LE VIRTÙ CRISTIANE (3)

LE VIRTÙ CRISTIANE (3)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO

Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C. – Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE Ia

LE VIRTÙ TEOLOGALI E LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE

CAPO II:

LA VIRTÙ DELLA SPERANZA.

Nel capo precedente, parlando della fede, m’accadde di paragonarla al tronco dell’albero della vita, da Dio posto nel mezzo dell’Eden. Ora il primo ramo, che spunta di quel tronco è senza dubbio la speranza; ma non spunta solo. Insieme con questo ramo ne nasce un altro egualmente vigoroso e bello, il quale è la carità. Tutte due coteste virtù vivono della fede siffattamente, che, come il succo vitale d’un albero dal tronco va nei rami, ed è sempre in comunicazione col tronco stesso; così avviene di queste tre virtù. Esse nascono, s’alimentano, vivono e vigoreggiano insieme. Oltre a ciò, a quel modo che il tronco e i rami d’ un albero, col passare degli anni, si elevano sempre più in su verso il cielo; così fede, speranza e carità ci avvicinano di grado in grado al Cielo del Paradiso; dove un dì riposeremo beatificamente nelle grandi e amorose braccia di Dio. Ma, poiché noi fummo creati dal Signore per vivere prima qui in terra, insieme con la vita soprannaturale e religiosa, la vita terrestre e secondo natura; anche il fondamento di queste virtù tanto celestiali lo troviamo nella vita terrena e nella natura umana. Onde, se la fede divina è, come fu detto, una sublimazione della fede umana; il medesimo vale della speranza divina, alla quale ora volgeremo con affettuoso animo il pensiero. Sperare è, secondo natura, attendere con desiderio un bene qualsiasi vero o apparente. Ora, poiché la vita nostra è piena di desiderj non soddisfatti o non pienamente soddisfatti; è dunque certo che noi viviamo in gran parte di speranze. I giovani poi sono in modo particolare speranzosi, perché in essi abbondano i desiderj, e anche perché, come nota san Tommaso, per cagione dell’età, ei vivono poco o punto nel passato, e molto nell’avvenire. Ancora, poiché l’uomo desidera insieme i beni dell’intelletto, del cuore, dell’immaginazione, della memoria, del corpo e anche quelli esteriori dell’universo; è giusto dire che tutti questi beni egualmente noi li speriamo. E li speriamo, o che non li abbiamo, o talvolta anche che li abbiamo. Avendoli, speriamo di non perderli, come può accadere di leggieri. Non avendoli, speriamo di conseguirli. Talvolta poi, massimamente nella primavera della vita, la speranza di alcun bene ci diletta quasi più del possedimento suo; sia perché l’immaginazione e il desiderio ce lo abbelliscono e coloriscono, sia perché nei beni finiti il diletto loro, quasi sempre, scema col possesso. La speranza infine è soprattutto cibo, conforto e pace nostra, quando un qualsiasi dolore ci punga l’anima o il corpo. Allora, per moto naturale dell’animo, speriamo che il nostro soffrire sia passeggero; e cotesto sperare riesce quasi balsamo, che raddolcisce in parte le nostre amarezze, e talvolta ce le fa anche soavi. – Nondimeno la speranza umana è sempre un po’ turbata da una voce mesta di timore, che ci dice all’orecchio: tu speri forse invano. E veramente o la malvagità degli uomini o la mutabilità delle cose o taluni fatti né preveduti né previdibili fanno spesso cadere a vuoto, le più care e solide nostre speranze. D’altra parte il naturale inchinamento dei nostri animi allo sperare quasi sempre attutisce il timore, che vorrebbe annientar le nostre speranze, e prendere il disopra su di esse. Lo sperar sempre e molto è tanto secondo natura, che, anche, quando alcune speranze falliscono, tosto ne pullulano altre, o quelle stesse antiche rinverdiscono. Dalle quali cose segue che la disperazione è innaturale all’uomo, e nasce quasi sempre o da eccesso di orgoglio e di egoismo, o da fiacchezza di animo; spesso poi è più apparente che reale. La