La Spiritus Paraclitus di S. S. Benedetto XV, è una Enciclica straordinaria e di una importanza dottrinale immensa, riferendosi, nell’esaltazione dell’opera e della figura di S. Girolamo, alla Sacra Scrittura nella quale – si ribadisce solennemente – non può trovarsi errore di sorta perché redatta, se pur mediante l’ausilio terreno di molti scrittori, dal sommo Autore, Dio stesso nella Persona dello Spirito Santo. Si tratta di un documento che dovrebbe essere letto e riletto continuamente, ricco com’è di principi assolutamente veritieri e senza inganno di sorta, un vero schiaffo per tanti illustri asini, atei, protestanti, ebraizzanti da strapazzo, massoni di scarso profilo culturale, inattendibili improvvisati biblisti “fai da te”, sbandierati dalla propaganda anticattolica in libercoli insulsi messi in mostra e venduti in edicole ferroviarie e autostradali e fatti passare per novelli studiosi la cui ignoranza è palese oltre che truffaldina. Lo stesso atteggiamento tengono i modernisti indovati nella setta vaticana postconciliare, sempre pronti a discreditare, contro ogni evidenza, ogni rifermento alla vera Chiesa Cattolica, quella dalla quale hanno vergognosamente apostatato trascinando alla perdizione eterna tanti ignari incolti pseudo-fedeli. Oltretutto la Sacra Scrittura è un’arma per confutare e respingere gli eretici di ogni sorta di ogni epoca, in particolare della nostra … « Una volta che sarai erudito nelle Sacre Scritture, armato delle loro leggi e delle loro testimonianze, che sono i vincoli della verità, tu andrai contro i tuoi nemici, li domerai, li incatenerai e li riporterai prigionieri; e di questi avversari e prigionieri di ieri, tu farai tanti figli di Dio“ (Ep. LXXVIII, XXX, al. 78, mansio).» – Per la sua lunghezza dividiamo la Lettera in due parti, così da renderne la meditazione più godibile e fruttuosa.
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Benedetto XV
Spiritus Paraclitus
Lettera Enciclica (1)
Lo Spirito Santo, che diede al genere umano, per iniziarlo ai misteri della divinità, il tesoro delle Lettere Sante, ha con immensa provvidenza fatto sorgere nel corso dei secoli numerosi esegeti, notevoli per santità e per dottrina, i quali, non contenti di non lasciare infecondo questo Celeste tesoro (Conc. Trid., s. V. decr. di riforma, c. I), dovevano far ampiamente gustare attraverso i loro studi e le loro opere, ai fedeli cristiani, “la consolazione delle Scritture“. È universalmente riconosciuto l’eccelso posto tenuto da San Gerolamo, nel quale la Chiesa Cattolica riconosce e venera il più gran Dottore di cui il Cielo le abbia fatto dono per l’interpretazione delle Sacre Scritture. Invero, poiché fra pochi giorni dobbiamo commemorare il quindicesimo centenario della sua morte, Noi non vogliamo, Venerabili Fratelli, lasciar passare un’occasione così favorevole per intrattenervi a bell’agio sulla gloria che San Gerolamo ha acquistata e sui servizi che egli ha reso con la sua sapienza nelle Sacre Scritture. – La coscienza del Nostro ufficio Apostolico e il desiderio di dare incremento allo studio nobilissimo delle Scritture, Ci incitano da un lato a proporre come esempio da imitarsi questo grande genio, e dall’altro a confermare con la Nostra Apostolica autorità ed a meglio adattare ai tempi che oggi la Chiesa attraversa le preziosissime direttive e le prescrizioni date in questa materia dai Nostri Predecessori di santa memoria: Leone XIII e Pio X. Infatti San Gerolamo, “spirito grandemente impregnato di senso cattolico e molto versato nella conoscenza della legge santa” (Sulp. Sev., Dial., 1, 7), “maestro dei cristiani” (Cass., De inc. VII, 26), “modello di virtù e luce del mondo intero” (San Prospero, Carmen de ingratis, V, 57), ha esposto meravigliosamente e validamente difeso la dottrina cattolica intorno ai Libri Santi; e a questo proposito Ci fornisce un insieme di insegnamenti di altissimo valore, di cui Noi Ci valiamo per esortare tutti i figli della Chiesa, e specialmente i membri del clero, al rispetto, alla lettura devota e all’assidua meditazione delle Scritture Divine. Come sapete, Venerabili Fratelli, San Gerolamo, nato a Stridone, città “un tempo di confine tra la Dalmazia e la Pannonia”, (De viris ill., 135), allevato fin dalla più tenera infanzia al Cattolicesimo (Ep. LXXX, 11, 2), dopo che col Battesimo ebbe preso qui in Roma stessa l’abito di Cristo (Ep. XV, 1, 1; XVI, 11, 1), fino alla fine della sua lunghissima vita consacrò tutte le sue forze allo studio, alla esplicazione e alla difesa dei Libri Sacri. – Istruitosi in lettere latine e greche, appena uscito dalla scuola dei rètori, ancora adolescente, si sforzava di commentare il profeta Abdia; questo Saggio “della sua prima gioventù” (Abd. praef.) fece crescere a tal punto il suo amore per le Scritture, che, seguendo la parabola del Vangelo, egli decise di dover sacrificare al tesoro che aveva scoperto “tutti i vantaggi di questo mondo” (Matth. XIII, 44). – Perciò, sfidando tutte le difficoltà di una simile decisione, abbandonò la sua casa, i genitori, la sorella, i parenti, rinunziò all’abitudine di una lauta mensa e partì per i luoghi santi dell’Oriente, allo scopo di procurarsi con maggior abbondanza le ricchezze di Cristo e la conoscenza del Salvatore, con la lettura e lo studio dei Libri Santi (Ep. XXII, XXX, 1). Più volte egli stesso ci descrive come si sia dedicato a questa impresa, senza risparmiare fatica: “Una meravigliosa sete di sapere mi spingeva ad istruirmi e non fui affatto, come alcuni pensano, il maestro di me stesso. Ad Antiochia ascoltai spesso le lezioni di Apollinare di Laodicea (1), che frequentavo; ma benché fossi suo discepolo nelle Sacre Scritture, non ho però mai adottato il suo dogmatismo ostinato in materia di senso” (Ep. LXXXIV, 