24 AGOSTO: SAN BARTOLOMEO APOSTOLO.

SAN BARTOLOMEO APOSTOLO.

(Otto HOPHAN: Gli Apostoli, Marietti Ed., Torino, 1951)

Il nome e la figura dell’Apostolo Bartolomeo sono circonfusi di sole, perchè Natanaele-Bartolomeo — questo è il suo nome completo — nel Collegio apostolico fu uno dei più contenti e dei più allegri, una vera primavera, se non vediamo errato; il Signore stesso sollevò gli occhi e alzò le braccia in segno di letizia quando si pose al suo seguito questo giovanotto; e noi pure oggi, al sentire il suo nome, ci immaginiamo un uomo tutto armonia e serenità, un uomo illuminato dal sole, un fiore di primavera. – Nei quattro elenchi degli Apostoli, che abbiamo nella Sacra Scrittura, viene presentato col nome di « Bartolomeo »; segue immediatamente, al sesto posto, l’amico suo Filippo; soltanto nel catalogo degli Atti fra lui e Filippo è inserito Tommaso. Bartolomeo e Tommaso! Il Signore assegnò questi due Apostoli allo stesso gruppo. La Provvidenza frammischia sapientemente gli uomini! Il gaio deve accompagnarsi al triste, il tormentato dal dubbio e molestato dalla nebbia deve stare accanto al condiscepolo del sole e della primavera. La loro unione fu di benedizione per tutti e due: Tommaso trovò in Bartolomeo un sollievo, Bartolomeo ebbe in Tommaso un ritegno nei pericoli del cuor contento. È strano che l’Evangelista Giovanni, in tutto il suo Vangelo, non faccia mai menzione d’un Apostolo col nome di Bartolomeo; racconta, in cambio, d’un Natanaele, che però ai tre Evangelisti precedenti sembra sconosciuto. Giovanni scrive di Natanaele nel primo ed ultimo capitolo; Natanaele dunque fu con i Dodici « tutto il tempo, nel quale il Signore Gesù entrò e uscì, dal battesimo di Giovanni sino al giorno dell’Ascensione », proprio come Pietro esige, quale condizione indispensabile, per chi debba essere Apostolo. I due testi citati di Giovanni sembrano provare con certezza che Natanaele appartenne veramente al gruppo dei Dodici: tanto nel primo che nell’ultimo capitolo egli sta fra gli Apostoli noti e riconosciuti; la sua vocazione é riferita con tanta chiarezza e ricchezza di particolari, che non se ne saprebbe assegnare il motivo, se non si trattasse d’un vero Apostolo. Ma se Natanaele del quarto Evangelista fu uno dei Dodici, non può essere che quell’Apostolo, che nei quattro cataloghi è introdotto col nome di Bartolomeo. In questi cataloghi infatti tutti gli altri Apostoli hanno il loro nome proprio; soltanto Bartolomeo, che in essi è chiamato dal nome del padre Bar-Tholmai, figlio di Tholmai, lascia aperta la possibilità ad un altro nome, al suo cioè personale. Nel Vangelo però abbiamo degli indizi anche più chiari: nelle quattro liste degli Apostoli Bartolomeo occupa il sesto posto; ora lo stesso posto è assegnato anche a Natanaele nel Vangelo di Giovanni; inoltre nel quarto Vangelo chi conduce Natanaele a Gesù è Filippo; ma Filippo è messo in relazione con Bartolomeo anche dagli altri tre Evangelisti. Con buone ragioni dunque la sentenza comune ritiene che Bartolomeo e Natanaele siano nomi del medesimo Apostolo. È vero che negli antichi secoli cristiani Agostino e Gregorio Magno difesero l’opinione contraria, ma per motivi che oggi non possiamo riconoscere validi. (Così, per esempio, nei suoi trattati sul Vangelo di Giovanni, Agostino scrive; « Dobbiamo considerare che Natanaele era dotto e competente nella Legge. Per questo il Signore non volle annoverarlo fra i Discepoli; Egli infatti scelse degli ignoranti al fine di confondere, per mezzo di loro, il mondo » Tract. 7, 17 (ML 35, 1446). Non ci è possibile rintracciare le ragioni, che indussero Giovanni a chiamare questo Apostolo col suo nome proprio di “Natanaele” e gli altri Evangelisti invece col nome del padre « Bar-Tholmai »; abbiamo solo parecchi esempi biblici, che provano l’uso diffuso fra i Giudei di designare un figlio col nome di suo padre o di aggiungere questo al nome proprio di lui: Simone, Bar-Jona; Bar-Timeo; Bar-naba; Barsaba, e altri ancora.

L’UOMO ALLEGRO.

Introducendoci a scrivere di Bartolomeo, dovevamo necessariamente provare la sua identità con Natanaele anche perché di questo Apostolo conosciamo solo quello che ci riferisce Giovanni nei pochi versetti, che trattano di Natanaele; gli altri tre Evangelisti, eccettuato il nome del padre, non ci dicono di lui sillaba. Il padre suo, il vecchio Tholmai — questo nome significa « aratro » — era forse una persona tanto nota e ragguardevole, che si potè indicare il figlio di lui semplicemente col suo nome, e una tale ipotesi è avvalorata da una leggenda su Bartolomeo, che si legge in Pietro de Natalibus verso l’anno 1372: dice infatti che il nostro Apostolo era un siro, di famiglia aristocratica e anzi regale; e « la storia della passione di Bartolomeo », opera molto più antica, sorta fra il quinto e sesto secolo, dopo la descrizione del simpatico aspetto dell’Apostolo, ne mette in luce la nobiltà dell’abbigliamento: « Bartolomeo aveva capelli neri, arricciati; gli orecchi coperti dai capelli del capo; colorito della pelle splendente; occhi grandi; naso regolare, diritto; una statura proporzionata, non troppo piccola nè troppo grande. Portava un abito bianco e guarnito di porpora, un mantello pure bianco, le cui estremità erano ornate di rosse gemme ». La leggenda posteriore spende parole per dirci persino che Bartolomeo, nell’atto di entrare nel seguito di Gesù, si sarebbe riservato di poter indossare anche per l’avvenire il suo prezioso abbigliamento purpureo. Questi e altri simili dati, che ci forniscono gli apocrifi e le leggende, non sono evidentemente probativi, ma forse contengono qualche parte di vero, che illumina la figura d’un Apostolo; può ben darsi che Bartolomeo sia cresciuto in luogo aprico. – Ma lasciamo le leggende e passiamo dalle congetture all’aureo e solido terreno del santo Vangelo. La prima notizia, che vi attingiamo, ci dice la patria di Natanaele-Bartolomeo: era di Cana di Galilea; di qui la deduzione di non pochi, e tuttavia senza ulteriori motivi sufficienti, che Bartolomeo fosse lo sposo fortunato delle nozze di Cana. t certo che anch’egli esercitava il mestiere del pescatore; quando infatti Pietro, dopo la risurrezione, si accingeva ad andare a pescare, anche Natanaele gridò con gli altri colleghi: « Veniamo anche noi con te>>. Agostino vede in lui un perito della Legge, perché Filippo lo invitò a Gesù con le parole: « Abbiam trovato Colui, del quale scrissero Mosè nella Legge e i Profeti »; da questo testo però non è lecito trarre tanta conseguenza. Probabilmente anche questo Apostolo era della cerchia del Battista, lo insinua la situazione al momento della sua prima comparsa.nLe poche ma preziose e deliziose righe, che l’Evangelista dedica a Bartolomeo,nce ne fanno penetrare l’anima, sebbene l’informazione sia davvero breve. La Chiesa ha scelto questo tratto evangelico per la Messa votiva dei santi Angeli a motivo del versetto finale; di qui una nuova luce, che si riflette anche sull’Apostolo; sarebbe desiderabile che la Liturgia introducesse la lettura di questo grazioso e solenne brano evangelico anche nel giorno della sua festa. « Filippo incontrò Natanaele », non per caso semplicemente, ma con intenzione cosciente e pia; lo fa intendere il Signore stesso: « Prima ancora che Filippo ti chiamasse, Io ti vidi »; Egli stesso chiamò Natanaele per mezzo di Filippo, come prima aveva pure chiamato Pietro valendosi del fratello suo Andrea. È proprio il metodo della Provvidenza santa: chiama e conduce noi per mezzo di altri; Iddio non vuol operare da solo; la sua sapienza e bontà son così benigne, che vogliono anche noi partecipi della creazione e del governo delle cose. A questo punto entra nel Vangelo Natanaele, ma gli si legge nel viso una ironia sorridente ed uno scherno benevolo; perchè, quando Filippo, che conosciamo un po’ minuzioso e dogmaticamente irretito in difficoltà, lo informò: « Abbiam trovato Colui, del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazareth », egli gli replicò riservandosi e con la furbizia negli occhi: « Di Nazareth? può venire qualcosa di buono da Nazareth? ». Forse gli sfuggì detta quella parola di scherno nei riguardi di Nazareth, perché indotto da quella nota disistima, che spesso vige tra villaggi vicini; Cana, la patria di Natanaele, distava da Nazareth solo quattordici chilometri; ma questo villaggio doveva essere in realtà disprezzato, probabilmente anzi era caduto in cattiva fama presso tutti; l’evangelista Matteo stesso vede le profezie, che riguardavano l’abbassamento e l’abiezione del Messia, adempiute in Gesù, perchè Egli era cresciuto a Nazareth; inoltre in tutti i libri dell’Antico Testamento non si fa mai parola di Nazareth. Era una piccola e insignificante località, come il nome stesso « Nazareth = torre di vedetta » insinua, in contrasto con i grandi centri. Nel Vangelo abbiamo pure dei chiari esempi dell’indole borghesuccia e rozza dei suoi abitanti. Dopo una predica di Gesù a Nazareth, chiedono gelosi e stizziti: « Donde ha costui la sapienza e il potere dei miracoli? Non è il figlio del falegname? … Così non sapevano che cosa pensare di Lui. Gesù allora disse loro: “Un profeta in nessun luogo ha meno onore che nella sua città natale e nella sua casa “. A causa della loro incredulità non operò ivi che pochi miracoli. Luca riferisce anzi un tentativo dei Nazzareni di assassinarLo: «A queste parole — di Gesù — quanti erano nella sinagoga montarono sulle furie; balzaron sù, Lo spinsero fuori della città e Lo condussero sino sul ciglio del monte, sul quale era edificata la loro città, per precipitarLo; ma Egli passò in mezzo a loro e se n’andò ». Eppure Gesù e Maria vissero a Nazareth, in quel villaggio, di cui il mondo nulla diceva, da cui nulla s’aspettava di « buono »! Questo ricordo deve consolare molti uomini, costretti a restarsene e a lavorare in uffici insignificanti e disprezzati o in luoghi sperduti. Nonostante l’atteggiamento di Natanaele, Gesù gli diede un benvenuto che ci stupisce; nessun altro Egli accolse con tanta calda cordialità come lui; il giudizio su Nazareth tornava di pregiudizio allo stesso Maestro, e nondimeno Egli gettò con gioia un ponte fra Sè e quel giovane sostenuto: «Quando Gesù vide venire a Sè Natanaele, disse di lui: “Ecco meramente un israelita, in cui non v’è falsità” ». Su queste parole Agostino osserva: «Una testimonianza preziosa! Quello che fu detto di Natanaele non fu detto né ad Andrea né a Pietro né a Filippo”. Sappiamo infatti quanto alto onore stimassero í Giudei il loro esserenIsraeliti, come ce ne fa fede Paolo nella sua lettera ai Romani e nella seconda ai Corinti “. Nel saluto del Signore però l’accento non è su «Israelita », ma su « Israelita senza falsità » – « Israelita senza falsità » si può interpretare anche nel senso di « Israelita non adulterato »; il testo greco non lo impone, ma lo permette; in questo senso la parola del Signore significherebbe che Natanaele era un Israelita genuino, originario, non ibrido. Preferiamo la spiegazione tradizionale, perché ci sembra più fondata nel testo.

*), il che è elogio per un Israelita davvero singolare!

Basti ricordare che il capostipite degli Israeliti, Giacobbe, pur ricco di virtù, nonnci appare certo come modello d’uomo «senza falsità »; e un’indole aperta e diritta non fu neppure in seguito la virtù nazionale degli Israeliti. Natanaele perònha un carattere limpido, trasparente; « non fa diversamente da quello che afferma >; non ha, « per così dire, due cuori, con uno dei quali scorge la verità, mentre con l’altro crea le bugie > . E di fatto le poche parole, che il Vangelo cinha conservato di lui, sono spontanee e leali, fresche e limpide come una sorgente, che scaturisce dal suolo; in lui non v’è nulla di affettato, di artefatto o di finto. Per questa schiettezza Gesù, l’eterna Verità, amò con affetto tutto particolare questo Israelita senz’ombra d’infingimento e di simulazione. All’udire l’encomio di Gesù, Natanaele sobbalzò più stupito che accarezzato,ne lo manifestò: « Donde mi conosci Tu? »; ma il Signore profittò per dargli una seconda prova, ancor più evidente della prima, della propria divina onniscienza; voleva che in quell’anima gaia, ma forse ancor troppo superficiale, s’infrangesse qualche cosa, qualche cosa colasse a fondo in quel giovane: « Gesù gli rispose:n”Prima ancora che Filippo ti chiamasse, Io ti ho visto sotto il fico” ». Che cosa fosse avvenuto sotto quel fico, rimarrà sempre un segreto di Gesù e di Natanaele; si trattava forse d’una lotta vittoriosamente superata, o d’una decisione definitiva, o forse anche d’una intuizione importante, che gli era brillata in mente qual baleno; si sa che all’ombra degli alberi si amava scrutare la Legge; in qualunquenipotesi, sotto quel fico — gli abitanti di Palestina solevano piantare in prossimità delle loro abitazioni alberi di fico, come noi quasi facciamo col sambuco — era accaduto un fatto grave per l’esistenza di Natanaele. Sentendoselo ora ripeterendal Signore, fu colto da tale sorpresa, che nel suo improvviso entusiasmo esclamò: < Maestro, Tu sei il Figlio di Dio, Tu sei il Re d’Israele! ». Aveva sorriso su Gesù di Nazareth appena un’ora prima; e adesso, a una sola parola della sua onniscienza, Gli rende omaggio con una professione, che per impeto e festosità oltrepassa anche la professione messianica di Andrea e di Filippo. Natanaele è davvero un israelita senza falsità e senza pieghe di cuore!nNon ci è lecito tuttavia sopravvalutare questo omaggio impetuoso; sembranalla pari con la professione messianica di Pietro a Cesarea di Filippo: « Tu sci il

Messia, il Figlio del Dio vivente » ; in realtà però fra il Giordano e Cesarea di Filippo, fra il grido giulivo della primavera e la fede, che solo la calda estate condusse a maturazione, corre un tratto lungo e laborioso. Per i discepoli sulle rive del Giordano Gesù è il Messia nel senso stravolto e terreno delle aspettazioni messianiche giudaiche; per giungere al puro Credo, gli Apostoli dovranno faticosamente aprirsi la via fra molti dubbi e gravi conflitti; soltanto a Pietro il Signore disse: « Beato te, Simone, figlio di Giona! »; adesso non disse: « Beato te, Natanaele, figlio di Tholmai! ». La fede dunque di Bartolomeo presso il Giordano era soltanto la primavera, bella, se vogliamo, ma ancor immatura; per il suo sviluppo e rafforzamento Gesù gli replicò: « Tu credi perchè ti ho detto: Io ti hovisto sotto il fico. Tu vedrai cose maggiori di queste ». E rivolgendosi a tutti continuò: « In verità, in verità vi dico: d’or innanzi vedrete il Cielo aperto e gli.Angeli di Dio ascendere e discendere sopra il Figlio dell’uomo ». Il patriarca Giacobbe, il padre di tutti gli Israeliti, aveva un tempo visti gli Angeli ascendere e.discendere; ora Natanaele e i suoi compagni d’apostolato, che son israeliti senza falsità, potranno essere spettatori del continuo compiersi, in senso spirituale, di quella visione di Giacobbe, contempleranno cioè Gesù in costante e mutua comunicazione col Cielo; le sue parole infatti e i suoi miracoli sono un ascendere e un discendere di potenze celestiali; perchè Egli non è solamente « il figlio di Giuseppe di Nazareth », come falsamente pensava Filippo, pur cogliendo parzialmentennel giusto; non è neppure semplicemente il « Re d’Israele» e lo scrutatore dei cuori, come lo ha acclamato Natanaele; Egli è il Signore del Cielo e il padrone degli Angeli; Bartolomeo con gli altri Apostoli dev’essere avviato a questa fede sublime. Dobbiamo nondimeno rallegrarci per questa splendida professione, che rumoreggia come uno spumeggiante ruscello montano nella primavera di questo primo capitolo di Giovanni; esso comincia: « In principio era il Verbo, e il Verbonera presso Iddio, e il Verbo era Iddio »; ed ora a quest’eterno murmure d’onde risponde festante l’eco terrena: « Maestro, Tu sei il Figlio di Dio, Tu sei il Rend’Israele! ». – L’evangelista Giovanni non continua, purtroppo, il grazioso abbozzo di Natanaele in quel suo primo capitolo, e neppure nel corso del Vangelo dedica a lui piùnuna parola, se si eccettui la breve notizia dell’ultimo capitolo; ma già lo sappiamo, i Vangeli, ispirati dallo Spirito Santo, si limitano alla storia della salute. E tuttavia le loro parche notizie accennano spesso la direzione, nella quale è lecitonalla devota fantasia osare di costruire. Non erriamo quindi certo se, avendo sott’occhio il cordiale incontro di Gesù con Natanaele, ci raffiguriamo quest’Apostolo come persona d’ineccepibile lealtà e come un tipo allegro, capace di sentire entusiasmo e di trasfonderlo pure negli altri; dovette essere ben voluto nel Collegionapostolico, e ben meritava l’affetto dei colleghi, perchè si presentava sempre così limpido, così trasparente e così vero, veramente come l’uomo senza falsità e senzanmalizia. Quando nel Cenacolo Gesù rivelò: « Uno di voi Mi tradirà », a nessuno passò per la mente neppure la minima ombra che quegli potesse essere Bartolomeo. Intorno a lui splendette sempre sole e primavera: quando gli Apostoli percorrevano col Signore le vie lunghe e bruciate ed erano stanchi e polverosi; e quando le moltitudini si stipavano intorno a loro, sicchè non trovavan più temponneppure per mangiare; quando pure alla sera, partecipi della sorte del Maestro, non avevano un posticino, dove poter posare il loro capo, allora era Bartolomeo, che con una frase gaia sollevava l’animo depresso dei suoi camerati; e allora gli occhi del Signore si posavano di nuovo con compiacenza su di lui, come al momento del primo incontro; era il discepolo caro, chiamato per natura e per grazia a rispecchiare la bontà e la benignità del Salvatore nostro “. Più di tutti dovettero beneficiare della sua vicinanza i compagni del medesimo gruppo, Tommaso dall’umor nero, Filippo dall’indole fredda e Matteo tanto realistico; Bartolomeo portava fra di loro luce e vita, un profumo di primavera e anche un tantino di poesia nell’atmosfera, che altrimenti sarebbe stata un po’ troppo fredda, troppo asciutta e anche cupa. La propensione alla letizia è un talento.nch’è donato a vantaggio anche degli altri; non può essere seppellito: Bartolomeondovette alleggerire e rasserenare Tommaso, dovette stuzzicare ed eccitare Filippo, dovette completare e rischiarare Matteo. È bello starsene alla luce del sole, ma è ancor più bello esser luce di sole per gli altri. In questo suo compito però l’Apostolo non oltrepassò i confini delicati della discrezione. È sorprendente la frequenza, con la quale le antiche leggende rimandano alla sua origine e al suo portamento aristocratici; e alla sua tranquilla riservatezza accenna il Vangelo stesso; egli preservò la sua indole allegra dalla effusione e più ancora dalla smoderatezza. Questa simpatica armonia di spontaneità e riservatezza, di allegria e cortesia è indicata anche dal nome completo dell’Apostolon« Natanaele-Bartolomeo »; perchè « Natanaele » etimologicamente vuol dire «dono di Dio », e un uomo allegro per una comunità è davvero un dono di Dio; « Bar-Tholmai » significa «figlio dell’aratro »; ora ogni « Natanaele » dev’esser pure un « Bartolomeo », un aratro, un uomo cioè che va al fondo; e un « Bartolomeo » dev’essere « Natanaele », un dono del Signore solatio, che per le profondità non dimentica il Cielo azzurro, dove gli Angeli di Dio ascendono e discendono. Le notizie, che abbiamo intorno all’attività dell’Apostolo Bartolomeo, sono incerte e in parte anche contradittorie. Non ci sono giunti di lui Atti autentici; quelli che possediamo, ebbero origine in qualche provincia orientale dell’impero bizantino solo fra il quinto e il sesto secolo e risentono dell’eresia nestoriana; un’idea quindi, almeno generica, di quell’attività non ce la possiamo formare con certezza se non di nuovo dal Vangelo: quegli, che fin dalla prima ora aveva proclamatonCristo qual « Figlio di Dio e Re d’Israele », dovette portare con entusiasmo ilnlieto messaggio del Signore Gesù Cristo nel vasto mondo, dopo aver visto « cosenmaggiori », la vita di Gesù, la Pasqua e la Pentecoste.nAtti tramandatici in lingua coptíca, arabica ed etiopica trasportano il campo di lavoro di Bartolomeo nelle « oasi » dell’Egitto; l’omiliario armeno ricorda come meta della prima fra le sue sei spedizioni apostoliche la città di « Eden », l’odierna Aden; Eusebio riferisce che già San Panteno, il fondatore della scuola catechetica di Alessandria, nel suo viaggio in India, verso la fine del secondo secolo, aveva ivi incontrato comunità cristiane costituite dall’Apostolo Bartolomeo; si avverta che in quei tempi sotto il nome di « India» s’intendevano tutte le terre orientali, che non facevan parte dell’impero romano e di quello dei Parti, e quindi non la sola India propriamente detta, ma anche l’Abissinia, l’« Arabia Felice» e la Carmania. Ci colpisce in questi Atti che spesso mettano Bartolomeo in relazione connMatteo; anche l’informazione sopra ricordata di Panteno afferma che il nostro Apostolo avrebbe portato in quelle contrade il vlVangelo ebraico di Manco. Gli Atti però di Filippo, addotti più sopra, ci incamminano per un’altra direzione; vi si legge che Bartolomeo faticò e soffrì nella città della Frigia Gerapoli,nunitamente al suo compagno d’apostolato e suo amico Filippo e la sorella di questinMarianna; da amico fedele, assistette Filippo quando subì il martirio, dopo di che si sarebbe trasferito in Licaonia, che a sud-est confinava con la Frigia. Un’attivitàndi Bartolomeo in quella regione — corrisponde alla parte sud-orientale dell’attualenAsia Minore — è ricordata anche presso i Siri; ivi sarebbe stato anchencrocifisso. Questa tradizione è prevalente nella Chiesa greca; in una predica, ch’ènattribuita a San Giovanni Grisostomo e che ha per argomento i dodici Apostoli, si afferma che Bartolomeo annunziò « l’astinenza ai Licaoni ». Ma gli Atti di Andrea e di Bartolomeo gli assegnano di nuovo un altro campo, la regione litoranea del Mar Nero. Come Matteo negli Atti di Matteo, così Andrea negli Atti di Andrea è presentato come il compagno di Bartolomeo nelle sue fatiche apostoliche. Queste notizie corrisponderebbero di più alle tradizioni e alle persuasioni degli Armeni, che considerano Bartolomeo come il loro Apostolonprincipale. Mosè di Khorene dice: « All’Apostolo Bartolomeo fu assegnata l’Armenia; presso di noi, nella città di Areban, subì pure il martirio ». Secondo una esposizione armena della sua vita e della sua passione, egli avrebbe predicato ilnVangelo dapprima agli « Indi », poi ai Parti, ai Medi, agli Elamiti e in fine aglinArmeni. Nelle lezioni del Breviario romano, che si leggono nel giorno della festandell’Apostolo, abbiamo un compendio di queste diverse e divergenti notizie: « L’apostolo Bartolomeo, ch’era di Galilea, si portò nell’India Citeriore, che gli era stata assegnata per la evangelizzazione al momento del sorteggio per la distribuzione del mondo. Predicò a quei popoli la verità del Signore Gesù secondo il Vangelo di San Matteo. Dopo che in quella regione ebbe convertiti molti a Cristo, sostenendo non poche fatiche e superando molte difficoltà, passò nell’Armenia Maggiore ». – Come le notizie intorno al luogo del suo apostolato, sono contradittorie anche quelle riguardanti il genere di morte. Il Breviario romano, utilizzando delle antiche informazioni, scrive a questo riguardo: « Nell’Armenia Maggiore Bartolomeo portò alla fede cristiana il re Polimio e la sposa di lui e inoltre dodici città; ma queste conversioni eccitarono fortemente l’invidia dei sacerdoti locali, ai quali riuscì di aizzare in tal modo il fratello del re Polimio, Astiage, chenimpartì l’ordine crudele di cavar la pelle a Bartolomeo vivo e poi di decapitarlo.nEgli rese l’anima a Dio in questo martirio ». La tradizione dello scorticamento dell’Apostolo fu diffusa presso Greci, Latini e Siri. Lo scorticamento era un supplizio mortale dei Persiani; esso quindi accennerebbe alla Persia come luogo dell’ultima attività e della morte dell’Apostolo; e di fatto nella parte della Siria, ch’era sottoposta alla sovranità persiana, si conservò una tradizione particolare intorno al suo sepolcro. Ecco perché gli artisti, quali il Ribera e il Rubens, nelle celebri pitture conservate nella Galleria del Prado, attribuiscono come simbolo a Bartolomeo il coltello, oppure, come ad esempio il Bernini nella statua al Laterano, gli sospendono senz’altro alle braccia la pelle detratta, come un mantello; Michelangelo poi nella Cappella Sistina creò argutamente, come autoritratto, un Bartolomeo spellato. L’antichità cristiana tuttavia seppe anche di altri generi di morte: si disse che era morto di morte naturale; secondo un’opinione molto antica e tanto diffusa era stato crocifisso, come quasi tutti i discepoli chiamati sulle rive del Giordano; e infatti anche l’arte e persino gli stessi artisti, che in altri quadri gli assegnano come proprio il coltello dello scorticamento, lo rappresentano in croce; secondo invece una leggenda armena, sarebbe stato ucciso con randelli; e infine una tradizione arabo-giacobita riferisce che, su ordine del re Aghira, sarebbe stato gettato in mare dentro un sacco appesantito con sabbia. Anche le vicende delle reliquie dell’apostolo Bartolomeo sono oggetto di discussione. Una tradizione armena dice che il suo cadavere fu sepolto ad Albanopoli o anche Urbanopoli, una città dell’Armenia, dove l’Apostolo aveva subito il martirio; di lì le reliquie passarono a Nephergerd — Mijafarkin —; verso l’anno 507 l’imperatore Anastasio I le fece trasferire a Daras, dttà della Mesopotamia, e vi fece erigere sopra una splendida chiesa. Nel 580 una parte di quei resti mortali fu forse trasportata nell’isola Lipari, che si stende dinanzi alla Sicilia; la leggenda a questo punto aggiunge che le reliquie, chiuse in un sarcofago, attraversarono il mare a nuoto e toccarono terra sulla costa dell’isola; questo particolare del sarcofago nuotante sul mare ebbe origine forse dall’opinione, secondo la quale Bartolomeo era stato annegato in un sacco gettato in mare. Durante l’invasione dei Saraceni, nell’anno 838 le reliquie furono trafugate a Benevento; e finalmente nel 983, per intervento dell’imperatore Ottone III, giunsero a Roma e ivi furono composte nella chiesa di San Bartolomeo nell’isola tiberina; il cranio però nel 1238 fu portato a Francoforte sul Meno e ora è ivi conservato nel duomo di San Bartolomeo. Dopo il decreto della S. Congregazione dei Riti del 28 ottobre 1913, la festa del nostro Apostolo nella Chiesa latina viene celebrata stabilmente il giorno 24 agosto, presso i Greci invece l’11 giugno; gli Orientali ne celebrano la festa e anche la traslazione delle reliquie in altri giorni: gli Armeni l’8 dicembre e il 25 febbraio, i Copti e gli Etiopi il 18 giugno e il 20 novembre, i Giacobiti il 29 agosto. All’Apostolo Bartolomeo è attribuito pure un vangelo apocrifo. Girolamo ne fa menzione nel suo prologo al vangelo di Matteo 21; oggi non se ne hanno che dei frammenti; contiene delle rivelazioni del Risorto intorno alla sua discesa agli inferi, provocate da interrogazioni di Bartolomeo, e inoltre delle spiegazioni di Maria sul mistero dell’Incarnazione; l’originale greco nacque negli ambienti gnostici dell’Egitto nel secolo III e non ha nulla a che fare con l’Apostolo Bartolomeo. Al termine di queste considerazioni torniamo nuovamente al santo Vangelo, a quell’ora d’intimità, nella quale il giovane Natanaele, con occhio scintillante ed entusiastica parola, proclamò per primo pubblicamente nostro Signore Gesù Cristo « Figlio di Dio e Re d’Israele ». Oh, l’amabile figlio di Tholmai, tutto circonfuso di sole, non presagiva allora quali oneri si sarebbe accollato per amore di quel Figlio di Dio! Nelle rappresentazioni dell’arte egli ci si fa incontro vecchio, incanutito e ricurvo; per il Figlio di Dio ha percorso un mezzo mondo e si è stancato; vi alludono le varie notizie, in parte anche contradittorie, intorno alla sua attività apostolica; e lungo i secoli non fu concessa la quiete del sepolcro neppure alle sue morte ossa. Tiene nelle sue mani floscie l’orribile coltello, col quale fu scuoiato; ma fosse morto anche d’un altro genere di morte, resterebbe vero che per il suo Signore si scuoiò lui stesso nell’intimo del suo essere; questo scorticamento infatti fino alle fibre più riposte è richiesto dal Signore stesso, per quanto dentro nell’anima v’è di ribellione al Figlio di Dio: « Se il tuo occhio destro ti alletta al male, strappalo e gettalo via da te! Se la tua mano destra ti alletta al male, troncala e gettala via da te! ». È per questo che il Cristianesimo viene dipinto come l’indeclinabile e cupo no ad ogni gioia; ma uno sguardo ai suoi rappresentanti più autentici riduce al silenzio tutti i detrattori; perchè proprio coloro, che per il Cristo hanno più duramente lavorato e patito, furono gli individui più irradiati dal sole, dei Natanaele senza la falsità d’un portamento pessimistico o d’un ostentato eroismo. Troviamo espressa questa forte e quasi impossibile tensione dello spirito cristiano nelle parole di Paolo: « Siamo ignoti e però ben conosciuti; morenti ed ecco viviamo; castigati e pur non uccisi; addolorati e tuttavia sempre lieti; privi d’ogni possesso, eppure possediamo tutto >. L’ora di Natanaele nel Vangelo ci fornisce la spiegazione di questo singolare mistero di tristezza e di beatitudine nel medesimo uomo: « Vedrai cose maggiori! I Cieli aperti! E gli Angeli di Dio ascendere e discendere sopra il Figlio dell’uomo ».

25 LUGLIO: SAN GIACOMO IL MAGGIORE

SAN GIACOMO IL MAGGIORE

(OTTO HOPHAN: GLI APOSTOLI. Ed. Marietti. Torino, 1951)

Giacomo ha molto di comune con Andrea, che nel Collegio apostolico gli era vicino, precedendolo d’un unico posto; se però ci addentriamo nella loro anima, ci appariranno molto diversi l’uno dall’altro. Anche Giacomo era pescatore del lago di Galilea e quindi doveva essere certamente da anni collega di professione con Andrea e suo fratello Simone Pietro; si direbbe anzi, stando ad accenni del Vangelo, che le due famiglie di pescatori possedevano, secondo il costume diffuso nel paese, barche e arnesi in comune ed in comune esercitavano il mestiere; in occasione infatti della pesca miracolosa, quando Simone e Andrea non riuscivano a dominare il miracolo, « fecero segno ai loro compagni nell’altra barca, perché venissero e li aiutassero. E quelli vennero ». Parabola dell’avvenire! Quando un giorno Pietro, divenuto pescatore d’uomini, ritirerà sovraccariche le reti, i compagni d’un tempo divideranno con lui il peso ed il piacere del lavoro. Anche Giacomo aveva un fratello, che con lui fu chiamato all’ufficio apostolico, ed era Giovanni, quel Giovanni, che ha per proprio simbolo l’aquila: chè anche questi è volato più in alto del fratello Giacomo, che dunque, come Andrea, deve starsene nell’ombra o, meglio, nella luce di un fratello più grande. È possibile che tutti e due, Giacomo e Andrea, fossero debitori di qualche privilegio ai loro fratelli più grandi; Giacomo però era molto interessato — e in questo si differenzia sostanzialmente dall’umile Andrea — d’essere grande lui stesso.

GIACOMO L’AMBIZIOSO.

Giacomo e Giovanni erano figli di Zebedeo, nome che letteralmente significa “dono di Dio”; i Vangeli notano espressamente il nome del padre per distinguere questo Giacomo da un altro Apostolo dello stesso nome, da Giacomo cioè figlio di Alfeo. Il figlio di Alfeo, dì cui ci occuperemo più tardi, è chiamato dagli Evangelisti « Minore », minore perchè il Signore lo chiamò a Sè più tardi e certo anche perchè doveva essere più giovane d’età del nostro Giacomo; per il figlio di Zebedeo quindi divenne usuale la designazione: «Il Maggiore ” e in

latino: « Major ». « Major » alla lettera vuol dire «più grande, il Grande »; ora questo appellativo aggiunto — il Signore ne aggiunse anche un altro a questo Apostolo — richiama l’intima natura di Giacomo; Giacomo Maggiore è di fatto « Giacomo il Grande », di alto sentire, di aspirazioni nobili, anche orgoglioso inizialmente, un uomo di carattere, portato all’autorità e al lavoro; come uomo di nerbo, pieno di espressione ed energia lo ha pensato anche il Rubens, e a buon diritto. Giacomo e Giovanni sortirono quest’indole distinta fin dalla nascita. Il loro padre Zebedeo, un vero « dono di Dio », doveva essere un uomo dall’anima grande e generosa, sebbene per professione fosse soltanto pescatore; quanto elevati fossero i suoi pensieri e a quali orizzonti si protendessero i suoi desideri, lo rivela l’ora della vocazione dei suoi figli. Il Signore glieli tolse letteralmente dalla barca e dalle reti, e non uno solo, ma tutti e due, e tutti e due in una sola volta: « essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con gli operai e Lo seguirono », ci riferisce chiaramente Marco; gli tolse i due giovani vigorosi quand’egli era ormai invecchiato e da tempo attendeva con impazienza l’ora, nella quale poter rimettere a loro il mestiere, poiché non si sentiva più le forze d’un tempo e anche gli occhi, nel rattoppare le reti, non lo servivano bene e le mani fallivano il colpo sempre più spesso; eppure Zebedeo non disse una parola di protesta contro la dolorosa chiamata di Gesù, non pose la sua mano sui figli, che pure erano suoi; essi erano ancor più del Signore! Dovevano andar con Lui; non si oppone alla loro volontà, non arresta la loro ascesa; con Gesù avrebbero realizzati maggiori progressi che non presso il loro padre ormai vecchio, nella barca, sul lago; e lui saprà accomodarsi anche senza i figli. Un gran padre Zebedeo! Solo pochi padri si comportano come Lui! – Anche la madre Salome era una donna dall’animo nobile. Per lei riuscì anche più difficile cedere i suoi due figli, perché se n’andassero lontani dalla famiglia, sulle vie sperdute dell’apostolato; ma pure lei accettò il sacrificio generosamente; anzi lei stessa si mise a seguire Gesù e con le altre pie donne Lo soccorreva con le proprie sostanze; perseverò accanto a Gesù persino sul Calvario e forse per il suo cuore materno riuscì di soddisfazione dolorosa vedere il proprio figlio Giovanni, l’unico fra i Dodici, fedele anche lui presso la Croce. Genitori simili sono veramente genitori « Zebedeo », veri doni di Dio. – Giacomo non è ricordato in occasione della vocazione dei primi discepoli presso le rive del Giordano; era ivi invece Giovanni, il fratello più giovane; uno dei duc dovette rimanere a casa per aiutare il padre. Chi di noi si sia trovato il più anziano, sa per esperienza quello che in analoghe contingenze tocca di solito al « maggiore » : il più giovane, come si può concludere anche dalla parabola evangelica del figlio prodigo, approfitta dei privilegi della sua età. Quando Giovanni fu di ritorno in famiglia, riferì con occhi raggianti di Gesù, « del Figlio di Dio, del Re d’Israele », ch’egli, con i figli di Giona, aveva incontrato laggiù al Giordano, e la sua relazione dovette procurare un profondo tormento a Giacomo, che in quella circostanza non s’era trovato presente: dev’egli passar tutta la sua vita solamente occupato a prender pesci e a lavar reti? Non si sente anche lui chiamato a uffici più elevati? Se quel Gesù gli passasse dinanzi, se n’andrebbe con Lui sull’istante! Passò forse un anno, e Gesù venne e, insieme a suo fratello Giovanni, chiamò anche Giacomo alla piena comunione di vita con Sè. Fu come un levarsi del sole sul mare: Gesù era già sorto per la coppia di fratelli Simone e Andrea; più avanti toccò con i suoi raggi anche Giacomo e Giovanni:《 Camminando, Egli vide due altri fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e suo fratello Giovanni, che con Zebedeo, padre loro, riparavano le loro reti nella barca. Ed Egli li chiamò. Essi lasciarono subito la barca e il padre loro e Lo seguirono… 》. Pochi mesi dopo questa chiamata seguì l’elezione dei dodici Apostoli; in quell’occasione Marco ha la breve ma significativa osservazione: « A Giacomo, figlio di Zebedeo, e a Giovanni, il fratello di Giacomo, Egli diede il soprannome di Boanerges, che significa figli del tuono ». Il Signore veramente aggiunse un soprannome anche a Simone e lo chiamò « Pietro », che vuol dire « roccia »; ma questo nome riguarda un ufficio, quello invece di « Boanerges » indica un carattere; Giacomo e Giovanni erano dotati d’un’indole così forte e ardente, d’una natura così impetuosa e violenta, che il Signore per ritrarli convenientemente creò una parola apposta, ed era a metà lode e a metà biasimo. Quest’indole violenta e presuntuosa dei figli di Zebedeo è documentata da due esempi conservatici dal Vangelo stesso. Il primo lo leggiamo in occasione d’un viaggio verso Gerusalemme attraverso la Samaria. « Gesù mandò innanzi a Sé dei messaggeri, i quali giunsero in un paese dei Samaritani per provvedere un albergo per Lui; ma non Lo si ricevette, perchè Egli si trovava in viaggio verso Gerusalemme »). Questo atteggiamento dei Samaritani verso Gesù, in questo suo passaggio per la loro terra, ci sorprende davvero, perchè ben diversamente s’erano comportati con Lui quando da Gerusalemme era disceso in Galilea e aveva sostato presso di loro per due giorni; allora L’avevano pregato di fermarsi; questa volta invece, poichè ha rivolto « la sua faccia》 alla Capitale, odiosa ai Samaritani, Gli rifiutarono ricetto. Anche gli altri Apostoli erano certamente urtati per questa violazione del sacro dovere dell’ospitalità; « quando però i discepoli Giacomo e Giovanni videro questo, domandarono: “Signore, dobbiamo invocare fuoco dal cielo perché li divori? ». Una richiesta tremenda! I due Apostoli avrebbero voluto fare della città di Samaria quello che la guerra inumana dei nostri anni ha fatto delle città moderne, seminandovi la rovina e il dolore. E saranno questi gli Apostoli della Nuova Alleanza?! Hanno ascoltato invano la predica sul monte: « Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori! »; forse l’inumana pretesa era stata suggerita ai due fratelli dal ricordo del castigo, che il profeta Elia aveva invocato sui messi dell’infedele re Ochozia. Ma Gesù non si fa la strada con fuoco e violenza, e per questo sdegnato « si voltò e li rimproverò ». In qualche antico manoscritto si legge anche la nobile aggiunta: « Non sapete di che spirito siete. Il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le anime, ma a salvarle! ». Boanerges! Come conviene bene questo nome ai due fratelli! È penoso anche il secondo episodio trasmessoci dal Vangelo. Nell’ultima ascesa a Gerusalemme, i due figli di Zebedeo non si peritarono di presentarGli la richiesta seguente: « Fa che nella tua gloria uno di noi sieda alla tua destra e l’altro alla tua sinistra ». Non potremmo misurare quanto d’inconcepibile e anzi di sfacciato ci sia in questa pretesa, senza leggerla nel suo contesto evangelico. Immediatamente prima, predicendo per la terza volta la sua passione, il Signore aveva dichiarato: « Noi adesso ascendiamo a Gerusalemme. Ivi il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai gentili, sarà deriso, maltrattato e sputacchiato. Lo si flagellerà e ucciderà. Ma il terzo giorno risorgerà». E precisamente in quel momento, in quell’ora gravissima della vita di Gesù, Giacomo e Giovanni misero innanzi la loro egoistica richiesta. Di tutta la profezia della passione essi non avevano colto che la parola circa la « risurrezione », e anche questa interpretavano secondo le loro idee, quasi fosse cioè l’inizio del glorioso regno messianico finale; era dunque quello il momento opportuno per muoversi. La loro richiesta era diretta evidentemente contro Simone Pietro, a cui il Signore aveva già promesso la preminenza su tutti i colleghi, e questo non li aveva soltanto sorpresi, ma anche amareggiati; quel Simone bisognava respingerlo indietro! Non è la prima volta che nella Sacra Scrittura leggiamo d’un Giacomo, che defrauda un altro della sua precedenza e dei suoi privilegi; lo fece già il patriarca Giacobbe a danno di suo fratello Esaù, che derubò del diritto di primogenitura e della benedizione paterna; in quell’occasione Esaù gridò amaramente: « Con ragione gli si è imposto il nome di Giacobbe; mi ha

ingannato già per la seconda volta》; e questa interpretazione di « urgente la pianta del piede, soppiantatore » viene data anche dell’Apostolo Giacomo in certi « Atti degli Apostoli» antichi dell’Etiopia. Un rimasuglio di pudore trattenne Giacomo e Giovanni dal proporre essi stessi la loro richiesta al Signore; secondo la relazione di Matteo, spinsero innanzi la loro madre. Che cosa non fanno le mamme per amore dei loro figli! Può essere.però che la buona donna Salome avvertisse quanto di vergognoso v’era nella loro richiesta, ma la logica femminile sa alla fine accomodare anche cose spiacevoli: non aveva lei dato al Signore due figli e mezza sostanza — ma quest’ultima cosa non la pensò sino in fondo —, i suoi figli non erano energici, bravi e più idonei degli altri ai primi posti nel regno dei Cieli.- L’ambiziosa aspirazione dei figli di Zebedeo provocò negli altri un profondo sconcerto: « Quando i Dieci sentirono questo, s’indignarono contro i due fratelli »; e non è escluso che l’indole violenta, intollerante e presuntuosa dei due abbia recato spesso delle molestie al Collegio apostolico. Un particolare, trasmessoci da Clemente di Alessandria, riguardante il martirio dell’Apostolo Giacomo, è una prova ancora del temperamento faticosamente domato di questo figlio del tuono: sulla via, che conduceva al luogo del supplizio, s’accostò a lui il suo delatore e lo pregò del perdono; Giacomo stette a riflettere un po’…! Solo dopo lo abbracciò dicendogli: « La pace sia con te », e insieme con colui, ch’era stato prima il suo nemico, ricevette il colpo di spada, che lo fece martire. Neppure Giovanni, come vedremo ancora, è in alcun modo un giovane fantasioso e mansueto, come troppo spesso lo si presenta; Giacomo e Giovanni erano e… restarono Boanerges. Chissà quanti autori d’ascetica ed educatori avrebbero consigliato insistentemente di trattenere con fermezza simili Boanerges nell’ombra, perchè, se le nature ambiziose non sono frenate, prendono il sopravvento l’orgoglio e la presunzione; gli spiriti quindi angusti e timorosi si meraviglieranno assai che il Signore abbia adottata con Giacomo e Giovanni una pedagogia diversa, che fu poi veramente chiaroveggente e magnanima. Percorrendo i Vangeli ci avvediamo che i figli di Zebedeo conseguono dovunque precedenze e privilegi: in tutti i cataloghi degli Apostoli essi fan parte del primo gruppo, Marco anzi pone Giacomo al secondo posto, immediatamente dopo Pietro; in casa di Giairo, quando Gesù gli risuscitò la figlia, « Egli non fece entrare con Sè nessuno all’infuori di Pietro, Giacomo e Giovanni》 ; anche come testi degli splendori del Tabor, Egli prese solo « Pietro, Giacomo e Giovanni》, e forse fu qui che sorsero nel loro animo il presentimento e il desiderio “della gloria” del Signore, nella quale ambivano di sedere ai primi posti; «Pietro, Giacomo e Giovanni Egli prese con Sè » anche quando, sul Monte degli Olivi, non passò il « calice », quel calice, che un giorno anch’essi avrebbero dovuto trangugiare. Oltre a questi privilegi ricordati espressamente nel Vangelo, altri ancora forse ne furono concessi ai tre primi Apostoli, dei quali però non ci fu trasmessa alcuna notizia. Questa condotta di Gesù ci fa intendere ch’Egli vuole come Apostoli degli uomini grandi in abbozzo; solo dei grandi nello spirito sono in grado di capire Lui, il Grande, e sono atti agli alti compiti, ch’Egli vuole loro assegnare; le indoli invece pieghevoli e fiacche, che con le loro aspirazioni non si spingono mai al di là dell loro comoda mediocrità e, soddisfatte di se stesse, gironzolano sempre nelle loro piccole barche né mai invocano il fuoco o guardano alle stelle del cielo, non saranno prime neppure nel regno dei Cieli. Il Signore non schiacciò la natura ardita di Giacomo, non lo lasciò neghittoso, ma profittò delle sue belle doti per fare proprio di lui uno dei primi. Giacomo, come pure suo fratello Giovanni, aveva ancora in sè, senza dubbio, tendenze ben poco nobili; non erano solamente mossi da ardenti desideri, ma anche da ambizione; non erano semplicemente inclini a grandi cose, ma anche orgogliosi; ma chi mai getta via l’oro, perché è misto a una massa di terra? Chi sradica un albero, perchè vi crescono sopra dei vischi? S’impone piuttosto una prudente separazione del nobile dal non nobile. A questa luce ci spiegheremo perché la risposta alla richiesta audace dei figli di Zebedeo, anelanti ai primi posti nel regno dei Cieli, fu tanto mite da sorprendere. Il Signore non tuonò contro i due fratelli e neppure rivolse loro un aspro rimprovero, perché di tanto s’erano allontanati dallo spirito del Vangelo; certo, smontò la loro temeraria pretesa, rinviandoli alla misteriosa predestinazione divina: «Non sapete quello che domandate. Il posto alla mia destra o alla mia sinistra non ho da conferirvelo Io; esso spetta a coloro, ai quali è preparato dal Padre mio》; non spense però le loro aspirazioni alle grandi cose, indicò invece ad esse un’altra meta: « Potete voi bere il calice », e allettando, « che Io berrò presto? »; in questo Giacomo deve dar prova della sua grandezza, nel « bere il calice », nel condividere la sorte e la passione di Gesù. Chi aspira a un primo posto « nella gloria del Signore », dev’esser anzitutto primo nel bere « il calice del Signore ». Seguì una lezione, con la quale il Signore istruì anche gli altri Apostoli sulla vera grandezza. L’indignazione dei Dieci verso i figli di Zebedeo aveva ben rivelato ch’essi pure erano stimolati dalla stessa sete di onori; ma Gesù non rintuzzò neppure le loro aspirazioni per sostituirvi soddisfazioni nel poco e contentezza di se stessi; anch’essi devono tener vivo l’anelito alla grandezza, dirigendolo però per altra via: « Sapete che coloro, i quali passano per i principi dei popoli, dominano su di essi, e i loro grandi esercitano su di essi il potere. Così non dev’essere fra voi; ma chi tra voi vuol divenire grande, sia vostro servo, e chi tra voi vuol essere il primo sia il servo di tutti. Poiché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la sua vita come riscatto per tutti ». Il primo compito nel regno di Dio è servire. E così l’orgogliosa richiesta di Giacomo e di suo fratello Giovanni diede al Signore occasione e motivo di stabilire una legge evangelica fondamentale, che per tutti i tempi è un capovolgimento dei valori: anche nel regno di Cristo ci sono dei primi, ma essi devono essere come gli ultimi. – Alla domanda del Signore: « Potete voi bere il calice? », Giacomo, sicuro di sè, rispose: « Lo possiamo! ». Gesù allora guardò profondo negli occhi ai suoi Boan erges…

