DOMENICA IV DOPO L’EPIFANIA (2022)

Domenica IV dopo l’EPIFANIA (2022)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Il Vangelo è tratto dallo stesso capo del Santo Vangelo della terza Domenica dopo l’Epifania. È il racconto di un nuovo miracolo. Gesù manifesta la sua divinità comandando ad elementi potenti ed indocili come le acque sconvolte ed i venti scatenati. E « l’Evangelista fa risaltare l’importanza del prodigio, opponendo alla grande agitazione delle onde », « la grande calma che ne segue » (Vang.). Ma è nella Chiesa che si esercita la regalità divina di Gesù; così i Padri hanno visto nei venti che soffiano in tempesta un simbolo dei demoni di cui l’orgoglio suscita le persecuzioni contro i Santi, e nel mare tumultuoso le passioni e la malvagità degli uomini; cause delle trasgressioni ai comandamenti e delle lotte fraterne. Nella Chiesa, al contrario, regna la gran legge della carità perché, se i tre primi precetti del Decalogo ci impongono l’amore di Dio, altri sette ci impongono, come conseguenza logica, l’amore del prossimo (Ep.). Dio infatti è nel prossimo perché, mediante la grazia siamo in certo modo il complemento del corpo di Cristo. È questo il mistero dell’Epifania. Gesù si rivela Figlio di Dio e tutti quelli che riconoscendolo tale, lo riconoscono loro Capo, divengono membri del suo Corpo mistico. Formando tutti un solo corpo nel Cristo, i Cristiani devono anche amarsi reciprocamente. Questa barca, dice S. Agostino, rappresenta la Chiesa la quale manifesta nei secoli la divinità di Cristo. È infatti alla protezione del Salvatore che Essa deve « malgrado la sua fragilità » (Or. Sec), se non è inghiottita in mezzo a tanti pericoli che la minacciano (Or.). Gesù, dice S. Giov. Crisostomo, sembra che dorma per costringerci a ricorrere a Lui, e salva sempre quelli che lo invocano.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCVI:7-8 Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae.

[Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda.]

Ps XCVI:1 Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.

[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Orémus

. Deus, qui nos, in tantis perículis constitútos, pro humána scis fragilitáte non posse subsístere: da nobis salútem mentis et córporis; ut ea, quæ pro peccátis nostris pátimur, te adjuvánte vincámus.

[O Dio, che sai come noi, per l’umana fragilità, non possiamo sussistere fra tanti pericoli, concédici la salute dell’anima e del corpo, affinché, col tuo aiuto, superiamo quanto ci tocca patire per i nostri peccati.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom XIII: 8-10

Fratres: Némini quidquam debeátis, nisi ut ínvicem diligátis: qui enim díligit próximum, legem implévit. Nam: Non adulterábis, Non occídes, Non furáberis, Non falsum testimónium dices, Non concupísces: et si quod est áliud mandátum, in hoc verbo instaurátur: Díliges próximum tuum sicut teípsum. Diléctio próximi malum non operátur. Plenitúdo ergo legis est diléctio.

[Lettura della Lettera del B. Paolo Ap. ai Romani. Rom XIII:8-10 – Fratelli: Non abbiate con alcuno altro debito che quello dell’amore reciproco: poiché chi ama il prossimo ha adempiuta la legge. Infatti: non commettere adulterio, non ammazzare, non rubare, non dire falsa testimonianza, non desiderare, e qualunque altro comandamento, si riassumono in questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. L’amore del prossimo non fa alcun male. Dunque l’amore è il compimento della legge.]

L’Apostolo aveva esortato i Fedeli di Roma ad obbedire ai principi della terra, a pagar loro il tributo, e rendere a ciascuno tutto quanto gli si deve: perciò conclude così: non vi resti altro debito con nessuno, se non quello dell’amore che ci dobbiamo sempre gli uni agli altri: La carità è un debito perpetuo, che il vero Cristiano paga sempre, né se ne affranca mai. Non vi è nessuno dei nostri fratelli che noi non dobbiamo amare; nessuno che non dobbiamo amar sempre. Può alcuno rendersi indegno della mia affezione per i suoi portamenti sregolati, viziosi, da ingrato, anche scandalosi, ma non potrebbe liberarmi dall’obbligo di amarlo: posso io disapprovare i fatti suoi, condannarne i mali costumi, ma non sono meno obbligato d’amare la sua persona. È un dovere di religione, da cui nulla può dispensarmi; è un comandamento eguale a quello di amare Dio, così positivo, così determinato, così permanente e così fermo.

Aspirazione. O divino Gesù, versate in cuore a noi lo spirito dì carità, sicché, la vostra grazia facendoci camminare sulle vostre orme, noi adempiamo fedelmente il precetto dell’amore del prossimo.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Graduale

Ps CI:16-17 Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.

[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua. Allelúja, allelúja.

[Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XCVI:1 Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ. Allelúja.

[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.

Matt VIII:23-27

“In illo témpore: Ascendénte Jesu in navículam, secúti sunt eum discípuli ejus: et ecce, motus magnus factus est in mari, ita ut navícula operirétur flúctibus, ipse vero dormiébat. Et accessérunt ad eum discípuli ejus, et suscitavérunt eum, dicéntes: Dómine, salva nos, perímus. Et dicit eis Jesus: Quid tímidi estis, módicæ fídei? Tunc surgens, imperávit ventis et mari, et facta est tranquíllitas magna. Porro hómines miráti sunt, dicéntes: Qualis est hic, quia venti et mare oboediunt ei?”

[In quel tempo: Gesù montò in barca, seguito dai suoi discepoli: ed ecco che una grande tempesta si levò sul mare, tanto che la barca era quasi sommersa dai flutti. Gesù intanto dormiva. Gli si accostarono i suoi discepoli e lo svegliarono, dicendogli: Signore, salvaci, siamo perduti. E Gesù rispose: Perché temete, o uomini di poca fede? Allora, alzatosi, comandò ai venti e al mare, e si fece gran bonaccia. Onde gli uomini ne furono ammirati e dicevano: Chi è costui al quale obbediscono i venti e il mare?]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA TRIBOLAZIONE