111, 1). San Gerolamo dalla Palestina si ritirò nel deserto della Calcide, in Siria; e al fine di penetrare più profondamente il senso della parola divina e per frenare nello stesso tempo, con accanito travaglio, gli ardori della giovinezza, si mise alla scuola di un ebreo convertito, dal quale ebbe anche modo di apprendere la lingua ebraica e quella caldea. “Quali pene tutto ciò mi sia costato, quali difficoltà abbia dovuto vincere, quali scoraggiamenti soffrire, quante volte abbia abbandonato questo studio, per poi riprenderlo più tardi, stimolato dalla mia passione per la scienza, io solo, che l’ho provato, potrei dirlo, e con me coloro che mi vivevano accanto. E benedico Iddio per i dolci frutti che mi ha arrecati l’amaro seme dello studio delle lingue” (Ep. CXXV, 12). San Gerolamo, fuggendo le bande di eretici che venivano a turbarlo perfino nella solitudine del deserto, si recò a Costantinopoli. Il Vescovo di questa città era allora San Gregorio il Teologo celebre per la fama e la gloria universali della sua scienza. Gerolamo lo prese per quasi tre anni a guida e a maestro nell’interpretazione delle Sacre Lettere. In quest’epoca egli tradusse in latino le Omelie di Origene sui Profeti e la Cronaca di Eusebio e commentò la visione dei Serafini in Isaia. – Ritornato a Roma, per le difficoltà che la Cristianità attraversava, vi fu accolto paternamente dal Papa Damaso, che egli assistette nel governo della Chiesa (Ep. CXXIII, IX, al., 10; Ep. CXXVII, VII, 1). Sebbene assorbito in ogni senso dalle preoccupazioni di questa carica, tuttavia mai trascurò sia di dedicarsi ai Libri Santi (Ep. CXXVII, VII, 1 e segg.) e di trascrivere e di esaminare i codici (Ep. XXXVI, 2; Ep. XXXII, 1), sia di risolvere le difficoltà che gli venivano sottoposte e di iniziare i discepoli d’ambo i sessi alla conoscenza delle Scritture (Ep. XLV, 2; CXXVI, 3; CXXVII, 7). – Il Papa gli aveva affidato l’importantissimo compito di rivedere la versione latina del Nuovo Testamento: egli rivelò in quest’impresa una tale penetrazione e una tale finezza di giudizio, che la sua opera è sempre più stimata e ammirata dagli stessi esegeti moderni. Ma tutti i suoi pensieri, tutti i suoi desideri l’attiravano verso i luoghi della Palestina. Fu così che, alla morte di Damaso, Gerolamo si ritirò a Betlemme; ivi, fondato un monastero presso la culla di Gesù, si consacrò tutto a Dio, dedicando tutto il tempo che la preghiera gli lasciava libero allo studio e all’insegnamento delle Scritture. “Già – così egli ci riferisce – il mio capo s’incanutiva e avevo ormai l’aspetto più di un maestro che di un discepolo; ciò nonostante mi recai ad Alessandria e mi misi alla scuola di Didimo. Molto a lui io devo: mi insegnò quello che ignoravo, e ciò che già sapevo mi rivelò sotto diversa forma. Sembrava che non avessi più nulla da imparare, e ora, a Gerusalemme e a Betlemme, a prezzo di quali fatiche e di quali sforzi ho io seguito ancora durante la notte le lezioni di Baranina! Egli temeva gli Ebrei e mi faceva l’effetto di un secondo Niccodemo” (Ep. LXXXIV, 111, 1 e segg.). Lungi dall’accontentarsi delle lezioni e dell’autorità di quei maestri – e non solo di questi – egli si valse, per raggiungere nuovi progressi, di fonti di documentazione d’ogni genere: dopo di essersi procurato fin dall’inizio i migliori manoscritti e commentari delle Scritture, studiò i libri delle sinagoghe e le opere della biblioteca di Cesarea, fondata da Origene e da Eusebio; il confronto di questi testi con quelli che già possedeva, doveva metterlo in grado di fissare la forma autentica e il vero senso del testo biblico. – Per meglio raggiungere il suo scopo, visitò la Palestina in tutta la sua estensione, fermamente convinto del vantaggio che ne avrebbe tratto, come faceva notare nella sua lettera a Domnione e a Rogaziano: “La Sacra Scrittura sarà molto più penetrabile per colui che ha visto con i suoi occhi la Giudea, che ha ritrovato i resti delle antiche città, ed appreso i nomi rimasti identici o trasformatisi delle varie località. Questo è il pensiero che ci guidava quando ci siamo imposta la fatica di percorrere, insieme ai più grandi eruditi ebrei, la regione il cui nome risuona in tutte le chiese di Cristo” (Ad Domnionem et Rogatianum in I. Paral. Prefaz.). Ecco dunque San Gerolamo nutrire senza posa il suo spirito di questa manna Celeste, commentare le Lettere di San Paolo, correggere, secondo i testi greci, i codici latini dell’Antico Testamento, tradurre di nuovo in latino dall’originale ebraico quasi tutti i Libri Sacri, spiegare ogni giorno le Sacre Scritture ai fedeli insieme riuniti, rispondere alle lettere che da ogni parte gli giungevano per sottoporgli difficoltà esegetiche da risolvere, confutare vigorosamente i detrattori dell’unità e della fede cattolica, e – tanto grande era l’energia che gli infondeva l’amore per le Scritture – non smettere dallo scrivere e dal dettare, finché la morte non ebbe irrigidito la sua mano e spento la sua voce. – Così, non risparmiando né fatiche, né veglie, né spese, mai, fino all’estrema vecchiaia, cessò di meditare giorno e notte, presso il Santo Presepio, sulla legge del Signore, rendendo maggiori servigi al nome cattolico, dal fondo della sua solitudine, con l’esempio della sua vita e con i suoi scritti, di quelli che avrebbe potuto rendere se fosse vissuto a Roma, centro del mondo. – Dopo questo rapido esame della vita e delle opere di San Gerolamo, vediamo ora, Venerabili Fratelli, quale fu il suo insegnamento sulla dignità divina e l’assoluta veracità delle Sacre Scritture. A questo proposito, si analizzino gli scritti del grande Dottore: non v’è pagina in cui non sia reso evidente come egli abbia fermamente e invariabilmente affermato, in armonia con l’intera Chiesa