GIACOMO IL MARTIRE

Nel tempo che seguì non avvenne nulla, che distinguesse Giacomo fra i colleghi d’apostolato. Dopo la risurrezione, andò con loro nuovamente a pescare; sul lago, quel giorno, tutto era come prima, e però tutto era diverso, come avviene a chi dall’estero giunga in patria l’ultima volta, prima di andarsene per sempre Nel dì di Pentecoste stava con gli altri nella sala e anche su di lui guizzò « fuoco dal cielo », ma il vero, il santo, il celeste fuoco, che purifica e illumina. Poi anch’egli partì da Gerusalemme col Vangelo; nelle lezioni della sua festa il Breviario lo esalta dicendo: « Dopo l’Ascensione, Giacomo predicò la divinità del Signore in Giudea e Samaria e condusse moltissimi alla fede cristiana »; questo però lo fecero anche tutti gli altri. Egli gustò pure alcune gocce del « calice del Signore »: nella prima persecuzione, mossa dall’autorità ecclesiastica giudaica, fu arrestato e gettato nelle carceri della nazione e flagellato; ma anche questo avvenne a tutti gli Apostoli e tutti « s’allontanarono dal Sinedrio rallegrandosi altamente, perché erano stati fatti degni di patire contumelia per il nome di Gesù». Rimarrà dunque senza uno speciale significato la parola, che un giorno Giacomo diede al Signore? Dopo la seconda persecuzione, che tenne dietro alla lapidazione di Stefano, infuriò sulla Chiesa apostolica anche la terza, voluta dal re Erode Agrippa I°, che fu pure la più pericolosa di tutte e tre. Sulla stirpe degli Erodi gravava la maledizione; abbiamo in quella famiglia una dimostrazione biblica di quanto possa l’ereditarietà della colpa Il nonno di Erode Agrippa I° era stato Erode I°, detto « il Grande », che aveva regnato dal 40 al 4 a. C.: splendido e forte nel suo governo, per carattere astuto e crudele, aveva tentato di soffocare il Cristianesimo nella culla, letteralmente, ordinando l’uccisione dei bimbi di Betlemme. Il padre di Agrippa, Aristobulo, era stato giustiziato, con un altro dei suoi fratelli, dal vecchio Erode, perché sospetto d’alto tradimento. Lo zio, Erode Antipa, tetrarca della Galilea e della Perea, aveva governato dal 4 prima al 39 dopo Cristo ed era stato il sovrano di Nostro Signore; principe indolente e tutto dedito alle gozzoviglie, adultero incestuoso, aveva ucciso Giovanni Battista e la mattina del Venerdì Santo aveva deriso. Gesù. Erode Agrippa, re dei Giudei dal 41 al 44, germogliò da radice tanto iniqua. Passata la giovinezza dissolutamente a Roma, ove per i debiti contratti compromise la sua posizione, riuscì ad ottenere, col favore dell’imperatore Caligola (37-41), suo amico e del suo livello, la tetrarchia rimasta senza capo per la morte di suo zio Filippo, poi quella di Lisania, in seguito, con una serie di intrighi, anche il territorio dello zio Erode Antipa, costretto ad andarsene in esilio; e finalmente dall’imperatore Claudio ottenne pure il dominio sull’Idumea, la Giudea e la Samaria; divenne così un potente dominatore, che riuniva sotto il suo scettr l’intero territorio una volta appartenuto al nonno suo, ma insieme fu pure un potente avversario della Chiesa; sembrò ch’egli potesse schiacciarla con un cenno della. sua volontà. – Gli Atti degli Apostoli indicano il motivo della persecuzione mossa da lui co brevità e semplicità: « Per piacere ai Giudei »; la maggior parte cioè dei Giudei era contraria al dominio di Agrippa; un rabbi aveva persino proposto di proibirgli il Tempio; il re però giocò di scaltrezza e condiscendenza, e così riuscì a disarmare i suoi nemici e a cattivarsi un po’ alla volta l’affetto del popolo. La persecuzione contro i Cristiani, ch’erano invisi ai Giudei, rientrava in questo programma: a quel modo che un giorno suo zio Erode Antipa, per calcolo politico-diplomatico, aveva rimandato Nostro Signore a Pilato per la condanna, così Erode Agrippa, per venale furberia, gettò in mano ai Giudei gli uomini più ragguardevoli della Chiesa apostolica: «In quel tempo re Erode cominciò una persecuzione contro alcuni membri della Chiesa. Fece giustiziare con la spada Giacomo, il fratello di Giovanni 》. Eravamo alla festa di Pasqua dell’anno 42. Dovette esserci certamente un motivo perché Erode, per una vittima qualificata, gettasse l’occhio su Giacomo; possiamo con ragione pensare che appunto il focoso «”figlio del tuonoo” si fosse reso, col suo zelo impetuoso per Cristo, quanto mai odioso ai Giudei; doveva quindi cadere prima di tutti gli altri. E così fu tolto di mezzo quest’uomo prezioso! Avrebbe forse lavorato per Cristo meno di Paolo? E invece eccolo, l’energico Apostolo, atterrato dalla potenza di un ribaldo, prima ancora che giungesse nei vasti campi della messe. Non sa provveder meglio Iddio agli uomini che si propongono di mandare ad effetto le sue santissime intenzioni? – E qui ci si presenta anche un’altra domanda, più molesta ancora: Erode « fece arrestare anche Pietro, quando s’avvide che questo piaceva ai Giudei. Voleva produrlo al popolo — darlo in pasto! — subito dopo Pasqua »; ma Pietro fu liberato miracolosamente dal carcere per mezzo d’un Angelo: perchè a Giacomo non fu mandato nessun Angelo? non sarebbe stato degno d’un miracolo anche lui? I disegni di Dio sono imperscrutabili! E nondimeno nella morte violenta di Giacomo possiamo scorgere un raggio della divina sapienza. Un giorno Giacomo, con occhio risplendente, aveva assicurato il Signore: « Possiamo bere il calice »; Iddio lo prese in parola; Egli permise questo martirio, che doveva essere per gli Apostoli il segnale della loro dispersione in tutto il mondo. Secondo informazioni molto antiche e sicure, gli Apostoli eran rimasti e avevano faticato circa dodici anni nell’angolo della Palestina, loro patria; la persecuzione di Erode Agrippa ebbe il compito di lanciarli al di là della terra di Giuda; Pietro « si portò in un altro luogo》 non appena fu liberato dal carcere, e la maggior parte degli altri Apostoli seguì il suo esempio. Giacomo però giacque a Gerusalemme, accanto al Tempio, nel proprio sangue; aveva ardentemente desiderato, fin da quando s’era trovato in Samaria, di disporre gli uomini ad accogliere il Signore, ma per la seconda volta questa sorte non gli era toccata; la sua morte servì alla Provvidenza, perchè allora fu posta mano finalmente alla grande opera della evangelizzazione del mondo. Per questo servizi Giacomo è divenuto il « Grande » e il « Primo »; il Vangelo ha la sua applicazione: « Chi fra di voi vuole divenite grande, dev’essere vostro servo; e chi fra di voi vuol essere il primo, dev’essere il vostro schiavo ». Quando gli altri Apostoli si trovarono lontani, nelle fatiche dell’apostolato, «in pene e vigilie, nella fame e nella sete, al freddo e nella nudità, in peregrinazioni, pericoli e affanni », dovettero ripensare con commozione al martirio del loro grande fratello Giacomo; egli aveva fatto per Cristo anche più di loro e dovette essere per loro un monit e un incoraggiamento continuo; un giorno li aveva feriti con la sua indole altezzosa; ma poi dimostrò con i fatti ch’egli era veramente un primo, non il Primo in potere, come Pietro, non il primo per lavoro, come Paolo, ma il Primo nel sangue. non fu il Primo e il più grande di tutti?

GIACOMO IL PELLEGRINO

La morte prematura dell’Apostolo — morì ancor prima del Concilio apostolico — non favorì il sorgere di leggende intorno a lui; gli apocrifi più antichi si limitano a colorire la sua attività a Gerusalemme e nelle terre vicine e la storia del suo martirio. Solo Teodomiro,Vescovo di Iria in Galizia verso l’anno 772, riferisce espressamente che Giacomo soffrì il martirio a Gerusalemme, dopo il suo ritorno dalla Spagna; i resti mortali sarebbero stati portati dai discepoli dell’Apostolo a Joppe e di là, per via di mare, a Iria in Spagna; Iria ebbe poi il nome di « Compostella ». Questo nome è interpretato da parecchi come un’abbreviazione di « Giacomo Postolo » — Giacomo Apostolo; in forma più lunga si dice: « San Jago di Compostella ». L’anno 1082 sopra il sepolcro dell’Apostolo si cominciò a costruire una splendida chiesa. Con Gerusalemme e Roma, Santiago di Compostella fa parte dei tre luoghi più celebri come mete di pellegrinaggio dell’intera cristianità. Così anche dopo la morte Giacomo è fra i tre primi! I pellegrinaggi al suo sepolcro, segnatamente dal secolo decimo al decimoquinto, furono celeberrimi; solo il Papa poteva dispensare dal voto d’un pellegrinaggio a Santiago; chiese e cappelle senza numero, erette in onore di San Giacomo, orlarono le vie, che da tutti i paesi conducevano a Santiago. Vi fu un tempo, in cui Giacomo Maggiore era il più popolare di tutti gli Apostoli. Egli è il patrono della Spagna e il patrono pure dei pellegrini. – Vorremmo concedere al cavalleresco popolo di Spagna l’onore di essere stato evangelizzato da questo Apostolo dall’animo nobile, col quale può sentirsi intimamente congiunto; ma la leggenda d’un’attività di Giacomo nella Spagna non è sostenibile. Essa è anche molto tardiva; la letteratura spagnola dal quinto all’ottavo secolo, ch’è pur così abbondante, tace assolutamente sul viaggio di Giacomo in Spagna; un passo invece della lettera dell’Apostolo Paolo ai Romani fa capire che in quel tempo, verso l’anno 58, la Spagna non era ancora una terra dischiusa al Cristianesimo: « Spero, quando andrò in Spagna, di vedervi nel viaggio e di esservi condotto da voi》 3°. Diversa è la questione del trasporto delle reliquie di Giacomo a Compostella. L’anno 1884 il Papa Leone XIII riconobbe la loro autenticità. Nella Chiesa antica la festa di Giacomo Maggiore — un’altra sentenza ritiene che si tratti di Giacomo Minore — fu celebrata, con quella di Pietro e Giovanni, il 27 dicembre, come festa che faceva corteggio a quella del Natale; il giorno della festa attuale, il 25 luglio, dev’essere il giorno del trasporto delle reliquie. Nell’uso del popolo è considerato come giorno della sorte, come giorno delle prime mele e giorno di fortuna per la messe — « giorno di Giacomo nella raccolta, giorno di Giacomo nella mietitura » —; sui monti è pure il giorno di cambiamento della servitù e giorno festivo per i pastori. – Dal secolo decimosecondo in poi Giacomo è rappresentato quasi sempre come pellegrino, con la conchiglia, la tasca e il bordone del pellegrino. Tutto questo un senso profondo, anche se la leggenda del suo viaggio nella Spagna lontana sia priva d’ogni fondamento storico: Giacomo è il primo Apostolo, che è pellegrinato presso il Signore, in patria, ed è divenuto il primo « nella gloria del Signore », perchè per primo ne ha bevuto « il calice ». Noi pellegriniamo lontani dal Signore, perchè quaggiù non abbiamo una stabile dimora, ma cerchiamo quella avvenire; se, come Giacomo, beviamo i nostri « calici », anche noi un giorno perverremo stanchi, ma felici e maturi nella lontana terra natale. « Sii dunque con noi, o Signore, giacchè te ne supplichiamo, e fa che il viaggio dei tuoi servi trascorra favorevolmente nella tua salvezza, affinché in tutte le vicende di questa via e di questa vita trovino continuamente presso di Te protezione e aiuto ». Ce lo concedi per l’intercession del tuo santo pellegrino e Apostolo Giacomo. Amen.

NOVENA A S. ANNA

NOVENA A S. ANNA

(inizia il 17 luglio, festa il 26 luglio)

[G. Riva: Manuale di Filotea. XXX ed. 1888, Milano.]

La festa, insieme a quella di S. Gioachino, fu instituita da Giulio II nel 1510, e confermata da Gregorio XV nel 1620.

I. Per quell’invitta pazienza con cui pel corso di tanti anni tolleraste, o S. Anna, la vostra penosa sterilità, ottenete a noi pure una costante rassegnazione in tutti i travagli di questa vita. Gloria.

II. Per quella fervorosa ed incessante orazione con cui voi, o sant’Anna, domandavate a Dio di essere consolata colla fecondità, impetrate anche a noi un vero spirito di orazione per poter fecondare il nostro cuore di sante virtù. Gloria.

III. Per quella rigorosa mortificazione che voi, o S. Anna, accoppiaste alle vostre preghiere, ond’essere da Dio più facilmente esaudita, fate che ancora noi a tal fine procuriamo di unire al fervore dell’orazione lo spirito della mortificazione, con cui renderci meritevoli di tutte le grazie celesti. Gloria.

IV. Per quella dolce violenza che faceste al cuore di Dio colle vostre grandi elemosine ed altre opere di carità, impetrate, o S. Anna, anche per noi una carità somigliante alla vostra, onde muovere il Signore ad usare anche a pro nostro le sue infinite misericordie. Gloria.

V. Per quella santa confidenza con cui fermamente speravate, o S. Anna, il compimento dei vostri desideri, impetrate a noi pure una fiducia fermissima con cui ci assicuriamo ogni favore del Cielo. Gloria.

VI. Per quella grande riconoscenza che voi, o S. Anna, mostraste a Dio quando vi vedeste per favore divenuta feconda, fate che ancora noi siamo sempre grati e riconoscenti a Dio pei continui favori che da Lui riceviamo, e così degni ci rendiamo di sempre riceverne dei migliori. Gloria.

VII. Per quel puro e santo amore che voi concepiste, o S. Anna, verso Maria, quando vi vedeste divenuta sua fortunatissima madre, otteneteci di amar sempre questa vostra Figlia sì eccelsa e nostra Madre sì cara, onde meritarci distinta la sua protezione. Gloria.

VIII. Per quel gran sacrifizio che faceste, o S. Anna, della vostra gran Figlia, offrendola fin dai più teneri anni al divino servizio nel tempio, intercedeteci la grazia di poter con santo e nobil coraggio sacrificar a Dio qualunque cosa potesse Egli da noi bramare per acquistarci le sue più distinte beneficenze. Gloria.

IX. Per quella santità fervorosa con cui voi, o S. Anna, serviste a Dio in tutti i giorni di vostra vita, degnatevi di pregar Dio a farci sempre vivere da giusti e da santi sino alla fine dei nostri giorni, e così assicurarci le promesse retribuzioni nel cielo. Gloria.

FESTA DI SAN PIETRO PRINCIPE DEGLI APOSTOLI (2023)

SAN PIETRO

OTTO HOPHAN: GLI APOSTOLI – Marietti ed. Torino, 1951

In Roma, al Laterano, la chiesa « caput et mater » di tutte le chiese dell’orbe cristiano, s’eleva grande e solenne, in apostolica autorità e maestà, la statua di Simone Pietro: egli sta là con le vesti svolazzanti, come scendesse dall’eternità per venire in questo misero mondo, con la destra benedicente e insieme alzata sull’ « Urbs et Orbis » a comandare, tenendo con la sinistra le pesanti chiavi d’oro, che legano e sciolgono, e sotto il braccio sostiene, dolce e sacro peso, il Vangelo, ch’egli portò al di là di Gerusalemme e di tutta la Giudea e Samaria, sino ai confini della terra e al quale quivi, nell’antica e potente Roma, creò un’altra patria ed un altro luminoso mattino. Quale figura eccezionale di dominatore dovette essere Simone Pietro! quale geniale personalità religiosa! – La basilica di San Pietro a Roma, sul colle Vaticano, la più grande casa, che la cristianità abbia consacrata al Signore, una delle più poderose creazioni del genio umano, che con travolgente giubilo s’inarca sulle spoglie mortali dell’Apostolo, è il degno monumento di questo signore del mondo. Nella cupola di Michelangelo spiccano, scritte a caratteri giganteschi, quelle parole, che nostro Signore Gesù Cristo rivolse a Pietro e che mai passeranno, anche se cielo e terra passano: « Tu es Petrus! Et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam — Tu sei Pietro, la roccia! E su questa roccia Io edificherò la mia Chiesa ». Quando nei giorni di grande solennità il Successore di Pietro è portato nella basilica fra gli evviva osannanti d’una folla mareggiante, e quando alla consacrazione echeggiano le trombe d’argento e il Sacerdote Sommo, stringendo fra le mani l’Ostia e il Calice, si volge benedicente ai quattro punti cardinali, le migliaia di fedeli hanno la sensazione che si faccia loro incontro il rappresentante d’un uomo, che s’è elevato sino all’eternità, dove può toccare le soglie della stessa Divinità. Quanto grande e sublime Pietro!

LA PERSONALITÀ DI PIETRO

Se, allontanandoci dalla statua di San Pietro e dalla sua basilica e da tutta la grande Roma, ci inoltriamo nel santo Vangelo, restiamo quasi interdetti dinanzi alla semplicità personale di quest’uomo, intorno al quale guizzano i bagliori di Dio; la sua semplicità è così manifesta e così accentuata, che ci domandiamo storditi che cosa mai il Signore abbia scoperto in questo Pietro per risolvere di stabilirlo, proprio lui, pastore del suo gregge, padre dei re, fondamento della sua Chiesa, condottiero di questo mondo; se fosse stato eletto Paolo, l’uomo famoso nei secoli, o il geniale Giovanni o anche Giacomo, così energico, l’avremmo compreso, sebbenenil peso della dignità e della responsabilità avrebbe oppresso anche loro; ma Pietro? chi era questo Simone Pietro?

Patria e Famiglia.

Non sortì come patria Roma, Atene, Gerusalemme, Tarso, no, ma Bethsaida, una città di nessuna importanza, sulla riva orientale del lago di Genezareth, che era la residenza del tetrarca Filippo, o forse addirittura il piccolo nido di Bethsaida sulla spiaggia occidentale; in qualunque caso Bethsaida entrò nella storia del mondo solo perchè fu patria di Pietro. Al tempo della vita pubblica di Gesù, Pietro aveva preso domicilio nella vicina Cafarnao, dove possedeva una casa; il Signore si degnò di entrarvi e uscirne, come fosse ivi in casa propria. Questo suolo, ove Pietro ebbe i suoi natali, contribuì evidentemente alla sua formazione; in nessun altro Apostolo è impressa profonda come in lui la caratteristica dei Galilei: lo storico Giuseppe Flavio dice che i Galilei sono facili all’entusiasmo, precipitosi nelle decisioni e ardenti. – Anche la condizione familiare di Pietro era tanto semplice: suo padre si chiamava Giona o Giovanni — può essere che questa differenza sia dovuta a un errore di scrittura nella trascrizione greca del Vangelo di Matteo —, un Giovanni qualunque, ignorato, di niun conto, che non apparteneva nè al Sinedrio né alla classe dei finanzieri; ma, poichè lo sguardo del Signore si posò su suo figlio, anche il suo nome divenne celebre per tutti i tempi: « Beato sei tu, Simone, figlio di Giona…! ». « Simone, figlio di Giovanni, Mi ami tu? ». Il Vangelo ricorda un fratello di Pietro, il quieto Andrea, cui pure toccò l’ambito onore d’essere chiamato da Gesù all’ufficio apostolico. Pietro, secondo la stessa informazione evangelica, era sposato; uno dei primi miracoli anzi operati da Gesù fu la guarigione della suocera sua, che giaceva a letto a motivo « della grande febbre », come nel suo Vangelo ne precisa la diagnosi Luca, il medico. Nel Vangelo invece non si fa mai menzione esplicita della sposa di Pietro; secondo Girolamo, sarebbe morta presto; e forse, dopo la guarigione miracolosa, vediamo la buona suocera così attiva e sollecita nel prestare i suoi servizi, perché non c’era altra donna in casa, che ne curasse i bisogni. Altri commentatori della Scrittura invece ravvisano la sposa di Pietro in quella « sorella », ch’è ricordata da Paolo, nella prima lettera ai Corinti, come coadiutrice di Pietro nei suoi viaggi apostolici “. Clemente di Alessandria riferisce che, quando l’Apostolo vide la sua sposa condotta alla morte, si rallegrò perché veniva chiamata e ricondotta in Patria, la esortò e consolò dicendole: « Oh, ricordati del Signore! ». Girolamo accenna pure a più figli di Pietro; altre informazioni meno attendibili s’attardano specialmente su d’una figlia di nome Petronilla, che compare negli atti del martirio dei santi Nereo e Achilleo; questa santa « Petronilla » però era più probabilmente della famiglia di « Petronio », il quale apparteneva alla celebre famiglia romana dei Flavi.

Professione e Vocazione.

Di professione Pietro era pescatore; e pescatore non vuol dire senz’altro proletario o, peggio, miserabile, come talora, esagerando, si vorrebbe far credere di Pietro; possedeva infatti una casa, delle barche con tutti gli annessi e connessi attinenti alla pesca e forse, come sappiamo della famiglia di Zebedeo, aveva pure a suo servizio degli operai; un individuo, che proveniva dalla povertà d’una stamberga in rovina, non si sarebbe presentato al Signore con quella affermazione così ferma e sicura: « Ecco, noi abbiamo abbandonato ogni cosa e Ti abbiamo seguito ». Noi abbiamo abbandonato tutto! Persino il lago Pietro aveva lasciato per il Signore, il lago vasto e azzurro, per sostituirgli le strade polverose e gli sporchi villaggi. Chissà quante volte più tardi, quand’era gravato dalle cure della giovane Chiesa e camminava per le vie di Antiochia, di Corinto e di Roma, avrà richiamato in sorridente mestizia il lago della sua giovinezza! Sì, quel lago! Eppure proprio in quel lago Pietro si era addestrato alle fatiche, alle tempeste e alla diffusione della Chiesa nel mondo. Nondimeno, considerata ogni circostanza, l’origine, la condizione familiare, la posizione sociale, nessuno avrebbe predetto a quest’uomo l’ufficio più eccelso, che Cielo e terra possono concedere. Più d’uno, senza dubbio, nella sua giovinezza ha custodito le capre ed è poi asceso fino a divenire reggitore di popoli; ma Pietro non ha, anche come persona, abilità straordinarie che lo elevino al di sopra dell’aurea mediocrità; è vivace, di spirito sveglio, di volontà pronta e sopratutto ha un cuore ardente, è vero; ma, se si confronta con Giovanni o, più ancora, con Paolo, che mise sossopra un mondo intero, Pietro manca dell’impulso alle gesta geniali e gloriose. È l’uomo semplice, leale, e come un dì attese con onestà e lodevole sollecitudine alla sua famiglia, così ora si adopera per la giovane Chiesa; è l’uomo della vita pratica e dell’azione immediata; non rifugge dai piani arditi e dalle alte speculazioni, ma, messo dinanzi ad essi, si fa circospetto, come possiamo arguire dal suo benevolo giudizio su Paolo: «Il nostro diletto fratello Paolo ha scritto secondo la sapienza, che gli è stata data, come fa in tutte le lettere, quando parla di questi argomenti; in esse vi sono certi punti difficili ad intendersi, che le persone senza istruzione e malsicure stravolgono a loro propria perdizione». Dal Sinedrio è giudicato “indotto e incolto”, sebbene questo giudizio non escluda ogni formazione, bensì l’istruzione rabbinica, della quale forse aveva approfittato Paolo. Gli era invece molto familiare la Sacra Scrittura, come lo provano tanto bene i suoi discorsi, riportati negli Atti degli Apostoli, così pregni del profumo della Parola di Dio. È possibile che per tutta la vita sia sopravissuto nel pescatore di Bethsaida un non so che di goffo; qualcuno della plebaglia di Gerusalemme si burlò del modo impacciato di comportarsi del povero Apostolo e della sua lingua e pronunzia rozza, genuinamente di Galilea “. E così in Pietro tutto è semplice ed umano, ad eccezione del suo sovrumano ufficio; non è un dominatore, dello stampo di quelli che s’incontrano nella storia, nè un eroe, che sia penetrato nelle stratosfere dello spirito; le più antiche immagini (Dagli antichi monumenti cristiani non è possibile concludere a un tipo uniforme per Pietro. Gli antichi sarcofaghi presentano teste di lui abbastanza differenti; quello di Basso, ad esempio, della metà del V secolo, dà a Pietro un capo alto, coperto di capelli corti, con fronte liscia, naso stretto e quasi verticale, bocca decisamente tagliata, barba arricciata, ma fluente. Si conservano però, quasi dello stesso tempo, delle raffigurazioni, che gli danno un capo calvo nella parte anteriore, fronte rugosa, larga base del naso, labbra rigonfie e barba rotonda. Col passar del tempo s’andò delineando una netta distinzione fra le figurazioni di Pietro e Paolo: gli artisti assegnarono al primo la barba rotonda e i capelli tutti ricciuti, al secondo il capo calvo e la barba fluente.) lo rappresentano con i lineamenti dell’uomo intelligente e buono, ma insieme anche con quelli dell’uomo semplice del popolo. Proprio qui dunque, di fronte a quest’essere ordinario ch’è Pietro, ci si presenta di nuovo la domanda: perchè appunto quest’uomo comune fu chiamato ad una dignità così straordinaria? Certamente anche questa disadorna semplicità presentava il suo aureo rovescio; è sufficiente una scorsa al Vangelo per essere attratti dall’incanto della rettitudine e schietta cordialità di Pietro, dalla purezza della sua anima, che ricorda l’amabile e illibata ingenuità d’un bambino. Si consideri la sua lealtà dopo la pesca miracolosa: con una parola, che dice insieme tutto il suo stupore e la sua profonda umiltà, riversa l’interaanima sua dinanzi al Signore: “Allontanati da me, o Signore, io sono un uomo peccatore”. All’Evangelista Marco, che mise in iscritto la sua predicazione, non permise che tramandasse alle future generazioni, come l’evangelista Matteo, le sublimi parole, che il Signore gli aveva rivolte a Cesarea di Filippo. Pietro era l’uomo semplice, modesto e puro sino nel più profondo dell’anima. È questo forse il motivo di quell’elezione del Signore, che a primo aspetto sembrerebbe inconcepibile? La condizione essenziale richiesta dal Signore per le guide del suo gregge è: “Il maggiore fra voi sia come il più piccolo e il superiore come il servo”. Grazie alla sua semplice indole, Pietro aveva già nella sua natura un salutare contrappeso al pericoloso sovraccarico di dignità, che il Signore intendeva concedergli; possiamo anzi dire che Gesù, eleggendo Pietro così alla buona, lasciava intravvedere fin da principio quale doveva essere la norma direttrice di quell’arrischiato ufficio, perché mai avesse a degenerare in presuntuosa avidità di dominio nè irrigidirsi in carte e paragrafi e neppure avesse a straniarsi dalla vita con speculazioni teoriche. – Agostino sulla elezione del semplice Pietro ha la seguente profonda e brillante osservazione: « Pietro era un pescatore… Se Iddio avesse scelto un oratore, questi avrebbe potuto dire: “Sono stato scelto a motivo della mia oratoria “. Se avesse scelto un senatore, il senatore avrebbe detto: “Sono stato eletto a motivo della mia dignità “. E infine, se Egli da principio avesse eletto un imperatore, questi avrebbe potuto dire: “Sono stato scelto in vista della mia potenza politica…”. Dammi, dice però il Signore, quel pescatore, dammi l’incolto, dammi quell’indotto, dammi colui, col quale il senatore, dovendo acquistare un pesce, non si sarebbe degnato neppure di parlare! Dammi costui, e se lo potrò riempire, sarà ben manifesto che l’ho fatto Io. Sebbene Io sia per chiamare anche un senatore e un oratore e un imperatore…, col pescatore però sono più sicuro». – Questo pescatore fu chiamato la prima volta dal Signore nei pressi del Giordano; perché, come i futuri Apostoli Andrea, Giovanni, Filippo, forse anche Giacomo e Bartolomeo, egli apparteneva al gruppo del Battista, che laggiù, al Giordano, aveva in loro attizzata la brama e la speranza del Messia: “Preparate la via del Signore…! In mezzo a voi sta Colui, Che voi non conoscete; io non sono degno di scioglierGli i calzari”. Un giorno splendido di primavera Andrea si precipitò ansante alla volta di suo fratello e gli gridò giulivo: “Abbiamo trovato il Messia”; e Gesù e Pietro si trovano già l’uno dinanzi all’altro per la prima volta: Pietro, curioso e lontano da ogni sospetto, come la maggior parte degli uomini nell’ora di Dio; Gesù invece tutt’intento a ponderare e a misurare la portata e la vastità di questo momento, che si protenderà sino all’eternità. Qual sole estivo, il suo sguardo penetrò nelle profondità del semplice Pietro, poi elevò i suoi occhi verso i confini della terra, e poi pensoso disse più a Se stesso quasi che a Simone: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni; tu ti chiamerai Kefas (roccia)”. Simone se ne stette lì senza parole; avrebbe mai potuto sospettare che quest’incontro con Gesù l’avrebbe tolto ai suoi modesti binari per incamminarlo sulle vie del Cielo e della terra? Parecchi mesi più tardi seguì la seconda chiamata, perchè i primi discepoli, dopo quei giorni passati con Gesù presso il Giordano, non restarono stabilmente con Lui; pesava su di loro la necessità di guadagnare il pane quotidiano per sè e per i loro cari, il lavoro quindi urgeva ed il lago ve li invitava. Sul lago stavano anche quel giorno, nel quale Gesù ritornò per posare la sua mano su Pietro la seconda volta e definitivamente, per sempre. I pescatori stavano accoccolati sulla spiaggia, amareggiati: s’erano «affaticati tutta la notte e non avevano preso nulla»; ma il Signore ama introdursi in queste ore della disperazione. « Prendete il largo e gettate le vostre reti per la cattura », grida a Simone in tono di comando. Obbediscono; Egli è il Signore; non però un pescatore…, se no, non ordinerebbe un viaggio in pieno giorno, senza speranze. Ma ecco, le reti cominciano a tendere all’ingiù e sempre più pesantemente, tanto che la barca perde quasi l’equilibrio; « presero una così grande quantità di pesci, che le loro reti minacciavano di stracciarsi; allora fecero cenno ai loro compagni dell’altra barca, perchè venissero e li aiutassero; vennero anche quelli; e si riempirono tutte e due le barche in modo che quasi sprofondavano ». – Luca annette la chiamata di Pietro e degli altri tre primi Apostoli, Andrea, Giacomo e Giovanni, al racconto della pesca miracolosa, e in questa cornice la chiamata diviene tanto più manifesta e la cattura dei pesci profondamente simbolica: Pietro « d’ora innanzi diverrà pescatore di uomini »; i compagni verranno e l’aiuteranno; e anche alle fatiche e alle veglie del pescatore di uomini il Signore accorderà un successo così lusinghiero, che le barche stracariche quasi affonderanno. Tutti e tre gli Evangelisti notano quello, che tenne dietro immediatamente a questo glorioso incontro con Gesù: « Lasciarono le reti sull’istante e Lo seguirono » “. Solo poche settimane dopo, il Signore scelse come suoi Apostoli questi primi quattro con a capo Pietro e aggiunse ad essi altri otto.

Temperamento e Carattere.

Del tempo, che passò fra la vocazione degli Apostoli e la professione di fede emessa da Pietro a Cesarea di Filippo, in quel gran giorno della sua vita, il Vangelo ci ha conservato tre note, che si direbbero di nessuna importanza e invece illuminano un nuovo aspetto del suo carattere. Mentre Gesù andava alla casa di Giairo, « molto popolo Lo accompagnava e si stringeva intorno a Lui »; quando la povera donna emorroissa, protetta dalle folle, riuscì a spingersi tanto innanzi da toccare l’orlo della veste sua e « Gesù sentì che una forza era uscita da Lui, Egli si rivolse alla folla e domandò: “Chi ha toccato le mie vesti? “. Poiché tutti negavano, Pietro e i suoi compagni dissero: “Maestro, le folle Ti circondano e opprimono, e Tu domandi: Chi Mi ha toccato? ». Una seconda notizia intorno a Pietro riguarda la notte, che seguì alla moltiplicazione miracolosa dei pani. Alla quarta vigilia della notte, Gesù s’accostava agli Apostoli camminando sulle onde del lago in tempesta. « Quand’essi Lo videro camminare sul lago, pensarono che fosse uno spettro e per paura gridarono ». Dopo la parola rassicurante di Gesù: « Consolatevi, non temete, sono Io », Pietro disse al Signore: « Signore, se sei Tu, fa ch’io venga a Te sulle acque! »; ed Egli rispose: « Vieni ». Allora Pietro uscì dalla barca e camminò sulle onde per raggiungere Gesù; ma quando ebbe avvertito il vento, fu preso da terrore e, cominciando a sprofondare, gridò con tutta forza: « Signore, salvami! ». Gesù stese subito la mano, lo prese e gli disse: « O uomo di poca fede, perché hai dubitato? » . In questo intervallo di tempo Pietro fa capolino una terza volta dopo le censure, che il Signore aveva fatte sulla condotta dei Farisei, e precisamente a motivo delle parole: « Non quello che entra per la bocca contamina l’uomo, ma quello che esce dalla bocca… ». « Allora Pietro disse: “Spiegaci questa parabola”. Queste tre brevi notizie mettono in luce un secondo tratto essenziale nella figura di Pietro: il suo temperamento spigliato e anzi impetuoso. Pietro evidentemente è un sanguigno, che si lascia impressionare e influenzare facilmente, cambia presto d’umore e di disposizioni d’animo; è il primo nella parola, il primo anche nell’azione, ma non è il primo nella riflessione, spesso vi arriva solo in ritardo o anche troppo tardi. Qualcuno ha presentato Pietro come un collerico; ma a lui la caratteristica del collerico manca assolutamente, e cioè la costanza paziente e tenace, necessaria per superare le avversità e gli ostacoli della vita; egli è troppo vivace e volubile per spuntarla con se stesso, come comporta l’indole del collerico. La sua caratteristica balza da parecchi testi del Vangelo: risolve alla svelta, su due piedi, precipitoso e a sbalzi. Egli interruppe bruscamente le auguste e gravi parole, con le quali il Signore dava il primo annunzio della sua passione. Pensò che anche nella sublime solennità della Trasfigurazione bisognasse dire qualche cosa: « Maestro, è buona cosa per noi lo star qui. Erigiamo tre tende, una a Te, una a Mosè e una a Elia ». A questa uscita inopportuna Marco fa seguire la timida osservazione: “Non sapeva cioè che cosa dicesse, tanto erano storditi”. Con un sì pronto e irriflessivo Pietro rispose pure alla domanda del ricevitore delle tasse: « Il vostro Maestro non paga il didramma? » . Quando si trattò della lezione sul perdono per i torti ricevuti dai fratelli, egli credette di giungere al massimo dello spirito conciliativo con la sua proposta: « ” Signore, se il mio fratello ha mancato verso di me, quante volte gli debbo perdonare? forse fino a sette volte?” Gesù gli rispose: “Io ti dico, non sette volte, ma settanta volte sette volte” ». L’ultima sera, durante la lavanda dei piedi, Pietro sollevò dall’imbarazzo i colleghi rompendo il silenzio: « Signore, Tu non mi laverai i piedi in eterno », ma subito dopo, persuaso dal Signore, cadde nell’estremo opposto: “Allora, o Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mie mani e il mio capo”. Dopo l’annunzio del tradimento, egli non resse più e fece cenno al « discepolo che riposava sul petto di Gesù », egli disse: “Domanda chi Egli intenda!” Fu pure Pietro, proprio Pietro, che nel modo più risoluto protestò al Signore: « Anche se tutti si sbandassero, ma io, io no! ». E sul Monte degli Olivi fu solo lui che prese a difendersi decisamente con la spada, anche se allora non gli riuscì di più che « mozzare un orecchio a uno dei servi del Sommo Sacerdote », sia pure « l’orecchio destro », come non manca di constatare con tutta esattezza Luca, il medico. Che figura il nostro Pietro, svelto, bollente e tuttavia di cuore così buono! Il suo temperamento balza subito agli occhi anche oggi, specialmente dal Vangelo di Marco, che di tutti e quattro è il più vivo e drammatico; ma già l’antica arte cristiana ha messo in luce quest’aspetto suo d’uomo ardente e impetuoso; così in un frammento di sarcofago di San Sebastiano in Roma, che risale all’inizio del quarto secolo, Pietro è ritratto come un vecchio vivace e quasi nervoso. Ma ora di nuovo, dinanzi a questo esuberante temperamento sanguigno, si ripresenta e ancor più urgente la precedente questione: Pietro, essere così impetuoso e talora addirittura imprudente, sarà idoneo a divenire il condottiero e il fondamento della Chiesa di Cristo? Su quale base instabile e traballante edifica Cristo la sua Chiesa! E sarà adatto a fare il pastore un individuo, che tutt’al più arriva a perdonare « sette volte »; che s’avventa indignato con la spada e ferisce e mutila?! Povero quel gregge, cui presieda un pastore violento! Eppure per l’ufficio ed i compiti di Pietro quest’indole viva e immediata offre anche dei preziosi contributi: grazie alla sua prontezza, Pietro è l’Apostolo più chiaroveggente, dall’udito fine, di delicato sentire; si potrebbe definire l’Apostolo dal sesto senso. L’idea gli brilla in mente per primo; egli trova la parola prima degli altri; lui prende la decisione, passa all’azione, salva la situazione. La grazia profitterà di queste disposizioni della natura: fra tutti i Dodici Pietro sarà il primo a riconoscere e a proclamare Gesù Messia e Figlio di Dio vivente. Questa snellezza può tornare benefica anche per la direzione del gregge: Pietro pascerà il gregge di Cristo con occhio vigile e s’avvedrà subito del suo bene e del suo male e vi provvederà senza solenni formalità e prolissità soffocante. Il suo sguardo va alla sostanza delle cose e scorge e scevera subito l’essenziale dal puro accessorio; sa adattarsi con mirabile elasticità alle mutate circostanze e non si irrigidisce inflessibile su posizioni ormai sorpassate; posto dal Signore qual roccia in mezzo ai flutti che s’accavallano rumorosamente, egli li deve certamente sfidare e superare, ma si fa pure togliere via da essi di continuo la polvere dei secoli. Pietro può anche andare sulle furie e colpire dolorosamente, come ebbe a sperimentare Malco, cui tagliò l’orecchio, ma la sua natura svelta lo fa essere presto buono di nuovo e riparare il suo errore con sincero e intenso affetto. In un’antica scrittura coptica leggiamo di Pietro il seguente giudizio tanto esatto e bello insieme: « Egli fu un uomo misericordioso e incline a sciogliere subito ». L’indole personale di Pietro, svelta, vivace e arrendevole può felicemente bilanciare e completare la rigidezza e inflessibilità del suo ufficio.

Rinnegamento.