Giù dalle colline di Tiberiade e di Magdala precipitò improvviso un colpo di vento che si rovesciò sul lago. Corse un fremito per tutto lo specchio dell’acqua; una povera barca sorpresa remeggiava disperatamente per raggiungere la sponda. Il primo colpo di vento fu ben presto seguito da un secondo, da un terzo, e l’uragano diventò spaventoso. Pochi minuti prima; com’era delizioso il lago di Genezareth! L’ora del tramonto, la quiete dei colli in giro, la. frescura vespertina e non so quale profumo di purezza e di poesia riempivano l’anima di un vago benessere. E Gesù s’era messo in barca con gli Apostoli e poi s’era sdraiato appoggiando il capo sul cuscino dei rematori: la stanchezza d’una giornata operosa, il ritmico batter dei remi gli conciliarono il sonno e s’addormentò. E dormiva anche allora che la selvaggia tempesta mugghiava, e la notte era discesa a far più terribile quell’ora. Ad un tratto la barca, trascinata in un vortice, fece acqua da tutte le parti: i discepoli, per quanto avvezzi al mare, presi dallo spavento si gettarono sul Maestro scotendolo dal sonno, « Signore! salvaci che affondiamo ». Gesù rispose: « Gente di poca fede, di che avete paura? ». Senza turbarsi, si levò nel vento e nell’oscurità della burrasca, e disse: « Placati! ». E fu la bonaccia. – La vita è come un mare che dobbiamo attraversare su d’una fragile barchetta per raggiungere, all’altra sponda, il nostro eterno destino. Ma più spesso che sul mare, intorno a noi si scatena la tempesta delle tribolazioni e cerca di sommergerci. Ci sono delle ore in cui viene spontaneo il grido disperato dell’Idumeo: « Maledetto il giorno in cui si disse: è nato un uomo ». Ci sono delle ore così fosche che la fede nella Provvidenza vacilla e s’odono Cristiani, e perfino delle buone mamme di famiglia, bestemmiare contro la giustizia di Dio, negarne l’esistenza, buttarsi in preda alla disperazione. « Che cosa ho fatto di male? Dio è ingiusto. — Meglio fare il Barabba che si è più fortunati. — Se Dio è buono perché non m’aiuta? — Oh, se ci fosse davvero questo Dio… ». Non le avrete forse pronunciate anche voi, nella vostra vita, queste bestemmie? Modicæ fidei! gente di poca fede. – Per trovare la forza di sopportare le tribolazioni bisogna aver tanta e viva fede, poiché la fede ci persuade di due cose: la tribolazione viene da Dio, la tribolazione riconduce a Dio. LA TRIBOLAZIONE VIENE DA DIO. Non si parla mai di tribolazione senza ricorrere all’antico esempio di Giobbe. Come mai questo patriarca, che pur era un uomo come noi, seppe portare santissima pazienza e rassegnazione fra tutte le sciagure che l’opprimevano? Un giorno gli arriva in casa, trafelatissimo, un servo e gli dice: «I Sabei hanno rapito i buoi che aravano e gli asini che pasturavano; hanno passato a fil di spada i tuoi servi: io solo sfuggii per miracolo ». Parlava ancora costui che ne arrivò un altro: « Un fulmine ha incendiato il tuo ovile con tutte le pecore e con tutti i servi: io solo sono qui per miracolo ». Non aveva ancora finito che ne sopraggiunge un terzo: « Mentre i tuoi figli e le tue figlie banchettavano in casa del loro fratello maggiore, il vento ha rovesciato la casa seppellendoli sotto: io solo fui salvo, per miracolo ». Allora Giobbe stracciò il suo mantello, si prostrò a terra, adorò il Signore e disse: « Nudo son nato e nudo morrò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia benedetto il Signore » (Iob., 1,21); il Signore! dunque non i Sabei, non il fulmine, non il vento, ma Dio gli mandava i dolori. E quando perderà la salute, che perfin la moglie lo deriderà per la sua fiducia nella Provvidenza, egli saprà risponderle: « Tu parli come una donna stolta. Come dalle mani di Dio riceviamo volentieri le consolazioni, così dalle mani di Dio dobbiamo ricevere volentieri anche le tribolazioni ». Ecco il segreto che diede forza a Giobbe, che può dar forza anche a noi: ogni tribolazione vien da Dio, e dalle mani di Dio tutto si deve prendere volentieri perché è nostro padrone ed è nostro padre. Dio è Padrone: di noi, dei nostri cari, dei nostri beni; ed il padrone delle sue cose può far ciò che vuole, darne a noi o togliercele; donarci la salute e privarcene; metterci a fianco una persona amata e riprenderla quando a lui piace. Noi, sue povere creature, dobbiamo dire sempre: sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. – Dio è Padre: che ci ama, che vuole il nostro bene anche quando ci tormenta e ci fa piangere. Ho assistito una volta ad una vaccinazione di bambini. Le mamme stesse li portavano: ma i piccoli strillavano, sferravano i piedini come per fuggire dalle braccia materne, graffiavano, piangevano: « Mamma, cattiva cattiva ». Ma le mamme non si lasciavano commuovere e denudavano le braccine rosee e le sottoponevano alla lancetta pungente del dottore, perché le scalfisse fino al sangue. Così Dio fa con noi: ci sottopone alla vaccinazione del dolore, perché sa che è necessaria per scampare dalla malattia del peccato. Sotto l’angoscia noi, come un bambino che non capisce ancora, ci rivoltiamo contro Lui quasi a graffiarlo, ma il Signore che, come una mamma, vede più in là di quel che possiamo veder noi, non si lascia commuovere. Noi, quando entreremo in Paradiso e conosceremo ogni cosa, esclameremo: « Benedetta la severità di Dio! ». – Gesù Cristo, fratello nostro maggiore, ha sopportato tribolazioni infinite: la fatica, il disprezzo, la calunnia, il tradimento, la flagellazione, gli sputi negli occhi, la croce. Chi l’ha sostenuto nell’atroce martirio? Chi gli ha dato animo a bere l’amarissimo calice fino alla feccia? Il pensiero che quel calice glielo dava da bere suo Padre Iddio. Calicem quem dat mihi pater non bibam? – LA TRIBOLAZIONE CI RITORNA A DIO. Manasse, salito al trono di Giuda a dodici anni, corteggiato ed onorato da un popolo, nell’abbondanza dei favori divini, fece il male in cospetto al Signore. Alzò altari a Baal, piantò boschetti per gli idoli, riedificò le statue del demonio distrutte già da Ezechia, suo padre. Giunse perfino a mettere sulle braccia infocate di Moloch un suo figlio, e a lasciarlo bruciare in sacrificio al mostro. Il Signore allora suscitò gli Assiri che invasero il regno dell’empio re. Manasse, colto d’improvviso, fu vinto, preso, legato, trascinato a Babilonia. Nell’esilio obbrobrioso, il re prigioniero, solo e disprezzato, s’accorse che la mano di Dio gravava sopra il suo capo. Allora soltanto si ricordò del Signore, e si rivolse a Lui e lo scongiurò ad usargli misericordia. Postquam coangustatus est, oravit ad Dominum Deum suum. (II Par., XXXIII, 12). Così è di noi pure: quando siamo fortunati, quando la salute è buona e gli affari vanno bene, ci dimentichiamo di Dio come di una cosa inutile; e spesso calpestiamo la sua legge e viviamo lontani da Lui che ci ha creati. Ci vogliono le tribolazioni per aprirci gli occhi, per ricondurci a Dio. Non fu così, e sempre, anche del popolo di Israele? Quando Dio lo colmava di favori, il popolo cadeva nell’idolatria: incrassatus, impinguatus dereliquit Deum Factorem suum (Deut. XXXI, 15). Ma poiché il Signore riempì di tribolazione e di morte il suo cammino, ritornò a rifugiarsi nel suo Dio.Talvolta Iddio manda la tribolazione ad innocenti bambini, a uomini vissuti sempre nella giustizia; allora essa è una prova che Dio manda per accrescere i meriti dei suoi amici. Dio è come un padrone che fa lavorare molto quelli che vuol compensare molto.La tribolazione può essere anche un purgatorio terreno, col quale Iddio purifica le anime elette da ogni ombra di colpa, per riserbare ad essi nient’altro che gioia e premio; mentre la prosperità degli empi è un piccolo premio del poco bene che han fatto quaggiù, e dopo morte non avranno che dolore e castigo. – Dopo il martirio di S. Stefano, scoppiò in Palestina una persecuzione contro i Cristiani. Lazzaro, il resuscitato, le sorelle Maria Maddalena e Marta, avevano venduto la loro casa e i loro beni per beneficare i poveri e giravano di paese in paese predicando il Vangelo del Signore. Ben presto furono presi e imprigionati e poiché essi non volevano desistere dal predicare, e d’altra parte i Giudei non sapevano come farli tacere, li misero, legati, sopra una barcaccia vecchia e sconnessa e con loro posero anche Cedonio, il cieco nato guarito da Gesù; e poi li tirarono in alto mare. E là, smarriti sulle acque, legati nella barca che cigolava per ogni connessura, senza remi e senza vela, li abbandonarono alla mercé delle onde. Vennero le tenebre, soffiarono i venti, muggirono le procelle, ma sulla barca vi erano dei sinceri Cristiani che avevano in cuore una fede, e non perirono. Un mattino nel golfo di Marsiglia entrava una vecchia barcaccia, senza vela e senza remo. I curiosi che accorsero, videro legate in essa alcune persone preganti, con la serenità negli occhi e sulla fronte. Tirarono a secco la barca ed estrassero i prigionieri, Lazzaro, il risuscitato, le sorelle Maria e Marta, Cedonio, il cieco nato che riebbe la vista. Appena toccarono terra elevarono al cielo le mani e gridarono: « Gesù! ». Cristiani, quand’anche noi in qualche giorno della vita ci trovassimo come in un alto mare di tribolazioni, senza vela e senza remo, non perdiamoci di fede. Quella fede che ci fa conoscere come il dolore viene da Dio per ricondurci a Dio sarà la nostra forza, la nostra rassegnazione, la pazienza nostra fin che non entreremo nel porto del regno del cielo. Allora, toccando quella gioia senza confine, proromperemo in un grido di riconoscenza e d’amore: « Gesù! ».

