DOMENICA II DOPO L’EPIFANIA (2022)

DOMENICA II DOPO L’EPIFANIA (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio – Paramenti verdi.

Fedele alla promessa che aveva fatta ad Abramo ed ai suoi discendenti, Dio inviò il Figlio suo per salvare il suo popolo. E nella sua misericordia, Egli volle anche riscattare tutti i pagani. Gesù è il Re che tutta la terra deve adorare e celebrare come suo Redentore (Intr., Grad.). Morendo sulla croce Gesù è diventato il nostro Re, e col S. Sacrifizio – ricordo del Calvario – applica alle nostre anime i meriti della sua redenzione ed esercita quindi la sua regalità su di noi. Cosi col miracolo delle Nozze di Cana – simbolo dell’Eucaristia – Gesù manifesta per la prima volta in modo aperto ai suoi Apostoli la sua divinità, cioè il suo carattere divino e regale, ed è allora che « i suoi discepoli credono in Lui ». – La trasformazione dell’acqua in vino è il simbolo della transustanziazione, che S. Tommaso chiama il più grande di tutti i miracoli, e in virtù del quale il vino Eucaristico diviene il Sangue dell’Alleanza di Pace (Or.) che Dio ha stabilito con la sua Chiesa. E poiché il Re divino vuole sposare le nostre anime, è con l’Eucaristia che si celebra questo sposalizio mistico, poiché essa aumenta la fede e l’amore che ci fanno membri viventi di Gesù nostro Capo. (« L’unità del corpo mistico è prodotta dal vero corpo ricevuto sacramentalmente » – S. Tommaso). Le nozze di Cana raffigurano anche l’unione del Verbo con la Chiesa sua sposa. « Invitato alle nozze – dice S. Agostino – Gesù vi andò per confermare la castità coniugale e per mostrare che Egli è l’autore del Sacramento del Matrimonio e per rivelarci il significato simbolico di queste nozze, cioè l’unione del Cristo con la sua Chiesa. In tal modo anche quelle anime che hanno votato a Dio la loro verginità, non sono senza nozze, partecipando esse con tutta la Chiesa a quelle nozze in cui lo Sposo è Cristo».

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXV: 4

Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime.

[Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Ps LXV: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus.

[Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: canta salmi al suo nome e gloria alla sua lode.]

Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime.

[Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Oratio

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui coeléstia simul et terréna moderáris: supplicatiónes pópuli tui cleménter exáudi; et pacem tuam nostris concéde tempóribus.

[O Dio onnipotente ed eterno, che governi cielo e terra, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo e concedi ai nostri giorni la tua pace.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom XII: 6-16

“Fratres: Habéntes donatiónes secúndum grátiam, quæ data est nobis, differéntes: sive prophétiam secúndum ratiónem fídei, sive ministérium in ministrándo, sive qui docet in doctrína, qui exhortátur in exhortándo, qui tríbuit in simplicitáte, qui præest in sollicitúdine, qui miserétur in hilaritáte. Diléctio sine simulatióne. Odiéntes malum, adhæréntes bono: Caritáte fraternitátis ínvicem diligéntes: Honóre ínvicem præveniéntes: Sollicitúdine non pigri: Spíritu fervéntes: Dómino serviéntes: Spe gaudéntes: In tribulatióne patiéntes: Oratióni instántes: Necessitátibus sanctórum communicántes: Hospitalitátem sectántes. Benedícite persequéntibus vos: benedícite, et nolíte maledícere. Gaudére cum gaudéntibus, flere cum fléntibus: Idípsum ínvicem sentiéntes: Non alta sapiéntes, sed humílibus consentiéntes.

[Fratelli, avendo noi dei doni differenti secondo la grazia che ci è stata donata, chi ha la profezia (l’eserciti) secondo la regola della fede; chi il ministero, amministri, chi l’insegnamento, insegni; chi ha l’esortazione, esorti; chi distribuisce (lo faccia) con semplicità; che fa opere di misericordia, con ilarità. La vostra carità non sia finta. Odiate il male; affezionatevi al bene. Amatevi scambievolmente con amore fraterno, prevenendovi gli uni gli altri nel rendervi onore. Non pigri nello zelo, ferventi nello spirito, servite al Signore. Siate allegri per la speranza, pazienti nella tribolazione, assidui nella preghiera. Provvedete ai bisogni dei santi; praticate l’ospitalità. Benedite quelli che vi perseguitano: benedite e non vogliate maledire. Rallegratevi con chi gioisce; piangete con chi piange, avendo gli stessi sentimenti l’uno per l’altro. Non aspirate alle cose alte, ma adattatevi alle umili.]

 P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

LA CARITÀ PIÙ DIFFICILE.

San Paolo in materia di carità è un Maestro straordinario; grande in tutto, è grandissimo in questo. Assurge al grido più sublime, discende alle considerazioni più pratiche e in questo terreno pratico che pare umile, spiega un’abilità, una finezza che lo mette in contrasto, vittorioso da parte sua, con le idee che hanno più facile e maggior voga nella società. Ecco qua un binomio nel quale si riassume l’esercizio pratico della carità: « gaudere cum gaudentibus, flere cum flentibus ». Dove il consiglio o precetto di piangere con chi piange appare a tutti un precetto caritatevolissimo. Non è egli giusto e bello compiangere chi soffre? aiutarlo, per stimolo di compassione sincera a non soffrire più? a superare il suo dolore? È così bella e caritatevole questa funzione del piangere coi dolenti che per molti la carità predicata da Cristo si riduce lì. La carità per lo meno più autentica, più meritevole è questa. Gli altri, quelli che non soffrono né punto né poco anzi godono, se la scialano, se la ridono, che bisogno hanno di carità? O come la possiamo esercitare verso di loro? Come possiamo essere con loro e verso di loro caritatevoli? Domanda che S. Paolo non ammette in quanto tendono a rimpicciolire l’esercizio della carità nel campo della miseria umana. La carità spazia in termini più vasti. È possibile anche coi felici, solo che è più difficile. È molto difficile. Impietosirsi cogli infermi è più facile. Strano, ma vero. E neanche strano. Il nostro egoismo in fondo è carezzato, vellicato, soddisfatto quando vede soffrire gli altri, quando incontra il dolore. E assumiamo volentieri l’attitudine della pietà perché è un’attitudine universalmente apprezzata, facciamo il gesto del soccorso perché esso pare a tutti un bel gesto. Ci dà una doppia superiorità, la superiorità di chi non soffre e quella di chi benefica. Impalcatura psicologica che crolla quando il nostro prossimo è fortunato; quando invece di passare lagrimando dalla gioia al dolore, dalla ricchezza alla povertà, dalla salute alla malattia, passa allegramente, ridendo, cantando dal dolore alla gioia, e per esempio dalla povertà alla ricchezza. Quando una famiglia ricca per un rovescio diventa povera, quanti dicono, e abbastanza sinceramente: povera gente! e piangono e aiutano. Ma quando accade il rovescio, quando il povero diventa ricco sono molti che si rallegrano sinceramente? Attenti a questo sinceramente! Perché la commedia delle congratulazioni la recitano molti, troppi: ma è una commedia. Sotto sotto, dentro di sé, in realtà crepano d’invidia. Il buon Cristiano, il vero caritatevole si rivela in quel « gaudere cum gaudentibus » prima e più che nel « flere cum flentibus », nel partecipare alle altrui gioie prima e più che nel dividere gli altrui dolori.

Graduale

Ps CVI: 20-21

Misit Dóminus verbum suum, et sanávit eos: et erípuit eos de intéritu eórum.

[Il Signore mandò la sua parola e li risanò: li salvò dalla distruzione.]

V. Confiteántur Dómino misericórdiæ ejus: et mirabília ejus fíliis hóminum. 

[V. Diano lode al Signore le sue misericordie e le sue meraviglie in favore degli uomini. ]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXLVIII: 2

Laudáte Dóminum, omnes Angeli ejus: laudáte eum, omnes virtútes ejus. Allelúja.