Questo piacevole carattere tuttavia fu per Pietro fatale e sarebbe stato anzi la sua stessa rovina, se il Signore, mentr’egli affondava, non gli avesse di nuovo stesa la mano, come quella notte sul lago in tempesta. Lungo tutto il Vangelo infatti, da autentico sanguigno, instabile e malsicuro già per naturale propensione, si manifesta debole e incapace di fronte alle imminenti difficoltà; lo sprofondarsi nelle onde furiose del lago è un vero simbolo della sua indole malferma e non cesellata a martello. Fin da quando il Signore parlò la prima volta apertamente della sua passione, ch’era certamente il mistero più arduo della sua vita, Pietro Gli resistette, protestando con tutta la sua anima: « Pietro prese Gesù in disparte e cominciò a sopraffarLo con le gravi parole: “Lungi da Te, o Signore, questo non Ti deve avvenire” » . L’effetto di questa resistenza fu per lui rovinoso: « Gesù si volse e disse a Pietro: “Via da Me, satana! Tu mi sei di scandalo; tu non hai in animo disegni divini, ma umani! ” ». Lo stesso Gesù aveva proclamato beato il medesimo Pietro solo sei versetti prima; ma è così: chi non accetta anche la croce, facesse pure come Pietro splendida professione di fede nella divinità di Cristo, dinanzi al Signore equivale a « satana », perchè tenta, come quel seduttore nel deserto, di condurre il Signore alla potenza e alla gloria col distoglierLo dalla volontà del Padre. Il mistero della croce era per ogni Giudeo uno scandalo. Il Signore, per rappacificare gli animi dei Discepoli che n’erano rimasti sconcertati, « otto giorni dopo quel discorso », fece dono a Pietro, Giacomo e Giovanni, i primi del Collegio apostolico, del segno luminoso della Trasfigurazione, nella quale fece zampillare le recondite sorgenti della sua divinità. La lettera, che Pietro indirizzò ai credenti dell’Asia Minore circa 35 anni dopo quell’avvenimento, è prova che la Trasfigurazione gli aveva lasciata un’impressione incancellabile; per lui è anzi una delle dimostrazioni più importanti per la fede in Cristo: « Noi fummo testimoni oculari di quelle sublimità di Gesù Cristo. Egli ricevette da Dio Padre onore e gloria, allorchè dall’eccelsa gloria venne su di Lui la voce: “Questi è il mio Figlio diletto, nel quale Io Mi compiaccio “. Questa voce udimmo venire dal Cielo, quando fummo con Lui sul monte santo. Con questo è tanto più ferma per noi la parola profetica; voi fate bene ad attenervi ad essa >. La Trasfigurazione però non tolse di mezzo la passione, chè piuttosto aveva lo scopo preciso di rafforzare gli animi di fronte ad essa; e il Signore tornò a parlare dell’argomento sgradito subito, scendendo dal monte, ma incontrò nei Discepoli la medesima incomprensione della prima volta. Se terremo dinanzi agli occhi questa incomprensione o piuttosto indignazione, provocata dalla passione fin dall’inizio, noi intenderemo più facilmente l’ora più cupa della vita di Pietro, il suo rinnegamento; in esso infatti ebbe solo l’occasione di manifestarsi quella debolezza, ch’era in lui visibile già all’annunzio della passione. Durante l’ultima Cena il Signore l’aveva ammonito insistentemente perchè stesse in guardia: « In verità ti dico che ancor questa notte, prima che il gallo canti due volte, tu Mi negherai tre volte ». Ma Pietro, sicuro di se stesso, replicò: « Dovessi anche morire con Te, assolutamente non Ti negherò >. Gesù tacque, come chi sa che gli avvenimenti gli daranno purtroppo ragione. E in quale dolorosa misura Gli diedero ragione! Solo un’ora dopo le proteste: « Anche se tutti si allontanassero da Te, io, io non mi lascierò mai traviare »; « son pronto ad andare in carcere e alla morte con Te >; perfino: « Io voglio dare la mia vita per Te »: solo un’ora dopo questa audace assicurazione dunque sul Monte degli Olivi.., l’eroe dormiva! Anche Giacomo dormiva e persino Giovanni — ah, come potè dormire anche Giovanni?! —; ma Gesù non fece particolare rimprovero nè a Giacomo e neppure a Giovanni, sebbene fosse il discepolo dell’amore, quando, tremante e asperso di sangue, stette dinanzi a loro; accusò invece in particolare Pietro: « Simone, tu… tu!… dormi! Non hai potuto vegliare un’ora sola? ». Quello che seguì poi s’abbattè su Pietro con la subitaneità della catastrofe. – Dopo lo scompiglio sul Monte degli Olivi, si trovò nel cortile del Sommo Sacerdote; l’amico suo Giovanni glien’aveva procurato l’accesso. Dentro all’aula il suo Maestro è interrogato e condannato; fuori sta lui, disorientato e solo, fra i soldati schiamazzanti. Una fantesca, la loquace e impertinente portinaia, lo osserva per un po’ e poi gli scaglia contro: « Anche tu eri con Gesù, il Galileo ». Gli manca il fiato; vuol dire, tartaglia, balbetta: « … No ». Orrendo! Che cos’hai detto mai? > Vuole ritirare la parola esecranda, ma vede ivi la moltitudine, quella braccheria; fa meglio tacere. E così quel no resta misteriosamente sospeso, come fuori, nelle tenebre, a mezzanotte, il rintocco delle dodici ore. L’ottusa fantesca ha attirato l’attenzione di tutti su Pietro; osservano quel camerata sconosciuto e impacciato; egli cerca di togliersi di lì, allontanandosi per la porta, ma un’altra fantesca gli sbarra la via e lo risospinge angosciato verso il fuoco. Ivi, con una tranquillità artefatta, tenta di confondersi con i servi per allontanare da sè ogni sospetto; ma già per la seconda volta lo raggiunge l’infausta domanda: « Non appartieni anche tu ai suoi discepoli? ». Avrebbe potuto cancellare in quel momento l’orrendo no precedente; ma quando il vento e le onde s’abbatterono su di lui, stava già sprofondando nel lago, e la tempesta, che ora l’investe, è più selvaggia di quella; sprofonda e affoga: « Egli negò con un giuramento: “Io non conosco l’uomo! “»; i suoi occhi però smarriti e supplici deponevano contro le parole della sua bocca. La folla malvagia, aizzata e divertita da questo smarrimento, assediò più da vicino la sua vittima. Anche la rozzezza della lingua testifica che Pietro è un galileo; senz’alcuna pietà, mettono il povero uomo alle strette: « Sei davvero uno di loro, ti tradisce persino la tua lingua ». Ormai due no orribili erano detti; il soffio d’un sì non può più annullarli: quando un malaugurato parente di Malco, cui Pietro aveva mozzato l’orecchio, s’alzò a deporre contro di lui, egli fu completamente perduto: « Cominciò a imprecare e a giurare: “Io non conosco l’uomo!” Ma quei giuramenti risuonarono innaturali e trillarono come i vetri, che dall’alto d’un Duomo santo precipitano giù sulla polvere della strada. Stupì persino quella masnada; s’accorse ch’era avvenuto qualcosa d’insolito. Frattanto, durante quel singolare silenzio, un gallo cantò, un qualunque gallo fuori del palazzo; lo sentirono tutti, perché intorno a Pietro s’era fatto profondo silenzio… Rileggessimo anche cento volte questa storia del rinnegamento di Pietro, dovremmo piangere ogni volta su questo povero e buon Apostolo, come su di un santuario ridotto in cenere e frantumi. E pianse anche Pietro: “Uscì fuori e pianse amaramente”; il testo greco dice: « Eklausen pikrós », che non significa semplicemente piangere, ma piangere dirottamente. I Sinedristi, che dentro nella sala sedevano a tribunale, alzarono gli occhi sorpresi e anche Gesù, mentre veniva ricondotto fuori, alzò il capo verso quella parte, donde giungeva il singhiozzo: «Il Signore si volse e guardò Pietro »; e i suoi occhi illuminarono già quelle lacrime amare d’un primo barlume di perdono. Potremmo noi criticare Pietro?… Chi è senza peccato, scagli su di lui la prima pietra! Era stata così dura la lotta fra fedeltà e debolezza! Del resto sul Monte degli Olivi lui e lui solo fra tutti aveva preso le difese del Maestro; Gesù gli comandò di rinfoderare la spada, e Pietro non obbedì volentieri, però obbedì: il Maestro s’aiuterà da solo; e invece non s’aiutò. Fuori di sè per l’angoscia, tenne dietro al suo amato Signore sino dentro al covo pericoloso dei suoi nemici; e ivi avvenne purtroppo tutto quello, che abbiam visto or ora. Ma è tutto? Sotto le macerie, continuarono a fiorire la fede e l’amore, come in un campo di croco, seppellito da una valanga di neve. Perchè Pietro l’aveva rotta col suo Maestro soltanto a parole, non col cuore; fede e amore risorgeranno di nuovo; invece non potrà più certamente essere colonna della Chiesa lui, ch’è stato infranto tre volte, tre volte caduto. Ovvero il Signore, con ironia veramente divina, colloca qual roccia proprio… il caduto?

IL PRIMATO DI PIETRO

Allusioni.

La famiglia aveva imposto a Pietro il nome di « Simone », « Simeone » (= esaudizione), nome tanto frequente e comune fra i Giudei, come fra noi oggi il nome di Giovanni; nel primo incontro però presso il Giordano il Signore gli fece intravvedere il nome di « Kefas » (= roccia), ma non gli svelò allora il motivo e il contenuto di questo secondo nome. Negli scritti del Nuovo Testamento egli è chiamato ora col nome di Simone solo, ora con quello solo di Pietro e ora con tutti e due: « Simone Pietro>; ma queste piccole differenze non sono senza significato. Con i nomi “Simone Pietro” è introdotto da Matteo e da Luca solamente nelle grandi ore della sua vita; il quarto Evangelista invece preferisce questo doppio nome, che esprime insieme l’aspetto personale e quello dell’ufficio di Pietro; quando, dopo la risurrezione e l’ascensione al Cielo, l’ufficio andò prendendo il primo posto sempre più decisamente, ricorre quasi esclusivamente, e sopratutto negli Atti degli Apostoli, il nome di “Pietro”. Anche Paolo lo ricorda con questo nome dell’ufficio: « Kefas » (=Pietro). Il Signore poi ritorna al primo nome “Simone” solo quando gli deve dare avvisi o rimproveri, come prima delle negazioni e sul Monte degli Olivi, nell’ora del sonno. Quanto è significativo questo secondo nome, altrettanto lo è il posto assegnato a Pietro nei quattro cataloghi degli Apostoli: è sempre il primo di tutti, e Matteo lo sottolinea espressamente: «I nomi dei dodici Apostoli sono i seguenti: in primo luogo Simone, che si chiama anche Pietro» . Ora questo posto ci sorprende veramente, perché ci saremmo aspettati che stesse al primo posto Andrea, il quale aveva condotto Pietro a Gesù, oppure Giovanni, che di Gesù era il discepolo prediletto; e invece, senza eccezione, Pietro è sempre in testa sia del Collegio dei dodici, come anche di quel gruppo preferito da Gesù e che solo fu ammesso a vivere le ore più solenni della sua vita. Ricorrono inoltre molti passi, nei quali Pietro è il solo ricordato per nome fra i Dodici; leggiamo, ad esempio: « Pietro e i suoi compagni »; « Pietro e gli altri discepoli »; « Pietro con gli Undici”; donde l’impressione necessariamente che Pietro sia stato il rappresentante e il portavoce degli altri, impressione che resta rafforzata da parecchi altri passi del Vangelo: in occasione della predica sul lago, quando il Signore « vide due barche, che stavano alla riva, salì nella barca, che apparteneva a Simone » 63; il Signore paga l’imposta dovuta al tempio anche per Pietro; a lui lava i piedi per primo. Chi potrebbe arrischiare di sbrigarsi di questa preferenza così marcata e continua, dicendola semplicemente casuale? Frattanto lo stesso Vangelo ci rivela il senso profondo e il motivo di queste distinzioni.

Promessa.

Siamo a Cesarea di Filippo, nel limpido e sublime meriggio della vita di Pietro! Egli aveva reso omaggio al Signore anche poche settimane prima, dopo la defezione delle folle nella sinagoga di Cafarnao: « Noi crediamo e sappiamo che Tu sei il Santo di Dio”; ma quella professione doveva essere come il chiaro preludio al canto giulivo del suo Credo pieno. Quando furono lassù, a settentrione della Terra Santa e già oltre i suoi confini, a Cesarea di Filippo, il Signore decise finalmente di porre i suoi Discepoli dinanzi a una domanda ed a una deliberazione: « Per chi ritiene la gente il Figlio dell’uomo?… Per chi Mi ritenete voi? ». Come aquila, Pietro allarga le ali dell’anima sua, sale, sale, più in alto, sempre più in alto, ben al di là di ogni umana opinione, che in Gesù di Nazareth scorge un nobile dello spirito o anche un profeta della grandezza del Battista, di Elia o Geremia, nulla però di più elevato; egli invece volteggia intorno alle nevi eterne della messianità e persino della divinità di Gesù e s’innalza per primo fino a queste due vette sublimissime, irradiate d’eterna luce, con l’atto della sua fede ardita: « Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente”. Questa sua professione di fede in Gesù di Nazareth fu tanto sublime e al di là d’ogni terreno intendimento, che Gesù stesso guardò meravigliato ed esultò: « Beato sei tu, Simone, figlio di Giona! Poiché non carne e sangue ti han rivelato questo, ma il Padre mio, Ch’è nei Cieli ». Poi, qual’onda marina libera d’ogni intoppo, le parole di Gesù s’ampliarono e sul meschino pescatore Simone, in piedi sulla riva del tempo, rumoreggiò tutta la pienezza di Dio: « E Io dico a te: “Tu sei Pietro (= roccia)! E su questo Pietro roccia) edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non la supereranno. Io ti darò le chiavi del regno dei Cieli. Qualunque cosa legherai sulla terra, sarà legata anche in Cielo; e qualunque cosa scioglierai sulla terra, sarà sciolta anche in Cielo ». Quale potenza fu messa fra le mani incallite del pescatore di Bethsaida con queste parole! una pienezza di poteri quale nessun imperatore del mondo possiede! Pietro è il fondamento, e proprio lui, non la sua fede, sebbene, certo, lui a motivo della sua fede; Cristo si rivolge ripetutamente a Pietro: «Io dico a te: “Tu sei Pietro e su questa roccia edificherò la mia Chiesa” ». La mia Chiesa! La Chiesa di Cristo è una sola, ed è quella costruita su Pietro, ed è tanto invincibile, che le stesse porte dell’inferno — le porte della morte, secondo una traduzione più esatta — non possono superarla. E Pietro ha le chiavi; esse anzi gli son così proprie, che son divenute la sua caratteristica e il suo contrassegno; chiavi non certo per i regni e le ricchezze terrene, ma per il regno dei Cieli; chiavi che dischiudono verità, grazia e beatitudine. Pietro è del regno dei Cieli alla « porta e ha la porta ed è il portinaio e ha le chiavi. Egli è il portinaio eterno e l’eterno clavigero. E tuttavia posso giurarti che non è un carceriere. Perché egli è il custode dell’eterna libertà». E Pietro può « legare e sciogliere” senza nessun limite: « Qualunque cosa », obbligando in modo davvero sconcertante: « Sarà legata anche in Cielo e anche in Cielo sarà sciolta ». È una pienezza di poteri in bianco, che mette quasi paura; ma vedremo presto la sua motivazione e i suoi limiti. Potere simile fu dato veramente anche agli altri Apostoli — « In verità Io vi dico: ” Qualunque cosa legherete sulla terra, sarà legata anche nel Cielo, e qualunque cosa scioglierete sulla terra, sarà sciolta anche nel Cielo ” » —, ma agli altri solo in comune con Pietro, mentre a Pietro anche senza degli altri. Il potere di Pietro è veramente grande, non si può concepire. Egli è la roccia della Chiesa; per mezzo della sua fede in Cristo, il Figlio di Dio vivente, egli stesso è inserito nell’eterno Fondamento. Egli porta le chiavi del regno dei Cieli e a lui il Signore ha affidato l’aureo forziere della sua verità. È il legislatore e il giudice nel mondo delle anime, e lega e scioglie «qualunque cosa ». Cristo, è vero, non ha parlato col linguaggio della scuola di « Primato di Pietro »; ma i Teologi moderni non insegnano se non quello che deriva dalla genuina fonte del Vangelo; e tutte le singolari prerogative, che costituiscono il « primato d’onore », hanno il loro fondamento e senso solo nei diritti del « primato di giurisdizione” di Pietro. Solo Matteo ha trasmesso questo documento del Vangelo intorno al Papato. Si capisce bene che Marco, l’amanuense di Pietro, l’abbia tralasciato: l’umiltà di Pietro gliel’ha imposto. Ma questo testo non ricorre neppure in Luca; in Matteo dunque non potrebbe essere un’interpolazione posteriore? Contro questa ipotesi sta il fatto ch’esso si trova in tutti i manoscritti del vangelo di Matteo, anche nei più antichi; il gioco di parole inoltre con Kefas = roccia non è possibile e chiaro che nella lingua originale aramaica; il testo dunque non può essere in Matteo una falsificazione posteriore. Altri potrà obiettare che Matteo stesso potè mettere insieme parole di tanta grandezza nei riguardi di Pietro per esaltarlo di fronte alla nuova stella, che stava sorgendo, l’Apostolo Paolo. Ma chi scruti con attenzione il Vangelo, s’accorgerà che il tratto di maggior peso nel testo di Matteo son le parole: « Tu sei la roccia; su questa roccia Io edificherò la mia Chiesa »; ora proprio questa parola « Pietro = = roccia» non ricorre solo in Matteo, ma torna in tutta la Scrittura del Nuovo Testamento ogni volta che si fa parola dell’apostolo Simone; il suo nome personale scompare completamente; da tutti e quattro gli Evangelisti e dallo stesso Paolo è chiamato « Roccia »; e questo sta a dimostrare che Simone fu posto a fondamento della Sua Chiesa da Cristo stesso e non da Matteo. Ma abbiamo anche di più! Nel vangelo di Luca leggiamo un testo, che fa l’impressione d’essere l’eco di Matteo XVI, 18: « Simone, Simone, bada che satana ha desiderato di vagliarvi come il grano; Io però ho pregato per te, affinchè la tua fede non venga meno (non sia scossa); e tu, quando ti sia orientato (epistrépsas), conferma i tuoi fratelli » . Queste parole furono rivolte a Pietro immediatamente prima del suo vile rinnegamento; riguardano dunque un avvenire più lontano: dopo che si sarà «orientato », « convertito », sarà ufficio e compito di Pietro irrobustire i suoi fratelli; non abbiamo, in questo sostegno e rafforzamento degli altri nella fede, l’equivalente di quanto esprime il Signore nel Vangelo di Matteo con la metafora della roccia?

Conferimento.

Le parole, che leggiamo nel Vangelo di Giovanni intorno alla prelazione o primato di Pietro, sono anche più chiare e più care: quello, che il Signore solo promette in Matteo e Luca, in Giovanni lo conferisce. L’Evangelista ci trasporta in quei giorni, tutti dolcezza e mestizia insieme, che seguirono alla risurrezione, quando Gesù, con le sue apparizioni, riannodava e scioglieva ripetutamente i vincoli con i suoi discepoli; sette Apostoli sedevano in timida venerazione intorno al Risorto presso il lago di Tiberiade, dopo una pesca miracolosa, che per più motivi dovette richiamar loro la prima; prendevano cibo col grande Sconosciuto in silenzio, perché « nessuno dei Discepoli osava interrogarLo: “Chi sei Tu? “; chè sapevan bene ch’era il Signore ». A un certo momento Gesù prende dinanzi a Sè Pietro; ecco, stanno l’uno di fronte all’altro, come un giorno lontano presso il Giordano, e anche poche settimane prima.., nel cortile del Sommo Sacerdote; a Pietro s’arresta il respiro; l’ora sua più grave è giunta; non dubita certamente del perdono del Signore, che forma tutta la sua consolazione, perché fin dal mattino di Pasqua Egli affidò alle donne, che stavano presso il sepolcro, un messaggio particolare per Pietro; si era anzi degnato di apparire a lui solo e per primo, come sappiamo dall’esplicita informazione della Scrittura: tanto è buono il Signore ed eterna la sua misericordia! Un caduto però non è più fatto per essere la « roccia »; adesso il Signore gli toglierà il potere promesso e lo donerà a un altro, forse a Giovanni, che in mezzo alla bufera aveva perseverato e aveva seguito il Maestro sino sul Calvario, ai piedi della croce. In quel momento « Gesù disse a Pietro: “Simone, figlio di Giovanni…, Mi ami tu più di costoro?”». Il Signore l’interroga sull’amore…? Gli occhi di Pietro rilucono sbalorditi, come raggi di sole attraverso fosche nubi: « Signore, Tu sai ch’io Ti amo! »; poi abbassa lo sguardo e la voce; perchè, come potrebbe lui e proprio lui arrischiare l’affermazione di voler bene al Signore « più » che non Gliene vogliano « gli altri »? E Gesù gli risponde tranquillo: « Pasci i miei agnelli! ». Pietro allora solleva lo sguardo, stordito e lieto insieme: il caduto pascerà il gregge di Cristo nonostante tutto…? Ma il Signore « lo interroga per la seconda volta: “Simone, figlio di Giovanni, Mi ami tu?”». Pietro si oscura, perché pensa che il Signore ne dubiti, e aveva ben motivo di dubitare di lui tanto miserabile. La seconda professione d’amore risuona nutrita, quasi forte, come volesse coprire l’infelice giuramento e la stolida imprecazione nel cortile del Sommo Sacerdote: «Sì, o Signore, Tu sai ch’io Ti amo». « Gesù disse a lui: “Pasci le mie pecore!”». – Il Signore, tutto benignità e grazia, sa biasimare e sollevare insieme; Pietro respira liberamente e riconoscente. Ma « Egli lo interrogò per la terza volta: “Simone, figlio di Giovanni, Mi ami tu? ” ». Pietro non riesce più a trattenersi e, come nella notte dopo il peccato, lascia libero corso al pianto, si getta a terra e mendica, prega, confessa, assicura: « Signore, Tu sai tutto, Tu sai anche ch’io Ti amo! ». Sì, giacchè il Signore sa tutto, sa pure che colui, che Lo aveva rinnegato, nonostante tutto… Lo ama. E così disse: «Pasci le mie pecore ».

Significato.

La traduzione di questo testo del Vangelo adopera sempre lo stesso termine per esprimere « amare »; il testo greco invece ha due espressioni diverse, che non dicono esattamente lo stesso: « agapein » e « philein » (in lingua latina: « diligere » e «amare »). Il Signore interroga Pietro intorno all’« agapan », e « agapan » dice l’amore della venerazione, dell’alta stima, dell’azione moralmente libera. Alla domanda circa questo amore Pietro risponde costantemente con « philein »; «philein» (amare) dice l’amore del sentimento, dell’inclinazione, della soddisfazione; dopo il rinnegamento, egli non osa più promettere al Signore l’« agapein », l’amore magnanimo e forte sino al sacrificio. Alla fine, dopo la terza domanda, anche il Signore s’accontenta di « philein »: se Pietro pasce il gregge di Cristo, con la sua sollecitudinenprova che il suo « philein » è pure « agapein», non solo amore del sentimento, ma anche dell’azione. – Ora soltanto è evidente il senso più profondo del dialogo mirabile fra Gesù e Pietro al lago di Tiberiade. Quelle tre richieste e assicurazioni di amore furono qualche cosa di più che un semplice compenso, offerto in riparazione del precedente rinnegamento; esse ebbero lo scopo dì precisare per tutti i tempi quale dovesse essere l’indole dell’ufficio di Pietro: è la premura amorosa e l’amore premuroso per il gregge di Cristo. Pietro è posto a custodire e a soccorrere, non per dominare; egli dev’essere servo — « servus servorum Dei! » —, non dominatore! Il Signore non esclude dalla sua Chiesa il diritto, l’ordine, l’autorità, chè anzi Egli stesso ha parlato di « roccia », di « chiavi », di « legare e sciogliere »; ma nella Chiesa ogni diritto ha il suo fondamento e la sua limitazione nell’amore. Pietro è costituito qual roccia precisamente perché il gregge di Cristo abbia pascoli sicuri; gli sono concesse le chiavi proprio perché dischiuda il Cielo e chiuda l’inferno. Simone, figlio di Giovanni, Mi ami tu?… Se Mi ami, pasci il mio gregge…! Se l’ultimo significato della Chiesa di Cristo è una cura del gregge tutta soffusa di dilezione, allora si comprende pure perché il Signore affidò questo ufficio a un… caduto: nella sua dignità spaventosamente eccelsa, Pietro porta con sè delle salutari riserve, che gli derivano appunto dall’esperienza della sua debolezza; non entrerà fra il gregge di Cristo con una virtù altezzosa e incurante degli altri, ma come chi, sentendosi per primo affetto di infermità, è in grado di essere compassionevole con chi ignora ed erra. La sua debolezza lo difende pure dagli abusi della propria dignità; come all’Apostolo Paolo fu lasciato il pungolo della carne, perché la sublimità delle sue rivelazioni non l’avesse a sovraesaltare, così la triplice negazione fu per Pietro il suo pungolo perpetuo. Dobbiamo aggiungere l’ultima osservazione e la più profonda: solo Iddio può osare di fare d’un caduto la… roccia. – Qui rifulge la divina ironia, che in Pietro si compiace di eleggere sempre di nuovo la debolezza, affinché la potenza di Dio si manifesti nell’infermità dell’uomo e nessun eletto possa gloriarsi se non nel Signore.

PIETRO NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI.

Qualche libro delinea l’Apostolo, attenendosi soltanto al Vangelo, qualche altro attingendo solo agli Atti degli Apostoli; ma per avere una rappresentazione di Pietro adeguata e completa bisogna interrogare tutte e due le fonti, il Vangelo e anche gli Atti, non l’uno senza gli altri; il Vangelo infatti in molti punti, che interessano Pietro, è solo come un bocciolo e una profezia; sono gli Atti, che apportano e lo sviluppo e il compimento, come l’estate alla primavera. In essi si parla di Pietro diffusamente; la prima parte anzi, che consta dei primi undici capitoli, fu detta semplicemente: « Gli Atti di Pietro ». Dopo il rimpatrio del Signore, chi prende in mano il timone della giovane Chiesa è il buon Pietro, proprio lui, e non Giovanni, non Giacomo o un altro dei Dodici, no; chi la guida, colui che decide e che rappresenta la Chiesa anche nei rapporti con gli estranei è sempre Pietro; questo fatto risulta dagli Atti degli Apostoli con chiarezza meridiana. È Pietro che comanda l’elezione d’un Apostolo in sostituzione del Traditore e premette la condizione essenziale per l’elezione del candidato. Sotto l’influsso dello spirito Pietro nel giorno di Pentecoste tiene la prima predica apostolica dinanzi a tutta una folla. Pietro opera il primo miracolo della Chiesa apostolica con la guarigione dello storpio fin dalla nascita “. Pietro ne fa una relazione al Sinedrio e fa risplendere su quegli uomini della sera il segno del mattino: « Gesù Cristo di Nazareth! Egli è la pietra, che da voi costruttori fu rigettata, ma ora è divenuta la pietra d’angolo. In nessun altro v’è salvezza! » “. Pietro invoca sui due coniugi Anania e Safira, che hanno simulato, il castigo divino d’una morte improvvisa”. Inviato dalla chiesa madre di Gerusalemme, Pietro va con Giovanni in Samaria per visitarla e conferire la Cresima. Pietro lancia il primo anatema apostolico, che colpisce il mago Simone. Dopo la persecuzione di Saulo, Pietro fa il primo giro attraverso la Giudea, la Galilea e la Samaria. Pietro introduce nella Chiesa il primo pagano, il centurione Cornelio, con una decisione d’incalcolabile portata “. Ed è pure Pietro, che nel Concilio apostolico dichiara che la legge mosaica non ha valore per gli etnicocristiani: « Perchè volete tentare Iddio e imporre ai discepoli (venuti dal paganesimo) un giogo, che né i padri nostri né noi abbiamo potuto portare? No, noi crediamo di conseguire la salvezza, come anche loro, per mezzo della grazia del Signore Gesù Cristo ». – Pietro è presente in tutte le svolte importanti della Chiesa apostolica e… lega e scioglie, chiude e apre, e sta qual roccia, come il Signore gli ha predetto nel Vangelo. E Iddio stesso conferma quello, che Pietro lega e scioglie sulla terra; il miracolo seguiva Pietro così spesso, che «si portavano gli ammalati persino sulle strade e si adagiavano su letti e barelle, affinché mentre Pietro passava dinanzi, almeno la sua ombra toccasse l’uno o l’altro ed essi fossero guariti dalla loro infermità » “. Gli Atti degli Apostoli apocrifi colorano ulteriormente queste notizie storiche, che ci tramandò Luca, intorno al posto di direzione tenuto da Pietro: riferiscono in modo infantile ch’egli si adoperò per installare gli altri Apostoli nei loro uffici nelle varie provincie ecclesiastiche, assegnate a ciascuno. Così “Atti di Pietro” etiopici possono informarci che insediò Simone, figlio di Cleofa, a Gerusalemme; che con Bartolomeo partì per le « oasi» e con Andrea per la Grecia; che condusse Filippo in Africa, Giacomo e Tommaso nelle Indie; ammise nel campo della propria attività in Siria Giuda Taddeo e destinò Giovanni ad Efeso. Queste son leggende, che però suppongono il fatto storico dell’autorità dì Pietro sugli altri Apostoli. Ma negli Atti degli Apostoli, più che la stessa autorità, sorprende il modo dinesercitarla da parte di Pietro; qui si vede chiaramente che non solo viene adempiuto il mandato, ma anche la persona di Pietro è maturata; in nessun altro Apostolo è manifesto come in Pietro il miracolo della trasformazione di Pentecoste. Noi ci attendiamo che quest’uomo svelto, irriflessivo e debole, come lo conosciamo dal Vangelo, ci prepari qualche cosa d’angoscioso nell’esercizio del suo alto ufficio. E invece negli Atti degli Apostoli la sveltezza d’un tempo s’è mirabilmente cambiata in prudenza e la debolezza in fermezza; quel Pietro, che poche settimane prima, intimorito da una fantesca, aveva negato e giurato: « Non conosco quest’uomo », nella festa di Pentecoste proclama dinanzi a migliaia di ascoltatori « con voce elevata:.”Questo Gesù, che voi avete crocifisso, Iddio Lo ha fatto Signore e Messia” ». – Dinanzi al Sinedrio e sebbene gli si profilassero all’orizzonte il carcere, la tortura e la morte, egli fa la prudente e decisa dichiarazione: «Giudicate voi stessi se sia giusto dinanzi a Dio dare ascolto a voi piuttosto che a Dio! A noi è assolutamente impossibile tacere quello che abbiamo visto e udito ». E quando si vuole violentarlincon una nuova proibizione d’autorità, Pietro stende la lettera d’immunità per la coscienza cristiana di tutti i millenni con una parola divinamente semplice: «Bisogna obbedire piuttosto a Dio che agli uomini>. Ma è costui il Pietro del Vangelo?… Non ritirò mai nulla del suo ardito atteggiamento, neppure quando lo si «pose in custodia », quando si volle toglierlo di mezzo con la morte insieme a tutto il Collegio apostolico, nemmeno quando egli non attendeva che il mattino pernessere giustiziato da Erode. Anche nella direzione interna della Chiesa dimostrò la medesima fermezza, come provano le situazioni difficili e pericolose, create da Anania e Safira e Simone Mago. Pietro è divenuto veramente la roccia, sulla quale s’infrangono e le tempeste dal di fuori e quelle dall’interno; nel Vangelo dinanzi al vento e ai flutti egli sprofonda, negli Atti invece dimostra ch’è sincera la sua affermazione solenne: « O Signore, io son pronto ad andare con Te in carcere e alla morte! ».

PIETRO E PAOLO.

Si direbbe che Pietro, nella sua pieghevole debolezza, sia giunto una volta ancora al rinnegamento, e precisamente in quella penosa avventura, ch’è nota sotto il nome di « conflitto di Antiochia ». Esso ha una lunga e dolorosa preistoria ed è profondamente significativo che Pietro abbia dovuto, per questo increscioso incidente, soffrire la passione del Papa a pro della giovane Chiesa, che doveva divenire e crescere in Chiesa del mondo. Era in questione il posto degli etnicocristiani nella Chiesa. Pietro aveva presa la decisione di principio, quando aveva fatto battezzare il primo pagano, il centurione Cornelio: anche i gentili, e non solo il « popolo eletto », dovevano aver parte nel regno di Cristo; « “Iddio mi ha fatto vedere (nella visione degli animali mondi e immondi) che nessun uomo si può dire profano e immondo… Si può rifiutare l’acqua del Battesimo a coloro, che al pari di noi hanno ricevuto lo Spirito Santo? “. Così li fece battezzare nel Nome di Gesù Cristo >. Ma già questa decisione gli aveva fruttato la critica e i rimproveri dei fratelli di fede giudei; Pietro però rimase fermo nella risoluzione presa, e fa impressione tanto gradita l’arte, con la quale in questa circostanza seppe congiungere autorità, prudenza e riguardo. Nella riunione dei fratelli non s’impose con parole irate — «sic volo, sic iubeo; stet pro ratione voluntas! » —, ma « espose loro con esattezza » quant’era avvenuto e concluse, quasi scusandosi: «”Se Iddio ha concesso loro (ai gentili) lo stesso dono che a noi, i quali abbiam accolto la fede nel Signore Gesù Cristo, come avrei potuto io impedire l’opera di Dio?”. Quand’essi ebbero udito, si tranquillizzarono; lodarono Iddio e dissero: “Iddio dunque ha accordato anche ai gentili la penitenza perché abbiano vita” ». La controversia per gli etnicocristiani entrò in un secondo stadio, quando i medesimi circoli giudeocristiani, che avevan il cuore tanto angusto, vollero obbligare i primi alla Legge e alla circoncisione: « Se non vi fate circoncidere secondo il costume mosaico, non potete salvarvi ». A questo s’opponevano con tutta la loro forza apostolica Paolo e Barnaba. La contesa venne a una conclusione nel così detto Concilio apostolico, tenuto a Gerusalemme nell’anno: gli animi erano eccitati; l’esposizione fu lunga e stizzosa; la questione veramente era molto grave per le sue conseguenze. Anche in quel consesso fu di nuovo Pietro, che con una chiarificazione tanto giudiziosa e discreta da fare stupire — non più con la spada! — portò sentenza favorevole agli etnicocristiani: «Iddio non ha fatto nessuna distinzione fra noi e loro (gli etnicocristiani), perché per mezzo della fede ha purificato i loro cuori. Perché volete voi adesso tentare Iddio e porre sulle spalle dei discepoli un giogo, che né i nostri padri né noi abbiam potuto portare? ». – Quel Concilio tuttavia ebbe una deficienza e uno strascico; ce ne informa la lettera ai Galati. In esso non s’era dichiarato nulla circa la posizione dei giudeocristiani rispetto alla legge dell’Antica Alleanza, forse perché in realtà non s’era presentato neppure il motivo; e i giudeocristiani perseveravano fedeli alla Legge, tanto più anzi vi aderivano quanto più facilmente, secondo la loro opinione, gli etnicocristiani la trascuravano. È evidente che questa situazione doveva condurre i giudeocristiani e gli etnicocristiani, che vivevano in comune, a difficoltà e urti nei quali venne ad essere coinvolto anche Pietro. Egli infatti, dopo la riunione degli Apostoli a Gerusalemme, si portò ad Antiochia ed ivi frequentava apertamente la mensa comune con gli etnicocristiani; ma quando « furono giunti alcuni da partendi Giacomo (giudeocristiani), dopo il loro arrivo si ritirò e si separò per timore dei circoncisi ». Debolezza di Pietro? solo debolezza? Possiamo osare una parola in favore di Pietro! Il buon Apostolo si trovava in una situazione spinosa, fra giudeocristiani ed etnicocristiani; se continuava a mangiare con gli etnicocristiani, si alienava i giudeocristiani; se invece si fosse seduto a mensa con questi, avrebbe urtati quelli; quando s’era trattato dell’essenziale, aveva deciso, e già due volte, a favore degli etnicocristiani; ma questa terza volta, in una questione di vita pratica, che sembrava secondaria, non gli si potrà perdonare, umanamente parlando, se fa una concessione ai giudeocristiani? In questa circostanza Paolo vide certo più a fondo e più lontano. Pietro, che dapprima s’era seduto accanto agli etnicocristiani così decisamente e pubblicamente, non poteva più tardi separarsi da loro; chè altrimenti essi sarebbero passati come Cristiani di second’ordine, oppure, per poter continuare la loro comunione con Pietro, avrebbero dovuto cambiare e passare al modo di vivere giudaico, nonostante la libertà dalla legge giudaica loro assicurata; ora questo sarebbe stato un compromettere moralmente la missione fra i gentili, sarebbe anzi stato un tradimento, se si consideri la natura stessa del Cristianesimo, che non consiste nelle opere dellabLegge, ma nella redenzione per mezzo di Gesù Cristo. L’esempio di Pietro aveva già provocata una scissione fatale nella comunità cristiana di Antiochia, perché con lui s’erano separati dagli etnicocristiani anche gli altri giudeocristiani, persino anzi l’alApostolo dei gentili Barnaba. Paolo nella lettera ai Galati scrive eccitato: « Quando m’avvidi che non camminavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa dinanzi a tutti: “Se tu, giudeo come sei, vivi al modo dei gentili e non dei giudei, come puoi dunque costringere i gentili a vivere giudaicamente? “. Gli resistetti apertamente perchè era nell’errore >. Qualcuno ha provato a far scomparire il lato duro e aspro di questo screzio; ma che male può far mai sapere che anche Pietro e Paolo erano uomini?! In realtà Paolo aveva ragione; nella condotta di Pietro v’era il pericolo che il Cristianesimo fosse ricondotto al giudaismo e restasse precluso ai pagani; su questo punto Paolo non potè transigere, dovette scongiurare il grave pericolo. Qualcuno potrebbe osservare ch’era possibile forse comporre la lite in forma più conciliante, e fortiter in re et suaviter in modo », ma Paolo era « fortiter », tipo collerico, ardente, energico e nell’idea e nel modo di procedere. Nel fuoco però di questa prova Pietro documentò l’oro del suo carattere: accolse con umiltà la dura riprensione che Paolo gli rivolse in pubblico; non si trincerò dietro la sua autorità per sostenere con ostinatezza e prepotenza il suo errore. Dal testo della lettera ai Galati appare manifesto che Paolo riportò una incontrastata vittoria; Pietro tuttavia non gli serbò rancore alcuno, nella sua seconda lettera anzi lo chiama con cuore affettuoso: « Il nostro diletto fratellonPaolo >: è quasi l’ultima parola, che conosciamo di Pietro. Quanto si è affinato dal Vangelo a questo momento! Di quello ch’era allora gli è rimasta solo la semplicità, ch’è anche il più bell’ornamento della sua autorità, esercitata così umilmente che seppe accettare non solo le critiche, ma anche i rimproveri, non temette anzi neppure di recedere da una via sbagliata: l’umiltà di Pietro non è certamente meno degna di ammirazione della franchezza di Paolo. Ma nemmeno Paolo andò per la sua strada, inorgoglito per la sua vittoria, restò invece in comunione con Pietro. Non è inutile rilevarlo; perchè l’incidente di Antiochia ha porto il destro a troppe congetture e affermazioni: si volle farne un argomento contro il primato di Pietro; si vide in esso la manifestazione di due tendenze opposte nella Chiesa primitiva, del così detto « Petrinismo » cioè e del « Paolinismo »; si giunse anzi a dire che la lotta sostenuta da Pietro in Samaria col mago Simone e più tardi a Roma non è che un palliativo per nascondere quella fra lui e Paolo. Queste e simili concezioni sono confutate dalla stessa Scrittura: quella medesima lettera ai Galati, nella quale leggiamo del conflitto fra Pietro e Paolo ad Antiochia, attesta pure il riconoscimento da parte di Paolo dell’autorità di Pietro; Paolo infatti riferisce in essa di essere asceso a Gerusalemme per vedere Cefas, presso il quale si trattenne quindici giorni; annovera Pietro fra gli « uomini guida », dai quali ottenne la fraterna conferma della sua missione fra i gentili. Del resto lo stesso episodio antiocheno, più che del contrario, è una prova del posto eminente di Pietro nella Chiesa primitiva: appunto perché Paolo conosceva e riconosceva l’importanza di Pietro, pretese da lui una condotta rettilinea in modo così inflessibile e forte; egli non si oppose all’autorità di Pietro, ma esclusivamente al modo di condursi, che poteva essere pericoloso; non voleva la scissione, ma l’unità e la comunione anche degli etnicocristiani con quell’uomo roccia, sul quale il Signore aveva edificato la sua Chiesa. Nessuno dunque nella Chiesa si è opposto più decisamente a « Petrinismo » e « Paolinismo » di… Paolo stesso. Quando seppe che nella comunità cristiana di Corinto s’erano formati dei partiti — « Io tengo per Paolo; io per Apollo; io per Cefas; io per Cristo > egli scrisse loro scongiurandoli: «Nel Nome di nostro Signore Gesù Cristo io vi esorto, o fratelli: siate tutti un’unica cosa! Non permettete che fra voi alligni scissione alcuna! Siate d’un solo sentire, d’una sola idea! Cristo è forse diviso? forse che Paolo è stato crocifisso per voi? o siete stati voi battezzati nel nome di Paolo? » – Questa comunione fra Pietro e Paolo ha sempre avuto, dai primi secoli sino ai nostri giorni, una marcata espressione nell’arte e anche nella Liturgia; in una sua predica il Grisostomo chiama senz’altro i due: « La coppia apostolica ». E come una coppia di fratelli unanimi compaiono già in raffigurazioni antichissime; sino dalla fine del terzo secolo essi occupano un posto di preminenza su tutti gli altri Apostoli, alla destra del Signore. La loro festa viene celebrata dalla Liturgia in comune, nel giorno della loro morte, il 29 giugno; che se oggi è, per così dire, divisa e la commemorazione solenne di San Paolo ha luogo solo il giorno 30, questo si deve al fatto che a Roma la grande distanza fra le due chiese, dedicate ai Principi degli Apostoli, avrebbe resa troppo laboriosa la celebrazione delle sacre. funzioni in tutte e due nel medesimo giorno. Inoltre ogni volta che nel calendario liturgico è ricordato Pietro, viene ricordato anche Paolo, e viceversa. Può essere che, a questo riguardo, l’arte e la Liturgia abbiano subito l’influsso della leggenda, specialmente di quella contenuta negli Atti di Pietro e Paolo, comparsi fra il 170 e il 250; secondo questa fonte, i due Apostoli avrebbero svolto un’attività in comune e sincrona a Roma, insieme avrebbero sofferto nel medesimo carcere e avrebbero incontrato lo stesso genere di morte per martirio nel medesimo giorno. – Non è difficile scorgere in tutto questo un parto di fantasia poetica; la quale però non avrebbe potuto fingere e divulgare una così stretta comunanza fra Pietro e Paolo, se i due Apostoli secondo la verità storica fossero stati l’un l’altro contrari. Dedicando la prima parte degli Atti degli Apostoli a Pietro e la seconda a Paolo, Luca stesso li unisce fraternamente fra di loro; gli Atti sono il primo e il più bel quadro di Pietro e di Paolo. Pietro-Paolo! Nonostante il giorno di Antiochia, essi non furono avversari, non rivali, non competitori; furono invece due raggi, che s’incontrano nel medesimo Sole divino; due voci, che riecheggiarono della stessa divina parola; nell’unico Signore Gesù Cristo furono un’unica cosa. A Lui, al Tutto e Unico sia gloria e onore!

L’ATTIVITÀ APOSTOLICA DI PIETRO

Dall’ascensione del Signore fino agli anni 42, 43, Pietro lavorò, come gli altri Apostoli, in Palestina. Di questo tempo gli Atti riferiscono viaggi suoi attraverso la Giudea, la Galilea e la Samaria a scopo di visita”. Un passo della lettera ai Galati potrebbe far pensare che Pietro e Paolo si fossero spartiti il mondo frandi loro, in modo che il primo dovesse annunziare il Vangelo ai Giudei e il secondo ai Gentili: « Gli uomini guida riconobbero ch’io sono incaricato del Vangelo per gli incirconcisi, come Pietro lo è per i circoncisi»; ma in realtà non si tratta qui d’un campo d’apostolato riservato all’uno con l’esclusione dell’altro, bensì del campo coltivato di preferenza dall’uno e dall’altro; Pietro di fatto fu missionario non solo fra i Giudei, ma anche fra i pagani, una delle sue prediche anzi la tenne nella casa del pagano Cornelio; e d’altra parte Paolo non si rivolse solo ai gentili, ma anche ai Giudei e proprio nelle loro sinagoghe cercò la piattaforma, donde poter predicare ai gentili. La persecuzione di Erode Agrippa fu come il segnale dato da Dio per indicare agli Apostoli ch’era giunto il momento di lasciare l’angolo della Palestina e di disperdersi nel mondo. Luca riferisce negli Atti che, dopo l’uccisione di Giacomo, anche Pietro stava in carcere e fu preservato dalla stessa sorte da un Angelo, che lo trasse fuori, conducendolo per mano ancor sonnacchioso e incespicante, e insieme passarono dinanzi ai soldati di guardia e uscirono quindi dalla porta, che si aprì da sola, mentre l’Apostolo andava pensando che si trattasse non di cosa reale ma solo di un sogno, finché non si trovò all’aperto completamente libero; aggiunge Luca che allora Pietro si diresse alla casa di Marco in Gerusalemme, ove l’esigua comunità dei credenti stava in angosciosa preghiera per Lui, e le comunicò solo la notizia della sua liberazione: « Riferite questo a Giacomo (Minore) e agli altri fratelli>. Luca continua a informare, ma in modo così indeterminato, che sembra volesse conservare anche quando scriveva l’incognito di Pietro: « Pietro allora si mise in cammino e si recò in un altro luogo ». Circa quest’« altro luogo» sono state fatte molte congetture; secondo una antica tradizione, che non è però del tutto sicura, Pietro si sarebbe portato fin da allora, e cioè nei primi anni dell’imperatore Claudio (41-54), a Roma “; e questa supposizione sembra avere una conferma dalla stessa Sacra Scrittura, in quanto la lettera dell’Apostolo Paolo ai Romani, scritta verso l’anno 58, fa pensare a una comunità cristiana di Roma fiorente, tanto che Paolo anzi deve scusarsi di cullare l’intenzione di portarsi anche a Roma ; tutto questo si comprende bene se Pietro era già pastore della comunità romana. Verso l’anno, con decreto imperiale, i Giudei furono espulsi da Roma; il nuovo soggiorno di Pietro a Gerusalemme negli anni 49-50, attestato dagli Atti degli Apostoli, in occasione del Concilio apostolico, potrebbe spiegarsi con quell’espulsione. Dopo il Concilio apostolico, Pietro si portò ad Antiochia di Siria, dove Paolo si scontrò con lui nell’incidente visto più sopra. Lo scrittore di storia ecclesiasticanEusebio ritiene che Pietro sia il fondatore della comunità cristiana di Antiochia, Girolamo lo dice il primo Vescovo “; Gregorio aggiunge che Pietro lavorò per sette anni ad Antiochia; la Liturgia infine il 22 febbraio celebra la festa della Cattedra di San Pietro ad Antiochia. Probabilmente l’opinione d’un ministero episcopale di Pietro in questa città ebbe per unico motivo il conflitto con Paolo; S. Ignazio Martire, morto verso l’anno 100 non ricorda mai qual primo Vescovo di Antiochia Pietro, ma Evodio, mentre lo stesso Ignazio ne era il secondo; può essere tuttavia che l’Apostolo abbia ivi faticato per un tempo abbastanza lungo. Partendo da Antiochia, egli percorse probabilmente le provincie del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia, tutte regioni dell’odierna Turchia; ai fedeli di queste comunità egli più tardi indirizzò due lettere, sebbene in esse sia appena possibile accertare degli indizi di rapporti personali dell’Apostolo con quei fedeli; le leggende però, che riferiscono d’un’attività apostolica di Pietro e di suo fratello Andrea in queste regioni, sulle coste in parte del Mar Nero, sono antichissime e vengono confermate già da Origene (185-254); una tradizione locale di Sinope nel Ponto riferisce che i due fratelli apostoli esercitarono a lungo la loro attività in quella città e ivi stesso poi si separarono per avviarsi Pietro verso l’Occidente e Andrea verso l’Oriente. È certo che Pietro, circa questo tempo, visitò anche Corinto; poiché l’esistenza d’un partito di Pietro nella comunità cristiana si spiega facilmente, se l’Apostolo soggiornò nella città”; ma a una sua attività apostolica in essa rimandano già Clemente Romano e anche più esplicitamente il Vescovo Dionigi di Corinto, nella lettera che diresse alla comunità cristiana di Roma fra gli anni 170-175 : « Tutti e due (Pietro e Paolo), quali fondatori della nostra comunità, hanno istruito anche la nostra Corinto. Similmente essi hanno istruito insieme l’Italia e sono morti nello stesso tempo come martiri >.