– GESÙ E LE TEMPESTE DELLA CHIESA. La barca del lago di Genezareth, montata da Gesù e dai suoi primi discepoli, guidata da Pietro, rappresenta bene la Chiesa che ha ricevuto la missione divina di raccogliere nel suo grembo le anime, di condurle dalla riva della terra alla beata riva del cielo, senza lasciarle naufragare nei flutti ringhiosi e minacciosi provocati dalle passioni, « venti contrari alla vita serena ». Appena la navicella della Chiesa fu allestita e i primi passeggeri furono a bordo, già una furiosa tempesta l’assaliva. Era la collera dei Giudei che, illusi d’aver soffocato il Cristianesimo, avendo crocifisso il Cristo, non potevano sopportare di vederlo crescere ed espandersi sotto i loro occhi. S. Giovanni e S. Pietro furono imprigionati, S. Giacomo ucciso, Santo Stefano lapidato. A pochi passi dalla riva, la nave della Chiesa già pareva dovesse venir travolta. Ma Gesù si svegliò e fece un segno: Giovanni e Pietro evasero dalla prigione, dal sangue di Giacomo e Stefano germogliarono innumerevoli Cristiani. Paolo si convertì. Intanto da Roma giungevano le legioni imperiali a distruggere nel fuoco e nel sangue la nazione giudaica. E la barca della Chiesa prendeva il largo e continuava il suo cammino. Ed ecco una seconda tempesta, assai più violenta e lunga. Quella Roma che aveva rovesciato tutti i troni e i regni del mondo, aveva giurato di sommergere anche la barca di Pietro. Per tre secoli la Chiesa fu combattuta come la peggior nemica dell’Impero Romano; per tre secoli fu sparso il sangue dei Cristiani. Ma Gesù si risvegliò e fece un segno; allora l’imperatore Giuliano vinto e moribondo sul deserto orientale si strappa le bende e lancia in alto una manata di sangue, confessando la propria sconfitta. « Galileo, hai vinto tu! »; allora l’imperatore Costantino a Roma vede nel cielo sfolgorante la croce col motto: « Con questo segno vincerai », e proclama la libertà della Religione Cristiana. Intanto dalle nebbie e dalle selve nordiche discendono le orde barbariche a punire l’orgoglio romano. E la Chiesa? prende il largo sempre più, e procede per il suo cammino provvidenziale. L’islamismo sollevò un’altra paurosa procella contro la Chiesa, e s’avanzava per terra e per mare, minacciando di travolgere tutta la civiltà cristiana. Ma Gesù sì risvegliò e fece un segno: a quel segno l’Europa tutta si raduna e si precipita contro il colosso maomettano, l’arresta, l’infrange. Sulle acque di Lepanto la barca di Pietro passava vittoriosa, verso nuove conquiste. E già c’era sull’orizzonte una nuova bufera. Lutero, Calvino, Zuinglio avevano strappato dall’unità della fede popoli interi, bruciando chiese, devastando monasteri, insultando e massacrando preti e religiosi. La Germania; l’Inghilterra, la Svezia, la Danimarca, si levano contro la Chiesa. Ma Gesù si sveglia e fa un segno: ecco numerosi Santi rinnovarono lo spirito della carità e della verità; ecco un Concilio, il più grande di quanti ve ne furono, si raduna a Trento, condanna l’errore, definisce nettamente la verità e la morale religiosa. Intanto da Roma partono drappelli di missionari per l’Asia e l’America a conquistare nuove provincie all’impero dell’Amore, e la barca di Pietro si riempie di nuovi passeggeri, più numerosi dei disertori, prosegue la traversata dei secoli, sicura e possente. Ed ecco, poco più di duecento anni or sono, una filosofia incredula e una sanguinosa rivoluzione assaltare di nuovo la Chiesa con scaltrezza, disprezzo, calunnie, lenze inimmaginabili. E poi ecco un Cesare, Napoleone, novello arbitro del mondo, che sogna d’incatenare Pietro e la Chiesa e di avvinghiarli al carro del suo trionfo. Gesù si sveglia: Napoleone muore sull’isolotto di S. Elena e pensa al Dio invincibile davanti al quale aveva osato misurarsi, folle d’orgoglio; e il Papa a Roma guida di nuovo la barca della salvezza ai porti predestinati. Oggi ancora la Chiesa di Dio è assalita da ogni parte, in ogni maniera. Il Santo Padre, vecchio e dolente, leva il suo fievole gemito che fa tremare i cuori di tutti gli uomini. « Dagli estremi confini dell’Oriente sino all’ultimo Occidente — dice il Papa — giunge a noi il grido dei popoli, in cui Re e Governi veramente hanno congiurato insieme contro il Signore e contro la sua Chiesa. Vedemmo calpestati i diritti divini ed umani, i templi distrutti dalle fondamenta, religiosi e le sacre vergini scacciate dalle loro case, imprigionati, affamati, afflitti da obbrobriose sevizie; le schiere dei fanciulli e delle fanciulle strappate al grembo della Madre Chiesa, spinte a negare e a bestemmiare Cristo, e condotte ai peggiori delitti della lussuria; tutto il popolo cristiano minacciato, oppresso, in continuo pericolo di apostasia della Fede e di morte anche la più atroce ». (Da un discorso di Pio XI). – Quando si sveglierà Gesù? Noi non sappiamo né quando, né come Gesù si sveglierà. Forse tra poco e forse ancora fra molto. Questo è certo: che si sveglierà e le porte dell’inferno non prevarranno. In questa fermissima certezza noi gemiamo nella speranza, attendiamo, nella rassegnazione il giorno della vittoria e dell’amore. – GESÙ E LE TEMPESTE DELL’ANIMA. La vita dell’uomo è ben simile alla traversata, più o meno lunga, d’un lago: ogni momento ci stacchiamo remando da questa riva del tempo e ci avviciniamo alla sponda dell’eternità. Questa navigazione da principio è calma e felice come fu per gli Apostoli sul lago di Genezareth. In realtà gli anni della fanciullezza sono pieni di dolci sogni popolati da immagini soavi e gioconde. La terra è un paradiso terrestre per l’ingenuo fanciullo, a cui ogni cosa par nuova e bella, ed ogni giorno porta una promessa. I venti delle passioni e i marosi delle preoccupazioni dormono ancora, e le acque della vita scintillano tranquille e serene. Ma vien poi la giovinezza con i tumulti interiori, con i desideri violenti; viene la virilità con gli sconforti e crucci. Dal lago del cuore, che nella fanciullezza innocente pareva un limpido specchio, sono balzati rapidi venti, le onde grosse e minacciose: l’anima sbigottita si è trovata impotente di fronte a tanta forza avversa, si è sentita rapita verso l’abisso. Chi nella sua giovinezza non ha tremato per queste tempeste? Chi non fa tuttora la dura esperienza delle tentazioni e delle tribolazioni? E forse un giorno, l’anima s’è dimenticata di svegliare Gesù, e s’è lasciata trasportare da un furiosa ventata fuori della barca. Può darsi che siano anni e anni e molte anime naufragano in balìa delle passioni, senza più nessuna forza di resistenza, senza più nessuna speranza. Nel loro cuore il Gesù dell’infanzia felice, il che sulle ginocchia della madre hanno pregato, che hanno visto nei puri sogni a fanciullezza, che hanno atteso nella notte santa del Natale trattenendo il respiro nella speranza che si lasciasse scorgere nel deporre i doni, quel Gesù è sepolto in un sonno profondo che pare di morte. Sarà possibile risvegliarlo ancora dopo tant’anni? E se non sì risvegliasse più, che sarebbe ormai la vita? un naufragio. Non so dove l’abbia letto, ma in mente mi sta un racconto assai significativo. Quando i briganti Cinesi invasero il villaggio di Fiordaprile, il missionario dovette fuggire, ed ogni segno di religione fu cancellato. Anche la chiesetta fu ridotta ad abitazione del capo dei briganti. Dopo decine d’anni quel villaggio era ritornato pagano e più nessuno aveva memoria della santa Religione cristiana. Solo era rimasta una strana costumanza, che i padri insegnavano ai figli, e si tramandava di generazione in generazione. Passando davanti a un fianco di quella che era stata una chiesa, tutti si fermavano un istante, inchinavano rispettosamente la testa, e poi proseguivano; ma nessuno sapeva dare spiegazione. Un giorno passò nel villaggio di Fiordaprile un nuovo missionario e intuì in un fabbricato, nonostante le deformazioni, le linee d’una chiesa cristiana; e fece scrostare cautamente la calce da quel punto del muro verso il quale tutti solevano inchinarsi. Apparve la figura di Gesù sorridente, con le braccia aperte all’amplesso. – Cristiani, se le passioni come briganti selvaggi hanno invaso il villaggio dell’anima vostra, se il peccato ha detronizzato Iddio, ha cancellato ogni santo segno, non di meno voi non avete cessato dal rendere omaggio, tratto tratto almeno, alla Religione della vostra fanciullezza. Era un desiderio in certi momenti più forte di ogni cupidigia, era un’aspirazione insoffocata del cuore che a volte tornava a galla. Come il missionario della terra cinese, io scopro oggi in tante anime naufragate nella loro coscienza le linee del tempio di Dio, i segni sommersi del loro Battesimo. Raccoglietevi, Cristiani, scrostate con un buon esame di coscienza, con una santa confessione la calce del peccato e delle abitudini cattive. Riapparirà Gesù sorridente con le braccia aperte all’amplesso. Da troppo tempo Egli dorme, sommerso nelle profonde dimenticanze del vostro cuore; risvegliatelo coi gridi di una preghiera veemente e fiduciosa. Se Egli si sveglia, sarete salvi dalla tempesta. Nel Vangelo, si legge di alcune barche che seguivano sul lago quella di Gesù: Et aliæ naves erant cum illo (Mc., IV, 36). Di esse che è avvenuto? Non si sa. Fin che il lago restò in bonaccia esse, probabilmente, seguirono Gesù; ma al primo discatenarsi dei venti l’abbandonarono. C’è da temere che siano state travolte. Con Gesù si teme e si soffre per la tempesta, ma alla fine c’è salvezza e felicità. Quelli che per timore dei sacrifici al momento della tentazione o della tribolazione scappano indietro verso la riva del piacere trovano la morte e l’infelicità eterna. – Si dice che durante i temporali, S. Tommaso si rifugiasse in chiesa e si tenesse abbracciato al tabernacolo. Fuori il vento selvaggio ululava, la grandine crepitava sui tetti e contro i vetri, tra lampo e lampo rombavano paurosamente i tuoni. Ma egli stava sereno e sicuro: era con Gesù. Non altrimenti dobbiamo fare noi, o Cristiani, quando nel cielo della vita passano le burrasche: bisogna stringersi a Gesù. Egli non può perire, perciò tutti quelli che a Lui s’attaccano saranno salvi. Questo è il principale insegnamento che dobbiamo ricavare dal Vangelo che oggi leggiamo.  