di donna, il quale non entri nella sfera della nostra carità. Ci sentiamo stretti in amore con gli uomini del passato; perché procediamo da essi, come il frutto dall’albero, e da essi avemmo tutto il tesoro del sapere e della civiltà presente, che accumularono per noi tra molti stenti, fatiche e dolori. Non furono forse i nostri avi, e gli avi dei nostri avi che edificarono i nosti tempj, abbellirono le nostre case, provvidero ai nostri bisogni, e ci apparecchiarono tanta messe di opere d’arte, d’industrie, di commerci, di ricchezze e di agi? — Amiamo gli uomini del nostro tempo, i quali sono doppiamente nostri fratelli, datici come amici e cooperatori nella vita che meniamo. Anche che questi fratelli, alcuni di essi, sieno malvagi, altri poveri d’ ingegno, altri superiori e altri inferiori a noi, essi, per ordinamento di Provvidenza, formano tutti, in vario modo, parte della nostra vita, e ci riescono benefici. Chi tra loro coltiva la terra la quale ci alimenta; chi c’insegna con la dottrina; chi ci arricchisce con l’industria; chi in modo più intimo partecipa alla vita nostra domestica e familiare. Anche i più malvagi tra loro, e, che ci sono o ci pajono nemici, senza volerlo, ci beneficano esercitando la nostra pazienza, stimolando il nostro zelo, distaccandoci dai desiderj e dalle opere vane della Città del mondo e dai piaceri del senso. — Con gli uomini infine dell’età ventura i nostri legami di carità fraterna pajono minori; perciocchè essi, i quali sono presenti al cospetto di Dio che è fuori di ogni tempo, per noi non sono ancora. Ma nondimeno, poiché la vita del genere umano è una catena di tanti anelli, che grado grado si annodano e poi si spezzano, e di tanti nuovi che si formano, e si uniscono tra loro; è indubitato che, come noi ci giovammo dell’opera delle età passate, gli uomini dei secoli avvenire si gioveranno dell’opera nostra. Or il Cristiano questo bene, che gli uomini dell’età ventura avranno, per mezzo di noi viventi nell’età presente, non solo lo prevede, ma lo desidera, e, quanto è da sé, lo procura; perciocché ei ben sa che non solo gli uomini del passato e del presente sono nostri fratelli, ma anche quelli dell’avvenire. Del rimanente si può forse pensare un sol uomo, dal primo Uomo Adamo che non nacque, sino all’ultimo che morrà nella consumazione dei secoli, che non sia creatura del nostro infinito Padre Iddio e plasmato, dirò così, dalle sue mani? Non risplende forse in ogni figliuolo dell’uomo l’immagine somigliantissima del suo Creatore? E l’uomo pagano, barbaro o giudeo non fu egli redento da Cristo, che in senso strettissimo morì per tutti? Dunque non v’ ha, né è giusto che esista mai un solo uomo, il quale non sia oggetto del nostro amore fraterno. Questo, che fu detto del tempo, vale molto più dello spazio. Se io amo l’uomo, che, in quanto uomo, cioè nella sua unione col corpo non esiste più; come mai non amerei colui che, è lontano da me, sia anche per centinaja e centinaja di miglia? Egli vive sotto diverso cielo, forse giace tra le tenebre, nella stessa ora, in cui io mi sento rallegrato dalla luce; ma non ha egli un corpo come è il corpo mio, non pensa come io penso, non ama come io amo, non desidera come io desidero? Qualunque sia l’uomo che vive lontano da me, o egli è un credente che vive tra i beni desideratissimi della civiltà cristiana; ed egli è mio fratello, anche per la fede, per l’amore di Dio e per l’aura benefica della civiltà cristiana, che respiriamo insieme: o è un pagano, un miscredente, uno schiavo, un barbaro, un selvaggio; e io lo amo egualmente: perché ho compassione del suo stato, e perché mi par amore nobile e santo ogni sforzo mio di giovargli in tutt’i modi, e di correre in ajuto del fratello perduto, se non fosse altro, col desiderio. – La perfezione poi che avrà questa fraterna carità, quando nell’eterno regno possederemo Iddio, è appena credibile. L’amore nostro alle creature si accenderà tutto nell’amore e nel possedimento di Dio; e noi, uniti in dolce amore alla perfettissima volontà di Dio, ci perderemo in essa come le acque nell’oceano. Però le creature le ameremo, com’Egli le ama, e anche, secondo che si dirà appresso, con quei vincoli particolari, ond’Egli stesso, Autore supremo della natura e della grazia, ci legò ad esse. – Ma consideriamo ora in un altro aspetto questo dolcissimo amore di carità fraterna; che, quando fosse bene inteso e largamente diffuso, basterebbe, anche solo, a sciogliere tanti e tanti problemi della vita morale e civile dei popoli. L’amore unisce nobilmente l’amante all’amato: l’intelletto all’intelletto, la volontà alla volontà, la persona alla persona. Però l’amore comunica all’amato il bene proprio, e tutto ciò, in cui l’amante trova una ragione di bene. Quindi segue che la carità fraterna, riconoscendo, come bene supremamente desiderabile, il Bene eterno e infinito, che è Iddio, si adopera principalmente nel dare Iddio all’amato, e con Dio la fede, la grazia, la carità di Lui. E, poiché tutti i beni umani sono, per vario ordine e gradazione, immagini del Bene supremo, e anche essi veri beni, giustamente desiderati e desiderabili, secondo l’ordine e la gradazione loro; l’amante del prossimo si sforza di comunicare allo stesso modo anche i beni finiti al prossimo amato. Laonde la carità fraterna, imitando Iddio eterno e infinito Amore, dona i beni spirituali e materiali, gli eterni e i temporali. Tutti questi beni furono un dono di Dio a noi; e tutti noi egualmente li doniamo ai nostri fratelli. Per effetto di questa fraterna carità che vive in Dio; chi ha dono di scienza, dà la scienza all’intelletto del prossimo amato; e chi ha dono di amore buono, dà amore buono alla volontà del prossimo; chi è ricco nell’anima, dà questa ricchezza all’amato, e chi è ricco dei beni di fortuna, egualmente li dona al prossimo suo. È un continuo donare l’ufficio della carità fraterna: a chi è infermo dà la sanità, a chi soffre, il balsamo della consolazione, a chi è famelico, il cibo, a chi è prigione, la libertà. In somma la carità, per la virtù diffusiva dell’amore, fa del fratello che ama, un altro sè stesso; e ciò che vuole per sé, ed ei lo vuole pel fratello, e ciò che dà a sé, lo dà parimenti al fratello suo. Talvolta la carità può giungere a così eccelsa perfezione, che chi arde della carità fraterna di Gesù Cristo, quasi non fa più distinzione tra sé e il suo fratello; gli pare di fare a sé ciò che fa a lui, e ama sé nel fratello, e il fratello in sé: tanta è la forza unitiva dell’amore, molto più quando sia amore diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo. Ben è vero che tutto ciò non si compie, senza che all’amante manchi qualche cosa di quello che resterebbe in lui, se non amasse. Questo è propriamente ciò che diciamo sacrificio. Ma il Signore, avendoci dato naturale inchinamento ad amare, ha posto in quello che diciamo sacrifizio una certa spirituale dolcezza, la quale c’inclina a farlo; una dolcezza, che allora principalmente si sente, quando l’animo sia nobile e avvezzo ad amare, non secondo la carne e il sangue, ma secondo lo spirito e la carità del Signore. Questa carità fraterna, benché aspetti il suo premio nel regno eterno, pure ha ineffabili consolazioni anche qui in terra. Amore chiama amore; ed è vero dell’amore di carità, come di ogni altro qualsiasi amore, che nessuna cosa lo accende, lo infiamma e lo abbellisce tanto, quanto il sentirsi riamato. Di qui segue, che chi ama con amore di carità, poiché si sente riamato, prova in ciò un incentivo nuovo ad amare. Ben è vero che anche in questa forma d’amore di carità, che è tanto nobile e disinteressata, non mancano, per effetto dell’umana corruttela, le ingratitudini, ma le eccezioni e i casi particolari non hanno forza a distruggere ciò che è di per sé vero e secondo natura. Del rimanente poiché in questo amore fraterno di carità v’è Dio e il suo amore; le ingratitudini umane poco o punto ci tangono: anzi esse riescono spesso ad accendere nuovo amore negli uomini giusti, e molto più nei Santi; i quali, a poco a poco, nella creatura quasi non vedono altro che il Creatore. Le cose fin qui dette della carità fraterna, se io giudico rettamente, sono in piena armonia con quanto v’ha di più nobile e bello nella natura umana. Certo, nobile e bellissima cosa è l’amore, talmente naturato nella creatura intelligente, che, tra tutti gli uomini, non ve ne ha alcuno che non abbia amore. Questo amore, che tutti sentiamo in noi stessi, può, senza dubbio, scendere in basso, volgendosi a quelle cose, che sono inferiori all’uomo, e può restare nella stessa creatura amante. Ma può altresì, come fiamma viva e forte, spingersi in alto. E si spinge in alto, sempre che l’intelletto presenta all’uomo alte e nobili idealità, come beni, anzi come beni grandemente amabili; e d’altra parte l’uomo affisandosi in essi, liberamente li ama. Ora come mai l’amore si potrebbe spingere più in alto che in Dio, considerato primamente in sé stesso, come suprema Bontà e Bellezza, e poi nelle immagini sue più care che sono le creature intelligenti e amanti? Oltre a ciò, noi abbiamo tutti, come si dirà, un inchinamento irresistibile ad essere amati, anche con amore universale, e a questo inchinamento corrisponde il desiderio della lode e della gloria. Ebbene, se vogliamo in nostro benefizio l’amore universale, non è dunque al tutto giusto e consono alla natura che rendiamo agli altri quell’amore che vogliamo per noi stessi? Oltre di che la medesima nostra natura ci spinge per un altro modo ad amare tutti gli uomini. Alcuni degli uomini naturalmente siamo spinti ad amarli, perché da essi aspettiamo ciò che essi hanno e noi non abbiamo, o almeno non abbiamo nella stessa misura loro: dico, la scienza, la cultura, l’arte, le ricchezze, la virtù o altri beni somiglianti. Altri uomini, che ci pajono o sono poveri di tutto, li dovremmo amare per naturale sentimento di compassione, e di fraternità; un sentimento, che l’uomo, quando non è corrottissimo, non perde mai interamente; un sentimento, che o è o pare comune anche agli animali bruti, e tanto più, quanto essi sono meno imperfetti. Anche senza il dono della carità soprannaturale, ogni animo nobile e gentile sente compassione del prossimo o povero o infermo o ignorante o vizioso, e sente una voce dentro di sé che gli dice soccorrilo: è tuo fratello. Non dico per questo che l’amore, il quale non abbia altro fondamento che quello della natura, riesca molto efficace e operativo. Tutt’altro. Perciocchè, se v’ha una voce naturale di compassione e di fraternità, che spinge l’uomo ad amare il prossimo; ve ne ha un’altra assai più possente e forte di egoismo, la quale gli grida di continuo nell’animo: pensa a te stesso, ama te stesso, godi tu e i tuoi cari del bene che hai. — Il frutto dunque di questo amore naturale del prossimo è un frutto malaticcio, scarso e che dura appena un’ora e sparisce, Il fatto prova che non è neanche un milionesimo di quello, che ha prodotto e produce nel mondo la carità cattolica. Del rimanente è secondo l’ordine di Provvidenza che questo frutto dell’amore umano ci sia; ed anche è secondo l’ordine di Provvidenza che riesca sì povero e scarso. Ogni qualsiasi frutto dell’amore umano, con la sua esistenza, ci prova che la carità universale del prossimo è al tutto conforme alla nostra natura, la quale, anche corrotta, ha inchinamento all’amore universale, a scarsezza poi e povertà di questo frutto naturale, ci prova quanto sia nobile, bella e santa la carità di Gesù Cristo, che, elevandoci al soprannaturale, nobilita, santifica e moltiplica in infinito tutto il bene naturale che Iddio Creatore ci diede, e che noi, per nostra colpa, perdemmo in gran parte. Oh dolcissima carità  fraterna, o gemma preziosissima donataci da Gesù Cristo, se io fossi riuscito a innamorare di te almeno qualcuno degli uomini, oh come mi riterrei veramente beato!

LE VIRTÙ CRISTIANE (6)

CRISTO REGNI (11)

CRISTO REGNI (11)

 P. MATHEO CRAWLEY (dei Sacri Cuori)

TRIPLICE ATTENTATO AL RE DIVINO

[II Edizione SOC. EDIT. VITA E PENSIERO – MILANO]

Nihil obstat quominus imprimatur ,Mediolani, die 4 febr. 1926 – Sac. C. Ricogliosi, Cens. Eccles.

IMPRIMATUR In Curia Arch. Mediolani die 5 febr. 1926 – Can. M. Cavezzali, Provic. Gener.