PIETRO A ROMA.

Il soggiorno e l’attività di Pietro a Roma, per l’importanza tutta particolare che rivestono, meritano d’essere provati. La tradizione sia della Chiesa orientale che della occidentale è unanime. Una prima testimonianza di quella orientale l’abbiamo nella lettera del Vescovo Dionigi, riportata più sopra; ma già alcuni decenni prima di lui, il Pontefice Clemente, nella lettera inviata alla comunità cristiana di Corinto per richiamarla alla fraterna concordia, scriveva dell’animo generoso sino al sacrificio « dei buoni Apostoli Pietro e Paolo, che furono fra di noi (a Roma) splendido esempio nelle torture e nei supplizi > “. Il santo Vescovo e martire Ignazio (98-110), nella sua lettera ai Romani, parla dei due Principi degli Apostoli come di due maestri autorevoli della chiesa romana: « Io non vi dò comandi come Pietro e Paolo>”. Più diffuso è Sant’Ireneo, vescovo di Lione (177), nella sua testimonianza, secondo la quale Pietro e Paolo predicarono a Roma e vi fondarono la comunità cristiana “. A queste chiare deposizioni degli antichi Padri possiamo aggiungere la muta testimonianza degli antichi monumenti cristiani. Sui sarcofaghi, che Roma con serva del terzo, quarto e quinto secolo, è un ripetersi continuo di scene, che riguardano Pietro; donde pure si può concludere che nessun’altra città dell’Oriente o dell’Occidente abbia conservato con altrettanta varietà e vivacità il ricordo di lui. La prova però più eloquente della sua attività e della sua morte in Roma è la sua tomba. Già verso l’anno 200 il prete romano Gaio redarguiva un maestro d’errore affermando che poteva fargli vedere “il trofeo” dei sepolcri apostolici di Pietro sul Vaticano e di Paolo sulla Via Ostiense. Nelle catacombe di SanSebastiano, sulla Via Appia, nel 1915 fu ritrovato un sepolcro di Pietro; condussero alla scoperta di questo venerando monumento dei «graffiti », specie di scarabocchi tanto sgraziati, con i quali i Cristiani si raccomandano all’intercessione anche di Pietro e di Paolo; secondo la testimonianza del Calendario romano e del Martirologio Geronimiano, i santi corpi dalla loro originaria sepoltura sul Vaticano e sulla Via Ostiense furono ivi trasportati verso l’anno 258, al tempo della persecuzione di Valeriano, e all’epoca dell’imperatore Costantino furono di nuovo restituiti ai loro primi sepolcri, e sopra i venerabili resti mortali dei due Apostoli, Costantino fece costruire rispettivamente la basilica di San Pietro e quella di San Paolo. Gli scavi praticati negli anni 1941-42 sotto l’attuale basilica Vaticana misero in luce una vasta necropoli pagana e confermarono un’antica tradizione di Roma, secondo la quale Pietro era stato sepolto sul Colle Vaticano, in un cimitero pagano. La continuazione di questi recentissimi scavi portò alla scoperta anche delle linee fondamentali dell’antica basilica di Costantino; apparvero pure sempre più evidenti le difficoltà, che l’imperatore dovette superare per quella costruzione, difficoltà d’ordine tecnico, perchè il suolo del Vaticano era ineguale, e difficoltà d’ordine psicologico, in quanto per lo spianamento del colle fu necessario sacrificare la zona cimiteriale, che godeva di tutta la venerazione del popolo romano; tutto questo è una prova evidente che la tomba di Pietro si trovava esattamente sotto la basilica costantiniana, chè altrimenti l’imperatore, nella scelta dell’area fabbricabile, avrebbe avuto riguardo e all’ineguaglianza del suolo e al carattere sacro di esso. Nel giro dell’antica « Confessione », il sepolcro vero e proprio, fu rinvenuta una quantità di monete provenienti da ogni parte del mondo allora conosciuto; nella sua parte centrale invece fu scoperto un sepolcro semplice, sormontato da tre altari di epoche diverse, sovrapposti l’uno all’altro, verso del quale, come lo provano numerosi graffiti, i fedeli pellegrini avevano dimostrata la loro venerazione già molto prima di Costantino. Questo muto, eppur eloquente linguaggio delle pietre parla apertamente del soggiorno e della morte di Pietro a Roma lungo tutti i millenni. – Pietro stesso però è un degno testimonio del suo soggiorno romano, perchè termina la sua prima lettera con le parole: « Vi saluta la comunità, eletta con voi, in Babilonia e Marco, figlio mio » . Già gli antichi Padri, quali Papia, Clemente d’Alessandria, Girolamo, videro in questa « Babilonia » Roma, espressa dall’Apostolo con nome simbolico; e giustamente, poiché non può trattarsi dell’antica Babilonia dell’Asia Anteriore, sita sulle rive dell’Eufrate, che al tempo di S. Pietro era distrutta, come neppure della città dello stesso nome in Egitto, del tutto insignificante: non consta di un’attività dell’Apostolo in nessuna delle due città; al contrario in quel torno di tempo Roma fu chiamata spesso « Babilonia », come anche da Giovanni in parecchi passi della sua Apocalisse; inoltre il soggiorno di Marco a Roma è assicurato da altre testimonianze “. La comunità eletta di Babilonia! Queste parole suonano sorpresa, raccapriccio, terrore; per intenderle si legga quella concisa e drastica descrizione, che fa San Paolo nel primo capitolo della sua lettera ai Romani, della corruzione religiosa e morale della Roma del tempo e ch’egli termina coll’oscuro giudizio: « Essi son ripieni d’ogni ingiustizia, malignità, avidità, malizia, son pieni di invidia, omicidio,ncontesa, frode e inganno. Sono susurroni maledici, prepotenti odiati da Dio, millantatori tracotanti, inventori nel male, disobbedienti ai genitori, insensati, sleali, senza affetto, senza compassione». – Pietro venne a Roma una prima volta, probabilmente, al tempo dell’imperatore Claudio (41-54) e la seconda volta al tempo di Nerone (54-68). Claudio, un bizzarro dalle idee anguste e stravaganti, tollerò il governo d’una Messalina, la cui spudoratezza era proverbiale, e d’una Agrippina, che finì per assassinare per criminale ambizione lo stesso imperatore al fine di porre sul trono Nerone, suo figlio del primo matrimonio. Nerone…! È un nome, ch’è divenuto il simbolo d’un empio potente. Un po’ alla volta le sue buone disposizioni affogarono nella ipocrisia, nella sensualità e sete di sangue. Avvelenò suo fratello adottivo, il nobile Britannico; con vile e ipocrita assassinio si sbarazzò della sua stessa madre, che l’aveva portato al trono, solo perchè gli era divenuta molesta; assassinò la sua sposa Ottavia e con un calcio brutale uccise pure la sua seconda sposa, Poppea Sabina, che gli era stata istigatrice di tanti delitti. Quanto poco calcolo faceva ormai dell’assassinio di comuni mortali! Non è del tutto certo se ricada su di lui la colpa dello spaventoso e catastrofico incendio di Roma nel 64; fu lui tuttavia che allontanò da se stesso il sospetto, facendola ricadere sulla comunità cristiana di Roma; durante una festa notturna negli orti, le vittime innocenti dovettero risplendere come fiaccole viventi dinanzi all’imperiale delinquente! Babilonia…! Povero pescatore di Bethsaida, che cosa speri di ottenere con la Croce e col Vangelo in simile Babilonia? Il messaggio di Gesù Cristo, che tu porti, il Crocifisso qui, in mezzo alla concupiscenza degli occhi, alla concupiscenza della carne e alla superbia d’un regno degenerato e potente, non si dileguerà inascoltato e non sprofonderà con minori speranze di quando tu un giorno stavi sprofondando nelle onde del lago della tua terra? E invece Pietro stesso scrive già d’una « comunità eletta in Babilonia »: un fiore nella palude, un mattino irrompente nel tramenio della notte. L’antica Roma giace oggi in frantumi e non pochi dei suoi domatori son passati alla storia esecrati; sulla tomba invece del Pescatore s’inarca giuliva e illesa la cupola, e nella vasta piazza di San Pietro si eleva ardito l’obelisco, che neppure le stragi dell’ultima guerra hanno abbattuto: « Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat! ». Che se anche questo monumento con la sua trionfale iscrizione e la stessa cupola di San Pietro un giorno precipitassero, mai s’infrangerà la Roccia, sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa, poiché lungo tutti i millenni Cristo vincerà, Cristo regnerà, Cristo dominerà! O Roma santa, o Roma eterna! Roma di Pietro, Roma di Paolo, Roma dei Martiri! Patria della nostra fede, presagio dell’eternità! Noi baciamo il tuo santo suolo, che s’è imbevuto delle lacrime e del sangue dei tuoi Apostoli e dei tuoi Martiri. Recitiamo commossi e riconoscenti il Credo, che, come dalla sorgente, Pietro e Paolo hanno attinto dalle labbra del Signore e dall’Oriente hanno portato a noi nelle regioni dell’Occidente, nelle regioni della sera. Pietro e Paolo, conservate il Credo alle regioni della sera!

LA PREDICAZIONE DI PIETRO

Il messaggio dottrinale di Pietro ancor palpitante di vita è contenuto direttamente nei suoi otto discorsi, che ci hanno trasmesso gli Atti degli Apostoli, e nelle sue due lettere. I « discorsi » sono certamente soltanto dei sunti, dei brevi schizzi preparati da Luca; e però essi rendono con fedeltà i pensieri di Pietro e persino anzi il suo stile e temperamento. Sono veramente dei documenti venerandi, le parole più antiche degli Apostoli giunte sino a noi, più antiche d’un decennio o due delle stesse lettere di Paolo, ch’è il primo allegro ruscello di primavera. Se li confrontiamo con le lettere di Paolo o con gli scritti di Giovanni, ci appaiono certo più semplici, non però poveri; possiamo affermare che in essi è già contenuto tutto il patrimonio dottrinale del Nuovo Testamento. Essi sono: il discorso tenuto prima dell’elezione di Mattia; la predica di Pentecoste; il discorso dinanzi al popolo dopo la guarigione dello storpio dalla nascita; i due discorsi dinanzi al Sinedrio; la predica in casa di Cornelio; l’allocuzione ai fratelli e il discorso nel Concilio apostolico. Più importanti sono quelli tenuti nella Pentecoste, nell’atrio del Tempio dopo la guarigione dello storpio e in casa di Cornelio; ma è da lamentare che tutti in generale siano troppo poco presi in considerazione e troppo poco utilizzati. – Una nota, che balza subito agli occhi percorrendoli, è lo stretto rapporto che stabiliscono col Vecchio Testamento; per provare la Nuova Alleanza Pietro rimanda senza stancarsi a quella Antica; i suoi discorsi quindi abbondano di citazioni dal Vecchio Testamento. Egli vede l’adempimento d’una profezia della Scrittura nell’elezione di Mattia in sostituzione del traditore; la predica di Pentecoste si fonda sopra una predizione del profeta Gioele e su quella d’un Salmo di David; anche il discorso al popolo sfocia nella dichiarazione: «Iddio con questo ha adempiuto la profezia ch’Egli fece preannunziare per bocca di tutti i Profeti ». Le condizioni spirituali, nelle quali venne a trovarsi Pietro per i suoi discorsi, sono le stesse nelle quali si trovò Matteo a riguardo del suo Vangelo: tutti e due devono giustificare dinanzi ai Giudei le pretese di Gesù Cristo, arguendo efficacemente dalle Scritture dell’Antico Testamento. Potrà dirsi insignificante questo Testamento? A simile concezione si oppone decisamente lo stesso primo Papa: nel Vecchio Testamento si nasconde il Nuovo, nel Nuovo Testamento si compie il Vecchio. In tutte le prediche di Pietro il centro che tutto illumina è Gesù Cristo; a Lui corrono tutti i suoi pensieri, da Lui egli deriva tutte le conclusioni; il Signore è talmente il tema della sua predicazione, che, quand’anche si perdessero le lettere di Paolo e gli stessi Vangeli, potremmo ricostruire la vita storica di Gesù e formarci un’idea giusta della sua importanza dai semplici discorsi di Pietro. Abbiamo l’impressione di sentire un compendio del Vangelo, ascoltando l’esposizione fatta dinanzi a Cornelio « Iddio inviò ai figli d’Israele la parola e annunziò il lieto messaggio della pace per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti. Voi sapete quello che, dopo il battesimo che predicò Giovanni, ebbe inizio in Galilea e avvenne in tutta la Giudea, come Iddio unse Gesù di Nazareth con lo Spirito Santo e la potenza, come Egli andò elargendo benefici e guarì tutti gli oppressi dal demonio, perché Iddio era con Lui. Noi siamo testimoni di tutto quello, ch’Egli ha fatto in Giudea e a Gerusalemme. Lo hanno sì conficcato in croce e ucciso; Iddio però Lo ha risuscitato il terzo giorno e fatto apparire, non però a tutto il popolo, ma solo ai testi da Dio prestabiliti, a noi, che dopo la risurrezione da morte abbiamo mangiato e bevuto con Lui. Egli ha ordinato a noi di predicare al popolo e di testimoniare che Iddio Lo ha stabilito quale giudice dei vivi e dei morti. A Lui rendono testimonianza tutti i Profeti che nel suo Nome ottiene la remissione dei peccati chiunque credacin Lui ». Anche nella predicazione di Pietro, come in quella di Paolo, il nocciolo dell’insegnamento intorno a Gesù Cristo è la sua risurrezione; in tutti i discorsi, sia dinanzi al popolo che dinanzi al Sinedrio, Pietro torna a questa verità fondamentale del Cristianesimo; anche la predica di Pentecoste nella sua sostanza è una predica di Pasqua; e veramente, parlando specialmente a uditori giudei, il ricorso alla risurrezione del Signore non rispondeva solo a una necessità teologica, ma anche psicologica, chè bisognava sollevarli dall’urto e dallo scandalo della Croce. Noi troviamo Pietro sempre intento a provare che, nonostante la croce, Gesù è il Messia promesso dai Profeti; la divinità di Cristo, nella predicazione di Pietro, passa in seconda linea in confronto con l’ufficio di Messia, sebbene sia anch’essa attestata splendidamente da non poche e singolari espressioni: Gesù è « il Santo di Dio », « il Santo e il Giusto », « l’Autore della vita », « il Signore di tutti », « il Signore > semplicemente; « in nessun altro v’è salvezza », « Iddio Lo ha elevato alla sua destra a dominatore e salvatore» . Quello, che più tardi Paolo e Giovanni annunzieranno più esplicitamente e diffusamente di Cristo a una cristianità più matura, Pietro lo tocca già con vibrati accordi. – V’è pure un terzo pensiero dominante, che percorre tutta la predicazione di Pietro, ed è la redenzione. Con Gesù Cristo è spuntata la liberazione predetta dai Profeti. « Convertitevi, e ciascuno di voi si faccia battezzare nel Nome di Gesù Cristo, affinché riceviate la remissione delle vostre colpe e il dono dello Spirito Santo », ammonisce e incoraggia l’Apostolo nella predica di Pentecoste. Oh, il Credo cristiano! Come lieta e intensa luce del mattino, esso dardeggia già splendido fin dall’inizio!

LE DUE LETTERE DI PIETRO

Le lettere ne continuano la predicazione. La prima porta il seguente indirizzo: « Agli eletti pellegrini nella diaspora del Ponto, della Galazia, Cappadocia, Asia e Bitinia ». Le comunità etnicocristiane di queste regioni a nord e a nord-ovest dell’Asia Minore, che in parte erano state fondate da Paolo, versavano in penose condizioni; i pagani le dipingevano come operatrici del male, sebbene il loro « delitto » consistesse solamente nella loro vita, informata alla verità cristiana e diversa da quella pagana: « Per un tempo abbastanza lungo avete in passato sodisfatte le voglie dei pagani e siete vissuti in dissolutezze, piaceri, ubbriachezze, orgie, crapule e in nefanda idolatria; ora sembra loro strano certamente che voi non vi gettiate più con loro nella stessa mota di depravazione». Il mentito disprezzo, che i cattivi hanno sempre per i buoni, costituiva già per quei primi Cristiani il pericolo dell’interna stanchezza e del rilassamento, che potevano concludersi con l’apostasia. Le notizie allarmanti furono portate a Pietro da Silvano, che probabilmente a Roma voleva incontrarsi con Paolo, ch’era il padre di parecchie fra quelle comunità minacciate; ma poichè in quel momento Paolo non doveva essere a Roma — la nostra lettera é datata dall’anno 63-64 —, suggerì Pietro i pensieri per una enciclica alle comunità oppresse, valendosi dell’opera di Silvano: « Per mezzo di Silvano, ch’io ritengo come un fratello, vi ho scritto brevemente per esortarvi e persuadervi che questa è la vera grazia di Dio, nella quale voi state ». Leggendo la lettera, si ha l’impressione d’un’eco di quello che fu detto al lago di Tiberiade : « Pasci le mie pecore, pasci i miei agnelli ». Pietro, conscio d’essere il pastore di tutto il gregge del Signore, esorta i fedeli, più con l’amore che con la logica, ad aver pazienza e a perseverare. Come piace già il primo pensiero: la nobiltà dell’essere Cristiano! Forse mai sono state scritte parole più splendide circa la sua dignità: « Sapete che siete redenti dal vostro genere di vita frivolo, ereditato dai padri, non con beni caduchi, come l’oro e l’argento, ma per mezzo del Sangue prezioso di Cristo, dell’Agnello senza difetto e macchia… Voi siete un popolo eletto, un sacerdozio regale, una gente santa, una gente posseduta, affinché annunziate le azioni gloriose di Colui, che vi ha chiamati dalle tenebre alla ammirabile luce sua ». – Come secondo motivo della cristiana perseveranza, Pietro ricorda la forza del buon esempio: « Tenete una buona condotta fra i pagani, affinché nelle cose, per le quali sparlano di voi come di malfattori, riconoscano le vostre opere buone e lodino Iddio nel giorno della visita… Poiché questa è la volontà di Dio, che,.per mezzo della buona condotta, riduciate al silenzio l’ignoranza di uomini insensati ». Questa forza dell’esempio, allora come oggi sempre invincibile, deve disarmare l’odio contro le cose cristiane e reclutare a Cristo anche nell’ambiente familiare: « Voi, donne, dovete essere sottomesse ai vostri mariti! Quelli, che ancora non obbediscono alla parola, saranno guadagnati poi per mezzo della muta condotta delle mogli, se osserveranno la vostra condotta pura nel timore di Dio ». La forza però suprema per poter perseverare in mezzo alle vicende tristi della terra deriva d’al di là di questo mondo. Con quell’ardente desiderio, ch’era tutto proprio degli Apostoli e dei primi Cristiani, Pietro scrive della venuta del Signore, che metterà fine a tutti gli stenti e a tutte le tribolazioni e li trasfigurerà: « La fine di tutte le cose s’è avvicinata. Siate dunque prudenti e sobrii per poter pregare… Non vi sorprenda, o diletti, la fiamma ignita della sofferenza, ch’è su di voi per provarvi. Con questo non vi accade nulla di strano; rallegratevi piuttosto nella misura, con la quale partecipate ai dolori di Cristo; potrete poi rallegrarvi ed esultare anche nella manifestazione della sua gloria >. – Pietro è l’uomo dell’azione; consacra quindi tutta la sua lettera alla vita pratica; non si distingue in essa, come in parecchie delle lettere di Paolo, prima una parte teoretica e poi una parte pratica; nondimeno i suoi inviti alla vita cristiana son tutti voluti da un grande pensiero, ch’è Gesù Cristo; come un Vangelo in compendio risuona, ad esempio, il tratto seguente: « Cristo è morto per i peccati al fine di condurvi a Dio. Dopo che ebbe trangugiata la morte, affinchè noi divenissimo eredi dell’eterna vita, è asceso al Cielo e siede alla destra di Dio, dove Angeli, Potestà e Virtù Gli sono sottomessi >. – La prima lettera fu riconosciuta genuina da tutti fin da principio; la seconda invece raggiunse il riconoscimento universale solo dopo il quarto secolo. Essa si stacca assai dalla prima per contenuto e per forma, e tuttavia lo stesso esame interno depone per la sua autenticità: è redatta con tale schiettezza e lealtà, che la presentazione che fa di se stesso il mittente nell’iscrizione non può essere considerata come un puro inganno: « Simone Pietro, servo e Apostolo di Gesù Cristo, a coloro, che come noi hanno ricevuto la stessa fede preziosa per la giustizia del nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo”. Poichè Pietro scrive apertamente del suo presentimento d’una prossima fine, possiamo ritenere che la lettera risalga all’anno: <Ritengo per mio dovere, finché sono in questa tenda, di tenervi desti con ammonimenti. So che è imminente il levarsi della mia tenda, me lo ha rivelato nostro Signore Gesù Cristo”. Dopo la prima lettera — « Diletti, questa è già la seconda lettera, ch’io vi scrivo» —, le condizioni delle comunità cristiane delle regioni a nord e a nordovest dell’Asia Minore non erano migliorate, ma piuttosto cambiate, e questo cambiamento può anche spiegare facilmente la diversità fra le due lettere; ora i grandi pericoli minacciano i fedeli non dal di fuori, ma dall’interno: «Entrarono nel popolo falsi profeti, come anche fra voi entreranno falsi dottori, che introdurranno dottrine corruttrici. Rinnegano il Signore, che li ha riscattati… Cercheranno per cupidigia di sfruttarvi con parole ipocrite» 146. « La libertà evangelica », che annunziavano questi maestri d’errore, equivaleva alla negazione e allo scioglimento d’ogni vincolo legale. Contro questa pericolosa corrente, che guadagnava terreno nelle sue comunità giudeocristiane, aveva già presa posizione l’apostolo Giuda Taddeo con una sua lettera sferzante; evidentemente da questi pseudodottori erano minacciati e in parte ormai intaccati anche gli etnicocristiani dell’Asia Minore. La seconda lettera di Pietro ha delle evidenti analogie di pensiero con la lettera di Giuda Taddeo; si direbbe anzi che il nostro Apostolo, così clemente di per sé, abbia preso di quella lettera persino lo stile pungente: «Essi (quei maestri d’errore) sono uomini audaci e arroganti… Insultano nella loro ignoranza come animali senza ragione… Andranno in rovina per la loro propria corruzione… Sono sorgenti senz’acqua e nubi oscure agitate dal vento… Calza bene a costoro il proverbio: „ Il cane ritorna al suo proprio vomito”, e „La scrofa che s’è lavata si avvoltola di nuovo nel brago ” ». A questo contorcimento del Cristianesimo Pietro oppone il fatto storico della venuta finale di Gesù Cristo, che forma il tema proprio di questa lettera e deve irradiare della sua luce consolatrice nei pericoli delle comunità. L’Apostolo illumina e prova il futuro giudizio finale con esempi di giudizi di Dio, desunti dalla storia del Vecchio Testamento, e così affronta lo scherno degli increduli, che van dicendo: «Dov’è mai il suo promesso ritorno? Da quando i padri si sono addormentati, tutto persevera come al principio della creazione »… «Diletti, ma voi non dovete lasciarvi sfuggire che dinanzi al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno. Il Signore non tarda con la sua promessa, come dicono alcuni, ritenendo la cosa per un ritardo; piuttosto Egli è longanime verso di voi e non vuole che alcuno vada perduto, ma che tutti giungano a penitenza ». Pietro ha poi ancora un accenno misterioso alla fine del mondo, che si direbbe quasi una piccola Apocalisse: «Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora il cielo passerà con fragore; gli elementi si dissolveranno nel calore della vampa e la terra brucerà con tutto quello che v’è sopra… Ma noi, secondo la sua promessa, attendiamo un nuovo cielo e una nuova terra >. Queste vetuste parole del Pescatore di Galilea acquistano una risonanza stranamente vicina nell’età della bomba atomica… Quale sarà la conclusione di questa seconda lettera di Pietro? Non può essere altra che Gesù Cristo; il vecchio Apostolo, stanco e fedele, prende comiato dalla Scrittura e dalla vita con l’elogio a Lui: «Crescete nella grazia e nella conoscenza di nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo! A lui sia gloria adesso e nel giorno dell’eternità! Amen »

(*) Tutto quello, che si spaccia come « predicazione di Pietro », all’infuori dei discorsi contenuti negli Atti degli Apostoli e delle due lettere, è « apocrifo », non genuino dunque e non sicuro, sebbene una certa importanza e uno sfondo storico degli Atti apocrifi non si possano disconoscere. Il « Pétrou Kérygma a risale probabilmente ai primi decenni del secondo secolo; ebbe origine, sembra, in Egitto, in un ambiente cattolico; riferisce la predicazione apostolica di Pietro, che fornì delle direttive generali ai missionari, che lavoravano fra i gentili. L’opera oggi è quasi del tutto perita. — Fra gli anni 180-190 furono scritti in Siria-Palestina gli « Atti di Pietro », che si conservano ancora a frammenti in diverse versioni; quella latina (Actus Vercellenses) racconta le lotte sostenute da Pietro contro le arti magiche del mago Simone, che a Roma, in un tentativo di volare (ascensione al cielo) al di sopra della piazza principale del tempio, ebbe un infortunio mortale. La versione greca riferisce la leggenda « Domine, quo vadis » e la crocifissione di Pietro. Il « Martirio di Pietro scritto da Lino » è una leggenda tardiva, apparsa solo nel secolo sesto. Un’altra opera apocrifa da ricordare è la « Storia di Pietro e Paolo », composta forse nel secolo terzo per soppiantare le storie eretiche e far vedere la stretta unione fra i due Principi degli Apostoli; si leggono quindi in essa le descrizioni del viaggio di Paolo a Roma e del suo martirio insieme con Pietro. – Sotto il nome di Pietro si diffuse pure un « Vangelo di Pietro », non genuino, sorto forse in Siria già prima del 150, di cui ancora non conosciamo che un breve frammento, e inoltre un’« Apoailisse di Pietro », che in alcune chiese di Palestina godette di tanta celebrità, da essere letta pubblicamente il Venerdì Santo ancora per lungo tempo, sebbene da Eusebio e Girolamo fosse stata annoverata fra gli scritti spuri; vi si descrive la bellezza del Cielo e l’orrido dell’inferno, e richiama la Divina Commedia di Dante; la si fa risalire sino alla prima metà del secondo secolo.)

MORTE E SOPRAVVIVENZA DI PIETRO

Un dì, quando il Signore aveva interrogato Pietro tre volte sull’amore, s’erano adagiati sul lago di Tiberiade la primavera e l’avvenire. Sì, anche l’avvenire! Poichè il Signore aveva elevato il suo sguardo e una visione grave del futuro Gli si era offerta, mentre Pietro giovane e vigoroso Gli stava dinanzi ginocchioni: « In verità, in verità ti dico: “Quand’eri giovane, ti cingevi tu stesso e andavi dove volevi; ma quando sarai divenuto vecchio, stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vuoi “». Pietro, in preda all’improvviso sbigottimento per il minaccioso avvenire, che queste parole gli preannunciavano, «Si voltò e vide che lo seguiva il discepolo, che Gesù amava, che nella Cena aveva anche riposato sul petto suo e aveva chiesto: “O Signore, chi è che Ti tradisce?”. Quando Pietro lo vide, chiese a Gesù: “Signore, che sarà di costui? “». Nella domanda del giovane Pietro si sente la supplica; chè gli è difficile camminar da solo la sua via, una via poi che lui non vorrebbe, una via per la quale « altri » lo cingono, mentre una via difficile lo è meno se percorsa in due; la Scrittura stessa lo riconosce: « Due son meglio che uno; poiché, se uno cade, ilsuo compagno lo rialza nuovamente. Ma guai al solo! ». Se nella sua vita Pietro può accompagnarsi al suo amico Giovanni, è disposto ad andare volentieri anche là, dove non vorrebbe andare; Giovanni l’aiuterà a portare il peso e la dignità delle chiavi; qualora cadesse, Giovanni lo rialzerebbe di nuovo. E non sarebbe una grande benedizione anche per la stessa opera di Cristo, se Pietro e Giovanni potessero camminare insieme? Pietro rappresenta la potenza e la legge, Giovanni l’amore e lo spiiito. Che felice unione sarebbe quella dei due Apostoli!… Negli Atti in realtà vanno insieme per lungo tempo; donde è legittimo concludere che una forte amicizia li stringeva l’uno all’altro: « Pietro e Giovanni salirono al Tempio »; Pietro e Giovanni sopportano insieme la prima prigionia; Pietro e Giovanni sono insieme quando elargiscono lo Spirito Santo in Samaria:

unione nella preghiera, unione nella sofferenza, unione nel lavoro! Sarebbe stato

davvero bello se questa vita apostolica in comune sì fosse protratta! Venne invece

il momento, nel quale le vie dei due dovettero divergere e staccarsi; i disegni di

Dio devono avere la precedenza su ogni vincolo umano, per quanto esso sia caro.

In quel giorno ormai lontano, in cui Pietro aveva interpellato Gesù nei riguardi di

Giovanni, Egli gli oppose serio e quasi sdegnato: « S’Io voglio ch’egli resti sino al

mio ritorno, che importa a te? Tu seguimi!». Pietro deve seguire il Signore anche

senza Giovanni, anche su d’una via, ch’egli stesso non vorrebbe proprio. Su quella

scena così soffusa di mistero e di presagio l’Evangelista fa l’osservazione: « Con queste

parole Gesù voleva indicare con quale morte Simone Pietro doveva glorificare

Iddio ».

Quello, che il Signore aveva predetto a Pietro sul lago della patria, si compì

dopo 35 anni (Pietro subì il martirio probabilmente l’anno 67; non escluso però l’anno 64, quando cominciò la persecuzione contro la comunità cristiana di Roma, provocata dall’incendio della città. Il 29 giugno è ricordato come giorno della morte già dalla tradizione storica più antica e meglio garantita. Agostino con altri Padri della Chiesa difende l’opinione, secondo la quale Pietro e Paolo avrebbero tollerata la morte per Cristo lo stesso giorno del mese, ma non lo stesso anno.) nel lontano Occidente, a Roma: il vecchio Apostolo « distese le sue braccia » sul legno trasversale della croce, per la quale il carnefice l’aveva « cinto ». La leggenda premette al suo martirio il racconto « Quo vadis »: pressato dalle preghiere della comunità cristiana di Roma, Pietro sarebbe fuggito dalla città, che andava macchinando contro di lui; ma presso le sue porte si sarebbe incontrato col Signore, carico della croce, che alla dornanda del fuggente: « Dove vai, o Signore? » — « Quo vadis, Domine? » —, avrebbe risposto: « A Roma per farmi crocifiggere di nuovo »: Pietro avrebbe capita la lezione e sarebbe tornato sui suoi passi per incontrare la croce. Può essere che questa leggenda sia sorta come una lontana eco di quella protesta, che Pietro aveva sollevato contro la croce, quando il Signore annunziò per la prima volta la sua passione. A Roma non si sottrasse più alla croce. Quando fu giunto nel circo di Nerone, in vista del luogo, dove, come volgare giudeo, doveva essere giustiziato dinanzi a una folla stupidamente curiosa — « ti si condurrà dove tu non vuoi » la sua natura dovette certamente rabbrividire, ma il suo cuore dovette desiderare quell’abbraccio straziante e soave insieme della croce; una contenuta nostalgia per il Signore vibra già nella sua ultima lettera; secondo una leggenda, egli, come suo fratello Andrea, salutò con entusiasmo e commozione il legno dell’ultimo amore. Informa Eusebio che Pietro chiese d’essere crocifisso col capo all’ingiù, perchè non si riteneva degno di morire col capo verso l’alto, come il suo Maestro; così dal basso i suoi occhi, rigonfi di sangue, guardavano diritto al Cielo in alto. Nella sua seconda lettera aveva confortato i Cristiani scrivendo: «Il Signore non tarda con la sua promessa »; no, Egli non tarda! Allora si posò sul volto del morente un sorriso… In quel giorno però il paganesimo celebrò un infausto trionfo, non altrimenti che il giudaismo il Venerdì Santo; s’era liberato anch’esso di Cristo! Le porte dell’inferno non vincono Cristo; esse non vincono neppure Pietro.

È morto solo Simone; Pietro non muore; il suo ufficio rimane finché rimarrà la Chiesa di Cristo; perchè Cristo ha edificato la sua Chiesa su « Kefas = roccia »; dovrà esserci quindi sempre nella Chiesa un « Pietro »; se la roccia fosse finita con la morte di Simone, come potrebbero essere vere le parole di Cristo, che le porte cioè dell’inferno — le porte della morte — non vinceranno la Chiesa?! Cristo ha stabilito che nella sua Chiesa ci sia uno che porta le chiavi del regno; sempre dunque ci dovrà essere uno, che apre e chiude, lega e scioglie, pasce e ama. Ove Simone Pietro, morendo, depone le chiavi del regno dei Cieli, là le prende un altro e poi un altro e un altro ancora lungo tutti i millenni. Come è vero che le parole e le opere di Cristo durano — « Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno » —, così sono pure eterne, invincibili, proclamate attraverso tutti gli spazi e lungo tutti i tempi, sino alla fine del mondo, le parole dette a Pietro: « Tu sei la roccia! Corrobora i tuoi fratelli! Pasci le mie pecore! E ama, ama, ama…! ».

# ##

In questo giorno di festa per la Chiesa di Cristo, ci uniamo strettamente in preghiera intorno al nostro attuale Pietro, S.S. Gregorio XVIII, sicuri che, come sempre, anche se muore Gesù sulla croce, anche se muore Pietro a testa in giù, anche se il suo suiccessore non può operare ed è nel sepolcro con la sua Sposa eclissata, la Chiesa, Cristo col suo Corpo mistico, Pietro nel suo successore Vicario, non moriranno mai, vivranno in eterno nel Regno della beatitudine celeste, insieme a coloro che avranno perseverato fino alla fine nella “vera” fede apostolica rivelata da Cristo e trasmessa dagli Apostoli nella sua unica Chiesa Cattolica Romana.

CHRISTUS VINCIT, CHRISTUS REGNAT, CHRISTUS IMPERAT NUNC ET SEMPER!

VIVA DIO UNO E TRINO, VIVA L’UOMO-DIO GESU’ CRISTO, VIVA IL SUO VICARIO IN TERRA, IL PAPA.

NOVENA A SAN GIOVANNI BATTISTA (Inizio 15 Giugno)

NOVENA A SAN GIOVANNI BATTISTA

NOVENA A S. GIOVANNI BATTISTA (inizia il 15 giugno, festa 24 giugno)

nato 6 mesi prima di G. C. mart. nel 30 da Erode Agrippa .

I. O glorioso S. Giovanni, che col vivere sempre  la vita più illibata, corrispondeste così bene al vostro nome che significa Grazia, ottenete a noi pure di vivere sì santamente da corrispondere con esattezza al nome glorioso che portiamo di Cristiani. Gloria.

II. Glorioso S. Giovanni, che ancor bambino vi ritiraste nel deserto a condurre la vita la più austera e la più santa, otteneteci, vi preghiamo, la grazia  di viver sempre, se non col corpo, almeno col cuore, staccati da questo mondo, e in continuo esercizio di mortificazione e di penitenza. Gloria.

III. O glorioso S. Giovanni, che al primo udire la voce del Cielo abbandonaste la solitudine, e vi recaste sulla sponda del Giordano a battezzare e a  predicare, otteneteci, vi preghiamo, la grazia di esser sempre docili alla voce di Dio, e pronti a far a tutto quello che a Lui piacerà di comandarci. Gloria.

IV. O glorioso S. Giovanni, che foste il primo  a riconoscere e proclamar Gesù Cristo pel vero Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo,  otteneteci, vi preghiamo, che il principal nostro studio sia quello di glorificar Gesù Cristo nostro Redentore, e di seguire fedelmente tutto ciò che Egli si è degnato d’insegnarci. Gloria.

V. O glorioso S. Giovanni, che vi umiliaste cotanto dinanzi al Verbo Incarnato, da protestarvi indegno di sciogliere i lacci delle sue scarpe, otteneteci, vi  preghiamo, la grazia di conoscere sempre il nostro niente, affinché, lungi dal desiderare l’esaltamento in faccia agli uomini, ci gloriamo piuttosto di essere innanzi a loro umiliati e sprezzati. Gloria.

VI. O glorioso S. Giovanni, che con instancabile zelo insegnaste la via della salute a tutti quelli che ricorrevano a voi, otteneteci, vi preghiamo, la grazia di erudire continuamente i nostri prossimi nella dottrina della verità, precedendoli coll’esempio nella pratica costante delle cristiane virtù. Gloria.

VII. O glorioso S. Giovanni, che con un coraggio non più veduto rimproveraste dei loro delitti, non solo gli scribi o farisei, ma ancora gli stessi monarchi i più temuti del mondo, otteneteci, vi preghiamo, di non ommettere mai per umani riguardi l’adempimento dei nostri doveri, e di non temere nel mondo altro male fuorché il peccato, che ci  disgiunge da Dio, unico vero Bene. Gloria.

VIII. O glorioso S. Giovanni che, rinchiuso nella prigione, non lasciaste di predicar Gesù Cristo e di convertir anime a lui, impetrateci, vi preghiamo, di non desistere mai dall’esatto adempimento delle nostre obbligazioni, per qualunque avversità o persecuzione ci possa avvenire sopra la terra. Gloria.

IX. O glorioso S. Giovanni, che aveste la gloria  d’essere il primo martire della nuova Alleanza sottoponendo colla maggior allegrezza il vostro capo  al taglio micidiale, otteneteci, vi preghiamo, d’essere sempre come voi disposti a sacrificare anche la vita per la difesa della verità e per la gloria di Gesù  Cristo, affinché, sprezzando questa vita fragile ed  infelice, ci assicuriamo dopo la morte la vita eterna e beata in compagnia di voi, o Precursore beatissimo del Messia, non che di tutti gli Angeli e di tutti i Santi nella gloria del Paradiso. Gloria.

11 MAGGIO: SANTI FILIPPO E GIACOMO APOSTOLI

S. FILIPPO APOSTOLO

Otto Hophan: GLI APOSTOLI- Marietti ed. TORINO, 1951. N. H.

Nei cataloghi apostolici degli Evangelisti Matteo e Luca l’Apostolo Filippo viene subito dopo Giovanni. Giovanni e Filippo! Due nomi, due uomini, due… mondi! Su queste pagine irraggiano ancora le luci dell’eternità, che Giovanni ha fissate in alto col suo Vangelo e con la Apocalisse. Egli ha scrutato il divino Mistero più profondamente d’ogni altro fra i Dodici: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Iddio, e il Verbo era Iddio… »’; a ragione gli fu assegnato come simbolo l’aquila. Filippo, che gli vien vicino nel posto seguente, non ha per simbolo un’aquila; un’aquila accanto a lui piuttosto disturberebbe; poiché questo Apostolo è un’indole calma, obiettiva, quasi prosaica; è intento alle realtà palpabili e sensibili della vita; non è né poeta né mistico e in occasione di cerimonie appare maldestro e impacciato. Il Signore costituì il suo Collegio apostolico sapientemente, e come allora anche oggi…! Egli non vuole soltanto dei Giovanni, ma anche dei Filippo; Filippo etimologicamente significa « amico dei cavalli »; e in realtà il regno di Dio sulla terra non ha bisogno solamente di « aquile », ma anche di « cavalli » che tirino i carri scricchiolanti. In un antico scritto, che ci è stato trasmesso sotto il nome di Ippolito (1- 235), dal titolo « Intorno alla fede », gli Apostoli vengono chiamati collettivamente « cavalli di Dio », « poiché questi cavalli hanno tuonato il mistero della salvezza, portando la parola al buon Cavaliere e compiendo il corso della verità ». È strano che gli Atti apocrifi attribuiscano a Filippo dei tratti, che appartengono invece a Giovanni; egli, ad esempio, avrebbe invocato il fuoco dal cielo sugli abitanti increduli della città di Gerapoli, cosa che, calmo com’era per natura, non ha fatto sicuramente lui, ma il violento Giovanni, secondo l’esplicita testimonianza del Vangelo. Gli è pure attribuita la lotta contro l’eresia degli Ebioniti sulla fine del primo secolo cristiano, sebbene anche questa sia stata condotta da Giovanni. Questo scambio di Filippo con Giovanni ha certo il suo fondamento nell’antica tradizione, secondo la quale tutti e due sarebbero stati Apostoli dell’Asia Minore.

POSIZIONE

I primi tre Vangeli ci danno di Filippo esclusivamente il nome; non vi leggiamo nessun’altra notizia. Questo nome è in tutti i quattro cataloghi fisso sempre al quinto posto; tale collocamento ha il suo significato. Filippo non appartiene più al primo gruppo, che seguiva più da vicino il Signore; però viene immediatamente dopo di esso; questo quinto posto nel Collegio dei Dodici gli è assegnato già dalla storia della sua vocazione. Filippo è dunque il capo del secondo gruppo, che risulta inoltre di Bartolomeo, Matteo e Tommaso. Non ci è possibile accertare quali fossero i compiti specifici assegnati ai tre gruppi diversi di Apostoli e ai loro capi durante l’attività pubblica del Signore; il testo di Giovanni VI, 5, di cui dovremo dire presto, come pure la specializzazione di Matteo, ch’era stato precedentemente esattore e uomo di calcolo, potrebbero indurci a pensare che al secondo gruppo era stato commesso soprattutto l’incarico del settore organizzativo ed economico. Circa la condizione familiare dell’Apostolo Filippo, abbiamo delle notizie da una lettera del Vescovo Policrate di Efeso, scritta al Papa Vittore verso l’anno 190: egli sarebbe stato sposato ed avrebbe avuto tre figlie, delle quali due sarebbero morte vergini e martiri, la terza sarebbe stata sepolta a Efeso. Anche l’antico Papia, Vescovo di Gerapoli verso il 130, fa menzione di queste tre figlie, ch’egli avrebbe conosciuto personalmente. Ma qui forse ci troviamo di nuovo dinanzi a uno scambio dell’apostolo Filippo col diacono Filippo; di quest’ultimo si fa parola ripetutamente negli Atti degli Apostoli; egli è detto pure « evangelista », titolo che, secondo la terminologia della Chiesa del tempo, significava un predicatore del Vangelo, che vagava da un luogo ad un altro; e aveva « quattro figlie non maritate, che possedevano il dono della profezia ». Non è dunque difficile che in un’epoca posteriore si siano attribuite all’Apostolo Filippo le figlie del diacono; è vero che per l’Apostolo se ne ricordano solo tre, mentre il diacono ne aveva quattro; è certo però che le gesta riferite dagli Atti degli Apostoli riguardano non l’Apostolo ma il diacono Filippo. Quanto alle relazioni personali di Filippo, il Vangelo ci fa conoscere solo la sua patria: egli era di Bethsaida, villaggio di pescatori sulla riva nord-est o forse su quella occidentale del lago di Galilea. Da questo villaggio di nessuna importanza il Signore chiamò a Sè tre Apostoli; eppure un così singolare privilegio non lo preservò dalle saette dell’ira divina, ne accrebbe piuttosto la responsabilità: Gesù cominciò a indirizzare contro le città, nelle quali s’era compiuta la maggior parte dei suoi miracoli, parole di minaccia, perché non avevanO fatto penitenza: “Guai a te, Corozain! Guai a te, Bethsaida… Io vi dico: nel giorno del giudizio Tiro e Sidone saranno trattate con più indulgenza di voi! “». All’udire quella maledizione del Signore contro la sua terra forse pianse anche Filippo, sebbene freddo per natura. Il fatto ci avverte che la predilezione divina non esclude la riprovazione, qualora le proprie colpe l’abbiano meritata. Col ricordare la patria di Filippo, il Vangelo intende accennare pure ad un’altra relazione: « Filippo era oriundo di Bethsaida, patria di Andrea e di Pietro »; e in realtà gli intimi rapporti fra Filippo e Andrea sono messi in luce ripetutamente nelle pagine del Libro Santo; Ci è anzi lecito supporre che il primo messaggio di Gesù sia stato annunziato a Filippo dal nobile Andrea, suo conterraneo. Questi, nel suo zelo, aveva già guadagnato a Cristo il fratello Pietro; si volse poi a mettere sulla via del Signore anche l’amico suo Filippo; leggiamo infatti che « il giorno seguente Gesù volle andare in Galilea; ivi incontrò Filippo e gli disse: “SeguiMi” ». Ci sorprende il tono così preciso e piuttosto imperativo di questa chiamata; perché Filippo è il primo fra tutti, che si sente rivolgere un ordine così esplicito ed energico di seguire Cristo; non erano stati ancora chiamati neppure Giovanni e Andrea, ma avevano ricevuto solo un invito; doveva forse l’ordine così reciso troncare sull’istante ogni riflessione di Filippo, ch’era un po’ formalista? La pedagogia di Cristo tiene conto, con sapienza e benignità, della caratteristica di ciascuno dei suoi discepoli. La storia della vocazione ci fa vedere Filippo stretto da amicizia anche ad un altro Apostolo, a Natanaele-Bartolomeo. Potrà sembrare singolare che un Apostolo così freddo avesse due amici, uno, per così dire, a destra e uno a sinistra; ma l’esperienza ci insegna che appunto simili nature si vincolano a individui ricchi di sentimento, spintevi dall’intimo bisogno di supplire e completare la loro indole asciutta mediante l’amicizia. I cataloghi degli Apostoli dei tre Vangeli, come pure quello del Canone della Messa rendono onore a questa amicizia col ricordare sempre uniti Filippo e Bartolomeo. Ne conserva il ricordo anche la letteratura apocrifa: Bartolomeo accompagna Filippo nei suoi viaggi apostolici ed è accanto a lui anche nel suo martirio. Essendo amici, s’erano spesso comunicati quello che agitava i loro cuori; certamente, dunque, s’erano svelati l’intenso desiderio del Messia. E adesso era giunta l’ora, in cui l’uno poteva portare all’altro la notizia di Gesù. Fu veramente una grande ora dell’amicizia! Poiché Cristo Signore è il monte luminoso, cui deve tendere ogni profonda amicizia. « Filippo incontrò Natanaele » probabilmente alle porte di Cana, dove Bartolomeo abitava e dove il Signore stava per entrare, e gli disse: “Abbiam trovato Colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, il Figlio di Giuseppe, da Nazareth ” ». Quest’annunzio non è così zampillante dalla fonte come l’unica festiva proposizione di Andrea: « Abbiam trovato il Messia! »; sembra piuttosto da maestro di scuola, odora di libri. L’allegro Natanaele obietta maLiziosetto: « Da Nazareth? che può venire qualcosa di buono da Nazareth? »; Filippo non gli risponde con nessuna apologia di Gesù, vuole invece che l’amico si trovi di fronte al fatto, che ne faccia l’esperienza; e replica secco a Natanaele: « Vieni e vedi! ». E così ci è dato di conoscere l’Apostolo fino in fondo già in questo primo incontro con lui.