La navicella fragile è il simbolo dell’anima nostra che naviga sull’acque della vita; talvolta le tentazioni con una rabbia violenta sollevano la burrasca intorno ad essa, minacciandola di sprofondarla nel peccato. Guai se in quegli istanti non s’aggrappa a Gesù! Navicella fragile è anche la nostra famiglia che naviga sui flutti degli anni e delle vicende umane: ma talvolta le tribolazioni con soffocante assiduità sollevano la burrasca e cercano di sprofondarla nella disperazione. Guai se in certe ore di dolore e di lacrime amare non si avesse la fede in Gesù. Navicella fragile che porta Pietro e gli Apostoli è specialmente la Chiesa Cattolica; ma talvolta le persecuzioni, con diabolica perfidia, sollevano la burrasca per travolgerla, e sconquassarla se fosse possibile. Una volta fu la burrasca di sangue, poi quella delle eresie, oggi è quella dell’immoralità e del materialismo ateo. Guai se tutti i giorni Gesù non fosse con Essa! Ecco, dunque, tre pensieri da meditare: tre tempeste. Tempesta nell’anima: la tentazione. Tempesta nella famiglia: la tribolazione. Tempesta nella Chiesa: la persecuzione. – Ma noi accontentiamoci di indugiare sulle prime due. LA TENTAZIONE. Questa procella minacciosa per la nostra salvezza può essere agitata dal demonio, dalla carne, dal mondo. – Il demonio. Molti non ci credono più e lo dicono una fandonia dei nostri vecchi, ma non sanno quegl’infelici che l’ultima astuzia del demonio è quella di farsi credere morto. Raccontano che nell’Africa ci sono degli orsi che vanno alla caccia delle scimmie; ma queste, assai più snelle, come vedono le irsute fiere avanzarsi, si rifugiano sulla cima degli alberi. L’orso impotente, che fa allora? Distende la sua massa carnosa sotto la pianta e fa il morto. Ma appena le improvvide scimmie discendono al basso, di scatto si rizza, le azzanna, le sbrana. Io non so se gli orsi fan proprio così, ma son certo che proprio così fa il demonio a divorare le anime. E quelle che di lui non hanno più paura, e non temono di annegare nella burrasca delle sue tentazioni, credetelo, sono già sua preda sicura. Il demonio odia Iddio che per lui ha creato l’inferno, ma contro Dio nulla può fare. Odia gli uomini che, inferiori a lui per natura, potranno un giorno entrare in quel Paradiso da cui fu scacciato: ma contro di essi egli può molto, e se l’ascoltano, quando mette in mente laide fantasie e dubbi e bestemmie, può rovinarli per sempre. Non temiamo: alle tempeste del demonio ci salveremo sempre se con giaculatorie e preghiere desteremo Gesù che dorme sulla fragile navicella dell’anima nostra. Guardate il figliuolo di Tobia: in cammino verso un paese lontano, era entrato nel Tigri a lavarsi i piedi. Quando ecco un mostro discendere lungo la corrente per avventarsi contro lui e divorarlo. « Signore! — invocò il giovane — salvami, che mi viene addosso ». Bastò questo grido a salvarlo. Basta anche una giaculatoria, se detta con fede e amore, a salvarci dal nemico che come mostro discende contro di noi per divorarci: Resistite fortes in fide! – La carne. Dopo il peccatore originale la nostra carne cerca di ribellarsi al nostro spirito. E come un’acqua in tempesta, così essa si solleva a ondate contro di noi; e vuol soddisfare ai piaceri della gola fino a sentirsi male; e vuol soddisfare alla quiete floscia della pigrizia fino a trascurare il dovere; e vuol soddisfare alla bassa sensualità fino ai peccati più nefandi. Per salvarci dalla tempesta della nostra carne bisogna risvegliare Gesù con la mortificazione. Mortificare la gola con qualche rinuncia volontaria, col fuggire l’intemperanza, l’ubriachezza. Mortificare la pigrizia con alzarsi presto alla mattina per venire ogni giorno, se è possibile, alla Messa, con vincere il sonno alla sera per recitare devotamente il rosario e le preghiere. Mortificare soprattutto la passione impura. – Il mondo. Il demonio è un gran nemico, ma il mondo è più terribile ancora. Il mondo è tutto in malignità (I Giov., V, 19). Il mondo è un mare d’impudicizia ove annegano e l’anime e i corpi. È un mare più spaventoso di quello in cui una volta perì Faraone, sepolto nei flutti con tutta l’armata. Gesù per tutti ha pregato, per gli amici e per i nemici, perfino per i suoi crocifissori; solo per uno ha negato la sua preghiera: per il mondo. Non pro mundo rogo (Giov., XVII, 9). Ed il mondo ha mille mezzi per sommergere nella sua onda limacciosa la navicella dell’anima nostra. Ha le compagnie cattive, più maligne del demonio, perché non si possono mettere in fuga con le giaculatorie; ha i libri e le illustrazioni immorali che non arrossiscono nel dipingere le scene più corrotte; ha i divertimenti, i balli, i ritrovi… Chi vuole scampare dal naufragio, deve fuggire il mondo per accorrere a Gesù. E Gesù dorme nel silenzio della Chiesa, nella pace della nostra casa. Fortunati quelli che conoscono soltanto la strada della casa. e della Chiesa! – LA TRIBOLAZIONE. Ecco un’altra specie di tempesta che frequentemente solleva i suoi marosi in giro alla nostra famiglia, e ci fa tremare e ci fa piangere. Ora è la malattia, ora è la morte che si porta via le persone più care; or sono gli affari imbrogliati, ora è la miseria; talvolta sono le calunnie, il disonore, l’odio. Ricordiamo innanzi tutto che la tribolazione viene da Dio. Un servo si lamentava col suo padrone di essere dimenticato, di essere mal ricompensato, di essere mal tratatto. Il padrone ascoltò tutto in silenzio, e poi gli rispose: « Senti, cosa vuoi di più? Ti ho sempre trattato come il mio figliuolo, anzi meglio in certe occasioni, e ti lamenti? con qual coraggio? ». Davvero che a tante donne, a tanti Cristiani che imprecano la Provvidenza, Iddio potrebbe rispondere con le parole di quel padrone: « Senti, cosa vuoi di più? Ti ho sempre trattato come il mio Figliuolo Gesù Cristo, anzi meglio: a te non ho dato la corona di spine, non ho dato la flagellazione, la morte di croce. Tu sei più ricco di Lui che non aveva un sasso per dormire, tu sei più onorato di Lui ché non ti hanno ancora chiamato rivoluzionario e non ti hanno ancora sputato negli occhi. Che cosa vuoi di più? ». Ricordiamo anche che la tribolazione è per nostro bene. S. Ambrogio, sorpreso dalla notte cadente sul suo cammino; bussò ad una porta, chiedendo ospitalità. Fu accolto; discorrendo col capo di famiglia, venne a sapere che là non capitava mai la più piccola tribolazione. Il Santo ne fu spaventato e non volle più fermarsi nemmeno a dormire. « Fuggiamo di qua, — disse, — perché la collera di Dio è sopra questa casa ». E aveva ragione. Quando non ci sono dolori, l’anima s’attacca ai beni del mondo come se fosse stata creata solo per essi. Quando non ci sono dolori, l’anima prega poco e niente e quasi si persuade di non aver più bisogno di Dio. Quando non ci sono tribolazioni, l’uomo monta in superbia e s’illude di essere privilegiato sopra ogni altro, e disprezza chi soffre e non soccorre chi ha bisogno. Quando non c’è nulla da pensare, le nostre passioni diventano più furiose e facilmente ci travolgono nei peccati di impurità. Dopo tre giorni di deserto gli Israeliti assetati, giunsero alla fontana di Mara. Ma appena si intinsero le labbra, dovettero risputarla fino all’ultima stilla, perché era amarissima. Tutto il popolo gemette lungamente. « Dovremo dunque morire di sete? » Mosè allora si raccomandò a Dio, che gli indicò un legno: appena questo fu gettato nell’acqua tutti poterono dissetarsi in dolcezza (Ex., XV, 25). Ecco come noi possiamo vincere la tempesta della tribolazione. Non lamentandoci continuamente, non invidiando quelli che in apparenza stanno meglio di noi, non imprecando alla giustizia di Dio, ma ricorrendo a questo legno miracoloso: Il legno della pazienza, è il legno della rassegnazione, è il legno dell’accettazione. È il legno della croce su cui sta inchiodato Gesù. – Mentre sopra, nella luce del sole sfolgorante, la Roma pagana cercava di adescare i primi convertiti della Religione di Cristo, mentre nel circo e negli orti imperiali i Cristiani versavano il sangue e la vita in testimonio della loro fede, giù nelle catacombe, nella penombra mistica degli ambulatori, fra le arche dei martiri, un pittore con mano tremula di speranza e di salute, dipingeva: Ecco le onde di un lago in tempesta, sotto a un cielo rannuvolato; una barchetta con la vela squarciata rema alacremente; Qualcuno affoga… Ma il pilota s’è levato sulla prora e tende le braccia in alto. Ad un tratto le nubi si aprono, e attraverso il varco s’allunga la mano di Dio onnipotente. che li terrà galleggianti sui flutti (WILPERT, Le Catacombe, II, 445). – A noi, che dopo tanti secoli ridiscendiamo nelle Catacombe, quale tremito di commozione ridesta quella pittura ingenua e incerta. Chissà con che fiducia serena la guardavano, passando i neofiti che al giorno dopo dovevano essere uccisi! Chissà con quale proposito fermo a lei si volgevano quelli che erano costretti a vivere e lavorare tra i pericoli di quella Roma in corruzione! Anche per noi quella pittura dice ancora una profonda parola di fede: «Va, Cristiano! Per quante burrasche urtino contro la nave della tua anima e della tua famiglia, non temere! Leva le tue braccia al Cielo, «soffri, combatti e prega » che la mano di Dio non mancherà di salvarti.