Cattolica, che i Libri Santi sono stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, che autore di essi va ritenuto Dio stesso e che come tali la Chiesa li ha ricevuti (Conc. Vat. I. III, Const. de fide cath. cap. II). I Libri della Santa Scrittura – egli afferma sono stati composti sotto l’ispirazione o la suggestione o anche la diretta dettatura dello Spirito Santo; ed è per di più questo stesso Spirito che li ha composti e divulgati. D’altronde però San Gerolamo non dubita minimamente che ogni autore di questi libri abbia secondo la propria possibilità e il proprio genio, dato libero contributo all’ispirazione divina. Non solo dunque egli afferma senza riserve l’elemento comune a tutti gli scrittori di cose sacre – sarebbe a dire il fatto che la loro penna è guidata dallo Spirito divino, a tal punto che Dio stesso deve essere considerato causa principe e determinante di ogni espressione della Scrittura – ma anche distingue accuratamente e pone in rilievo ciò che in un singolo scrittore vi è particolarmente caratteristico. Sotto diversi punti di vista, secondo cioè l’ordinamento del materiale, secondo l’uso dei vocaboli, la qualità e la forma dello stile, egli dimostra. come ciascuno abbia messo a profitto le proprie facoltà e le proprie capacità personali; giunge in tal modo a fissare e a ben delineare il carattere singolo, le impronte, per così dire, e la fisionomia di ogni autore, soprattutto riguardo ai Profeti e all’Apostolo San Paolo. Per meglio porre in rilievo questa collaborazione di Dio e dell’uomo alla stessa opera, San Gerolamo adduce l’esempio dell’operaio, che si serve, nella costruzione di un oggetto qualsiasi, di uno strumento o di un utensile; infatti tutto quello che gli scrittori sacri dicono “altro non è che la parola stessa di Dio e non la loro parola, e parlando per mezzo della loro bocca, Dio volle servirsi come d’uno strumento“ (Tract. de Ps., LXXXVIII). – Se noi cerchiamo inoltre di comprendere come bisogna interpretare questa influenza di Dio sullo scrittore di sacri argomenti e l’azione che Egli come causa principale esercitò, noi vedremo che l’opinione di San Gerolamo è in perfetta armonia con la dottrina comune della Chiesa Cattolica: Dio – egli afferma – con un dono della Sua grazia illumina lo spirito dello scrittore, riguardo alla verità che questo deve trasmettere agli uomini “per ordine divino“.Egli suscita in lui la volontà e lo costringe a scrivere; gli conferisce un’assistenza speciale fino al compimento del libro. E’ principalmente su questo punto del concorso divino, che il nostro Santo fonda l’eccellenza e la dignità incomparabili delle Scritture, la cui scienza paragona al “tesoro prezioso“ (Matth. XIII, 44; Tract. de Ps. LXXII) e alla “splendida perla” (Matth. XIII, 45 e segg.) e in cui assicura si trovano “le ricchezze di Cristo” (Quaest. in Gen., Prefaz.) e “l’argento che orna la casa di Dio” (Agg. II, 1 e segg.; cfr. Gal. 11, 10 ecc.). Proclamava eloquentemente, sia con le parole che con i fatti, l’autorità sovrana della Scrittura. Non appena si sollevava una controversia, egli ricorreva alla Bibbia come alla più autorevole fonte per dedurne testimonianze, argomenti molto saldi e assolutamente inconfutabili al fine di dimostrare apertamente gli errori degli avversari. – Così San Gerolamo rispose, con massima schiettezza e semplicità, a Elvidio, che negava la perpetua verginità della Madre di Dio: “Se ammettiamo tutto ciò che dice la Scrittura, neghiamo logicamente ciò che essa non dice. Noi crediamo che Dio sia nato da una vergine, appunto perché lo leggiamo nella Scrittura; e neghiamo che Maria non sia rimasta vergine dopo il parto, perché la Scrittura non lo riporta assolutamente“ (Adv. Helv., 19). Si ripromette, servendosi di queste stesse armi, di difendere con la massima vigoria, contro Gioviniano, la dottrina cattolica sullo stato di verginità di Maria, sulla perseveranza, l’astinenza e il merito delle buone opere: “Io farò ogni sforzo per opporre, a ciascuna delle sue asserzioni, i testi delle Scritture: eviterò così che egli vada ovunque lamentandosi che io l’ho vinto più con la mia eloquenza che con la forza della verità” (Adv. Iovin., 1, 4). – Nella difesa delle sue opere contro lo stesso eretico, aggiunge: “Sembrerebbe che l’abbiano supplicato di cedere davanti a me, mentre egli non s’è lasciato prendere che a malincuore, dibattendosi nei lacci della verità“ (Ep. XLIX, al. XLVIII, 14, 1). – Sull’insieme della Sacra Scrittura, leggiamo ancora nel suo commentario su Geremia, che la morte gli impedì di condurre a termine: “Non bisogna seguire l’errore dei genitori né quello degli antenati, bensì l’autorità delle Scritture e la volontà di Dio maestro“(Ier. IX, 12 e segg.). Ecco come descrive a Fabiola il metodo e l’arte per combattere il nemico: “Una volta che sarai erudito nelle Sacre Scritture, armato delle loro leggi e delle loro testimonianze, che sono i vincoli della verità, tu andrai contro i tuoi nemici, li domerai, li incatenerai e li riporterai prigionieri; e di questi avversari e prigionieri di ieri, tu farai tanti figli di Dio“ (Ep. LXXVIII, XXX, al. 78, mansio). Per altro San Gerolamo insegna che l’ispirazione divina dei Libri Santi e la loro sovrana autorità comportano, quale conseguenza necessaria, l’immunità e l’assenza di ogni errore e di ogni inganno: tale principio egli aveva appreso nelle più celebri scuole d’Occidente e d’Oriente, come tramandato dai Padri e accettato dall’opinione comune. E invero, dopo che egli ebbe intrapreso, per ordine del Papa Damaso, la revisione del Nuovo Testamento, alcuni “spiriti meschini“ gli rimproverarono amaramente di aver tentato “contro l’autorità degli antichi e l’opinione di tutto il mondo, di fare alcuni ritocchi ai Vangeli”; San Gerolamo si accontentò