CARATTERISTICA

Il testo evangelico ora visto ci descrive già un aspetto della personalità di Filippo; ma l’Evangelista Giovanni ci ha trasmesso di lui altre tre notizie, che in qualche modo facilitano un’idea del suo carattere; l’Evangelista con questo intese certamente usare un’attenzione alle comunità dell’Asia Minore, che erano legate in modo particolare all’apostolo Filippo, perché era stato uno dei loro padri nella fede. La prima di queste notizie ricorre nel racconto della moltiplicazione miracolosa dei pani. La situazione era disperata: « Gesù vide venire a Sé la folla immensa di popolo, cinque mila uomini, non contate donne e fanciulli », con negli occhi il muto grido della fame; « allora Gesù disse a Filippo: “Dove compreremo pane perché questa gente possa mangiare? ». Un leggero sorriso dovette sfiorare il volto del Signore mentre faceva questa domanda, perché Egli non abbisognava dei consigli di Filippo; ma era opportuno che l’impossibilità della refezione di cinque mila persone fosse accertata da quell’Apostolo obiettivo e freddo; col rivolgersi a lui, Gesù mirava anche a risvegliare nel suo animo un timido presentimento dell’azione divina imminente: « Gesù disse questo per metterlo alla prova, poiché Egli sapeva che cosa voleva fare»; ma Filippo non percepì, nell’interrogazione del Maestro, l’intenzione delicata che vi si nascondeva; il sentire e il presagire non è il suo forte. È bravo invece nei calcoli: un’occhiata sola e ha già indovinato che in quel frangente « pane per duecento denari non basta loro, anche se ciascuno ne ricevesse un pezzetto soltanto ». Duecento denari erano forse tutto quello, che conteneva la cassa apostolica portata da Giuda; corrispondevano press’a poco a 28.000 lire della nostra valuta, ma con un potere d’acquisto, ai nostri giorni, quattro o cinque volte tanto. A che scopo sborsare tutto quel denaro? Un bravo economo evita, nella sua saggezza, le spese inutili. Fatti questi calcoli, il caso appariva a Filippo senza speranze; non gli brillò in mente alcuna idea, nemmeno un minimo sospetto, che lo strappasse al suo gelido calcolare, così da balbettare, un po’ perplesso, ma con improvvisa e crescente festosità: Signore, se Tu, se Tu…!; egli fa i conti solo con la « realtà », non con i miracoli. La seconda notizia intorno a Filippo s’incontra nel Vangelo della Domenica delle Palme “. « Fra coloro, ch’erano ascesi, si trovavano anche alcuni greci. Questi si rivolsero a Filippo, ch’era oriundo di Bethsaida in Galilea, e lo pregarono: “Signore, vorremmo vedere Gesù!”. Non conosciamo il motivo, che persuase questi « Greci », dei gentili cioè timorati di Dio, a presentare il proprio desiderio precisamente a Filippo e non ad un altro Apostolo; poté essere il suo nome greco, oppure la sua patria, e il Vangelo sembra alludere a questo motivo, ma poté essere anche un semplice caso; comunque sia, essi non avevano fatto i conti col formalismo di Filippo. Pagani, che vogliono vedere Gesù… Una faccenda scabrosa! Non era stato dato da Gesù stesso l’ordine agli Apostoli: « Non mettetevi sulla via verso i pagani! »; non s’era Egli rifiutato, almeno da principio, di guarire la figlia della Cananea perch’era pagana? « Non è giusto prendere il pane ai figli del popolo eletto e gettarlo ai cagnolini! », e cioè ai pagani; Filippo insomma abbordò il caso con la tediosa esattezza, che s’accompagna quasi sempre con le indoli asciutte. Ma neppure così ne venne a capo; « allora Filippo andò e lo disse ad Andrea »; questi, più longanime e più deciso di lui, non rilevò nella richiesta dei pagani nessuna difficoltà: « Andrea e Filippo andarono e lo dissero a Gesù ». – Quest’indole dell’Apostolo, fredda e impacciata dinanzi alle grandi idee, affiorò un’ultima volta nella sala dell’ultima Cena. Le parole del Signore risuonavano per la sala come rumore d’acque eterne: « Io sono la via e la verità e la vita. Nessuno va al Padre se non per mezzo mio. Se voi Mi conosceste, conoscereste anche il Padre mio. Da questo momento Lo conoscete e L’avete già visto ». Gli ultimi discorsi del Signore nel Cenacolo sono le luci più radiose intorno a Dio, che mai siano state fissate sul cielo dell’umanità; si possono paragonare ai lampi: squarciano la notte e strappano l’impotenza dello spirito umano dinanzi al mistero di Dio. Nel bel mezzo dunque di tanta solennità ecco Filippo con un desiderio che fa davvero pena: « Signore, mostraci il Padre e… ci basta! ». Povero Filippo! Tutto rivolto a osservare e a calcolare, al mondo sensibile e palpabile, non ha afferrato per niente il senso sublime delle parole di Gesù; egli vorrebbe vedere il Padre, di Cui parla Gesù, in una apparizione visibile, come Lo videro Abramo, Giacobbe e Mosè, e « questo basta »; non c’è bisogno di molte altre cose invisibili e inafferrabili. Il Maestro, dinanzi all’incomprensione dell’ingenuo discepolo, rispose con un rimprovero mite, ma insieme soffuso del suo intimo dolore: « Son con voi da sì lungo tempo e tu, Filippo, non Mi conosci ancora? ». Nell’opera « Stromatels » (tappeti) dello scrittore ecclesiastico Clemente Alessandrino, che tanto lesse e viaggiò sulla fine del secondo secolo (m. 214), leggiamo una quarta parola, che avrebbe detta Filippo ed è conservata nel Vangelo. Clemente avrebbe saputo dall’antica tradizione ch’era Filippo quel discepolo, il quale, al momento della chiamata, aveva chiesto la licenza: « Signore, permetti che prima vada e seppellisca mio padre”. Gesù gli replicò: “SeguiMi e lascia i morti seppellire i loro morti” ». Quanto già di Filippo, tipo perplesso, che non scorge i vasti orizzonti a causa di quant’è vicino, ci persuade della intrinseca verosimiglianza della notizia di Clemente, e che quindi le parole surriferite siano state dette realmente dal nostro Apostolo. Gesù, cui è lecito presentare ad ogni uomo delle pretese inesorabili e indeclinabili, tolse il discepolo ad ogni considerazione col preciso comando: « SeguiMi! ». Con tutto questo però avremmo presentato il buon Apostolo Filippo solo come un praticone freddo, statistico e pedante, e il giudizio che ne seguirebbe sarebbe troppo severo; la sua fisonomia apostolica dunque dev’essere ancora molto lumeggiata; poiché, nonostante la sua indole fredda e pratica, egli possedeva pure dello slancio e del cuore e della profondità, ma questi pregi erano in lui quasi nascosti e riservati nel più intimo dell’essere e solo faticosamente erompevano, come una sorgente ostruita. Quanti individui alla « Filippo », che all’esterno sembrano privi di sentimento, soffrono penosamente per la loro indole, che li rende incapaci di tradurre facilmente all’esterno il loro buon fondo interiore! Già la prima parola di Filippo, anche se un po’ cerimoniosa, è percorsa da un’onda calda d’entusiasmo per Gesù: « Abbiam trovato Colui, del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti ». Anche in occasione della moltiplicazione dei pani e dell’incontro con i Greci affiora una reale sollecitudine e non semplice calcolo; nella sua risposta, apparentemente solo oggettiva, tutti devono rilevare anche il dolente tono sottinteso: Pane per duecento denari non è sufficiente, anche se ciascuno dovesse riceverne un pezzetto »; egli non respinse i Greci né fece loro sperare d’essere ascoltati in altro tempo, sebbene la loro spinosa richiesta gli creasse degli impicci; procedette sì con ogni formalità, ma è evidente che gli stava pure a cuore che quei desiderosi « vedessero Gesù ». Filippo è un Apostolo freddo, nasconde però il sentimento più di quello che non si creda; quando si tratta di parole sovrabbondanti è veramente impacciato; ma l’amore dei fatti concreti è incomparabilmente più prezioso che la profusione di parole buone, con le quali parecchi tentano di riscattarsi dall’azione; e invece: « Figlioletti, non amiamo soltanto con le parole e la lingua, ma con i fatti e in verità »; non v’è dubbio che l’amore perfetto si ha solo quando un medesimo caldo palpito dà vita alle opere e alle parole, come era nel Signore, che si mostrava compassionevole verso le folle anche con sentimenti e parole, ma non si arrestava lì, bensì compiva i miracoli dell’amore. – La profondità di Filippo si rivelò nel modo più bello precisamente in quella espressione, che apparentemente fu la sua parola più ingenua: « Signore, mostraci il Padre! ». A ragione osserva il Bossuet : « Mai forse in tutto il Vangelo fu presentata un’esigenza più sublime e… più ardita di questa »; di fatto essa domanda l’ultima cosa, la cosa centrale: il mistero del Padre e del Figlio. Si direbbe quasi che Filippo, così proclive alle realtà palpabili e visibili della vita, sentiva l’insufficienza e l’incapacità del proprio essere e, stimolato dalla sua insoddisfazione, sospirò le profondità di Dio; giacché quanto più uno deve occuparsi di « denari » e di « pani » e di « pagani », tanto più sente pure il bisogno di radicarsi nei divini misteri. E il Signore, che non educò col metro o secondo un unico schema ciascuno dei suoi Apostoli, bensì adattandosi al suo temperamento, proprio Filippo guidò dalle strettezze del suo senno pratico agli ampi orizzonti e alle profondità di Dio. In occasione della richiesta dei Greci, il Maestro aveva già prospettato, nei riguardi del mistero della redenzione, una visione ricca di sublime e profonda verità: « Se il grano di frumento non cade a terra e muore, resta solo; ma se muore, porta molto frutto »; nella sala della Cena, accondiscendendo alle pretese di Filippo, Egli lo condusse sino alle vette della Trinità: « Chi ha visto Me, ha visto pure il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre!”? Non credi ch’lo sia  nel Padre ed il Padre in Me? » E Gesù già su questa terra, nella sua apparizione sensibile, è come la trasparenza del Padre; fin da quaggiù risplende nel suo dire e nel suo operare il Padre; perché dunque Filippo richiede un’apparizione del Padre? Gesù stesso è il riflesso di Lui, la sua apparizione più stupenda. Questa parola, rivolta dal Signore a Filippo, così solenne e pregna di senso, ci conduce ancor più in alto, fin dentro a quell’intimissimo mistero della Trinità, che la teologia greca chiama « perichóresis », circolazione cioè e più letteralmente « girare vicendevole! ». Iddio Padre e Iddio Figlio e Iddio Spirito Santo non sono affatto diverse nature, ma posseggono insieme la medesima divina natura; sono quindi insieme, « l’Uno nell’Altro », il Padre nel Figlio e il Figlio nel Padre; una Persona non può vivere fuori dell’altra; quest’inabitazione però dell’una nell’altra delle tre divine Persone non è un’esistenza immota, ma un giubilante movimento circolare, un eterno procedere e un eterno ritornare alla sorgente; « ognuna delle tre divine Persone è pure a suo modo un punto centrale e focale, al quale le altre due hanno relazione e nel quale si congiungono insieme ». Il Signore condusse Filippo a tali profondità della Divinità, precisamente Filippo! Solo l’Evangelista Giovanni ci ha tramandato in iscritto la parola provocata da Filippo. Filippo non è come Giovanni l’Apostolo con l’aquila, ha però l’anelito di elevarsi come l’aquila. Benedetto ogni Filippo, che anela all’aquila! Anche a lui saranno dette parole di lassù, proprie della vetta, ed esse realmente gli « basteranno ».

ATTIVITÀ

Circa l’opera e la morte dell’Apostolo Filippo, la Sacra Scrittura ci lascia nell’oscurità completa; così si spiega il sorgere dei così detti « Atti di Filippo » sullo scorcio del quarto secolo, compilazione non autentica, conservata in diversi frammenti e anche in diverse recensioni, che riferisce del nostro Apostolo ogni sorta di miracoli e di stranezze. Egli avrebbe predicato Gesù Cristo, ad esempio, in Atene, alla presenza di trecento filosofi greci, che bramavano di sentire delle novità; ci accorgiamo però subito della dipendenza di questa informazione dal discorso dell’apostolo Paolo all’areopago, come è riferito negli Atti degli Apostoli. Filippo sarebbe pervenuto, con un viaggio miracoloso, a Cartagine, che è paragonata alla città di « Azoto », dove, dopo il battesimo dell’eunuco, fu trasportato il diacono Filippo; avrebbe anzi annunziato il lieto messaggio persino ai Galli; s’intendono probabilmente i « Galati », che abitavano presso la Frigia, dove Filippo ha certo faticato. Anche la principale attività dell’Apostolo nella Scizia e nella Frigia e soprattutto la sua morte sono descritte in quest’opera drammaticamente e concedendo assai alla malsana tendenza di voler risvegliare nei lettori le pie sensazioni. Queste favole non rivendicano nessun valore storico, che anzi questi « Atti di Filippo », insieme con altri libri, furono espressamente proibiti da Un decreto del Papa Gelasio (492-496). Secondo il Breviario romano, Filippo lavorò nella Scizia e nella Frigia. Queste notizie s’appoggiano ad antiche tradizioni. La Scizia, sulla costa settentrionale del Mar Nero, l’odierna Ucraina meridionale, dovette essere il teatro dell’operosità missionaria di questo Apostolo per vent’anni; il nome però di questa regione, come terra di missione, ci obbliga a ricordare le riserve avanzate già per l’Apostolo Andrea, col quale Filippo dovette ivi prodigare le sue cure pastorali. Il suo zelo avrebbe preso di mira il culto di Marte che di fatto, secondo la testimonianza della storia, nella Scizia era in casa sua. La Frigia, secondo campo delle sue missioni, aveva per capitale la ricca e celebre Gerapoli; anche la lettera del Vescovo Policrate di Efeso a Papa Vittore, che sopra è stata ricordata, afferma che Filippo lavorò a Gerapoli ed ivi anche morì; pure un’antica iscrizione, scoperta nella necropoli di Gerapoli, ha un accenno a una chiesa consacrata dall’Apostolo Filippo. Vicine alla capitale erano le due città di Colossi e Laodicea, tutte e due ricordate negli scritti del Nuovo Testamento, Laodicea nell’Apocalisse di Giovanni, e Colossi nella lettera, di cui l’onorò l’Apostolo delle genti, Paolo. Giovanni, Paolo, Filippo! Come furono vicine le loro vie apostoliche in queste terre! Ci assale un profondo senso di mestizia quando pensiamo che queste regioni, nelle quali faticarono i primi cinque fra gli Apostoli — ivi infatti sudarono pure Pietro e Andrea —, sono oggi strappate a Cristo. Gli apocrifi, nel riferire dell’attività apostolica di Filippo, tornano con sorprendente frequenza e parecchie varianti alla descrizione della sua lotta con i serpenti o dragoni. Il cultO dei serpenti in quelle regioni risponde a verità storica; anche a Gerapoli il serpente fu custodito come animale sacro nel tempio della dea Cibele e fu onorato con le libazioni. Spieghiamo così perché l’arte di solito rappresenta l’apostolo Filippo impegnato nella lotta contro il dragone; la sua statua al Laterano annunzia la vittoria dell’Apostolo sulla potenza del dragone contorcentesi in virtù della croce. La Croce è così pesante, che schiaccerà sempre il dragone! Fu una singolare coincidenza quella dell’8 maggio 1945, lo storico giorno dell’armistizio: esso segnava il crollo d’un regime sbucato dall’inferno, e proprio in quel giorno la Liturgia, che onorava San Michele, patrono del popolo tedesco, annunziava: « Quando il dragone mosse guerra, Michele combatté contro di lui e riportò vittoria. Alleluia ». – Secondo lo scritto gnostico del terzo secolo « Pistis Sophia », sarebbe esistito anche un « vangelo di Filippo », contenente le rivelazioni del Risorto; ma la Scrittura canonica del Nuovo Testamento non ne sa nulla; tale « vangelo secondo Filippo » dev’essere una falsificazione dei tempi posteriori. Come l’opera di questo Apostolo, così è avvolta nell’oscurità anche la sua morte. Clemente di Alessandria afferma che Filippo, come pure gli apostoli Matteo e Tommaso, morì di morte naturale, mentre altri, e in realtà più numerosi, parlano di martirio. Secondo questi ultimi, Filippo sarebbe stato crocefisso a Gerapoli col capo all’ingiù come Pietro, al tempo dell’imperatore Domiziano o addirittura, secondo qualcuno, sotto l’imperatore Traiano (98-117), all’età di 87 anni. Singolare disposizione! Tutti e tre gli Apostoli oriundi dalla cara e… esecrata Bethsaida morirono in croce! Quanto dev’essere preziosa la croce dinanzi agli occhi del Signore, se Egli ne fa regalo ai suoi primi Apostoli! Sembra che le reliquie di Filippo siano state trasportate a Roma, dove sarebbero state composte, insieme con quelle dell’apostolo Giacomo Minore, nella chiesa dei Dodici Apostoli. Questo sarebbe pure il motivo, per cui la Chiesa latina festeggia insieme i due Apostoli; perché poi ne celebri la festa proprio il primo giorno di maggio (oggi trasportata all’11 maggio), non si saprebbe dire, se non fosse per una sottile ironia; giacché né Filippo né Giacomo Minore sono poeti e cantori della primavera, inclini com’erano piuttosto alla prosa della vita; la loro festa invece secondo la tradizione greca cade il 14 novembre. Negli «Atti di Filippo » apocrifi si legge una lunga e ridondante preghiera per la buona morte, ch’egli avrebbe recitata prima di subire il martirio; fu rielaborata da mano cattolica, ma è ancora riconoscibile la sua origine gnostica: « Cristo, Padre degli Eoni, Re della luce, Tu nella tua sapienza ci hai istruito e ci hai elargito il tuo intendimento; Tu ci hai regalato il consiglio della tua bontà; Tu non ti sei mai allontanato da noi; ci hai concesso la tua presenza della sapienza. Adesso, o Gesù, vieni, e dammi l’eterna corona della vittoria sopra tutte le forze e le potenze nemiche. La loro atmosfera tenebrosa non mi avvolga, affinché io mi apra la via attraverso i torrenti di fuoco e l’abisso tutto! Mio Signore Gesù Cristo, che il nemico non abbia modo di accusarmi dinanzi al tuo tribunale, ma rivestimi della tua veste splendente, del tuo suggello luminoso e in ogni tempo radioso, finché io passi dinanzi a tutti i dominatori del mondo e al dragone maligno, che a noi si oppone! Adesso, dunque, mio Signore Gesù Cristo, fammi incontrare Te nell’aria…! Trasforma la figura del mio corpo nella gloria degli Angeli e fammi riposare nella tua beatitudine, e ch’io riceva quello, che Tu hai promesso ai tuoi santi per l’eternità ». – Molto più semplice e… più profonda è la preghiera, che Filippo effuse veramente nel Vangelo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta! »; nel momento del martirio, dinanzi al portale dell’eternità, che gli si apriva, egli dovette ripetere desioso lo stesso grido. L’anelito più intimo d’ogni creatura umana va al Padre, all’ultimo principio di ogni essere; le tante cose di quaggiù — « denari », « pani » e anche « cinque mila uomini » — non bastano; solo Iddio basta! O santo Apostolo Filippo, vieni in nostro aiuto, perché possiamo giungere a quest’unico e a questo eterno Sufficiente!

SAN GIACOMO APOSTOLO MINORE

In tutti e quattro i cataloghi degli Apostoli Giacomo Minore occupa il nono posto; è dunque nel Collegio apostolico in testa a un nuovo e terzo gruppo, al gruppo dei cugini e del… , traditore di Gesù. Marco lo chiama « Minore » per distinguerlo dall’altro apostolo di nome Giacomo, il figlio di Zebedeo e fratello dì Giovanni; probabilmente era minore per età, forse era anche più piccolo di statura — « minor » può significare tutte e due le cose — rispetto a « Jakobus maior », ch’era il più anziano e il più alto dei due; vedremo se a questo «minor = più Piccolo » competa anche un significato simbolico. Con gli uomini di quest’ultimo gruppo non ci si presentano solo dei nuovi visi, ma s’inserisce nella serie dei Dodici una nuova categoria; noi siamo abituati a chiamare gli Apostoli i « poveri pescatori di Galilea », indistintamente; di fatto però il gruppo degli uomini, che stanno intorno a Gesù, è più vario e più ricco non solo per i caratteri, ma anche per la professione e per la posizione sociale dei singoli, come del resto le trattazioni viste finora possono aver dimostrato; con questo terzo gruppo ottengono un posto ed hanno voce in quel venerando Consesso del mondo anche i contadini: Giacomo, Giuda e Simone pure erano rappresentanti dell’agricoltura. Il Vangelo veramente non ci dà diritto di tirare una simile conclusione, perché appunto di questi tre parenti di Gesù non ci dice una sillaba, fatta eccezione del loro nome; solo di Giuda Taddeo abbiamo una breve espressione conservataci da Giovanni; in compenso però Giacomo e Giuda Taddeo hanno lasciato dietro di sé due lettere, che fanno parte della Scrittura del Nuovo Testamento e almeno indirettamente rivelano parecchio anche dei loro autori. In queste lettere infatti, quasi come sulle vesti di Esaù, è diffuso il profumo dei campi in fiore, l’aroma della zolla fumante e vi posa sopra la luccicante rugiada del cielo. La tinta campagnuola e pittoresca di queste lettere designa quali autori dei contadini; nessun pescatore e nessun esattore e nemmeno un erudito, ma solo un campagnuolo, ch’è familiare alla natura e alle sue cure, scrive frasi come le seguenti: « Il sole si leva col suo ardore e brucia l’erba; la sua fioritura avvizzisce e il suo bell’aspetto svanisce… Chi non manca nel parlare, è un uomo perfetto, ch’è in grado di frenarsi completamente. Noi — noi! — mettiamo la briglia in bocca ai cavalli, perché ci obbediscano; così conduciamo l’intero animale… Perseverate in pazienza, o fratelli, sino all’avvento del Signore. Ecco, il contadino aspetta il prezioso frutto della terra e persevera in pazienza, finché abbia ottenuto la pioggia temporanea e serotina ». – L’ipotesi suggerita da simili espressioni trova la sua conferma in un documento storico di Egesippo, della metà del secondo secolo, che ci è stato conservato dallo scrittore ecclesiastico Eusebio; secondo questo documento, l’imperatore Domiziano (81-96) fece venire a Roma due nipoti dell’Apostolo e fratello del Signore Giuda Taddeo, loro nonno, e pronipoti dell’Apostolo e fratello del Signore Giacomo Minore, loro prozio, perché sospetti d’alto tradimento; sottoposti ad interrogatorio, essi esposero all’imperatore il loro modesto patrimonio fondiario, costituito da 39 plethren — un plethron equivaleva a 0,095 di ettaro — di terreno arativo e gli fecero vedere le loro mani callose; dopo di che quel Domiziano, che li aveva ritenuti come pericolosi parenti di Gesù di Nazareth, li rilasciò senza preoccupazioni, perché  se ne tornassero in patria; se ora ricordiamo che, secondo la successione semitica, i beni di famiglia rimanevano quasi immutati alla stirpe, troveremo molto verosimile che su quei 39 plethren di terreno arativo si fossero già affaticati, mangiando il pane nel sudore della propria fronte, il nonno Giuda Taddeo e i suoi fratelli Giacomo e Simone. Il Signore, dunque, ha chiamato anzitutto dei pescatori e dei contadini per farne degli Apostoli, e questo quanto è significativo! Tutti e due, il pescatore e il contadino, si sono abituati a duro lavoro e ad ancor più dura pazienza, giacché né l’uno né l’altro può strappare a forza un nonnulla; a tutti e due dev’esser dato; quale scuola preparatoria all’apostolato! Il contadino però, a differenza del pescatore, ha sotto i suoi piedi un suolo solido, non fluido; rispetto quindi al pescatore è meno arrendevole e anche meno capace di adattamento; è invece lento, cauto e tenacemente attaccato alla tradizione. Il contegno rigidamente conservativo di Giacomo Minore in parte va certamente spiegato con la sua professione.

FRATELLO DEL SIGNORE

Perché si distingua da Giacomo Maggiore, il figlio di Zebedeo, Giacomo Minore è detto in tutti e quattro i cataloghi degli Apostoli « figlio di Alfeo ». Egesippo chiama questo Alfeo anche Klopas, Kleophas; si tratta forse di un secondo nome o anche semplicemente di una diversa pronuncia dello stesso nome Alfeo. Questa notizia d’un Alfeo, chiamato anche Kleophas, ha un appoggio anche nel Vangelo. Gli evangelisti infatti Marco e Giovanni nominano alcune delle pie donne, che perseveravano presso la croce di Gesù, e fra loro Marco ricorda una « Maria, la madre di Giacomo Minore », mentre Giovanni ricorda una « Maria, ch’era sorella della madre di Gesù, la moglie di Kleophas »; queste due Marie, accuratamente determinate per mezzo del figlio da Marco e da Giovanni per mezzo del marito, sono molto probabilmente la medesima donna; se così, Kleophas è da identificare con Alfeo, poichè Giacomo Minore era figlio d’un Alfeo. Per questo Alfeo-Kleophas non abbiamo a nostra disposizione notizie bibliche; parecchi vedono in lui uno dei discepoli di Emmaus, che in realtà portava il nome di Kleophas; Egesippo direbbe ch’egli era fratello di San Giuseppe, il padre nutrizio del Signore; già da questo lato avremmo un certo rapporto di parentela del nostro Giacomo con Gesù. – Maria, madre di Giacomo e moglie di Cleofa, da Giovanni è detta espressamente « sorella di sua madre » (della madre di Gesù); forse era una sorella corporale di Maria, Madre di Dio, sebbene in questa ipotesi ne seguirebbe la difficoltà che si trovassero nella stessa famiglia due sorelle col medesimo nome di Maria; oppure era una cugina della Madonna o almeno cognata di Lei attraverso suo marito Cleofa; in ogni caso, era una parente. Le relazioni di parentela di questa nobil donna con la Madre di Gesù ebbero la loro espressione nella cordiale partecipazione alla vita e alla passione del Signore. Nella relazione di quanto avvenne sul Calvario, Matteo la esalta, perché come l’altra madre di Apostoli, la madre dei figli di Zebedeo, Salome, ella « aveva seguito Gesù fin dalla Galilea per prestarGli servizio ». Stette con le altre buone donne accanto alla croce e prese fra le sue le mani della sua povera e sublime sorella per persuaderla che non era affatto sola, anche se in quel momento il suo Figlio e il suo tutto moriva; con Maria Maddalena, ella fu l’ultima, la sera del Venerdì Santo, ad allontanarsi dal sepolcro e fu anche la prima, all’alba del dì di Pasqua, a stare presso il sepolcro, portando i doni dell’amore, gli aromi e gli unguenti per la salma. Ebbe per questo, insieme alle altre donne, la felicità del primo Alleluia e fu anzi ritenuta degna d’una cara apparizione dello stesso Risorto, dopo la quale si affrettò a portare il lieto messaggio agli Apostoli. Anche Giacomo Minore dunque ebbe veramente un’ottima madre, una seguace del Signore, che Gli rimase fedele sino alla croce; può essere che anche lui, come la maggior parte degli apostoli di tutti i tempi, sia stato preparato per Gesù da sua madre e che la pia donna stessa considerasse una felicità della sua vita, se Gesù avesse accettato da lei il suo Giacomo. – Nella Scrittura del Nuovo Testamento si fa parola ripetutamente anche di fratelli di Giacomo; Marco, ad esempio, nella relazione del Venerdì Santo e del giorno di Pasqua, chiama sua madre una volta « la madre di Giacomo Minore e di Giuseppe », un’altra volta solo « la madre di Giuseppe », la terza volta soltanto « la madre di Giacomo ». Anche Giuda nella sua lettera si presenta come « fratello di Giacomo » e in rapporti di parentela con lui è messo pure nei cataloghi degli Apostoli di Luca. Questi medesimi nomi: Giacomo, Giuda e Giuseppe, ai quali s’unisce ancora quello di Simone, s’incontrano come fratelli già nel Vangelo, dove compaiono specialmente come « fratelli di Gesù »; vi leggiamo infatti che i Nazzareni, sorpresi dinanzi alle grandi opere di Gesù, si domandano indignati e stupiti: « Donde può Egli aver tutto questo… Non è il falegname, il figlio di Maria e il fratello di Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone? ». A questo punto sorge spontanea la questione circa il senso dell’espressione «fratelli di Gesù » nel testo citato e anche in altri del Vangelo; dobbiamo pure toccarne una seconda: se Giacomo, fratello di Gesù, sia la stessa persona dell’Apostolo Giacomo Minore, il figlio di Alfeo, questione per la quale s’è versato tanto inchiostro. Noi sappiamo già dalla fede che, quando nel Vangelo si fa ripetutamente menzione di « fratelli di Gesù », questi non si devono intendere fratelli e sorelle corporali di Lui, ma suoi parenti in grado più lontano. Nel Vangelo stesso infatti è ben manifesto il sublime proposito di Maria « di non conoscere uomo »; ora questa frase fu difesa dalla Chiesa, sin dalle epoche più remote, come una perla preziosa a prova della perpetua verginità della Madonna; d’altra parte l’espressione « fratelli di Gesù » non ci costringe in nessun modo a ritenerli fratelli e sorelle corporali, poiché il termine « fratello » nella lingua dell’antico e nuovo Oriente è ambiguo, come, ad esempio, presso di noi il vocabolo « cugino »; quel termine designa non solo fratelli e sorelle in senso stretto, ma anche in senso largo, come nipote, cognato, cugino e talora indica persino rapporti di amicizia e comunanza fra popoli; si può quindi concludere a fratelli corporali solo quando siano notificati anche i nomi dei genitori. Si noti inoltre che i « fratelli di Gesù » non sono mai chiamati figli di Maria, i Nazzareni invece dicono, sottolineando, « Gesù, il figlio di Maria » ed in quello stesso testo, dove enumerano i suoi « fratelli ». Nella ipotesi di veri fratelli, sarebbe ancor più inesplicabile la preghiera, che il Signore rivolse dalla croce a Giovanni: « Ecco tua madre! » e il conforto dato a Maria: « Donna, ecco tuo figlio! »; non disse: un figlio!, ma: tuo figlio! Se la Vergine avesse avuto altri figli, il Signore non avrebbe affidata a Giovanni la cura di sua Madre, che rimaneva sola; gli altri figli avrebbero dovuto prendersi cura di lei in forza della Legge. E in fine possiamo provare che l’espressione « fratello di Gesù » non solo può significare « cugino », ma deve avere questo senso, arguendo proprio dal fratello di Gesù Giacomo; con una probabilità infatti, che si può dire certezza, si dimostra ch’egli si identifica con Giacomo l’Apostolo. Nel capitolo d’introduzione agli Atti degli Apostoli Luca enumera solo due Giacomo, non tre: Giacomo, il figlio di Zebedeo, e Giacomo, il figlio di Alfeo; nel capitolo decimosecondo riferisce la morte di Giacomo Maggiore; in quelli che seguono scrive ancora d’un Giacomo, ma senza alcuna aggiunta, che lo distingua da altri dello stesso nome; eppure balza evidente dai testi che doveva trattarsi d’una personalità molto stimata, d’una autorità anzi posta a guida della chiesa di Gerusalemme; se in essa Luca avesse scorto un terzo Giacomo, fratello del Signore, diverso dall’Apostolo Giacomo Minore, ce lo avrebbe fatto capire certamente in qualche modo, lui, l’Evangelista della precisione. Alla stessa conclusione ci conduce un’espressione della lettera ai Galati. Paolo scrive della sua prima visita, dopo la conversione, a Gerusalemme, ove rimase presso l’Apostolo Pietro, e poi continua: « Ma non vidi nessun altro Apostolo, a eccezione — in greco: ei’ mé — di Giacomo, il fratello del Signore »; Paolo, dunque, annovera il fratello del Signore Giacomo fra gli Apostoli; l’interpretazione ovvia, evidentissima del testo è questa, ogni altra sarebbe artificiosa, e tanto più, perché a Paolo, col testo addotto, importava dimostrare alla comunità di Galazia, che non aveva in lui troppa fiducia, la sua comunione con gli Apostoli più anziani. Infine, non si potrebbe in nessun modo spiegare il posto di direzione, che nella Chiesa apostolica occupava il fratello del Signore Giacomo, se egli non fosse stato uno dei Dodici; gli autori stessi, che non vogliono riconoscere l’identificazione del fratello del Signore con l’Apostolo, sono costretti ad ammettere che il primo, « anche se, dopo la morte del figlio di Zebedeo, non fu accolto dagli altri Apostoli nel loro Collegio, tenne tuttavia un posto uguale all’apostolico ». Anche secondo il « Vangelo degli Ebrei », che risale al primo secolo, Giacomo, fratello del Signore, partecipa all’ultima Cena; è considerato quindi come uno dei Dodici. Provata così la identificazione del fratello del Signore con l’Apostolo dello stesso nome, resta pure dimostrato inequivocabilmente che egli era figlio di Alfeo e di Maria, sorella della Madre di Gesù; è dunque la Bibbia stessa a provarci che Giacomo, il « fratello » di Gesù, non era figlio della Madre di Dio, Maria, e neppure un figlio di Giuseppe da un precedente matrimonio, come vorrebbe una leggenda, che si conserva nel così detto « Protoevangelo dell’apostolo Giacomo »; era invece figlio di parenti loro, della « sorella » cioè della Madre di Gesù e del fratello del padre nutrizio Giuseppe, La Chiesa greca fa distinzione ancor oggi fra il fratello di Gesù e l’Apostolo Giacomo, celebrando la festa del primo il 25 ottobre e quella dell’Apostolo il 9 dello stesso mese; le testimonianze però della tradizione, cui essa s’appoggia, non hanno valore, mentre la sentenza contraria è sostenuta già da Clemente Alessandrino, Origene e specialmente da Girolamo. Nel corso del Vangelo « i fratelli di Gesù » prendono spesso, nei suoi riguardi, un proprio atteggiamento, ch’è in contrasto con quello degli altri Apostoli. Ecco, per esempio, come scrive Marco: « Vennero sua Madre e i suoi fratelli. Si fermarono fuori e Lo fecero chiamare… Egli rispose: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Guardò allora a coloro, che sedevano a Lui dintorno e disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Poiché chi fa la volontà di Dio, questi Mi è fratello, sorella e madre ». Anche più tardi, nel cuore della vita pubblica. Giovanni può riferire ancora: « Neppure i suoi fratelli credevano in Lui ». Non dimentichiamo però di avvertire qui che Gesù contava certamente altri « fratelli », oltre a quei due o tre, che aveva fatti Apostoli, perché, come abbiamo visto, « fratello » poteva essere detto ogni parente anche lontano; e nondimeno il Sacro Testo non vieta la supposizione che persino quelli dei suoi « fratelli », che aveva elevati alla sublimità dell’apostolato, incontrassero per la loro fede in Cristo particolari difficoltà. Come suoi cugini infatti, erano stati gli amici quotidiani della sua giovinezza, i compagni dei suoi giochi e dei suoi canti, se non erano seduti anche alla stessa mensa e avevano riposato nel medesimo giaciglio; secondo un’antica tradizione, la mamma loro Maria, la moglie di Cleofa, dopo la morte prematura di suo marito, s’era trasferita presso sua sorella, la Madre di Gesù, nella casa di Nazareth; erano dunque vissuti in troppo intimi contatti umani col loro Cugino, nel quale mai avevano avvertito, sebbene fosse educato e raccolto, nulla di straordinario. Quando furono con Lui nella vita pubblica, si rallegrarono della sua fortuna coll’ingenuo orgoglio d’una parentela povera, che aveva generato un grande; ma quanto a intelligenza della missione spirituale e anzi divina di Gesù, essi, e proprio perché « fratelli » di Lui, ebbero da percorrere un cammino più lungo che non gli altri Apostoli. In tutti e quattro i cataloghi essi stanno agli ultimi posti; ve li avrà confinati la delicatezza del Signore; ma è possibile che per questa assegnazione all’ultimo gruppo abbia contribuito pure la fede lenta e faticosa di questi suoi cugini; Pietro, il primo nella serie, fu primo anche nella fede. Nella sua prima lettera ai Corinti Paolo menziona una particolare apparizione, che il Signore nel tempo pasquale concesse a Giacomo; il «Vangelo degli Ebrei » dice persino d’un giuramento, che Giacomo fece dopo l’ultima Cena, di non mangiare più pane finché non avesse visto Gesù risorto; ebbe dunque bisogno d’uno speciale soccorso per rassodarsi nella fede, come Tommaso o anche più di lui, giacché non fu assente, come questi, quando il Signore accondiscese a manifestarsi a tutti gli Apostoli? Ci è lecito pensare che Giacomo giungesse alla felicità d’una fede completa in Gesù, anche come « Signore e Dio », soltanto in virtù dell’accennata apparizione, quando fu a quattr’occhi col suo « Fratello »; una relazione puramente esterna con Gesù, fosse pure fisica, non basta a creare dei veri ed intimi rapporti con Lui, talora anzi è piuttosto d’impedimento che di aiuto. Il sangue è meno — minor! — della grazia; solo chi si lega a Gesù con la fede e con l’amore Gli è veramente fratello, sorella e persino madre, come Maria, che era congiunta a Lui e per sangue e per amore.

VESCOVO DI GERUSALEMME

Giacomo Minore è paragonabile a una stella ascendente, che comincia a brillare solo quando le stelle precedenti sono tramontate. Nel Vangelo non compare mai in scena, nemmeno con una sola parola; altrettanto si dica dei primi dieci anni negli Atti degli Apostoli; sta improvvisamente nella luce della storia solo dopo l’uccisione di Giacomo Maggiore nel 42 e la fuga di Pietro da Gerusalemme verso « un altro luogo »; questi, nella notte agitata della sua liberazione, lasciò nella casa di Marco l’ordine: « Annunziate questo a Giacomo e agli altri fratelli ». Già questo particolare accento su Giacomo fa concludere a una sua eminente posizione nella chiesa madre di Gerusalemme; come una « colonna » della Chiesa lo ricorda anche Paolo. Lo scrittore di storia ecclesiastica Eusebio afferma espressamente che Giacomo fu il primo Vescovo della Città Santa, e questo fatto appare chiaramente anche negli Atti degli Apostoli; tutte le volte infatti che Paolo riferisce dei suoi viaggi in Gerusalemme, menziona anche Giacomo e una volta anzi come l’unico Apostolo presente, e sempre come reggente la Chiesa della capitale; ora questa presidenza era sicuramente il posto più importante della Chiesa apostolica, poiché Gerusalemme era davvero la città santa, nella quale aveva faticato e sofferto il Signore stesso, in essa era risuscitato e da essa era asceso al Cielo; era dunque il cuore del giovane Cristianesimo. Era riservato a Gerusalemme quell’onore, che, a causa della sua colpa, più tardi passò a Roma; stava scritto nell’antica profezia: « Da Gerusalemme uscirà la Legge e la parola del Signore »; e questa divina elezione e il regno di Dio indugiavano a trasferirsi dalla prediletta Gerusalemme ad altra terra anche al tempo di Giacomo, nonostante la città deicida avesse gridato il suo esecrando: « Tolle, tolle — sia tolto di mezzo! ». Il fatto, dunque, che il Signore stesso, secondo la sentenza del Grisostomo, o i compagni d’apostolato, secondo quella di Girolamo, abbiano affidato il governo di questa Chiesa regale al nostro Apostolo e non a Pietro o a Giovanni o ad Andrea, sta a dimostrare la grande considerazione, in cui egli era tenuto. La sua parentela col Signore e ancor più il suo zelo straordinario anche per la Legge antica lo fecero certo apparire ai suoi colleghi come l’elemento più adatto per coltivare, sul suolo pietroso dello stesso Giudaismo, il meraviglioso albero del Cristianesimo. Nella « Dottrina degli Apostoli », antico scritto sirìaco, la consacrazione cristiana della regione da parte di Giacomo è descritta in termini raramente così solenni: « Gerusalemme e tutti i dintorni della Palestina, i territori dei Samaritani e dei Filistei, la terra dell’Arabia e della Fenicia e il popolo di Cesarea ricevettero la consacrazione del sacerdozio dall’Apostolo Giacomo, il legislatore e la guida della Chiesa apostolica, fondata a Gerusalemme, sul Sion ». La dignità però della sede episcopale di Gerusalemme non ci deve far dimenticare il peso, che s’accompagnava ad essa; il posto di Giacomo era importantissimo, ma anche il più difficile in tutta la Chiesa apostolica. A Gerusalemme vivevano ancora gli uccisori del Signore e il loro odio continuava ad ardere né accennava a scemare; il fanatismo religioso, ch’è il più accanito fra tutti, li spinse a perseguitare anche gli Apostoli, ch’essi ritenevano traditori della fede avita, e tanto solo per amore d’un sospeso alla croce; solo il calmo e saggio consiglio di Gamaliele, aveva stornato dagli Apostoli la sorte del loro Maestro; frattanto la proibizione di predicare, che il Sinedrio aveva loro intimata, non era mai stata revocata e ad ogni ora poteva legittimare una nuova persecuzione sanguinosa. Stefano, il nobile diacono e il primo martire della Chiesa primitiva, fu per la comunità di Gerusalemme come un santo avviso, che ammoniva di tenersi preparati anche alla morte per amore di Cristo; la sua lapidazione fu di fatto il segnale « per una grande persecuzione della Chiesa in Gerusalemme » che, condotta da Saulo furibondo, arrecò a quella primitiva comunità tanto terrore e tanto dolore. Quanto l’ambiente fosse mal disposto nei riguardi della comunità cristiana, anche dieci anni dopo la risurrezione del Signore, lo prova pure la persecuzione mossa dal re Erode Agrippa I: « Per piacere ai Giudei » aveva fatto giustiziare Giacomo Maggiore e aveva decretata la medesima sorte per Pietro. Giacomo dunque, nella sua qualità di Vescovo di Gerusalemme, copriva un posto veramente penoso; soggiornava, come Daniele, nella fossa dei leoni, che lo potevano aggredire ogni momento. Leggiamo nel Martirio coptico dell’Apostolo ch’egli, al momento della spartizione del mondo, aveva chiesto i territori dei pagani; è una leggenda; è possibile però che, immerso in riflessioni su quella città, sulla quale il Signore aveva pianto, abbia spinto spesso lo sguardo verso le regioni lontane, dove i suoi compagni d’apostolato giravano riponendo nei granai del Padre messi più abbondanti di lui, fermo a Gerusalemme, in quella città del mattino e della… sera. – E tuttavia anche il suo compito fu sublime, il più rispettabile anzi di tutti gli altri, ché egli poté portare a Cristo le reliquie del popolo eletto, al quale Iddio aveva giurato le sue promesse. E quanto sia stato il suo successo, lo prova la parola semplice, che rivolse a Paolo: « Tu vedi, o fratello, quante migliaia di Giudei hanno creduto ». Ci chiediamo allora in qual modo poté raccogliere e riporre per Cristo una messe così consolante in quel campo, ch’era stato tanto gravemente battuto dalla grandine. Prescindiamo dalla grazia, che s’era riservata anche fra gli increduli Israeliti « sette mila uomini, che non piegarono il loro ginocchio dinanzi a Baal »; quelle sante reliquie furono conquistate da Giacomo stesso, dalla sua pietà e dal suo rispetto per il sentimento giudaico, che abbracciava anche il modo esterno di condursi. Tutte le relazioni antiche mettono in risalto il santo tenore di vita di Giacomo. «Dai tempi del Signore sino ai nostri giorni », scrive Egesippo nel quinto libro dei suoi « Memorabili », « egli fu detto da tutti “il Giusto”. Egli fu santo sin dal seno materno. Non bevette vino o altra bevanda inebriante né mangiò mai nulla di vivo. Sul suo capo non passarono le forbici, non si unse con olio né frequentò i pubblici bagni. A lui solo era concesso di entrare nel Santuario (del Tempio). Non indossò neppure panni di lana, bensì di lino. Per il lungo tempo passato ginocchioni, la pelle delle sue ginocchia divenne dura come quella d’un cammello. In considerazione di questa sua ricchezza di santità fu chiamato “il Giusto e il baluardo del popolo” ». Questa condotta ascetica — Giacomo fu certamente nazireo per tutta la vita, legato quindi a certi voti di astinenza —, che oltrepassava di gran lunga anche quella dei Farisei, dovette lasciare appunto nel popolo giudaico una forte impressione. – Ai tempi di Girolamo sopravviveva ancora (420) la tradizione che le folle dei Giudei si pigiassero intorno a Giacomo per toccare anche solo l’orlo della sua veste. Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica adduce un passo dello storico ebreo Giuseppe Flavio, secondo il quale l’Apostolo sarebbe asceso, nell’opinione dei Giudei, a tale fama di santità, che essi nella distruzione di Gerusalemme ravvisarono una punizione di Dio per il supplizio, che pochi anni prima avevano inflitto a lui. Per quel popolo, così tenacemente attaccato ai suoi usi religiosi da giungere sino al ripudio del proprio Messia piuttosto che rinnegarli, non ci voleva un Apostolo da meno del nostro. In lui i Giudei videro, come in un modello vivente, che l’adesione a Cristo non era un tradimento, ma il compimento della fede dei padri. Nessuno stava in ginocchio nel Tempio più a lungo di Giacomo, che vi passava il giorno e la notte, come la profetessa Anna; nessuno era più di lui meticoloso in fatto di fedeltà alla Legge; la sua venerazione per l’Antico Patto si rivela ancor oggi nella sua lettera, che molti, sebbene a torto, dicono più del Vecchio che del Nuovo Testamento; rinvia infatti continuamente agli scritti e alla storia del popolo eletto. Egli quindi, così fedele alla Legge e rigido conservatore, fu come un ponte della Provvidenza e un’ultima grazia per Gerusalemme: riunendo in se stesso i due Testamenti, come un secondo Mosè, ebbe il compito di condurre il popolo dal Vecchio Testamento alla terra promessa del Nuovo; in questo sta il significato e la grandiosità dell’opera sua. Non dobbiamo nasconderci certo che questo accostamento di Vecchio e Nuovo Testamento, di Sinagoga e Chiesa in Giacomo doveva mettere sull’attenti: non ci sarà pericolo, per questa via, che il Vecchio soffochi il Nuovo Testamento? O riuscirà la Chiesa a svincolarsi da quell’attacco al Tempio? La storia delle prime sette cristiane, quali quella degli Ebioniti e dei Quartodecimani, sta a provare quanto poteva essere pericoloso l’affetto dei giudeocristiani per i loro usi religiosi. « Con vino nuovo si riempiono otri nuovi », e la Chiesa appartiene al mondo, e non solo alla sua culla nell’angolo della Palestina. Ma a questo scopo la Provvidenza di Dio si scelse un altro uomo, Paolo; egli è il padre degli etnicocristiani, come Giacomo è la guida dei giudeocristiani; Giacomo ebbe affidata Gerusalemme, Paolo Roma. Son per questo i due degli avversari.., o piuttosto dei fratelli, con diversi compiti commessi loro dal medesimo Signore?