CAPITOLO III

L’onore del Re della gloria disdegnato

V. – Il vittorioso appello del Signore

Sopra tutte le opposizioni, restano i diritti del Maestro che ha fatto, del sacerdote, lo strumento indispensabile delle sue grazie. Egli si riserba il diritto sovrano di regnare, nella numerosa falange dei suoi amici predestinati, quelli ch’Egli ha guardato con sguardo di predilezione; Giovanni e le Marie… Egli li prende dove vuole; fra gli umili, fra i grandi, fra i santi e fra gl’indifferenti. E a volte per far risplendere la sua potenza, Egli va a cercare anche lontano. Egli designa, chiama sotto mille diverse forme, insiste con la sua grazia, fa dolce pressione, pur lasciando a ciascuno la libertà, il merito di seguirlo; si può sempre preferire a Lui, le reti e la barca del mondo, e rifiutare la missione gloriosa d’essere « pescatori» d’uomini ». – Avviene qualche che il giovane, la fanciulla restano esitanti, confusi, turbati. E allora comincia la grande e delicata missione dei genitori cristiani. Dio, che ha loro partecipato l’autorità sua, richiede da essi un gesto di fede, una condotta che sia d’accordo con la loro coscienza cristiana, e che non soltanto non contraddica, ma sia conforme e faccia eco alla sua volontà suprema. La loro missione d’educatori e di maestri continua, con lo stretto dovere, di secondare l’appello della grazia, senza precipitare le soluzioni, ma circondando soavemente e fortemente e prudentemente l’anima del fanciullo. E la santa decisione può nascere dal cuore della madre e delle figlie, del padre e del fanciullo come un unico e stesso cuore. Oh, che santa unione! – Se ancora, dopo di questo, resta qualche dubbio, la preghiera, i savi consigli d’un direttore e una sottomissione perfetta alla volontà di Dio, provocheranno certamente la luce. – Una famiglia per quanto nobile e cristiana, non può meritare la grazia di questa visita di Gesù Cristo, che passa da Re in cerca d’un ministro, da Fidanzato che vuol scegliersi una sposa. Certo, le vocazioni possono essere talora titoli di nobiltà divina, onde Nostro Signore vuol ricompensare la virtù provata d’una famiglia a Lui particolarmente unita, la fedeltà di molte generazioni… Ma l’onore di possedere un sacerdote o una suora è talmente superiore a ogni merito personale, ch’esso rimane una delle grazie più gratuite che il Signore possa accordare ai suoi amici. Così pensava il sig. Martin, il babbo avventurato della piccola Teresa, quando diceva: « Io non merito che il Signore venga a prendere le sue spose a casa Mia ». Il numero sempre crescente, delle famiglie cristiane, insensibili e refrattarie a questo onore incomparabile, è uno dei sintomi più inquietanti della decadenza del senso sociale cristiano. Supponete questa dolorosa inversione d’una delle più belle scene evangeliche: la sera del Giovedì Santo, Gesù, venuto a Betania, per il supremo addio, è fermato sulla soglia della casa, congedato colla sua Madre Divina, da coloro che Egli aveva chiamato suoi amici: Lazzaro, Marta e Maria, e questo perch’Egli li invitava a partecipare alla sua crocifissione, e a seguirli fino al Calvario! Ahimè, come questa scena si ripete troppo spesso, per il Cuore Divino, nelle famiglie amate, ove Egli viene ad invitare qualcuno al suo seguito! Eppure è  Lui il solo padrone, che avendoci tutto dato, può anche liberamente riprendere e scegliere quel che è suo. Non è dunque mai l’intruso, meno ancora il ladro, quando chiama con un amore che potrebbero invidiarci gli Angeli. È ho visto molto spesso scacciare insolentemente l’Amico di Betania! Ho visto questo dolce Maestro, bandito dal focolare, solo perché osava rivendicare un bene che solo temporaneamente aveva confidato alla custodia dei genitori. – Queste famiglie così degne, così cortesi, di educazione così fine, io le ho viste, soffocate dalla collera, lo le ho intese pronunciare parole che, per rispetto alla sua miseria, non avrebbero detto ad un mendicante impertinente. « Io ho otto figlie », mi diceva una signora, « tutte son fisse nella mia mente: sei saranno per il mondo; esse si mariteranno facilmente. Quanto a Luisa, la più piccola, è così poco graziosa, così poco simpatica e intelligente che farà bene ad entrare in convento. È la sola alla quale permetterò di essere religiosa » ed abbassando la voce, « il piccolo cencio della famiglia: non è buona a nulla ». Il Signore dispose altrimenti, e prese, nonostante il volere della madre, le due figlie preferite per il monastero, e una terza per il cielo. Un rovescio di fortuna cambiò crudelmente la posizione. Le tre figliole che restarono dovettero lavo far vivere la madre e la sorella malata. La povera madre, in uno stato quasi di miseria, dovette assoggettarsi a mangiare nel parlatorio di un convento, ove una delle sue figliole era divenuta superiora. Ella aveva spesso detto: « È una provvidenza che vi siano dei conventi, perché essi sono il rifugio degli spiriti miseri e insopportabili, delle malaticce, di coloro che una famiglia di un ceto rispettabile non potrebbe convenientemente sistemare », e in altri termini: Gesù è il mendicante al quale si gettano i rifiuti del mondo, gli esseri deboli nel fisico e nel morale. – Ho potuto spesso ammirare la debolezza infinita, la pazienza instancabile, la divina pietà del Maestro adorabile, il cui Cuore resiste a tutti gli oltraggi per conquistare un’anima d’apostolo, un’anima di sposa. La lotta è crudele anche per gli eletti, tanto più, in quanto sentono che il seguire Colui che li chiama, è un loro pieno diritto. Essi veggono la libertà di cui godono i loro fratelli, libertà di cui questi possono abusare a volte, mentre essi menano una vita di oppressione e di diffidenza insopportabile. Tutti li allontanano da tutto ciò che potrebbe favorire quello che viene preso per una « esaltazione ». Non si accorda loro che il minimo di espansione, di pietà e s’impongono loro le più odiose restrizioni. Conosco il caso di un giovane che, per arrivare a intrattenersi con il suo direttore, non trovava altro mezzo che di fingere una innocente relazione amorosa, per la quale veniva approvato in famiglia. Egli vedeva a teatro, a passeggio, una giovinetta… e tutti e due parlavano di vocazione, perché tutti e due si trovavano nella stessa insostenibile e dolorosa situazione. Essi dunque complottavano in favore di Nostro Signore. Aiutandosi a frustare le opposizioni, che le famiglie entusiaste della loro unione avrebbero fatto alle loro vocazioni, essi si vedevano al teatro ed a passeggio, ma.. dopo qualche momento di mistico conversare, si separavano, ed andavano a compiere il loro piano d’avvenire, coi loro confessori. Egli a ventun anni e lei a ventitré, partivano e realizzavano infine la santa ambizione, per la quale avevano sofferto per lunghi anni, una vera tortura morale. Non è un’enorme ingiustizia in questo caso, veramente vissuto, che questi due giovani, che pur avendo ogni libertà di vedersi e d’incontrarsi, non potessero avvicinare i loro maestri e direttori neanche una volta al mese? Quanti casi come questi, ed anche più penosi, si verificano in seno alle migliori famiglie! Ci si difende con accanimento contro il Volere Divino, e giovani anime si veggono tristemente obbligate di lottare contro i loro parenti. Una convinzione di coscienza lotta contro l’affezione ed il rispetto filiale. « Se lei sapesse — mi diceva una giovane — come il mio cuore batte quando debbo incontrare i miei cari parenti, per difendere la mia vocazione, i diritti contestati del mio Gesù! » – « lo spero che tu non ci darai mai questo grande dolore », diceva la Contessa X… a sua figlia di venti anni, che parlava continuamente di voler essere religiosa, rinunciando ai più brillanti partiti e dando prova in tutti i modi della serietà della sua decisione. « Tutto, mia cara, tutto eccetto questo: diceva la madre con veemenza —; questo sarà un sacrificio al disopra delle mie forze. E poi pensa al tuo stato. ». Dai venti ai ventotto anni, la povera fanciulla subì degli assalti terribili. Infine, dopo una scena di disperazione da parte della madre, ella si sente vinta e dichiara di acconsentire a maritarsi. « Ma brava — esclama la madre consolata tu hai finalmente pensato all’onore dei tuoi parenti; il cielo ti benedica ». Il Cielo avrebbe presto risposto dell’onor suo! Due anni dopo, poche persone intime, accompagnate dagli agenti di polizia, bussavano alla porta dell’albergo ove abitava la contessa. Esse riconducevano presso la madre, la giovane figlia, vacillante, tutta atterrita dallo spavento, con gli abiti portanti ancora tracce di sangue… Ella si era maritata con un « viveur », che aveva considerata questa unione soltanto come un mezzo per dare, con i milioni della sposa, un lustro al suo blasone scolorito.  Era stata molto infelice, e quella notte, il marito, che non l’amava affatto, era rientrato tardi ed ubriaco, ed aveva cercato di batterla perché essa lo aveva rimproverato; e mentre lei si difendeva, egli perduta la testa per la collera e per i fumi dell’alcool, si era ucciso con quello stesso colpo che voleva dirigere alla povera donna. Se i genitori hanno il diritto di mettere a prova prudentemente e delicatamente la vocazione dei loro figlioli; se anche, in certi casi è per essi un dovere, non debbon tuttavia opporvisi per partito preso. Vi è un’enorme distanza tra la discrezione del silenzio, dell’osservazione, dell’attesa, ed il sistema della biasimevole opposizione di cui abbiamo parlato. E perché tante esigenze, tante prove, fatte fare prematuramente, tante precauzioni per questa vocazione di sacrificio; ed invece tanta felicità, tante strade aperte per le carriere del mondo, ove i pericoli che minacciano l’onore, la coscienza dei giovani, sono così numerosi? Si direbbe che i genitori siano nati, e vissuti nel mondo, come in un paradiso terrestre, circondati di virtù e di delizie, talmente preme loro che i propri figlioli vi rimangano, nonostante la voce della loro coscienza. – Noi concepiamo chiaramente la lotta del cuore in un padre e in una madre; la perplessità dovuta ad una esitazione istintiva, ad una ripugnanza naturale al sacrificio che loro chiede Gesù, ma non comprendiamo il perché, nelle famiglie cristiane, il mondo sia preferito alla vita religiosa. Poiché di fatto, su cento eletti del Signore, si può giudizio, più con certezza affermare che, in generale, tutti e cento siano molto felici, mentre che quelli che hanno l’esperienza del secolo, sanno quale sia, all’opposto, la spaventosa proporzione dei felici tra coloro che vivono nel mondo. – Se i genitori avessero incontrato, prima del loro matrimonio, le diffidenze, le opposizioni nascoste e palesi, i fastidi di ogni genere che tante giovinette hanno, per attuare la loro sublime vocazione, avrebbero considerato quelle giuste, legittime, ragionevoli? No! essi sanno bene a quali pericoli, a quali scandali frequenti, a quali sofferenze conducono le opposizioni matrimoniali fondate, per esempio, su l’ineguaglianza del patrimonio o di stato, quando i cuori che si amano superano qualunque ostacolo, pur di raggiungere la loro felicità. Forse qualcuno, leggendo queste righe, ricorderà le amarezze provate per il rifiuto e l’opposizione sistematica: che essi risparmino ai loro figlioli, di fronte a una via ben più alta e sublime, queste angustie, che sono un’agonia del cuore. – Mi preme di esporre qui un’idea molto seria, che potrebbe far riflettere molte famiglie cattoliche. – Da che dipende lo strano, inesplicabile svilupparsi d’indifferenza, d’irreligiosità, e a volte anche l’assenza assoluta di pietà, in un fanciullo nato ed educato in un focolare cristiano? Questa anomalia può avere, secondo il mio umile giudizio, più spesso di quanto non si pensi, la sua causa non soltanto nel singolo individuo, ma nella catena che lega le famiglie e le generazioni. La legge della grazia, come la legge della natura, stabilisce questo stretto legame, questa comunione di beni e di infermità morali e materiali. Mi è sembrato constatare, che quando si estingue la sorgente di grazia, che è il pozzo divino di una vocazione, non soltanto ne patiscono le anime degli estranei assetati dell’acqua della grazia, ma la famiglia stessa ne soffre, o ne soffrirà nelle successive generazioni. Quel pozzo divino; quelle messe, quelle immolazioni, quelle preghiere, quella vita. d’olocausto erano destinate prima di tutto ad arricchire la vita soprannaturale del giardino familiare. Tutti gli alberi di questo giardino vivono colle radici nello stesso suolo, tutte le anime sono in stretta comunione spirituale; vi è una partecipazione più o meno abbondante di tesori, di luce, di forza, di amore. E che non si vada a cercare un’altra spiegazione a questi strani problemi morali, a questi enigmi angosciosi che si incontrano in alcune famiglie: la chiave non ne è, spesso, che il rifiuto delle grazie di una vocazione. Si è rinunciato ad un patrimonio: misteriosamente, un male latente ed insanabile ne farà lungamente sentire la privazione, per diverse generazioni. Il Signore è geloso del suo onore; è facile avvedersi di ciò. Egli che, per estrema umiltà, provocata dal suo amore, lascia il trono, lo scettro ed il suo cielo di gloria per salvare il mondo, non vuol essere disprezzato nelle sue chiamate. Di quest’oltraggio, che lo ferisce infinitamente, Egli si vendica — pare portando via, con violenza, il tesoro rifiutato alla Maestà sua. – Non dimenticherò mai questa eloquente lezione di giustizia divina, inflitta a una madre ostinata, da Nostro Signore. La Signorina di X… supplicava invano i suoi per ottenere l’autorizzazione d’entrare in convento. Essendo maggiorenne avrebbe potuto farne a meno, ma le sembrava preferibile d’aspettare che il suo affetto, le sue pene, la tenacia nel suo desiderio. piegassero l’opposizione di sua madre. Questa, da parte sua, sperava in una evoluzione nell’animo della figlia. La situazione diveniva pertanto sempre più penosa, e la madre, esasperata, finì per esclamare un giorno: « Ebbene, se dovessi scegliere fra vederti religiosa e contemplarti morta, preferisco e chiedo la seconda cosa ». Ed ella insisté su questo terribile augurio. Ma per dissipare la dolorosa impressione prodotta sulla giovane, essa aggiunse: « Preparati: domani partiremo. I viaggi ti distrarranno; staremo in giro due mesi, e avrai, senza dubbio, la fortuna di dimenticare, in viaggio, le tue fantasticherie ». Esse partirono, e la mamma non risparmiò né denaro, né fatica per distrarre con passeggiate, teatri, serate e spiagge, i desideri deprecati della docile figliola, che, nonostante tutto, conservava intimamente il tesoro della sua vocazione. Un giorno, mentre il treno espresso su cui erano montate arrivava alla grande stazione di X …, la fanciulla dette un leggero grido, mormorando convulsamente: « Gesù mio » e … cadde morta ai piedi della madre costernata. Qualche minuto dopo, il cadavere era calato dalla vettura e steso sopra un banco d’una sala d’aspetto. Al posto del velo di sposa di Nostro Signore, era spiegato un lenzuolo funebre; la povera madre pagava a duro prezzo la sua triste preferenza…

LE VIRTÙ CRISTIANE (4)

LE VIRTÙ CRISTIANE (4)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO

Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C. – Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE Ia

LE VIRTÙ TEOLOGALI E LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE

CAPO III.