di rispondere che non era abbastanza semplice di spirito, né così estremamente ingenuo, per pensare che la più piccola parte delle parole del Signore avesse bisogno d’essere corretta, o per ritenere che non fosse divinamente ispirata (Ep. XXVII, 1, 1 e segg.). Nel commento alla prima visione dì Ezechiele intorno ai quattro Evangeli, fa notare: “Non troverà strani tutto quel corpo e quei dorsi disseminati d’occhi, chi si è reso conto come dal più piccolo particolare del Vangelo si sprigiona una luce che illumina col suo raggio il mondo intero: ed anche la cosa che è apparentemente la più trascurabile brilla di tutto il maestoso splendore dello Spirito Santo“ (Ex. I, 15 e segg.). Ora, questo privilegio, che egli qui rivendica per il Vangelo, lo reclama poi in ognuno dei suoi commentari per tutte le altre “parole del Signore“, e ne fa la legge e la base dell’interpretazione cattolica; questo è d’altra parte il criterio di cui San Gerolamo si vale per distinguere il vero profeta dal falso (Mich. II, II e segg.; III, 5 e segg.). Poiché: “la parola del Signore è verità, e per Lui dire significa realizzare” (Mich. IV, 1 e segg.). Pertanto “la Scrittura non può mentire” (Ier. XXXI, 35 e segg.) e non è permesso accusarla di menzogna (Nah. 1, 9) e neppure ammettere nelle sue parole anche un solo errore di nome (Ep. LVII, VII, 4). Del resto, il Santo Dottore aggiunge che egli “non pone sullo stesso piano gli Apostoli e gli altri scrittori“, cioè gli autori profani; “quelli dicono sempre la verità, mentre questi, come capita agli uomini, si ingannano su alcuni punti” (Ep. LXXXII, VII, 2); molte affermazioni della Scrittura, che a prima vista possono sembrare incredibili, sono tuttavia vere (Ep. LXXII, II, 2), e in questa “parola dì verità” non è possibile scoprire nessuna contraddizione, nessuna discordanza, nessuna incompatibilità (Ep. XVIII, VII, 4; cfr. Ep. XLVI, VI, 2); per conseguenza “se la Scrittura contenesse due dati che sembrassero escludersi, entrambi” resterebbero “veri, quantunque diversi” (Ep. XXXVI, XI, 2). – Sempre fedele a questo principio, se gli capitava di incontrare nei Libri Sacri apparenti contraddizioni, San Gerolamo concentrava tutte le sue cure e tutti gli sforzi del suo spirito per risolvere la difficoltà; e se giudicava la soluzione ancora poco soddisfacente, riprendeva, non appena si presentasse l’occasione, senza perdere coraggio, l’esame del problema, anche se talora non giungeva a risolverlo completamente. Mai tuttavia egli incolpò gli scrittori sacri della minima falsità: “Lascio fare ciò agli empi, come Celso, Porfirio, Giuliano” (Ep. LVII, IX, 1). In ciò era perfettamente d’accordo con Sant’Agostino: questi – leggiamo in una delle sue lettere allo stesso San Gerolamo – aveva per i Libri Sacri una venerazione così piena di rispetto, da credere molto fermamente che nessun errore fosse sfuggito alla penna di uno solo di tali autori; perciò, se incontrava nelle Lettere Sante un punto che sembrava in contrasto con la verità, lungi dal credere ad una menzogna, ne attribuiva la colpa a un’alterazione del manoscritto, a un errore di traduzione, o a una totale inintelligenza da parte sua. Al che aggiungeva: “Io so, fratello, che tu non pensi diversamente: voglio dire che non m’immagino affatto che tu desideri vedere le tue opere, lette nella stessa disposizione di spirito in cui vengono lette le opere dei Profeti e degli Apostoli; dubitare che esse siano prive di ogni errore, sarebbe un delitto“ (Sant’Ag. a San Gerol., tra le lettere di San Gerol. CXVI, 3). – Questa dottrina formulata da San Gerolamo conferma dunque splendidamente e nello stesso tempo spiega la dichiarazione del Nostro Predecessore di santa memoria, Leone XIII, in cui era precisata la credenza antica e costante della Chiesa sulla perfetta immunità che mette la Scrittura al riparo d’ogni errore: “E’ tanto assurdo che l’ispirazione divina incorra il pericolo di errare, che non solo il minimo errore ne è essenzialmente escluso, ma anche che questa esclusione e questa impossibilità sono tanto necessarie, quanto è necessario che Dio, sovrana verità, non sia l’autore di alcun errore, anche il più lieve“. – Dopo aver riferito le conclusioni dei Concili di Firenze e di Trento, confermate dal Sinodo in Vaticano, Leone XIII prosegue: “La questione assolutamente non cambia per il fatto che lo Spirito Santo s’è servito di uomini come di strumenti per scrivere, come se qualche errore avesse potuto sfuggire non certo all’autore principale, ma agli scrittori che da Lui erano ispirati. Poiché Egli stesso li ha con la sua azione soprannaturale eccitati e spinti lino a che si ponessero a scrivere; li ha poi assistiti nel corso della loro opera a tal punto che essi pensavano secondo assoluta giustizia, volevano riportare fedelmente e perfettamente esprimevano, con esattezza infallibile, tutto quello che Egli ordinava loro di scrivere, e solo questo riportavano: diversamente non potrebbe essere lo Spirito Santo l’autore di tutta la Sacra Scrittura“(Lett. Encicl. Providentissimus Deus). Queste parole del Nostro Predecessore non lasciavano adito ad alcun dubbio, né ad alcuna esitazione. Ma, ahimè!, Venerabili Fratelli, non mancarono tuttavia, non solo fra gli estranei, ma anche tra i figli della Chiesa Cattolica e – strazio ancor più grande per il Nostro cuore – perfino fra il clero e i maestri delle Scienze sacre, spiriti che con fiducia orgogliosa nel proprio criterio di giudizio, – apertamente rifiutarono o attaccarono subdolamente su questo punto il magistero della Chiesa. Certamente noi approviamo l’intenzione di coloro che, desiderosi per sé e per gli altri di liberare il Testo Sacro dalle sue difficoltà, ricercano, con l’appoggio di tutti i dati della scienza e della critica, nuovi modi e nuovi