 IL CREDO

Offertorium

Ps CXVII:16; CXVII:17

Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini.

[La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta

Concéde, quaesumus, omnípotens Deus: ut hujus sacrifícii munus oblátum fragilitátem nostram ab omni malo purget semper et múniat.

[O Dio onnipotente, concedici, Te ne preghiamo, che questa offerta a Te presentata, difenda e purifichi sempre da ogni male la nostra fragilità.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Luc IV:22 Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei.

[Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

Postcommunio

Orémus. Múnera tua nos, Deus, a delectatiónibus terrenis expédiant: et coeléstibus semper instáurent aliméntis.

[I tuoi doni, o Dio, ci distolgano dai diletti terreni e ci ristorino sempre coi celesti alimenti.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (190)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXVII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

I. — La morte e l’immortalità.

D. La vita soprannaturale che descrivesti è destinata secondo te a proseguire e non finisce con la morte?

R. Niente finisce con la morte. Scavare una fossa e coprirla con la nostra argilla non può essere una fine per l’immenso movimento spirituale in cui il Vangelo ci lancia. La terra non è che una soglia; al di là vi è quello che Carlyle chiama «il più Alto Mondo ».

D. Perché toglierci la vita e restituircela?

R. La vita non ci è « tolta »; è solamente « cambiata »: mutatur, non tollitur, come dice la liturgia, ed è la parte che noi prendiamo, per noi stessi e per altri, alla morte riparatrice di Cristo.

D. Tuttavia siamo distrutti.

R. L’io terreno è di fatto distrutto; perché l’anima non è l’uomo. Ma l’anima è la parte essenziale dell’uomo, e l’uomo completo sarà un giorno ristabilito.

D. Comprendi tu una tale divisione, una tale separazione?

R. Il mistero del nostro essere è quello di trovarsi così per natura in una regione di frontiera, che partecipa di due sfere, e forma un composto instabile la cui dissociazione crea il dramma della morte, ma la cui unione e riunione hanno qualche cosa di sublime. L’unione in noi della materia e dello spirito suggella in un angolo dell’universo, poi altrove, l’unità dell’opera divina.

D. Frammenti dell’universo che si muove e si disgrega incessantemente, non dobbiamo noi subirne la sorte?

R. Frammenti dell’universo Spirituale, scintille di spirito, non dobbiamo noi avere la sorte dello spirito, imitare e raggiungere lo spirito?

D. Perchè lo spirito non finirebbe come il resto?

R. Perché esso comincia sempre. Là dove l’evoluzione della vita ha un termine anticipatamente segnato, definito da una curva di una inflessione continua, il termine raggiunto significa la morte. Ma l’evoluzione dello spirito è illimitata, a guisa di una curva che si apre incessantemente. La ghianda ha compiuto il suo destino quando ha prodotto la quercia, ricca di un’altra ghianda; lo spirito ha davanti a sé l’infinito della indagine e degli acquisti possibili, l’infinito della verità e del bene. Per lui, ogni realizzazione è un abbozzo, o meglio un punto di partenza, finché non è pervenuto a incontrare il suo oggetto supremo. E quest’oggetto è indubbiamente per lui un punto fisso, ma che per la sua infinità inesauribile lo lancia di nuovo, invece di frenare e di arrestare il suo sforzo.

D. Ma l’anima non è tutto spirito.

R. L’anima non è tutto Spirito, perché anima il corpo, e sotto questo rapporto essa è corporea. Tuttavia, siccome il suo compito di animatrice non impiega tutte le sue energie e quindi non è uguale a tutta la sua sostanza, il dire che l’uomo è un composto di corpo e di anima è dire che è un composto di materia e di spirito, e, secondo quello che precede, di morte e di vita.

D. Come spieghi a te stesso la sopravvivenza?

E. Per una parte di sé, quella che vedi, l’uomo è un frammento dell’universo, un convegno delle forze generali. Ma, per rapporto a questo fondo di sostanza e a queste energie della parte bassa, vi è un’eccedenza di essere e di attività che il pensiero svela, e l’amore, la libertà, la sensibilità superiore, la vita morale mettono in opera. È quello che abbiamo rilevato a proposito della creazione dell’uomo, In ragione di questa eccedenza, di questo soprappiù per rapporto all’ambiente fisico, noi non possiamo supporre che l’anima dipenda nel suo sbocciare, nel suo essere attuale, né per conseguenza nella sua durata e nel suo fine, unicamente dalle potenze cosmiche; essa le oltrepassa e deve sopravvivere ad esse. Essa nasce nell’occasione di un’opera di carne; è soggetta all’azione delle forze che si rivelano nella carne, senza tuttavia ridurre la sua attività interiore o le sue manifestazioni a una risultante di queste forze abbandonate al determinismo. Dunque, la sua sorte non dipende, a titolo esclusivo, dal luogo in cui agisce presentemente; essa ha un avvenire proprio; la ruota della fortuna non la trascina se non in parte nella sua rotazione; una scossa, ed eccola prendere la tangente.

D. In due parole…

R. Quello che spiega l’immortalità della vita è l’immortale della vita.

D. Questo spiega, mi dici; ma questo prova?

E. Questo prova sotto certe condizioni, cioè se si ammette che Dio non distrugge Egli stesso quello che non porta in sé un principio di distruzione. D’altronde, se, per l’anima, si tratta di una immortalità cosciente e attiva, bisogna credere possibile un funzionamento spirituale indipendente da ciò che si chiama cervello pensante.

D. Come pensare senza l’organo del pensiero?

E. Appunto, il cervello non è propriamente l’organo del pensiero. Gli è indispensabile quaggiù, ma per l’elaborazione della sua materia, che è l’esperienza fisica. Il pensiero, propriamente parlando, è indipendente dal cervello, non vi è neppure proporzione precisa tra l’attività pensante e l’attività del cervello, come ha dimostrato Bergson.

D. Se il cervello è indispensabile al pensiero quaggiù, come tu ammetti, perché non gli è indispensabile altrove?

R. Uno stesso potere, collocato in diverse condizioni, può avere diverse esigenze.

D. Da che dipenderebbe, secondo te, la differenza?

R. Qui c’è mistero; ma si può credere che si tratti, per l’anima, di una differenza di orientamento e di attenzione profonda. Unita al corpo, essa è assorbita dal corpo e assediata dalle sue oscure chiarezze al punto di non poter aprirsi a un’altra luce. La sua propria luce spirituale le sfugge prima dell’esperienza delle cose; essa non si rende conto che è spirito se non dopo aver fatto atto di spirito riguardo ai corpi.

D. È una condizione sorprendente!

R. Sorprendente di fatto, ma che dipende dalla debolezza di quest’anima, posta nel più basso grado degli spiriti, in vicinanza alla natura corporea. Quando si riflette a questa condizione, si capisce che l’anima, povera di spiritualità per natura, e immersa nel corpo che tenta di accaparrare tutte le sue energie disponibili, possa essere come offuscata da questo corpo, abbagliata di materia, se si può dire così, e resa impotente a

percepire lo spirito, perfino quello che è in lei e che è lei. La pellicola di luce che circola sopra la nostra terra non basta forse a nasconderci tutto il cielo? I nostri deboli occhi, abbagliati, non possono valicare questo sbarramento di luce; bisogna aspettare la notte perché si riaccendano le stelle. La notte rivelatrice, per l’anima, è la morte.

D. Perché la morte sarà una rivelazione?

R. Perché l’anima, sciolta, sarà resa alla sua natura spirituale, e, cosciente di se stessa immediatamente, voglio dire senza il rigiro dei sensi, potrà inoltre sperimentare l’invisibile.

D. Quale invisibile?

R. Gli altri spiriti, diventati ora del suo dominio e, se posso dire così, del suo mondo; ma specialmente Dio, se a questo Dio piace di fare verso l’anima — per una discesa d’intelligibile, invece che per una salita — l’antico ufficio dell’universo.

D. Perché lo vorrebbe Egli?

R. Perché è il fine della sua creazione, e soprannaturalmente, il fine di tutta l’opera redentrice. Quaggiù, noi siamo abbandonati all’universo per l’informazione della nostra mente come per la nutrizione della nostra carne; l’universo, espressione dell’idealità creatrice, vestigio di Dio ossia sua immagine, ce ne comunica quello che può e quello che noi ne sappiamo estrarre; ma il contatto di Dio, che è il termine del grande movimento che opera l’anima attraverso alla vita, ci congiunge alla sorgente stessa di questa idealità: noi attingeremo da essa come un tempo dal tesoro dei fatti circostanti, come la carne beve il succo del mondo.

D. Perché desidereremmo un tale avvenire?

R. Perché tal è la destinazione che Dio ci dà, e del resto questa brama, checché ne pensino alcuni, è insita nel più profondo della nostra natura.

D. Aspiriamo noi a pensare in Dio?

R. Noi aspiriamo a pensare in Dio perché aspiriamo a pienamente vivere, perché la nostra piena vita è in Dio, e il pensiero, per lo spirito, è la stessa essenza della vita, condizione fondamentale di ogni altra attività del nostro essere.

D. Da che cosa riconosci tu un tale istinto?

R. Da quella inquietudine infaticabile e inestinguibile che è in noi, da quel tormento dell’infinito che è lo stimolo del pensiero, la molla dell’azione, e che spiega la loro storia. Noi pensiamo per cercar di captare in effigie quello che non si può raggiungere in sé; parliamo per coprire il grido che è in fondo ai nostri cuori; operiamo per scansare il cammino sovrano, decisivo, che talvolta non osiamo tentare perché le sue esigenze ci fanno paura, e che ad ogni modo non possiamo che iniziare, nelle condizioni di questo mondo. Nell’essere umano vi è una attesa essenziale che tutto può soddisfare, veduto in desiderio, in aspettativa, cioè in quanto al suo fantasma, ma che niente può soddisfare nella sua realtà acquistata, nel suo chiaro possesso. – Ogni uomo può dire come Barrès nelle sue Memorie postume: « Ho camminato verso l’orizzonte per cogliervi qualche cosa che non esiste »,

D. Tu descrivi le nature che si chiamano precisamente inquiete,

R. Io descrivo la natura stessa, che è un’inquietudine sostanziale, se così posso parlare, poiché nessuna soddisfazione, per quanto sostanziale apparisca essa stessa, non l’acquieta mai.

D. Ecco ciò che bisognerebbe far vedere.

R. Non è forse evidente, che la cosa posseduta non ci soddisfi punto, e che tosto si passa ad altro? Quello che noi bramiamo dopo, essendo della stessa forma, non ci può soddisfare maggiormente, e di fatto, sopravvenendo, non ci soddisfa più. Un possesso non è che un desiderio spento; un ricordo non è che « un desiderio che si rimpiange » (FLAUBERT): quello che si possiede o si è posseduto non è dunque ciò che era veramente desiderato. La nostra brama ha sbagliato oggetto, diciamo anzi che ha sbagliato universo, e che avrebbe dovuto risonare, al di là di tutti gli echi di questo mondo, in un altro mondo.

D. Di certi felici successi non diciamo noi che sorpassano la nostra attesa?

R. La nostra attesa è sempre ingannata, anche quando è superata; perché quello che attendevamo da queste fortune misurate in se stesse, l’attendevamo in noi come pienezza, ed è la pienezza che non viene.

D. Non sempre siamo ingannati in tal modo.

R. Siamo sempre ingannati davanti a qualsiasi oggetto, in possesso di qualsiasi beatitudine, appena cade il velo d’una passione allucinata o d’uno sragionamento puerile, appena l’anima profonda si desta. E questo ci dice che il fine di questa vita non è in lei stessa; questo ce lo dice con più evidenza che la sventura, che l’ingiustizia subìta, che le delusioni affatto diverse cagionate dalle nostre impotenze e dai nostri spropositi. – La norma secondo la quale si giudica della nostra miseria e dell’insufficienza di tutte le cose visibili è la felicità.