LA VIRTÙ DELLA CARITÀ

L’amore dell’uomo verso Dio

Insieme con la speranza, e quasi sua gemella, nasce dalla fede anche la virtù teologale della carità, la quale supera di gran lunga in isplendore ed eccellenza le due precedenti. – Basterebbe a indicarlo il nome stesso di carità, col quale noi nominiamo anche l’Iddio nostro, secondo che è detto in san Giovanni: Dio è Carità. Per tal modo un medesimo nome, in noi, esprime una virtù dell’animo, e in Dio, la sua stessa essenza. Mille volte dunque sia benedetto questo nome divino, e pur umano di carità; il quale ha nella vita dell’universo dolcezza, possanza e sublimità grandissima, soprattutto Perché l’uomo lo prende da Dio, in cui non è né fede, né speranza, ma è carità eterna e infinita. – Or bene, per parlare meno indegnamente della virtù della carità, incominciamo dal levar gli occhi dell’intelletto in alto. E poiché la carità non solo si diffonde da Dio nelle anime nostre, come le altre virtù teologali; ma essa in Dio è Dio stesso, accostiamoci con le ginocchia della mente inchine al nostro Signore, eterna e infinita carità. Studiamo dapprima, secondo l’alta sapienza cattolica, che cosa è carità in Lui, o che il medesimo, che cosa è amore in quel primo ed eterno amore, e, a nostro modo d’intendere, primo ed eterno Sole, da cui l’amore, come raggio benefico, piove in tutto l’universo. Così ci tornerà assai più agevole di conoscere addentro la virtù teologale della carità, e di ammirarne la bellezza inenarrabile. In vero; se Dio intende e muove e prevede e provvede; se Egli è infinitamente e semplicissimamente buono, buono tanto, che tutte le cose, fuori di Lui, e le stesse intelligenze angeliche o umane si possono a comparazione di Lui chiamare cattive; è certo che in Dio sia perfettissimo e nobilissimo amore, e che anzi Egli sia infinito ed eterno Amore. Infatti l’amore è l’essenza di Dio; ed è inoltre la cagione dell’essere, della bontà e della perfezione di tutte le cose; di modo che, se l’amore di Dio non fosse, non sarebbe né perfezione, né bontà, né uomo, né angelo, né cosa nessuna in luogo veruno. Di tutti gli affetti umani due soli, senza più, si trovano in Dio; l’amore e il gaudio. I quali in lui non sono affetti, cioè accidenti, ma sustanza; perciocché ciò che è in Dio, è Dio, e conseguentemente sustanza. E come mai tutto il mondo spirituale e tutto il mondo corporale amerebbero essi, se Dio non amasse? Ogni altra cosa può Iddio, fuori solamente che non amare sé stesso, essendo in lui l’amante e l’amato un medesimo. Or questo amore, onde Iddio ama infinitamente sé stesso, i teologi lo chiamano naturale, non perché sia naturale, come è naturale alle altre cose umane dove non è elezione; ma perché tutto ciò che è in Dio vi è in modo così eminente ed eccellente e indiviso, che non si può né dichiarare con parole, né in alcuna maniera immaginare con la mente che sia diversamente da quel che è. – Questa è la sustanza dell’alta e profonda scienza cattolica intorno all’amore considerato in Dio, e ho detto amore, e avrei potuto pure dire carità. Perciocché le due parole di carità e di amore si usano l’una per l’altra nell’infinito nostro Padre, e assai spesso anche in noi, secondo che si vedrà nel seguito del discorso: con questa avvertenza però, che sempre che parliamo di Dio o delle virtù soprannaturali, i due nomi si usano parimenti senza difficoltà; ma non è il medesimo allorché ci accade di volgere il discorso all’amore nostro secondo natura. Il quale, anche che sia buono, non lo diciamo carità; perché carità nell’uomo è propriamente amore puro e procedente da soffio della divina grazia. Ora dall’amore guardato in Dio, discendiamo col pensiero all’amore che investe tutto l’universo, dandogli ordine, armonia e unità. Iddio, primo, eterno e infinito Amore, com’è detto, crea per amore libero tutto l’universo, e nell’universo, come in lucente specchio, effigia, in vario modo, e in maggiore o minor grado l’amor suo. Onde è giusto il pensare che, in certa guisa, e secondo la propria natura, il mondo materiale ami, il mondo animale ami, e ami in modo infinitamente superiore lo spirituale. Tutti questi amori, qualunque nome prendano, sono raggi del primo ed eterno Amore; ma nel mondo materiale il raggio divino è opaco e appena visibile; si vede un po’ più nel vegetale; e anche alquanto di più nel mondo animale. Nello spirituale poi, questo raggio divino che è uno splendore di luce vivissima, specchia ed effigia il primo ed eterno Amore, come la immagine finita può effigiare e specchiare il Vero, il Bello e il Buono infinito. Nell’amore libero in vero, e nella intelligenza che gli fa lume e lo guida, sta la ragione delle parole sublimi e amorose dette da Dio nella creazione dell’uomo: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza.” In vero, amore, preso nella sua più ampia significazione, è tendenza al bene. Però Iddio, volendo sapientemente creare il mondo per effigiare sé stesso, dette ai diversi ordini delle creature una naturale tendenza al bene, o che è il medesimo dette loro amore naturale; ma non in pari grado. Infatti, la natura materiale ama, seguendo inconsapevolmente la tendenza al suo bene relativo, datogli da Dio. Alla terra, per esempio, ha concesso di tendere al centro, e alla fiamma di tendere in alto. Ama in egual modo la natura vegetale, e anche meno imperfettamente, avendo quasi una certa elezione inconsapevole nel trovare il proprio bene piuttosto in un luogo, che in un altro; onde vediamo alcune piante stare e prosperare lungo le acque, altre sopra i gioghi delle montagne e altre nelle piagge e a piè dei monti. E ama altresì la natura vegetale in modo più chiaro per certi mutui attraimenti, che assomigliano agli attraimenti della natura animale; onde il Linneo descrisse, per ragione di somiglianza, gli amori, le nozze, i talami delle piante. Gli animali poi hanno più manifesta tendenza al bene, e più manifesto amore non solamente per tendenza ai luoghi, ma tra sé stessi, per attraimento scambievole dell’uno verso dell’altro, e verso la specie, e verso gli animali generati da loro, e anche verso le altre specie di animali. L’uomo poi, che contiene in sé un piccol mondo, con l’amore naturale ama molto e assai variamente in tutti modi, che s’è detto degli altri ordini di creature. Ama poi in un altro modo più perfetto; cioè ama, come la natura angelica, altresì con l’amore libero, che è il vero tesoro di tutta la sua vita, come ci accadrà di vedere tra poco. Intanto, è assai utile il notare che un nodo universale di amore unisce tra loro anche i diversi ordini delle creature, per modo, che la natura inferiore tende alla superiore, ed è quasi attratta ad essa; onde il perfezionamento suo sta nell’avvicinarsi alla natura più nobile. Così la perfezione della natura materiale è di avvicinarsi alla vegetale: nella vegetale sono più perfette quelle piante o fiori che assomigliano alla natura animale, e nella natura animale quegli animali che più si avvicinano all’uomo, benché la distanza, che corre tra questi due, è sempre incommensurabile. Come è bello dunque il vedere tutto l’universo esser congiunto armoniosamente per virtù d’amore! Come è soave il pensare che questo amore universale è veramente il cantico, sempre antico e sempre nuovo, che le creature cantano in ogni istante al loro Creatore! – Il dì che Iddio, per infinito amor suo, ci arricchì d’intelligenza, dette a noi e agli Angeli una tendenza naturale, o che è il medesimo un amore naturale a tutto ciò, che si presenta all’intelletto sotto l’aspetto di bene; e questa tendenza generica a tutto che è bene, o pare bene, è amore naturale necessario e immancabile nell’uomo; amore senza errore, cioè senza possibilità di errare. Ma non bastò questo all’infinito amore di Dio, per l’uomo, che forgiò a propria immagine e, somiglianza. Lo arricchì anche d’un’altra larga fonte di amore, e fu l’amore libero: amore, che a noi è bene supremo e tesoro inestimabile; bene e tesoro che sono la sorgente perenne della nostra libertà, e però di ogni nostra virtù. Ora cosiffatto amore, che è il principio della vita libera e morale, può errare, ed errando, genera il male per tre modi. Il primo è quando si ama il male, il quale si mostra sotto specie di bene; l’altro quando si ama il bene finito più che non si dovrebbe, e l’infinito meno del dovere; l’ultimo, quando non si conserva nell’amare l’ordine dovuto ai diversi beni degni d’amore: nei quali beni Iddio pose una gradazione ammirabile, conosciuta per lume dato al nostro intelletto, e molto più per lume supremo di rivelazione e di grazia. – Intanto l’amore libero dell’uomo, poiché è moto dell’animo verso il bene (anche se consideriamo l’uomo fuori del soprannaturale) si può volgere al Bene supremo e infinito che è Dio. Se col solo lume di natura l’uomo può avere una qualche cognizione pallida e imperfetta di Dio; come mai col suo amore libero, ei che ama i beni finiti con amore possente, non potrebbe fare altrettanto col Bene infinito? Nondimeno s’ha da notare che questo volo di amore libero verso Dio, senza ajuto di grazia soprannaturale, sia perché siamo finiti, e molto più perché siamo corrotti dal peccato d’origine, riesce un volo lento, mal sicuro, pieno di difficoltà, come vediamo accadere talvolta agli uccelletti appena usciti dal nido. I beni finiti con i loro attraimenti ci tirano a sé; le passioni ci volgono in basso; e gli uni e le altre ci tarpano le ali, che ci dovrebbero sospingere in alto verso il Cielo. Laonde, senza la infinita misericordia di Dio, la rivelazione e la redenzione, che hanno dato al nostro amore un ardore e un impeto soprannaturale verso il Bene supremo, e lo hanno trasformato in carità; il nostro amore a Dio sarebbe pallido e fiacco sempre. Risulterebbe piuttosto ombra d’amore, come vediamo accadere in quasi tutti coloro che vivono fuori della luce della divina rivelazione; i quali o non amano punto Iddio, o lo amano con un sentimento vago e incerto che si dilegua come nuvola alla più piccola folata di vento. – Ora dunque volgiamoci con l’animo riconoscente a quella carità di Dio che è stata diffusa nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato; (Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis – Rom. V, 5). e con animo commosso scrutiamone il dolcissimo mistero. La carità di Dio è una virtù soprannaturale, che va definita così “Carità è virtù teologale, per la quale amiamo Dio e le sue infinite perfezioni sopra tutte le cose, e amiamo noi stessi e il prossimo per Dio.” (Vedi Theolog. Mor. Auctore Augustino LEHMKUHL, S. – J. – Tom. I, p. 198). La quale definizione, benché sia fatta oggi, dopo molti secoli di studj profondi, e di analisi e di sintesi di tutte le verità insegnate da Gesù Cristo, appena per qualche parola differisce da ciò che insegnò Gesù, allorché, interrogato da un giudeo, qual fosse il gran comandamento della legge, rispose: “Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il tuo cuore, e con tutta l’anima tua, e con tutto il tuo spirito: questo è il massimo e il primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo. Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti pende tutta la legge e i profeti.” (Matt. XXII. 35, e segg.). Intanto, per fare qualche riflessione intorno a questa regina delle virtù teologali che è la carità, in prima è mestieri considerare che, se l’amore consiste nella tendenza al bene, è al tutto secondo ragione che l’animo nostro si muova verso il Bene sommo, con la maggior tendenza di cui è capace, o che è lo stesso con amore relativamente sommo di che segue il comandamento divino dell’Evangelo essere in piena armonia con la nostra sana ragione. Ancora, se oltre a questo Bene sommo, ci hanno beni finiti e creati; è secondo ragione che questi altresì siano amati. E, poiché questi beni finiti e creati non stanno di per sé, ma sono derivati, e derivano dal primo Bene sommo ed eterno; chi non vede che essi s’hanno da amare congiuntamente col Bene sommo, e come derivanti da esso? Di qui segue altresì che l’amarli contro del Bene sommo riesce in errore e colpa grandissima; e l’amarli fuori di esso Bene sommo, o è errore e male relativamente leggero, o talvolta è soltanto un pericolo, che ci avvicina al male. Così si arriva facilmente da un sano concetto dell’amore alla profonda e nobilissima teorica del bene e del male, dataci dal Cristianesimo, e pienamente conforme alla ragione. Nondimeno ad alcuni amatori del mondo, affogati, come sono, nel pantano dei vizj, e delle passioni, e rimpiccioliti da beni meschini della terra, riesce assai difficile o quasi impossibile il pensare che l’uomo abbia tant’ala, da volgersi al sommo Bene, e amare con amore sommo ciò che è assolutamente impenetrabile e invisibile. Ma contro costoro è giusto considerare che il vedere con gli occhi del corpo il Bene, ce lo fa spesso amare di più; ma in effetti l’amore nostro nasce non dal vedere degli occhi, ma da un’altra visione assai superiore che è la visione dell’intelletto. Onde noi amiamo molte cose astratte e concrete che non si vedono, e anche talvolta le persone umane, senza che l’occhio corporeo le conosca punto. Chi invero direbbe che un buon figliuolo non possa stringersi di molto amore alla genitrice sua, quando anche, per caso, non la conosca con l’occhio del corpo, ma solo con l’occhio della mente, sapendo la bontà di lei, e l’affetto che gli porta, e i sacrifizj grandi che ha sostenuti e sostiene per lui? Lo stesso avviene in noi dell’amor di Dio. Che importa a noi di non vederlo con gli occhi del corpo, se lo vediamo, almeno opacamente, con l’occhio della mente, e questa visione ci è accresciuta e perfezionata di molto dalle fede? I figliuoli della Città del mondo affermano che sia impossibile amare Iddio, nascoso sotto il velo impenetrabile della sua gloria. Ma a me pare piuttosto che sia impossibile o quasi il non amarlo. Non lo vediamo e non lo conosciamo noi l’Iddio nostro in noi stessi, e in tutto l’universo? Non ci parlano forse di lui il cielo, il mare, i monti, i ruscelli, le piante, i fiori e gli animali? Non cantano le sue glorie i cieli dei cieli, le stelle, la luna, il sole? La verità, la bontà, la bellezza, dovunque la troviamo, non ci specchiano e non ci fanno conoscere Iddio? E poi tutt’i misteri della nostra fede non sono come tanti raggi di luce, che Iddio manda sopra di noi, e che c’inducono a meglio conoscerlo e a più amarlo? È dunque al tutto secondo ragione che il Bene sommo, ancorché invisibile e tanto grande, che noi ne abbiamo idea e cognizione qui in terra soltanto per ispecchio e in enimma, lo amiamo con amore sommo, ossia superiore a quello, onde amiamo i beni finiti e derivati da Lui; i quali, al paragone del Creatore eterno, sono poco più che immagine e parvenza di bene. – Se non che, a prima giunta, parrebbe che il fatto contradicesse ciò che si è detto dell’amore sommo, onde il buon Cristiano ama Iddio, anche tra le miserie della vita presente. Alla mente di alcuni si affaccia questa obiezione. Dove si trova mai l’uomo che ami Iddio con la tenerezza, con l’ardore, con l’impeto, e con l’entusiasmo, col quale si amano talvolta le creature? E si trova, sia pure tra i Santi, chi pianga la perdita che fa del sommo Bene per peccato grave, con lagrime tanto calde e profuse, quante sono le lagrime d’una buona madre, la quale ha perduto tutto il suo bene terreno, perdendo il figliuolo e non patisce consolazione alcuna? Sì, ciò è vero; ma non se ne può trarre nulla contro l’amor sommo che noi si deve a Dio, e che tanti e tanti milioni di uomini, anche tra le miserie dei nostri tempi, gli portano. Infatti l’amore, da noi portato a Dio in questa terra, come insegna san Tommaso, non è al tutto della medesima natura di quello, che portiamo alle creature. L’amore, che abbiamo a Dio, è principalmente un amore riverenziale, che nasce dalle infinite perfezioni del Signore, e dalle infinite bontà sue verso di noi. Nell’amore poi che nutriamo verso le creature, non manca la cognizione dei pregi e delle bontà delle creature; ma vi entra, per giunta, l’affetto. Ora è proprio dell’affetto umano, che esso si ecciti per i sensi, e per certi vincoli personali che la natura pone. Così accade che la perdita del sommo Bene, anche che sia sommamente amato, d’ordinario si sente assai meno della perdita di un bene terreno, nel quale all’amore estimativo si aggiunge l’amore affettivo e passionato, che manca all’altro. Le quali cose l’Angelico san Tommaso assomma in poche parole, dicendo che l’amore nostro a Dio deve esser sommo quanto alla preferenza e all’apprezzamento del sommo Bene, non però sommo quanto alla passione e all’affetto; appretiative, sed non affettive summus. – Ma scrutiamo ancora più addentro la natura della carità, ché è dolce il penetrare nelle doti più intime di essa. Secondo l’Angelico, la carità è perfetta da parte della creatura. quando essa ama tanto, quanto può. Ora è chiaro, che la creatura può profondersi nell’amore di Dio per tre modi diversi. Il primo è che tutto il suo cuore, in ogni proprio movimento, viva. E sia in Dio. Questa è perfezione di amore, che corrisponde alla vita della visione beatifica in Cielo, e che non è possibile nella vita terrena, nella quale l’uomo non può in ogni suo atto pensare a Dio, e vivere dell’amore di Lui. Un’altra perfezione di amore di minor grado si ha quando l’uomo pone tutto il suo studio nel volgersi a Dio e alle cose divine, messe da parte le cose umane, ad eccezione di quelle che la presente vita richiede. Questa maniera di perfezione di amore è possibile nella vita terrena; ma non può esser comune a tutti coloro che hanno carità. – L’ultima forma di carità si ha quando l’uomo abitualmente mette tutto il suo cuore in Dio, per modo che ei non pensi liberamente e non voglia mai cosa alcuna contraria al divino amore: e questa perfezione di carità è comune a tutti coloro che hanno carità. (S. Theol., 2, 2, q. 24, art. 8 etc.). Così dunque si conchiude rettamente che la carità nostra verso Dio è come una piramide, la quale ha una base, un punto medio, e una cima altissima. Alla base è la perfezione della carità comune, che si assomma in questo pensiero; mai niente contra Dio, o che è lo stesso contro la divina legge. Nel punto medio della piramide è la carità di pochi i quali, oltre a non volere far mai nulla contro Dio, aggiungono l’allontanamento o di cuore o di fatto dai beni umani, salvo i necessarj alla vita terrena; e questa è la perfezione dei Santi; una perfezione d’amore infocato, che diciamo eroismo d’amore, perciocché eroismo è quell’atto, che trascende la legge morale dei nostri doveri e ci leva in alto. A questa medesima perfezione di amore, o piuttosto a questo medesimo eroismo si votano particolarmente i religiosi, come al punto, cui debbono tendere. Alla cima della piramide la perfezione della nostra carità è un amore, il quale si riposa, si muove e s’infiamma tutto dell’Iddio pienamente posseduto con la visione e con la gloria. Per questo amore eterno del Paradiso ciascun beato, pensando alla sua vita terrena, potrà dire con linguaggio biblico: Le mie tenebre, o Signore, davanti alla tua faccia sono diventate come il mezzodì. Intanto per conchiudere questo dolcissimo e altissimo tema dell’amore di Dio, io trascrivo qui alcune stupende parole di sant’Agostino, con vivo desiderio che chi legge, le possa applicare a sé stesso, e ne tragga frutti di consolazione e di dolcezza: “Ciò che la coscienza, senz’alcun dubbio, o Signore, mi assicura, è che io ti amo. Tu mi colpisti il cuore con la tua parola, e subito ti amai. Ma e il cielo e la terra e tutte le cose che sono in essa, ecco che da ogni parte mi dicono che ti ami, né restano di dirlo a tutti gli uomini, “ acciò sieno inescusabili.” (Rom. I, 20). Ma la tua misericordia si fa sentire più addentro “in chi tu degni di far pietà, e cui ti piace far grazia;” (Rom. IX, 15), altrimenti il cielo e la terra narrano le tue lodi ai sordi. Che amo io dunque quando ti amo? Non già l’appariscenza in ordine ai corpi, non già l’armonia in ordine ai tempi, né il brillar di questa luce amica ai nostri occhi, non la soave melodia del canto, non la fragranza dei fiori e degli unguenti e degli aromi, né  la manna, né il miele, né gli amplessi della voluttà. Non amo, no, queste cose amando il mio Dio; e tuttavia amo certa luce, certa voce, certo odore, certo cibo, certo amplesso, allorché amo il mio Dio, luce, suono, cibo, amplesso all’interno mio senso; dove all’anima mia risplende ciò cui spazio non contiene, dove risuona ciò che il tempo non dilegua, dove olezza ciò che le aure non dissipano, dove si assapora ciò che l’edacità non iscema, e dove congiungesi ciò che la sazietà non ributta. Questo è che io amo, quando amo il mio Dio.” (Conf. Lib. X, cap. 6).

CRISTO REGNI (10)

CRISTO REGNI (10)

 P. MATHEO CRAWLEY (dei Sacri Cuori)

TRIPLICE ATTENTATO AL RE DIVINO

[II Edizione SOC. EDIT. VITA E PENSIERO – MILANO]

Nihil obstat quominus imprimatur Mediolani, die 4 febr. 1926 – Sac. C. Ricogliosi, Cens. Eccles.

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 5 febr. 1926 Can. M. Cavezzali, Provic. Gener.