AVVERSARIO DI PAOLO?

Ritenere Giacomo come un « giudeocristiano d’animo angusto », cui Paolo sia stato l’uomo « inviso », contradice assolutamente ai documenti biblici. Per quanto egli personalmente abbia potuto osservare la Legge mosaica sino all’ultimo apice, tenne tuttavia ben saldo il principio cristiano, che la salvezza viene da Gesù e non da Mosè, e considerò Paolo come « fratello »; e questo in lui era eroismo, perché appunto su quel gregge di Gerusalemme, che egli doveva pascere, era un giorno piombato quel giovane lupo e « aveva trascinato via uomini e donne, e li aveva gettati in carcere». Non vogliamo però negare che fra Giacomo e Paolo esistessero delle tensioni, non per colpa personale, ma per la diversità dei loro compiti. Negli Atti degli Apostoli li incontriamo in rapporti fra loro tre volte. La prima volta nel Concilio apostolico, che doveva definire la questione più grave della storia della Chiesa: se anche gli etnicocristiani fossero obbligati a osservare la Legge mosaica. Pietro aveva già fatto uso della sua pienezza di potere per sciogliere — non solo per legare! — e aveva dichiarato: « Perché volete tentare Iddio e porre sulle spalle ai discepoli un giogo, che nè i nostri padri né noi abbiamo potuto portare? No, noi crediamo di ottenere la salvezza per mezzo della grazia del Signore Gesù, come anche loro ». In quel momento gli occhi di tutti si rivolsero a Giacomo; nell’attesa di sentire a quale concezione avrebbe dato il suo voto favorevole quell’Apostolo stimato e conservatore più di tutti, le due parti rattennero il respiro; la giudaica sperava, la favorevole agli etnici temeva. E Giacomo si alzò e parlò: «Fratelli, ascoltatemi! Simone ha esposto come Iddio abbia mosso il primo passo per conquistare al suo Nome un popolo tra i pagani. S’accordano con questo le parole dei Profeti. Sta scritto infatti: “Poi edificherò di nuovo la tenda rovinata di David, restaurerò le sue macerie, la erigerò nuovamente. Allora gli altri uomini cercheranno il Signore, tutti i popoli, sui quali è invocato il mio Nome. Così dice il Signore, che questo opera “. Questo è l’eterno decreto. Per questo, secondo il mio parere, non si deve addossare ai pagani, che si convertono a Dio, nessun carico, ma però si deve esigere da loro che si astengano dalla contaminazione per mezzo degli idoli, dalla fornicazione, dal soffocato e dal sangue. Perchè Mosè da tempo immemorabile ha i suoi predicatori in ogni città; egli è letto ogni sabbato nelle sinagoghe » Queste parole, le prime che ascoltiamo dalla bocca di Giacomo, furono di grande importanza: « Non si deve imporre ai pagani nessun peso ulteriore! ». Rigido con se stesso, egli era abbastanza generoso per aprire ai gentili la porta della libertà dei figli di Dio. Anche cinque o sei anni dopo, ricordando quell’adunata apostolica, Paolo scriverà con evidente sollievo, nella lettera ai Galati : « Giacomo, Kefas e Giovanni, ch’erano ritenuti come colonne, porsero a me e a Barnaba la mano dell’alleanza »; ove Giacomo lo ricorda al primo posto, prima ancora di Pietro, perché egli aveva temuto soprattutto il voto di Giacomo; il sì di quest’ultimo nella controversia aveva doppio peso. Giacomo e Paolo si diedero la mano! Sarebbero state incalcolabili le tristi conseguenze per la Chiesa di Cristo, se in quella circostanza i due Apostoli non fossero venuti a un accordo; ma l’amore di Cristo può far convergere nell’unità anche un Giacomo e un Paolo. Osservando più attentamente la dichiarazione del nostro Apostolo, ci accorgiamo che essa non gli dovette riuscire facile; il suo cuore propendeva per il no; ma fu così leale, che in una questione definita in senso contrario da Dio stesso, dai Profeti e dall’esperienza, votò contro se stesso; non poté certo far a meno di limitare il suo voto con quattro clausole, che per questo son dette « clausole di Giacomo>>; con esse voleva rimuovere gli urti più gravi, che i contatti con gli etnicocristiani potevano provocare nei giudeocristiani; ed esse, nell’interesse della comunità cristiana, furono accolte nel decreto apostolico e ne fu segnalata la motivazione agli etnicocristiani: « Se vi guardate da queste cose, farete bene» in ordine al fraterno accordo con i giudeocristiani. Una o due delle quattro disposizioni, quella per esempio di starsene lontani dai conviti sacrificali dei gentili e l’astinenza da ogni relazione sessuale illegittima, come era in uso presso i pagani, si capiva facilmente che doveva valere anche per gli etnicocristiani; non era invece per loro evidente ed era meno facile a tradursi in atto l’esigenza che si mangiasse sempre carne monda e la proibizione del sangue, la cui commestione dal sentimento semitico era ritenuta detestabile ormai da millenni. Sarebbe tornato di gradimento se Giacomo, nel suo discorso, avesse avuto anche solo una paroletta di riconoscimento per l’opera di Paolo, che sedeva in quella nobile assemblea ancora impolverato e stanco, si può dire, per il suo primo viaggio apostolico; ma egli si riferì solo a Simone Pietro, sebbene immediatamente prima del suo discorso «Barnaba e Paolo raccontarono quali grandi segni e miracoli Iddio aveva operato per mezzo di loro fra i gentili » . Giacomo e Paolo sono ricordati insieme una seconda volta nella lettera ai Galati, in occasione del conflitto di Antiochia, del quale abbiamo scritto più sopra . Paolo, eccitato, rimprovera a Pietro la sua condotta inconseguente: « Perchè prima che fossero giunti alcuni della compagnia di Giacomo, egli (Pietro) frequentava la mensa in comune con i pagani; dopo il loro arrivo invece si ritirò e si separò per paura dei circoncisi. Con lui simularono anche gli altri giudei; persino Barnaba si lasciò trascinare dal loro infingimento ». « Della compagnia di Giacomo » ! Questo testo non ci dà il diritto di fare Giacomo responsabile dei raggiri dei giudaizzanti nella chiesa di Antiochia, con i quali tendevano a distogliere Pietro dalla libertà e semplicità del Vangelo per ricondurlo alla ristrettezza della Legge; Giacomo pensava rettamente e lealmente; nondimeno la parola indignata di Paolo accenna a lui come a quella persona, cui i giudaizzanti, anche se a torto, si appellavano di continuo come a un teste ufficiale; rimanendo egli personalmente così fermo nella rigida osservanza della Legge, dava un esempio, che nelle mani degli avversari dell’Apostolo delle genti diveniva un’arma potente. In realtà egli non si sarebbe mai concessa la libertà di Pietro, tanto meno quella di Paolo, né mai si sarebbe seduto alla mensa con gli etnicocristiani per mangiare uccelletti arrostiti o, peggio, carne porcina; si atteneva meticolosamente alle prescrizioni, che Mosè stabilisce nel capitolo undecimo del Levitico; e non è neppure impossibile che ai giudeocristiani egli desse il consiglio di non lasciarsi sviare dall’osservanza dei costumi paterni, beneficiando delle libertà concesse agli etnicocristiani. Giacomo fu giudeo per i Giudei, ma non fu pure gentile con i gentili — minor! —, come lo fu invece Paolo, di lui più aperto e sciolto. In questo senso certo, ma solo in questo ‘senso è da Paolo messo in relazione col conflitto di Antiochia. – Paolo e Giacomo stanno di fronte l’uno all’altro per l’ultima volta nel capitolo ventunesimo degli Atti degli Apostoli. Paolo, sempre magnanimo, portò a Giacomo la grande colletta raccolta fra le comunità etnicocristiane per soccorrere la Chiesa madre di Gerusalemme. Di questa visita, ch’è l’ultima fatta dall’Apostolo delle genti alla Città Santa, Luca poté scrivere la consolante relazione: « Dopo il nostro arrivo a Gerusalemme, i fratelli ci accolsero con gioia. Il giorno seguente Paolo venne con noi da Giacomo, presso il quale si radunarono tutti gli Anziani. Egli li salutò e poi riferì loro, sin nei particolari, quello che Iddio aveva operato per mezzo del suo lavoro fra i pagani. Quand’essi ebbero appreso tutto questo, lodarono Iddio. Però gli dissero… » Però! Di nuovo dunque un «però », di nuovo un’esitazione e una limitazione e… una richiesta, certamente, diciamolo pure, con ottima e fraterna intenzione. Si trattava di questo: nel mondo giudaico s’era sparsa la voce che « tu insegni a tutti i Giudei, che si trovano fra i gentili, l’apostasia da Mosè ed esigi che non facciano circoncidere i loro figli e che non vivano più in nessun modo secondo gli usi legali »; era una esagerata e diffamatoria generalizzazione. Anche Paolo infatti aveva avuto dei riguardi per i Giudei, tanto che aveva fatto circoncidere persino il suo discepolo Timoteo; ma non poteva dissimulare, per la sua concezione fondamentale, che la Legge non era necessaria alla salvezza dei giudeocristiani più di quello che lo fosse per gli etnicocristiani; ora questa sua posizione aveva provocato nell’animo giudaico tale tensione contro di lui, che c’era da temere per la sua vita, specialmente poi in una festività così solenne come la Pentecoste, che riuniva in Gerusalemme giudei di tutto il mondo. Fu questa sollecitudine per la sua vita che spinse a fargli una proposta, la quale, se non veniva da Giacomo, fu però da lui appoggiata: « Fa quello che ti proponiamo: quattro uomini fra di noi si sono obbligati con un voto. Unisciti a loro, purificati con loro e sostieni per loro le spese, perché possano farsi tagliare i capelli. Tutti allora comprenderanno che non v’è nulla di vero nelle voci, che sul tuo conto si sono diffuse, che tu piuttosto osservi fedelmente la Legge ». La proposta era una vera pretesa materialmente e ancor più moralmente. Per sé e per gli individui, che si volevano accollare a lui, Paolo doveva offrire in sacrificio un agnello, una pecora e un montone, cui inoltre s’aggiungevano i corrispondenti sacrifici incruenti; solo dopo di questi era sciolto il voto contratto del nazireato, la cui conclusione ufficiale consisteva nel taglio dei capelli. Ma per Paolo dovette costare molto di più tutta quella messa in scena: egli non era contrario al voto in sé, ché per sua libera determinazione s’era fatto nazireo già; ma nelle circostanze del momento un simile modo di agire significava confessare un torto non commesso, una vittoria dei suoi nemici e un funesto turbamento delle sue comunità etnicocristiane. Può essere che Giacomo districasse il collega da questi scrupoli con benevoli parole; lui pure nel Concilio apostolico aveva detto un sì doloroso a favore degli etnicocristiani; non avrebbe dovuto anche Paolo sostenere un sacrificio per i giudeocristiani? La carità di Cristo e la fede nella sua unica Chiesa vinse di nuovo; « Paolo si unì agli uomini, si purificò con loro e il giorno dopo andò nel Tempio. Ivi annunziò il termine del tempo del voto; poi fu offerto il sacrificio per ciascuno di loro ». Quel consiglio buono, col quale Giacomo aveva tentato di scongiurare il pericolo, che sovrastava alla vita di Paolo, fu per questi fatale; perché proprio al momento di sciogliere il voto, egli fu preso nel Tempio e quasi quasi veniva ucciso. Dovrà dunque ringraziar di questo Giacomo? Esattamente! Giacomo appianò a Paolo la via… di Roma, poiché quella prigionia, che durò due anni, ebbe termine col viaggio di Paolo a Roma, che egli tanto aveva desiderato di vedere. Giacomo, precisamente lui apre a Paolo la via di Roma! Gerusalemme, la culla, trasmette il Cristianesimo all’altra sponda, al vasto mondo. Ma anche Paolo fu fatale per Giacomo: Eusebio riferisce che i Giudei, quando si videro delusi in forza dell’appello di Paolo all’imperatore, presero le vendette su Giacomo, uccidendolo in cambio di Paolo; così questi giunse al martirio per l’opera di Giacomo e Giacomo per quella di Paolo.

LA LETTERA DI GIACOMO

La lettera di Giacomo è la prima delle sette lettere, che son dette « cattoliche ». Esse sono chiamate « cattoliche = universali » per distinguerle da quelle di Paolo, perché non sono, come le paoline, dirette a comunità particolari o a individui, ma, almeno nella loro maggioranza, a una comunità più estesa, in forma di encicliche. Due sono di Pietro, tre di Giovanni, una di Giacomo e una di Giuda Taddeo. La loro successione nelle edizioni odierne della Bibbia si attiene all’ordine degli Apostoli, che segue Paolo nel testo addotto della lettera ai Galati: Giacomo, Kefas e Giovanni “, ai quali è da aggiungere ancora Giuda. Quest’ordine, se si eccettua la lettera di Giuda, corrisponde pure all’epoca della loro composizione. La lettera di Giacomo, la prima delle sette lettere cattoliche, è anche il primo scritto del Nuovo Testamento; risale a un’epoca anteriore allo stesso Concilio apostolico, forse all’anno 48, perché non vi s’incontrano ancora allusioni alla grave questione, che la comunità cristiana avrebbe presto sollevata: se la Legge mosaica avesse ancora valore; la sua antichità risulta pure dalla sua probabile utilizzazione da parte di Pietro; si confronti, ad esempio, Giacomo I, 3 con I Pietro I, 7, o Giacomo IV, 6 con I Pietro V, 6. L’autore presenta se stesso come « Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo »; non si dice né « apostolo » nè « fratello del Signore »; ma appunto quest’umile passar sotto silenzio titoli così eccellenti depone per la genuinità della lettera; un altro Giacomo qualsiasi infatti, di nessuna importanza, si sarebbe attribuite quelle distinzioni per sorreggere una falsificazione; « il vero Giacomo » invece — questa ben nota espressione veramente dovette essere coniata per Giacomo Maggiore, nella lite per l’autenticità delle sue reliquie — non aveva bisogno di ostentare i suoi privilegi; bastava il suo nome a conciliargli piena autorità. E l’autorità egli la rivendica a sé stesso: in una lettera non lunga, che non conta più di 108 versi, s’incontrano 54 ordini, così che a ogni secondo verso è avanzata una richiesta energica, seria, non proposti solo degli avvisi avvolti in guanti di seta, e i destinatari di quegli imperativi sono anche ricchi insociali e ingiusti. « Orsù, o ricchi, piangete e gemete per la miseria, che verrà su di voi! La vostra ricchezza è putrefatta, le vostre vesti sono state rose dalla tignuola. Il vostro oro e argento si sono arrugginiti… Ecco, la mercede, che voi avete defraudata agli operai, che han mietuto i vostri campi, grida e il grido dei mietitori è penetrato sino all’orecchio del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e nella voluttà vi siete ben nutriti nel giorno dell’occisione. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi resiste >>. Queste espressioni tanto energiche, che rivelano di nuovo il contadino, potevano ben essere gridate da Giacomo nel suo e… nel nostro tempo, mentre lui stesso era dinanzi al popolo un modello vivente d’ogni giustizia e ascetica sobrietà. La lettera è indirizzata alle « dodici tribù nella diaspora» . Sotto questo termine s’intendono i giudeocristiani nella « dispersione », che vivevano cioè fuori della Terra Santa, quelli anzitutto della Fenicia e della Siria. La pastorale sollecitudine del Vescovo di Gerusalemme non si limitava esclusivamente al gregge custodito sotto i suoi occhi nella prima comunità, ma si estendeva anche a tutti quelli, che, essendo cristiani delle « dodici tribù », si trasferivano fra i pericoli delle regioni lontane. Al tempo dell’Apostolo i giudeocristiani non versavano in quelle tristi condizioni,nnelle quali vennero a trovarsi quindici anni più tardi, quando Paolo fece loro pervenire con la lettera agli « Ebrei » la sua parola di esortazione e di conforto, affinché rimanessero fermi in Cristo; tuttavia quei neocredenti stavano già nella crisi dell’inizio; il primo fervore era ridotto a una smorta fiamma; un tenore di vita inconseguente e le tribolazioni dall’esterno avevano fruttato l’indebolimento dell’uomo cristiano. Giacomo, con la sua lettera, volle ricondurre i compagni di origine e di fede al primo zelo: « Stimate pura gioia, fratelli miei, se incappate nelle diverse prove. Sapete che la prova della vostra fede opera la pazienza; la pazienza poi perfezionerà un’opera, affinchè diveniate perfetti e irreprensibili e sotto nessun rispetto manchevoli». La lettera di Giacomo non presenta quella nota personale, che riscontriamo, ad esempio, nelle lettere di Paolo, e per questo s’è voluto giudicarla come una raccolta semplicemente di sue pie sentenze, che sarebbero state disposte l’una accanto all’altra, secondo un filo logico, sciolto però e variante con rapidità; Lutero ne biasimò anche la forma: « La lettera getta là disordinatamente una cosa sull’altra »; l’aveva già detta « epistola di paglia » per il contenuto, perchè diametralmente opposta alla sua dottrina sulla giustificazione operata dalla semplice fede, solo dunque per difficoltà personali e aprioristiche. La lettera è invece quanto mai pratica e plastica, non certo costruita con lo studio su di un leggio; affronta uno dopo l’altro i problemi della vita cristiana. Com’è al naturale e deliziosa la descrizione del diverso comportamento dinanzi ai poveri e ai ricchi! « Fratelli miei, tenete libera la. vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo della gloria da riguardi di persona! Se nella vostra adunanza entra un uomo con anello d’oro, con vestito lussuoso e subito dopo un povero con veste sudicia, e voi guardate a colui ch’è in abito sfarzoso e gli dite: “Tu sta comodo qui “, mentre al povero dite: “Tu sta là dritto “, oppure: “Siediti giù, sotto lo sgabello dei miei piedi “, non avete pronunciato dentro di voi un giudizio parziale? ». La lettera di Giacomo è specialmente di tanta attualità per il suo carattere spiccatamente sociale; si potrebbe chiamare la Magna Charta del quarto stato, il precedente biblico delle encicliche pontificie « Rerum Novarum » e « Quadragesimo Anno ». Resterà classico per tutti i tempi il testo sull’importanza e il dominio della lingua: « Chi non manca con le parole, è un uomo perfetto, capace di tenere in freno anche tutto il corpo… La lingua è un membro piccolo, ma si vanta di grandi cose… Con essa benediciamo il Signore e Padre, e con essa malediciamo gli uomini, che sono creati a immagine di Dio. Dalla stessa bocca esce benedizione e maledizione >>. La lettera di Giacomo offre una importante testimonianza biblica, che è poi anche l’unica, per il sacramento dell’Estrema Unzione: «V’è qualcuno fra di voi ammalato? Chiami a sè i presbiteri della Chiesa; questi preghino su di lui e lo ungano con olio nel Nome del Signore. La preghiera piena di fede sarà di salvezza all’ammalato e il Signore lo solleverà. E se egli ha in sè dei peccati, gli saranno rimessi ». L’obiettivo principale della lettera, che trapela da tutte le richieste, è un cristianesimo vivo e fattivo, in opposizione a un semplice cristianesimo di chiesa rammonito; questa nefasta separazione fra fede e vita, fra teoria religiosa e pratica religiosa non potrebbe essere condannata più energicamente di quanto l’ha fatto il nostro Apostolo: «Traducete la parola in fatti e non ascoltatela solo, altrimenti ingannate voi stessi… Pietà pura, immacolata dinanzi a Dio e Padre si ha quando si aiutano gli orfani e le vedove nelle loro necessità e ci si conserva puri da questo mondo… Che giova, fratelli miei, se uno dice che ha la fede, ma non ha opere? Può forse la fede renderlo felice?… Se la fede non ha opere è morta ». Ora però ci siamo imbattuti in un altro passo, nel quale Giacomo e Paolo sembrano nuovamente in conflitto fra di loro; e di fatto le parole ora addotte sono state rilevate come una contradizione e una smentita delle profonde concezioni intorno alla fede, al peccato e alla giustificazione, che Paolo va esponendo sopratuttonnella lettera ai Romani. E in realtà non scrive egli esattamente il contrario di quanto insegna Giacomo, quando dice: « Noi siamo persuasi che l’uomo è giustificato per mezzo della fede, indipendentemente dalle opere della Legge… Chi compie opere, a costui la mercede viene computata non a titolo di grazia, ma secondo il merito >>? Ma l’opposizione di Giacomo e Paolo è anche nelle loro lettere soltanto apparente; tutti e due fanno uso delle stesse parole: fede, opere, giustificazione, ma in un senso diverso; Paolo esalta la fede viva, Giacomo biasima la fede morta; Paolo valuta come nulle le opere della legge mosaica, Giacomo esige come necessarie le opere della vita cristiana; Paolo attribuisce alla grazia la prima chiamata alla giustificazione, Giacomo esorta alla cooperazione con la grazia perchè s’accresca la giustificazione. Quello che Paolo insegna con sublimi svolgimenti di pensiero, Giacomo nelle sue semplici proposizioni non lo nega affatto; e quello che scrive Giacomo lo sottoscrive anche Paolo, perchè anch’egli esige in ogni sua lettera le opere della vita cristiana. La dottrina dunque dei due Apostoli è la medesima, solo l’accento è collocato diversamente: Paolo accentua la grazia, Giacomo le opere. Questo spostamento d’accento era già dovuto alla diversità del compito: Giacomo doveva stimolare del Cristiani, ch’erano pigri nell’operare, Paolo invece doveva reprimere dei Cristiani orgogliosi delle opere; ma esso aveva certo una radice più profonda nella diversità soggettiva di Paolo e di Giacomo: il primo, nella luce abbagliante della sua conversione nei pressi di Damasco, aveva compreso in misura più luminosa di tutti gli altri l’impotenza dell’uomo e l’onnipotenza di Dio; era stato condotto a Cristo dalla grazia, non dalla Legge, e quest’esperienza religiosa continuò poi a vibrare in tutti i suoi scritti; Giacomo invece non conobbe questo brusco passaggio, egli andò a Cristo per la via dritta e piana, per lui « la Legge era stata pedagogo a Cristo»; non aveva dunque nessun motivo di opporre l’una all’altra, la Legge alla Grazia. Così nella sua lettera, ch’è l’unico scritto che ci sia pervenuto di lui, si riflette fedelmente la personalità dell’autore: la sua condizione nella lingua e nelle immagini, e la sua spiritualità nelle concezioni. Del resto Paolo nella prima lettera ai Corinti ha scritto delle parole, che lo mettono in pieno accordo con Giacomo nella dottrina: « Io sono quel che sono per la grazia di Dio; la sua grazia però, ch’è toccata a me, non è rimasta in me inefficace; io anzi ho lavorato più di tutti gli altri; ma non io, bensì la grazia di Dio con me ».

GRANDE NEL REGNO DEI CIELI

La lettera agli Ebrei, diretta da Paolo ai giudeocristiani verso l’anno 63, un anno dopo cioè la morte di Giacomo, mostra quanto fosse grave la situazione, nella quale era venuto a trovarsi il nostro Apostolo, come vescovo di Gerusalemme, negli ultimi suoi anni. I giudeocristiani erano minacciati dal grave pericolo di ricadere nuovamente nel giudaismo; nei Giudei s’era riacceso l’odio fanatico contro Cristo; guizzavano già i primi bagliori della guerra giudaica, vicina ormai a scatenarsi sul popolo, che su di sè e sopra i suoi figli aveva invocato il Sangue di Cristo. Giacomo osservava col cuore affranto il compiersi del destino della sua gente; spirava l’ultimo termine, perché il Giudaismo nei riguardi del Messia persisteva ancora tenacemente incaponito nell’atteggiamento assunto il Venerdì Santo: « Sia tolto di mezzo! ». Eppure quanto s’era adoperato — certamente più di tutti gli altri Apostoli — perché anche quel suo gregge trovasse la via a Cristo! Quanta pazienza e quale riguardo gli aveva prodigato per non ferirlo nei suoi sentimenti religiosi! Piuttosto che mancare di attenzione verso di esso aveva chiuso un occhio su penose tensioni nei rapporti col collega Paolo. Nondimeno anche lui fu raggiunto dalla sorte, che il Signore aveva vaticinata ai suoi Discepoli: « Vi si caccerà dalle sinagoghe. Anzi viene l’ora, nella quale chiunque vi uccide crede di rendere un servizio a Dio >>; anche Giacomo, proprio lui, anzi lui solo fra tutti gli Apostoli fu ucciso dal Giudei; e in lui, l’Apostolo e il fratello di Gesù, fu rigettato una volta ancora Cristo stesso, il giorno della sua morte fu il suggello definitivo del Venerdì Santo. – Possediamo due relazioni molto antiche intorno alla morte dell’Apostolo Giacomo, una dello storico ebreo Giuseppe Flavio e l’altra dello scrittore ecclesiastico Egesippo. Nella prima si riferisce: quando, dopo la morte del procuratore Festo, non vi fu per un certo tempo nessun luogotenente nel paese, il sommo sacerdote Anano II profittò di questo tempo di vacanza per perdere Giacomo, fratello di Gesù. Invitò lui e alcuni altri dinanzi al Sinedrio, li incolpò di infrazioni alla Legge, li fece condannare e lapidare. Era l’anno 61 o 62, trent’anni circa dopo l’Ascensione; Giacomo contava allora, secondo Epifanio, 96 anni. Egesippo amplifica questa relazione oggettiva dello storico con particolari, che in parte sono leggenda, in parte sono presi a prestito dal Vangelo e dagli Atti degli Apostoli “; secondo la sua relazione dunque i Farisei avrebbero preteso che Giacomo nella festa di Pasqua spiegasse al popolo dal pinnacolo del Tempio — ci ricordiamo della storia delle tentazioni di Gesù —, « quale fosse la porta di Gesù, il crocifisso », per poter così stornare i Giudei dalla fede in Lui qual Messia; Giacomo apparentemente avrebbe consentito, ma, giunto in alto, avrebbe proclamato Gesù quale Messia e giudice del mondo dinanzi a tutto il popolo; allora i maggiorenti giudei, inquieti e furenti per timore che la moltitudine potesse essere persuasa da quella predica, avrebbero precipitato Giacomo dal tetto del Tempio e, ormai mezzo morto, l’avrebbero coperto di pietre, mentre egli, come Stefano, pregava per i suoi uccisori. Quando un sacerdote dei Recabiti, commosso da quell’eroismo, volle respingere quei furibondi, gridando: « Smettete, che fate? Il Giusto prega persino per voi », un gualchieraio avrebbe afferrato il suo rulletto e avrebbe fracassato all’Apostolo il capo. Per questo, per simboleggiare la sua passione, l’arte rappresenta Giacomo Minore con una mazza o una stanga da gualchieraio. La sua salma fu sepolta accanto al Tempio, ove al tempo ancora di Egesippo era eretto il « suo cippo)) 67. Una notizia invece di Gregorio di Tours trasferisce il suo sepolcro sul Monte degli Olivi, dove sarebbe stato deposto con Zaccaria, il padre del Battista, e col vecchio Simeone “. Quando l’imperatore Giustino II (565-578) trasportò le ossa del fratello del Signore Giacomo nella chiesa di San Giacomo, costruita nuova a Costantinopoli, avrebbero trovato ivi il loro sepolcro anche Simeone e Zaccaria; veramente Girolamo, ch’era tanto pratico dei luoghi, non sapeva nulla al suo tempo d’una tomba di Giacomo sul Monte degli Olivi. Una tradizione posteriore la mostrava nella valle di Giosafat, in direzione sud-est del Tempio; la spelonca, scavata nella roccia e divisa in più camere sepolcrali, è indicata anche oggi come « sepolcro di Giacomo ». La Chiesa latina, sino dal secolo sesto, celebra la festa dell’ascetico Giacomo insieme con quella del freddo Filippo il giorno primo maggio, così pieno di poesia! Si spiega questa festa comune ai due Apostoli, sebbene non compaiano mai uniti né nella Sacra Scrittura né negli apocrifi, col fatto che Roma nel secolo sesto eresse ai due la basilica, che oggi veramente porta il titolo « degli Apostoli>> in generale; e poichè la sua consacrazione fu fatta il primo di maggio, questo giorno nel rito romano è consacrato al ricordo dei due Apostoli. Ci inchiniamo pensosi dinanzi alla veneranda spoglia dell’Apostolo Giacomo, che giace fracassato sulla piazza del Tempio, come un sacro vaso dell’ultima grazia, un martire insieme del Vecchio e del Nuovo Testamento. Fra dieci anni anche il Tempio sarà abbattuto e ridotto in frantumi in punizione della grazia respinta; il Vangelo invece prenderà il suo libero corso, senza « clausole >> e riguardi, in tutte le direzioni del mondo, verso tutti i popoli. La Provvidenza tanto buona volle risparmiare a Giacomo il dolore di vedere il tramonto di Gerusalemme e il tramonto del tempo antico; egli però, l’Apostolo del Giudaismo morente, sta dinanzi al nostro tempo e dinanzi.., alle nostre anime e santamente ci ammonisce e ci scongiura di cambiare il tramonto di Cristo, che minaccia anche noi, in una sua ascesa; « perchè, se Iddio non ha risparmiato i rami naturali (Israele), non risparmierà neppur te. Riconosci dunque la benignità e la severità di Dio. La severità verso i caduti, la benignità di Dio verso dite, supposto che tu perseveri nella benignità di Dio, altrimenti sarai tagliato via anche tu ». La missione di Giacomo, dell’Apostolo di un’epoca, che volgeva alla fine, fu meno grande — minor! — di quella del fratello e compagno suo Paolo, dell’Apostolo delle genti, che ascendevano alla grazia del Cristianesimo; non fu però meno.difficile, e Giacomo non la condusse a termine meno fedelmente. Anch’egli, « il Minore », è un grande nel regno dei Cieli.

NOVENA A SAN PASQUALE BAYLON

NOVENA A S. PASQUALE BAYLON (inizio 8 maggio, festa il 17 maggio)

m. il 17 mag. 1592, can. da Innoc. XII, 1672.

I. Ammirabile S. Pasquale, che nella umiltà della vostra condizion di guardiano di pecore, non peraltro vi appigliaste allo studio delle umane lettere che per meglio conoscere Iddio e riverir colla recita del piccolo Ufficio la sua SS. Madre, e poi faceste propria delizia il camminar sempre a piedi ignudi, anche fra i dirupi e le spine, il dormire incomodo o sulla terra, o sopra un tavolato, con un tronco per vostro guanciale, e il visitare quotidianamente la santa immagine di Maria, impetrate a noi tutti la grazia di viver sempre staccati da tutte le cose del mondo, di non ambire altra scienza che quella delle legge di Dio, di zelar sempre l’onore della sua SS. Madre, e di avanzarci mai sempre nella evangelica mortificazione, onde assicurarci quel regno che è divinamente promesso a tutti i poveri di spirito. Gloria...

II. Ammirabile S. Pasquale, che, entrato nell’ordine dei Minori, diveniste, sebbene ancor giovine, il modello dei più provetti adempiendo con ogni esattezza tutte le incombenze che vi vennero affidate, ora di portinajo, ora di cercatore, ora di refettoriere; e ad un’aria sempre dolce e mansueta, a una modestia affatto angelica, a uno spirito tutto eroico di penitenza aggiungeste una tenerezza tutta nuova verso dei poveri, a cui non ardiste mai di ricusar la limosina per timor di negarla a G. C. che vuol essere ne’ suoi poveri riconosciuto, ottenete a noi tutti la grazia di adempire con ogni esattezza tutti i doveri del nostro stato, di far sempre in ispirito d’obbedienza quanto ci potesse venire imposto da tutti i nostri maggiori, e di essere sempre cosi mansueti, così caritativi verso dei nostri fratelli specialmente se poveri, da meritarci quelle speciali benedizioni che sono promesse a tutti gli uomini misericordiosi. Gloria …

III. Ammirabile S. Pasquale, che, professando mai sempre divozione specialissima a Gesù Cristo sacramentato, aveste ancora il privilegio di contemplarlo visibile sotto le specie eucaristiche e di alzarvi per fino dalla vostra bara, e spalancare visibilmente i vostri occhi per adorare l’Ostia sacramentata nel Sacrificio che veniva offerto per vostro suffragio, per quelle ammirabili prerogative che voi aveste di penetrare il secreto dei cuori, di rivelare le cose future, di ricondurre sulla strada della salute le anime più sviate, e di restituire alla pristina sanità gli infermi più disperati, impetrate a noi tutti la grazia di zelar sempre col maggior impegno il culto del SS. Sacramento, che è la ricchezza e il decoro del Cristianesimo, onde meritarci per questo mezzo una vita sempre conforme ai vostri santissimi esempii, e assicurarci dopo la morte la partecipazione alla vostra gloria. Gloria

FESTA DI SAN GIUSEPPE LAVORATORE (2023)

S. JOSEPH OPIFICIS

La Chiesa, madre provvidentissima di tutti, consacra massima cura nel difendere e promuovere la classe operaia, istituendo associazioni di lavoratori e sostenendole con il suo favore. Negli anni passati, inoltre, il sommo pontefice Pio XII volle che esse venissero poste sotto il validissimo patrocinio di san Giuseppe. San Giuseppe infatti, essendo padre putativo di Cristo – il quale fu pure lavoratore, anzi si tenne onorato di venir chiamato «figlio del falegname» – per i molteplici vincoli d’affetto mediante i quali era unito a Gesù, poté attingere abbondantemente quello spirito, in forza del quale il lavoro viene nobilitato ed elevato. Tutte le associazioni di lavoratori, ad imitazione di lui, devono sforzarsi perché Cristo sia sempre presente in esse, in ogni loro membro, in ogni loro famiglia, in ogni raggruppamento di operai. Precipuo fine, infatti, di queste associazioni è quello di conservare e alimentare la vita cristiana nei loro membri e di propagare più largamente il regno di Dio, soprattutto fra i componenti dello stesso ambiente di lavoro. Lo stesso Pontefice ebbe una nuova occasione di mostrare la sollecitudine della Chiesa verso gli operai: gli fu offerta dal raduno degli operai il 1° maggio 1955, organizzato a Roma. Parlando alla folla radunata in piazza san Pietro, incoraggiò quell’associazione operaia che in questo tempo si assume il compito di difendere i lavoratori, attraverso un’adeguata formazione cristiana, dal contagio di alcune dottrine errate, che trattano argomenti sociali ed economici. Essa si impegna pure di far conoscere agli operai l’ordine prescritto da Dio, esposto ed interpretato dalla Chiesa, che riguarda i diritti e i doveri del lavoratore, affinché collaborino attivamente al bene dell’impresa, della quale devono avere la partecipazione. Prima Cristo e poi la Chiesa diffusero nel mondo quei principi operativi che servono per sempre a risolvere la questione operaia. Pio XII, per rendere più incisivi la dignità del lavoro umano e i princìpi che la sostengono, istituì la festa di san Giuseppe artigiano, affinché fosse di esempio e di protezione a tutto il mondo del lavoro. Dal suo esempio i lavoratori devono apprendere in che modo e con quale spirito devono esercitare il loro mestiere. E così obbediranno al più antico comando di Dio, quello che ordina di sottomettere la terra, riuscendo così a ricavarne il benessere economico e i meriti per la vita eterna. Inoltre, l’oculato capofamiglia di Nazareth non mancherà nemmeno di proteggere i suoi compagni di lavoro e di rendere felici le loro famiglie. – Il Papa volutamente istituì questa solennità il 1° maggio, perché questo è un giorno dedicato ai lavoratori. E si spera che un tale giorno, dedicato a san Giuseppe artigiano, da ora in poi non fomenti odio e lotte, ma, ripresentandosi ogni anno, sproni tutti ad attuare quei provvedimenti che ancora mancano alla prosperità dei cittadini; anzi, stimoli anche i governi ad amministrare ciò che è richiesto dalle giuste esigenze della vita civile.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Sap. 10:17
Sapiéntia réddidit justis mercédem labórum suórum, et dedúxit illos in via mirábili, et fuit illis in velaménto diéi et in luce stellárum per noctem, allelúja, allelúja.
Ps 126:1
Nisi Dóminus ædificáverit domum, in vanum labórant qui ædíficant eam.
V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sǽcula sæculórum. Amen.
Sapiéntia réddidit justis mercédem labórum suórum, et dedúxit illos in via mirábili, et fuit illis in velaménto diéi et in luce stellárum per noctem, allelúja, allelúja.

Ap. 10:17
[La sapienza ai santi ha pagato la ricompensa delle loro fatiche: li ha guidati per una via stupenda; diviene per essi riparo di giorno e luce di stelle durante la notte, alleluia, alleluia.
Ps 126:1
Se non fabbrica la casa il Signore, vi faticano invano i costruttori.
V. Gloria al Padre, e al Figlio, e allo Spirito Santo.
R. Come era nel principio e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.
La sapienza ai santi ha pagato la ricompensa delle loro fatiche: li ha guidati per una via stupenda; diviene per essi riparo di giorno e luce di stelle durante la notte, alleluia, alleluia.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Rerum cónditor Deus, qui legem labóris humáno géneri statuísti: concéde propítius; ut, sancti Joseph exémplo et patrocínio, ópera perficiámus quæ præcipis, et præmia consequámur quæ promíttis.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

[O Dio, creatore del mondo, che hai dato al genere umano la legge del lavoro; concedi benigno, per l’esempio e il patrocinio di san Giuseppe, di compiere le opere che comandi e di ottenere la ricompensa che prometti. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. Amen.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col. 3:14-15, 17, 23-24
Fratres: Caritátem habéte, quod est vínculum perfectiónis, et pax Christi exsúltet in córdibus vestris, in qua et vocáti estis in uno córpore, et grati estóte. Omne quodcúmque fácitis in verbo aut in ópere, ómnia in nómine Dómini Jesu Christi, grátias agéntes Deo et Patri per ipsum. Quodcúmque fácitis, ex ánimo operámini sicut Dómino, et non homínibus, sciéntes quod a Dómino accipiétis retributiónem hereditátis. Dómino Christo servíte.
R. Deo grátias.
Col. 3:14-15, 17, 23-24
[Fratelli, abbiate la carità, che è il vincolo della perfezione. Trionfi nei vostri cuori la pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati nell’unità di un sol corpo: e vivete in azione di grazie! Qualunque cosa facciate, in parole od in opere, tutto fate in nome del Signore Gesù Cristo, rendendo grazie a Dio Padre, per mezzo di lui. Qualunque lavoro facciate, lavorate di buon animo, come chi opera per il Signore e non per gli uomini: sapendo che dal Signore riceverete in ricompensa l’eredità. Servite a Cristo Signore
R. Grazie a Dio.]

Alleluja

Allelúja, allelúja.
De quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos, et ero protéctor eórum semper. Allelúja.
V. Fac nos innócuam, Joseph, decúrrere vitam: sitque tuo semper tuta patrocínio. Allelúja.

[In qualsiasi tribolazione mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò sempre il loro protettore. Alleluia.
V. O Giuseppe, concedici di vivere senza colpe. e di godere sempre la tua protezione. Alleluia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt 13:54-58
In illo témpore: Véniens Jesus in pátriam suam, docébat eos in synagógis eórum, ita ut miraréntur et dícerent: Unde huic sapiéntia hæc et virtútes? Nonne hic est fabri fílius? Nonne mater ejus dícitur María, et fratres ejus Jacóbus et Joseph et Simon et Judas? Et soróres ejus nonne omnes apud nos sunt? Unde ergo huic ómnia ista? Et scandalizabántur in eo. Jesus autem dixit eis: Non est prophéta sine honóre nisi in pátria sua et in domo sua. Et non fecit ibi virtútes multas propter incredulitátem illórum.

[In quel tempo, Gesù giunto nel suo paese, insegnava loro nella sinagoga, così che meravigliati si chiedevano: «Di dove gli vengono questa sapienza e i miracoli? Non è costui il figlio del falegname? Sua madre non si chiama Maria, e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi? Da dove, dunque, gli viene tutto questo?». Ed erano scandalizzati riguardo a lui. Ma Gesù disse loro: «Non c’è profeta senza onore, se non nella sua patria e nella sua casa». E non fece là molti miracoli, a causa della loro incredulità.]

OMELIA

Omelia di s. Alberto Magno Vescovo
Sul Vangelo di Luca, cap. 4

Gesù entrò un sabato nella sinagoga, dove tutti si recano ad imparare. Tutti lo guardavano. Chi lo guardava per affetto, chi per curiosità e chi per spiarlo e coglierlo in errore. Gli scribi e i farisei dicevano alla gente che già credeva ed era affezionata a Gesù: « Ma questo tale non è il figlio di Giuseppe?». È segno di disprezzo il non voler chiamare Gesù per nome. « Figlio di Giuseppe», nota qui in breve l’evangelista, mentre Matteo e Marco scrivono addirittura, con maggiori particolari: «Non è questo il figlio del falegname? Non è lui stesso un falegname?, Lui, il figlio di Maria?». In queste frasi si nota un vero disprezzo. Si sa che Giuseppe era falegname. Viveva del suo lavoro, e non perdeva il tempo nell’ozio e nei bagordi, come facevano gli scribi ed i farisei. Anche Maria si procurava da vivere attendendo alla filatura e servendosi dell’opera delle sue mani. Il senso della frase dei farisei è chiaro: « Non può essere il Signore messia, l’inviato da Dio, questo tale che è di origine vile e plebea. Perciò non si può avere fede in un tipo così rozzo e disprezzabile ». Anche il Signore era falegname: il profeta di lui dice: « Tu hai costruito l’aurora e il sole ». Un modo di disprezzare, analogo a quello usato dai farisei contro Gesù, lo troviamo anche nel libro dei Re, quando di Saul, elevato alla dignità di re, si diceva: « Che cosa mai è capitato al figlio di Cis? Che anche Saul sia un profeta? ». Una breve frase avvelenata da immisurabile alterigia. Il Signore risponde: « Veramente nessun profeta è accolto dai propri familiari ». Con questa frase il Signore si proclama profeta. Lui ebbe l’illuminazione profetica non attraverso una rivelazione, ma attraverso la sua stessa divinità. Per «familiari» qui vuol indicare il paese della sua nascita e della sua fanciullezza. Or dunque è chiaro che non era stato accolto dai suoi compaesani, che erano attizzati contro di lui soltanto per invidia.