metodi per risolverle; ma essi falliranno miseramente nella loro impresa, se trascureranno le direttive del Nostro Predecessore e se oltrepasseranno i limiti precisi indicati dai Santi Padri. – Ora l’opinione di alcuni moderni non si preoccupa affatto di queste prescrizioni e di questi limiti: distinguendo nella Sacra Scrittura un duplice elemento, uno principale o religioso, e uno secondario o profano, essi accettano, si, il fatto che l’ispirazione si riveli in tutte le proposizioni ed anche in tutte le parole della Bibbia, ma ne restringono e ne limitano gli effetti, a partire dall’immunità dall’errore e dall’assoluta veracità, limitata al solo elemento principale o religioso. Secondo loro, Dio non si preoccupa e non insegna personalmente nella Scrittura se non ciò che riguarda la religione: il resto ha rapporto con le scienze profane e non ha altra utilità, per la dottrina rivelata, che quella di servire da involucro esteriore alla verità divina. Dio soltanto permette che esso vi sia e l’abbandona alle deboli facoltà dello scrittore. Perciò non vi è nulla di strano se la Bibbia presenta, nelle questioni fisiche, storiche e in altre di simile argomento, passaggi piuttosto frequenti che non è possibile conciliare con gli attuali progressi delle Scienze. Alcuni sostengono che queste opinioni erronee non sono affatto in contrasto con le prescrizioni del Nostro Predecessore: non ha forse Egli dichiarato che, in materia di fenomeni naturali, l’autore sacro ha parlato secondo le apparenze esteriori, suscettibili quindi d’inganno? Quanto questa affermazione sia temeraria e menzognera, lo provano manifestamente i termini stessi del documento Pontificio. L’apparenza esteriore delle cose – ha dichiarato molto saggiamente Leone XIII, seguendo Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino – deve essere tenuta in una certa considerazione; ma questo principio non può suscitare il minimo sospetto di errore nella Sacra Scrittura: poiché la sana filosofia asserisce come cosa sicura che i sensi, nella percezione immediata delle cose, oggetto vero di conoscenza, non si ingannano affatto. Inoltre il Nostro Predecessore, dopo aver negato ogni distinzione e ogni possibilità di equivoco tra quello che è l’elemento principale è l’elemento secondario, dimostra chiaramente il gravissimo errore di coloro i quali ritengono che “per giudicare della verità delle proposizioni bisogna senza dubbio ricercare ciò che Dio ha detto, ma più ancora valutare il motivo che lo ha indotto a parlare“.Leone XIII precisa ancora che l’ispirazione divina è presente in tutte le parti della Bibbia, senza selezione né distinzione alcuna, e che è impossibile che anche il minimo errore si sia introdotto nel testo ispirato: “Sarebbe un errore molto grave restringere l’ispirazione divina solo a determinate parti della Sacra Scrittura, o ammettere che l’autore sacro stesso abbia potuto ingannarsi“. – E non sono meno discordi dalla dottrina della Chiesa, confermata dall’autorità di San Gerolamo e degli altri Padri, quelli che ritengono che le parti storiche delle Scritture si appoggiano non sulla verità “assoluta” dei fatti, ma soltanto sulla loro “verità relativa“, come essi la chiamano, e sul modo volgarmente comune di pensare. Per sostenere questa teoria, essi non temono di richiamarsi alle stesse parole del Papa Leone XIII, il quale avrebbe affermato che i principi ammessi in materia di fenomeni naturali possono essere portati in campo storico. Come nell’ordine fisico gli scrittori sacri hanno parlato seguendo le apparenze, cosi – essi pretendono – quando si trattava di riportare avvenimenti non perfettamente noti, li hanno riferiti come apparivano fissati secondo l’opinione comune del popolo o le relazioni inesatte di altri testimoni; inoltre essi non hanno citato le fonti delle loro informazioni, e non hanno garantito personalmente le narrazioni attinte da altri autori. – A che confutare più a lungo una teoria veramente ingiuriosa per il Nostro Predecessore e nello stesso tempo falsa e piena di errore? Quale rapporto, infatti, vi è tra i fenomeni naturali e la storia? Le scienze fisiche si occupano di oggetti che colpiscono i sensi e devono quindi concordare con i fenomeni come essi appaiono; la storia invece, narrazione di fatti, deve – ed è questa la sua legge principale – coincidere con questi fatti, come realmente si sono verificati. Se si accettasse la teoria di costoro, come sarebbe possibile conservare alla narrazione sacra quella verità, immune da ogni falsità, che come il Nostro Predecessore dichiara in tutto il contesto della sua Enciclica, non si deve affatto menomare? – Che anzi, quando egli afferma che v’è interesse a trasportare nella storia e nelle scienze affini i principi che valgono per le scienze fisiche, non intende stabilire una legge generale e assoluta, ma indicare semplicemente un metodo uniforme da seguire, per confutare le obiezioni fallaci degli avversari e difendere contro i loro attacchi la verità storica della Sacra Scrittura. Se almeno i partigiani di queste teorie si fermassero a ciò! Ma non giungono invece fino al punto d’invocare il Dottore dalmata per difendere la loro opinione? San Gerolamo, a credere in loro, avrebbe dichiarato che bisogna mantenere l’esattezza e l’ordine dei fatti storici nella Bibbia “prendendo per regola non la realtà obiettiva ma l’opinione dei contemporanei“, che, veniva così a costituire la vera legge della storia (Ier. XXIII, 15 e segg.; Matth. XIV, 8; Adv. Helv. 4). Come sono abili a trasformare in loro favore le parole di San Gerolamo! Ma non è possibile avere dubbi sul suo esatto pensiero: egli non afferma che nell’esposizione dei fatti lo scrittore sacro si appropria di una falsa credenza popolare a proposito di dati che ignora, ma