CAPITOLO III

L’onore del Re della gloria disdegnato

III.  Sacrifici mondani – Sacrifici Cristiani

I genitori possono di buon diritto temere gli onori che vengono dal mondo. Essi darebbero prova di una grande saggezza, nel tener lungi alcune ambizioni di gloria e di ricchezza, suscettibili di essere un giorno la causa della infelicità dei loro figlioli. Essere grande nel mondo, non significa sempre essere onesto e felice. – Il sacerdozio e la vita religiosa non offrono onori pericolosi. Nostro Signore riversa, sopra quelli che Egli sceglie, le sue grazie in sovrabbondanza. D’altra parte l’esser tentati dall’onore sacerdotale e dalla gloria di una vita monacale, non può generare l’orgoglio e il sensualismo, perché costituisce l’attrattiva intima di una vocazione di sacrificio dello spirito, del cuore, dei sensi.  « Io voglio essere prete! », diceva un fanciullo al suo curato. E questi di rimando: — Ma i preti sono disprezzati, nella strada li chiamano « pretonzoli ».  — Proprio perché li insultano, io voglio essere prete. Li insultano, perché sono buoni. —- Ma si combatte la religione, caro fanciullo, e la si perseguita nei suoi ministri. — Ragione di più, signor Curato; io la difenderò. — Ma allora, perché vuoi essere prete? Tu puoi formarti un brillante avvenire, seguendo la carriera di tuo padre. — Perché? perché il buon Dio non è amato e tutti  Lo abbandonano. Voglio legarmi a Lui, e andrò a farlo conoscere ed amare. Io sarò l’avvocato di Gesù. — Bisogna convenire che la carne ed il sangue non parlano questo linguaggio, e che l’immensa maggioranza dei buoni non è spinta a sacrificare tutto e per la gloria di una Croce e per il piacere di un diadema di spine. – « Che orribile sacrificio impone ai genitori la vocazione religiosa! », si lamentava una madre cristiana, che aveva proprio allora sentito suo figlio di venti anni, dirle di essere francamente risoluto a farsi sacerdote e religioso. Oh! siamo rispettosi e giusti verso Nostro Signore! Sì, certo, c’è un sacrificio, un sacrificio reciproco e doloroso, mai orribile. E questa parola ferisce il Cuore di Gesù. Lo dice mai qualcuno, quando dona i suoi figli al mondo? L’aveva forse detto, quella stessa madre, quando la sua figlia maggiore s’era maritata ad un uomo d’affari, destinato a restare, forse per sempre, lontano dal suo paese, e che conduceva la fanciulla ad una distanza di oltre due settimane di viaggio? Aveva essa esitato ad unire la sua seconda ad un diplomatico, parimenti lontano dal suo paese e dalla sua famiglia? Aveva essa ostacolato la vocazione del primogenito, ufficiale di marina; del più piccolo, già iniziatosi alla carriera militare a diciott’anni appena? Ma quando il buono, il dolce, l’adorabile Gesù, che rende il mille per uno, che permette la ferita, ma la cosparge di balsamo, e di una gloria che non si può calcolare; quando il Re dei re tende la mano al suo fanciullo, gli offre un magnifico destino di bellezza, di onore e di fecondità; quando il Maestro del mondo vuol sollevarlo fino al suo trono, oh, allora, la vocazione diviene un orribile, un impossibile sacrificio! Allora soltanto tutta l’influenza efficace e potente della madre agirà per fare desistere il giovane dalla sua aspirazione. Quale illogica incomprensione, e che ingiustificabile contegno! – Il sacrificio imposto dalla vocazione religiosa, è veramente più penoso e meno compensato di quello che esigono le carriere del mondo e i matrimoni? È una perniciosa ed errata illusione il crederlo. Ascoltate questa storia, dolorosamente vissuta: una signora di ventisette anni, distinta e buona, vuol essere religiosa: ha avuto questo desiderio dalla sua prima Comunione fatta ad otto anni. La madre vi si oppone risolutamente e le dichiara che finché essa vivrà non le darà mai il consenso. Dopo una resistenza quasi eroica, esaurita dai quotidiani rimproveri e dalle più pressanti sollecitazioni, si rassegna a maritarsi a ventisette anni, con le labbra sorridenti, ma col cuore dolorante. Tre anni dopo la morte di suo padre, le esecuzioni testamentarie portano delle complicazioni impreviste. Il giovane marito è esigente, ambizioso; egli è attaccato con esagerazione a quello che egli considera i diritti di sua moglie. Vi sono altri figli interessati, le cose non sono chiare. Ora un giorno, il tribunale cita la Signora X… per abuso di beni di minorenni e per falso, in una dichiarazione che le si era fatta fare. Uno scritto firmato da sua figlia l’accusa. La povera madre, nel ricevere la notifica della citazione grida: « Sono giustamente castigata! È mai possibile che mia figlia, la quale avrebbe rinunziato a ogni sua fortuna per il convento, tratti ora sua madre di ladra e spergiura? ». – Il caso è tipico. Se non è per il denaro, è per mille altre cose inattese che le madri hanno sofferto e soffriranno sempre per i loro figlioli, che stanno nel mondo. Senza che questi arrivino a pervertirsi, i loro nuovi doveri ed i loro interessi provocano spesso tali conflitti familiari, che arrivano ad essere dei veri calvari intimi, tragedie penose e accoranti. Per seguire suo marito, la figliola abbandona sua madre: per creare un nuovo focolare, il figlio lascia il focolare paterno: questa è la legge ineluttabile del matrimonio. È il sacrificio dei genitori che danno i loro figlioli al mondo; è spesso qui il duro e orribile Sacrificio! Certo, la separazione imposta dalla vocazione sacerdotale e religiosa ha il suo lato penoso, ma essa è mille volte compensata e più dolce, in seguito, per i genitori. La ragione è semplice: i preti e i religiosi non dividono i loro cuori; nel darsi a Dio essi non hanno dimenticato la loro famiglia. « Il più caro dei miei fanciulli, il più mio, il più vicino al cuore mio, nonostante la distanza che ci ha sempre separati, sei tu, il figliolo apostolo » mi ha scritto più di una volta mia madre, col pericolo di rendere gelosi gli altri otto figli che le vivono intorno. Le distanze sono relative, quando le anime restano unite! Oh! vi sono ben altri ostacoli che dividono, oltre gli oceani e le montagne. Si è delle volte vicini e così lontani… Guardate un po’ voi, madri che leggete queste righe, guardate intorno voi e troverete che troppo spesso il matrimonio dei figlioli non è una conferma della affezione figliale. Al contrario invece, voi non troverete mai la prova che il seminario od il convento abbiano soffocato nei giovani il quarto comandamento o ne abbiano diminuita la forza. Altra cosa è il separarsi, ed altra è il dimenticare l’attaccamento nobile del figlio verso i suoi, o di rinunciarvi. E non è certo il mondo che può invitare i sacerdoti od i religiosi ad intendere dalla sua bolla, le lezioni di dignità, di gratitudine, di affezione filiale. – Genitori cristiani, se voi sapeste, per esperienza, il compenso che il Signore vi riserva, voi non avreste abbastanza lacrime per riparare la diffidenza, forse la ribellione, con le quali avete ricevuto le sue proposte di gloria. Qual è dunque quello stato di vita, in cui non vi sia in gran parte il sacrificio, e tanto più crudele, quanto più siano allontanati i sacri doveri, per essere esenti dalla croce? Si sarebbe veramente tentati a credere che alcune delle famiglie cristiane non temano che la Croce del Maestro Gesù, tanto esse sono coraggiose nel sacrificio che la vita o la società impongono loro. Così durante la grande guerra, quale eroismo patriottico nel cuore delle madri! I figli partivano, le madri dicevano loro addio piangendo, sì; ma le loro lacrime erano calme e fiere. Giammai esse avrebbero pensato di arrestare il figlio sì caro, da quel glorioso cammino d’immolazione alla Patria! E se per disgrazia egli avesse avuto una esitazione, una debolezza, la virtù materna avrebbe rinvigorito lo spirito vacillante del giovinetto e l’avrebbe tenuto fermo nella via dell’onore e del dovere. Un plauso per queste patriote ammirabili! Ma ove sono esse mai, le grandi Cristiane che mostrano tanta nobiltà e tanto volere nella vocazione dei loro figlioli, quando questi entrano nel cammino infinitamente più glorioso, del seminario o del convento? – Si era a Ginevra, durante il governo dell’illustre Monsignore Mermillod. La tempesta morale imperversava su di lui. Una notte, la folla malvagia aveva urlato per lunghe ore: « a morte il Vescovo, a morte! » Di buon mattino Monsignore riceveva la visita della sua vecchia madre. « Sembra » diceva essa, che vogliano uccidere il Vescovo di Ginevra; io l’ho saputo ieri sera molto tardi e mi sono affrettata a venirti a supplicare di non fuggire. Il tuo dovere è di restare qui. Se tu morrai per la fede, quale onore sarà per la famiglia!» Se le famiglie cristiane avessero delle madri di questa forza, e di questo spirito, la Chiesa sarebbe sempre glorificata e vittoriosa. La crisi di autorità nelle famiglie e quella di pudore nella società, sono certamente in gran parte dovute alla crisi di vocazioni.

IV. Il Sacerdozio e lo Stato Religioso in confronto alle altre classi della Società.

Se il Maestro Divino non regna più nel focolare, se la sua Legge è compromessa, se vi è del rilasciamento e si constatano delle libertà pericolose nelle relazioni sociali, se lo spirito mondano ha profanato il santuario della famiglia, è forse da meravigliarsi che non vi giunga più la voce della chiamata Divina, che la semenza della verginità e del sacrificio non vi si sviluppi, e che il frutto benedetto e sacro delle vocazioni non vi sì maturi più? Non sì raccoglie il frumento dalla sabbia, né l’uva squisita fra i cespugli di un sentiero battuto. La crisi delle vocazioni è il segno più sicuro della mancanza inquietante delle virtù cristiane e sociali. Dal frutto si giudica l’albero ed il terreno La necessità assoluta di un ambiente molto ricco di virtù, perché vi nasca e vi si sviluppi una vocazione è un argomento indiretto per dimostrar come sia eminente e nobile la vita sacerdotale e religiosa. Gli eletti debbono vivere casti: il loro nido deve essere dunque casto. Essi debbono essere obbedienti ed umili, vale a dire che non si produrranno in un ambiente orgoglioso. Essi debbono vivere di sacrificio; epperò il lusso e la mollezza attesteranno il loro manifestarsi. Si vuole sapere che cosa vale una società ed un paese? La statistica del clero e delle comunità religiose sarà la migliore regola per giudicare. Perché? Perché gli eletti del Signore sono la più bella la più nobile espressione della moralità e dell’idealismo cristiano di una Nazione. Molto meno delle milizie nazionali, molto meglio delle Istituzioni di diritto pubblico, il sacerdozi e la vita religiosa sono di diritto e di fatto una norma vivente per giudicare l’elevatezza intima della coscienza, quella della società e della nazione. Nessun altra istituzione fa della virtù eroica un sistema di vita, mantenuto ed amato fino alla morte. È dunque una vera gloria l’esservi assunto. A coloro che non si peritano di parlare di cose che ignorano e di pubblicare che i sacerdoti ed i religiosi hanno cercato la pace in un ritiro egoista e facile, che sono i fuggiaschi della battaglia, i disertori della vita, noi potremmo dare la risposta che dette un buon monaco, pieno di spirito ad un signore superbo che era andato a visitarlo: « Se la nostra vita è così dolce, così comoda, se noi siamo vigliaccamente barricati, dietro queste mura, ebbene… non faccia penitenza restando nel mondo, venga a provare la nostra vita fatta di sonnolenza e di torpore, così Ella potrà parlare, non con prevenzione, ma da uomo onesto e convinto ». – Abbracciare l’ignominia redentrice della Croce di Gesù Cristo, è diventata un’ignominia sociale. Le classi dirigenti non vollero più prendere la parte che loro spettava di diritto al servizio del Re dei re. Altri tempi, altri costumi! Avviene tristemente per il sacerdozio, quello che avviene per le mode femminili. Una casa famosa per l’audacia ed il credito delle sue mode, disegna alcuni modelli, dichiara che la forma e le linee che costituiscono durante la stagione l’ultima eleganza, ed il pubblico che si dice intelligente e ragionevole, accetta, paga caro, e critica chiunque osi criticarli. « Rivoluzione e liberalismo » è come quella casa di mode, come la società di tutti quegli individui pervenuti alla sommità della scala sociale, in grazia della loro audacia, resa possibile dall’indifferenza degli ambienti cattolici: questa società ha lanciato la sua opinione, e questa opinione fa legge contro di noi. – Ed ecco che anche la gente onesta ci considera ora con disprezzo, e quando ci avvicina è convinta, da parte sua, di farci l’onore di una vera e propria concessione. Eppure la nobiltà, la vera nobiltà è la nostra; ed ogni dignità o tradizione, qualunque essa sia, impallidisce dinanzi alla dignità dell’abito sacerdotale o religioso. Bisognerebbe convincere di nuovo, il fior fiore delle famiglie, di questa grande e bella verità. Così la concepiva una nobile signora, presentata dal suo curato al nuovo Vescovo: « Non dica: « signora Duchessa », signor Curato, dica piuttosto », interruppe ella durante la presentazione, « … la madre del Sacerdote X… Ecco il titolo glorioso di cui sono fiera, e di cui resterò fiera anche in cielo ». Qualche giorno dopo l’elezione di Pio X, domandarono a questi, quale titolo di nobiltà avrebbe accordato alle sue sorelle: « Il titolo di nobiltà, risponde il Sovrano Pontefice, l’hanno già; sono sorelle del Papa. » – I Principi che hanno rinunziato ad alcuni loro privilegi e diritti per diventare sacerdoti, non sono discesi di grado, essi hanno fatto, per una grazia misericordiosa e gratuita, un’ascensione immensa, per cingere la più bella corona, la corona sacerdotale. Tutti i beni ed i poteri a cui rinunziano, non sono nulla, in confronto di un calice pieno del Sangue Divino. – Luisa di Francia, nel lasciare la Corte di suo padre, Luigi XV, per scambiarla con una cella di carmelitana, a San Dionigi, aggiunse al suo blasone un nuovo titolo di nobiltà. Ella sorpassò le sue sorelle e lasciò di gran lunga dietro di sé, il lignaggio reale della famiglia, quando il velo di Regina del Gran Re del cielo e della terra venne a coprirle la testa, non più soltanto circondata di pietre preziose, ma consacrata dal Sangue di Gesù che la chiamava — Oh titolo ineffabile — Sponsa mea! Sposa mia! È proprio questo in complesso che io dicevo con una convinzione al di sopra di ogni eloquenza durante la professione di una giovane Suora, che lasciava la famiglia, una buonissima condizione sociale, un brillante avvenire, una immensa ricchezza: « Ella cambia, sorella mia, l’oasi di un deserto, i suoi pochi fiori, la sua ombra, e la sua scarsa sorgente, con un giardino di gioia immortale. « Ella dona un granellino di sabbia e riceve un fulgido dono; ella si priva d’una goccia, ed un oceano infinito la inonda; rinunzia ad essere la regina di un focolare o di un salotto, per essere regina fra gli Angeli, per divenire la sposa del Creatore. I suoi beni l’avrebbero un giorno, forse, riempita d’amarezza: li avrebbe dovuti ad ogni modo lasciare, mentre che la ricchezza divina che oggi possiede sarà un bene eterno. – Sorella, ecco quello che il linguaggio delle creature chiama « sacrificio » e che nel linguaggio del Vangelo io chiamo « esaltazione e gloria divina ». Che cosa è, infatti, la vera nobiltà, se non una tradizione. d’onore, di dignità morale, di coraggio, di devozione, di alta virtù? Questa nobiltà è legata ad un nome che impone il rispetto. Non è dunque una posizione improvvisata, né una vincita alla lotteria. La nobiltà è una bellezza che tende all’immortalità. Ma qual è la nobiltà più legittima di quella del sacerdote, che è erede della grandezza, della potenza redentrice del Re-Salvatore, ed il cui ministero e la cui vita debbono essere infatti, di valore e di devozione eroica? Che cosa sono le più ricche tradizioni di nobiltà, le più alte cariche sociali, paragonate a questa discendenza del Cristo-Gesù, che è il sacerdozio, di origine divina e antico di venti secoli? E vicino al sacerdote, primo principe tra i principi la religiosa, creazione splendida della Chiesa, di una bellezza che sorpassa, in un certo senso, la beltà angelica, santuario vivente del Signore, la religiosa, dico io, non ha sopra di sé che il sacerdote ed il Cielo. – Nella misura in cui il gran mondo disprezza e disdegna la gloria del sacerdote e della religiosa, la rivoluzione, più logica di quel che si pensi, vendica incoscientemente il Dio così oltraggiato. Perché delle distinzioni e delle caste fra gli uomini, quando essi non accettano i titoli conferiti da Dio stesso? I demagoghi ritorcono contro i signori, il loro stesso linguaggio. Come l’aristocrazia, la borghesia, a sua volta, non ha più confidenza nel Signore e gli lesina i suoi figli. L’esempio delle classi alte trascina il discredito gettato dagli uni, provoca il rispetto negli altri. Il sacerdozio non attira più. Esso appare come una casta in decadenza. E si cerca sempre per i fanciulli, quand’essi hanno talento e carattere, una educazione atta ad elevarli al disopra del comune, un piedestallo che li renderà grandi, e nello stesso tempo onorerà la famiglia intera. Rettifichiamo qui, senza pietà, un termine che implica in sé un’idea falsa. Si dice: la carriera sacerdotale, il sacerdozio non è una carriera propriamente detta, è uno stato unico a parte ed al di sopra di tutte le carriere, anche delle più nobili. E se vi fu un tempo in cui la sua nobiltà fu tanto ambita nella società, da provocare in essa delle ambizioni, le cui conseguenze furono tanto dolorose, oggi ohimè! Essa è caduta: il sacerdozio è discreditato, abbandonato, da tutte le classi sociali. Se uno dei figli di un gran signore ha ricevuto il rifiuto formale da suo padre, alla domanda di farsi prete, perché gli si è fatto osservare « che non deve abbassarsi », perché il figlio del dottore o del notaio dovrebbe andarsi a chiudere in seminario, quando tutto gli sorride nell’avvenire, quando ha la speranza di elevarsi nella società, e di lasciare alla sua famiglia, un nome ch’egli avrà reso illustre? L’onore offerto da Nostro Signore è misconosciuto e disprezzato… che dolore! Si sarebbe fieri di avere un figlio ministro o alto personaggio ai servizi di un re della terra, e si teme di farne un ministro del Re immortale? Una giovinetta molto ricca della borghesia, può aspirare a un nobile parentado e ciò avviene frequentemente, perché i milioni comprano tutto. Ma è raro, molto raro ch’ella non incontri opposizioni, se pretende di diventare « regina » consacrandosi a Dio. Un castello potrebbe diventare la sua dimora; il monastero, il palazzo del Re Crocifisso… è una follia! Ma gli umili, rispondono essi almeno generosamente all’appello divino? Ne sono essi onorati? Ohime! Essi risentono della mentalità anzidetta, per quanto in un grado minore. Essi sanno che i tempi sono duri, che il sacerdote è povero e che per lui la lotta è aspra. Niente li attira adunque verso il seminario od il convento. Bisogna, per conseguenza, che la fede degli umili sia ben radicata, perché il divino mietitore scelga tra di essi alcune belle spighe, che frutteranno mille per uno nel campo della Chiesa. – Ma sembra che il Dio di Betlemme abbia voluto, come compenso, mettere nell’anima del povero e dell’umile una nobiltà di sentimenti ed un istinto del Divino, che noi riscontriamo sempre meno nella classe superiore. Io conosco una povera domestica, già avanzata in età e malaticcia, che dette tutte le sue economie per le spese necessarie all’educazione in un seminario, di un fanciullo più povero di lei: « Io servirò fino alla morte, diceva ella, ma voglio offrire un sacerdote al mio Dio. » – Il barone di … è vittima di un grave accidente di caccia. Per molto tempo ha dimenticato i suoi doveri religiosi: altezzoso e poco amico dei sacerdoti, egli agonizza tuttavia nella povera stanza di una chiesa  di campagna. Il giovane sacerdote ha, egli stesso, deposto il ferito sul proprio letto, ed ha fatto con abilità e delicatezza, i primi medicamenti. Quando la famiglia piangente arriva, il ferito è calmo. Egli riposa tra le braccia dello zelante sacerdote, che lo ha confortato, ed ora lo conforta e lo prepara al supremo distacco. – Dopo la prima esplosione di dolore, la madre e le figlie si provano a ringraziare; la loro riconoscenza è ben grande per quel sacerdote, che il ferito vuole accanto a sé, chiamandolo il suo miglior amico, il suo ammirabile benefattore. Esse chiedono: « il Suo nome Reverendo? » Sentendolo, il barone turbato si solleva ed esclama: « Ma come, Ella sarebbe il figlio di X… il nostro antico portiere?… » « Sì, risponde il giovane sacerdote, timidamente. Ma non parliamo di questo, aggiunge egli, rivolgendosi alle signore, preghiamo piuttosto per il caro malato. Io le ho attese per dargli il Viatico ». La sera stessa il barone rendeva la sua anima a Dio, fra le braccia dell’umile sacerdote, figlio di portiere, di cui ecco la storia. A undici anni, per sua richiesta, i genitori lo misero in Seminario. Il barone, scontento e dimentico dei lunghi anni di servizio e di fedeltà del suo servitore e di sua moglie, che era stata nutrice di due sue figlie, congedò la famiglia, quando apprese questa notizia. Qualche tempo dopo, il buon servitore, minato dal dolore, morì, ma il fanciullo continuò gli studi, e Dio voleva che il giusto pentimento, la misteriosa espiazione, la santa vendetta, la riconciliazione caritatevole fosse fatta nelle sue mani sacerdotali. In quell’ora solenne, in quel quadro illuminato già dalla luce dell’Eternità, chi era realmente il grande, il vero personaggio di dignità morale, e di potere superiore a tutta la potenza terrena? – Vi è anche di peggio della diffidenza delle classi: la mentalità dei giovani educati nella frivolezza, per il piacere. E come la sconfitta d’un esercito è certa, per l’educazione effeminata e per la leggerezza di costumi d’una razza, così lo spirito di sacrificio e di dedizione, la vocazione di rinunzia a sé stessi del sacerdote e della vita religiosa, non possono svilupparsi in una gioventù assetata di comodità e delirante di piacere. – Il principio antimilitarista non è soltanto e principalmente un principio d’orgoglio rivoluzionario: essa è, prima di tutto, un principio di sensualismo eccessivo. Si aborre l’esercito più per egoismo che per umanità. Nel seminario e nel chiostro si forma ugualmente una milizia, più forte, più disciplinata, più rigida nella santa austerità, più virile nella resistenza di carattere, più provata non solo in atti isolati, ma in una vita intera di eroismo. Ora, i giovani vogliono scuotere ogni giogo di disciplina. Tanto si è parlato loro di libertà, di indipendenza, di diritto alla potenza senza limiti, che sembra loro impossibile, anche se cresciuti in famiglia cristiana, d’abbracciare la vita sacerdotale o religiosa. – Nella crisi di vocazione vi è una crisi acuta di carattere, vi è anche una crisi di sensualismo. La mancanza di sobrietà, di freno, di pudore, crea un’atmosfera carica di passione, che la vita sociale, l’abitudine del teatro malsano e degli abiti provocanti rende più densa ed asfissiante. La virtù dei giovani, anche dei migliori, è scossa.