[Lodate il Signore, voi tutti suoi Angeli: lodatelo, voi tutte milizie sue. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem. [Joann II: 1-11]

In illo témpore: Núptiæ factæ sunt in Cana Galilaeæ: et erat Mater Jesu ibi. Vocátus est autem et Jesus, et discípuli ejus ad núptias. Et deficiénte vino, dicit Mater Jesu ad eum: Vinum non habent. Et dicit ei Jesus: Quid mihi et tibi est, mulier? nondum venit hora mea. Dicit Mater ejus minístris: Quodcúmque díxerit vobis, fácite. Erant autem ibi lapídeæ hýdriæ sex pósitæ secúndum purificatiónem Judæórum, capiéntes síngulæ metrétas binas vel ternas. Dicit eis Jesus: Implete hýdrias aqua. Et implevérunt eas usque ad summum. Et dicit eis Jesus: Hauríte nunc, et ferte architriclíno. Et tulérunt. Ut autem gustávit architriclínus aquam vinum fáctam, et non sciébat unde esset, minístri autem sciébant, qui háuserant aquam: vocat sponsum architriclínus, et dicit ei: Omnis homo primum bonum vinum ponit: et cum inebriáti fúerint, tunc id, quod detérius est. Tu autem servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc fecit inítium signórum Jesus in Cana Galilaeæ: et manifestávit glóriam suam, et credidérunt in eum discípuli ejus.

[In quel tempo: Vi furono delle nozze in Cana di Galilea, e li vi era la Madre di Gesù. E alle nozze fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la Madre di Gesù disse a Lui: Non hanno più vino. E Gesù rispose: Che ho a che fare con te, o donna? La mia ora non è ancora venuta. Disse sua Madre ai domestici: Fate tutto quello che vi dirà. Orbene, vi erano lì sei pile di pietra, preparate per la purificazione dei Giudei, ciascuna contenente due o tre metrete. Gesù disse loro: Empite d’acqua le pile. E le empirono fino all’orlo. Gesù disse: Adesso attingete e portate al maestro di tavola. E portarono. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino, non sapeva donde l’avessero attinta, ma i domestici lo sapevano; chiamato lo sposo gli disse: Tutti servono da principio il vino migliore, e danno il meno buono quando sono brilli, ma tu hai conservato il vino migliore fino ad ora. Così Gesù, in Cana di Galilea dette inizio ai miracoli, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