dice soltanto che nella designazione delle persone e degli oggetti egli usa il linguaggio corrente. Così quando uno scrittore chiama San Giuseppe padre di Gesù, indica chiaramente in tutto il corso della sua narrazione come intenda questo nome di padre. Secondo San Gerolamo, “la vera legge della storia” richiede che nell’impiego delle denominazioni lo scrittore si attenga, dopo aver eliminato ogni pericolo d’errore, al modo generale d’esprimersi; poiché l’uso è l’arbitro e il regolatore del linguaggio. E che? Forse che il nostro Dottore non pone sullo stesso piano i fatti riportati dalla Bibbia e i dogmi nei quali è necessario credere, se si vuol raggiungere la salvezza eterna? Ecco infatti ciò che leggiamo nel suo commentario sull’Epistola a Filemone: “In quanto a me, ecco ciò che penso: uno crede in Dio Creatore: ciò non gli sarebbe possibile se non credesse alla verità di tutto quello che Scrittura riporta riguardo ai suoi Santi“.E compila una lunghissima serie di citazioni tratte dall’Antico Testamento, concludendo: “Chiunque rifiuti di prestar fede a tutti questi fatti e a tutti gli altri, senza eccezione alcuna, riguardanti i Santi, non potrà credere al Dio dei Santi” (Philem. 4). – San Gerolamo si trova quindi in perfetto accordo con Sant’Agostino, il quale, interprete del sentimento comune di tutta l’antichità, così scriveva: “Noi crediamo tutto ciò che la Sacra Scrittura, posta al supremo culmine dell’autorità dalle testimonianze sicure e venerabili della verità, ci attesta riguardo ad Enoch, ad Elia e a Mosè… Così, se noi crediamo che il Verbo è nato dalla Vergine Maria, non è per il fatto che Egli non avrebbe potuto trovare altro mezzo per assumere una forma realmente incarnata, e per manifestarsi agli uomini (come pretendeva sostenere Fausto), ma perché così è detto in quella Scrittura, alla quale dobbiamo prestar fede, se vogliamo rimanere cristiani e salvarci” (San Aug. Contra Faustum, XXVI, 3 e segg., 6 e segg.). Vi è poi un altro gruppo di denigratori della Sacra Scrittura: intendiamo parlare di coloro che, abusando di certi principi, giusti del resto se si trattengono entro determinati limiti, giungono a distruggere la base della veridicità delle Scritture, e a denigrare la dottrina cattolica trasmessa dai Padri. – Se ancora vivesse, certamente San Gerolamo lancerebbe acuminati strali contro questi imprudenti che, disprezzando il sentimento e il giudizio della Chiesa, ricorrono con troppa facilità a quel sistema da essi definito “delle citazioni implicite” o delle narrazioni che sono storiche soltanto apparentemente; i quali pretendono di scoprire nei Libri Sacri procedimenti letterari inconciliabili con l’assoluta e perfetta veracità della parola divina, e professano sull’origine della Bibbia un’opinione che tende unicamente a scuoterne l’autorità o addirittura ad annullarla. E che pensare di coloro che, nella interpretazione del Vangelo, ne attaccano l’autorità, sia umana che divina, diminuendo quella e distruggendo questa? Delle parole, delle opere di Nostro Signor Gesù Cristo, nulla ci è pervenuto, secondo costoro, nella sua integrità e senza alterazioni, malgrado le testimonianze di coloro che hanno riportato con religiosa cura ciò che avevano visto ed udito; essi non vi vedono – soprattutto per ciò che concerne il IV Vangelo – che una compilazione costituita da un lato dalle aggiunte considerevoli dovute all’immaginazione degli Evangelisti, e dall’altro dal racconto di fedeli di altra epoca; queste correnti perciò, sgorganti da dubbia fonte, hanno oggi cosi ben confuse le acque nello stesso letto, che non è possibile assolutamente avere un criterio sicuro per distinguerle. . Non è così che Gerolamo, Agostino e gli altri Dottori della Chiesa hanno compreso il valore storico dei Vangeli, nei quali: “Chi ha visto ha reso testimonianza, e la sua testimonianza è vera. Ed egli sa di dire il vero, affinché anche voi lo crediate” (Ioan. XIX, 35); San Gerolamo, dopo aver rimproverato agli eretici, autori di Vangeli apocrifi, di “aver tentato più di ordinare la narrazione che di stabilire la verità” (Matth. Prol.) aggiunge al contrario, a proposito dei Libri Canonici: “Nessuno ha il diritto di mettere in dubbio la realtà di quello che è scritto” (Ep. LXXVIII, 1, 1; cfr. Marc. 1, 13-31). Su questo punto è nuovamente d’accordo con Sant’Agostino, il quale in modo eccellente diceva, a proposito del Vangelo: “Queste cose vere sono state scritte con tutta fedeltà e veridicità a suo riguardo, affinché chiunque crede nel suo Vangelo, sia nutrito di verità, e non sia ingannato da menzogne (San Aug., C. Faustum, XXVI, 8). – Vedete quindi, Venerabili Fratelli, con quale ardore dovete consigliare ai figli della Chiesa di fuggire questa folle libertà d’opinione, con la stessa cura che avevano i Padri. Le vostre esortazioni saranno più facilmente ascoltate se convincerete il clero e i fedeli, affidati alla vostra custodia dallo Spirito Santo, che San Gerolamo e gli altri Padri della Chiesa hanno attinto questa dottrina riguardante i Libri Sacri alla scuola stessa del Divin Maestro Gesù Cristo. Infatti, leggiamo noi forse che Nostro Signore abbia avuto una diversa concezione della Scrittura? – Le parole: “E’ scritto“, e “Bisogna che la Scrittura s’avveri” sono sulle Sue labbra un argomento senza eccezioni, tale da escludere ogni possibile controversia. Ma insistiamo con maggior agio su questa questione. Chi non sa e non ricorda come nei Suoi discorsi al popolo, sia sulla montagna prossima al lago di Genezareth, sia nella sinagoga di Nazareth e nella Sua città di Cafarnao, Gesù Nostro Signore traeva i punti principali e le prove della Sua dottrina dal testo sacro? Non è da esso che Egli attingeva armi invincibili per le discussioni con i Farisei e i Sadducei? Sia