LE VIRTÙ CRISTIANE (3)

LE VIRTÙ CRISTIANE (3)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO

Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C. – Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE Ia

LE VIRTÙ TEOLOGALI E LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE

CAPO II:

LA VIRTÙ DELLA SPERANZA.

Nel capo precedente, parlando della fede, m’accadde di paragonarla al tronco dell’albero della vita, da Dio posto nel mezzo dell’Eden. Ora il primo ramo, che spunta di quel tronco è senza dubbio la speranza; ma non spunta solo. Insieme con questo ramo ne nasce un altro egualmente vigoroso e bello, il quale è la carità. Tutte due coteste virtù vivono della fede siffattamente, che, come il succo vitale d’un albero dal tronco va nei rami, ed è sempre in comunicazione col tronco stesso; così avviene di queste tre virtù. Esse nascono, s’alimentano, vivono e vigoreggiano insieme. Oltre a ciò, a quel modo che il tronco e i rami d’ un albero, col passare degli anni, si elevano sempre più in su verso il cielo; così fede, speranza e carità ci avvicinano di grado in grado al Cielo del Paradiso; dove un dì riposeremo beatificamente nelle grandi e amorose braccia di Dio. Ma, poiché noi fummo creati dal Signore per vivere prima qui in terra, insieme con la vita soprannaturale e religiosa, la vita terrestre e secondo natura; anche il fondamento di queste virtù tanto celestiali lo troviamo nella vita terrena e nella natura umana. Onde, se la fede divina è, come fu detto, una sublimazione della fede umana; il medesimo vale della speranza divina, alla quale ora volgeremo con affettuoso animo il pensiero. Sperare è, secondo natura, attendere con desiderio un bene qualsiasi vero o apparente. Ora, poiché la vita nostra è piena di desiderj non soddisfatti o non pienamente soddisfatti; è dunque certo che noi viviamo in gran parte di speranze. I giovani poi sono in modo particolare speranzosi, perché in essi abbondano i desiderj, e anche perché, come nota san Tommaso, per cagione dell’età, ei vivono poco o punto nel passato, e molto nell’avvenire. Ancora, poiché l’uomo desidera insieme i beni dell’intelletto, del cuore, dell’immaginazione, della memoria, del corpo e anche quelli esteriori dell’universo; è giusto dire che tutti questi beni egualmente noi li speriamo. E li speriamo, o che non li abbiamo, o talvolta anche che li abbiamo. Avendoli, speriamo di non perderli, come può accadere di leggieri. Non avendoli, speriamo di conseguirli. Talvolta poi, massimamente nella primavera della vita, la speranza di alcun bene ci diletta quasi più del possedimento suo; sia perché l’immaginazione e il desiderio ce lo abbelliscono e coloriscono, sia perché nei beni finiti il diletto loro, quasi sempre, scema col possesso. La speranza infine è soprattutto cibo, conforto e pace nostra, quando un qualsiasi dolore ci punga l’anima o il corpo. Allora, per moto naturale dell’animo, speriamo che il nostro soffrire sia passeggero; e cotesto sperare riesce quasi balsamo, che raddolcisce in parte le nostre amarezze, e talvolta ce le fa anche soavi. – Nondimeno la speranza umana è sempre un po’ turbata da una voce mesta di timore, che ci dice all’orecchio: tu speri forse invano. E veramente o la malvagità degli uomini o la mutabilità delle cose o taluni fatti né preveduti né previdibili fanno spesso cadere a vuoto, le più care e solide nostre speranze. D’altra parte il naturale inchinamento dei nostri animi allo sperare quasi sempre attutisce il timore, che vorrebbe annientar le nostre speranze, e prendere il disopra su di esse. Lo sperar sempre e molto è tanto secondo natura, che, anche, quando alcune speranze falliscono, tosto ne pullulano altre, o quelle stesse antiche rinverdiscono. Dalle quali cose segue che la disperazione è innaturale all’uomo, e nasce quasi sempre o da eccesso di orgoglio e di egoismo, o da fiacchezza di animo; spesso poi è più apparente che reale. La infinita vanità del tutto, tanto predicata da un grandissimo e infelice poeta, ove non sia un santo sospiro dell’anima, che si eleva dai beni finiti all’Infinito, è la formola più espressiva o dell’egoismo umano, a cui non basta nulla di nulla (né i beni creati da Dio né Dio stesso), o dell’orgoglio, che si appaga del far credere agli altri che nulla basta alla propria grandezza. – Ora, se noi fedeli Cristiani, mossi dal soffio interiore della grazia, volgiamo le nostre speranze dai beni particolari al Bene sommo, in cui son tutt’i beni, cioè a Dio infinitamente buono e misericordiosissimo, allora in noi vive e splende la virtù teologale della speranza. Il dì, che avemmo da bambini, nel santo lavacro del Battesimo, il dono celestiale della fede; in quel dì medesimo, insieme con essa, ci fu dato il dono della speranza, due tesori, per divino ordinamento dapprima nascosti, nel profondo delle anime nostre bambine e semplicette, sin che le membra del corpicciuolo erano ancora tenerelle e nel loro primo sviluppo: due doni, che poi si manifestarono in noi, con l’uso della ragione, e, se corrispondemmo alla divina grazia, grado grado furono messi a traffico, e ci procurarono nuove ricchezze soprannaturali. – Di questa dolcissima e consolantissima virtù della speranza Dante Alighieri parla lungamente e nobilissimamente nel venticinquesimo del Paradiso; e sarà bene che alcune cose intorno a questa virtù le impariamo da quel grande, che scrisse l’altissimo poema, ed è impareggiabile nell’arte di dire le verità più profonde della fede cristiana con rigore teologico, e con una leggiadria poetica che innamora (anche se per altri versi era un ghibellino eretico e contrario all’autorità papale, ed in diversi punti, uno gnostico “velato”, oltre che partigiano dei “fraticelli” eretici pauperisti, ed un sospetto peccatore contro natura, in fuga da una città all’altra, ma questa è un’altra storia! – ndr. -).. L’Alighieri dunque, stando per fantastica visione in Paradiso, vede san Pietro e san Jacopo, i quali gli si affissano davanti con sì infocato splendore, che a lui è forza di abbassare le pupille. Allora Beatrice, immagine parlante della Sapienza cristiana, si volge con un celeste sorriso a san Jacopo, che essa tiene per Apostolo della speranza, e lo prega che faccia risonare colà il caro nome della speranza; un nome, che non si sente mai in quelle celesti regioni, dove ogni speranza è già soddisfatta. Con questo parlare l’alto intelletto di Beatrice bellamente c’insegna una dottrina cattolica, cioè che né la speranza né la fede, quantunque virtù nobilissime, hanno luogo in Paradiso. Infatti, a che servirebbe più la fede nel regno dell’eterno vero, se Iddio, e i suoi altissimi e impenetrabili misteri in Cielo l’uomo li vede faccia a faccia in Dio stesso, secondo queste parole di sant’Agostino: “Qual cosa mai non vedremo noi, vedendo colui che vede tutte le cose?” A che mai gioverebbe poi la speranza nel superno regno, dove tutt’i beni sperati e sperabili l’uomo li possiede senza timore di perderli, in quel Dio, che contiene ogni bene e infinitamente tutti li vince? In cielo, quando vivremo di Dio, resterà soltanto la carità, come insegnò san Paolo scrivendo: “Tre cose durano nella presente vita, la fede, la speranza e la carità; ma la carità è maggiore di tutte: ed essa non vien meno giammai.” (I Cor. XIII. 13), – Intanto, poiché noi siamo tuttora. qui in terra; il cibo della fede e della speranza ci sono al tutto necessari. Anzi la stessa carità, che in cielo vivrà senza delle altre due sorelle, nella vita presente senza di esse non si può neanche concepire.  – Ritornando dunque a Dante, e agl’insegnamenti, che si riferiscono alla speranza, e ce la fanno cara; san Jacopo, volto a Dante che stava ancora col capo dimesso, gli dice che lo alzi pure in alto, e pensi che, essendo salito dalla terra al cielo, deve adusarsi a sostenere i celesti splendori. E poi, quasi volendo esaminarlo intorno alla virtù della speranza, soggiunge: poiché il Signore vuole confermare in te e negli altri, per mezzo della visione, la verace speranza dei mortali, cioè quella che gli innamora dei beni celesti, parlami dunque tu della speranza; e “Di’ quel che ell’è, e come se ne infiora La mente tua, e di’ onde a te venne.” Queste parole contengono tre domande, e però molte cose in sé utili a sapere e consolatrici. Ma ecco che prima di tutto Beatrice, che stava a lato di Dante, per illuminarlo della sua chiarezza e sapienza, previene la risposta di Dante alla seconda delle tre domande, cioè come la mente dell’Alighieri s’infiori di speranza; e dice non esservi uomo in terra, il quale abbia più virtù di speranza di quella che è in Dante, il quale perciò ha meritato di venire, prima di morte, dalla schiavitù del mondo a questa visione del Paradiso. Alle altre due domande risponde Dante; e, quanto alla prima, cioè ché è la speme, ei risponde, poetizzando la definizione del Maestro delle Sentenze, Pietro Lombardo, e scrivendo “ Speme, diss’io, è un attender certo della gloria futura; il qual produce Grazia divina e precedente merto, (Petr.: Lombardo. Sentent. L.III. distict. 26.). – La speranza dunque, considerata come virtù teologale, mira tutta al sommo Bene che è la gloria futura; il quale bene poiché non si consegue, senza i mezzi Spes est certa exspellatio futura beatitudinis veniens ex Dei gratia et meritis præcedentibus, necessari, abbraccia anche questi, secondo che è detto nei nostri catechismi, ed è insegnato da san Tommaso. Ed ora leggete qui le parole di san Tommaso, così bene adatte a chiarire la definizione di Dante e del Maestro delle Sentenze. “L’oggetto ei dice della speranza, per un rispetto è la beatitudine eterna, e per un altro rispetto è il divino ajuto, onde essa si consegue. L’una e l’altra cosa a noi le propone la fede, per la quale conosciamo che abbiamo possibilità di giungere alla vita eterna, e che a ciò ci è apparecchiato il divino ajuto, secondo le parole di san Paolo agli Ebrei (XI, 6), « Chi a Dio si accosta fa mestieri che creda, che Dio è, e ch’Ei rimunera coloro i quali lo cercano.” – Chiarita questa prima parte, Dante risponde all’altra domanda: onde gli venne la speranza, e afferma che gli venne dai varj santi scrittori della Bibbia, e particolarmente dal Profeta David, e da san Jacopo. Infatti san Jacopo nella sua Epistola canonica ha diversi luoghi, che accennano alla consolatrice virtù della speranza; ma David soprattutto è il Profeta, e vorrei anche dire il poeta delle speranze nobili e sante delle anime cristiane. Il Salterio Davidico è tutto indubbiamente un cantico sublime e celestiale di fede, di speranza e di amore; ma la speranza vi primeggia, e lo illumina: Objectum autem spei est uno modo beatitudo eterna, et alio modo divinum auxilium. Et utrumque eorum proponitur nobis per fidem, per quam nobis innotescit quod ad vitam eternam possumus pervenire, et quod ad hoc paratum est nobis divinum auxilium, secundum illud Hebr. XI, 6. Accedentem ad Deum oportet credere quia est, et inquirentibus se remunerator sit. — Sum. Theol. P. 11. 2° quæst. XVII. art. 7), siffattamente, che l’anima di chi prega, o canta i Salmi, pare che voli sempre al sommo Bene sperato, e in Lui si riposi. Ma ora lasciamo Dante, il quale, dopo di avere ancora parlato della speranza, ode, tra i circoli dei beati danzanti, le soavi parole che i Santi dal Paradiso dicono dei viatori: Sperino in Dio. Sperent in te; e volgiamoci ad altre considerazioni che c’istruiscano, alimentando in noi la dolcissima virtù della speranza. – Come mi venne detto avanti, nel parlare della speranza umana, che spesso la vela un’ombra di timore; così avviene parimenti della speranza divina. Non pertanto il timore in questa non può né deve derivar mai da dubbio, che si abbia intorno alla bontà divina, promettitrice del sommo Bene e dei mezzi per conseguirlo, ma solo dalla nostra fragilità. La quale tanto è grande, che può di leggieri allontanarci dal sommo Bene, tarpando così le ali della nostra speranza. Se non che è da por mente che nella speranza cristiana la fiducia di molto deve sopravvanzare il timore; il quale solo è salutare in quella parte, che deriva da umiltà. Onde esso timore, che è quasi uno col timore di Dio, non intiepidisce la speranza nostra, ma la fa santa e modesta. Noi dunque a buon dritto, quanto più siamo ferventi e pii, tanto più speriamo di gran cuore. Perciocchè, essendo ferventi e pii, sappiamo e comprendiamo meglio che dove abbondano la miseria e la fragilità umana, ivi sovrabbonda la grazia e la carità divina. Così avviene che l’uomo, per quanto sia o si reputi miserabile e peccatore, trova sempre un rifugio sicuro, abbandonandosi fiduciosamente nelle grandi braccia della divina misericordia, e facendo suoi, gl’infiniti meriti di Gesù Cristo. A ragione dunque nella santa Scrittura è condannata ogni titubanza e pusillanimità nostra nello sperare; onde san Jacopo, maestro della virtù della speranza, parlando dell’orazione cui il Cristiano volge a Dio, ha queste consolanti parole: “Chieda egli con fede, senza esitare; perciocché chi esita è simile al flutto del mare eccitato dal vento.” (Jac. I. 6. e 7) – Ben io so che sono assai poche le anime cristiane, che non abbiano talvolta sentito dentro di sé queste fluttuazioni interiori, per le quali esse si volgono ora in una e ora in un’altra parte contraria; ora guardano Dio, e si fanno cuore e sperano; ora guardano a sé stesse, e diventano pusillanimi e titubanti. È questa una delle molte battaglie, che l’anima combatte in sé medesima, e che le servono di prova. Ma la virtù della speranza, la quale Iddio, come aura soave e olezzante, spira di continuo nelle anime ferventi, o vince al tutto questa fluttuazione, o ne lascia soltanto quella piccola parte, che riesce in alimento della nostra umiltà, e ci avvezza a poco a poco a sperare sempre più, astraendoci da noi stessi e dalle nostre opere, e profondamente confidando in quell’abisso di misericordia, di carità e di grazia, che è l’Iddio nostro. – L’Apostolo san Paolo nella sua Lettera agli Ebrei insegna che noi abbiamo una consolazione fortissima nella speranza, la quale teniamo come àncora sicura e stabile dell’anima. (Hebr. VI. 18, 19). E la speranza è sì veramente un’àncora, che rende l’anima nostra serenamente fissa e immobile, tra i venti e le ondate violenti della vita mortale. Certo, i flutti e i marosi delle passioni umane tentano di agitarci o di sommergerci, come talvolta si agita nel mare o si sommerge la nave lasciata a sé stessa; ma ecco che la dolce speranza della vita futura, penetrando addentro nel fondo del mare dell’anima nostra, la tiene, quasi àncora, ferma e stabile, e la fa galleggiare sicura tra le tempeste del mondo. Però, secondo che nota l’Angelico san Tommaso, tra l’àncora delle navi, e l’àncora della speranza cristiana v’ha questa differenza, che l’àncora della nave si conficca in basso (cioè nel profondo del mare) e l’àncora della speranza nostra si fissa in luogo altissimo cioè in Dio. E ciò ben a ragione; perocché nella presente vita non vi ha cosa che sia stabile, e nella quale l’anima possa fermarsi e riposarsi sicuramente (In exposit ejusdem cap. VI, ad Hebr. Lect. 6). Così l’Angelico. Ma, riflettendo nel testo di san Paolo, si potrebbe forse anche pensare che quel mare, il quale per le sue fluttuazioni e le sue tempeste raffigura così bene la nostra vita presente, esso stesso per la immensità, per la profondità, per i tesori che nasconde, e per la bellezza e sublimità sua, effigii pure il Signore Iddio, nel quale l’àncora della nostra speranza sta ferma assai più fortemente, che l’àncora più solida e perfetta di una nave non si attacchi nelle profondità misteriose del mare.