D. È necessario che noi abbiamo quello che ci manca?

R. È forse naturale che la nostra idea, la nostra aspirazione abbiano più ampiezza del nostro essere e della somma dei nostri poteri? Non vi è qui un segno?

D. Un segno di che?

R. Un segno della nostra vocazione sovrumana e sopraterrena. Perché, infine, non bisogna forse credere nell’anima propria, come dice la Scrittura? L’appello interiore è un fatto proprio come la gravitazione; il suo punto di partenza è assai più profondo e ben altrimenti alta è la sua portata. Qual è il significato di questo fatto, se non vi è niente fuori dell’esperienza? Come mai l’idea della pienezza può anche solamente entrare nei nostri fragili cuori, se non siamo fatti per la pienezza? Se tutto termina in una mediocrità irremissibile, perché, in noi, questa provvista di speranze illimitate? Noi non possiamo raggiungere quello che è evidentemente il nostro fine, quello verso il quale, per l’autentico impulso del desiderio profondo, la natura ci slancia. La traiettoria umana si delinea, lascia vedere le sue coordinate, ed essa non si percorre punto. – Noi siamo un albero la cui specie è nota e che, sul suo terreno di nascita, non presenta il suo getto normale, la sua fioritura, la sua fruttificazione naturali. È «una sconciatura » (PASCAL). Non può finire così ogni cosa.

D. Perchè?

È. Perché la natura naturante, in noi, non s’inganna, e non inganna noi. Essa non si può dirigere verso il vuoto. Uscita dall’ambiente universale, essa lo riflette e ne esprime la legge, Non si cerca naturalmente se non ciò che si può trovare. Se non vi fosse erba vi sarebbe l’erbivoro? Colui che constata il desiderio insaziabile nel quale consiste essenzialmente l’essere umano e nega che sia possibile la sua soddisfazione rassomiglia all’uomo che ha fame e nega il pane.

D. Il sentimento di pienezza non ci è estraneo.

R. Noi lo proviamo quando proiettiamo sopra i nostri oggetti l’immensità del sogno e nascondiamo così a noi stessi la loro esiguità. Questi oggetti ci appariscono allora uccelli dell’infinito presi al laccio; per quanto insignificanti, per quanto caduchi, la nostra illusione li pervade di eternità e ne prende come un possesso infinito per l’ampiezza del gesto. Ma non è questo la smagliante conferma che l’infinito, solo l’infinito ci contenta? Chi ignora quale malinconia segreta vi si trova in tutte queste pienezze fallaci, appena si sposta un poco il velo d’errore! In fondo ai nostri stati felici vi è un sentimento nostalgico, e a che cosa si riferisce esso se non a un misterioso al di là?

D. Credi tu che molti sappiano queste cose?

R. I più non le sanno, ma tutti le provano. Altro è il sentimento e altro l’analisi che se ne fa. Quando, in una chiesa, vediamo dei Cristiani supplicanti, noi non abbiamo alcun dubbio che i più rechino lì, per un sollievo, i loro fardelli di vita terrena, che essi esprimano i loro desideri umani, le loro inquietudini temporali, e che forse sia questo solo che pensano di offrire a Dio; ma scava più a fondo, e troverai altra cosa, che i migliori, e tutti, scorgono ad intervalli: voglio dire, l’appetito dell’indefinibile e del perdurevole faciente corpo con questi oggetti, ma infinitamente distinto dall’ispirazione che essi provocano, l’appetito dell’al di là di tutto, del Tutto, del Tutto misterioso.

D. Che diresti di coloro che cercano al di sotto dell’uomo, invece di cercare al di sopra?

R. Il loro sentimento è lo stesso. Ciò che essi si propongono, nelle oscure regioni che loro aprono i sensi, è ancora l’infinito, riconoscibile dalla sua ombra. Spaventoso capovolgimento, fatale illusione del povero allucinato che piomba in un mare pieno di notte per pescare degli astri.

D. Tutto questo non si riferisce che all’ampiezza degli oggetti della vita, e non alla durata di quest’ultima. Pensi tu che noi vogliamo vivere eternamente?

R. Noi vogliamo vivere senz’altro, e questo esige la vita eterna. Perché, sapendo che dobbiam morire, ripugniamo noi invincibilmente a crederlo, se non perché ciò ci è inconcepibile? Noi non vogliamo perire. Non possiamo rassegnarci a un mondo che crolla, sentendo qualcosa che non crolla. Sotto la chiarezza degli oggetti che occupano e ingannano il nostro appetito di vivere, scorre un fiume di notte che ci trascina giorno per giorno, verso la notte eterna, e il nostro cuore non vi può consentire. «Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa » (PASCAL).

D. Eppure il nostro appetito di vivere, nel fatto, si attacca a questa vita limitata,

R. È impossibile capire che ci si affanni tanto ‘per preservare «un lampo tra due notti» (ENRICO POINCARÉ). Bisogna che si abbia il sentimento profondo di un’altra vita, anche se non lo si confessa.

D. Sopravviviamo a noi stessi per via dei nostri discendenti e delle opere nostre.

R. Almeno lo tentiamo, ed è una testimonianza. Questa vita che si sforza di vincere il tempo, non è forse l’effetto e il segno dell’eternità inclusa nel desiderio? Noi vogliamo, in tutta la misura del possibile, rendere imperiture le opere nostre; nei nostri figli, nelle nostre istituzioni, nelle nostre glorie, noi vediamo delle assicurazioni contro la morte; ameremmo vederci delle speranze d’immortalità. Ma che cosa è ciò, in realtà, se non una povera aggiunta, una dilazione concessa al desiderio, prima dell’inevitabile e prossimo inghiottimento?

D. Questa sopravvivenza in altri soddisfa la generosità, se non il desiderio proprio.

R. È bello essere generosi, e nulla è più commovente che il sentimento d’un padre, d’un amico, d’un patriota, che dice: Che importa la mia vita, purché i miei figli siano felici, il mio amico prosperi, il mio paese abbia il trionfo? Ma che malinconia, nel contemplatore di questa bellezza, e quale segreta delusione al cuore stesso di colui che vi si eleva, se essi vengano a dire a se stessi: Oggi, domani, dopo domani, che importa? io lavoro per la morte!

D. La sapienza è di contentarsi della propria misura, a più forte ragione di potere oltrepassarla un poco.

R. Questa sapienza si può attingere da Dio, ed è la rassegnazione cristiana, sorella della speranza; essa può essere puramente stoica ed è certamente bella, ma non risolve affatto il problema. È urtante, è contradittorio che la natura spinga i suoi esseri a voler durare sempre e imponga loro per sapienza la rinunzia e questo stesso volere. L’anima non vi si risolve punto; ne fanno testimonianza tutte le letterature, del pari che ogni cuore. Del rimanente, come osservò Renan, «è quando l’uomo è buono che egli vuole che la virtù corrisponda a un ordine eterno; è quando egli contempla le cose in modo disinteressato che egli trova la morte ributtante e assurda. Come non supporre che l’uomo veda il meglio appunto in tali momenti? ».

D. Pensi tu che noi possiamo afferrare direttamente, în noi, questo sentimento dell’eternità che dici insito nei nostri pensieri e implicito in tutti i nostri procedimenti?

R. Non sappiamo scandagliare noi stessi. Vi sono tanti momenti che ci sentiamo immortali! Momenti di contemplazione religiosa, filosofica, scientifica, artistica; momenti d’estasi fuori del pensiero, fuori del tempo, perfino fuori del nostro oggetto, nell’amore; momenti di poesia davanti alla natura, in unione con le forze eterne; momenti di eroismo in cui sentiamo che si può aver fiducia nella sorte e che la grande vita non muore…: tutto questo dice la nostra essenza Vera, e, come diceva un eroe della grande guerra, «che cosa è una palla al cuore? essa gli può far del bene ».

D. Riassumendo, tu dici: la vita è eterna o non è niente?

R. «Tutto quello che deve finire non è niente» (S. AGOSTINO). Fuori dell’eternità, noi siamo come colui che si trastulla a costruire castelli di carta sull’orlo del suo sepolcro.

D. La cooperazione con altri non ci rialza?

R. Termino la mia frase: — e che aderisce a una società di mutuo soccorso per costruire meglio i castelli di carta, sostenerli, ripararli, ricostruirli… davanti al comune sepolcro.

D. In tali condizioni, la morte prende un valore che le si concede di rado.

R. Proprio Renan disse che morire è compiere un atto « di una portata incalcolabile ».

D. Non sai quanti, oggi, negano la vita eterna?

R. Il numero dei negatori non cambia nulla alle verità. I negatori, se fossero sinceri con se stessi, direbbero anche: « Io scorgo la vita che guarda attraverso alle orbite vuote della morte » (SHAKESPEARE). Io aggiungo che in simile materia la negazione è condannevole in ogni ipotesi.

D. Perché?

R. Perché nessuno, senza un’estrema temerità, può pretendere di essere sicuro che l’immortalità non ci sia punto, e chi non è convinto della sua realtà dovrebbe almeno rispettare il mistero.

D. La negano generalmente per fini pratici; si ha paura che l’ideale faccia perdere il senso della realtà.

R. Ciò avviene quando non si sa che cosa sia ideale e pratica, che cosa sia eternità di tempo. Si dimentica che «il Vangelo e il calendario agricolo sono opera d’uno stesso autore » (MAURIZIO BARRÈS).

D. Non vi è però una certa opposizione tra l’idea dell’eternità e le cure terrene?

R. Le cure eccessive, sì, le impazienze, le preoccupazioni appassionate, ma non l’attività normale. La vita eterna ispira al vero Cristiano una maniera sublime di ricevere la vita e la morte, i beni e i mali; ma non ammollisce il suo coraggio. Pensa che la civiltà moderna, e si può dire ogni civiltà, fu costruita da gente che credeva all’eternità, e tutte le nostre inquietudini di avvenire, come ti dicevo, vengono dal fatto che vi si crede meno.

D. Da che dipende questo?

R. Dal fatto che la vita eterna è l’autentico sostegno della vita temporale, che, senza questo, poggerebbe sul falso e si protenderebbe sul vuoto; è il suo appoggio dietro, il suo trattore davanti. Io ho bisogno di assicurarmi della vita eterna per credere alla serietà di questa, e al contrario sarebbe sorprendente che ciò che mi difende contro ogni scoraggiamento potesse spezzare il mio coraggio.

D. A chi sono più utili queste riflessioni sopra l’altra vita?

R. Sono indispensabili a tutti; perché « tutte le nostre azioni e tutti i nostri pensieri devono prendere vie così differenti secondo lo stato di questa eternità, che è impossibile fare un passo con senso e con giudizio senza regolarlo con la mira di questo punto, che dev’essere il nostro ultimo oggetto » (Pascal). Ma evidentemente, ci guadagnano a ricordarsene quelli soprattutto che hanno più da soffrire e da combattere. Questi pensieri della morte, del giudizio, della retribuzione eterna sono lo stimolo e il freno, il sostegno e la forza di rinsavimento di molto anime. Essi rendono felici degli individui ai quali questo mondo rifiuta tutto; avverano il paradosso delle Beatitudini evangeliche, e provocano la lunga pazienza delle prove della vita quotidiana, come l’eroica pazienza dei martiri.

D. Donde viene che essi ci sfuggono incessantemente?

R. È la conseguenza del fenomeno che descrivevo a proposito dell’anima pensante. La luce del giorno ci nasconde l’immensità del cielo: così gli oggetti della vita, più evidenti, accaparrano l’anima e solo essi le appariscono reali; così il tempo, presente in noi per il fluire della carne, fa credere illusoria l’eternità, e siccome tuttavia il sentimento dell’eternità rimane, lo si trasferisce al tempo; ci figuriamo vagamente che questo tempo fugace non debba finire.

D. Ciò è incosciente?

R. Per lo più; ma avviene pure che ciò sia volontario, e allora l’insensato o il peccatore si vuole procurare una pace illusoria. « Senza darci pensiero noi corriamo al precipizio, dopo esserci posto qualche cosa davanti per impedirci di vederlo » (PASCAL).

D. Queste parole sono tragiche!

R. «Leggi anche queste: « Tra noi e l’inferno o il cielo, non vi è di mezzo che la vita, che è la cosa più fragile del mondo ».

D. Se si pensasse così costantemente, non si potrebbe più vivere.

R. Forse si vivrebbe meglio a pensarci sovente. In quanto al pensarci costantemente, nessuno lo raccomanda. La buona vita esige la nostra attenzione, anzi il nostro entusiasmo; una volta mirata la meta, e richiamata al pensiero di tempo in tempo, non c’è bisogno d’ipnotizzarsi sulla morte.

D. Che pensi delle trasmigrazioni, di quelle altre vite, anteriori o posteriori, di cui trattano gli spiritisti, i teosofi?…

R. Prima di tutto penso col popolo: « Nessuno mai se ne è accorto »; i teosofi s’immaginano, suppongono; gli spiritisti si fidano di fenomeni mal conosciuti, in cui il ridicolo fa a pugni col sublime: lì non vi è proprio nulla da sapere. Dopo ciò, dico col Vangelo, correggendo la formula popolare con una riserva divinamente giustificata: Nessuno è salito in cielo, salvo colui che è disceso dal cielo, il Figliuolo dell’Uomo che è in cielo.

D. L’idea di trasmigrazione ha un significato morale; si tratta di purificazioni successive, di una prova della libertà.

R. Tutto questo ha soddisfazione nel sistema cattolico, e con garanzie di verità, invece dell’asserzione arbitraria del pensatore. Gesù dice quello che sa; il teosofo dice quello che non sa. In fatto di prova, questa è più che sufficiente, e Dio non ha bisogno di tante esperienze per sapere ciò che valgo; Egli scruta i reni e i cuori e li giudica in conseguenza.

D. Dove va dunque l’anima nostra dopo la morte?

R. Questa domanda, presa alla lettera, non ha senso. L’anima non va in nessun posto, giacché non è un corpo e perciò non è soggetta alle localizzazioni nello spazio. La morte, per l’anima, non è punto un cambiamento di luogo, ma un cambiamento di stato; l’anima funziona diversamente; percepisce altre cose; è in relazione con altri esseri.

D. E arriva così alla fissità?

R. A una fissità che non è un’immobilità, ma che, rispetto all’indagine attuale, è un termine, e, rispetto alla morte vivente che è la vita del corpo, una immutabile vita. Noi abbandoniamo la regione in cui tutto passa, per entrare in quella in cui tutto è.

D. Tu concepisci questo come un’armonia dell’opera divina?

R. Sarà di fatto l’armonia di tutto, in ragione della quale Leone Bloy parlava del « grande organo della vita eterna ».

D. E il punto di arrivo di tutto?

R. «La terra è come le arie di marcia della Chiesa; essa è per salire al cielo » (C. PÉGUY).

D. È forse quello che tu chiami, credo a modo degli Alessandrini, la rientrata in Dio, ossia il Ritorno a Dio?

R. Tutto il movimento della natura materiale, della vita, del pensiero, dell’attività morale e sociale degli esseri di fatto non è che un vasto riflusso. La creazione è un immenso sollevamento di marea che sfugge dall’oceano divino e che vi ritorna.

D. Ma non ciascuna morte individuale esprime questo ritorno.

R. Nel sollevamento della marea, non tutte le onde arrivano nello stesso tempo, e sono precedute da spruzzaglie. E nel giudizio universale si spiegherà sotto i «nuovi cieli» sulla « nuova terra » la grande massa delle acque.

II. — Il giudizio particolare.

D. Credi tu a un giudizio dell’anima dopo la morte?

R. Noi crediamo che subito dopo la morte, l’anima prende la direzione di vita che conviene ai suoi meriti.

D. Dove pensi che abbia luogo questo giudizio?

R. Là dov’è l’anima, là dov’è Dio, e ho già detto che questo non è un luogo materiale. Noi siamo sempre in Dio; non c’è bisogno di viaggio per raggiungerlo. La vita eterna è essenzialmente uno stato, non un luogo, e se essa è tale nella sua pienezza, tale è pure nel suo cominciamento.

D. È strano!

R. Sì, quale mistero, che uno possa immergere in Dio tutta la sua vita senza accorgersene, e quale risveglio, trovarsi tutt’a un tratto davanti a Lui nella piena luce!