che insegni o discuta, Egli riporta affermazioni ed esempi tolti da ogni parte della Scrittura; così, ad esempio, si riferisce indistintamente a Giona, agli abitanti di Ninive, alla regina di Saba e a Salomone, a Elia e ad Eliseo, a Davide, a Noè, a Loth, agli abitanti di Sodoma e alla moglie stessa di Loth (Matth. XII, 3, 39-47; Luc. XVII, 26-29, 32, ecc.). Egli rende una grande testimonianza alla verità dei Santi Padri con la solenne dichiarazione: “Non passerà un solo iota o un solo tratto della legge, finché tutto non sia adempiuto” (Matth. V, 18); e ancora: “La Scrittura non può essere annullata” (Ioan. X, 35); perciò: “Colui che avrà violato anche il più lieve di questi comandamenti e insegnato agli uomini a fare altrettanto, sarà il più trascurabile per il regno dei Cieli” (Matth. V, 19). Prima di raggiungere il Padre Suo in Cielo, Egli volle donare questa dottrina agli Apostoli, che ben presto doveva abbandonare sulla terra: “Aprì loro gli spiriti, affinché comprendessero le Scritture, dicendo: così è scritto, e così bisognava che Cristo soffrisse e che risuscitasse da morte il terzo giorno” (Luc. XXIV, 45 e segg.). La dottrina di San Gerolamo sull’eccellenza e la verità della Scrittura è dunque, per esprimerCi brevemente, la dottrina di Cristo stesso. Perciò Noi esortiamo vivissimamente tutti i figli della Chiesa, e in particolar modo coloro che insegnano la Sacra Scrittura agli studenti ecclesiastici, a seguire senza posa la via tracciata dal Dottore di Stridone; ne risulterà certamente che essi avranno per le Scritture la sua stessa profonda stima, e che il possesso di questo tesoro procurerà loro godimenti sublimi. – Non solo i grandi vantaggi, che già abbiamo ricordato, verranno dal prendere il grande Dottore come guida e maestro, ma molti altri ancora ne scaturiranno e considerevoli: Ci piace, Venerabili Fratelli, ricordarveli sia pur brevemente. Innanzi tutto, poiché prima d’ogni altro si presenta al Nostro spirito, rileviamo l’appassionato amore per la Bibbia, testimoniato in San Gerolamo da ogni atto della sua vita e dalle sue parole, tutte infervorate dallo Spirito di Dio, amore che egli ha cercato di destare sempre più nelle anime dei fedeli: “Ama la Sacra Scrittura – sembra voler dire a tutti quando si rivolge alla vergine Demetria – e la saggezza ti amerà; amala teneramente, ed essa ti custodirà; onorala e riceverai le sue carezze. Che essa sia per te come le tue collane e i tuoi orecchini” (Ep. CXXX, 20). La lettura assidua della Scrittura, lo studio profondo e diligente di ogni libro, anzi di ogni proposizione e di ogni parola, gli hanno permesso di familiarizzarsi col Testo Sacro, più di ogni altro scrittore dell’antichità ecclesiastica. Se la Versione Vulgata, compilata dal Nostro Dottore, lascia, secondo il parere di tutti i critici imparziali, molto dietro di sé le altre versioni antiche, perché si giudica essa renda l’originale con maggior esattezza ed eleganza, ciò è dovuto alla conoscenza che San Gerolamo aveva della Bibbia, conoscenza unita in lui ad uno spirito di fine sensibilità. – Questa Versione Vulgata, che il Concilio di Trento ha deciso di considerare autentica e di seguire nell’insegnamento e nella liturgia, “essendo consacrata dal lungo uso che ne ha fatto, la Chiesa per tanti secoli“, è Nostro vivo desiderio vedere corretta e resa alla sua purezza primitiva, secondo l’antico testo dei manoscritti, se Dio nella sua infinita bontà vorrà concederCi vita sufficiente; compito arduo e grandissimo, affidato, con felice decisione, ai Benedettini dal Nostro Predecessore Pio X di santa memoria, che costituisce, Noi ne siamo sicuri, nuove fonti autorevoli per la comprensione delle Scritture. Questo amore di San Gerolamo per la Sacra Scrittura si rileva in modo del tutto particolare nelle sue lettere, si che esse sembrano una trama di citazioni tratte dai Libri Santi; così come San Bernardo trovava insignificante ogni pagina che non racchiudesse il dolcissimo nome di Gesù, San Gerolamo non gustava nessuno scritto che non splendesse della luce delle Sacre Scritture. Con tutta semplicità poteva egli scrivere in una lettera a San Paolino, un tempo brillante senatore e console, e da poco convertito alla fede di Cristo: “Se tu avessi questo terreno d’appoggio (voglio dire la scienza delle Sacre Scritture), le tue opere nulla avrebbero da perdere, ma acquisterebbero anzi una certa finitezza, e non cederebbero a nessun’altra per l’eleganza, per la scienza e per la finezza della forma… Unisci a questa dotta eloquenza il gusto o la comprensione delle Scritture, e presto ti vedrò posto nelle prime file dei nostri scrittori” (Ep. LVIII, IX, 2; XI, 2). Ma quale via e quale metodo seguire per cercare con lieta speranza di scoprire quel prezioso tesoro che il Padre Celeste ha donato ai suoi figli quale consolazione durante il loro esilio? San Gerolamo stesso ce lo indica col suo esempio. Ci esorta innanzi tutto ad intraprendere lo studio della Scrittura con accurata preparazione e con animo ben disposto. – Osserviamo lo stesso San Gerolamo, dopo che ebbe ricevuto il Battesimo: per superare tutti gli ostacoli esteriori che potevano opporsi al suo santo desiderio, imitando il personaggio del Vangelo che, dopo aver trovato un tesoro, “nella sua gioia, se ne va, vende tutto ciò che possiede ed acquista quel campo” (Matth. XIII, 44), egli dice addio ai piaceri effimeri e frivoli di questo mondo, desidera ardentemente la solitudine ed abbraccia una vita austera con tanto maggior ardore quanto più si è reso conto del pericolo che fino allora aveva corso la sua salvezza in mezzo alle seduzioni del vizio. – Superati questi ostacoli, egli doveva ancora d’altra parte disporre il suo spirito ad acquistare la scienza di Gesù Cristo e a rivestirsi di Colui