GESÙ A NOZZE

Tre cose sono care allo Spirito Santo: l’amore tra fratelli, la carità verso il prossimo, un marito e una moglie che vadano ben d’accordo. Et vir et mulier bene sibi consentientes (Eccl., XXV, 2). O mille volte beata quella casa, dove si trova la terza di tali cose, cioè la lieta corrispondenza tra coniugati (dove lo sposo. alla superiorità e alla previdenza di capo, aggiunge un grande amore ed una scrupolosa fedeltà; dove la sposa ubbidisce fedelmente a suo marito, come a Dio, e ne cerca di indovinare i gusti e desideri!). Fu appunto perché in tutte le famiglie regnasse questa divina armonia di bene e d’amore, che Gesù accettò un invito a nozze, in Cana di Galilea. Vi giunse co’ suoi discepoli quando le feste erano già incominciate. L’arrivo di Gesù, amico di famiglia e, credo, anche parente, perché vi si trovava invitata anche Maria, portò un’ondata d’allegrezza devota nella brigata già lieta. L’aggiungersi di sei nuovi convitati, il protrarsi della conversazione, contribuì non poco a finire la provvista di vino. Maria attenta e compitissima se n’era accorta per la prima: « Gesù, non hanno più vino » E Gesù fece il miracolo: sei anfore d’acqua divennero vino. E squisito. Tanto che il direttore del banchetto disse allo sposo: « Tutti gli altri offrono prima il vino buono e serbano in fine quello che ha preso il fusco o lo spunto; ma tu invece dopo il buono dài il migliore ». – Gesù amava talvolta frammischiarsi alle gioie del mondo per santificarle, come spesso frequentava la compagnia dei pubblicani e dei peccatori per convertirli. Ma non era appena per questo che andò a nozze; non era appena per rivelarsi Dio nella conversione dell’acqua in vino; fu, soprattutto, per elevare il matrimonio alla dignità di Sacramento. Come il Sacramento del Battesimo ci dà le grazie per essere Cristiani, e la Cresima le grazie per essere valorosi soldati di Cristo, l’Eucaristia nutrisce le anime per la vita eterna, il Sacramento del Matrimonio dà agli sposi l’aiuto necessario per lo stato coniugale. – Sacramentum hoc magnum est, dico ego in Christo et in Ecclesia (Efes., V, 32). Cristo, dunque, lo ha reso grande facendolo un sacramento efficace di grazia, Cristo lo ha reso grande facendolo simbolo della sua mistica unione con la Chiesa. Per ciò, come Gesù andò alle nozze in Cana di Galilea, è necessario che venga alle nozze di tutti i Cristiani. Ora voglio soltanto dire come s’invita Gesù alle nostre nozze, e perché si debba invitarlo. COME S’INVITA GESÙ A NOZZE. A Rages, città della Media, ove si era recato a riscuotere una somma a nome di suo padre, il giovane Tobia trovò un cugino: Raguele. Costui l’invitò a casa sua a ristorarsi per alcuni giorni, ma il giovane Tobia avendo già sentito parlare di Sara, figliuola di questo suo parente, così disse: « Da te, oggi, io né mangio né bevo, se prima non mi prometti tua figlia in isposa ». Raguele dopo alcune titubanze acconsentì alla sua domanda. Allora Tobia disse a Sara: « Sara, preghiamo Dio, oggi, domani e dopo, perché  dobbiamo vivere insieme. Noi siamo figli di santi e non dobbiamo unirci come quelli che ignorano Dio ». Poi levati gli occhi in alto aggiunse: «Signore, Dio dei nostri maggiori, vi benedicano il cielo e la terra, il mare e i fiumi e tutte le creature. Voi che formaste Adamo col limo della terra e gli deste Eva in aiuto, sapete bene ch’io piglio questa mia congiunta non per accontentare le passioni, ma per desiderio di buoni figliuoli che attraverso i secoli lodino il vostro Nome » (Tob., VIII, 4-9). Sublime preghiera che la Sacra Scrittura ci ha conservato perché ogni Cristiano imparasse quali sentimenti lo devono spingere al matrimonio, se alle sue nozze vuol avere Gesù! – Gesù s’invita con la preghiera: è il catechismo che la inculca. Bisogna pregare per conoscere da prima se realmente siamo chiamati allo stato matrimoniale; bisogna pregare perché Dio ci illumini nella scelta della persona; bisogna pregare, infine, per ottenere le grazie necessarie per lo stato in cui si sta per entrare. Gesù s’invita quando non si allaccia una relazione all’insaputa dei genitori. Gesù s’invita con qualche mortificazione, con qualche elemosina, con la retta intenzione riguardo all’avvenire della vita coniugale. Quelli che nel contrarre matrimonio si lasciano unicamente guidare dalla bellezza del corpo e dal denaro, non invitano Gesù. La bellezza è un fiore che dissecca, il danaro favorisce la discordia e la superbia; ed in fondo non rimarrà che l’infelicità. Quelli che prima dello sposalizio tengono una cattiva condotta di tratti e di parole, non invitano Gesù. Le nozze che cominciano coll’impuro piacere del senso finiscono nel pianto. – Indubbiamente non invitano Gesù quelli che s’accostano al gran Sacramento in disgrazia di Dio. Che direste voi di chi invita a una festa una persona di riguardo, e poi, quand’è giunta, gli chiude l’uscio in faccia? questo è il modo di agire di coloro che ascendono l’altare a contrarre matrimonio e hanno un peccato mortale sul cuore. Eppure non sono pochi quelli che s’accostano indegnamente a questo gran sacramento: o senza confessione, o con una confessione fatta per forza senza esame di coscienza, senza sincerità, senza dolore. Infelici anche nei momenti più austeri e solenni della loro vita, non sanno quel che si fanno. PERCHÈ SI DEVE INVITARE GESÙ. Gesù non aveva ancora messo piede nelle contrade della Perea, che subito i Farisei gli furono intorno a fargli una questione; « Maestro, è permesso al marito ripudiare la moglie per un qualsiasi motivo? ». Si era nella tetrarchia di Erode Antipa che aveva rimandata la sua donna legittima per sposare la moglie del suo fratellastro e quella domanda era assai imbarazzante. Una risposta audace poteva mettere nel rischio di fare la fine del Battista. Ma Gesù non aveva paura di nessuno, e parlò aperto. «Non avete letto — rispose a quelli che l’avevano interrotto, — che Dio creò da principio l’uomo e la donna, e disse: per ciò lo sposo lascerà il padre e la madre per star unito alla sua sposa, e i due saranno una sola carne? Ebbene, poiché non sono due ma una sola carne, non divida l’uomo quel che Dio ha congiunto ». I Farisei osarono sussurrare: « Perché allora Mosè ha prescritto di dare alla donna il libello di ripudio e così divorziare? ». « Ah, — esclamò Gesù — fu in conseguenza della durezza dei vostri cuori che Mosè ha permesso questo. In principio non fu così. Ed io vi dico: quando un uomo manda via la moglie per prenderne un’altra, è sempre un adultero ». La severità dell’ultime parole del Salvatore parve terribile; i discepoli stessi meravigliati sussurrarono: « Quand’è così, non conviene sposarsi ». Il Maestro, udendo questo mormorìo, non lo disapprovò, perché sapeva bene le tribolazioni e le croci della vita familiare. Questo episodio del santo Vangelo, o Cristiani, non è tanto per metterci spavento del Sacramento del Matrimonio, quanto per farci apprendere la necessità dell’assistenza e dell’aiuto di Dio, per bene adempierne gli obblighi. Senza Gesù, com’è possibile portare un giogo non lieve ed accettarne i quotidiani sacrifici? – Le nozze cristiane sono un nodo indissolubile, che priva della libertà personale e rende l’uno signore dell’altro. Impongono un amore rispettoso, poiché una familiarità senza rispetto insensibilmente ma infallibilmente porta al dispregio. Impongono un amore fedele sino ad abbandonare il padre e la madre, sino alla completa rottura di ogni altro vincolo che possa legare il cuore o anche solo la mente. Impongono un amore costante, che deve resistere agli anni, alle amarezze, alle gelosie, sempre e solo. Ora come è possibile tutto questo senza la grazia di Gesù? Non basta: considerate ancora quale peso deriva dalla diversità di carattere, che soventemente s’incontra tra marito e moglie. Un marito saggio e modesto con una moglie svagata e dissipatrice; una moglie esemplare e quieta con un marito dissoluto ed empio: che croce, che pazienza! Se Gesù non è invitato a levigare le asprezze di queste nozze, ad aiutare a portar la croce, questi crucci domestici sembreranno insopportabili e l’odio e la disperazione invaderebbero due anime che avevan creduto di trovare insieme la felicità, escludendo la Religione. Ma non c’è bisogno di costruire casi tragici; l’inevitabile diversità di carattere fra due persone impone un vicendevole e continuo spirito di comprensione, di arrendimento, di generosità: per avere un’atmosfera di amabile convivenza. Infine, quale sorgente inesausta di sofferenze è l’educazione dei figli. La Sacra Scrittura dice che un figlio buono è la gioia di suo padre, mentre un figlio cattivo è l’amarezza della madre sua. Questo è vero, ma in un altro senso tutti i figli, o buoni o cattivi, per i genitori che li debbono allevare son sempre un peso. Che tormento quando nella miseria si teme che il pane manchi! Che dispiacere aver numerosi figli e non poterli collocare bene! Quanto piangere se vengon le malattie, se vien la morte a strapparcene qualcuno fuor dalle braccia, via dal nostro cuore! Ma quello che costa più è l’allevare figliuoli che si mostrano indocili e ingrati: non ubbidiscono, non accettano correzioni, scialacquano, non aiutano, sono ingrati, disonorano la casa. « Con questo — diceva S. Ambrogio — non intendo sconsigliare lo stato matrimoniale, ma espongo i vantaggi della dignità consacrata al Signore ». Chi si sposa fa bene, ma si prepari a portare la sua croce. Tribulationem tamen carnis habebunt huiusmodi (I Cor., VII, 28). Se così gravi sono i pesi dello stato nuziale, è pur necessaria la Grazia divina che ci sostenti. – Alle nozze di Cana vi erano sei pile d’acqua piene fino al sommo: simbolo queste di tutte le lagrime, di tutti gli affanni, di tutti i pesi dello stato coniugale. Ecco arriva Gesù, e le tramutò in sei pile di ottimo vino, piene fino al sommo. Voi tutti che sentite il peso della vostra famiglia, voi che la discordanza di carattere, o la gelosia, o il lavoro della casa, o i figli, riempiono di tristezza o di stanchezza, e, comunque, di ansie e preoccupazioni, chiamate Gesù. Che Egli venga alle vostre nozze! L’acqua si tramuterà in vino che letifica, e le vostre angustie in gioie. – LA MADONNA A NOZZE. A Cana, paese della Galilea, si sposava forse un parente di S. Giuseppe. Si capisce quindi come tra gl’invitati ci fosse anche la Madre di Gesù. S. Giuseppe, con ogni probabilità, era premorto e perciò di lui non si fa cenno in questo avvenimento. Notate subito che, dove c’è la Madonna, ivi non può mancare il suo Figlio divino. Forse fu Lei che suggerì agli sposi novelli d’invitarlo. Gesù, che in quei giorni cominciava la sua vita pubblica, vi arrivò con alcuni discepoli; e cominciarono le feste. Ma sul più bello del banchetto venne a mancare il vino; l’imbarazzo fu subito intuito dalla Vergine, la quale si fece premura d’avvertire il Figlio: « Non hanno più vino ». « Che importa a me e a te? — le rispose Gesù, ed aggiunse: — la mia ora non è ancora venuta ». Queste parole non parvero a Maria un rifiuto, se poi con suadente accortezza avvisò gl’inservienti di tenersi pronti ai cenni di suo Figlio. Il quale comandò di colmare d’acqua le sei pile che v’erano là per lavare le mani e i piatti secondo gli usi giudaici. Tutta quell’acqua fu poi tramutata in vino eccellente come non s’era mai bevuto. Perfino il direttore del banchetto ne fu meravigliatissimo, tanto che disse allo sposo: « Tutti servono da principio il miglior vino, e fan passare il meno buono quando i convitati sono brilli, ma tu hai serbato il migliore per ultimo ». – Questo fu il primo miracolo di Gesù ed accadde alla presenza di Maria, per sua intercessione. A considerarlo attentamente, si rivela la bontà e la potenza di Maria. – LA BONTÀ DI MARIA – a) La Madonna è la prima ad accorgersi del serio imbarazzo in cui si trovano sposi. Essi, forse, non lo sapevano ancora, e già il cuore della Madre divina è trepidante per loro: le pare già di assistere alla delusione, alla meraviglia e alle proteste dei convitati che si trovano senza vino nel momento in cui lo si desidera maggiormente; di assistere allo sgomento e alla vergogna degli sposi novelli che si vedono offuscata anche l’ora più gioiosa della vita. Ella si preoccupa e soffre come di una sventura sua, capitata nella propria casa. Noi, chiusi nel cerchio dei nostri interessi personali, noi egoisti e dimentichi di chi soffre nell’anima e nel corpo, come siamo indegni d’essere figli d’una Madre così buona! Sappiamo che ci sono nazioni intere a cui manca il vino della fede, e ci sono missionari estenuati e insufficienti perché senza mezzi; sappiamo che anche nelle mostre parrocchie il male e l’ignoranza trionfano perché i sacerdoti non bastano, se non sono aiutati; eppure viviamo nella beata indifferenza, come se fossero bisogni le pene che non ci riguardano. Sappiamo che non lontano da noi c’è una famiglia in miseria, c’è un infermo, c’è una disgrazia; sappiamo che, mentre cade la neve e tira il vento freddo, c’è gente senza casa, o senza coperte, o senza fuoco, o senza scodella di minestra calda; noi bene pasciuti, ben riscaldati, allegri e sani, ci chiudiamo nella felicità di casa nostra. Non si arriva talvolta a provare un istintivo e malvagio senso di gioia per qualche infelicità toccata agli altri, quasi che l’umiliazione altrui aumenti la nostra gloria, quasi che il dolore altrui aumenti il nostro benessere? E, per contrario, non si arriva a provare un istintivo e malvagio senso di pena per la fortuna toccata ad altri? Perfino nella preghiera, portiamo il nostro egoismo, la grettezza del nostro cuore, e, pregando non ci ricordiamo che dei nostri dolori, dei nostri bisogni. La vera preghiera dei figli di Dio non è egoistica, ma s’impietosisce anche dei dolori e alle disgrazie altrui, allarga le braccia verso i peccatori, gli infedeli, le anime purganti, la gerarchia ecclesiastica, il Papa, la Chiesa universale, la gloria immensa di Dio. Non viviamo soli al mondo, Cristiani, ma siamo uniti tutti in una sola famiglia che è la Chiesa, siamo membri di un sol corpo che è il mistico Corpo di Cristo. Niente è più contrario alla religione dell’individualismo egoistico. Torniamo alla Madonna, e aggiungiamo un’altra riflessione sul suo buon cuore. – b) La Madonna non sa criticare. Un’altra persona al suo posto, vedendo mancare il vino, avrebbe fatto due sorta di ragionamenti. Avrebbe detto: « Che gente irriflessiva, senza giudizio, senza avvedutezza! Ti fanno un banchetto, invitano gente, e non pensano a provvedere almeno l’indispensabile. Se adesso resteranno scornati, se lo sono meritato: un’altra volta ci penseranno meglio ». Oppure avrebbe detto: «Che spilorci! come si fanno compatire in una circostanza in cui anche i più miserabili sanno apparire signori! Pretendevano che si venisse a festeggiarli bevendo più acqua che vino ». Simili pensieri non attraversarono mai, neppure lontanamente, il cuore di Maria. Ella non sa criticare, sa provvedere e aiutare, Invece sono moltissimi che sanno inasprire le sofferenze altrui con i loro giudizi, le loro assennate disapprovazioni, i loro pareri per l’avvenire, ma non muovono un dito per correre efficacemente. Oh; sapessero almeno tacere! – c) La Madonna non sa tardare. Un’altra persona al suo posto non si sarebbe mossa, dicendo fra sé e sé: « Aspettiamo che me lo dicano ». Invece la Madonna non sa aspettare: benché non informata, Ella indovina la situazione; benché non pregata, soccorre liberamente. La bontà di Maria vede due cose nel nostro cuore. La prima è che spesso siamo così distratti, così pieni di sonno, che non ci accorgiamo neppure d’essere sull’orlo dell’abisso; come i due sposi non s’accorgevano che non c’era più vino. Siamo tutti come i bambini che si mettono nei pericoli senza saperlo. Ma una madre non aspetta che il suo fanciullo la chiami, ma ella accorre quando un veicolo, una bestia, o qualsiasi altro accidente minaccia la sua vita. Chissà quante volte la Madonna è accorsa a salvarci, ha interceduto e pianto per noi! Se avesse aspettato sempre che la pregassimo, a quest’ora forse saremmo già all’inferno. – Come sei buona, dolce madre Maria, non ho parole per ringraziarti! La Madonna sa un’altra cosa di noi. Ed è che ci brucia terribilmente aprire agli altri la nostra miseria, abbassarci a chiedere aiuto: si preferirebbe soffrire, anche morire. E Maria, la buona, la dolce Regina, c’insegna che la carità migliore si deve fare senza essere richiesti e senza umiliare, e, se fosse possibile senza farsi conoscere da nessuno, neppure dal beneficato. Nei « Promessi Sposi » gran libro di sapienza cristiana, c’è un buon sarto che doveva aver imparato dalla Madonna a far la carità. Era povero, ma sapeva di una persona più povera di lui, benché non gli avesse detto nulla. Un giorno di festa mise insieme in un piatto delle vivande che erano sulla tavola, e aggiuntovi un pane, mise il piatto in un tovagliolo, e preso questo per quattro cocche, disse alla sua bimbetta maggiore: « Va’ qui da Maria vedova; lasciale questa roba, e dille che è per stare un po’ allegra co’ suoi bambini. Ma con buona maniera ve’: che non paia che tu le faccia l’elemosina. E non dir niente, se incontri qualcheduno; e guarda di non rompere ». (cap. XXIV). – Osservate il delicato accorgimento di accettare qualcosa dai bambini. Cristiani, mandate spesso i vostri bambini a fare l’elemosina. Osservate ancora che saggi avvisi dà il sarto, soprattutto non dimenticate le parole: « che non paia che tu le faccia l’elemosina ». Cristiani, dobbiamo essere riconoscenti ai poveri quando si degnano d’accettare il nostro superfluo, perché essi ci arricchiscono nel cuore di bene essenziali. – LA POTENZA DI MARIA. La parte più interessante del miracolo di Cana è in quel sommesso dialogo di Maria con Gesù. C’è come un combattimento tra la misericordia e la giustizia, tra l’ansioso cuore d’una Madre e la volontà imperscrutabile dell’Onnipotente, tra la Madonna e Dio. Il meraviglioso è che vince la Madonna. O Vergine potentissima, vinci, anche per noi, così! Dice Maria sottovoce: « Gesù, non hanno più vino ». Risponde Gesù: « Né Io, né tu abbiamo colpa; noi non c’entriamo ». La Madonna non è contenta: il suo amore non si volge soltanto a quei casi dove in qualche modo è interessata; la sua carità non cerca mai il proprio tornaconto. Ripete Maria sottovoce: « Gesù, non hanno più vino ». Risponde Gesù: «Lascia andare! Non è questo il momento per farmi conoscere Figlio di Dio ». Solo una madre sa capire perfettamente le parole di un figlio; e la Madonna sentì che sotto a quel no, in fondo in fondo tremava un sì. Subito ne approfittò con un atto che diremmo audace, se non fosse della Vergine prudentissima. – Chiamò i servi e li mandò davanti al Figlio pronti a ricevere ordini. E Gesù disse loro: « Riempite d’acqua le sei pile ». Come Ella udì, tremò tutta di gioia. Aveva vinto. Aveva ottenuto di far lieti due cuori. La Madonna è vittoriosa! E che vittoria! Ciascuna pila conteneva più di cento litri: bastava dunque che l’acqua d’una sola fosse tramutata in vino. Ma la Madonna non fa le grazie su misura, Ella abbonda e sovrabbonda, è magnificentissima. Le sei pile si trovarono tutte colme di gustoso e redolente vino. I due sposi ne ebbero per quel giorno e per un anno intero. Cristiani, nella nostra vita manca forse il vino del fervore, dell’amore di Dio. Purtroppo, da tanti e tanti l’amor di Dio non si conosce neppure. Amore alla carne, amore ai danari, amore agli onori, amore a questo mondo bugiardo: ecco quel che hanno in cuore. Se ci troviamo in questo numero, preghiamo Maria perché per noi si rivolga a dire al suo Gesù: « Non hanno più vino ». Pregatela così, e sentirete un generoso vino, dolce e forte, riempire i vostri cuori, e vi troverete cangiati da quei di prima. – Può darsi che qualcuno, pur convinto della bontà e della onnipotenza di Maria, non osi invocarla per sé, perché da moltissimo tempo in balìa del vento d’ogni più brutto piacere, più non l’ha pregata e forse l’ha oltraggiata. Ora è triste in fondo al cuore, vorrebbe ritornare, ma dispera. Per costui voglio ricordare una graziosa leggenda tessuta intorno a un convento di Vienna, detto il convento della Celeste Portinaia. Si racconta che, moltissimo tempo fa, la suora portinaia di quel convento, disamorata della vita claustrale, fu presa da una forte smania di ritornare al mondo e appressare le sue smunte labbra al vino della felicità mondana, Una notte, che tutte le suore dormivano nella pace purissima, ella non poteva dormire per la veemenza di quel desiderio. La sciagurata non era cattiva ma debole, e ad un certo momento non seppe più resistere. Si alzò, discese in portineria, aprì; poi prese la chiave e il suo velo di suora e li depose dietro la statua della Vergine Maria che stava vicino alla porta, con queste parole: « Regina del Cielo, ecco la chiave; fate di buona guardia al convento… » E, senza voltarsi, uscì. La notte oscura era senza stelle. Per sette anni visse nel mondo e bevve al suo calice lunghi sorsi, ma non erano di felicità. Il mondo è cattivo, bugiardo, ingannatore; non era vino quello che dava alla sua sete, ma liquidi melmosi e piccanti ed esasperanti. La delusione fu terribile. Dopo sett’anni quella povera suora senza velo, umiliata, distrutta, pentita, con la promessa d’una severa penitenza, colla volontà d’un totale rinnovamento, s’avvicinò al suo chiostro. Era ancora notte, ma una notte piena di stelle. Il cuore le batteva forte. Fece per bussare alla porta, ma era aperta: dietro la statua della Vergine c’era un velo e le chiavi. Il suo velo e le sue chiavi. Al giorno dopo riprese il suo ufficio di portinaia, senza che alcuno facesse meraviglie del suo ritorno o le dicesse alcunché. Nessuno si era accorto della sua lontananza perché la Vergine benedetta s’era messa ogni giorno il suo velo, aveva preso la sua sembianza, ed aveva fatto al suo posto la portinaia. Cristiani, se delusa dagli avvelenati piaceri del demonio e del mondo, un’anima vuol ritornare a bere il vino casto della pace e della gioia di Dio, per quanto male abbia commesso, non abbia disperazione o timore veruno. Troverà la porta aperta. Una dolce Madre, da tanto tempo, gliela tiene aperta, aspettando, piangendo, pregando.

Questo è uno dei sette miracoli raccontati in tutto il Vangelo di S. Giovanni; è il primo miracolo con cui Gesù inizia la vita pubblica, e ci richiama quello con cui la terminerà, quando non l’acqua in vino ma il vino tramuterà in sangue suo. Nel brano evangelico la figura che più risalta è quella della Madonna: Ella appare qual è, Regina e Madre, potente e clemente. Regina potente fino ad indurre il Signore, quasi contro voglia, a compier fuor di tempo un miracolo. Madre clemente fino a diventare la confidente nei crucci della casa; fino a interessarsi del vino per risparmiare un disonore agli sposi; fino a far le cose con tale discrezione che neppure il direttore del banchetto sulle prime se ne avvide. Infatti, nella sala dove si beveva, s’udì la sua voce risonare: « Sposo, tu hai fatto diverso da tutti: gli altri servono da principio il vino migliore e mandano alla fine, quando s’è già brilli, lo scadente. Ma tu hai serbato l’ultimo fino ad ora ». E non sapeva l’architriclino che quello era il vino della Madonna: frutto della sua potenza regale verso Dio e della sua materna clemenza verso gli uomini. – REGINA POTENTE. Salomone, re d’innumerabile popolo e d’inestimabile ricchezza, accanto al suo trono fece innalzare un nobile seggio per la madre sua, a cui disse: « Non mi è più possibile opporre un rifiuto a qualsiasi desiderio tuo ». Questo fatto della Sacra scrittura, la Chiesa e i Santi l’hanno più volte applicato a Maria santa: e giustamente. Accanto al trono di Cristo Re dei secoli, un altro seggio è, in mezzo al Paradiso, innalzato: quello della Regina del cielo e della terra. Qualsiasi desiderio suo è sempre esaudito. Ella è potente perché tutta santa. Nessuna macchia ha potuto contaminarla mai, neppure la macchia originale che ogni figlio d’Eva contrae nascendo. E non solo non conobbe peccato, ma la sua anima è adorna della luce d’ogni virtù; è umilissima, purissima, pazientissima. La santità di tutti i santi che furono e che saranno, non raggiunge quella di Maria. Perciò Iddio è rapito nella contemplazione del capolavoro della sua abilità santificatrice e non può resistere alle sue preghiere. Ella è potente perché Regina degli Angeli e dei Santi: tutto il paradiso a lei s’inchina. Le schiere angeliche attendono il suo cenno per accorrere in nostro aiuto. » tutti i santi sono felici d’eseguire il suo comando. Ella è potente perché invincibile contro il demonio: col suo calcagno ha schiacciato il capo al serpente antico il quale non ha potuto mai nulla contro di Lei. Con la luce dei suoi occhi ha fulminato tutte le eresie, e col solo suo Nome ha messo in fuga lo spirito delle tenebre. « Terribilis ut acies ordinata! ». Ella è potente perché Madre di Dio. Le madri possono tutto ottenere dai figli; i figli non sanno nulla negare alle madri. Se la Madonna supplica, se piange per noi, come potrà il suo Figlio divino lasciarla inconsolata? A parole oserà rispondere: « Donna, che cosa importa a me e a te di quei peccatori? », ma poi farà come Ella vuole. – Se in tante famiglie manca il vino dell’amore e della concordia e il giogo maritale è divenuto una catena penosa per gli sposi e uno scandalo per i figli, è perché in quella famiglia la Madonna è stata dimenticata, è stata scacciata. Altrimenti saprebbe Lei, la Madre clemente, rinnovare il miracolo di Cana. Se tanti uomini non sono capaci di portare la loro croce, e nel dolore perdono la speranza e imprecano di disperazione, è perché nel loro cuore la Madonna è stata dimenticata, è stata scacciata. Quando a Santa Teresa morì la mamma, ella, appena dodicenne, singhiozzando si gettò ai piedi di una statua della Vergine e la supplicò di essere la madre sua… Con questa confidenza, nei grandi dolori della vita; noi dobbiamo ricorrere a Maria. – Se l’amore della Madonna ci accompagnasse nei giorni della vita, non avremmo nulla da temere neppure nel giorno della morte. Entrando nel regno dei beati dove Ella è Signora, le diremmo con eterna riconoscenza: « Madre clemente! ». – Fanciullo ancora, Giovanni Maria Vianney, che fu poi il curato d’Ars, andava a lavorare la terra con suo fratello maggiore il quale, più robusto di lui, dissodava zone più vaste e lo lasciava indietro per un buon tratto. Giovanni ne aveva rimproveri e vergogna. Allora per eccitarsi al lavoro portava alla vigna una statuetta della Madonna che issava sopra un bastone a qualche metro davanti a sé. Poi, un colpo di vanga e uno sguardo a Maria, lavorava con la brama d’arrivare presto a Lei che poi, di nuovo, trasportava di qualche metro più avanti. Così riusciva a sorpassare il fratello che dissodava una zona di terreno accanto. Come il giovane Vianney così noi tutti, o Cristiani, dobbiamo dissodare il campo della vita: non perdere mai di vista la Regina potente, la Madre clemente. Ad ogni fatica, a ogni pericolo, ad ogni dolore, ad ogni giorno, almeno uno sguardo a Lei. Quante belle devozioni non hanno saputo trovare le anime gentili per la Madonna? Alcuni santi, ogni giornata, recitano tre « Ave Maria » per ottenere la purezza. Che cosa sono tre « Ave Maria? ». Eppure, per esse, confessarono d’aver vinto tutte le tentazioni della carne. Molte famiglie hanno conservato la bella tradizione dell’« Angelus » mattina, mezzodì e sera. In molte altre non manca mai il Rosario quotidiano. Case fortunate dove la Madonna è amata! Io vorrei conchiudere queste parole col raccomandare a ciascuno di scegliersi una propria devozione alla Vergine: sia quella di privarsi della frutta o del vino altro; sia quella di salutarla con una giaculatoria ad ogni scoccar d’ore; o quella di recitare un’« Ave » tutte le volte che s’entra o si esce di casa, o quella ancora di comunicarsi ad ogni sua festa. Ognuno deve avere la sua devozione a Maria. – IL CONTRATTO MATRIMONIALE TRASMUTATO IN SACRAMENTO. S. Francesco di Sales aveva ospite in casa da alcuni giorni un suo amico. Ed ogni sera, fatto un poco di conversazione, lo accompagnava fino alla sua camera. L’altro protestava e non voleva che un Vescovo si disturbasse tanto per un laico. « Amico mio, non siete voi sposato? ». « Non ancora ». Allora avete ragione di protestare: vi tratterò con più confidenza e minori riguardi ». Per il santo dunque una persona sposata doveva essere circondata di una maggior venerazione. Perché? per la dignità del sacramento del matrimonio che conferisce agli sposi una grazia che li rende capaci d’amarsi soprannaturalmente, e di educare i figli per il Paradiso, e di sopportare con serenità i pesi del loro stato. – Appunto per santificare le nozze, Gesù volle trovarsi a quelle di Cana. Come ha preso la lavanda a simboleggiare e a conferire la grazia che lava dal peccato originale, nel Battesimo, così ha preso il mutuo e perpetuo impegno degli sposi a donarsi l’uno all’altra per simboleggiare la sua unione con la Chiesa e per conferire la grazia d’amarsi indissolubilmente come Egli e la Chiesa si amano. Perciò in Cristo e nella Chiesa il matrimonio è diventato un grande sacramento. Se è un Sacramento, ed un Sacramento dei vivi, bisogna prepararsi con retta intenzione; accostarsi con pura coscienza; perdurarvi secondo la legge di Dio. – a) Prepararsi con retta intenzione: non per calcoli umani, né per stimoli unicamente passionali. « Stammi a sentire: — diceva l’angelo Raffaele al giovane Tobia — io ti mostrerò chi sono quelli sui quali può prevalere il demonio. Quelli che vanno al matrimonio dimenticando Dio, solo per sfogare la propria libidine, come il cavallo ed il mulo che non hanno intelletto: su quelli il demonio ha potestà ». Ma Tobia pregava: «Signore, tu sai ch’io prendo moglie non per lussuria, ma per desiderio di figli nei quali il tuo Nome sia benedetto nei secoli dei secoli » (Tob., VI, 16 – 17; VIII, 9). – b) Perdurarvi secondo la legge di Dio: non significa appena la condanna di ogni infedeltà, ma anche la condanna di ogni uso del matrimonio che non rispetti il fine per cui il Signore l’ha istituito. – Quel Gesù che alle nozze di Cana trasmutò l’acqua fredda e insapore in vino, forte e generoso, nelle mistiche nozze della Divinità con la umanità avvenute nella sua Incarnazione trasmutò noi da poveri decaduti figli di Adamo in figli di Dio. Come rami di un ulivo selvatico siamo stati staccati dal vecchio e maligno tronco, siamo stati innestati nel divino ulivo Gesù, ed ora assorbiamo la linfa della sua vita, e uniti a Lui possiamo produrre frutti degni della Santissima Trinità. Orbene, ogni innesto richiama una doppia ferita: una nel tronco che deve ricevere il ramo, l’altra nel ramo che deve essere tagliato via dal ceppo maligno. Cristo ricevette la sua ferita sul Calvario. Noi dobbiamo infliggercela di giorno in giorno per strapparci ai desideri e alle opere dei figli del secolo, per vivere soltanto nei desideri e nelle opere di figli di Dio. – Ricordate la meravigliata espressione del direttore di tavola: « Tutti bevono prima il vino migliore e serbano per ultimo lo scadente… tu hai fatto il contrario ». Sono gli stolti seguaci del mondo che eleggono il vino buono e allegro per questa vita e nell’altra si riserbano lo scadente… Noi Cristiani, seguaci dello Sposo divino Gesù, in riconoscenza delle preziose trasmutazioni che per nostro amore ha operata, eleggiamo per questa vita il vino amaro della mortificazione, ed Egli nell’altra ci riserberà quello ottimo del gaudio eterno.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps LXV: 1-2; 16

Jubiláte Deo, univérsa terra: psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja.

[Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: cantate un salmo al suo nome: venite, e ascoltate, voi tutti che temete Iddio, e vi racconterò quanto Egli ha fatto per l’anima mia. Allelúia.]

Secreta

Oblata, Dómine, múnera sanctífica: nosque a peccatórum nostrórum máculis emúnda.

[Santifica, o Signore, i doni offerti, e mondaci dalle macchie dei nostri peccati.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann II: 7; 8; 9; 10-11

Dicit Dóminus: Implete hýdrias aqua et ferte architriclíno. Cum gustásset architriclínus aquam vinum factam, dicit sponso: Servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc signum fecit Jesus primum coram discípulis suis.

[Dice il Signore: Empite d’acqua le pile e portate al maestro di tavola. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino disse allo sposo: Hai conservato il vino migliore fino ad ora. Questo fu il primo miracolo che Gesù fece davanti ai suoi discepoli.]

Postcommunio

Oremus.

Augeátur in nobis, quǽsumus, Dómine, tuæ virtútis operatio: ut divínis vegetáti sacraméntis, ad eórum promíssa capiénda, tuo múnere præparémur.

[Cresca in noi, o Signore, Te ne preghiamo, l’opera della tua potenza: affinché, nutriti dai divini sacramenti, possiamo divenire degni, per tua grazia, di raccoglierne i frutti promessi.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (188)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXV)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUARTO

I SACRAMENTI

V. — La Penitenza.

D. Quale posto tiene il sacramento della penitenza nell’economia cristiana?

R. Lo stesso posto che il peccato nella vita. La religione, avendo da fare con l’uomo, non poteva dimenticare il peccatore; non poteva abbandonarlo a se stesso; bisognava trovar ripiego e ingegnarsi per riuscire, per farci riuscire, ad onta delle nostre costanti sconfitte.

D. Come intendi tu il peccato?

R. I Cristiani lo definiscono un’offesa a Dio, o una disubbidienza alla legge di Dio.

D. Si può offendere Dio?

R. È possibile purtroppo, ed è una grande sventura se si bada al fatto; se poi ci si richiama alla mente il nobile privilegio che lo permette: la libertà, è il triste prezzo di una gloria.

D. Offendere Dio!… Io penso al verso di Victor Hugo nel La Conscience: « E nella notte si lanciavano frecce contro le stelle».

R. Se le stelle fossero vive, si offenderebbero del gesto, benché perfettamente tranquille per i suoi effetti. Impotenza non significa irresponsabilità o innocenza.

D. Se non si nuoce?

R. L’Essere a cui non si potrebbe nuocere, a cagione della sua grandezza, è quello che si deve venerare di più, dunque è quello che si offende sommamente, se si tocca la sua gloria.

D. Che cosa fa il peccato alla gloria di Dio?

R. Umilia il pensiero creatore; contraria una volontà di perfezione e d’ordine; nell’armonia dell’opera divina, introduce delle dissonanze e compromette il « regno de’ suoi fini » (KANT).

D. Pochi pensano a queste cose; nessuno vuole queste cose. Si opera come questo e quello; ma chi intende di offendere Dio?

R. Non s’intende di offendere Dio; per lo meno ciò è raro; ma si vuole contentare se stesso a rischio di offendere Dio, ad onta dell’offesa di Dio. Se si potesse fare in modo che Dio non fosse offeso, senza dubbio ciò si farebbe; ma questo vuol dire che si desidera di cambiare il male in bene, piuttosto che guardarsi dal male.

D. Siamo dunque tutti peccatori?

R. «Il più mortale peccato è l’orgogliosa coscienza di essere senza peccato » (CARLYLE).

D. Che cosa chiami tu peccato veniale e peccato mortale?

R. Il peccato mortale è quello che si oppone formalmente a una volontà di Dio, che per questo ci toglie la sua amicizia, in tal modo che il peccatore, recedendo dal suo Dio, volta le spalle al suo ultimo fine in favore d’un bene frivolo. – Il peccato veniale, pur rispettando l’amicizia di Dio e il buon orientamento della vita, devia però un poco dal sentiero del bene.

D. Da che dipende una così gran differenza di natura e di risultati?

R. Può dipendere dalla maggiore o minore gravità della materia, che in un caso si reputa oggetto di una volontà formale del legislatore, e nell’altro no. Può dipendere, in una stessa materia grave, dalla pienezza dall’imperfezione del consenso.

D. L’uomo in stato di peccato grave fa ancora parte della Chiesa?

R. Sì, come un membro morto. Non riceve più il sangue del cuore, che è l’amore divino; non ubbidisce più all’idea direttrice del corpo, che è lo Spirito di Cristo; è privo del calore vitale e della motricità spirituale; non ha più diritto al pane di vita che dovrebbe mantenere in lui la vita che gli manca; è «uno scomunicato dell’interno » (Bossuet), benché circoli ancora nel gruppo e nei sacri edifizi.

D. Che cosa è dunque il sacramento della Penitenza?

R. È quello che è destinato a cancellare i peccati commessi dopo il Battesimo e a rendere al peccatore la grazia del suo Dio.

D. È dunque un Sacramento di purificazione?

R. E di riconciliazione. Sono lì quelle acque di Siloe « che scorrono in silenzio » nelle quali Gesù invita i malati a purificarsi. Ma dopo, o piuttosto per il fatto stesso della purificazione, che ristabilisce la grazia battesimale, l’anima pura si sente in Dio, « chiarezza fusa alla chiarezza » (FRANCESCO JAMMES).