infinita vanità del tutto, tanto predicata da un grandissimo e infelice poeta, ove non sia un santo sospiro dell’anima, che si eleva dai beni finiti all’Infinito, è la formola più espressiva o dell’egoismo umano, a cui non basta nulla di nulla (né i beni creati da Dio né Dio stesso), o dell’orgoglio, che si appaga del far credere agli altri che nulla basta alla propria grandezza. – Ora, se noi fedeli Cristiani, mossi dal soffio interiore della grazia, volgiamo le nostre speranze dai beni particolari al Bene sommo, in cui son tutt’i beni, cioè a Dio infinitamente buono e misericordiosissimo, allora in noi vive e splende la virtù teologale della speranza. Il dì, che avemmo da bambini, nel santo lavacro del Battesimo, il dono celestiale della fede; in quel dì medesimo, insieme con essa, ci fu dato il dono della speranza, due tesori, per divino ordinamento dapprima nascosti, nel profondo delle anime nostre bambine e semplicette, sin che le membra del corpicciuolo erano ancora tenerelle e nel loro primo sviluppo: due doni, che poi si manifestarono in noi, con l’uso della ragione, e, se corrispondemmo alla divina grazia, grado grado furono messi a traffico, e ci procurarono nuove ricchezze soprannaturali. – Di questa dolcissima e consolantissima virtù della speranza Dante Alighieri parla lungamente e nobilissimamente nel venticinquesimo del Paradiso; e sarà bene che alcune cose intorno a questa virtù le impariamo da quel grande, che scrisse l’altissimo poema, ed è impareggiabile nell’arte di dire le verità più profonde della fede cristiana con rigore teologico, e con una leggiadria poetica che innamora (anche se per altri versi era un ghibellino eretico e contrario all’autorità papale, ed in diversi punti, uno gnostico “velato”, oltre che partigiano dei “fraticelli” eretici pauperisti, ed un sospetto peccatore contro natura, in fuga da una città all’altra, ma questa è un’altra storia! – ndr. -).. L’Alighieri dunque, stando per fantastica visione in Paradiso, vede san Pietro e san Jacopo, i quali gli si affissano davanti con sì infocato splendore, che a lui è forza di abbassare le pupille. Allora Beatrice, immagine parlante della Sapienza cristiana, si volge con un celeste sorriso a san Jacopo, che essa tiene per Apostolo della speranza, e lo prega che faccia risonare colà il caro nome della speranza; un nome, che non si sente mai in quelle celesti regioni, dove ogni speranza è già soddisfatta. Con questo parlare l’alto intelletto di Beatrice bellamente c’insegna una dottrina cattolica, cioè che né la speranza né la fede, quantunque virtù nobilissime, hanno luogo in Paradiso. Infatti, a che servirebbe più la fede nel regno dell’eterno vero, se Iddio, e i suoi altissimi e impenetrabili misteri in Cielo l’uomo li vede faccia a faccia in Dio stesso, secondo queste parole di sant’Agostino: “Qual cosa mai non vedremo noi, vedendo colui che vede tutte le cose?” A che mai gioverebbe poi la speranza nel superno regno, dove tutt’i beni sperati e sperabili l’uomo li possiede senza timore di perderli, in quel Dio, che contiene ogni bene e infinitamente tutti li vince? In cielo, quando vivremo di Dio, resterà soltanto la carità, come insegnò san Paolo scrivendo: “Tre cose durano nella presente vita, la fede, la speranza e la carità; ma la carità è maggiore di tutte: ed essa non vien meno giammai.” (I Cor. XIII. 13), – Intanto, poiché noi siamo tuttora. qui in terra; il cibo della fede e della speranza ci sono al tutto necessari. Anzi la stessa carità, che in cielo vivrà senza delle altre due sorelle, nella vita presente senza di esse non si può neanche concepire.  – Ritornando dunque a Dante, e agl’insegnamenti, che si riferiscono alla speranza, e ce la fanno cara; san Jacopo, volto a Dante che stava ancora col capo dimesso, gli dice che lo alzi pure in alto, e pensi che, essendo salito dalla terra al cielo, deve adusarsi a sostenere i celesti splendori. E poi, quasi volendo esaminarlo intorno alla virtù della speranza, soggiunge: poiché il Signore vuole confermare in te e negli altri, per mezzo della visione, la verace speranza dei mortali, cioè quella che gli innamora dei beni celesti, parlami dunque tu della speranza; e “Di’ quel che ell’è, e come se ne infiora La mente tua, e di’ onde a te venne.” Queste parole contengono tre domande, e però molte cose in sé utili a sapere e consolatrici. Ma ecco che prima di tutto Beatrice, che stava a lato di Dante, per illuminarlo della sua chiarezza e sapienza, previene la risposta di Dante alla seconda delle tre domande, cioè come la mente dell’Alighieri s’infiori di speranza; e dice non esservi uomo in terra, il quale abbia più virtù di speranza di quella che è in Dante, il quale perciò ha meritato di venire, prima di morte, dalla schiavitù del mondo a questa visione del Paradiso. Alle altre due domande risponde Dante; e, quanto alla prima, cioè ché è la speme, ei risponde, poetizzando la definizione del Maestro delle Sentenze, Pietro Lombardo, e scrivendo “ Speme, diss’io, è un attender certo della gloria futura; il qual produce Grazia divina e precedente merto, (Petr.: Lombardo. Sentent. L.III. distict. 26.). – La speranza dunque, considerata come virtù teologale, mira tutta al sommo Bene che è la gloria futura; il quale bene poiché non si consegue, senza i mezzi Spes est certa exspellatio futura beatitudinis veniens ex Dei gratia et meritis præcedentibus, necessari, abbraccia anche questi, secondo che è detto nei nostri catechismi, ed è insegnato da san Tommaso. Ed ora leggete qui le parole di san Tommaso, così bene adatte a chiarire la definizione di Dante e del Maestro delle Sentenze. “L’oggetto ei dice della speranza, per un rispetto è la beatitudine eterna, e per un altro rispetto è il divino ajuto, onde essa si consegue. L’una e l’altra cosa a noi le propone la fede, per la quale conosciamo che abbiamo possibilità di giungere alla vita eterna, e che a ciò ci è apparecchiato il divino ajuto, secondo le parole di san Paolo agli Ebrei (XI, 6), « Chi a Dio si accosta fa mestieri che creda, che Dio è, e ch’Ei rimunera coloro i quali lo cercano.” – Chiarita questa prima parte, Dante risponde all’altra domanda: onde gli venne la speranza, e afferma che gli venne dai varj santi scrittori della Bibbia, e particolarmente dal Profeta David, e da san Jacopo. Infatti san Jacopo nella sua Epistola canonica ha diversi luoghi, che accennano alla consolatrice virtù della speranza; ma David soprattutto è il Profeta, e vorrei anche dire il poeta delle speranze nobili e sante delle anime cristiane. Il Salterio Davidico è tutto indubbiamente un cantico sublime e celestiale di fede, di speranza e di amore; ma la speranza vi primeggia, e lo illumina: Objectum autem spei est uno modo beatitudo eterna, et alio modo divinum auxilium. Et utrumque eorum proponitur nobis per fidem, per quam nobis innotescit quod ad vitam eternam possumus pervenire, et quod ad hoc paratum est nobis divinum auxilium, secundum illud Hebr. XI, 6. Accedentem ad Deum oportet credere quia est, et inquirentibus se remunerator sit. — Sum. Theol. P. 11. 2° quæst. XVII. art. 7), siffattamente, che l’anima di chi prega, o canta i Salmi, pare che voli sempre al sommo Bene sperato, e in Lui si riposi. Ma ora lasciamo Dante, il quale, dopo di avere ancora parlato della speranza, ode, tra i circoli dei beati danzanti, le soavi parole che i Santi dal Paradiso dicono dei viatori: Sperino in Dio. Sperent in te; e volgiamoci ad altre considerazioni che c’istruiscano, alimentando in noi la dolcissima virtù della speranza. – Come mi venne detto avanti, nel parlare della speranza umana, che spesso la vela un’ombra di timore; così avviene parimenti della speranza divina. Non pertanto il timore in questa non può né deve derivar mai da dubbio, che si abbia intorno alla bontà divina, promettitrice del sommo Bene e dei mezzi per conseguirlo, ma solo dalla nostra fragilità. La quale tanto è grande, che può di leggieri allontanarci dal sommo Bene, tarpando così le ali della nostra speranza. Se non che è da por mente che nella speranza cristiana la fiducia di molto deve sopravvanzare il timore; il quale solo è salutare in quella parte, che deriva da umiltà. Onde esso timore, che è quasi uno col timore di Dio, non intiepidisce la speranza nostra, ma la fa santa e modesta. Noi dunque a buon dritto, quanto più siamo ferventi e pii, tanto più speriamo di gran cuore. Perciocchè, essendo ferventi e pii, sappiamo e comprendiamo meglio che dove abbondano la miseria e la fragilità umana, ivi sovrabbonda la grazia e la carità divina. Così avviene che l’uomo, per quanto sia o si reputi miserabile e peccatore, trova sempre un rifugio sicuro, abbandonandosi fiduciosamente nelle grandi braccia della divina misericordia, e facendo suoi, gl’infiniti meriti di Gesù Cristo. A ragione dunque nella santa Scrittura è condannata ogni titubanza e pusillanimità nostra nello sperare; onde san Jacopo, maestro della virtù della speranza, parlando dell’orazione cui il Cristiano volge a Dio, ha queste consolanti parole: “Chieda egli con fede, senza esitare; perciocché chi esita è simile al flutto del mare eccitato dal vento.” (Jac. I. 6. e 7) – Ben io so che sono assai poche le anime cristiane, che non abbiano talvolta sentito dentro di sé queste fluttuazioni interiori, per le quali esse si volgono ora in una e ora in un’altra parte contraria; ora guardano Dio, e si fanno cuore e sperano; ora guardano a sé stesse, e diventano pusillanimi e titubanti. È questa una delle molte battaglie, che l’anima combatte in sé medesima, e che le servono di prova. Ma la virtù della speranza, la quale Iddio, come aura soave e olezzante, spira di continuo nelle anime ferventi, o vince al tutto questa fluttuazione, o ne lascia soltanto quella piccola parte, che riesce in alimento della nostra umiltà, e ci avvezza a poco a poco a sperare sempre più, astraendoci da noi stessi e dalle nostre opere, e profondamente confidando in quell’abisso di misericordia, di carità e di grazia, che è l’Iddio nostro. – L’Apostolo san Paolo nella sua Lettera agli Ebrei insegna che noi abbiamo una consolazione fortissima nella speranza, la quale teniamo come àncora sicura e stabile dell’anima. (Hebr. VI. 18, 19). E la speranza è sì veramente un’àncora, che rende l’anima nostra serenamente fissa e immobile, tra i venti e le ondate violenti della vita mortale. Certo, i flutti e i marosi delle passioni umane tentano di agitarci o di sommergerci, come talvolta si agita nel mare o si sommerge la nave lasciata a sé stessa; ma ecco che la dolce speranza della vita futura, penetrando addentro nel fondo del mare dell’anima nostra, la tiene, quasi àncora, ferma e stabile, e la fa galleggiare sicura tra le tempeste del mondo. Però, secondo che nota l’Angelico san Tommaso, tra l’àncora delle navi, e l’àncora della speranza cristiana v’ha questa differenza, che l’àncora della nave si conficca in basso (cioè nel profondo del mare) e l’àncora della speranza nostra si fissa in luogo altissimo cioè in Dio. E ciò ben a ragione; perocché nella presente vita non vi ha cosa che sia stabile, e nella quale l’anima possa fermarsi e riposarsi sicuramente (In exposit ejusdem cap. VI, ad Hebr. Lect. 6). Così l’Angelico. Ma, riflettendo nel testo di san Paolo, si potrebbe forse anche pensare che quel mare, il quale per le sue fluttuazioni e le sue tempeste raffigura così bene la nostra vita presente, esso stesso per la immensità, per la profondità, per i tesori che nasconde, e per la bellezza e sublimità sua, effigii pure il Signore Iddio, nel quale l’àncora della nostra speranza sta ferma assai più fortemente, che l’àncora più solida e perfetta di una nave non si attacchi nelle profondità misteriose del mare.

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Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.