LE VIRTÙ CRISTIANE (4)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XV – “SPIRITUS PARACLITUS” (2)

Continua a snodarsi tra citazioni bibliche e brani di scritti di S. Girolamo, il corso luminosissimo di questa splendida Lettera Enciclica di S. S. Benedetto XV che svolge un panegirico completo dell’opera del santo Padre e Dottore della Chiesa d’Occidente. Si sottolinea, tra le altre numerose esortazioni, l’importanza assoluta della conoscenza minuziosa della sacra Scrittura e della sua interpretazione corretta ed approvata da Santa Madre Chiesa Cattolica, nella predicazione dei sacerdoti, nella crescita della fede in Cristo in chierici e nei fedeli, e nella confutazione precisa e senza errori, delle eresie di tanti personaggi abili mestatori o sofisti, filosofi elaboranti idee o princìpi ben costruiti da un punto di vista formale, ma vuoti di solida dottrina cristiana e spacciati per tali. Ecco perché, ne possiamo essere certi,  è stata l’ignoranza più o meno manifesta ed ampia delle sacre Scritture, a far trionfare i modernisti del falso concilio riformatore roncallo-montiniano, e di tutte le scempiaggini dell’ultramodernismo postconciliare, così affine alle balordaggini dei protestanti e dei neognostici filosofastri liberal naturalisti infiltrati nella Chiesa Cattolica, a perdizione eterna di tanti sedicenti fedeli, volutamente ignoranti o contestanti la sublimità delle Scritture. Possa questa Enciclica dedicata a S. Girolamo, ridestare oggi l’amore alle sacre Scritture, il cui unico oggetto finale è Cristo, la nostra vita in Lui, ed il cammino di perfezione che deve guidarci alla eterna beatitudine.

Benedetto XV
Spiritus Paraclitus

Lettera Enciclica (2)

Venerabili Fratelli, se fu mai necessario che tutto il clero e tutti i fedeli s’imbevessero dello spirito del grande Dottore, questo è soprattutto nella nostra epoca, quando numerosi spiriti insorgono con orgogliosa testardaggine contro l’autorità sovrana della rivelazione divina e del Magistero della Chiesa. Voi sapete infatti che Leone XIII già ci aveva ammonito “quali uomini si accaniscano in questa lotta e a quali artifici o a quali armi essi ricorrano“. Quale categorico dovere si impone dunque a voi, di suscitare per questa sacra causa i difensori più numerosi e più competenti che possibile: essi dovranno combattere non solo coloro che, negando ogni ordine soprannaturale, non riconoscono né la rivelazione né l’ispirazione divina, ma anche dovranno misurarsi con coloro che assetati di novità profane, osano interpretare le Lettere Sacre come un libro puramente umano, e rifiutano le opinioni accolte dalla Chiesa fin dalla più vetusta antichità, o spingono il loro disprezzo verso il Suo Magistero fino al punto di disdegnare, di passar sotto silenzio o persino di cambiare secondo il proprio interesse, alterandole sia subdolamente, sia con sfrontatezza, le Costituzioni della Santa Sede e i decreti della Commissione Pontificale per gli studi biblici. Sia possibile almeno a Noi vedere tutti i Cattolici seguire l’aurea regola del Santo Dottore, e docili agli ordini della loro Madre, avere la modestia di non oltrepassare i limiti tradizionali fissati dai Padri e approvati dalla Chiesa! – Ma ritorniamo al nostro soggetto. Armati gli spiriti di pietà e d’umiltà, Gerolamo li invita allo studio della Bibbia. E dapprima raccomanda instancabilmente a tutti la lettura quotidiana della parola divina: “Liberiamo il nostro corpo dal peccato e l’anima nostra si aprirà alla saggezza; coltiviamo la nostra intelligenza con la lettura dei Libri Santi, e la nostra anima vi trovi ogni giorno il suo nutrimento” (Tit. III, 9). Nel suo commento dell’Epistola agli Efesini, scrive: “Noi dobbiamo dunque con tutto l’ardore leggere le Scritture, e meditare giorno e notte la legge del Signore: potremo cosi, come abili cambiavalute, distinguere le monete buone da quelle false” (Eph. IV, 31). Egli non esclude da questo obbligo comune le matrone e le vergini. Alla matrona romana Leta dà, fra gli altri, questi consigli sull’educazione della figlia: “Assicurati che essa studi ogni giorno qualche passo della Scrittura… Che invece dei gioielli e delle sete essa ami i Libri Divini… Ella dovrà dapprima imparare il Salterio, distrarsi con questi canti e attingere una regola di vita dai proverbi di Salomone. L’Ecclesiaste le insegnerà a calpestare, sotto i piedi, i beni di questo mondo; Giobbe le darà un modello di forza e pazienza. Passerà poi ai Vangeli che dovrà avere sempre tra le mani. Dovrà assimilare avidamente gli Atti degli Apostoli e le Epistole. Dopo aver arricchito di questi tesori il mistico scrigno della sua anima, imparerà a memoria i Profeti, l’Eptateuco, i libri dei Re e dei Paralipomeni, per finire senza pericolo col Cantico dei Cantici” (Ep. CVII, IX, 12). – Le stesse direttive San Gerolamo traccia alla vergine Eustochio: “Sii molto assidua alla lettura e allo studio, quanto più ti è possibile. Che il sonno ti colga con il libro in mano e che la pagina sacra riceva il tuo capo caduto per la fatica” (Ep. XXII, XVII, 2; cfr. Ibid. XXIX, 2). – Ed aggiungeva ancora: “Rileverò un particolare che sembrerà forse incredibile ai suoi emuli: ella volle imparare l’ebraico, che io stesso in parte studiai fin dalla mia giovinezza al prezzo di molte fatiche e di molti sudori, e che continuo ad approfondire con incessante lavoro per non dimenticarlo; essa arrivò ad avere una tale padronanza di questa lingua, da cantare i salmi in ebraico e da parlarlo senza il minimo accento latino. E questo si ripete ancora oggi nella sua santa figlia Eustochio” (EpCVIII, 26). Né tralascia di ricordare Santa Marcella, ugualmente molto versata nella scienza delle Scritture (Ep. CXXVII, 7). – Chi non vede quali vantaggi e quali godimenti riserva agli spiriti ben disposti la pia lettura dei Libri Santi? Chiunque prenda contatto con la Bibbia con sentimenti di pietà, di salda fede, di umiltà, e col desiderio di perfezionarsi, vi troverà e vi potrà gustare il pane sceso dal Cielo e in lui si verificherà la parola di Davide: “Mi hai rivelato i segreti e i misteri della tua saggezza” (Psal. L, 8); su questa tavola della parola divina si trova infatti veramente “la dottrina santa; essa insegna la vera fede, solleva il velo (del Santuario), e conduce con fermezza fino al Sancta Sanctorum” (Imit. Chr. IV, XI, 4). – Per quanto sta in Noi, Venerabili Fratelli, non cesseremo mai, sull’esempio di San Gerolamo, di esortare tutti i Cristiani a leggere quotidianamente e intensamente soprattutto i Santissimi Vangeli di Nostro Signore, ed inoltre gli Atti degli Apostoli e le Epistole, in modo da assimilarli completamente. Pertanto, nell’occasione di questo centenario, si presenta al Nostro pensiero il piacevole ricordo della Società detta di San Gerolamo, ricordo tanto più caro in quanto abbiamo preso parte Noi stessi agli inizi e all’organizzazione definitiva di quest’opera; felici di aver potuto constatare i suoi passati sviluppi, con animo lieto altri ancora Ce ne auguriamo per l’avvenire. – Voi conoscete, Venerabili Fratelli, lo scopo di questa Società: estendere la diffusione dei Quattro Vangeli e degli Atti degli Apostoli, in modo che questi libri trovino finalmente il loro posto in ogni famiglia cristiana e che ognuno prenda l’abitudine di leggerli e meditarli ogni giorno. Noi desideriamo vivamente vedere che quest’opera, che tanto amiamo per averne constatata l’utilità, si propaghi e si sviluppi dovunque, con la fondazione, in ognuna delle vostre diocesi, di Società aventi lo stesso nome e lo stesso scopo, tutte collegate con la casa madre di Roma. – Nello stesso ordine di idee i più preziosi servigi sono resi alla causa cattolica da coloro che in diversi paesi hanno offerto, ed offrono ancora, tutto il loro zelo, per pubblicare, in formato comodo e attraente, e per diffondere tutti i libri del Nuovo Testamento e una scelta dei libri dell’Antico. È certo che questo apostolato è stato singolarmente fecondo per la Chiesa di Dio, poiché, grazie a quest’opera, un gran numero di anime si avvicinano ormai a questa tavola della dottrina Celeste, che il Nostro Signore ha preparato all’universo cristiano per mezzo dei suoi Profeti, dei suoi Apostoli e dei suoi Dottori (Imit. Chr. IV, XI, 4). Invero questo dovere di studiare il Testo Sacro, Gerolamo lo inculca a tutti i fedeli, ma lo impone in modo particolare a coloro che “hanno piegato il collo al giogo di Cristo” ed hanno la Celeste vocazione di predicare la parola di Dio. – Ecco l’esortazione che, nella persona del monaco Rustico, Gerolamo volge a tutto il clero: “Fino a che sei nella tua patria, fa’ della tua celletta un paradiso, cogli i diversi frutti delle Scritture, godi delle delizie di questi Libri e della loro intimità… Abbi sempre la Bibbia in mano e sotto gli occhi, impara parola per parola il Salterio, e fa’ in modo che la tua preghiera sia incessante e il tuo cuore costantemente vigile e chiuso ai pensieri vani” (EpCXXV, VII, 3; XI, 1). – Al prete Nepoziano dà questo consiglio: “Leggi con molta frequenza le Divine Scritture ed anzi che il Libro Santo non sia mai deposto dalle tue mani. Impara qui quello che tu devi insegnare. Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la santa dottrina e confutare coloro che la contraddicono” (EpLII, VII, 1). – Dopo aver ricordato a San Paolino i precetti impartiti da San Paolo ai suoi discepoli Timoteo e Tito, riguardanti la scienza delle Scritture, San Gerolamo aggiunge: “La santità senza la scienza non giova che a se stessa; e quanto essa edifica la Chiesa di Cristo per mezzo di una vita virtuosa, tanto le nuoce se non respinge gli attacchi dei suoi nemici. Il profeta Malachia, o piuttosto il Signore stesso per la bocca sua, diceva: “Consulta i sacerdoti sulla legge”. Data da allora il dovere che ha un sacerdote di dare ragguagli sulla legge a coloro che l’interrogano. Leggiamo inoltre nel Deuteronomio: “Domanda a tuo padre, ed egli te lo indicherà, ai tuoi sacerdoti, ed essi te lo diranno”. Daniele, alla fine della sua santissima visione, dice che i giusti brillano come stelle, e gli intelligenti cioè i sapienti – come il firmamento. Vedi tu quale distanza separa la santità senza scienza dalla scienza rivestita di santità? La prima ci rende simili alle stelle, la seconda simili allo stesso Cielo” (Ep. LIII, 3 e segg.). In altra circostanza, in una lettera a Marcella, egli motteggia ironicamente “la virtù senza scienza” di altri chierici: “Questa ignoranza tiene luogo per loro di santità, ed essi si dichiarano discepoli dei pescatori, come se quelli facessero consistere la loro santità nel non saper niente” (Ep. XXVII, 1, 1). Ma questi ignoranti non sono i soli – rilevava San Gerolamo – a commettere l’errore di non conoscere le Scritture; questo è anche il caso di alcuni chierici istruiti; ed egli impiega i termini più severi per raccomandare ai preti la pratica assidua dei Libri Santi. – Venerabili Fratelli, dovete cercare con tutto il vostro zelo di imprimere questi insegnamenti del santissimo esegeta, il più profondamente possibile, nello spirito del vostro clero e dei vostri fedeli; uno dei vostri primi doveri è infatti quello di riportare, con somma diligenza, la loro attenzione su ciò che la missione divina loro affidatagli richiede, se essi non vogliono mostrarsene indegni: “Poiché le labbra del sacerdote saranno i custodi della scienza, e dalla sua bocca si richiederà l’insegnamento, perché egli è l’Angelo del Signore degli eserciti” (Mal. II, 7). Essi sappiano dunque che non devono né trascurare lo studio delle Scritture, né dedicarvisi con uno spirito diverso da quello che Leone XIII ha espressamente imposto nella sua Lettera Enciclica Providentissimus Deus. – Otterranno sicuramente risultati migliori se frequenteranno l’Istituto Biblico che il Nostro immediato Predecessore, realizzando il desiderio di Leone XIII, ha fondato per il più grande bene della Chiesa, come chiaramente dimostra l’esperienza degli ultimi dieci anni. La maggior parte non ne ha la possibilità: quindi è desiderabile, Venerabili Fratelli, che per vostra iniziativa e sotto i vostri auspici, i membri scelti dell’uno e dell’altro clero di tutto il mondo vengano a Roma, per dedicarsi agli studi biblici nel Nostro Istituto. Gli studenti che risponderanno a questo appello avranno molti motivi per seguire le lezioni di quest’Istituto. Gli uni – e questo è lo scopo principale dell’Istituto – approfondiranno le scienze bibliche “per essere a loro volta in grado di insegnarle, privatamente o in pubblico, con la penna o con la parola, e per sostenerne l’onore sia come professori, nelle scuole cattoliche, sia come scrittori, esponenti della verità cattolica” (Pio X, Lett. Ap. Vinea electa, 7 maggio 1909); gli altri poi, già iniziati al santo mistero, potranno accrescere le cognizioni acquisite durante i loro studi teologici, sulla Santa Scrittura, sulle autorità esegetiche, sulle cronologie e sulle topografie bibliche; questo perfezionamento avrà soprattutto il vantaggio di fare di loro ministri perfetti della parola divina e di prepararli ad ogni forma di bene (II Tim. III, 17). – Venerabili Fratelli, l’esempio e le autorevoli dichiarazioni di San Gerolamo ci hanno indicato le virtù necessarie per leggere e studiare la Bibbia. Ora ascoltiamolo indicarci ove deve tendere la conoscenza delle Lettere Sacre e quale deve esserne lo scopo. Ciò che bisogna innanzi tutto cercare nella Scrittura è il nutrimento che alimenti la nostra vita spirituale e la faccia procedere sulla via della perfezione: è con questo scopo che San Gerolamo s’abituò a meditare giorno e notte la legge del Signore e a nutrirsi, nelle Sacre Scritture, del pane disceso dal Cielo e della manna Celeste, che raduna in sé tutte le delizie (Tract. de Ps. CXLVII). – In qual modo la nostra anima potrà fare a meno di questo cibo? E come il sacerdote potrà indicare agli altri la via della salvezza, se trascura egli stesso di istruirsi attraverso la meditazione della Scrittura? E con quale diritto confiderà nel suo sacro ministero “d’essere la guida dei ciechi, la luce di coloro che sono nelle tenebre, il dottore degli ignoranti, il maestro dei fanciulli, colui che ha, nella legge, la regola della scienza e della verità” (Rom. II, 19 e segg.), se rifiuterà di scrutare questa scienza della legge e chiuderà la sua anima alla luce che viene dall’alto? Ahimè! Quanti sono i ministri consacrati, che, per aver trascurato la lettura della Bibbia, muoiono essi stessi di fame e lasciano morire un così gran numero di altre anime, secondo quanto sta scritto: “I piccoli domandano pane, e non v’è nessuno che lo doni loro“(Thren. IV, 4). “Tutta la terra è desolata perché non v’è nessuno che mediti in cuor suo” (Ger. XII, 11). – In secondo luogo è necessario ricercare, come il bisogno richiede, nelle Scritture gli argomenti per rischiarare, rafforzare e difendere i dogmi della fede. Questo meravigliosamente ha fatto San Gerolamo combattendo contro gli eretici del suo tempo; quando voleva confonderli, quali armi ben pungenti e solide egli abbia trovato nei testi delle Scritture, lo dimostrano chiaramente tutte le sue opere! Se gli esegeti d’oggi imitassero il suo esempio, ne risulterebbe senza alcun dubbio questo vantaggio: “risultato necessario e infinitamente desiderabile – diceva il Nostro Predecessore nella sua Enciclica Providentissimus Deus – che l’uso della Sacra Scrittura influirà su tutta la scienza teologica e ne sarà, in un certo senso, l’anima“. – Infine la Scrittura servirà in modo speciale a santificare e fecondare il ministero della parola divina. A questo punto Ci è particolarmente grato poter confermare, con la testimonianza del grande Dottore, le direttive che Noi stessi abbiamo tracciato sulla predicazione sacra nella Nostra Lettera Enciclica Humani generis. Invero, se l’illustre commentatore consiglia così vivamente e con tanta frequenza ai sacerdoti l’assidua lettura dei Libri Santi, è soprattutto perché essi adempiano degnamente il loro ministero d’insegnamento e di predicazione. La loro parola, infatti, perderebbe ogni influenza e ogni autorità, come anche ogni efficacia per la formazione delle anime, se non si ispirasse alla Sacra Scrittura e non vi attingesse forza e vigore. “La lettura dei Libri Santi sarà come il condimento alla parola del sacerdote” (EpLII, VIII, 1). Infatti “ogni parola della Santa Scrittura è come una tromba che fa risuonare agli orecchi dei credenti la sua grande voce minacciosa” (Amos III, 3 e segg.); e “nulla suscita tanta impressione come un esempio tratto dalla Sacra Scrittura” (Zach. IX, 15 e segg.). – In quanto agli insegnamenti del santo Dottore sulle regole da osservarsi nell’uso della Bibbia, sebbene rivolti principalmente agli esegeti, tuttavia non devono essere persi di vista dai sacerdoti nella predicazione della parola divina. – Dapprima ci insegna che noi dobbiamo, con un esame molto attento delle parole stesse della Scrittura, assicurarci, senza alcuna possibilità di dubbio, di ciò che l’autore sacro ha scritto. Nessuno infatti ignora che San Gerolamo era solito ricorrere, in caso di bisogno, al testo originale, confrontare tra loro le differenti interpretazioni, valutare la portata delle lezioni e, se scopriva un errore, ricercarne la causa, in modo da scartare dal testo ogni incertezza. Allora, insegna il nostro Dottore, “è necessario ricercare il senso e il concetto che si nascondono sotto le parole, poiché per discutere sulla Sacra Scrittura ha maggior importanza il significato che la parola” (EpXXIX, 1, 3). – In questa ricerca di penetrare il significato, Noi lo riconosciamo senza alcuna difficoltà, San Gerolamo, seguendo l’esempio dei Dottori latini e di alcuni Dottori greci del periodo anteriore, ha forse concesso alle interpretazioni allegoriche più di quanto fosse esatto concedere. Ma il suo amore per i Libri Santi, il suo sforzo costante per identificarli e comprenderli a fondo, gli permisero di fare ogni giorno un nuovo progresso nel giusto apprezzamento del senso letterale e di formulare su questo punto validi principi. Noi li riassumeremo brevemente, poiché essi costituiscono ancora oggi la via sicura che tutti devono seguire per trarre dai Libri Santi il vero significato. È dunque necessario volgere il nostro animo alla ricerca del senso letterale o storico: “Io do sempre ai lettori prudenti il consiglio di non accettare interpretazioni superstiziose, che isolano brani del testo secondo il capriccio della fantasia, ma di ben esaminare ciò che succede, ciò che accompagna e ciò che segue il punto in questione, sì da stabilire un collegamento fra tutti i brani” (Matth. XXV, 13). – Tutti gli altri metodi per interpretare le Scritture – egli aggiunge – si basano sul senso letterale (Cfr. Ez. XXXVIII, 1 e segg.; XLI, 23 e segg.; XLII, 13 e segg.; Marc. I, 13-31; Ep. CXXIX, VI, 1 ecc.), e non v’è ragione di credere, che questo manchi quando s’incontra una espressione figurata, poiché “spesso la storia è intessuta di metafore ed usa uno stile ricco di immagini” (Hab. III, 14 e segg.). Alcuni pretendono sostenere che il nostro Dottore ha dichiarato che non si rileva in certi passi delle Scritture un senso storico; egli stesso ribatte loro: “Senza negare il senso storico, noi adottiamo di preferenza quello spirituale” (Marc. IX, 1-7; cfr. Ez. XL, 24-27). – Stabilito con certezza il senso letterale o storico, San Gerolamo ricerca i sensi meno ovvi e più profondi, per nutrire il proprio spirito d’un alimento più eletto. Egli insegna infatti a proposito dei libri dei Proverbi, e consiglia più volte riguardo ad altri libri della Scrittura, di non fermarsi al puro senso letterale, “ma di penetrare più a fondo per scorgervi il senso divino, così come si cerca l’oro nel seno della terra, il nocciolo sotto la scorza, il frutto che si nasconde sotto il riccio della castagna” (Eccl. XII, 9 e segg). Perciò, egli diceva indicando a San Paolino “la via da seguire nello studio delle Sacre Scritture“, “tutto ciò che leggiamo nei libri divini splende invero nella sua scorza fulgida e brillante, ma è ancor più dolce nel midollo. Chi vuol gustare il frutto, rompa il guscio” (Ep. LVIII, IX, 1). – San Gerolamo fa inoltre osservare la necessità di usare, nella ricerca del senso nascosto, una certa discrezione, “affinché il desiderio della ricchezza del senso spirituale non sembri farci disprezzare la povertà del senso storico” (Eccl. II, 24 e segg.). – Pertanto egli rimprovera a molte interpretazioni mistiche di antichi scrittori di aver completamente trascurato di appoggiarsi al senso letterale: “Non bisogna ridurre tutte le promesse che i libri dei santi profeti hanno cantato, nel loro senso letterale, a non essere altro che forme vuote e termini estrinseci di una semplice figura di retorica; esse devono, al contrario, posare su un terreno ben fermo, che è quello di stabilirle su basi storiche, perché possano poi elevarsi alla cima più eccelsa del significato mistico” (Amos IX, 6). – Osserva saggiamente, a questo proposito, che non dobbiamo allontanarci dal metodo di Cristo e degli Apostoli, i quali, sebbene l’Antico Testamento non sia ai loro occhi che la preparazione e quasi l’ombra del Nuovo Trattato e, per conseguenza, essi interpretino secondo il senso figurato un gran numero di passi, tuttavia non riducono ad immagini tutto il complesso del testo. A sostegno di questa tesi, spesso San Gerolamo riporta l’esempio dell’Apostolo San Paolo, che, per citare un caso, “descrivendo le figure spirituali di Adamo ed Eva, non negava che esse erano state create, ma, improntando l’interpretazione mistica sulla base storica, scriveva: – Per questo l’uomo abbandonerà… ” (Is. VI, 1-7). – I commentatori delle Sacre Scritture e i predicatori della parola di Dio, seguendo l’esempio di Cristo e degli Apostoli e le direttive tracciate da Leone XIII, “non devono trascurare le trasposizioni allegoriche od altre dello stesso genere fatte dagli stessi Padri di alcuni passi, soprattutto se esse si allontanano dal senso letterale e sono sostenute dall’autorità di un Padre di gran nome“; infine, prendendo per base il senso letterale, devono giungere, con misura e discrezione, ad interpretazioni più elevate; essi coglieranno con San Gerolamo la verità profonda del detto dell’Apostolo: “Tutta la Scrittura è ispirata dallo Spirito di Dio ed è utile per insegnare, per persuadere, per correggere, per formare (le menti) alla giustizia“(II Tim. III, 16), e il tesoro inesauribile delle Scritture fornirà loro un grande appoggio di fatti e di idee atti ad orientare, con forza di persuasione, verso la santità la vita e i costumi dei fedeli. – Quanto a ciò che si riferisce all’esposizione e all’espressione, poiché quello che si richiede nei divulgatori dei misteri di Dio è la versione fedele del testo originale, San Gerolamo sostiene principalmente che è necessario attenersi innanzi tutto “all’esatta interpretazione” e che “il dovere del commentatore non è quello di esporre idee personali, bensì quelle dell’autore che viene commentato” (Ep. XLIX, al. 48, 17, 7); d’altra parte, egli aggiunge, “l’oratore sacro è esposto al grave pericolo un giorno o l’altro, per via di un’interpretazione errata, di fare del Vangelo di Cristo il Vangelo dell’uomo” (GalI, 11 e segg.). – In secondo luogo “nella spiegazione delle Sante Scritture non è da ricercare lo stile ornato e fiorito di retorica, ma il valore scientifico e la semplicità della verità” (Amos, Prefaz. in l. III). – Uniformatosi a questa regola nella compilazione delle sue opere, San Gerolamo dichiara, nei Commentari, che il suo scopo non era quello di “ottenere un plauso” alle sue parole, ma “di far comprendere in esse il vero senso delle parole degli altri” (Gal., Pref. in l. III); l’esposizione della parola divina, egli dice, richiede uno stile che “non sappia di elucubrazioni, ma che riveli l’idea oggettiva, che ne tratti minutamente il significato, che chiarifichi i punti oscuri e che non si impigli in effetti fioriti di linguaggio” (Ep. XXXVI, XIV, 2; cfr. Ep. CXL, 1, 2). – Sarebbe bene riportare a questo punto alcuni passi di San Gerolamo, che chiaramente dimostrano come egli avesse orrore dell’eloquenza propria dei rètori, i quali nell’enfasi della declamazione e nell’eloquio vertiginoso delle parole vuote non hanno di mira che i vani applausi. “Non diventare – consiglia al prete Nepoziano – un declamatore e un inesauribile mulino di parole; ma procura di familiarizzarti col senso nascosto e penetra a fondo i misteri del tuo Dio. Ampliare la forma espressiva e farsi valere per l’agilità dello stile agli occhi del volgo ignorante, è proprio degli stolti” (EpLII, VIII, 1). “Tutti gli spiriti dotti al giorno d’oggi non si preoccupano di assimilare il nocciolo delle Scritture, ma di lusingare gli orecchi della folla coi fiori di retorica” (Dial. e Lucif. II). “Non voglio parlare di coloro che, come io stesso un tempo, se giungono a contatto con le Sacre Scritture dopo aver praticato la letteratura profana e ricreato l’orecchio della folla con lo stile fiorito, ritengono che ogni loro parola sia la legge di Dio e non si degnano di vedere quello che hanno inteso dire i Profeti e gli Apostoli, ma adattano al loro punto di vista testimonianze che non vi si riferiscono affatto; come se fosse eloquenza di grande valore, e non invece la peggiore che esista, quella di falsificare i testi e di allontanare abusivamente la Scrittura dal suo tracciato” (Ep. LIII, VII, 2). “Poiché senza l’autorità delle Scritture questi chiacchieroni perderebbero ogni forza persuasiva, e non sembrerebbe più che essi rafforzino coi testi sacri la falsità delle loro dottrine” (Tit1, 10 e segg.). Ora questa chiacchiera eloquente e questa eloquente ignoranza “non hanno nulla di incisivo, di vivo, di vitale, ma non sono che un tutto fiacco, sterile ed inconsistente che produce solo umili piante ed erbe ben presto avvizzite e giacenti al suolo“;al contrario, la dottrina del Vangelo, fatta di semplicità, “produce qualcosa di meglio di umili pianticelle” e, come il piccolissimo grano di senape, “si trasforma in albero, sì che gli uccelli del cielo… vengono a posarsi tra i suoi rami” (Matth. XIII, 32). – Perciò San Gerolamo ricercava ovunque questa santa semplicità di linguaggio, che non esclude per altro uno splendore e una bellezza tutt’affatto naturali: “Che gli altri siano pure eloquenti e ricevano il plauso tanto desiderato e declamino con voce enfatica e fiumi di parole; quanto a me, mi accontento di farmi capire e, trattando le Scritture, di imitare la loro stessa semplicità” (Ep. XXXVI, XIV, 2). Pertanto “l’esegesi cattolica, senza rinunciare al pregio di un bello, stile, deve occultarlo ed evitarlo per rivolgersi non a vane scuole di filosofi e a pochi discepoli, ma a tutto il genere umano” (Ep. XLVIII, al. 49, 4, 3). Se i giovani sacerdoti metteranno veramente a profitto questi consigli e queste norme, se i preti più anziani non li perderanno mai di vista, Noi siamo sicuri che il loro santo ministero sarà di gran lunga giovevole alle anime dei fedeli. – Ci rimane, Venerabili Fratelli, da commemorare dolci frutti” che San Gerolamo ha colto “dall’amaro seme delle Sacre Lettere“, nella speranza che il suo esempio infiammerà lo spirito dei sacerdoti e dei fedeli affidati alle vostre cure, suscitando in loro il desiderio di conoscere e di partecipare anch’essi alla salutare virtù del Testo Sacro. – Ma tutte queste soavi delizie spirituali che pervadono l’animo del pio anacoreta, preferiamo che voi le apprendiate per così dire dalla sua stessa bocca, piuttosto che da Noi. Ascoltate dunque in quali termini egli parla di questa scienza sacra a Paolino, suo “confratello, compagno ed amico“: “Io ti chiedo, fratello carissimo: vivere in mezzo a questi misteri, meditarli, null’altro conoscere e null’altro sapere, non ti sembra che tutto ciò sia già il paradiso in terra?” (EpLIII, X, 1). “Dimmi un po’, domanda San Gerolamo alla sua allieva Paola, che vi è di più santo di questo mistero? Che cosa di più attraente di questo piacere? Quale alimento, quale miele più dolce di quello di conoscere i disegni di Dio, d’essere ammesso nel suo santuario, di penetrare il pensiero del Creatore e le parole del tuo Signore, che i dotti di questo mondo deridono e che sono piene di sapienza spirituale? Lasciamo che gli altri godano delle loro ricchezze, bevano in una coppa ornata di pietre preziose, indossino sete splendenti, si cibino dei plausi della folla, senza che la varietà dei piaceri riesca ad esaurire i loro tesori: le nostre delizie invece consisteranno nel meditare giorno e notte sulla legge del Signore, nel bussare a una porta in attesa che s’apra, nel ricevere la mistica elemosina del pane della Trinità, nel camminare, guidati dal Signore, sui flutti della vita” (Ep. XXX, 13). Ed ancora a Paola ed a sua figlia Eustochio, San Gerolamo scrive nel suo commentario sull’Epistola agli Efesi: “Se qualcosa vi è, Paola ed Eustochio, che trattiene quaggiù nella saggezza e che in mezzo alle tribolazioni e ai turbini di questo mondo mantiene l’equilibrio dell’anima, io credo che questo sia innanzi tutto la meditazione e la scienza delle Scritture” (EphProl.). Ed è ricorrendo ad esse, che egli, afflitto nell’intimo da profondi dolori e colpito nel corpo dalla malattia, poteva godere ancora della consolazione della pace e della gioia del cuore: questa gioia egli non si limitava a gustarla in una vana oziosità, ma il frutto della carità si trasformava in carità attiva al servizio della Chiesa di Dio, cui il Signore ha affidato la custodia della parola divina. In realtà ogni pagina delle Sante Lettere dei due Testamenti era per lui la glorificazione della Chiesa di Dio. Quasi tutte le donne celebri e virtuose, cui nell’Antico Testamento è tributato onore, non sono forse l’immagine di questa Sposa mistica di Cristo? Il sacerdozio e i sacrifici, i riti e le solennità, quasi tutti i fatti riportati nell’Antico Testamento non ne costituiscono forse l’ombra? E il fatto che si trova divinamente realizzato nella Chiesa un così gran numero di promesse dei Salmi e dei Profeti? Ed egli stesso, infine, non conosceva forse, per l’annuncio che ne avevano fatto Nostro Signore e gli Apostoli, gli insigni privilegi di questa Chiesa? E come è possibile dunque che la scienza delle Scritture non abbia infiammato il cuore di San Gerolamo d’un amore ogni giorno più ardente per la Sposa di Cristo? – Noi già sappiamo, Venerabili Fratelli, quale profondo rispetto, quale amore entusiasta egli nutriva per la Chiesa Romana e per la Cattedra di San Pietro; sappiamo con quale vigore egli combattesse contro i nemici della Chiesa. Così scriveva, esprimendo il suo compiacimento ad Agostino, suo giovane compagno d’armi, che sosteneva le medesime battaglie e si rallegrava d’essersi come lui attirato l’ira degli eretici: “Evviva il tuo valore! Il mondo intero ha gli occhi su di te. I Cattolici venerano e riconoscono in te il restauratore della fede dei primi tempi del Cristianesimo e, indice ancor più glorioso, tutti gli eretici ti maledicono e con te mi perseguitano d’uno stesso odio, per potere, dato che il loro gladio non ne ha la forza, ucciderci col desiderio” (EpCXLI, 2; cfr. Ep. CXXIV, 1). Questa testimonianza si trova egregiamente confermata nel “Sulpizio Severo” di Postumiano: “Una lotta continua e un duello ininterrotto contro i malvagi hanno concentrato su San Gerolamo l’odio dei perversi. In lui gli eretici odiano colui che non cessa di attaccarli, e i chierici colui che rimprovera la loro vita e le loro colpe. Ma tutti gli uomini virtuosi, senza eccezione alcuna, l’amano e l’ammirano” (Postumianus apud Sulp. Sev., Dial. 1, 9). – Quest’odio degli eretici e dei malvagi fece soffrire a Gerolamo molte asperrime pene, soprattutto quando i Pelagiani irruppero sul monastero di Betlemme e lo saccheggiarono; ma egli sopportò di buon animo tutte le offese e tutti gli oltraggi e mai perdette il coraggio, come colui che non esita a morire in difesa della fede cristiana: “La mia gioia, egli scrive ad Apronio, è quella d’apprendere che i miei figli combattono per Cristo e che Colui, nel quale crediamo, rafforza in noi lo zelo ed il coraggio, affinché possiamo essere pronti a versare il nostro sangue per la Sua fede… Le persecuzioni degli eretici hanno rovinato da cima a fondo il nostro monastero quanto alle sue ricchezze materiali, ma la bontà di Cristo lo ha colmato di ricchezze spirituali. È meglio non avere pane da mangiare, che perdere la fede” (Ep. CXXXIX). E se non ha mai permesso all’errore di diffondersi impunemente, non ha impiegato minor zelo ad erigersi in termini energici contro i corrotti costumi, volendo, per quanto le sue forze glielo permettevano, “presentare” a Cristo “una Chiesa gloriosa, senza macchie né rughe, né nulla di simile, ma santa e immacolata” (Eph. V, 27). – Quale vigore nei rimproveri che San Gerolamo rivolge a coloro che profanano con una vita colpevole la dignità sacerdotale! Con quale eloquenza egli investe i costumi pagani che pervadono in gran parte la città stessa di Roma! Per arginare a qualunque costo questa invasione di tutti i vizi e di tutte le colpe, egli vi oppone l’eccellenza e la bontà delle virtù cristiane, giustamente convinto che nulla vale di più contro il male dell’amore delle cose purissime; egli richiede insistentemente per la gioventù un’educazione informata a senso religioso e ad onestà, esorta con severi consigli gli sposi a condurre una vita pura e santa, suscita nelle anime più delicate il culto della verginità, non trova abbastanza elogi per la severa ma dolce austerità della vita dello spirito, richiama, con tutte le sue forze, il primo precetto della Religione cristiana – il comandamento della carità unita al lavoro – la cui osservanza doveva sottrarre la società umana ai turbamenti e restituirle la tranquillità dell’ordine. – Ricordiamo questa bella frase, ch’egli rivolgeva a San Paolino a proposito della carità: “Il vero tempio di Cristo è l’anima del fedele: ornalo, questo santuario, abbelliscilo, deponi in esso le tue offerte e ricevi Cristo. A che scopo rivestire le pareti di pietre preziose, se Cristo muore di fame nella persona di un povero?” (EpLVIII, VII, 1). Quanto al dovere del lavoro, egli lo ricorda a tutti con un tale ardore, nei suoi scritti e più ancora negli esempi di tutta la sua vita, che Postumiano, dopo un soggiorno di sei mesi a Betlemme insieme a San Gerolamo, gli ha reso questa testimonianza nel “Sulpizio Severo”: “Lo si trova senza posa tutto occupato nella lettura, tutto immerso nei libri: né il giorno né la notte riposa, ma sempre legge o scrive” (Postum. apud Sulp. Sev., Dial. 1, 9). – Del resto, il suo ardente amore per la Chiesa si rileva dai suoi Commentari, dove egli non tralascia nessuna occasione per celebrare la Sposa di Cristo. Citiamo, per esempio, questo passo del Commentario del profeta Aggeo: “Accorse il fior fiore di tutte le nazioni e la gloria ha riempito la casa del Signore, cioè la Chiesa di Dio vivente, colonna e fondamento della verità… Questi metalli preziosi donano più splendore alla Chiesa del Salvatore di quanto non ne donassero un tempo alla Sinagoga; di queste vive pietre è costruita la casa di Cristo ed essa si corona d’una pace eterna” (Agg. II, 1 e segg.). E in un altro passo, commentando Michea, dice: “Venite, saliamo alla casa del Signore: è necessario salire se si vuol giungere fino a Cristo e alla casa del Dio di Giacobbe, la Chiesa, casa di Dio, colonna e fondamento della verità” (MichIV, 1 e segg.). – Nella prefazione al Commentario di San Matteo, leggiamo: “La Chiesa è stata costruita su una pietra da una parola del Signore; è questa che il Re ha fatto introdurre nella sua camera ed è a lei che attraverso l’apertura segreta ha teso la mano” (Matth., Prol.). – Come risulta da questi ultimi passi che abbiamo citato, così più volte il nostro Dottore esalta l’unione intima del Signore con la Chiesa. Poiché non è possibile separare la testa dal suo corpo mistico, l’amore per la Chiesa porta necessariamente con sé l’amore per Cristo, che deve essere considerato il frutto principale e dolcissimo della scienza delle Scritture. Gerolamo, infatti, era a tal punto convinto che questa conoscenza del Testo Sacro è la via esatta che conduce alla conoscenza e all’amore di Nostro Signore, che non esitava ad affermare: “Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo stesso” (Is. Prol.; cfr. Tract. de Ps. LXXVII). Con lo stesso intendimento scrive a Santa Paola: “Come si potrebbe vivere senza la scienza delle Scritture, attraverso le quali si impara a conoscere Cristo stesso, che è la vita dei credenti?” (Ep. XXX, 7). È verso Cristo infatti che convergono, come al loro punto centrale, tutte le pagine dei due Testamenti; e nel commento al passo dell’Apocalisse, dove è la questione del fiume e dell’albero della vita, San Gerolamo in particolare scrive: “Non vi è che un fiume che sgorga dal trono di Dio, ed è la grazia dello Spirito Santo, e questa grazia dello Spirito Santo è racchiusa nelle Sante Scritture, cioè in questo fiume delle Scritture. Il quale fiume tuttavia scorre tra due rive, che sono l’Antico e il Nuovo Testamento, e su ogni lato sorge un albero, che è Cristo stesso” (Tractde Ps. I). – Nulla di strano dunque se Gerolamo nelle sue pie meditazioni era solito riferire a Cristo tutto quello che leggeva nei Libri Santi: “Quando io leggo il Vangelo e mi trovo di fronte a testimonianze sulla legge e sui profeti, io non penso che a Cristo: se ho studiato Mosè, se ho studiato i profeti, è stato solo per comprendere quello che essi dicevano di Cristo. Quando un giorno io sarò giunto dinanzi allo splendore di Cristo, quando la sua fulgida luce come quella del sole abbagliante splenderà ai miei occhi, io non potrò più vedere il lume d’una lampada. Se accenderai una lampada in pieno giorno, farà essa luce? Quando splende il sole, la luce di questa lampada svanisce: così, alla presenza di Cristo, la legge e i profeti scompaiono. Nulla io voglio togliere alla gloria della legge e dei profeti: al contrario, li lodo quali annunciatori di Cristo. Se mi accingo alla lettura della legge e dei profeti, il mio scopo non è quello di fermarmi ad essi, ma di giungere, attraverso essi, fino a Cristo” (Marc. IX, 1, 7). – Così noi lo vediamo elevarsi meravigliosamente, per mezzo dei Commentari alle Scritture, all’amore e alla conoscenza di Gesù Nostro Signore, e trovarvi la perla preziosa di cui parla il Vangelo: “Non vi è fra tutte che una sola pietra preziosa, ed è la conoscenza del Salvatore, il mistero della Sua passione e l’arcano segreto della Sua risurrezione” (Matth. XIII, 45 e segg.). – L’amore ardente per Cristo lo portava, povero ed umile insieme a Lui, a liberarsi completamente da ogni legame di preoccupazione terrestre, a non cercare che Cristo, a penetrare nel Suo spirito; a vivere con Lui nella più stretta unione, a foggiare la propria vita secondo l’immagine di Cristo sofferente, a non avere desideri più intensi che soffrire con Cristo e per Cristo. Perciò, al momento di imbarcarsi, allorché, essendo morto Damaso, perfidi nemici con le loro vessazioni lo fecero allontanare da Roma, così scriveva: “Alcuni possono considerarmi un criminale, cacciato sotto il peso di tutte le sue colpe, ma questo non è ancora nulla in confronto ai miei peccati; tu puoi tuttavia credere nel tuo intimo a una virtù dei peccatori… Io rendo grazie a Dio di meritare l’odio del mondo. Quale parte di sofferenze ho patito, io, il soldato della croce? La calunnia mi ha coperto del marchio d’un delitto: ma io so che con la cattiva come con la buona fama si arriva al regno dei Cieli” (EpXLV, 1,6). – Così esortava la pietosa vergine Eustochio a sopportare coraggiosamente per amore di Cristo le pene della vita presente: “Grande è la sofferenza, ma grande è la ricompensa ad imitare i martiri, gli apostoli, ad imitare Cristo. Tutte queste pene che vengo enumerando sembrerebbero intollerabili a chi non ama Cristo; ma, al contrario, chi considera tutta la pompa della vita terrena come un fango immondo, per cui tutto è vano sotto la luce del sole, chi non vuole arricchirsi che di Cristo, chi si unisce alla morte e alla resurrezione del suo Signore e chi uccide la propria carne con tutti i suoi vizi e tutte le sue brame, costui potrà liberamente gridare: Chi mi potrà separare dalla carità di Cristo?” (EpXXII, 38 e segg.). – Gerolamo dunque abbondantissimi frutti traeva dalla lettura dei Libri Santi: di qui egli attingeva quella luce interiore, che lo faceva sempre più avanzare nella conoscenza e nell’amore di Cristo; di qui quello spirito di preghiera, di cui così bene ha detto nei suoi scritti; qui infine acquistò quella mirabile intima comunione con Cristo, che con le sue dolcezze lo incitò a tendere senza tregua, attraverso l’aspro sentiero della croce, alla conquista della palma di vittoria. – Cosi lo slancio del suo cuore lo portava continuamente verso la Santissima Eucaristia: “Poiché nessuno è più ricco di colui che porta il corpo del Signore in un cestello di vimini e il Suo Sangue in un’ampolla” (EpCXXV, XX, 4); uguale venerazione nutriva San Gerolamo per la Santa Vergine di cui difende con ogni forza la perpetua verginità; e la Madre di Dio, ideale di tutte le virtù, era il modello che egli proponeva agli sposi di Cristo, perché la imitassero. – Nessuno si stupirà dunque se i luoghi della Palestina che avevano santificato il nostro Redentore e la sua Santissima Madre hanno esercitato un fascino e un’attrattiva così grandi su San Gerolamo. Quali fossero i suoi sentimenti su questo punto, si potrà facilmente indovinare da ciò che Paola ed Eustochio, sue discepole, scrivevano da Betlemme a Marcella: “Con quali parole noi possiamo darti un’idea della grotta in cui nacque il Divin Salvatore? Della culla che udì i suoi vagiti infantili? È più degno il silenzio che le nostre povere parole… Non verrà dunque il giorno in cui ci sarà dato di entrare nella grotta del Salvatore, di piangere sulla tomba del Divino Maestro accanto a una sorella, ad una madre? Di baciare il legno della Croce e sul Monte degli Ulivi di seguire in ispirito, ardenti di desiderio, Cristo nella Sua Ascensione?” (EpXLVI, XI, 13). – Gerolamo conduceva, lontano da Roma, una vita di mortificazione per il suo corpo, ma il richiamo dei sacri ricordi infondeva alla sua anima una tale dolcezza, da scrivere: “Ah! se Roma possedesse quello che possiede Betlemme, che è tuttavia più umile della città romana!” (EpLIV, XIII, 6). – Il voto del Santissimo esegeta s’è realizzato in modo diverso da quello da lui inteso, e Noi, Noi e tutti i cittadini di Roma, abbiamo motivo di rallegrarcene. Infatti i resti del grande Dottore, deposti in quella grotta che per tanto tempo aveva abitata, per cui la celebre città di Davide si gloriava un tempo di conservarli, Roma oggi ha la fortuna di custodirli nella basilica di Santa Maria Maggiore, ove riposano accanto alla Culla stessa del Salvatore. – S’è spenta la voce, la cui eco dal deserto percorreva un tempo il mondo intero; ma attraverso i suoi scritti, “che splendono su tutto l’universo come fiamme divine” (Cassian. De incarn. 7, 26), San Gerolamo parla ancora. Egli proclama l’eccellenza, l’integrità e la veracità storica delle Scritture, e i dolci frutti che la loro lettura e la loro meditazione offrono. Proclama per tutti i figli della Chiesa la necessità di ritornare a una vita degna del nome cristiano e di guardarsi dal contagio dei costumi pagani, che nella nostra epoca sembrano essersi pressoché ristabiliti. Proclama che la Cattedra di Pietro, mercè soprattutto la pietà filiale e lo zelo degli Italiani, cui il Cielo ha dato il privilegio di possederla entro i confini della loro patria, deve godere dell’onore e della libertà assolutamente indispensabili per la dignità e l’esercizio stesso della carica Apostolica. – Proclama, per le nazioni cristiane che hanno avuto la sventura di staccarsi dalla Chiesa, il dovere di ritornare alla loro Madre, ove riposa tutta la speranza della salute eterna. Voglia Dio che questo appello sia inteso soprattutto dalle Chiese Orientali, che ormai da troppo tempo sono ostili alla Cattedra di Pietro. Quando viveva in quelle regioni ed aveva per maestri Gregorio Nazianzeno e Didimo d’Alessandria, Gerolamo sintetizzava in questa formula divenuta classica la dottrina dei popoli orientali a quell’epoca: “Chiunque non si rifugia nell’arca di Noè, sarà travolto dai flutti del diluvio” (Ep. XV, 11, 1). Se Dio non arresta oggi questo flagello, non minaccia esso di distruggere tutte le istituzioni umane? Che più rimane, se viene soppresso Dio, autore e conservatore di tutte le cose? Che cosa può continuare ad esistere, una volta staccata da Cristo, fonte di vita? Ma colui che un tempo, all’appello dei suoi discepoli, calmò il mare in tempesta, può ancora rendere alla società umana travolta il preziosissimo beneficio della pace. – Possa San Gerolamo attirare questa grazia sulla Chiesa di Dio, che egli ha con tanto ardore amato e con tanto coraggio difeso contro ogni assalto dei nemici; possa il suo patrocinio ottenere per noi che tutte le discordie siano sedate secondo il desiderio di Gesù Cristo, e “che vi sia un solo gregge sotto un solo pastore“. – Comunicate senza indugio, Venerabili Fratelli, al vostro clero e ai vostri fedeli, le istruzioni che vi abbiamo dato in occasione del quindicesimo centenario della morte del grande Dottore. Noi vorremmo che tutti, secondo l’esempio e sotto il patrocinio di San Gerolamo, non soltanto rimanessero fedeli alla dottrina cattolica sotto l’ispirazione divina delle Sacre Scritture e ne prendessero la difesa, ma che osservassero anche con scrupolosa cura le prescrizioni dell’enciclica Providentissimus Deus e della presente Lettera. In attesa, formuliamo l’augurio che tutti i figli della Chiesa si lascino penetrare e fortificare dalla dolcezza delle Sante Lettere, per arrivare a una conoscenza perfetta di Gesù Cristo. – Come pegno di tale voto, e in testimonianza della Nostra paterna benevolenza, Noi impartiamo, nella somma grazia del Signore, a voi, a tutto il clero e a tutti i fedeli che vi sono affidati, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 settembre 1920, anno VII del Nostro Pontificato.

BENEDETTO PP. XV.