che è “dolce ed umile di cuore“; aveva in realtà provato quella stessa ripugnanza che Sant’Agostino confessava di aver sofferto quando s’era accinto allo studio delle Sante Lettere. Dopo essersi dedicato durante la sua giovinezza alla lettura di Cicerone e degli altri autori profani, quando vuole rivolgere il suo spirito alla Scrittura Sacra, così si pronunzia: “Mi parve indegna d’essere paragonata alla bellezza della prosa ciceroniana. La mia enfasi aveva orrore della sua semplicità e la mia intelligenza non penetrava nel senso suo più profondo; si riesce a penetrarla sempre meglio, quanto più ci si fa piccini, ma io disdegnavo di farmi piccolo, e la boria m’ingigantiva dinanzi ai miei stessi occhi” (S. Aug. Conf. III, 5; Cfr. VIII, 12). Non altrimenti San Gerolamo, anche nella sua solitudine, gustava a tal punto la letteratura profana, che la povertà di stile delle Scritture gli impediva ancora di riconoscere in esse Cristo nella Sua umiltà. “Così – egli dice – la mia follia mi portava al punto di digiunare per leggere Cicerone. Dopo aver passato moltissime notti insonni, dopo aver versato molte lagrime. che il ricordo delle colpe passate faceva scaturire dal fondo del mio cuore, prendevo in mano Plauto. E quando, ritornato in me stesso, intraprendevo la lettura dei Profeti, il loro barbaro stile mi inorridiva, e quando i miei occhi ciechi restavano chiusi alla luce, io non accusavo di ciò gli stessi miei occhi, ma il sole” (Ep. XXII, XXX, 2). Ma ben presto amò con tale ardore la follia della Croce, da rimanere la prova vivente di quanto un animo umile e pio contribuisca alla comprensione della Bibbia. – Cosciente, come egli era, che “nell’interpretazione della Sacra Scrittura noi abbiamo sempre bisogno del soccorso dello Spirito Santo” (Mich. 1, 10, 15) e che per la lettura e la comprensione dei Libri Santi dobbiamo attenerci “al senso che lo Spirito Santo intendeva avere al momento in cui furono scritti” (Gal. V, 19 e segg.), questo santissimo uomo invocava con le sue suppliche, rafforzate dalle preghiere dei suoi amici, il soccorso di Dio e il lume dello Spirito Santo. Si racconta anche che, iniziando i commentari dei Libri Santi, egli volle raccomandarli alla grazia di Dio e alle preghiere dei confratelli, alle quali attribuì il successo, dopo che l’opera fu compiuta. – Oltre che alla grazia divina, egli si rimette all’autorità della tradizione così pienamente da affermare di aver appreso “tutto quello che non sapeva, non da lui stesso, cioè alla scuola di quel cattivo maestro che è l’orgoglio, ma dagli illustri Dottori della Chiesa” (Ep. CVIII, XXVI, 2). Confessa infatti “di non essersi mai fidato delle proprie forze per ciò che concerne la Sacra Scrittura” (Ad Domnionem et Rogatìanum in I. Par. Prefaz.), e in una lettera a Teofilo, Vescovo d’Alessandria, egli cosi formula la regola secondo la quale aveva ordinato la sua vita e le sue sante fatiche: “Sappi dunque che nulla ci sta più a cuore che salvaguardare i diritti del Cristianesimo, non cambiar nulla al linguaggio dei Padri e non perdere mai di vista questa Romana fede, di cui l’Apostolo fece l’elogio” (Ep. LXIII, 2). E alla Chiesa, sovrana padrona nella persona dei Pontefici Romani, Gerolamo si sottomette con tutto il suo spirito di devozione. – Dal deserto di Siria, ove era esposto alle fazioni degli eretici, in questi termini scrive a Papa Damaso, volendo sottoporre alla Santa Sede, perché la risolvesse, la controversia degli Orientali sul mistero della Santissima Trinità: “Ho creduto bene di consultare la Cattedra di San Pietro e la fede glorificata dalla parola dell’Apostolo, per chiedere oggi il nutrimento all’anima mia, laddove un tempo ho ricevuto i paramenti di Cristo. Poiché voglio che Egli sia per me unica guida, mi tengo in stretto legame con la Tua Beatitudine, cioè con la Cattedra di San Pietro. Io so che su questa pietra è edificata la Chiesa… Decidete, ve ne prego; se così stabilite non esiterò ad ammettere tre ipostasi; se voi l’ordinate, io accetterò che una nuova fede sostituisca quella di Nicea e che noi, ortodossi, ci serviamo delle stesse formule che usano gli ariani” (Ep. XV, I, 2, 4). Infine, nell’epistola seguente, egli rinnova questa notevolissima confessione della sua fede: “Nell’attesa, grido a tutti i venti: Io sono con chiunque sia unito alla Cattedra di San Pietro” (Ep. XVI, 11, 2). Sempre fedele, nello studio della Scrittura, a questa regola di fede, egli si valse di questo solo argomento per confutare un’interpretazione falsa del Testo Sacro: “Ma la Chiesa di Dio non ammette affatto questa opinione” (Dan. III, 37), e con queste sole parole rifiuta un libro apocrifo, contro di lui sostenuto dall’eretico Vigilanzio: “Questo libro non l’ho mai letto. Che bisogno dunque abbiamo di ricorrere a ciò che la Chiesa non riconosce?” (Adv. Vigil. 6). Uno zelo così ardente nel salvaguardare l’integrità della fede, lo trascinava in polemiche molto dibattute contro i figli ribelli della Chiesa, che egli considerava come nemici personali: “Mi basterà di rispondere che non ho mai risparmiato gli eretici e che ho impiegato tutto il mio zelo per fare dei nemici della Chiesa i miei personali nemici” (Dial. c. Pelag., Prolog., 2); e in una lettera a Rufino così scrive: “Vi è un punto sul quale non potrò essere d’accordo con te: risparmiare gli eretici e non mostrarmi cattolico” (Contra Ruf., III, 43). Tuttavia, rattristato per la loro defezione, li supplicava di ritornare alla loro Madre addolorata, fonte unica di salvezza (Mich. I, 10 e segg.), e in favore di coloro che erano usciti dalla Chiesa e avevano abbandonato la dottrina dello Spirito Santo “per seguire il proprio criterio“, invocava con tutto il cuore la grazia che ritornassero a Dio (Is. l. VI, cap. XVI, 1-5).
[1. Continua.]