D. La Religione si adagia facilmente col peccato! Essa sì rassegna dunque al peccato?

R. La Religione non si rassegna al peccato; ma si rassegna all’uomo peccatore; è il peccatore che Cristo le ha affidato, affinché con Lui, essa lo salvi.

D. Il peccato dunque non è più una disgrazia?

R. Il peccato è la più grande delle disgrazie; si potrebbe dire che è la sola; ma esso non è irreparabile; dopo di esso non è finito tutto; dopo di esso tutto si può riprendere, tutto si può riparare, tutto può ridiventare puro, tutto si può mostrare più alto che prima, ed è qui che sta il capolavoro.

D. Dunque il cattivo sarà l’oggetto della più apparente bontà?

R. Gesù disse: Io non sono venuto per quei che stanno bene, ma per quei che sono malati.

D. Si possono amare è cattivi?

R. I cattivi hanno bisogno d’amore più degli altri; essi sono in estremo pericolo, ed è l’amore che li rialza.

D. Non vi sono eccezioni? Certi mostri

R. Un mostro è un uomo spaventosamente deviato; l’umanità, in lui, rimane; egli può finalmente disarmare; solo l’amore divino non disarma.

D. Ma il peccatore ha offeso quest’amore.

R. La penitenza cristiana ci obbliga a collocare la nostra fiducia nello stesso amore che abbiamo disconosciuto.

D. Lo sforzo della Penitenza è dunque

R. Di vincere il peccato, di passargli per così dire sul corpo, per riprendere il sentiero.

D. Non è questo un compromesso?

R. Il sole si compromette forse spazzando via il fango?

D. Il sole regna lassù in alto.

R. La Religione non teme il peccato appunto perché essa regna lassù, cioè perché è divina; esso lo maneggia con dita di luce.

D. Che cosa domanda ai peccatori?

R. «Che vengano a subissarsi tra due braccia tese» (O. PÉGUY).

D. Vi sono però delle condizioni?

R. Vi sono delle condizioni, ma che tutte favoriscono il peccatore; gli si procura a un tempo l’onore della giustizia e il benefizio della misericordia. La penitenza è l’amplesso della giustizia e della misericordia.

D. Qual è la parte della giustizia?

R. È lo sforzo. Per la penitenza ci si dà il mezzo di rientrare in possesso di noi come per il lavoro noi riconquistiamo la natura ribelle. Qui e là, è una stessa fatica, che ricompensa una stessa ascensione verso l’innocenza dell’anima e delle cose.

D. E ne segue?…

R. Il possesso rinnovato della grazia, una migliore esperienza di se stesso, una fiducia crescente nel soccorso di Dio  che rialza, e una nobile pace,

D. Certi peccati hanno conseguenze esterne o interne.

R. Dio se le addossa insieme con noi; e nella proporzione di quello che ci è possibile, noi dobbiamo addossarcele insieme con Lui.

D. E le abitudini peccaminose?

R. Quello che prima era responsabilità crescente, a cagione della frequenza dei cattivi voleri, diventa poi scusa. Se un uomo ha colpevolmente avvilito l’anima sua, ma poi si emenda, dopo egli viene trattato come un convalescente che l’amore tratta con riguardo.

D. Non è ciò un invito a mal fare?

R. Tu riporti un’obiezione di Giuliano Apostata.

D. Non importa, non è invero troppo comodo scaricarsi così tutto a tratto delle proprie colpe, forse di tutta una vita di peccato?

R. Preferiresti un’incomodità eterna? Non sta appunto lì quello che si oppone all’inferno? Bisogna ben che tutto finisca; ma ciò non avviene senza che ci siano proposti, e proposti molte volte, dei « comodi » ricominciamenti.

D. Nondimeno certi atti sì dicono irreparabili.

R. La penitenza smentisce colui che disse: « Ciò che si rimette non è mai ben rimesso; ma ciò che si smette è sempre bene smesso » (C. Péguy); essa è in certo modo creatrice; ci rifà un’anima, e ci ricrea un universo, quello di Dio, tutto fatto di bontà e di sapienza, senza quel disordine e quel turbamento in cui il peccato ci aveva immersi.

D. Si può concedere l’amnistia a un colpevole; ma la società non gli restituisce mai la sua intera stima.

R. La società non vede il cuore, ed ha poco cuore. Gesù tracciò la condotta della sua Chiesa facendo sua amica e sua apostola una donna disonorata.

D. Il peccatore deve dunque essere nella gioia?

R. La gioia è per noi un dovere, perché è un omaggio, e significa: Padre, io credo al tuo perdono, credendo al tuo amore.

D. Consigli tu ai penitenti di ricordare sovente i loro peccati?

R. Essi devono ricordare la loro debolezza e la misericordia di Dio, ma non vagliare la loro miseria. Una volta usciti dalla notte, bisogna camminare, e non indugiarsi a contare le cadute fatte nell’ombra.

D. Da che dipende la frequenza delle cadute, ad onta della frequenza dei rialzamenti?

R. A volte dalla fiacchezza dello sforzo che raddrizza; ma specialmente da quella terribile inclinazione naturale che ci rende caro il peccato, e dall’abitudine, che tende a renderlo necessario.

D. Quante volte si perdona?

R. È la domanda di S. Pietro al suo Maestro, e Gesù risponde: « Settantasette volte sette », senza dubbio con un tenero sorriso. Lui che ci lascia nella nostra debolezza, pur rialzandoci dall’antica caduta, tiene conto di questa debolezza e la soccorre; essa dev’essere un mezzo di salute, ed egli non vuole farne una causa di perdizione. Per l’amore che egli ci offre ancora e che possiamo ricuperare, egli intende di valersi, per rialzarci, della nostra potenza di caduta. Non sono certi falsi amori che c’ingannarono? La bilancia risalga, dopo essere sfuggita al suo punto morto!

D. Non vi è nessun limite?

R. Nessuno; l’amore del Padre è tale, che l’infedeltà ostinata del figlio non lo scoraggia mai. I perdoni del Signore sono una moltitudine », dice il salmo. « Quando gli diciamo: Ti ho tradito, egli ci risponde: Va in pace, io ho fiducia in te ».

D. Non vi è dunque mai motivo di disperare?

R. Il disperare è un disconoscere Dio e se stesso. Si fosse pur Caino, si fosse pur Giuda, si è sempre figli di Dio, e si hanno da prendere per sè queste parole del dolce Maestro, che non si rivolgono meno alla sventura colpevole che alla sventura innocente: « Venite a me, voi tutti che soffrite e siete oppressi, e Io vi solleverò ».

D. Perché la Chiesa interviene in un atto così intimo come la penitenza?

R. Noi siamo membri della Chiesa; quando siamo ammalati spiritualmente, la Chiesa è ammalata in uno dei suoi membri: non è forse normale che essa cerchi di guarire se stessa guarendo noi?

D. Io mi meraviglio di questo pensiero che per un peccato isolato la Chiesa sia ammalata.

P. « Non vi sono che malattie generali », dicono i medici; a cagione della solidarietà funzionale, un elemento che si turba è un male del tutto.

D. Il peccato però è un’offesa a Dio.

R. Dio è per mezzo di Cristo il capo o la testa della Chiesa; per mezzo dello Spirito Santo Egli ne è l’anima. Dio, Cristo e Chiesa dunque sono qui tutt’uno, come direbbe Giovanna d’Arco.

D. Il peccato sarebbe dunque un male universale?

R. « Il minimo movimento importa a tutta la natura; il mare intero cambia per una pietra. Così nella grazia. La minima azione, per le sue conseguenze, importa a tutto » (PASCAL).

D. Tuttavia il peccatore sovente è solo.

R. Il peccatore crede di essere solo; ma è in presenza del cielo e della terra, ed egli offende il cielo e la terra, di cui sconcerta le leggi.

D. E ciò, ai tuoi occhi crea un diritto d’intervento in favore della Chiesa?

R. È un diritto, poiché essa è lesa da parte sua, ed è un benefizio perché là dove c’è solidarietà organica, la guarigione, come la malattia, è funzione di questa solidarietà. « Dio non volle assolvere senza la Chiesa, dice Pascal; com’essa ha parte all’offesa, vuole che essa abbia parte al perdono, e l’associa a questo potere, come i re i parlamenti.

D. Come dunque si possono mettere insieme le condizioni della conversione per mezzo della penitenza?

R. Il peccatore si è mostrato colpevole verso se stesso, verso la Chiesa e verso Dio: se egli si deve convertire, ciò non potrà essere se non per un atto spontaneo, per un intervento della Chiesa e per un intervento di Dio. Nessuna medicina opererebbe sopra un membro, se questo membro non reagisse vitalmente per liberarsi dal male. Nessuna medicina parimenti opererebbe, se la solidarietà organica non interessasse tutto il corpo a questo risanamento che guarisce il corpo stesso. Finalmente nessuna medicina agirebbe, e meno ancora, se l’idea direttrice della vita chiamata anima non si facesse artefice della riparazione, come fu agente della fabbricazione, della crescenza e della nutrizione dell’organismo.

D. Quali sono gli atti del penitente che corrispondono alla sua « reazione » necessaria?

R. Sono la contrizione, la confessione e la soddisfazione.

D. Qual è la parte di Dio?

R. Il perdono.

D. E la parte della Chiesa?

R. La Chiesa opera necessariamente per rappresentante, ed è il sacerdote come giudice, come ministro di assoluzione, come determinatore della soddisfazione.

D. Mi vuoi spiegare queste cose, e prima di tutto, che cosa è la contrizione?

R. Etimologicamente, significa uno «spezzamento o stritolamento del cuore » per il rimorso del peccato.

D. Il peccatore può sempre provare un tale spezzamento?

R. Non ci si domanda che il possibile, e l’immagine usata ha per scopo di farci capire che la contrizione cattolica non è una passività, ma un atto. Io spezzo il mio cuore davanti a Dio in onore della sua santità oltraggiata.

D. Senza immagine, che diresti?

R. «La contrizione è un pentimento delle nostre colpe con la volontà della loro distruzione » (S. TOMMASO D’AQUINO).

D. Che cosa è la confessione?

R. È la dichiarazione delle colpe commesse quanto alla loro specie, al loro numero e alle circostanze che ne modificano la natura o la gravità.

D. E la soddisfazione?

R. È la riparazione consentita in favore di Dio oltraggiato e del prossimo che ha potuto essere leso dalle nostre colpe.

D. Qual è la miglior riparazione riguardo a Dio?

R. Oltre a quello che il sacerdote indica, e che di solito è così poca cosa, è il sopportare pazientemente i mali che Dio ci manda.

D. Perché è la miglior riparazione?

R. Perché è la più conforme alla sua volontà e la più opposta alla nostra.

D. E qual è la miglior riparazione riguardo al prossimo?

R. È quella che annulla e compensa il più esattamente e il più delicatamente possibile il torto che gli abbiamo fatto.

D. In che modo ci viene il perdono di Dio?

R. Per l’assoluzione.

D. Bisogna dunque chiederla a Lui?

R. Sì, ma per mezzo della Chiesa, che ci riallaccia a Lui, e per la quale altresì ci viene la sua risposta.

D. Non vi è qui un’usurpazione di coscienza?

R. Ho già detto e ridetto le ragioni di questo intervento; ma devi osservare che nella Chiesa tutti si confessano, compreso il tuo confessore, compreso il Sommo Pontefice. Dunque si tratta qui d’un fatto che oltrepassa l’uomo, il che esclude ogni idea di usurpazione. Non ne hai forse il segno ben chiaro in questo fatto che il confessore, quando ha assolto, domanda al penitente di «pregare per lui »?

D. Ammetto il compito dell’istituzione; ma, nel fatto, ci si domanda di aprire la nostra coscienza a un uomo.

R. Come l’istituzione potrebbe operare altrimenti, e in un modo più favorevole? Preferiresti confessarti a tutta la Chiesa?

D. Non si faceva così una volta?

R. Così si faceva sotto il nome di confessione pubblica, richiesta per certi delitti. Ma vi si rinunziò presto, a cagione di inconvenienti derivanti dalla nostra miseria comune; però il diritto assoluto non è stato abolito; la nostra credenza al giudizio universale lo rammenta, e ciò dovrebbe farci riflettere quando critichiamo la disposizione prudente e misericordiosa che la Chiesa mette in pratica.

D. Quello che urta i nervi è siffatta dichiarazione di uomo a uomo.

R. Ascolta quello che dice in proposito Pascal: « Noi non vogliamo che gli altri c’ingannino; non troviamo giusto che essi vogliano essere stimati da noi più di quel che essi meritano: non è dunque giusto che noi inganniamo loro e che noi vogliamo che essi ci stimino più che non meritiamo… Ecco i sentimenti che nascerebbero da un cuore che fosse pieno di equità e di giustizia. Che dobbiamo dunque dire del nostro, vedendovi una disposizione affatto contraria?… ». La Religione cattolica non obbliga a svelare i propri peccati a tutti indifferentemente; tollera che si rimanga nascosti a tutti gli altri uomini, ma ne eccettua uno solo, al quale essa comanda di svelare il fondo del proprio cuore e di farsi vedere quello che si è. Non vi è che un solo uomo al mondo che essa ordini di disilludere, e lo obbliga a un segreto inviolabile, il quale fa sì che questa conoscenza sia in lui come se non vi fosse. È possibile immaginare qualcosa di più caritatevole e di più dolce? Eppure la corruzione degli uomini è tale che ancora si trova della durezza in questa legge, ed è una delle principali ragioni che fecero ribellare contro la Chiesa una gran parte di Europa ».

D. Non vi sono gravi inconvenienti in una tale pratica?

R. Tutto ha gravi inconvenienti, in una vita esposta all’accidente e alla debolezza. Ma si tratta di valutare il pro e il contro, e i benefizi della confessione son tali, che la sua soppressione sarebbe un immenso impoverimento per la vita religiosa e la vita sociale.

D. Perché la vita sociale?

R. Perché la vita religiosa è necessaria alla vita sociale, come abbiamo spiegato tante volte, e specialmente su questo punto. Nietzsche giunge a dire che la stessa coscienza scientifica è figlia della morale cristiana, e che essa si è «acuita nei confessionali ».

D. Che cosa procura dunque la confessione?

R. Argina la corrente del male opponendogli una diga reale, visibile, e periodica; — essa sforza a raccogliersi e a precisare il proprio caso, poiché lo si deve esporre; così è una luce, per l’anima spesso ottenebrata e accecata nella sua incoscienza; mette a nudo il peccato, lo fa giudicare tanto meglio in quanto te lo senti giudicato da altri, lo spoglia de’ suoi incanti e lo rende alla sua malizia, a volte alla sua ignominia ipocrita; la confessione procura la liberazione per via della dichiarazione; ti rende la disponibilità dell’anima tua; rigenera con lo sforzo le energie virtuose e spezza il determinismo perverso; la schiavitù delle passioni, nella sua lusinghiera e implacabile stretta, ne sarà attenuata, oltrecché, moralmente, essa cambia segno: aggravamento ieri, triste scusa domani. Da un’altra parte, la confessione ti accerta il perdono divino e così alleggerisce l’anima tua de’ suoi terribili pesi segreti;  di fronte all’invisibile e muta eternità, t’ispira il sentimento di essere inteso, amato, incoraggiato per l’avvenire; reca dunque seco questo conforto, la cui assenza cagiona gli abbattimenti e le disperazioni, di avere davanti a te una pagina bianca, sulla quale oramai tu puoi scrivere un testo santo. — Finalmente, nello stesso tempo che un atto di nobile libertà ti rialza, l’amicizia e la fraternità ti soccorrono, giacché il confessore si fa consigliere, sostegno, consolatore, purché egli conosca il suo compito e tu dal canto tuo sappia richiedere il suo aiuto.

D. Eppure i protestanti non sì confessano che a Dio.

R. Qui bisognerebbe dire: « È troppo comodo! ». Ma io preferisco dire: È troppo poco misericordioso, troppo poco consolante, troppo poco efficace. Chi non conosce le grida di desiderio mandate da certi protestanti quando pensano a questo bagno dell’anima, a questa frizione energica e roborativa, a questo sollievo, a questa reazione di pace!

D. Psicologia geniale, sia pure! ma autenticità e verità?

R. Ho detto ripetute volte, che nella Chiesa, nulla è pullulato per psicologia; l’autenticità del sacramento della Penitenza è quella della Chiesa stessa; ma di fatto, qual senso dell’anima umana in una simile istituzione, se essa non fosse da Dio?