Il Vangelo chiama Giuseppe « tékton », che possiamo tradurre per il senso con « falegname » e anche « legnaiuolo ». Essendo di tale professione, egli faceva aratri, gioghi, rastrelli e quegli altri arnesi di maggior uso nell’agricoltura, che a quell’epoca era certamente ancor molto semplice. Egli forniva quanto occorreva per la casa e il focolare: le travi per il tetto, le porte con i loro catenacci, i recinti e gli oggetti di legno necessari per la cucina. Non sono certo da accogliere le ciarle che a questo proposito leggiamo in uno scritto apocrifo: Giuseppe avrebbe costruito nientemeno che il trono del re Erode, veramente poi riuscito male, e questo lo si comprenderebbe psicologicamente. Alcuni antichi scrittori ecclesiastici tentarono fare di lui, semplice carpentiere, un ingegnere o addirittura un architetto; dobbiamo però respingere questa opinione, anche perché in Palestina le case non sono mai fabbricate in legno, ma in pietra o con mattoni cotti. Giuseppe al contrario, date le condizioni primitive del suo tempo, che ancor non conosceva né si valeva della meticolosa divisione e distinzione dei vari mestieri, dovette senza dubbio eseguire anche quei lavori, che in qualche modo si ricollegano con la professione del falegname; in quel tempo ancora non si doveva chiamare successivamente per un semplice telaio il muratore, il falegname, il fabbro e infine anche il pittore, come oggi; tutto questo poté apprestare da solo il buon Giuseppe. Il Vangelo di Matteo chiama Gesù « il figlio del falegname », il Vangelo di Marco lo dice semplicemente « il falegname; le due indicazioni non si contraddicono, ma si completano; perché dopo la morte di Giuseppe Gesù dovette continuare a esercitare, ormai da solo, il mestiere del padre e appreso da lui, come ancor oggi è in uso spesso anche presso di noi. Colui, che qual Figlio di Dio ha fatto l’universo e, secondo una bella espressione della Scrittura, ha ordinato « tutto in misura, in numero e peso », qual Figlio dell’uomo lavorò con la squadra, la sega e l’accetta; Egli è qui come lassù « fabri filius »: lassù Figlio dell’Architetto divino, quaggiù il Figlio del falegname. Nella storia dell’umanità, il legno ha un senso quasi magico: cresciuto all’aria libera, diviene il silenzioso servitore dell’uomo dalla culla alla tomba; nel legno l’umanità trovò rovina, sul legno l’umanità trovò risurrezione. È significativo che già prima della redenzione Gesù abbia avuto a che fare, per la sua professione, col legno; così la creatura del legno fu da Lui liberata prima d’ogni altra dal gemito di quella cattività, della quale con misteriose parole scrive una volta S. Paolo. La professione del falegname ebbe una risonanza anche nella predicazione di Gesù, meno intensa veramente di quello che ci saremmo aspettata. Nel Vangelo Gesù dice della «porta stretta », chiama se stesso « la porta », parla della «casa fabbricata» solidamente e non solidamente, dell’« aratro », del suo « giogo », che è leggero, della «siepe e dello strettoio »: immagini tolte dalla conoscenza e dall’esperienza d’un falegname; esse però sono di gran lunga superate dalle parabole di Gesù desunte dall’agricoltura, dalla pesca e dalla vita pastorizia. Per Maria, l’augusta e cara Signora, il mestiere di falegname del Figlio e del suo sposo importava non infrequentemente una pena nascosta. Gesù e Giuseppe non poche sere, dopo essere stati esposti per un lavoro pressante al sole ardente, erano tanto stanchi, tanto stanchi; e la Benigna li circondava delle sue premure; padre e Figlio Le sorridevano riconoscenti, tutti e due però non sentivano che il bisogno dì dormire; Maria risentiva nel suo cuore tutto il dolore — modello a tutte le donne, in questo campo così importante della vita domestica! — che ai suoi Due fosse imposto un lavoro così duro. Maggior pena ancora soffriva quando doveva constatare che tutti e due, a motivo della loro modesta professione, erano stimati poco dai benestanti e dai superiori. Lo sprezzo velenoso si insinua anche nel Vangelo: « Non è costui il figlio del falegname, il falegname! »; essi non contavano nulla. Ella dovette provare tutta l’asprezza d’una condizione sociale povera anche nel governo della casa. Quanto volentieri la Benedetta avrebbe voluto mettere in tavola per i suoi Due pietanze migliori! Come avrebbe avuto bisogno Gesù, già dall’ultima Pasqua, d’un vestito nuovo… il Giovane era così cresciuto! Ma il guadagno non lo consentiva. Giuseppe doveva fare i suoi calcoli, dividere, risparmiare. Le tasse, che i ricchi principotti elevavano, erano ingiuste e senz’altro pazzesche ai tempi di Erode, che per le sue millantate splendide costruzioni aveva bisogno di somme favolose. Le parole tanto dure di Gesù contro i ricchi — « Guai a voi, o ricchi! » — riflettono anche le privazioni della sua giovinezza. Non pochi poveri contadinelli, cui Giuseppe aveva preparato aratro e giogo, non potevano pagare il buon uomo per interi mesi; ne seguiva che egli stesso veniva a trovarsi in angustie, perché anche a lui, come al contadino, veniva senz’altro confiscato in valori reali: tavoli, banchi, brocche della sua bottega, quanto doveva per tasse e tributi. E così spesso era ospite della casa di Nazaret donna preoccupazione, e donna povertà era la direttrice di cucina… Anche Giuseppe fu chiamato ad aver parte nel mistero dell’Incarnazione, non parte essenziale come Maria, e però una parte marginale; e Giuseppe pure era pronto per l’imminente miracolo con la sua verginità. Egli fu vergine per mezzo di Maria, la Vergine, e a causa di Maria, la Vergine. Il suo amore per Lei dovette essere ben intenso e tenero, se diede il suo consenso a tanto sacrificio. Egli era giovane — un Giuseppe ” vecchio ” non spiega la virtù della sua purezza, ma la indebolisce semplicemente! — e anche in lui scorreva il sangue caldo; anche in lui pulsava l’esigenza della natura all’ultima realizzazione nella Sposa e alla più intima felicità d’un proprio figlio. Per amore rinunciò all’amore. Il suo e l’amore di Maria, come un fiume che abbia accolto due torrenti, scorsero gorgogliando nel mare dell’amore di Dio. Giuseppe aveva offerto questo sacrificio della natura ancor prima che Gesù avesse annunziato l’ideale dei « celibi per il regno dei Cieli », quasi santamente lo presentisse; ma già egli era sempre immerso in sogni e presagi divini. E rimase fedele alla sua immolazione — « O Giuseppe fedelissimo! » lo invocano le Litanie —, e dopo i miracoli del Natale il senso ultimo del suo sacrificio si dischiuse al suo sguardo sempre più chiaramente. « Giuseppe, capo della Sacra Famiglia ». Ma a quale felicità non s’accompagnò quella sua rinuncia! Maria era la sua sposa e Gesù era il suo piccolo. Anche la Sacra Scrittura celebra la felicità dell’uomo, cui è toccata una buona sposa: « Felice l’uomo che ha una brava sposa! Il numero dei suoi giorni si raddoppia… Una buona sposa è una buona porzione. Essa è destinata a chi teme il Signore». Giuseppe aveva una Sposa, che starà dinanzi a tutti gli uomini della terra come l’ideale irraggiungibile della perfetta femminilità. Nessun marito è a conoscenza di tutto quello che passa nell’animo della sposa; tanto meno poteva Giuseppe abbracciare col suo sguardo le grandezze pure e incommensurabili dell’anima di Maria. Neppure si parlavano di quello che parola umana non può esprimere, Maria anzi tacque persino la sua divina Maternità. Giuseppe però sapeva del miracolo del suo ventre, che cioè « era dallo Spirito Santo quello ch’era in Lei concepito ». Molte volte andava riflettendo anche a quell’altra parola, che « una spada avrebbe trapassata l’anima » di Maria, perché era presente quando a Maria era stata fatta questa dura profezia e L’aveva vista tremare come un albero di primavera dinanzi alla prima tempesta. Spesso, quand’Ella gli sedeva vicina, La contemplava con venerazione e amore e timido stupore, perchè quel Fiore grazioso e puro era stato affidato a lui, proprio a lui. Sentiva che Le era tanto più vicino quanto più vicino era a Dio; e così Maria divenne per lui la scala di Giacobbe che di gradino in gradino lo conduceva sempre più in alto verso il Signore, il quale aveva preso il loro matrimonio a suo servizio. E là stava pure il secondo e più mirabile miracolo, quel Fanciullo divino, che osservava Giuseppe amabilmente sino in fondo, quasi dall’eternità e con la bontà di Dio, tanto che egli rabbrividiva per il Mistero e per la felicità. Donde veniva quel Fanciullo? chi era quel Fanciullo? « Libererà il suo popolo dai peccati », gli aveva svelato nel sogno l’Angelo; porta « la gloria a Dio e la pace agli uomini », avevan raccontato i pastori nella felicità della Notte Santa. E più incomprensibili ancora erano state le parole profetiche di Simeone nel Tempio, che quel Bambino sarebbe « la salvezza di tutti i popoli », « una luce per illuminare i pagani », « e una gloria per il popolo d’Israele ». Non ci meravigliamo ch’egli e persino Maria « stupissero » a queste sublimi parole “, poiché accanto c’erano la stalla e la fuga e la perfetta povertà. Che mistero è un figlio! che mistero è questo Figlio! La Chiesa in una sua preghiera a Giuseppe esclama ammirata: « O felicem virum, beatum Joseph! — o uomo felice, San Giuseppe! A te fu concesso non solo di vedere e sentire, ma anche di portare, baciare, vestire e custodire Iddio, che molti re vollero vedere e non videro, vollero sentire e non sentirono ». Quale sorte! Giuseppe vide Iddio fatto uomo qual neonato impotente, qual incantevole bambino, qual fanciullo in fiore. Giuseppe sentì il suo gemito sulla greppia, il suo balbettio sorridente e il suo primo “papà “. Giuseppe Lo portò nella stalla qual oggetto prezioso ma fragile, Lo portò nella fuga come un gioiello cui s’insidia, e alla sera, quando era stanco e felice d’aver compiuto l’opera del giorno, come un delicatissimo tesoro. Giuseppe Lo vestì del piccolo e bell’abito a vari colori, come il patriarca Giacobbe il suo prediletto Giuseppe, e Lo avvolse talmente col profumo d’amore e col vigore dell’autorità paterna, che Gesù se ne sentiva riscaldato e rassicurato. E Giuseppe Lo baciò con timore come si bacia una cosa sacra, e con affetto, come si bacia una cosa propria; e allora anche il Fanciullo gettava le sue braccia snelle al collo di Giuseppe e anch’Egli lo baciava, e tutto questo era beatificante come il bacio di Dio stesso. Oh sì, felice uomo San Giuseppe! [Otto Hophan: Maria, Marietti ed. Torini, 1953].

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Ps 89:17
Bónitas Dómini Dei nostri sit super nos, et opus mánuum nostrárum secúnda nobis, et opus mánuum nostrárum secúnda, allelúja.

E’ con noi la grazia del Signore Dio nostro: essa conferma su di noi l’opera delle nostre mani, conferma l’opera delle nostre mani, alleluia.

Secreta

Quas tibi, Dómine, de opéribus mánuum nostrárum offérimus hóstias, sancti Joseph interpósito suffrágio, pignus fácias nobis unitátis et pacis.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
[O Signore, questa offerta che è frutto del lavoro delle nostre mani, per l’intercessione di san Giuseppe ci sia pegno di unità e di pace.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
R. Amen. Amen.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.


de S. Joseph
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Solemnitáte beáti Joseph débitis magnificáre præcóniis, benedícere et prædicáre. Qui et vir justus, a te Deíparæ Vírgini Sponsus est datus: et fidélis servus ac prudens, super Famíliam tuam est constitútus: ut Unigénitum tuum, Sancti Spíritus obumbratióne concéptum, paterna vice custodíret, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti júbeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[E’ veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno: noi ti glorifichiamo, ti benediciamo e solennemente ti lodiamo di S. Giuseppe. Egli, uomo giusto, da te fu prescelto come Sposo della Vergine Madre di Dio, e servo saggio e fedele fu posto a capo della tua famiglia, per custodire, come padre, il tuo unico Figlio, concepito per opera dello Spirito Santo, Gesù Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt 13:54-55
Unde huic sapiéntia hæc et virtútes? Nonne hic est fabri fílius? Nonne mater ejus dícitur María? Allelúja.

[Da dove vengono a lui tanta sapienza e sì grandi portenti? Non è forse lui il figlio dell’operaio? Non è forse sua madre Maria? alleluia.]

Postcommunio

Orémus.
Hæc sancta quæ súmpsimus, Dómine, per intercessiónem beáti Joseph; et operatiónem nostram cómpleant, et prǽmia confírment.
[O Signore, per l’intercessione di san Giuseppe, questo sacramento che abbiamo ricevuto renda perfetto il nostro lavoro e ci assicuri la ricompensa.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

25 Aprile: SAN MARCO EVANGELISTA

SAN MARCO EVANGELISTA

(Otto Hophan: Gli Apostoli, trad. G. Scattolon; Marietti ed. 1951. N. h.: M. Fantuzzi, C. E. D. – Impr.: A. Mantiero Vesc. di Treviso, 15 oct. 1949)

Marco in questo libro non sta accanto a Paolo per caso o per una allegra ironia come nel celebre quadro del Dürer; questo posto gli spetta realmente. Egli non appartiene più agli Apostoli, dei quali la serie augusta si conchiude con Paolo, l’« ultimo », il « minimo », come egli stesso si ritiene nella sua umiltà. Marco però è Evangelista, il secondo dei quattro Evangelisti, che insieme col terzo, Luca, come lui non Apostolo, è preso nel mezzo fra gli evangelisti-apostoli Matteo e Giovanni quasi a protezione e sostegno; lo troviamo già in cataloghi antichi del quarto e quinto secolo dopo Paolo, ma prima dei settanta discepoli, perché non era quanto un Apostolo, ma era di più d’un semplice discepolo. Marco nei Libri Sacri del Nuovo Testamento è ricordato dieci volte, ora solamente col suo nome ebraico Giovanni, ora soltanto col nome romano Marco, ora col doppio nome Giovanni-Marco; e, come per il suo grande maestro Saulo-Paolo, anche per lui un po’ alla volta il nome ebraico scomparve nell’ombra, prevalse il nome di Marco, finché a Roma questo divenne il suo nome esclusivo. È vero che i critici ritennero di dover distinguere due o anche tre Marco: Giovanni Marco, che s’accompagnò a Paolo; Marco, che accompagnò Pietro e scrisse il secondo Vangelo; e in realtà alcuni dati si possono conciliare solamente con un po’ di fatica; ma gli Scritti Sacri non offrono nessun motivo per questa distinzione; un pacato esame dei diversi testi mostra ch’è possibile ordinare nel corso della vita d’un unico e medesimo Marco le indicazioni apparentemente contrastanti; ne riparleremo ancora, ma frattanto possiamo aggiungere che oggi il doppio Marco è comunemente abbandonato. – Marco era per origine ebreo, ma nacque probabilmente fuori della Palestina; in una compilazione liturgica della chiesa coptica, il Synaxarion arabico, leggiamo che la terra della sua infanzia fu la « Pentapoli », la regione delle cinque città dell’antichità: Cirene, Apollonia, Barka, Tauchira ed Euesperida. Lo stesso Synaxarion quale padre suo indica un certo Aristobolo; la Sacra Scrittura ricorda soltanto la madre e in modo da far concludere che il padre morì per tempo, non prima però del Giovedì Santo. Egli dovette rimaner senza il padre esattamente in quegli anni, in cui aveva il massimo bisogno di lui; ché nemmeno la migliore delle madri può compensare del tutto il padre; ne manca per natura la mano ferma, cosciente delle mete e anche dura, se necessario; e si direbbe che questa deficienza abbia avuto il suo riflesso nell’educazione di Marco meno virile, meno coerente e sicura. Siamo indotti a rilevarlo dal fatto del suo ritorno alla madre, mentre gli si delineavano dinanzi gli strapazzi del primo viaggio apostolico; delle informazioni antiche poi, anche se non del tutto indubbie, ci riferiscono pure un altro fatterello della sua giovinezza, che non sarebbe avvenuto, se il padre gli fosse stato a fianco: si troncò lui stesso il pollice per rendersi inabile al servizio nel Tempio secondo la legislazione del Vecchio Testamento, giacché era obbligato al servizio sacerdotale, come discendente della tribù di Levi; quest’ultima notizia ci viene riferita dall’antico prologo al Vangelo di Marco, che risale al quarto secolo. Povero pollice! Ma forse questa leggenda attribuisce all’evangelista Marco un’automutilazione, che, nell’eccesso del suo fervore ascetico, aveva fatta un Marco monaco; quantunque il prete romano Ippolito (+ 235) ha per il nostro Evangelista l’appellativo « kolobodaktylos — dal dito monco »; è vero però che l’espressione potrebbe alludere ad una mano piccola, esile, e il senso potrebbe essere: mani piccole non possono serrarsi in pugni pesanti, atti a dominare le difficoltà. La madre di Marco, Maria, era una donna religiosa, colta e ricca; anche fosse vero, secondo l’informazione d’uno scritto arabico, che aveva perduto il suo vistoso patrimonio, nondimeno al tempo della sua vedovanza era ancora così benestante che possedeva una grande casa in Gerusalemme, messa dal suo pio sentimento a disposizione della giovane comunità cristiana, perché vi tenesse le sue adunanze. Secondo lo storico della Chiesa Niceforo, Maria sarebbe stata una « sorella » di Pietro, o « una figlia della zia della moglie di Pietro », come con complicata espressione precisa, in fatto di parentela, lo scritto arabico or ora ricordato; e a dir vero, un rapporto di parentela, per quanto largo, di Pietro spiegherebbe bene le sue relazioni con la casa di Maria e anche la sua evidente benevolenza per Marco. Questa donna, riferisce il Synaxarion arabico, era di molto talento ed istruì lei stessa il figlio, cui insegnò la lingua greca, la francese (latina?) ed ebraica. E fece molto bene, perché il suo Marco, secondo i disegni della Provvidenza sarebbe divenuto un giorno l’interprete di Pietro. Quante volte il Signore dona alle mamme un presentimento dei suoi piani sublimi! Riprendiamo con gusto all’idillio e all’ideale della cara vita familiare di questa gentile signora col suo figlio Marco; ella raccoglieva tutto il suo vedovo amore sul suo Marco, suo figlio, suo sole, e suo tutto; e Marco stendeva le sue mani delicate e il suo giovane cuore all’amore di sua madre, che l’andava plasmando. La Sacra Scrittura ricorda anche un altro vincolo di parentela del nostro Marco: egli era « il cugino — anepsiòs, consobrinus — di Barnaba »; questa espressione di solito è tradotta con « cugino », ma potrebbe tradursi anche con « nipote », e quindi Barnaba, che gli Atti degli Apostoli esaltano quale « uomo esimio, ripieno di Spirito Santo e di fede », sarebbe stato lo zio di Marco e probabilmente da parte del padre, giacché egli pure, secondo l’esplicita testimonianza della Scrittura, apparteneva alla tribù di Levi. Quanto egli si sia mostrato benevolo e fedele a suo nipote, lo veniamo a conoscere dalle relazioni degli Atti: piuttosto che mettere dalla parte del torto Marco, rinunciò all’amicizia dell’Apostolo gigante, Paolo. Se ora mettiamo insieme tutti questi brevi, vari e singolari elementi, ne risulta una figura di giovane lieta e solatia: Marco era ricco, colto, bello, circondato da cure e custodito, il beniamino di tutti. Gli « Atti di Marco », uno scritto della metà del quarto secolo, lo esaltano come un uomo « di buona indole e soffuso di divina bellezza »; descrivono poi il suo simpatico esteriore dicendo: « Era di portamento nobile e svelto; aveva belli gli occhi e un volto dal color d’oro, come un campo di grano, il naso non ricurvo ma diritto e sopracciglia aderenti ». Chi dalla vita è trattato ruvidamente, è tentato d’amaramente invidiare individui in tal modo illuminati dal sole, quasi vengano viziati dalla sorte; ma perché non ci dovrebbero essere anche le persone felici e belle? Esse sono una ricchezza del mondo povero e un raggio singolarmente fulgido del perfetto Iddio. Anche Marco fu un prediletto della natura e lo fu pure della grazia, che importa ancor più.

MARCO E GESÙ

Ma quanta parte dipende dalla famiglia, nella quale un uomo cresce! La casa può essere la sua eterna benedizione, come può pure divenire motivo della spaventosa rovina. Marco, favorito da Dio e dall’azione della Provvidenza, fu adagiato entro alla culla del Cristianesimo; egli crebbe insieme col recente Cristianesimo e nello stesso luogo; Marco e la giovane società di Cristo son come fratelli gemelli. Secondo un’antica tradizione degna di fede, la sala fortunata, nella quale si compirono i più augusti Misteri, quali la celebrazione della Cena il Giovedì Santo, le apparizioni del Risorto nei giorni pasquali, il soffio dello Spirito Santo nella bufera di Pentecoste, era la sala della casa materna di Marco; nelle supreme ore cristiane egli stava là, non certo come uno di coloro che circondavano Gesù direttamente, ma almeno come uno che è ammesso; poiché chi avrebbe potuto allontanare un buon giovane, specialmente se si trattava del figlio della padrona di casa, tanto ospitale? Silenzioso dunque, stupito, tutt’occhi e tutt’orecchi, egli visse con gli altri i sublimissimi eventi e, anche se non comprese il loro significato — non lo compresero del tutto nemmeno gli Apostoli —, presagì però che quivi, nella casa della madre sua, s’avveravano cose divine e nella sua sensibile anima di ragazzo s’impressero incancellabilmente le scene più stupende del Vangelo. – Quando i due Apostoli Pietro e Giovanni, nel pomeriggio del Giovedì Santo, gli tennero dietro ostinatamente per tutte le vie sino a casa, mentre s’allontanava dalla fonte, dove s’era portato per attingere acqua, egli si guardò attorno attonito; fin d’allora egli fu presente a Gesù, poiché con ragione si suppone che fosse Marco quel giovane, con la brocca d’acqua, che il Signore diede ai due Apostoli come segno: « Seguitelo! E dov’egli entra, ivi dite al padrone di casa: “Il Maestro ci fa chiedere: Dov’è la stanza, nella quale Io possa mangiare la Pasqua con i miei Discepoli?”. Egli vi farà vedere una grande stanza superiore, arredata di divani per la mensa. È già pronta; ivi preparate per noi ». Con la gioia ed il fervore d’un ragazzetto, cui è dato di prestare dei servizi insoliti, Marco aiutò Pietro e Giovanni nel preparare la cena pasquale; li aiuterà anche più tardi, nel preparare il vero Agnello pasquale per gli uomini. E giunse la sera; arrivavano gli altri dieci Apostoli, seri, silenziosi, oppressi, così gli sembrava, e s’avvicinavano alla casa; venne poi il Signore, pallido ma dignitoso. Mentre veniva accolto, Egli posò la mano sul capo di Marco, quella mano, che al domani sarebbe stata trafitta; poi Maria, la mamma, allontanò dal gruppo di quelle persone il figlio; ma chi vorrebbe rimproverarlo, se ben presto fu di nuovo dinanzi alla porta chiusa della sala? Sentì le parole sublimi, da lontano soltanto, certamente, non vicino come Giovanni, che più tardi le mise in iscritto; indietreggiò spaventato, quando Giuda aprì violentemente la porta e gli passò dinanzi precipitoso; messosi a letto, non s’addormentò e udì i passi che si dileguavano; che convenga seguire…? – Tre giorni dopo, di soppiatto, gli stessi individui vennero nella medesima sala; veramente non erano proprio gli stessi, perché erano venuti spiando come malfattori e sconvolti come fossero dei disperati; nessuno aveva avuto per lui uno sguardo o una parola di saluto. Quando da lassù, nella sala, giunse all’orecchio del nostro giovane lo strepito come d’un’esplosione di terrore e subito poi di festa, egli corse su, presso la porta chiusa, compresse il suo scarno corpo contro la parete, spiò attraverso una sottile fessura e fu colpito da tanta luce, che i suoi occhi ne soffrirono. Marco termina la prima stesura del suo Vangelo con la relazione della apparizione del Risorto alle pie donne: « Paura e timore s’erano impadroniti delle donne. Per il grande timore, non ne fecero parola a nessuno »; forse in queste singolari espressioni freme pure la prima esperienza pasquale di Marco stesso. La casa dei suoi genitori doveva essere per la terza volta il teatro d’una sublimissima grazia nel giorno di Pentecoste. Giovane com’era, sulle prime dovette sentirsi poco sicuro, quando « improvvisamente si levò un rumore dal cielo, come se giungesse una violenta bufera, il quale riempì tutta la casa, dov’essi erano raccolti ». Poi calarono le lingue fiammeggianti e una di esse accese del fuoco dello Spirito Santo anche Marco e gli infuse quella chiarezza e vigoria, che vampeggia ancor oggi nel suo Vangelo. Oh, come è vero che nella vita d’un uomo molto dipende dalla casa, dov’egli è a casa! – È vero che la stessa Sacra Scrittura attesta solo che la casa di Maria, la madre di Marco, servì, come una prima Chiesa, per le assemblee della prima comunità cristiana in Gerusalemme al tempo della persecuzione di Erode Agrippa (41-44); per questo ricevette il titolo onorifico di « madre di tutte le chiese », di  ‘Santa Sion » e di « chiesa degli Apostoli », e in un’epoca posteriore fu edificata nel suo posto una vasta Chiesa, nella quale venne inclusa anche la casa dell’Apostolo Giovanni, detta « Dormitio Mariæ Virginis — il rimpatrio della Vergine Maria » —, situata lì vicino. Questa indicazione però della Scrittura illumina quanto afferma la tradizione. Se Maria, la nobile e religiosa signora, mise a disposizione della comunità cristiana la sua casa, è probabile che l’avesse aperta già al Signore, i primi Cristiani anzi proprio per questo si sarebbero ritrovati insieme tanto volentieri in quella casa, perché essa era stata consacrata cioè dallo stesso Signore e dallo Spirito Santo. – Anche queste riunioni dei primi Cristiani nella casa di sua madre furono per Marco, giovane allora in fiorente sviluppo, una ricca sorgente di grazia e decisive per la sua vita. Quivi gli Apostoli andavano e venivano e trattavano delle loro sollecitudini, dei loro piani e successi; quivi si rifugiarono i primi Cristiani di Gerusalemme nei giorni penosi delle persecuzioni da parte del Sinedrio, di Paolo e di Erode. Inobliabile restò per Marco soprattutto quella notte di pasqua, durante la quale l’intera giovane Chiesa pregava per la salvezza di Pietro dalle mani di Erode, assetate di sangue: fu picchiato alla porta del cortile; « la fanciulla Rode accorse e stette ad ascoltare; riconobbe la voce di Pietro, ma per la gioia dimenticò di aprire la porta; rientrò correndo e annunziò che Pietro stava alla porta. Quelli le replicarono: “Sei ben fuori di te!”; ma lei insisteva a dire ch’era così; allora pensarono: “È il suo Angelo”; ma Pietro continuava a picchiare. Allora aprirono, videro e sbigottirono. Egli fece loro cenno con la mano di fare silenzio e raccontò loro come il Signore l’avesse liberato dal carcere » (Act. XII, 1-17). Per lo più bussare a una porta significa pure bussare a un cuore; Marco, con cuore grande e festante, aveva aperto la porta al Signore e a Pietro, e li vide entrare venire verso di sé come verso a una primavera; aprì loro anche il suo cuore? – Non ignoriamo che una nota dell’antico Papia sembra affermare che Marco non conobbe affatto di persona Gesù: « Non vide il Signore nella carne e nemmeno Lo udì »; ma questa e simili testimonianze antiche, che trattano di Marco come Evangelista, vogliono solamente dire ch’egli non fu, come gli Evangelisti Matteo e Giovanni, testimonio immediato oculare e auricolare degli avvenimenti evangelici; il così detto Frammento Muratoriano lascia persino intravvedere che egli di quando in quando fu presente alle scene del Vangelo. Epifanio e alcuni altri antichi scrittori ecclesiastici scorgono in Marco uno dei settantadue discepoli, uno anzi di quelli, che defezionarono dal Signore nella sinagoga di Cafarnao, dopo il discorso eucaristico, e più tardi nuovamente riconquistato da Pietro; ma tali asserzioni sono confutate dall’età stessa molto giovanile di Marco. Egli dunque vide il Signore, ma ancora con gli occhi grandi del bambino e col cuore tenero e sensibile del ragazzo. Nel suo Vangelo egli ha notato un particolare, ch’è in se stesso senza importanza, ma che s’incontra solamente in lui: « Dopo di che (dopo cioè la cattura sul Monte degli Olivi), tutti Lo abbandonarono e fuggirono. Un giovanetto però, che indossava sul nudo corpo un lenzuolo soltanto, Lo seguì; quando lo si volle acciuffare, lasciò andare il lenzuolo e se ne fuggì nudo »! Si ammette abbastanza comunemente che in questo episodio del Vangelo Marco, come un artista nel suo quadro, abbia delineato se stesso; e quante cose ci svela questo piccolo autoritratto! Nella grande notte dell’ultima Cena, egli non aveva potuto dormire, come sua madre invece aveva desiderato e sollecitato, perché aveva percepita la tensione, che gravava su quella notte; aveva intercettate parecchie espressioni del discorso d’addio e a un certo momento gli sembrò di sentire un risonar di spade; se la svignò da casa, ma di soppiatto per non scontrarsi col volere della mamma e in tenuta certamente strana, ma era notte e aveva il sangue caldo. Protetto dall’oscurità, trovò sul Monte degli Olivi un nascondiglio, donde ascoltò confuso il gemito del Maestro, il russare dei Discepoli e lo strepito degli sbirri, che accerchiarono Gesù con spade e bastoni. – E qui, in questo primo e unico fatterello, nel quale Marco stesso compare nel Vangelo, è già manifesta la sua affezione per Gesù. Gli Apostoli fuggirono; gli stessi Pietro e Giovanni seguirono soltanto da lontano!; ma il caro Marco si tenne vicino, da presso a Gesù. In quel momento gli occhi divini del Signore, ancor pregni di mestizia per il tradimento di Giuda, si rischiararono un po’ e si riposarono con compiacenza su quel nobile giovanetto. Quando i soldati stesero i loro pesanti pugni per colpire quest’ultimo e giovanissimo amico di Gesù, egli lasciò nelle loro mani il ridicolo lenzuolo e rimase nudo. E questa nudità, come un simbolo, indica già l’avvenire: Marco, il nostro giovanetto custodito, curato, delicato, per amore di Gesù abbandonerà tutto e con la sua spogliazione dimostrerà ch’egli è un autentico discepolo del Maestro: non aprì a Gesù solo la porta di casa, Gli aprì pure la porta del suo cuore.

MARCO E PAOLO

Marco e Paolo s’incontrarono probabilmente per la prima volta quando, nell’anno 44, Barnaba e Paolo portarono a Gerusalemme la generosa colletta della comunità etnicocristiana di Antiochia per i bisogni della povera Chiesa madre. Barnaba, lo zio, dovette presentare suo nipote Marco allo sguardo indagatore di Paolo con soddisfatta compiacenza; e il nipote, quand’ebbe udito della vita cristiana dei convertiti dal paganesimo, se ne scese ad Antiochia, quasi come un dono prezioso, che Gerusalemme offriva in compenso della colletta ricevuta. Da anni, infatti, ormai Marco s’era scelto Gesù quale scopo supremo della sua vita; adesso era divenuto un giovanotto robusto e brillante di circa venti primavere, che, come un albero di maggio, voleva portare frutto; le lontane regioni lo allettavano, gli suscitavano in cuore entusiasmo e gioia, cui forse s’aggiungeva pure un po’ di spirito d’avventura; e delle avventure ardite, liete e penose, non mancano nemmeno nel seguire Cristo. Era capitato bene; proprio in quel tempo Barnaba e Paolo intendevano cimentarsi nel rischio del primo viaggio apostolico; gli Atti degli Apostoli a questo punto inseriscono la notizia: « Avevano con loro quale assistente Giovanni (Marco) », non per i loro servizi personali, ma, in senso biblico, quale ministro della Parola, per l’amministrazione del Battesimo e per gli altri aiuti connessi con l’opera missionaria; dalla prima lettera ai Corinti sappiamo però che Paolo riteneva la predicazione come compito suo proprio; Marco, felice come un giovane sacerdote, regalava a piene mani la sua prima benedizione. Ma il viaggio andava oltre a quello che egli aveva immaginato; Cipro fu ben presto attraversata ed evangelizzata, e Paolo si spingeva più innanzi; anzi la sua intenzione di spingersi, attraverso il Tauro, nell’altipiano di Pisidia e Licaonia nell’Asia Minore non si palesò che lassù a Perge. Il viaggio importava una marcia al minimo di dieci giorni di cammino faticoso e altrettanto pericoloso, giacché nell’antichità la stessa scortese pianura di Panfilia era infamata e temuta a motivo dei suoi abitanti bellicosi e rapinatori; persino i Romani riuscirono ad avvicinarsi alle popolazioni semibarbare del Tauro soltanto dopo lunga fatica. Gli Atti degli Apostoli a questo punto ci fanno sapere di Marco: « Si separò da Paolo e Barnaba e tornò a Gerusalemme ». Ce ne domandiamo il perché. Qualcuno ha affermato che Marco era disgustato, perché Paolo sempre più chiaramente aveva assunta la direzione della missione; e di fatto d’or innanzi negli Atti si dirà sempre: « Paolo e Barnaba» e non più: « Barnaba e Paolo »; altri ha voluto scorgere in quel ritorno una protesta di Marco contro la missione di Paolo fra i gentili, libera dalla Legge; il Sacro Testo stesso però allude a un altro motivo: quello che spaventò il buon Marco fu semplicemente l’inaudita fatica del viaggio apostolico; i disagi già sostenuti in Siria, a Cipro e sino a Perge gli avevano fatto provare che l’andare in missione era molto di più che un’allegra e devota avventura; finora aveva resistito, ma non si sentiva in grado di prendere parte anche alla seconda tappa del viaggio. Il Synaxarion arabico più sopra ricordato conferma questa interpretazione, scrivendo: « Quando Marco, andando in giro per accompagnare Paolo e Barnaba, constatò quanti colpi e disprezzi essi dovevano tollerare, li abbandonò in Panfilia e tornò a Gerusalemme»; e un’omilia del nono secolo ce lo dipinge con squisita ingenuità: « Marco disse fra sé: questi uomini non hanno requie; preferisco tornarmene a mia madre; presso di lei troverò da mangiare. La mamma sua però ne sentì gran dolore ». Le mamme…! Ci è lecito disapprovare il ritorno di Marco come una fuga vile? Solo a pochi è concesso di affermarsi come eroi già al primo assalto; anche l’eroe deve formarsi attraverso l’aspra lotta e la molteplice rinuncia; il nostro amabile giovane invece fu strappato in età troppo immatura e troppo alle svelte al suo genere di vita nobile, abituato bene e forse un po’ viziato; e venne meno. Ma se un giovane vien meno una volta, verrà poi meno sempre? In questo sta la colpa di Paolo nei riguardi di Marco, perché, a causa di quell’unica ora di debolezza, gli negò la propria fiducia e lo disanimò, contro il monito ch’egli stesso rivolge ai padri. Quando infatti Marco, nell’anno 49, tre o quattro anni forse dopo il doloroso episodio di Perge, valendosi della mediazione di Barnaba, si fece annunziare per il secondo viaggio apostolico, Paolo gli rispose con un brusco rifiuto: « Paolo non ritenne opportuno di assumere colui, che dalla Panfilia li aveva lasciati in asso e non era andato con loro all’opera »; egli temeva evidentemente che l’incerto giovane se ne andasse da loro una seconda volta per tornarsene a casa o che comunque, nelle difficoltà imprevedibili e forse straordinarie del nuovo viaggio, tornasse più di ostacolo che di aiuto. Eppure, la richiesta di Marco avrebbe dovuto colpire Paolo; era così evidente che il povero giovane cercava, mediante un’attiva prestazione, di riparare il mal fatto e di redimersi dai suoi piccini sentimenti. Il ricordato Synaxarion riferisce: « Quando Paolo e Barnaba tornarono a Gerusalemme e raccontarono della conversione dei pagani e quali miracoli Iddio avesse operato per mezzo di loro, Marco si pentì di quanto aveva fatto per irriflessione »; l’informazione anzi leggendaria dello Pseudo-Marco dice persino che da principio il nostro giovane non aveva affatto osato presentarsi a Paolo; poi per tre sabati consecutivi lo pregò ginocchioni del suo perdono; invano! Dinanzi a questo duro comportamento di Paolo non possiamo sottrarci all’impressione che influissero su di lui non solo dei reali motivi, ma anche dei motivi personali. L’offrirsi di Marco per il secondo viaggio apostolico cadde subito dopo il conflitto di Antiochia; un momento fatale! Paolo, infatti, non aveva ancora potuto inghiottire che in quella circostanza non fosse stato con lui nemmeno il suo amico Barnaba: «Persino Barnaba si lasciò trascinare da quella simulazione »; e Marco fu vittima di quell’irritazione, egli, come si dice, fece traboccare il vaso. – Paolo e Barnaba, i due vecchi e fedeli amici, non si staccarono sicuramente solo a motivo di Marco; una profonda amicizia quale la loro non si spezza per un episodio così insignificante. « Si venne (fra Paolo e Barnaba) a un’aspra tensione — non solamente a “una divergenza di opinioni”, come spesso, ripiegando, si traduce, perché il greco “paroxysmés” significa veramente di più che opinione diversa soltanto —, e la conseguenza fu che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba fece viaggio con Marco per Cipro, Paolo invece si elesse Sila e s’incamminò con lui per il suo viaggio». Ci rallegriamo con Marco, perché almeno uno credette ancora in lui, il buon Barnaba; che sarebbe stato di lui, se tutti l’avessero condannato come un vile? Quali decisioni per una giovane vita, se nell’ora opportuna una persona retta offre la sua mano perché prosegua e perché ascenda! La separazione nondimeno lascia dopo di sé un senso di scontentezza, persino il letichino Girolamo lamenta che questa lite fra Paolo e Barnaba fa vedere due grandi nella loro umana meschinità. – Allontanandoci però un poco dalla scena incresciosa, lo sconcerto diminuisce; gli uomini retti traggono vantaggio anche dalle vicende ingiuste; alla fine anche quella lite per causa di Marco tornò a maggior vantaggio di tutti. Questi, che non aveva ancora smesso di sognare, per quell’allarme di Paolo fu salutarmente scosso dai castelli in aria della sua bella giovinezza; si vide d’un tratto posto dinanzi all’inesorabile aut-aut: o uomo o vigliacco; tenne conto della dolorosa ma salutare lezione dell’Apostolo ed « essa lo fece migliore », scrive il Crisostomo; il rimprovero: «Non è venuto con noi nell’opera » gli stava conficcato nello spirito come un pungolo; dimostrerà in seguito ch’esso non aveva più ragione d’essere. Dal canto suo Paolo mutò parere nei riguardi di Marco. Scrive di lui in tre passi del suo epistolario; nella breve lettera a Filemone lo nomina come « collaboratore » al primo posto, persino prima di Luca; ai Colossesi, ai quali l’invia con degli incarichi, raccomanda caldamente: « Per riguardo a Marco avete già ricevuto istruzioni; se viene a voi, accoglietelo amichevolmente » e poco prima della morte, quasi come ultimo desiderio, domanda instantemente a Timoteo… Marco! « Porta con te Marco! Posso ben aver bisogno dei suoi servizi ». E infine nemmeno Barnaba nutrì alcun rancore per Paolo, ce lo attesta un passo della prima lettera ai Corinti. – Non torna ad onore degli Apostoli né giova alla nostra utilità passare timidamente sotto silenzio il loro lato troppo umano. Che essi siano stati dei lottatori, costituisce la loro grandezza e la nostra consolazione; ma la provvidenza di Dio è così sapiente e benigna, da tendere nel telaio dei suoi piani di salvezza le nostre stesse imperfezioni, e così tramutò anche quella lite umana in benedizione divina: la separazione e il raffreddamento fra Paolo e Barnaba ebbero per conseguenza che l’evangelizzazione s’inoltrò nel mondo in due direzioni anziché in una soltanto. Marco e Paolo! Oggi, ripensando a loro, non possiamo trattenerci da un sorriso, ed essi stessi dovettero sorridere, quando, circa dieci anni dopo, si diedero la mano al di lì, a Roma. Tutti e due divennero più grandi per l’aiuto che l’uno porse all’altro: Paolo a motivo di Marco divenne più mite e Marco a motivo di Paolo divenne più uomo. Il popolo fedele onora Marco quale « signore dell’atmosfera » e patrono contro i fulmini e la grandine; in un’antica benedizione del tempo era ricordato espressamente il suo nome: ci prova tutta l’amabilità di Marco il fatto ch’egli, nonostante il torto patito, ritornò nuovamente a Paolo e si fece, dimentico di sé, suo collaboratore. Ma egli è così: un cielo azzurro, che neppure il fulmine e il tuono di Paolo poterono offuscare. Oh, avessimo noi molti Marco!

MARCO E PIETRO

Marco è come un’edera verdeggiante, che dei suoi viticci ricopre festosamente le due torri principali della Chiesa, Pietro e Paolo; anche Pietro infatti stette in rapporti speciali con lui. La Sacra Scrittura veramente parla in un unico luogo di questi rapporti, ma con una parola, che dice quanto molte pagine. Pietro, terminando la sua prima lettera alle comunità dell’Asia Minore, scrive: «Vi saluta la Chiesa con voi eletta di Babilonia e Marco, mio figlio »; questa sola espressione ci richiama i vincoli d’amicizia intimi e di lunga data fra i due. Ordinariamente essa viene interpretata della paternità spirituale di Pietro, conseguita con l’amministrazione del battesimo a Marco; ma questo solo fatto, cui probabilmente è da aggiungere pure una certa parentela naturale, non basta a spiegare gli intimi rapporti fra Pietro e Marco; fra di loro vigeva anche una parentela dell’anima; Marco anzi, sotto molti aspetti, ci fa l’impressione d’un Pietro giovane, rinato, perché come lui è vivace, vispo, amabile e come lui fu una volta debole; se nel suo Vangelo poté rendere così fedelmente la predicazione di Pietro, lo si deve sicuramente anche al fatto che l’indole di Pietro rispondeva così bene alla sua, propria. – È difficile determinare il momento preciso, dal quale Pietro e Marco presero a vivere insieme. Alcuni pensano già all’anno 42: la notte, in cui Rode, la fanciulla distratta, fece finalmente entrare Pietro, Marco, il figlio della casa, si sarebbe unito all’Apostolo e l’avrebbe accompagnato nella fuga « nell’altro luogo », ripetendo, per così dire, il suo nobile accompagnamento di Gesù nella notte del Monte degli Olivi; a questo riguardo, può sorprendere che Pietro nella sua lettera alle comunità del « Ponto, Galazia, Cappadocia, Asia e Bitinia » aggiunga l’unico saluto di Marco; lo conoscevano esse di persona? Qualora egli, nella circostanza della liberazione dell’Apostolo, l’avesse seguito anche sino a Roma, questo suo primo soggiorno romano sarebbe stato sicuramente breve, poiché i dati biblici esigono ch’egli si trovasse pronto in Antiochia al più tardi nell’anno 45, per il famoso e funesto viaggio con Paolo sino a Cipro e a Perge. Marco potrebbe essersi accompagnato a Pietro anche dopo finito il suo viaggio apostolico con Barnaba a Cipro e quindi verso il 51-52; una sua attività in Egitto, di cui scriveremo ancora, non vi si opporrebbe. Egli fu certamente a Roma con Pietro, quando questi, negli anni 63-64, scrisse la sua prima lettera, e questo è pure confermato dai testi riguardanti Marco dell’epistolario paolino. Pietro, il pescatore del lago di Tiberiade schietto, ma sempre un po’ goffo, fu certamente lieto d’avere presso di sé, qual « protonotario pontificio » nel senso etimologico della parola, suo « figlio Marco », che era un segretario abile, elegante e premuroso. E questi — è il patrono anche dei notai e degli scrivani — gareggiava in servizi, felice di poter esibire al semplice Pietro la prova della sua attitudine, che Paolo invece aveva respinta. I suoi rapporti cordiali con Pietro sono richiamati da una narrazione apocrifa, la quale riferisce del suo soggiorno, certo leggendario, ad Aquileia, ma poi per la nostalgia di Pietro non avrebbe più resistito e se ne sarebbe tornato a Roma, dov’era il suo amico, padre e Pontefice. L’antichità cristiana, a cominciare da Papia (+ 130), chiamò Marco l’« interprete — hermeneutés-interpres — di Pietro », titolo, che potrebbe indurci a ritenere che egli abbia tradotto in greco o in latino i discorsi tenuti dall’Apostolo agli uditori romani in lingua aramaica; questi però possedeva certamente la lingua greca, almeno quanto era necessario per farsi intendere dai suoi ascoltatori; è probabile quindi che quel titolo « interprete di Pietro » rimandi alla redazione scritta fatta da Marco della predicazione orale di Pietro; l’antico Papia stesso riferisce che Marco mise in iscritto i detti e i fatti di Gesù, predicati da Pietro. Ci troviamo così dinanzi al monumento più bello e più importante dell’amicizia fra i due: il Vangelo di Marco.

MARCO EVANGELISTA

Marco scrisse un Vangelo, il secondo nell’ordine attuale dei Vangeli canonici. Il primo e principale testimonio ne è il vecchio Papia, la cui testimonianza però è più antica di lui, perché s’appoggia alla dichiarazione del « presbitero Giovanni », dell’Apostolo cioè di questo nome. Ecco com’essa dice: « Anche questo diceva il presbitero (Giovanni): Marco, un interprete di Pietro, ha messo in iscritto esattamente tutto quello, di cui si ricordava. Però (scrisse) quello, che dal Signore è stato detto o fatto, non secondo l’ordine. Marco cioè non ha udito il Signore né Lo ha accompagnato; ma più tardi, come già detto, ha udito Pietro, che disponeva i suoi insegnamenti secondo i bisogni e non come uno, che dia un’esposizione scritta dei discorsi del Signore. Così Marco non ha affatto peccato, se scrisse alcunché così, come si ricordava. Poiché solo d’una cosa ebbe cura, di non omettere nulla di quello che aveva udito o di non dire in questo il non vero ». A. questa antichissima testimonianza se ne aggiungono altre molto importanti, come ad esempio quella di Clemente Alessandrino (+ 231): Marco a Roma fu pregato dai cavalieri imperiali di mettere per iscritto le istruzioni, che Pietro aveva loro impartite; quando questi ne venne a conoscenza, non ne impedì il suo interprete né lo incoraggiò; Eusebio però, rifacendosi a Clemente, riferisce che Pietro poi approvò espressamente il Vangelo completo e stabilì che se ne desse lettura nelle chiese. Gli scrittori ecclesiastici più antichi, più vicini ai tempi apostolici sono unanimi nel mostrare l’intima connessione del vangelo di Marco con la predicazione di Pietro, Tertulliano anzi lo chiama senz’altro « il Vangelo di Pietro ». Passando a considerare il Vangelo stesso, possiamo affermare che gli occhi vivaci e buoni di Pietro ci rivolgono il loro sguardo quasi da ogni riga. Il contenuto e l’indole del suo insegnamento li conosciamo abbastanza bene attraverso le sue otto prediche contenute negli Atti degli Apostoli e le sue due lettere; ora il Vangelo di Marco appare esserne l’eco fedele; confrontandolo, per esempio, col discorso che l’Apostolo disse in casa di Cornelio, abbiamo l’impressione d’avere dinanzi una descrizione e uno sviluppo di quanto a grandi linee Pietro aveva abbozzato in casa del primo pagano accolto nella Chiesa. Marco narra con forza e colore la preparazione al lieto messaggio mediante la predicazione del Battista, il battesimo e le tentazioni di Gesù, la vocazione dei primi discepoli (capitolo 1, 1-20); segue lo svolgimento dell’attività in Galilea: il giorno dei miracoli a Cafarnao, i primi cinque conflitti con i Farisei, il ministero sul lago e le peregrinazioni intorno ad esso — il Vangelo del pescatore! — (capitoli 1, 21-8, 26); la conclusione del ministero galilaico: la professione di Pietro e la rivelazione del mistero della croce (capitoli 8, 27-9, 50); infine il compimento: il viaggio a Gerusalemme, la Domenica delle Palme e la Pasqua (capitoli 10, 1-16, 20). – Ma desideriamo vedere in qual modo il Vangelo di Marco si regoli con lo stesso Pietro. Modo abbastanza singolare! Si fa spesso parola di lui, più diffusamente che dagli altri Evangelisti; ma quando si tratta della sua preminenza e dei suoi privilegi, Marco si fa muto; non poté certamente evitare di concedergli il primo posto nel catalogo degli Apostoli, ma il fratello suo Andrea, non lo collocò al secondo posto, come fanno Matteo e Luca, bensì al quarto. Marco sembra pure ignorare che il suo maestro una volta camminò miracolosamente sulle onde del lago, che con un miracolo gli fu pagata la tassa e con un altro gli fu riempita la barca di pesci sino a sprofondare, che gli fu promessa una speciale preghiera del Signore. Ancor più meraviglia che nel secondo Vangelo non s’incontrino neppure quelle parole essenziali, che costituiscono il fondamento della grandezza propria di Pietro: « Tu sei Pietro, la roccia, e su questa roccia Io edificherò la mia Chiesa. A te darò le chiavi del regno dei Cieli »; e invano vi cercheremmo anche quelle altre, notate da Giovanni: « Pasci le mie pecore! Pasci i miei agnelli! ». Al contrario, quando si tratta di qualche cosa di sgradito e che fa arrossire, come ad esempio della natura irriflessiva di Pietro, della sua replica audace, del suo sonno sul Monte degli Olivi e anzitutto della sua triplice negazione, che ancor oggi fa arrossire ogni suo amico, allora Marco racconta tutto esatto e circostanziato. Il caro discepolo deve aver avuta spesso la tentazione di sopprimere qualche scena troppo penosa per il padre e amico suo Pietro, ma questi nella sua umiltà non tollerò che lo facesse. Ci richiama a questa umiltà di Pietro, che emerge dal Vangelo di Marco, già il Crisostomo: « Marco, il discepolo di Pietro, non ha messo in iscritto questo importante episodio — il saldo dell’imposta con un miracolo  —, perché con esso era congiunto un grande onore per Pietro; ha scritto invece il suo rinnegamento; quello che metteva in vista lo ha taciuto; forse il suo maestro gli aveva proibito di far sapere le cose mirabili riguardanti la sua persona ». Comunque, Pietro non decantò certamente le sue prerogative, che quindi non entrarono neppure nel vangelo di Marco; di qui una prova dal Vangelo stesso della sua genuinità. – Ma anche il suo stile e la sua lingua ci ricordano Pietro. Il vocabolario del secondo Vangelo ricorre lo stesso anche nelle lettere e nei discorsi del Principe degli Apostoli; la sola paroletta « euthys-subito », che in questo Vangelo non ricorre meno di 43 volte, tradisce Pietro, ch’era un sanguigno così pronto, che lo si potrebbe chiamare l’Apostolo « Subito ». Quanta vivacità e chiarezza poi nella narrazione di Marco e come è evidente che si compiace nella descrizione! Si leggano, ad esempio, le relazioni della guarigione della mano rattrappita, della guarigione del fanciullo ossesso e soprattutto il drammatico episodio dei duemila porci nella regione dei Geraseni: l’obiettivo Matteo riferisce tranquillo: « Gli spiriti cattivi Lo pregarono: “Se ci cacci, mandaci nel branco di porci”. Egli rispose loro: “Andatevene!”. Allora se n’andarono ed entrarono nei porci. Di conseguenza l’intero branco si precipitò giù per il declivio nel lago e annegò nelle onde ». Marco invece con più forza, occhi attenti e orecchi protesi descrive: « Lo spirito cattivo gridò ad alta voce: “Che ho da fare con Te, Gesù, Figlio di Dio, dell’Altissimo? Io Ti scongiuro per Iddio di non tormentarmi…”. Poi lo pregava insistentemente di non cacciarlo via dalla regione. Sul pendio del monte pascolava una gran mandria di porci. Allora lo pregarono: “Permettici di entrare nei porci”. Lo permise loro. La mandria allora di circa duemila capi si precipitò giù per il pendio nel lago e nel lago affogò ». –  Matteo e Marco! Nei loro Vangeli si rispecchiano chiaramente anche gli autori; il Vangelo di Marco quindi, lascia a desiderare quanto ad adattamento, forbitezza e bell’ordine, che caratterizzano il Vangelo del pubblicano, amante del sistema e dello schema; il secondo Vangelo è impetuoso come lo stesso Pietro, non ingegnoso nella distribuzione del materiale, non delicato nell’espressione; non importa molto a Pietro scambiare un nominativo con un accusativo, di tralasciare una parola, di annettere direttamente una muova sezione; un insegnante di lingue s’indispettirebbe e farebbe scorrere molto inchiostro rosso; che consolazione per gli scolari! Già Papia osservava questa deficienza « nell’ordine », e intendeva precisamente la noncuranza letteraria del secondo Vangelo. Che interesse poteva avere per Pietro? Non era suo metodo badare accuratamente che la sua predica si presentasse in due parti con tre pensieri ciascuna, che fluisse con l’armonia del ritmo, che non le mancassero i geniali giochi di parole; la sua bocca sovrabbondava della pienezza del suo cuore, e Marco mise in iscritto le cose dette appunto come erompevano dal cuore del maestro, sciolte e fresche come una gorgogliante sorgente. – Gli studi sulla caratteristica del secondo Vangelo hanno sempre più imposto il silenzio a quelle teorie razionalistiche, secondo le quali bisognava distinguere fra il Vangelo dell’Urmarco e il Vangelo del Marco odierno; ché nel secondo Vangelo attuale è impresso troppo profondamente il sigillo di Marco-Pietro perché lo si possa negare, senza dire del fatto controllabile da ognuno dell’uso del Vangelo da parte già dei più antichi scrittori ecclesiastici. Oggi sono ancora discussi i versetti 9-20 dell’ultimo capitolo. Essi mancano nei due manoscritti greci più antichi e in qualche traduzione orientale molto antica; ricorrono anche, in questa sezione finale, delle espressioni sconosciute al resto del Vangelo; nondimeno non è possibile addurre una prova convincente che i versetti in questione non abbiano per autore Marco, poiché la stragrande maggioranza dei manoscritti — 160 contro 7 — ha la medesima finale del secondo Vangelo odierno; potrebbe darsi che, come Giovanni, anche Marco abbia terminato il suo Vangelo con l’attuale conclusione soltanto in un tempo posteriore; tutti del resto concedono ch’egli non poté terminare col versetto 16, 8. – Come attesta l’antichità cristiana, Marco scrisse il suo Vangelo per gli etnicocristiani, specialmente per quelli di Roma, « spinto dalle preghiere insistenti dei Cristiani di Roma, perché volesse lasciar loro un ricordo scritto delle istruzioni proposte da Pietro a viva voce ». Una tradizione orientale, conservataci da Diounisio bar Salibi, dice a questo riguardo: «Poiché i Romani sapevano che Pietro voleva andarsene per predicare in altri luoghi, lo pregarono di scrivere un Vangelo; egli però non assecondò il loro desiderio, perché non ne aveva il tempo, giacché, in qualità di capo dei predicatori, doveva predicare il suo Vangelo al popolo giudaico e ai pagani; temeva anche che i fedeli, per accogliere il suo, mettessero in disparte i tre (altri) Vangeli, perché egli era il capo e il primo; e infine, a causa del suo rinnegamento, egli si riteneva indegno di scrivere il Vangelo. Per questo pregò che scrivesse Marco, suo discepolo, e questi riferì tutto quello, che aveva ascoltato dalla sua bocca ». Quest’informazione erra certamente in quanto presenta il Vangelo di Marco come l’ultimo dei quattro Vangeli; non è né l’ultimo né il primo, ma, per la quasi unanime testimonianza della tradizione, è il secondo; l’epoca della sua redazione deve cadere fra gli anni 51-62, fu certamente scritto prima della morte di Pietro (+ 67), come assicurano Clemente Alessandrino e gli altri antichi scrittori ecclesiastici. – Un largo influsso nella struttura del secondo Vangelo l’ebbe anche l’accolta di lettori romani e di qui dipende la sua divergenza sotto molti aspetti da quello di Matteo. Marco, avendo per destinatari immediati del suo Vangelo degli etnicocristiani, omise molta parte di quello, che Matteo, scrivendo per i giudeocristiani, aveva messo in risalto della vita tanto ricca di Gesù per provare la sua messianità; la comunità cristiana di Roma non se ne intendeva e non aveva l’interesse dei Cristiani di Palestina quanto all’adempimento delle profezie del Vecchio Testamento, per le questioni della legge mosaica e per i conflitti di Gesù con i Farisei. Marco tralascia questi dettagli; non ha quindi il discorso sul monte, non il discorso « Guai a voi! »; in lui non incontriamo neppure la parola « Legge », che nel Vangelo di Matteo ha una parte così importante; quando deve ricordare istituzioni e usi giudaici, si dà premura di spiegarli ai lettori, che li ignorano. Gli interessa di far conoscere ai Romani non tanto le parole di Gesù quanto piuttosto le sue opere; il loro animo calmo e pratico è guadagnato al Signore più rapidamente dai fatti di Lui che non per mezzo di dottrine; ecco perché nel secondo Vangelo troviamo in prima linea i miracoli e perché nel riferirli Marco generalmente non fa abbreviazioni. In modo singolarmente perspicuo e attraente descrive i miracoli sugli ossessi, poiché la virtù divina del Signore si rivela quanto mai possente nella repressione del demonio e per i Romani, che sapevano della potenza diabolica, era tanto efficace. Attenendosi a questi criteri, Marco delineò nel suo Vangelo una figura di Cristo, che inonda di giubilo e di orgoglio ogni cuore cristiano: ci dipinse Cristo Re! Il primo versetto intona con accordo vigoroso il tema di tutto il Vangelo: « Il Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio»; e ai piedi della croce, confermando e ammirando, il centurione romano risponde come un’eco lontana e grida: « Veramente quest’Uomo era il Figlio di Dio ». Il Vangelo di Marco presenta questo titolo « Figlio di Dio » senza spiegarne la profondità, come invece fa Giovanni; però, anche se l’Evangelista non istruisce espressamente circa la preesistenza e l’uguaglianza sostanziale di Gesù col Padre, tutti i lineamenti della figura di Gesù da lui tracciata rimontano alla Causa prima e alla origine divina; poiché l’onnipotenza, che inerisce a Gesù, non è a casa sua che in Dio soltanto. Il Vangelo di Marco, essendo il più corto di tutti, è pure il meno usato fra tutti; e nondimeno esso ha anche per la nostra epoca e soprattutto per il mondo maschile la sua utilità particolare: la figura di Cristo, che s’è levata sopra il nostro secolo, grande, serena, sublime, è la figura del Vangelo di Marco, è Cristo, il Figlio di Dio, pieno di potere e di forza; Cristo, il Re troneggiante; Cristo il Signore del mondo. Vicini a un eroismo menzognero, i nostri occhi si sono aperti alla grandezza di Cristo; dinanzi a Lui e dinanzi a Lui soltanto pieghiamo con orgoglio il nostro ginocchio: « Veramente quest’Uomo è il Figlio di Dio! ».

MARCO MISSIONARIO

Pietro era morto, Paolo era morto, ma Gesù « rimane lo stesso ieri, e oggi, e in eterno »; anche dopo la morte dei due Principi, cui Marco aveva servito con fedeltà e cui forse aveva chiusi gli occhi affranti, l’opera del Re continuò per mezzo del discepolo. Numerose testimonianze attestano che annunziò il lieto messaggio in Egitto, ove anche fondò la chiesa di Alessandria, della quale fu il primo presule. Questa tradizione è attendibile, anche se i due luminari della chiesa alessandrina, Clemente e Origene, serbano a questo riguardo assoluto e curioso silenzio. Alessandria e Antiochia! Antiochia, la città di Paolo e Alessandria, la città di Marco! Si direbbe che la tensione fra Paolo e Marco si fosse comunicata anche alle loro città. Ambedue, infatti, le città furono centri della cultura cristiana e anzitutto della scienza biblica, in contrasto però fra loro; la scuola alessandrina indagò il senso allegorico delle Sacre Scritture, la scuola antiochena invece quello storico. Per un ministero di Marco in Egitto abbiamo a nostra disposizione alcuni anni fra il 52 e il 62 e poi nuovamente gli anni, che seguirono al rimpatrio deI Principi degli Apostoli. Se interroghiamo le più antiche informazioni riguardo all’epoca, in cui andò in Egitto, e la durata del suo ministero ivi esercitato, otteniamo risposte diverse. È abbastanza frequente la notizia di Marco inviato da Roma in Egitto, dove avrebbe portato il suo Vangelo già scritto; Giovanni Crisostomo invece, secondo il quale Marco avrebbe scritto il Vangelo soltanto in Egitto, è solo ad affermarlo. L’antica tradizione, secondo la quale Marco lasciò l’Egitto l’ottavo anno di governo dell’imperatore Nerone — l’anno 62 —, stabilendovi come capo della chiesa di Alessandria Aniano, prima calzolaio, è conciliabile con i dati biblici, i quali esigono ch’egli si trovasse a Roma al più tardi l’anno 62. Possiamo dunque affermare come molto probabile che Marco si sia portato ad Alessandria verso l’anno 54 e abbia esercitato il ministero ecclesiastico come presule della città sino all’anno 62. Se dovessimo prestare orecchio alle chiacchiere, che intorno all’opera di Marco in Egitto si leggono negli « Atti di Marco », scritti verso la metà del quarto secolo, a lui sarebbe stato assegnato l’Egitto fin dal momento della separazione degli Apostoli, per primo avrebbe predicato il Vangelo in tutta la regione e poi in Libia, nella Marmarica, nell’Ammoniaca, l’oasi di Giove Ammon, e nella Pentapoli, la terra della sua infanzia; indi ricevette in ispirito l’ordine di mettersi in cammino verso Alessandria per presentarsi al Faraone; all’entrata in città, le scarpe gli si rompono; si rivolge a un calzolaio; riparandole, questi si ferisce seriamente; Marco lo guarisce con un miracolo, lo istruisce intorno al Figlio di Dio Gesù Cristo; a questo punto il calzolaio lamenta, rimpiangendo, che i ragazzi egiziani vengono istruiti soltanto nell’Iliade e nell’Odissea; Marco amministra ad Aniano e alla sua famiglia il battesimo e lo consacra vescovo della chiesa di Alessandria, prima ch’egli debba sottrarsi con la fuga alle insidie degli idolatri sdegnati. Secondo la leggenda scappa poi nella Pentapoli, ma i documenti storici, quali la lettera di Pietro, quella ai Colossesi e quella a Filemone, esigono ch’egli in questo tempo sia a Roma; di qui fu inviato da Pietro o da Paolo in Asia Minore per una missione; nell’anno 66/67 Paolo prega e ottiene che dall’Asia Minore, ritorni di nuovo a Roma, donde, dopo la morte dei Principi degli Apostoli, parte nuovamente per Alessandria, dove lavora nella propria vigna; le antiche informazioni, infatti, sono unanimi nell’attestare un’attività di Marco ad Alessandria in due tempi. Che apostolato movimentato il suo! Cipro! Roma! Egitto! Roma! Asia Minore! Roma! Alessandria!. Com’è divenuto ricco e attivo! Un giorno, quando con Paolo doveva attraversare il Tauro, gli era venuto meno l’animo; e adesso gareggia quasi col suo rigido maestro nel travaglio della peregrinazione apostolica. Marco dà ragione a tutti coloro, che non si sgomentano per il fallimento dei giovani. – Egli morì probabilmente nell’anno 14° dell’impero di Nerone e, secondo una relazione, di morte naturale, secondo un’altra come martire. Gli « Atti di Marco » descrivono il suo rimpatrio così: mentre, nella festa di Pasqua, che in quell’anno cadeva il giorno 24 aprile, stava celebrando le funzioni solenni, fu preso dai pagani, che in quel giorno stesso celebravano la loro festa in onore di Serapide, fu legato con funi al collo e in questo modo straziante fu trascinato per le vie di Alessandria; poi il corpo lacerato fu gettato in carcere, dove nella notte un Angelo confortò il Martire: « Marco, ministro di Dio, il tuo nome è scritto nel libro della vita eterna e la tua memoria non si cancellerà in perpetuo; gli Angeli custodiranno la tua anima e il tuo corpo non imputridirà nella terra »; il giorno appresso il crudele tormento fu ripetuto; Marco vi soccombette e il suo corpo fu bruciato. La Chiesa romana il 25 aprile, giorno della sua morte, ne accompagna la festa con una processione rogazionale attraverso le verdeggianti campagne e fra gli alberi in fiore: non fu anche Marco come un albero fiorente, bello ma in pericolo nel fiore della sua giovinezza? Volesse il Cielo che tutti gli alberi di maggio portassero a maturazione i frutti copiosi e pregiati di Marco! La leggenda delle sue reliquie, che dovrebbe essere sorta veramente soltanto nel secolo nono, fa l’impressione d’essere bizzarra: dopo la conquista dell’Egitto da parte dei Saraceni, l’imperatore Leone l’Armeno (813-820) proibì ogni traffico con Alessandria; ma, nonostante l’ingiunzione di questo divieto fatta dal doge Giustiniano (827-830), i due distinti veneziani Bono e Rustico si portarono ad Alessandria, dove trovarono i Cristiani in grande preoccupazione; essi allora decisero di rubare i resti mortali dell’Evangelista per sottrarli a un eventuale colpo di mano degli increduli e portarli al sicuro in terra cristiana; per dissimulare il pio inganno, indossarono le reliquie di Santa Claudia, vergine, del mantello di seta di Marco e su d’un’imbarcazione riuscirono a portare felicemente il bramato tesoro delle reliquie a Venezia. Vogliamo lasciare ai Veneziani San Marco! Anche presso di loro egli trova tutto bello, come nel tempo della sua giovinezza: la maestosa basilica che gli eressero (976-1071), la piazza meravigliosa che seppero crearle dinanzi, come una sorella della piazza di San Pietro a Roma — Pietro e Marco! —, le vie azzurre che s’intrecciano attraverso la città, le imbarcazioni dagli svolazzanti nastri variopinti, i mandolini che tanto soavemente s’insinuano nell’orecchio e nel cuore; questo paradiso sta davvero bene per Marco! Libero l’animo da ogni pensiero e desiderio, l’occhio dalla gondola dondolante si ricrea nella bellezza di Venezia, che sale dal mare come una prima visione dell’Oriente. Ma resta ancora il leone! Che ha da che fare il leone con Marco? È il simbolo di lui come evangelista, perché nel primo capitolo del suo Vangelo scrive del « deserto », dove il leone ha la sua patria. Marco e il leone! In un dipinto del Pinturicchio il leone guarda, come fosse un uomo, tristemente, perché può solamente ruggire, non può essere anche così amabile com’è Marco. E ancor più mirabile è quest’altra cosa, che il « kolobodaktylos », il Marco dalle dita piccole e delicate, abbia nella sua persona e nella sua opera qualche cosa della forza del leone. – E in questo forse sta il mistero e la grandezza di Marco, ch’egli cioè, ch’era stato tanto circondato da cure, sia divenuto per Cristo e in Cristo un leon

FESTA DI SAN GIUSEPPE (2023)

FESTA DI SAN GIUSEPPE 2023

Sancta Missa

San Giuseppe, Sposo della B. V. Maria, Conf.

Doppio di 1* classe. – Paramenti bianchi.

La Chiesa onora sempre, con Gesù e Maria, San Giuseppe, specialmente nelle feste di Natale; ecco perché il Vangelo di questo giorno è quello del 24 dicembre. La Chiesa diede a questo Santo fin dall’VIII sec, secondo un calendario copto, un culto liturgico nel giorno 20 luglio. Alla fine del XV sec. la sua festa fu fissata al 19 marzo e nel 1621 Gregorio XV l’estese a tutta la Chiesa. – 1870 Pio IX proclamò San Giuseppe protettore della Chiesa universale. Questo Santo, « della stirpe reale di Davide », era un uomo giusto (Vang.) e per il suo matrimonio con la Santa Vergine ha dei diritti sul frutto benedetto del seno verginale della Sposa. Una affinità di ordine legale esiste tra lui e Gesù, sul quale esercitò un diritto di paternità, che il Prefazio di San Giuseppe designa delicatamente con queste parole « paterna vice ». Senza aver generato Gesù, San Giuseppe, per i legami che l’uniscono a Maria, è, legalmente e moralmente, il padre del Figlio della Santa Vergine. Ne segue che bisogna con atti di culto riconoscere inquesta dignità o eccellenza soprannaturale di San Giuseppe. Vi erano nella famiglia di Nazareth le tre persone più grandi ed eccellenti dell’universo; il Cristo Uomo-Dio, la Vergine Maria Madre di Dio, Giuseppe padre putativo del Cristo. Per questo al Cristo si deve il culto di latria, alla Vergine il culto di iperdulia, a San Giuseppe il culto di suprema dulia. Dio gli rivelò il mistero dell’incarnazione (ìd.) e « lo scelse tra tutti gli uomini » (Ep.) per affidargli la custodia del Verbo incarnato e della Verginità di Maria [Toccava al padre imporre un nome al proprio figlio. L’Angelo, incaricando da parte di Dio di questa missione, Giuseppe, gli mostra con ciò che, nei riguardi di Gesù, ha gli stessi diritti che se egli ne fosse veramente il padre.]. – L’inno delle Lodi dice che: « Cristo e la Vergine assistettero all’ultimo momento San Giuseppe il cui viso era improntato ad una dolce serenità ». San Giuseppe salì al cielo per godere per sempre faccia a faccia la visione del Verbo di cui aveva contemplato cosi lungamente e da vicino l’umanità sulla terra. Questo santo è dunque considerato giustamente come il patrono ed il modello delle anime contemplative. Nella patria celeste San Giuseppe conserva un grande potere sul cuore del Figlio e della sua Santissima Sposa (Or.). Imitiamo in questo santo tempo la purezza, l’umiltà, lo spirito di preghiera e di raccoglimento di Giuseppe a Nazaret, dove egli visse con Dio, come Mosè sulla nube.

Incipit

In nómine Patris,et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XCI : 13-14.


Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.

 [Il giusto fiorisce come palma, cresce come cedro del Libano: piantato nella casa del Signore: negli atrii della casa del nostro Dio.]

Ps XCI: 2.
Bonum est confiteri Dómino: et psállere nómini tuo, Altíssime.
[É bello lodarTi, o Signore: e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.

[Il giusto fiorisce come palma, cresce come cedro del Libano: piantato nella casa del Signore: negli atrii della casa del nostro Dio.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Sanctíssimæ Genetrícis tuæ Sponsi, quǽsumus. Dómine, méritis adjuvémur: ut, quod possibílitas nostra non óbtinet, ejus nobis intercessióne donétur:

[Ti preghiamo, o Signore, fa che, aiutati dai meriti dello Sposo della Tua Santissima Madre, ciò che da noi non possiamo ottenere ci sia concesso per la sua intercessione]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XLV: 1-6.

Diléctus Deo et homínibus, cujus memória in benedictióne est. Símilem illum fecit in glória sanctórum, et magnificávit eum in timóre inimicórum, et in verbis suis monstra placávit. Glorificávit illum in conspéctu regum, et jussit illi coram pópulo suo, et osténdit illi glóriam suam. In fide et lenitáte ipsíus sanctum fecit illum, et elégit eum ex omni carne. Audívit enim eum et vocem ipsíus, et indúxit illum in nubem. Et dedit illi coram præcépta, et legem vitæ et disciplínæ.

[Fu caro a Dio e agli uomini, la sua memoria è in benedizione. Il Signore lo fece simile ai Santi nella gloria e lo rese grande e terribile ai nemici: e con la sua parola fece cessare le piaghe. Lo glorificò al cospetto del re e gli diede i comandamenti per il suo popolo, e gli fece vedere la sua gloria. Per la sua fede e la sua mansuetudine lo consacrò e lo elesse tra tutti i mortali. Dio infatti ascoltò la sua voce e lo fece entrare nella nuvola. Faccia a faccia gli diede i precetti e la legge della vita e della scienza].

Graduale

Ps XX :4-5.
Dómine, prævenísti eum in benedictiónibus dulcédinis: posuísti in cápite ejus corónam de lápide pretióso.

[O Signore, lo hai prevenuto con fauste benedizioni: gli ponesti sul capo una corona di pietre preziose.]

V. Vitam pétiit a te, et tribuísti ei longitúdinem diérum in sæculum sæculi.

[Ti chiese vita e Tu gli concedesti la estensione dei giorni per i secoli dei secoli].

Ps CXI: 1-3.
Beátus vir, qui timet Dóminum: in mandátis ejus cupit nimis.
V. Potens in terra erit semen ejus: generátio rectórum benedicétur.
V. Glória et divítiæ in domo ejus: et justítia ejus manet in sæculum sæculi.

[Beato l’uomo che teme il Signore: e mette ogni delizia nei suoi comandamenti.
V. La sua progenie sarà potente in terra: sarà benedetta la generazione dei giusti.
V. Gloria e ricchezza sono nella sua casa: e la sua giustizia dura in eterno].

Evangelium

Sequéntia + sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt 1: 18-21.

Cum esset desponsáta Mater Jesu María Joseph, ántequam convenírent, invénta est in útero habens de Spíritu Sancto. Joseph autem, vir ejus, cum esset justus et nollet eam tradúcere, vóluit occúlte dimíttere eam. Hæc autem eo cogitánte, ecce, Angelus Dómini appáruit in somnis ei, dicens: Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est. Páriet autem fílium, et vocábis nomen ejus Jesum: ipse enim salvum fáciet pópulum suum a peccátis eórum.

[Essendo Maria, la Madre di Gesù, sposata a Giuseppe, prima di abitare con lui fu trovata incinta, per virtù dello Spirito Santo. Ora, Giuseppe, suo marito, essendo giusto e non volendo esporla all’infamia, pensò di rimandarla segretamente. Mentre pensava questo, ecco apparirgli in sogno un Angelo del Signore, che gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, cui porrai nome Gesù: perché egli libererà il suo popolo dai suoi peccati].

Sermone di san Bernardo Abbate
Omelia 2 su Missus, verso la fine


Chi e qual uomo sia stato il beato Giuseppe, argomentalo dal titolo onde, sebbene in senso di nutrizio, meritò d’essere onorato così da essere e detto e creduto padre di Dio; argomentalo ancora dal proprio nome, che, come si sa, s’interpreta aumento. Ricorda in pari tempo quel gran Patriarca venduto altra volta in Egitto; e sappi ch’egli non solo ha ereditato il nome di quello, ma ne ha imitato ancora la castità, ne ha meritato l’innocenza e la grazia. E se quel Giuseppe, venduto per invidia dai fratelli e condotto in Egitto, prefigurò la vendita di Cristo; il nostro Giuseppe, fuggendo l’invidia d’Erode, portò Cristo in Egitto. Quegli per rimaner fedele al suo padrone, non volle acconsentire alle voglie della sua padrona: questi, riconoscendo vergine la sua Signora madre del suo Signore, si mantenne continente e fu il suo fedele custode. A quello fu data l’intelligenza dei sogni misteriosi; a questo fu concesso d’essere il confidente e cooperatore dei celesti misteri. Il primo conservò il frumento non per sé, ma per tutto il popolo: il secondo ricevé la custodia del Pane vivo celeste e per sé e per tutto il mondo. Non v’ha dubbio che questo Giuseppe, cui fu sposata la Madre del Salvatore, sia stato un uomo buono e fedele. Voglio dire, « un servo fedele e prudente»

Omelia di san Girolamo Prete
Libr. 1 Commento al cap. 1 di Matteo


Perché fu concepito non da una semplice vergine, ma da una sposata? Primo, perché dalla genealogia di Giuseppe si mostrasse la stirpe di Maria ; secondo, perch’ella non fosse lapidata dai Giudei come adultera: terzo, perché fuggitiva in Egitto avesse un sostegno. Il martire Ignazio aggiunge ancora una quarta ragione perché egli fu concepito da una sposata : affinché, dice, il suo concepimento rimanesse celato al diavolo, che lo credé il frutto non di una vergine, ma di una maritata. Prima che stessero insieme si scoperse che stava per esser madre per opera dello Spirito Santo» Malth. 1, 18. Si scoperse non da altri se non da Giuseppe, al quale per la confidenza di marito non sfuggiva nulla di quanto riguardava la futura sposa. Dal dirsi poi: « Prima che stessero insieme », non ne segue che stessero insieme dopo: perché la Scrittura constata ciò che non era avvenuto.

Omelia di sant’Ambrogio Vescovo
Lib. 4 al capo 4 di Luca, verso la fine


Guarda la clemenza del Signore Salvatore: né mosso a sdegno, né offeso dalla grave ingratitudine, né ferito dalla loro ingiustizia abbandona la Giudea: anzi dimentico dell’ingiuria, memore solo della clemenza, cerca di guadagnare dolcemente i cuori di questo popolo infedele, ora istruendolo, ora liberandone (gl’indemoniati), ora guarendone (i malati). E con ragione san Luca parla prima di un uomo liberato dallo spirito malvagio, e poi racconta la guarigione d’una donna. Perché il Signore era venuto per guarire l’uno e l’altro sesso; ma prima doveva guarire quello che fu creato prima: e non bisognava omettere (di guarire) quella che aveva peccato più per leggerezza di animo che per malvagità.

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

GRANDEZZA E BONTÀ DI SAN GIUSEPPE

Il piccolo figliuolo di Giacobbe, una mattina svegliandosi, diceva ai suoi fratelli e a suo padre: « Io ho sognato una bellissima cosa. Mi trovavo sospeso non so per quale virtù, in mezzo all’azzurro del cielo: ed ecco il sole, la luna e undici stelle fermarsi in giro a me; e adorarmi ». Dopo averlo ascoltato, tutti sgranarono gli occhi e non compresero il significato: quel bambino sarebbe un giorno diventato il Viceré d’Egitto, e suo padre e sua madre e i suoi undici fratelli si sarebbero prostrati a’ suoi piedi implorando un po’ di pane e di misericordia. Il fanciullo sognatore narrò ancora un’altra visione: « Si era nel campo in una giornata ardente di mietitura. Io mieteva ed anche voi mietevate: quand’ecco il mio covone levarsi da solo e starsene ritto mentre i vostri, curvi attorno ad esso, l’adoravano ». I fratelli, tra invidiosi e irosi, scoppiarono a ridere. « Forse che tu sarai il nostro Re? Forse che noi saremo i sudditi della tua minuscola potestà? ». Essi non sapevano come l’avvenire avrebbe dato ragione a quei sogni. Noi invece lo sappiamo dalla storia sacra. Ma noi sappiamo anche come Giuseppe figlio di Giacobbe non è che un’immagine profetica di Giuseppe, il padre putativo di Gesù, lo sposo della vergine Maria. È per lui che in modo più grande e più vero si realizzarono i sogni dell’antico Giuseppe. Vidi quasi solem et lunam et stellas undecim adorare me. Il sole di giustizia e di verità che illumina ogni uomo che viene al mondo è Gesù Cristo. La luna di grazia e di candore è Maria che nella Scrittura è detta splendida più che la luna. Ebbene, nella quieta dimora di Nazareth, Gesù e Maria si curvavano ubbidienti al cenno di Giuseppe, capo della santa famiglia, e lo veneravano affettuosamente. Vidi consurgere manipulum meum et stare; vestrosque manipulos circumstantes adorare. La Chiesa è simile ad un’ampia campagna pronta per la mietitura: S. Giuseppe, patrono della Chiesa universale, vi sta ritto in mezzo a custodirla e a benedirla; mentre intorno a lui accorrono i fedeli da ogni parte. Oh come è grande, come è buono San Giuseppe! Della sua grandezza e della sua bontà dobbiamo parlare quest’oggi, ch’è la sua festa. – GRANDEZZA DI GIUSEPPE. Un retore famoso tesseva un giorno nell’aeropago l’elogio di Filippo il Macedone. Decantate le nobili origini del suo eroe, le ricchezze, la potenza, il coraggio, le vittorie, tacque un istante come se non avesse più nulla d’aggiungere. Ma poi subitamente gridò: « Tutto questo è nulla. Egli fu il padre d’Alessandro, il conquistatore del mondo; ecco la sua gloria immensa ». Anch’io, se vi facessi passare ad una ad una le virtù di S. Giuseppe, potrei infine concludere: « Tutto questo è nulla, la sua gloria eterna è di essere stato il padre custode di Gesù, Salvatore del mondo, e d’essere stato il casto sposo della Vergine Maria, Madre di Dio. Per ciò egli è al disopra dei santi. Questi sono i suoi titoli di nobiltà: consideriamoli singolarmente. a) Sposo di Maria. — Benché Giuseppe e Maria rimanessero per tutta la vita vergini, vivendo insieme come vivrebbero gli Angeli, tuttavia contrassero un legittimo matrimonio; e così S. Giuseppe fu suo sposo vero. Ora, la sposa — come dice anche S. Paolo — è soggetta allo sposo: Maria quindi fu soggetta a S. Giuseppe. Pensate, quanto onore! Sposo di Maria significa essere sposo della creatura più grande che vi fu mai in cielo e in terra, della creatura che fu Madre di Dio. – Sposo di Maria significa essere sposo della Regina degli Angeli, degli Arcangeli, dei Patriarchi, dei Profeti, degli Apostoli, dei martiri; della Regina senza macchia; della Regina di pace. b) Padre di Gesù. — Giuseppe non fu, è vero, il padre naturale di Gesù, perché il Figlio di Dio si fece uomo incarnandosi nel seno purissimo di Maria Vergine per opera dello Spirito Santo. Eppure nel Vangelo più volte è chiamato col nome di padre. Dopo d’aver descritto il mistero della presentazione al tempio, dopo d’aver ricordato le profezie di Simeone, l’Evangelista aggiunge: « Erano suo padre e sua madre meravigliati » (Lc, II, 33). E la Madonna stessa nella gioia di ritrovare il Bambino tra i dottori ricorda S. Giuseppe col nome di padre: « Tuo padre ed io, piangendo, t’abbiamo molto cercato ». Perché, se non cooperò alla sua generazione, S. Giuseppe fu chiamato Padre di Gesù? Per due motivi: perché fu sposo di Maria, e perché di padre ebbe tutta l’autorità e la responsabilità. – Il primo motivo è spiegato da S. Francesco di Sales. « Supponete che una colomba, volando dal suo becco lasci cadere un dattero in un giardino. Il frutto caduto dall’alto s’interra, e sotto l’azione dell’acqua e del sole germoglia, cresce, e diventa una bella palma. Questa palma di chi sarà? Evidentemente del padrone del giardino, come ogni altra cosa è sua che in esso vi nasca. Ora: quella colomba raffigura lo Spirito Santo che lasciò cadere il dattero divino, — il Figlio di Dio, — nel giardino conchiuso dove ogni virtù è fiorita, — il seno di Maria. — E Gesù nacque da Maria; ma appartenendo essa di pieno diritto al castissimo suo sposo, anche Gesù, — palma celeste, — almeno in qualche modo appartiene a Giuseppe ». – Il secondo motivo è spiegato da S. Giovanni Damasceno: « Non è appena la fecondità nel generare che ad alcuno dà il diritto di chiamarsi padre, ma anche l’autorità nel governare, e la responsabilità della vita ». E fu S. Giuseppe che lo sottrasse ad ogni pericolo, che lo allevò in casa sua, che lo fece crescere. Fu S. Giuseppe che insegnò un mestiere al Figlio di Dio, che comandò a Lui come a un garzone. E chissà come tutto tremava in cuore, e come gli si inumidivano gli occhi, quando Gesù gli diceva: « Padre! ». c) Più grande dei Santi. — Se Iddio destina una persona a qualche sublime ufficio, lo riveste di tutte le virtù necessarie per bene adempirlo. Così avendo eletto Maria ad essere sua Madre, la riempì di grazia sopra ogni creatura. Allo stesso modo, in proporzione, avendo eletto S. Giuseppe alla dignità di suo padre putativo e di sposo della Vergine, lo colmò di grazie immense, come nessun altro santo. – Il Vangelo chiama Giuseppe « uomo giusto ». E S. Girolamo spiega che quella parola « giusto » significa che egli possedeva tutte le virtù. Mentre gli altri santi si segnalarono particolarmente chi nell’una chi nell’altra virtù, egli fu perfetto egualmente in tutte le virtù. Per questo il 31 dicembre 1926, nella Basilica di S. Pietro, Pio XI cantando solennemente le litanie dei Santi, immediatamente dopo l’invocazione alla Madonna soggiunse quella a S. Giuseppe : — Sante Joseph intercede prò nobis. – 2. BONTÀ DI GIUSEPPE. Re Assuero, una notte che non poteva prendere sonno, si fece leggere gli annali del suo regno. Il lettore nella quietudine notturna rievocava le gesta del re insonne: le battaglie sanguinose, le vittorie sonanti di grida, i movimenti più trepidi di gioia, e quelli spasimanti di pericolo, ed arrivò ad una congiura. Una congiura ordita da due ufficiali nella stessa reggia: fatalmente il re sarebbe caduto sotto le lame dei cospiratori, se la sagacia vigilante del primo ministro non fosse giunta a svelare la trama iniqua a tempo opportuno. «Fermati!» esclamò Assuero balzando sul letto d’oro… « Chi dunque mi ha salvato? ». « Il primo ministro, sire ». « E quale ricompensa si ebbe? ». « Finora nessuna ». Allora ordinò che al levar del sole il primo ministro fosse rivestito con abiti regali, e cavalcasse il suo cavallo più bello e girasse per le strade di tutta la città, mentre un araldo gridasse davanti a lui: — Così è onorato colui che il re vuol esaltare. — Questi ordini furono eseguiti: e chiunque aveva bisogno di grazia si rivolgeva al primo ministro, sicuro d’essere esaudito dal re. – Ma anche S. Giuseppe, o Cristiani, ha salvato la vita del Re del Cielo, — di Gesù Bambino, — quando la congiura d’Erode ha cercato di soffocarlo nel sangue. E pensate voi che verso il suo salvatore il Re del Cielo sia meno generoso di Re Assuero? Come potrà Iddio negare una grazia quando colui che gliela chiede è San Giuseppe? Si capisce allora come S. Teresa poteva dire: « Non si è mai sentito che alcuno abbia ricorso alla bontà di S. Giuseppe e non sia stato esaudito. Se non mi credete, per amor di Dio vi supplico a farne la prova, e mi crederete ». Gesù predicando alle turbe insegnava: « Chi avrà dato anche solo un bicchier d’acqua chiara all’ultimo povero di questo mondo in Nome mio, avrà gran mercede ». Quale mercede non avrà dunque in Paradiso S. Giuseppe che, non appena un bicchier d’acqua all’ultimo poverello, ma per trent’anni ha nutrito e protetto in casa sua il Figlio di Dio? Rallegriamoci: presso il trono dell’Altissimo abbiamo un protettore onnipotente e buono, che può e desidera soccorrerci in tutti i travagli della vita. La vita è un peso, ha detto S. Paolo, e noi lo esperimentiamo ogni giorno: peso per i dolori, peso per i lavori, peso per la morte. a) Ricorriamo a S. Giuseppe nel dolore. — Tutta la vita non la passò forse in patimento? Ricordate la notte di Natale: nell’albore del verno bussò invano di porta in porta, e fu costretto a porre nella greppia delle bestie il Figlio di Dio. Ricordate la sua fuga, lontano dai parenti, dal paese, dalla bottega, da’ suoi affari. Ricordate i tre giorni di affannosa ricerca, quando lo smarrì in Gerusalemme. Oh! insegni anche a noi a far la volontà di Dio quando siamo tribolati; ci dia la pazienza di vivere in questa valle di lacrime; ci conforti. h) Ricorriamo a S. Giuseppe nel lavoro. — Ci sono alcune volte in cui gli affari vanno male, ed il guadagno manca; in cui ci sembra d’andare in rovina, noie la nostra famiglia. Alziamo lo sguardo a lui: queste angustie egli le ha provate. Chi sa quante volte nella bottega nazarena si sarà sentito accasciato sotto la fatica,e quante volte anch’egli avrà visto i suoi modesti affari prendere una cattiva piega, e forse avrà pianto nel timore di far duramente soffrire la Vergine e il Figlio, dicui aveva la custodia e la responsabilità. Questo Santo che prima di noi ha provato quello che soffriamo noi, non ci negherà nulla. Ma avanti d’esigere che ci ascolti, bisogna sforzarci sull’orma delle sue virtù. Siamo onesti nel lavoro come onesto era lui? c) Ricorriamo a S. Giuseppe per una buona morte. — Morir bene è la cosa più importante di questo mondo. Eppure non è cosa facile: i progressi della civiltà, automobili, treni, velivoli, navi, hanno segnato un crescendo di morti improvvise; la corruzione dei costumi ha segnato un crescendo di morti impenitenti. Occorre il protettore per una morte buona: è S. Giuseppe. Ed invero nessuno ha fatto una morte buona come la sua. Quando Gesù non ebbe più bisogno di chi lo nutrisse e lo allevasse, egli si sentì male ed entrò in agonia. Da una parte aveva la Madonna che piangeva e pregava; dall’altra aveva Gesù che gli sosteneva la testa languida e gli sussurrava: « Grazie di tutto quello che mi hai fatto; ora muori in pace. Muori nel mio bacio, e discendi al Limbo ove annunzierai che l’ora della redenzione è ormai giunta. Pochi anni, e passerò di là a prenderti per sollevarti nel Paradiso che dischiuderò con le mie mani che saranno trafitte ». S. Giuseppe non risponde che non ha più la forza: solo accenna a sorridere e muore. – « Oh che anch’io possa morire così! » sospira ognuno di noi, pensando a quelle beata fine. Questa sarebbe la grazia più bella e più grande che S. Giuseppe ci possa fare. Ma la morte del Giusto, o Cristiani, l’otterrà soltanto chi nella vita l’avrà imitato ed invocato.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps LXXXVIII: 25.


Véritas mea et misericórdia mea cum ipso: et in nómine meo exaltábitur cornu ejus. [La mia fedeltà e la mia misericordia sono con lui: e nel mio nome sarà esaltata la sua potenza].

Secreta

Débitum tibi, Dómine, nostræ réddimus servitútis, supplíciter exorántes: ut, suffrágiis beáti Joseph, Sponsi Genetrícis Fílii tui Jesu Christi, Dómini nostri, in nobis tua múnera tueáris, ob cujus venerándam festivitátem laudis tibi hóstias immolámus.

[Ti rendiamo, o Signore, il doveroso omaggio della nostra sudditanza, prengandoTi supplichevolmente, di custodire in noi i tuoi doni per intercessione del beato Giuseppe, Sposo della Madre del Figlio Tuo Gesù Cristo, nostro Signore, nella cui veneranda solennità Ti presentiamo appunto queste ostie di lode.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

Præfatio
  de S. Joseph

… Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beáti Joseph débitis magnificáre præcóniis, benedícere et prædicáre. Qui et vir justus, a te Deíparæ Vírgini Sponsus est datus: et fidélis servus ac prudens, super Famíliam tuam est constitútus: ut Unigénitum tuum, Sancti Spíritus obumbratióne concéptum, paterna vice custodíret, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Coeli coelorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti júbeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno: noi ti glorifichiamo, ti benediciamo e solennemente ti lodiamo di S. Giuseppe. Egli, uomo giusto, da te fu prescelto come Sposo della Vergine Madre di Dio, e servo saggio e fedele fu posto a capo della tua famiglia, per custodire, come padre, il tuo unico Figlio, concepito per opera dello Spirito Santo, Gesù Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus:

Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt 1: 20.


Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est.

[Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo].

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, quǽsumus, miséricors Deus: et, intercedénte pro nobis beáto Joseph Confessóre, tua circa nos propitiátus dona custódi.

[Assistici, Te ne preghiamo, O Dio misericordioso: e, intercedendo per noi il beato Giuseppe Confessore, propizio custodisci in noi i tuoi doni].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA