DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (28)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (28)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Ultimo ritiro di “Laudem Gloria,, (III.)

Undicesimo Giorno

Tutta la Trinità abita nell’anima

« Il Signore mi ha fatto entrare in un luogo spazioso:  mi ha salvato perché mi voleva bene » (Salmo XVII, 20). Il Creatore, vedendo il silenzio bellissimo che regna nella sua creatura, considerandola tutta raccolta nella sua solitudine interiore, si innamora della sua bellezza e se la porta in quella solitudine immensa, infinita. in quel luogo « spazioso » cantato dal Profeta, che altro non è se non Lui stesso. « Entrerò nella profondità delle potenze delle potenze di Dio » (Salmo LXX, 16). Il Signore per bocca del suo Profeta, ha detto: « La condurrò nella solitudine e le parlerò al cuore » (Osea, II, 14). Ed ecco l’anima entrata nella vasta solitudine in cui Dio le si farà sentire. – « La parola di Dio — dice san Paolo è viva ed efficace, e più penetrante di una spada a doppio taglio essa giunge fino alla divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e al midollo » (Ebr. IV, 12). Essa, dunque, la parola di Dio direttamente, perfezionerà il lavoro di spogliamento nell’anima, perché ha questa caratteristica tutta propria e singolare: che Opera e crea ciò che fa udire, purché l’anima acconsenta e si lasci alla sua azione. – Ma sentire questa parola non basta, bisogna custodirla; custodendola, l’anima sarà santificata nella verità secondo il desiderio del Maestro divino: « Padre, santificali nella verità; la tua parola è verità » (S, Giov. XVII, 17). E a chi custodisce la sua parola, Egli ha promesso: « Il Padre mio lo amerà, e verremo a Lui e in Lui porremo la nostra dimora » (S. Giov. XIV, 23). Tutta la Trinità, dunque, abita nell’anima che ama in verità, cioè che custodisce la divina parola; e quando quest’anima ha compreso la sua ricchezza, tutte le gioie naturali o soprannaturali che possono venirle dalle creature o anche da Dio, altro non fanno che invitarla a rientrare in se stessa per fruire del Bene sostanziale che possiede: il suo Dio. Così, dice san Giovanni della Croce, essa ha una certa somiglianza con l’Essere divino. « Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre dei cieli ». San Paolo mi dice che « Egli compie ogni cosa secondo il consiglio della sua volontà (Ephes. I, 11), e il mio Maestro vuole che io gli renda omaggio anche in questo: fare ogni cosa secondo il consiglio della mia volontà; non lasciarmi mai guidare dalle impressioni, dai moti primi della natura, ma possedermi per mezzo della volontà; e perché questa volontà sia libera, bisogna, secondo la visione di un pio autore, « chiuderla » in quella di Dio. Allora sarò mossa dal suo Spirito, come dice san Paolo, tutto ciò che farò sarà divino ed eterno, e fin d’ora vivrò, ad imitazione del mio Immutabile in un eterno presente.

Dodicesimo Giorno

« Per Lui, io posso accostarmi al Padre »

«Verbum caro factum est, et habitavit in nobis » (S. Giov. II, 4). Dio aveva detto: « Siate santi, perché io sono santo; ma rimaneva nascosto nella sua « luce inaccessibile  », la creatura aveva bisogno che Egli scendesse fino a lei, che vivesse della sua vita, per potere, camminando sulle sue orme, risalire fino a Lui e farsi santa della Sua santità. « Io mi santifico per essi, affinché siano santificati, nella verità» (S. Giov. XVII, 19). Eccomi di fronte al « segreto nascosto ai secoli ed alle generazioni », di fronte al mistero di Cristo, di Lui che « è per noi — dice san Paolo — speranza di gloria » (Col. I, 26 ); e soggiunge che « gli è stata data l’intelligenza di questo mistero » (Ephes. III, 4). Andrò dunque dal grande Apostolo ad istruirmi, affine di possedere « quella scienza che secondo la sua espressione — supera ogni altra: la scienza della carità di Cristo Gesù » (Ephes. III. 19). – Prima di tutto, san Paolo mi dice che « Gesù è la mia pace », che « per Lui, io posso accostarmi al Padre » (Ephes, II, 14-18), perché il Padre dei lumi ha voluto che fosse in Lui ogni pienezza, che per Lui fossero riconciliate tutte le cose, pacificandole tutte, sia in terra, sia in cielo, nel sangue della croce di Lui » (Col. I, 19-20). « In Lui, avrete la pienezza — prosegue l’Apostolo —. Siete stati seppelliti con Lui nel Battesimo, e risuscitati con Lui mediante la fede nell’opera di Dio… ..Vi ha fatto rivivere con Lui, perdonandovi tutti i vostri peccati, cancellando il decreto di condanna che pesava su di noi; l’ha annullato appendendolo alla croce; e, spogliando i principati e le potestà, li ha vittoriosamente condotti in schiavitù, trionfando di essi in se stesso » (Col. II, 10 … 15) … rendervi santi, puri, irreprensibili al suo cospetto » (Col. I, 22). Ecco l’opera di Cristo in ogni anima di buona volontà: ecco il lavoro che il suo immenso amore, il suo «troppo grande amore » lo spinge a compiere in me. Egli vuole essere la mia pace, affinché nulla possa più distrarmi o farmi uscire dalla fortezza inespugnabile del santo raccoglimento; là, Egli mi avvicinerà al Padre, e mi custodirà immobile e quieta alla sua presenza come se la mia anima già fosse nell’eternità », « Col sangue della croce », pacificherà tutto nel mio piccolo cielo, perché esso sia veramente il riposo dei « Tre ». Mi riempirà di sé, mi seppellirà: sé nella sua vita: « Mihi vivere Christus est » (Fil. I, 21). – Se cado ad ogni istante, mi farò rialzare da Lui con fede piena di fiducia; so che mi perdonerà, che cancellerà tutto con cura gelosa; più ancora, mi spoglierà, mi libererà dalle mie miserie, da tutto ciò che ostacola l’azione divina; trascinerà le mie potenze e le farà sue schiave, trionfando di esse in sé medesimo. Allora sarò passata tutta in Lui; potrò dire: « Non vivo più io; il mio Signore vive in me » (Gal. II, 20); e sarò « santa, pura, irreprensibile » agli occhi del Padre.

Tredicesimo Giorno

Camminare in Gesù Cristo

« Instaurare omnia in Christo » (Ephes. I, 10). È ancora san Paolo che mi istruisce, san Paolo che si è inabissato nel grande consiglio di Dio e mi dice che « Egli ha stabilito di instaurare tutte le cose in Cristo ». Perché io, personalmente, possa realizzare questo piano divino, l’Apostolo viene ancora in mio aiuto e mi traccia un regolamento di vita: « Camminate in Gesù Cristo — mi dice — radicati in Lui, edificati in Lui, corroborati nella fede… e crescendo sempre più in Lui con l’azione di grazie » (II, 6, 7, 8). « Camminare in Gesù Cristo », mi pare che significhi uscire da se stessi, perdersi di vista, abbandonarsi per entrare più profondamente, da radicarvisi e da poter sfidare ogni avvenimento, ogni creatura, con le parole bellissime dell’Apostolo: «Chi potrà separarmi dalla carità di Gesù Cristo? » (Rom. VIII, 35). Quando l’anima è fissata in Lui a tale profondità che le sue radici vi affondano, la linfa divina fluisce, sì riversa in lei abbondante, e tutto ciò che è imperfetto, banale, naturale, viene distrutto; « ciò che è mortale viene assorbito dalla vita » (Cor. V, 4). Allora, così spogliata di se stessa e rivestita di Gesù Cristo, l’anima non ha più da temere né i contatti esterni né le interne difficoltà, perché queste cose, anziché esserle di ostacolo, non fanno che « radicarla più profondamente nell’amore » del suo Maestro. – Qualunque cosa avvenga, favorevole o contraria, anzi servendosi di tutto, « sempre lo adora per Lui stesso », perché è libera, affrancata da sé e da ogni cosa, e può cantare col Salmista: « Mi assedî un esercito; non freme il mio cuore; insorga contro di me la battaglia, io spero ugualmente, perché Jahveh mi nasconde nel segreto della sua tenda » (Salmo XXVI, 3-5) e questa tenda è Lui,  – Tutto ciò mi sembra voglia dire san Paolo quando ci esorta ad essere « radicati in Gesù Cristo ». E che cosa significa essere « edificati in Lui? ». Il Profeta canta: «Mi ha innalzato sopra una rupe e la mia testa si erge al di sopra dei nemici che mi circondano » (Salmo XXVI, 5-6). Non è forse questa la figura dell’anima « edificata su Gesù Cristo? ». È Lui la rupe sulla quale essa è stata elevata al di sopra di se stessa, dei sensi, della natura, al di sopra delle consolazioni e dei dolori, al di sopra di tutto ciò che non è unicamente Lui! E là, nel pieno possesso di sé, è dominatrice del suo « io » e, superando se stessa, supera anche tutte le cose. Ma san Paolo mi raccomanda ancora di essere « fortificata nella fede », quella fede che non permette mai all’anima di sonnecchiare, ma che la tiene tutta vigilante sotto lo sguardo del Maestro, tutta intenta alla sua parola creatrice; in quella fede nell’« eccessivo amore » che permette a Dio — mi dice san Paolo — di colmare l’anima « secondo la Sua pienezza » (Ephes. III, 19). Infi e, vuole che io « cresca in Gesù Cristo con l’azione di grazie », perché tutto deve compiersi nel ringraziamento. « Padre, io ti rendo grazie » (S. Giov. XI, 41) cantava l’anima del mio Maestro; ed Egli vuol sentirne l’eco nell’anima mia. – Ma mi sembra che il « cantico nuovo » che più di ogni altro può attirare e conquidere il mio Dio, sia quello di un’anima spoglia, svincolata da se stessa, nella quale Egli possa rispecchiare tutto ciò che è, e possa compiere tutto ciò che gli pare. Quest’anima sta come un’arpa sotto il tocco divino, e tutti i suoi doni sono come altrettante corde che vibrano per cantare giorno e notte «la lode della sua gloria ».

Quattordicesimo Giorno

Conoscere Lui

« Stimo tutte le cose una perdita, di fronte alla superiorità trascendente della conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore. Per amore di Lui, ho tutto perduto…, e le cose tutte stimo come immondizia per possedere Cristo, e per poter essere trovato in Lui non avente una giustizia mia, ma la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Ciò che io voglio, è conoscere Lui, aver parte alle sue sofferenze, essere conforme alla sua morte… Continuo la mia corsa, studiandomi di arrivare là dove Cristo mi ha destinato chiamandomi. Mi preoccupo di una cosa sola: dimenticando tutto ciò che lascio indietro e slanciandomi costantemente verso ciò che mi sta dinanzi, correre diritto alla mèta, al premio della sfuprema vocazione alla quale Dio mi ha chiamato in Gesù Cristo » (Fil. III, 8). Di tale vocazione, l’Apostolo ha spesso rivelato la grandezza. « Dio — egli dice — ci ha eletti in Lui prima della creazione, perché fossimo immacolati e santi al suo cospetto, nell’amore » (Ephes. III, 8). « Siamo stati predestinati, per decreto di Colui che tutto opera secondo il consiglio della sua volontà, affinché siamo la lode della sua gloria » (Ephes. I, 21). Ma come rispondere alla dignità di questa vocazione? – Ecco il segreto: « Mihi vivere Christus est » (Fil. I, 21). …  « Vivo enim, jam non ego, vivit vero in me Christus » (Gal. II, 20) Bisogna essere trasformati in Gesù Cristo, mi insegna sanPaolo: « Coloro che Dio ha conosciuti nella sua prescienza,li ha anche predestinati ad essere conformi all’immaginedel Figlio suo ». È necessario dunque che io studiquesto divino Modello per imitarlo e immedesimarmitanto in Lui, da poter esprimerlo agli occhi del Padre. E, primadi tutti che cosa dice Egli, entrando nel mondp? « Eccomi; vengo, o mio Dio, per fare la tua volontà» (Ebr. X, 9). Mi pare che questa preghiera dovrebbe essere ilpalpito del cuore della sposa. Il Maestro divino fu sì veracein questa prima oblazione! E tutto il resto della suavita non ne fu per così dire, che la conseguenza. « Miocibo — si compiaceva di ripetere — è fare la volontà diColui che mi ha mandato » (S, Giov. IV, 34). E cibo anche per la sposadovrebbe essere la volontà di Dio, pur essendo al tempostesso spada che la immola. « Padre, se è possibile, allontanada me questo calice; ma si faccia la tua volontà e non la mia » (S, Marco, XIV). E, insieme al suo Maestro, in pace, con gioia, va ad ogni immolazione, rallegrandosi di essere stata conosciuta dal Padre, poiché la crocifigge insieme al Figlio suo. « Ho preso le tue leggi per mia eredità in eterno, perché esse sono la delizia del mio cuore » (Salmo CXVIII, 111). Ecco il canto dell’anima del mio Maestro, canto che deve avere una larga eco in quella della sposa; con la sua fedeltà in ogni istante a queste leggi esterne ed interne, essa renderà testimonianza alla verità, e potrà dire: « Colui che mi ha mandata non mi ha lasciata sola; Egli è sempre con me, perché io faccia sempre ciò che a Lui piace » (San Giov. VIII, 29). Non lasciandolo mai, mettendosi fortemente a contatto con Lui, ella potrà irradiare quella virtù segreta che salva e redime le anime. Spoglia, libera di se stessa e di tutte le cose, potrà seguire il Maestro sul monte per elevare dalla sua anima, con Lui, « una orazione a Dio » (San Luca, VI, 12). Poi, sempre per mezzo del divino Adorante, di Colui che fu la grande lode di gloria del Padre, «offrirà ininterrottamente a Dio un’ostia di lode, cioè il frutto delle labbra che rendono gloria al suo Nome » (Ebr. XIII, 5). « E Lo loderà nella espansione della Sua potenza, secondo l’immensità della Sua grandezza » (CXLV, 6). Quando suonerà l’ora dell’umiliazione, dell’annientamento, ricorderà questa breve parola: « Jesus autem tacebat » (S. Matt. XXVI, 63), e tacerà custodendo tutta la sua forza al Signore, quella forza che si attinge dal silenzio. Quando verrà l’abbandono, la desolazione, l’angoscia che strapparono a Cristo quel grande grido: « Perché mi hai abbandonato? » (S. Matt. XXVII, 46), si ricorderà di questa preghiera: « Siano essi ripieni del mio gaudio » (S. Giov. XVII, 13); e, bevendo fino in fondo il calice preparatole dal Padre, saprà trovare in quella stessa amarezza una soavità divina. F infine, dopo aver ripetuto tante volte: « Ho sete », (S. Giov. XIX, 29), sete di possederti nella gloria, spirerà dicendo: «Tutt0o è consumato… (S. Giov. XIX, 30). Nelle tue mani raccomando l’anima mia » (S. Luc. XXIII, 46). E il Padre verrà a prenderla per portarla nella Sua eredità dove « nella luce, vedrà la Sua luce » (Salmo XXXV, 10). « Sappiate — cantava Davide — che Dio ha glorificato meravigliosamente il suo Santo » (Salmo IV, 4). Sì, il Santo di Dio sarà stato glorificato in quest’anima, perché vi avrà tutto distrutto per rivestirla di Sé, e perché essa avrà praticamente vissuto la parola del Precursore: « Bisogna che Egli cresca e che io diminuisca » (S. Giov. II, 30).

Quindicesimo Giorno

Janua Coeli

Dopo Gesù Cristo e, s’intende, a quella distanza che passa tra l’infinito e il finito, vi è una creatura che fu tra l’infinito ed il finito, vi è una creatura che fu anch’essa la grande lode di gloria della Trinità santa! Ella corrispose pienamente alla elezione divina di cui parla l’Apostolo: fu sempre pura, immacolata, irreprensibile agli occhi del Dio tre volte Santo. – La sua anima è così semplice, i movimenti ne sono così profondi, che non si possono scorgere. Sembra riprodurre sulla terra la vita dell’Essere divino, l’Essere semplicissimo; quindi, è così trasparente, così luminosa, che si potrebbe crederla la stessa luce; eppure non è che lo « specchio del Sole di giustizia, Speculum justitiæ ». – « La Vergine custodiva queste cose nel suo cuore » (S. Luca, II, 51): tutta la sua storia può essere compendiata in queste parole; visse nel proprio cuore e a tali profondità, che lo sguardo umano non può seguirla. Quando leggo nel Vangelo che « Maria percorse con tutta sollecitudine le montagne della Giudea », per andare a compiere un’opera di carità presso la cugina Elisabetta, io la vedo passare, bella, calma, maestosa, intimamente raccolta col Verbo di Dio. La sua preghiera, come quella di Lui, fu sempre: « Ecce: eccomi! ». Chi? L’ancella del Signore (S, Luca, I, 38), l’ultima tra le sue creature, Lei, sua Madre! – Fra così sincera nella sua umiltà! perché fu sempre dimentica, ignara, libera di se stessa; sicché poteva cantare: « L’Onnipotente ha fatto in me grandi cose; tutte le generazioni mi chiameranno beata » (S. Luca, I, 48-49). Questa Regina dei Vergini è anche Regina dei martiri; ma la spada la trafigge nel cuore perché tutto, in lei, si svolge nell’intimo. – La contemplo. Oh, come è bella nel suo lungo martirio, circonfusa da una specie di maestà da cui emana e forza e dolcezza! Perché ha imparato dal Verbo stesso come devono soffrire quelli che il Padre ha scelti come vittime, quelli che ha deciso di associare alla grande opera della redenzione, « quelli che ha conosciuti e predestinati ad essere conformi al suo Cristo » crocifisso per amore. È lì, ai piedi della Croce, dritta e forte nel suo coraggio sublime; e Gesù mi dice: « Ecce Mater tua » (S. Giov. XIX, 27). Me la dà per Madre. Ed ora che è ritornato al Padre, che ha messo me al suo posto sulla croce affinché « io soffra in me quello che manca alla sua passione per il suo mistico corpo che è la Chiesa », la Vergine è qui ancora, vicina a me, per insegnarmi a soffrire come Lui, per farmi sentire gli ultimi canti dell’anima di Gesù, quei canti che soltanto lei, sua Madre, ha potuto intendere. E quando avrò pronunciato il mio « consummatum est » sarà ancora lei, Janua coeli, che mi introdurrà negli atri divini, sussurrandomi la misteriosa parola: « Lætatus sum in his quæ dicta sunt mihi: in domum Domini ibimus » (Salmo CXXI, 1).

Sedicesimo Giorno

In seno alla tranquilla Trinità

« Come il cervo assetato sospira la fonte di acqua viva, così l’anima mia sospira a te, mio Dio! L’anima mia ha sete del Dio vivente. Quando verrò e comparirò dinanzi al suo Volto? » (Salmo XLI, 2-3). Eppure, « come il passero che ha trovato un rifugio, come la tortorella che ha trovato un nido per deporvi i suoi piccoli » (Salmo LXXXIII, 4), così Laudem gloriæ, in attesa di essere trasferita nella santa Gerusalemme, « beata pacis visio » (Inno alla Dedicazione), ha trovato il suo ritiro, la sua beatitudine, il suo cielo anticipato, ove inizia la sua vita di eternità. « In Dio la mia anima è silenziosa; da Lui aspetto la mia liberazione. Sì, Egli è la rocca dove trovo la salvezza; è la fortezza, e non sarò vinta » (Salmo LXI, 2-3). Ecco il mistero che canta oggi la mia lira. Come a Zaccheo, il Maestro ha detto a me: « Affrettati a discendere, perché voglio alloggiare in casa tua » (S. Luca, XIX, 5). Discendere?!… Ma dove?… Nelle profondità della mia anima, dopo essermi separata, alienata da me stessa, dopo essermi spogliata di me stessa; in una parola: senza di me. « Bisogna che io alloggi in casa tua ». È il Maestro che mi esprime questo desiderio, il mio Maestro che vuole abitare in me col Padre e col suo Spirito di amore perché, come si esprime il discepolo prediletto, io abbia « società » (II Giov. I, 3) con Essi. « Non siete più ospiti o stranieri, ma siete già della casa di Dio » (Ephes. II, 19), dice san Paolo. E questo « essere della casa di Dio », io intendo vivere in seno alla tranquilla Trinità, nel mio abisso interiore, nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento di cui parla san Giovanni della Croce. – Davide cantava: « L’anima mia vien meno, entrando negli atri del Signore » (Salmo LXXXIII, 3). Mi sembra che tale debba essere l’attitudine di ogni anima che si ritira nei suoi atri interiori, per contemplarvi il suo Dio, per prendervi con Lui strettissimo contatto. Essa vien meno, in un’estasi divina, trovandosi dinanzi a questo amore Onnipossente, a questa Maestà infinita che abita in lei. Non è la vita che l’abbandona, ma è lei stessa che, disprezzando questa vita naturale, se ne ritrae perché sente che non è degna del suo essere così ricco: e vuol farla morire, per dileguarsi nel suo Dio. Come è bella questa creatura così libera, spoglia di sé! È ormai in grado di « disporre ascensioni nel suo cuore, per salire, dalla valle delle lacrime, (cioè da tutto quello che è meno di Dio), al luogo che è sua meta » (Salmo LXXXIII, 6-7), quel « luogo spazioso (Salmo XXX, 9) cantato dal Salmista, che è — mi sembra — l’insondabile Trinità: Immensus Pater, immensus Filius; immensus Spiritus Sanctus (Simbolo Atanasiano).Sale, si innalza al di sopra dei sensi, della natura;supera se stessa, supera ogni gioia come ogni dolore,sorpassa tutte le cose, per non più riposarsi fino a chesia penetrata nell’intimo di Colui che ama e che le daràEgli stesso « il riposo dell’immenso abisso » cantato dalSalmista: l’insondabile Trinità. E tutto questo, senza chesia uscita dalla « santa fortezza ».« Il Maestro le ha detto: « Affrettati a discendere ».E ancora senza uscirne, vivrà, a somiglianza dellaTrinità immutabile, in un eterno presente, adorando Iddioper Lui stesso, e diventando, mediante uno sguardo semprepiù semplice, più unitivo, « lo splendore della suagloria » (Ebr. I, 3), o in altre parole, l’incessante lode di gloriadelle sue perfezioni adorabili.

Elevazione alla SS. Trinità

Sintesi della sua vita interiore.

— O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente, per fissarmi in Te, immobile e quieta come se la mia anima fosse già nell’eternità. Nulla possa turbare la mia pace né farmi uscire da Te, o mio Immutabile; ma che, ad ogni istante, io mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero! Pacifica l’anima mia; rendila tuo cielo, tua prediletta dimora e luogo del tuo riposo. Che, qui, io non ti lasci mai solo; ma tutta io vi sia, vigile e attiva nella mia fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice.

O amato mio Cristo, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti… fino a morirne!… Ma sento tutta la mia impotenza; e Ti prego di rivestirmi di Te, di identificare tutti i movimenti della mia anima a quelli dell’anima tua, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che un riflesso della Tua Vita. Vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la mia vita ad ascoltarti, voglio rendermi docilissima ad ogni tuo insegnamento, per imparare tutto da Te; e poi, nelle notti dello spirito, nel vuoto, nell’impotenza, voglio fissarti sempre e starmene sotto il tuo grande splendore. O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione.

O fuoco consumante, Spirito d’amore, discendi in me, perché si faccia nell’anima mia quasi una incarnazione del Verbo! Che io Gli sia un prolungamento di umanità, in cui Egli possa rinnovare tutto il Suo mistero. E Tu, o Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura, coprila della tua ombra, non vedere in essa che il Diletto nel quale hai posto le tue compiacenze. O miei « Tre », mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a Voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra Luce l’abisso delle vostre grandezze.

21 novembre 1904

F I N E

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (26)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (26)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Ultimo ritiro di “Laudem Gloria,, (I.) (*)

« Il mio sogno è di essere

la lode della

sua gloria ».

Giovedì, 16 agosto 1906.

(*) Se si vuol conoscere il pensiero più profondo di suor Elisabetta della Trinità, bisogna ricorrere al suo « Ultimo ritiro ». Essa stessa lo intitolò: « L’ultimo ritiro di Laudem gloriæ », ed è, per così dire, la sua piccola somma mistica, la quintessenza della sua dottrina spirituale nel momento più elevato della sua esperienza mistica. È un vero trattato dell’unione trasformante, quale la concepiva nella linea della sua vocazione suprema di « lode di gloria », e quale interiormente la viveva. E, in esso, lascia un programma di vita a tutte le « lodi di gloria » che più tardi vorranno seguirla nella via di una santità interamente dimentica di sé e tutta orientata verso la gloria purissima della Trinità.

Primo Giorno

« Nescivi »

« Nescivi. Non seppi più nulla » (Cntica; VI, 2): ecco ciò che canta la sposa dei sacri cantici dopo essere stata introdotta nella cella interiore; e questo, mi sembra, dovrebbe essere il ritornello del canto di una « lode di gloria » in questo primo giorno di ritiro in cui il Maestro la fa penetrare sino in fondo all’abisso insondabile, per insegnarle a compiere quell’ufficio che sarà suo per l’eternità, e nel quale già deve esercitarsi nel tempo, che è l’eternità incominciata, ma in continuo progresso. « Nescivi »: non so più nulla, non voglio sapere più nulla, fuorché « la cognizione di Lui, la partecipazione ai suoi dolori, la conformità alla sua morte » (Fil. III, 10). « Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del suo divin Figlio » (Rom. VIII, 29), il Crocifisso per amore. Quando sarò perfettamente conforme a questo divino Esemplare, quando sarò tutta in Lui ed Egli in me, allora adempirò la mia vocazione eterna, quella per la quale Dio in Lui mi elesse « in principio », quella che proseguirò « in æternum » quando, inabissata nel seno della Trinità, sarò l’incessante lode della sua gloria: « laudem gloriæ eius » (Efes. I, 12). « Nessuno ha veduto il Padre, ci dice san Giovanni, se non il Figlio e coloro ai quali è piaciuto al Padre di rivelarlo » (San Giov. VI, 46); e mi pare che si possa soggiungere: Nessuno ha saputo capire il mistero di Cristo nella sua profondità, se non la Vergine santa. Giovanni e la Maddalena sono penetrati molto addentro in questo mistero; san Paolo parla spesso dell’« intelligenza » (Efes. III, 4) che gliene è stata data; eppure, come rimangono nell’ombra tutti i Santi, quando si pensa alla chiarezza interiore della Vergine!… Essa è inenarrabile. Il segreto che « Maria custodiva e meditava nel suo cuore » (San Luca, II, 19) nessuna lingua ha potuto mai rivelarlo, nessuna penna esprimerlo. Questa Madre di grazia formerà l’anima mia, farà sì che la sua figliolina sia un’immagine vivente, « eloquente », del suo « Primogenito » (San Matteo, I, 25), il Figlio dell’Eterno, Colui che fu la perfetta lode di gloria del Padre suo.

Secondo Giorno

« Nel silenzio delle potenze »

« L’anima mia è sempre nelle mie mani» (Salmo CXVIII, 109): è l’intimo canto dell’anima del mio Maestro; ed ecco perché in mezzo a tutte le angosce, Egli rimaneva sempre il Calmo, il Forte. « Porto sempre l’anima mia fra le mie Mani »: che cosa significano queste parole, se non il pieno dominio di sé, in presenza del Pacifico? Vi è un altro canto di Cristo che vorrei incessantemente ripetere: « Per te custodirò la mia fortezza » (Salmo LVIII, 10). E la mia Regola mi dice: « La tua fortezza sarà nel silenzio » (Isaia, XXX, 15). Dunque, serbare la propria fortezza per il Signore mi pare che significhi fare l’unità del nostro essere per mezzo del silenzio interiore; raccogliere tutte le proprie potenze per applicarle al solo esercizio dell’amore, avere quell’occhio semplice che permette alla luce di irradiarci. – Un’anima che scende a patti col proprio io, che si occupa delle sue sensibilità, che va dietro a un pensiero inutile, a un desiderio qualsiasi quest’anima disperde le proprie forze; non è concentrata in Dio. La sua lira non vibra all’unisono; e quando il divin Maestro la tocca, non può trarne armonie divine. Vi è ancora troppo di umano, e si produce una dissonanza. L’anima che si riserba ancora qualche cosa nel suo regno interiore, e le cui potenze non sono « tutte raccolte » in Dio, non può essere una perfetta lode di gloria; essa non è in grado di cantare ininterrottamente il « canticum magnum » di cui parla san Paolo, perché in lei non regna l’unità. E, invece di proseguire la sua lode attraverso tutte le cose, in semplicità, bisogna che si affanni continuamente a radunare le corde del suo strumento. Nel silenzio delle potenze  a disperse un po’ da per tutto. – Come è indispensabile questa bella unità interiore all’anima che vuol vivere quaggiù la vita dei beati, cioè degli esseri semplici, degli spiriti! Mi pare che proprio a questa unità mirava il Maestro divino quando parlava alla Maddalena dell’ « unum necessarium » (San Luca, X, 42). E come lo aveva compreso bene la grande santa! L’occhio dell’anima sua illuminato dalla fede aveva riconosciuto il suo Dio sotto il velo dell’umanità e, silenzio, nell’unità delle potenze, ascoltava la ch’Egli le diceva. Poteva veramente cantare: « Porto sempre l’anima mia nelle mie mani »; e soggiungere la breve parola: « Nescivi ». Sì, ella non sapeva più niente altro che Lui. Potevano far rumore, potevano agitarsi intorno a lei: « Nescivi! ». Potevano accusarla: « Nescivi! ». Nemmeno le ferite recate al suo onore erano capaci, più delle cose esteriori, di farla uscire dal suo sacro silenzio. – Così è dell’anima entrata nella fortezza del santo raccoglimento. Con l’occhio aperto alle chiarezze della fede, scopre il suo Dio presente, vivente in lei; ed ella a sua volta, si tiene così fedelmente presente a Lui nella sua bella semplicità, che Egli la custodisce con cura gelosa. Possono sopraggiungere le agitazioni esterne, le interne tempeste; può venire intaccato il suo onore: « Nescivi! ». Dio può celarsi, può sottrarle la Sua grazia sensibile: « Nescivi! ». E, con san Paolo, esclama: « Per suo amore, ho tutto perduto » (Fil. III, 8). Allora il Signore è libero, libero di effondersi, di donarsi, « a suo beneplacito » (Efes.IV, 7); e l’anima, così semplificata e unificata, diviene il trono dell’Immutabile. Perché l’unità è il trono della Trinità santa.

Terzo Giorno

Alla presenza di Dio

« Stiamo stati predestinati, per disposizione di Colui che compie ogni cosa secondo il consiglio della sua volontà, affinché siamo la lode della sua gloria » (Efes, I, 11-12). San Paolo ci partecipa questa divina elezione, egli che tanto profondamente penetrò nel « segreto celato nel cuore di Dio dall’eternità » (Efes. III, 9). Ed ora egli stesso ci illumina su questa vocazione alla quale siamo stati chiamati: « Dio — egli dice — ci ha eletti in Sé prima della creazione, affinché siamo immacolati e santi al suo cospetto, nella carità » (Efes. I, 4). Se accosto fra loro queste due enunciazioni del piano divino, « eternamente immutabile », posso concludere che, per compiere degnamente il mio ufficio di « laudem gloriæ », devo tenermi in mezzo a tutto e nonostante tutto, « alla presenza di Dio »; l’Apostolo ci dice: « in caritate », cioè in Dio; « Deus caritas est » (San Giovanni, IV, 8): e il contatto con l’Essere divino mi renderà « immacolata e santa » ai suoi sguardi. Tutto questo lo riferisco alla bella virtù della semplicità, della quale un pio autore ha scritto che « dà all’anima il riposo dell’abisso », cioè il riposo in Dio, abisso insondabile, preludio ed eco di quel sabato eterno di cui parla san Paolo: « Noi che abbiamo creduto saremo introdotti in questo riposo » (Ebrei, IV-3). I beati godono questo riposo dell’abisso, perché contemplano Dio nella semplicità della sua Essenza. « Essi lo conoscono come sono conosciuti » da Lui, cioè con lo sguardo semplice della visione intuitiva, ed ecco perché, continua il grande Santo, « sono trasformati di luce in luce, dalla potenza del suo Spirito, nella immagine di Lui » (         II Corinti, III, 18), divenendo così incessante lode di gloria dell’Essere divino che contempla in essi il proprio splendore. – Mi pare che daremmo una gioia immensa al cuore di Dio, se ci esercitassimo, nel cielo dell’anima nostra, in questa occupazione dei beati, e a Lui aderissimo mediante quella contemplazione semplice che riavvicina la creatura a quello stato d’innocenza nel quale Dio l’aveva creata. « A sua immagine e somiglianza » (Gen. I, 26); tale fu il sogno del Creatore: potersi contemplare nella sua creatura, vedere irradiate in essa tutte le sue perfezioni, tutta la sua bellezza, come attraverso un cristallo limpido e terso; non è questa una specie di estensione della sua propria gloria? Per la semplicità dello sguardo col quale fissa il suo Oggetto divino, l’anima si trova separata da tutto quanto la circonda, separata anche e soprattutto da se stessa; allora essa risplende della « cognizione della chiarezza di Dio» (II Cor. III, 18), perché permette all’Essere divino di riflettersi in lei, e tutti i Suoi attributi le sono comunicati. Quest’anima è veramente la lode di gloria di tutti i suoi doni; e in ogni occupazione, anche le più ordinarie, canta il canticum magnum, il canticum novum che fa trasalire il cuore di Dio fin nelle sue profondità. Possiamo ripetere con Isaia: « La tua luce si leverà nelle tenebre, e le tenebre diverranno come il pieno giorno; il Signore ti farà godere un perenne riposo, inonderà la tua anima dei suoi splendori, fortificherà le tue ossa, e tu sarai come un giardino sempre irrigato, come una fontana le cui acque non si esauriscono mai… Ti eleverò al sopra di quanto c’è di più elevato in questo mondo » (Isaia, LVIII, 10 – 14).

Quarto Giorno

Ecco la fede

Ieri Paolo, sollevando un poco il velo, mi permetteva di spingere lo sguardo « nell’eternità dei santi, nella luce » (Col. I, 12), perché io vedessi  la loro occupazione e procurassi, quanto è possibile, di conformare la mia vita alla loro, per adempiere il mio ullicio di « laudem gloriæ ». Oggi san Giovanni, il discepolo che amava, mi schiude le « porte dell’eternità » (Salmo XXIII, 7) perché l’animamia possa nella santa « Gerusalemme, dolce visione di pace (Ufficio della Dedicazione). E, prima di tutto, mi dice che « nonha bisogno di luci, la città,perché lo splendore di Dio la illumina e sua luce è l’Agnello » (Apoc. XXI, 23). Ora, se voglio che la mia città interiore abbia qualche tratto di conformità e di somiglianza con quella del Re immortale dei secoli e riceva la grande irradiazione di Dio, bisogna che io estingua ogni altra luce e che l’Agnello ne sia l’unica face. Ed ecco, mi appare la fede, la bella luce della fede; questa sola deve illuminarmi per andare incontro alle Sposo. Il Salmista canta che « Egli si occulta nelle tenebre » (Salmo XVII, 12); poi, in un altro punto, sembra contraddirsi dicendo: « la luce lo avvolge come una veste » (Salmo CIII, 2). L’insegnamento che per me risulta da questa contraddizione apparente è che devo immergermi nella «sacra tenebra », facendo la notte e il vuoto in tutte le mie potenze. Allora incontrerò il mio Signore, e la luce che lo avvolge come una veste avvolgerà me pure, perché Egli vuole che la sposa sia luminosa della Sua luce, della sola Sua Luce, « ed abbia la chiarezza di Dio » (Apoc. XXI, 11). – Si dice di Mosè che « era incrollabile nella sua fede come se avesse veduto l’Invisibile » (Ebr. XI, 27). Mi pare che tale debba essere la disposizione di una lode di gloria che vuol proseguire, malgrado tutto, il suo inno di ringraziamento: « incrollabile nella sua fede, come se avesse visto l’Invisibile », incrollabile nel credere all’« eccessivo amore ». .. « Abbiamo conosciuto la carità di Dio per noi, e vi abbiamo creduto » (I S. Giovanni, IV, 16). « La fede, dice san Paolo, è sostanza delle cose che speriamo e convinzione di quelle che non ci è dato vedere » (Ebr. XI, 27). Raccolta nella luce che accende in lei questa parola, che cosa importa ormai all’anima sentire o non sentire, essere nella notte o nella luce, godere o non godere? Ella si vergogna, quasi, di fare tali distinzioni; e quando sente di non saper rimanere nell’indifferenza, si disprezza profondamente per il suo poco amore, e rivolge subito lo sguardo al suo Maestro divino per farsi liberare da Lui. « Essa lo esalta — secondo l’espressione di un grande mistico — sulla cima più elevata della montagna del suo cuore », al di sopra, cioè, delle dolcezze e delle consolazioni che da Lui emanano, perché è risoluta a tutto superare per unirsi a Colui che ama. Mi sembra che a quest’anima che possiede una sì grande fede nel Dio-Amore, si possano rivolgere le parole del Principe degli Apostoli: «Voî, che credete, sarete ripieni di un gaudio immutabile e sarete glorificati » (I S. Pietro, IV, 16).

Quinto Giorno

Sulla via del Calvario

« Vidi una grande moltitudine che nessuno poteva enumerare ». Chi sono mai? « Sono coloro che vengono dalla grande tribolazione, che hanno lavato e reso candide le loro stole nel Sangue dell’Agnello; per questo, stanno dinanzi al trono di Dio e Lo servono dì e notte nel suo tempio; e Colui che è assiso sul trono abiterà in essi. Non avran più fame né sete, non li colpirà il sole né ardore alcuno, perché l’Agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti dell’acqua viva; e Dio asciugherà ogni lacrima dei loro occhi » (Apoc. VII, 9-17). Tutti questi eletti che hanno in mano la palma e che sono bagnati dalla grande luce di Dio, hanno dovuto passare prima per la grande tribolazione, conoscere il dolore « immenso come il mare » (Lam. II, 13) cantato dal Profeta. Prima di « contemplare svelatamente la gloria del Signore » (II Cor. III, 18), essi hanno partecipato agli annientamenti del suo Cristo; prima « di essere trasformati di chiarezza in chiarezza nell’immagine dell’Essere divino » (Ibid.), sono stati conformi all’immagine del Verbo Incarnato, Crocifisso per amore. L’anima che vuol servir Dio notte e giorno nel suo tempio, cioè in quel santuario interiore del quale parla san Paolo quando dice: « Il tempio di Dio è santo, e questo tempio siete voi » (I Cor. III, 18), quest’anima deve essere risoluta di partecipare realmente alla passione del suo Signore. Essa è una riscattata che deve a sua volta riscattare altre anime; e canterà perciò sulla sua lira: « Io mi glorio della croce di Gesù Cristo (Gal. VI, 14) …Con Cristo, sono confitta alla croce…» (GA. II, 19) ed ancora: «Do compimento, nella mia carne, a ciò che manca alla passione di Cristo, per il corpo di Lui, che è la Chiesa » (Col. I, 24). « Alla tua destra sta la Regina» (Salmo XLIV, 19): tale è l’atteggiamento di quest’anima. Essa procede sulla via del Calvario alla destra del suo Re crocifisso che, annientato, umiliato, eppure così forte, calmo e pieno di maestà, va alla sua passione, per far risplendere « la gloria della sua grazia » (Efes. I, 6), secondo l’espressione così forte di san Paolo. Ed Egli vuole associare la sua sposa all’opera di redenzione; ma la via dolorosa in cui la fa camminare sembra alla sposa la via della beatitudine, non solo perché alla beatitudine conduce, ma ancora perché il Maestro santo le fa comprendere che deve superare quello che vi è di amaro nel dolore, per trovarvi, come Lui, il suo riposo. Allora, può veramente servire Dio « notte e giorno nel Suo tempio »; le prove interne ed esterne non possono farla uscire dalla santa fortezza in cui Egli l’ha rinchiusa; non ha più « né fame né sete » perché, malgrado il suo struggente desiderio che fu quello del suo Maestro divino: la volontà del Padre; non sente più « il sole che su lei dardeggia », cioè non soffre più di soffrire; « e l’Agnello può condurla, ora, alle sorgenti della vita », come Egli vuole, come gli pare, perché lei non guarda per quali sentieri passa, ma tiene fisso lo sguardo semplicemente sul Pastore che la guida. Dio, chinandosi su quest’anima, sua figlia adottiva, così conforme all’immagine del suo « Figlio primogenito fra tutte le creature » (Col. I, 15), la riconosce per una di quelle da Lui « predestinate, chiamate, giustificate »; ed esulta nelle sue viscere di Padre, pensando di consumare la opera sua, cioè di glorificarla, trasferendola nel suo regno, perché vi canti, nei secoli senza fine, la « lode della sua gloria ».

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (25)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (25)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Il Paradiso sulla terra

«Ho trovato il mio cielo sulla terra, poiché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia.

«Il giorno in cui l’ho compreso, tutto si è illuminato in me; ed io vorrei confidare questo segreto a tutti quelli che amo ».

Come si può trovare il Paradiso sulla terra (*).

(*) Suor Elisabetta della Trinità compose questo ritiro nell’estate 1906, qualche mese prima della sua morte, per rispondere al desiderio di un’anima che le era tanto cara — sua sorella — e che l’aveva pregata di iniziarla al segreto della sua vita interiore. Quì, come nell’« Ultimo ritiro », i sottotitoli sono nostri.

Orazione Prima

La Trinità: ecco la nostra dimora

« Padre, voglio che là dove sono io, siano anche coloro che tu mi hai dati, affinché vedano la gloria che tu mi desti, avendomi amato prima che il mondo fosse » (San Giovanni, XVII-24.). Questa è l’ultima volontà di Cristo, la sua preghiera suprema prima di ritornare al Padre. Egli vuole che, là dove è Lui, siamo anche noi, non solo durante l’eternità, ma anche ora, nel tempo, che è l’eternità incominciata e in continuo progresso. È necessario dunque sapere dove dobbiamo vivere con Lui, per realizzare il suo sogno divino. –  « Il luogo dove sta nascosto il Figlio di Dio è il seno del Padre, ossia l’Essenza divina, invisibile ad ogni occhio mortale, inaccessibile a ad ogni intelligenza umana; il che faceva esclamare ad Isaia: «Tu sei veramente un Dio nascosto » (Is. XLV, 15). Eppure, ci vuole stabili in Lui, vuole che dimoriamo dove Egli dimora, nell’unità dell’amore; vuole che siamo, per così dire, quasi la sua ombra. « Il Battesimo — dice san Paolo — ci ha innestati in Gesù Cristo (Rom. VI, 5). E ancora: « Dio ci fece sedere nei Cieli con Cristo, per dimostrare ai secoli futuri le immense ricchezze della sua grazia » (Ephes. II, 6-7). E aggiunge poi: « Non siete adunque più ospiti e stranieri, ma siete concittadini dei Santi ed appartenete alla famiglia di Dio » (Ephes. II, 19) . La Trinità: ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa paterna dalla quale non dobbiamo uscire mai.

Orazione Seconda

« Rimanete in me »

« Rimanete in me» (S. Giov. XV, 4). È il Verbo di Dio che ci dà questo comando, che esprime questa volontà. « Rimanete in me », non per qualche minuto soltanto, per qualche ora che passa, ma « rimanete » in modo permanente, abituale. Rimanete in me, pregate in me, adorate in me, soffrite in me, lavorate, agite. Rimanete in me quando vi incontrate in qualsiasi persona o cosa; penetrate sempre più addentro in questa profondità, poiché essa è veramente « la solitudine in cui Dio vuole attirare l’anima per parlarle » (Osea, II, 14). Ma, per capire questa parola misteriosa, non bisogna fermarsi alla superficie; bisogna entrare sempre di più, col raccoglimento, nell’Essere divino. – « Continuo la mia corsa » (Fil. III, 12), esclamava san Paolo; così noi dobbiamo scendere ogni giorno nel sentiero dell’abisso che è Dio; lasciamoci scivolare su questa china con una fiducia piena d’amore. «Un abisso chiama un altro abisso » (Ps. XLI). Lì appunto, nella profondità inscrutabile, avverrà l’urto divino; l’abisso della nostra miseria, del nostro nulla, si troverà di fronte all’abisso della misericordia, dell’immensità, del tutto di Dio; lì troveremo la forza di morire a noi stessi, e perdendo la traccia del nostro io, saremo trasformati nell’amore. « Beati quelli che muoiono nel Signore » (Ap. XIII, 12).

Orazione Terza

« Il regno di Dio è dentro di voi »

« Il regno di Dio è dentro di voi» (S, Luc. XVII, 21). Poco fa, Dio ci invitava a rimanere in Lui, a vivere con l’anima nell’eredità della sua gloria, ed ora ci rivela, che, per trovarlo, non è necessario uscire da noi stessi, perché « il regno di Dio è dentro di noi ». San Giovanni della Croce dice che Dio si dà all’anima proprio nella sostanza stessa dell’anima, inaccessibile al mondo e al demonio; allora tutti i suoi movimenti divengono divini, e quantunque siano di Dio, sono anche suoi, perché il Signore li produce in lei e con lei. – Lo stesso santo dice ancora che « Dio è il centro dell’anima »; quando, dunque, essa Lo conoscerà perfettamente, secondo tutta la sua capacità, quando Lo amerà e ne gioirà pienamente, allora sarà arrivata nel centro più profondo che in Lui possa raggiungere. È vero che l’anima, anche prima di essere giunta a questo punto, già si trova in Dio che è suo centro; ma non è nel suo centro più profondo potendo inoltrarsi ancora di più. Poiché è l’amore che unisce l’anima a Dio, quanto più intenso è questo amore, tanto più profondamente essa entra in Dio e in Lui si concentra. Possedendo anche un sol grado di amore, è già nel suo centro; ma quando questo amore avrà raggiunto la perfezione, l’anima sarà penetrata nel suo centro più profondo, e lì sarà trasformata a tal punto, da diventare molto simile a Dio. A quest’anima che vive « interiormente » possono essere rivolte le parole del Padre Lacordaire a santa Maria Maddalena: « Non chiedere più il Maestro a nessuno sulla terra, a nessuno nel cielo, poiché Egli è l’anima tua, e l’anima tua è Lui ».

Orazione Quarta

« Se qualcuno mi ama »

« Se alcuno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a Lui, e in Lui porremo la nostra dimora» (San Giovanni, XIV-23). – Ecco, il Maestro ci esprime ancora il suo desiderio di abitare « in noi »: « Se qualcuno mi ama… ». L’amore!… È l’amore che attira, che abbassa Dio fino alla sua creatura; non un amore di sensibilità, ma quell’amore « forte come la morte… che le grandi acque non possono estinguere » (Cant. VIII, 6-7). – « Perché amo il Padre, faccio sempre ciò che a Lui piace » (S. Giov. VIII, 29): così parlava il Maestro divino, ed ogni anima che vuole vivere unita a Lui, deve vivere anche di questa massima, deve fare del beneplacito divino il suo cibo, il suo pane quotidiano, deve, ad esempio del suo Cristo adorato, lasciarsi immolare da tutte le volontà del Padre: ogni incidente, o evento, ogni pena come ogni gioia è un sacramento che le dona Dio; quindi, non fa più alcuna differenza fra l’una o l’altra di queste cose; le oltrepassa, le supera, per riposarsi, al di sopra di tutte, nel suo Dio. E Lo eleva ben alto sulla montagna del suo cuore; sì, più in alto dei Suoi doni e delle Sue consolazioni, più in alto della dolcezza che da Lui discende. La caratteristica dell’amore è di non ricercare mai sé, di non riservarsi nulla, di donare tutto all’oggetto amato. Beata l’anima che ama in verità! Il Signore è divenuto suo prigioniero d’amore.

Orazione Quinta

« Voi siete morti »

«Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio » (Col- III. 3). Ecco che san Paolo viene a farci luce sul sentiero «Voi siete morti »: che cosa vuol dire se non che l’anima la quale aspira a vivere unita a Dio nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento, deve essere distaccata, spogliata e separata da tutto, almeno in ispirito? « Quotidie morior » (I Cor. XV, 31). Quest’anima trova in se stessa un dolce pendio di amore che va a Dio semplicemente; qualunque cosa facciano le creature, essa rimane invincibile; perché passa al di là di tutte le cose, mirando sempre a Dio solo. « Quotidie morior »: muoio ogni giorno; ogni giorno diminuisco, ogni giorno di più rinunzio a me stessa, affinché Cristo cresca e venga esaltato in me. « Quotidie morior »: la gioia dell’anima mia, (quanto alla volontàe non alla sensibilità), la ripongo in tutto ciò che puòimmolarmi, umiliarmi, annientarmi, perché voglio far postoal mio divino Maestro. « Non son più io che vivo; è Luiche vive in me» (Gal. II, 20): non voglio più vivere della miavita, ma essere trasformata in Gesù Cristo, affinché la miavita sia più divina che umana e il Padre, chinandosi sudi me, possa riconoscere l’immagine del « Figlio diletto nelquale ha posto tutte le sue compiacenze ».

Orazione Sesta

« Il nostro Dio è un fuoco consumante »

« Deus ignis consumens » (Ebr. XII, 20). « Il nostro Dio, scriveva san Paolo, è un fuoco consumante, cioè un fuoco d’amore che distrugge e trasforma in se stesso ciò che tocca ». Per le anime che, nel loro intimo, si sono pienamente abbandonate alla sua azione, la morte mistica di cui parla san Paolo diviene tanto semplice, tanto soave! Esse pensano molto meno al lavoro di spogliamento e di distruzione che rimane loro da compiere, che non ad immergersi nel fuoco d’amore che arde in loro, e che è lo Spirito Santo, quello stesso Amore che, nella Trinità, è il vincolo di unione fra il Padre e il suo Verbo. La fede ve le introduce; e là, semplici e quiete, sono da Lui stesso trasportate in alto, più in alto di tutte le cose, al di sopra dei gusti sensibili, fino alla « tenebra sacra », e trasformate nell’immagine divina. Esse vivono, secondo la espressione di san Giovanni, « in società » (I. S, Giovanni, I, 3) con le Tre adorabili Persone; la loro vita è in comune: è la vita contemplativa.

Orazione Settima

« Sono venuto a portare fuoco sulla terra »

« Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e che cosa desidero se non che si accenda?» (San Luca, XII-49.). Il Maestro stesso ci esprime il suo desiderio di veder bruciare il fuoco dell’amore. Infatti, le nostre opere tutte quante, le nostre fatiche sono un nulla al suo cospetto; niente poi possiamo dargli, e nemmeno appagare l’unico suo desiderio che è di accrescere la dignità dell’anima nostra. Vederla aumentare è ciò che più gli piace; ora, nulla può innalzarci tanto, quanto il divenire, in certo senso, uguali a Dio: ecco perché esige da noi il tributo del nostro amore, essendo proprio dell’amore uguagliare, nei limiti del possibile, l’amante all’amato. L’anima che possiede questo amore appare con Gesù Cristo allo stesso livello di uguaglianza, perché il loro reciproco affetto rende ciò che è dell’uno, comune anche all’altro. «Vi ho chiamati amici, perché a voi ho manifestato tutto quello che ho udito dal Padre mio » (San Giovanni, XV-15.). Ma per giungere a questo amore, l’anima deve prima essersi data interamente; la sua volontà deve essersi dolcemente perduta nella volontà di Dio, così che le sue inclinazioni, le sue facoltà, non si muovano più che in questo amore e per questo amore. Faccio tutto con amore, soffro tutto per amore: tale è il senso di ciò che cantava Davide: « Per te custodirò la mia forza » (Salmo LVIII-10.). L’amore, allora, la riempie, l’assorbe, la protegge così bene, che essa trova ovunque il segreto per crescere nell’amore; anche tra le relazioni che deve avere col mondo, tra le preoccupazioni della vita, ha il diritto di dire: mia sola occupazione è amare.

Orazione Ottava

« Per avvicinarsi a Dio, bisogna credere »

« Per avvicinarsi a Dio, bisogna credere » (Ebrei, XI-16.). ci dice san Paolo; e soggiunge: « La fede è sostanza delle cose che dobbiamo sperare e convinzione di quelle che non ci è dato vedere » (Ebrei, XI-1.). Cioè, la fede ci rende talmente certi e presenti i beni futuri, che, per essa, prendono quasi essenza nell’anima nostra e vi sussistono prima che ci sia dato fruirne. San Giovanni della Croce dice che la fede « è per noi il piede che ci porta a Dio », che è « il possesso allo stato di oscurità ». Soltanto la fede può darci lumi sicuri su Colui che amiamo, può versare a fiotti nel nostro cuore tutti i beni spirituali; e noi dobbiamo eleggerla come il mezzo sicuro per giungere all’unione beatifica. È la fede quella « sorgente d’acqua viva zampillante fino alla vita eterna » (San Giovanni, IV-14.) che Gesù, parlando alla Samaritana, prometteva a tutti quelli che crederebbero in Lui. La fede, dunque, ci dona Iddio fino da questa vita; ce lo dà ascoso nel velo di cui l’avvolge, ma è tuttavia Lui, Lui realmente. « Quando verrà ciò che è perfetto, (ossia la chiara visione) ciò che è imperfetto (ossia la conoscenza dataci dalla fede) avrà fine » (I Corinti, XIII-10.). « Sì, abbiamo conosciuto l’amore di Dio per noi, e vi abbiamo creduto » (I san Giovanni, IV-16.). Questo è il grande atto della nostra fede, il modo di rendere al nostro Dio amore per amore; è il « segreto nascosto è (Col. I, 26) nel cuore del Padre, che riusciamo finalmente a penetrare; e tutto l’essere nostro esulta. Quando l’anima sa credere a questo « eccessivo amore » che su lei si posa, si può dire di lei, come già di Mosè, che essa « è incrollabile nella sua fede, come se avesse visto l’Invisibile » (Ebrei, XI-27.). Non si arresta più al gusto, al sentimento; poco le importa sentire Dio o non sentirlo, avere da Lui la gioia o la sofferenza: crede al suo amore, e basta, perché, forte di tutti gli ostacoli superati, va a riposarsi nel seno dell’Amore infinito il quale non può compiere che opera d’amore. A quest’anima, tutta desta e attiva nella sua fede, la voce del Maestro può dire nell’intimo la parola che rivolgeva un giorno a Maria Maddalena: « Va” in pace; la tua fede ti ha salvata » (San Luca, VII-50.)

Orazione Nona

« Conformi all’immagine del Figlio »

« Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del suo divin Figlio; e quelli che ha predestinati, li ha pure chiamati; quelli che ha chiamati li ha giustificati; e quelli che ha giustificati, li ha anche glorificati. Che diremo noi, dopo tutto ciò? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?… Chi mi separerà dalla carità di Gesù Cristo? » (Romani, VIII, 29-30… 35). – Tale si presenta allo sguardo dell’Apostolo il mistero della predestinazione, mistero della elezione divina. « Quelli che Egli ha conosciuti ». Non siamo noi pure di questo numero? Non può forse Iddio dire all’anima nostra ciò che disse un giorno con la voce del Profeta: «Ti sono passato accanto, e ti ho guardata; ed ecco, era giunto per te il tempo di essere amata; e sopra di te, ho spiegato il mio manto; ti ho giurato fede, ho stretto con te un patto, e tu sei divenuta mia » (Ezechiele, XVI-8.). Sì, noi siamo divenuti suoi col Battesimo: questo appunto vuol dire san Paolo con le parole « li ha chiamati », li ha chiamati a ricevere il sigillo della Trinità santa; mentre ci dice san Pietro che « siamo stati fatti partecipi della natura divina» (II san Pietro, I-4.), che abbiamo ricevuto quasi un « inizio del suo Essere » (Ebrei, III-14.). – Poi, «ci ha giustificati » coi suoi sacramenti, coi suoi tocchi, diretti nelle intime profondità dell’anima raccolta; « ci ha giustificati anche mediante la fede » (Romani, V-1.) e secondo la misura della nostra fede nella redenzione acquistataci da Gesù Cristo. Finalmente, vuole glorificarci; e perciò dice san Paolo, « ci ha resi degni di aver parte all’eredità dei santi, nella luce » (Colossesi, I-12.), ma noi saremo glorificati nella misura in cui saremo trovati conformi all’immagine del suo divin Figlio. Contempliamo dunque questa immagine adorata; restiamo sempre nella luce che da essa irradia, affinché si imprima in noi; poi accostiamoci alle persone, alle cose tutte, con le stesse disposizioni di animo con cui vi si recava il nostro Maestro santo; allora realizzeremo la grande volontà per la quale Dio ha in sé prestabilito di « instaurare tutte le cose in Cristo » (Efesini, 1-9).

Orazione Decima

« Il Cristo è la mia vita »

« Stimo tutte le cose una perdita, rispetto alla eminente cognizione di Cristo Gesù, mio Signore; per amor suo mi sono spogliato di tutto, e tutto tengo in conto di immondizia per possedere Cristo… Ciò che io voglio, è conoscere Lui, voglio la partecipazione ai suoi patimenti, la conformità alla sua morte… lo proseguo la mia corsa, cercando di giungere a quella méta alla quale Egli mi ha destinato, raggiungendomi quando lo fuggivo… Ad una sola cosa miro: dimenticando quello che ho dietro le spalle e protendendomi verso ciò che mi sta davanti, corro diritto alla mèta, alla vocazione alla quale Dio mi ha chiamato, in Cristo Gesù » (Filippesi, III-8…). È come dire: io non voglio più nulla, se non essere immedesimato con Lui. « Mihi vivere Christus est » (Fil. I, 21): Cristo è la mia vita!… Da queste frasi, traspare tutta l’anima ardente di san Paolo. Durante questo ritiro — il cui scopo è di renderci più conformi al nostro adorato Maestro, anzi di fonderci talmente in Lui da poter dire: « Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me, e la sua vita che ora vivo in questo corpo di morte la vivo nella fede che ho nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso alla morte per me » (Gal. II, 20): studiamo questo divino modello. La cognizione di Lui, ci dice l’Apostolo, « è così eminente ». Entrando nel mondo, Egli disse: « Gli olocausti non ti sono più graditi; allora ho preso un corpo; ed eccomi, o mio Dio, per fare la tua volontà » (PS. XXXIX, 7-9). E durante i trentatré anni della sua vita, questa volontà fu così perfettamente il suo pane quotidiano, che nel momento di rendere l’anima sua nelle mani del Padre, poteva dirgli: « Consummatum est » (San Giovanni, XIX, 30); sì, la tua volontà, tutta la tua volontà, io l’ho adempiuta; per questo « ti ho glorificato sulla terra» (San Giovanni, XVII, 4.). – Infatti, Gesù parlando ai suoi Apostoli di questo nutrimento che essi non conoscevano, spiegava loro che « consisteva nel far la volontà di Colui che l’aveva inviato sulla terra » (San Giovanni, IV-34.). . E poteva dire: « Io non sono mai solo (San Giovanni, VIII, 16); « Colui che mi ha mandato è sempre con me, perché io faccio sempre ciò che a Lui piace» (Idem, VIII, 29).  Mangiamo con amore questo pane della volontà di Dio; se talvolta la sua volontà sarà più crocifiggente, potremo dire anche noi col nostro adorato Maestro: « Padre, se è possibile, allontana da me questo calice »; ma aggiungeremo subito: «« Non come voglio io, ma come vuoi tu »(S. Matteo, XXVI, 39); quindi, calme e forti, saliremo noi pure il nostro Calvario col divino Condannato; cantando nel profondo dell’anima, ed elevando al Padre un inno di ringraziamento, perché coloro che camminano in questa via dolorosa sono « gli eletti ed i predestinati ad essere conformi all’imamagine del suo divino Figlio » (Rom. VIII, 29), il Crocifisso per amore!

Orazione Undicesima

L’adozione dei figli di Dio

« Dio ci ha predestinati all’adozione di figli per mezzo di Gesù Cristo, in unione con Lui, secondo il decreto della sua volontà, per far risplendere la gloria della sua grazia mediante la quale ci ha giustificati nel Figlio suo di letto, nel quale noi abbiamo la redenzione per il sangue di Lui, la remissione dei peccati secondo le ricchezze della grazia la quale ha sovrabbondato in noi, in ogni sapienza e prudenza (Ephes. I, 5-8). L’anima, divenuta realmente figlia di Dio è, secondo la parola dell’Apostolo, mossa dallo Spianto stesso: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio… ». « Noi non abbiamo ricevuto lo spirito di servitù per guidarci ancora nel timore, ma lo spirito di adozione a figli, nel quale esclamiamo: — Abba! Padre! — Infatti, lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che noi siamo figlioli di Dio; ma, se siamo figli, siamo anche eredi; dico eredi di Dio e coeredi di Cristo, se però soffriamo con Lui per essere con Lui glorificati » (Rom. VIII, 14-17). E proprio per farci raggiungere questo abisso di gloria, Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza. – « Osservate — dice san Giovanni — quale carità ci ha usata il Padre, concedendoci di essere chiamati figli di Dio, e di esserlo realmente. Adesso, noi siamo figli di Dio; ma non si è ancora manifestato quel che saremo. Sappiamo che, quando si svelerà, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo quale Egli è; e chiunque ha questa speranza in Lui, si santifica, come Egli stesso è santo » (I San Giovanni, III, 1-3). Ecco la misura della santità per i figli di Dio: essere santi come Dio, essere santi della santità di Dio, vivendo in contatto intimo con Lui, « di dentro », nel fondo dell’abisso senza fondo. L’anima sembra avere allora una certa somiglianza con Dio il quale, pur trovando in ogni cosa le sue delizie, mai non ne trova quanto in se stesso, possedendo in sé un bene sovraeminente dinanzi al quale tutti gli altri beni scompaiono. Così, tutte le gioie che all’anima sono concesse, sono per lei come altrettanti inviti a gustare il Bene che possiede, preferendolo a tutto, perché nessun altro bene può essergli paragonato. « Padre nostro che sei nei cieli » (San Matteo. VI, 9). Nel piccolo cielo che Egli si è  fatto nel centro della nostra anima dobbiamo cercarlo e qui, soprattutto, dobbiamo dimorare. Cristo diceva un giorno alla Samaritana che « il Padre cerca veri adoratori in spirito e verità » (San Giovanni, IV-23); ebbene, per dare gioia al suo cuore, siamo noi questi adoratori. Adoriamolo in spirito, cioè avendo il cuore e il pensiero fissi in Lui e lo spirito pieno della cognizione di Lui, mediante il lume della fede. Adoriamolo in verità cioè con le opere, perché con queste soprattutto mostriamo se siamo veraci e sinceri, facendo sempre ciò che piace al Padre di cui siamo figli. Adoriamolo in spirito e verità cioè per mezzo di Gesù Cristo e con Gesù Cristo, perché Lui solo è il vero adoratore in spirito e verità. Allora saremo figli di Dio, ed esperimenteremo la verità di queste parole di Isaia: « Sarete portati sul seno, e sulle ginocchia sarete accarezzati » (Isaia, XLVI-12.). Infatti, sembra che Dio sia tutto e unicamente occupato nel colmare l’anima di carezze e di segni di affetto, come fa una mamma che alleva la sua creaturina e la nutre del suo latte. Oh, siamo attente alla voce misteriosa del Padre che ci dice: « Figliola mia, dammi il tuo cuore » (Prov., XXIII-26.).

Orazione Dodicesima

La Vergine dell’Incarnazione

« Si scires donum Dei! Se tu conoscessi il dono di Dio » (San Giovanni, IV-10.), diceva una sera il Cristo alla Samaritana. Ma che è mai questo dono di Dio, se non Lui medesimo? Il discepolo prediletto ci dice: « Egli è venuto nella sua casa, ma i suoi non l’hanno ricevuto » (San Giovanni, I-11.). E san Giovanni Battista potrebbe ripetere ancora a molti quel suo rimprovero: « C’è, in mezzo a voi — in voi — uno che voi non conoscete » (San Giovanni, 1-26.). « Se tu conoscessi il dono di Dio!». Ma una creatura che ha conosciuto questo. dono di Dio, che non ne ha lasciato disperdere la minima particella; una creatura così pura, così luminosa, da sembrare, lei, la stessa Luce: « Speculum iustitiæ »; una creatura la cui vita fu tanto semplice, tanto nascosta in Dio, che quasi nulla se ne può dire. Virgo fidelis: è la Vergine fedele, colei che « custodiva tutto nel suo cuore (San Luca, I, II, 51). Se ne stava così umile, così raccolta dinanzi a Dio nel segreto del Tempio, che attirò le compiacenze della Trinità santa. « Perché Egli ha rivolto lo sguardo alla piccolezza della sua ancella, ormai tutte le generazioni mi chiameranno beata» (San Luca, I, 48). Il Padre, chinandosi verso questa creatura così bella, così ignara della sua bellezza, volle che fosse, nel tempo, la Madre di Colui di cui Egli è Padre nell’eternità. Intervenne allora lo Spirito d’Amore che presiede a tutte le opere divine; la Vergine disse il suo « fiat »: « Ecco l’ancella del Signore; si faccia di me seconde la tua  parola » (62), e il massimo dei misteri si compì. Con la discesa del Verbo in lei, Maria fu per sempre la preda di Dio. – La condotta della Vergine nei mesi che passarono tra l’Annunciazione e la Natività mi pare debba essere di modello alle anime interiori, a quelle anime che Dio ha elette a vivere raccolte « nel loro intimo », nel fondo dell’abisso senza fondo. Con quanta pace, in quale raccoglimento, Maria agiva e si prestava ad ogni cosa! Anche le azioni più ordinarie erano da Lei divinizzate perché, in tutto ciò che faceva, la Vergine restava pur sempre l’adoratrice del dono di Dio; né questo le impediva di donarsi attivamente anche pella vita esteriore, quando cera da esercitare la carità: il Vangelo ci dice che « Maria percorse con grande sollecitudine le montagne della Giudea, per recarsi dalla cugina Elisabetta » (San Luca, I, 39). La visione ineffabile che contemplava dentro di sé non diminuì mai la sua attività esteriore, perché se la contemplazione si volge alla lode e all’eternità del suo Signore, ha in sé l’unità e non potrà perderla mai.

Orazione Tredicesima

Una lode di gloria

«In Lui siamo stati predestinati per decreto di Colui che tutto opera secondo il consiglio della sua volontà, ad essere la lode della sua gloria » (Ephes. I, 11-12): è san Paolo che ce lo dice, san Paolo istruito da Dio stesso. Come attuare questo grande ideale del cuore del nostro Dio, questa sua volontà immutabile riguardo alle anime nostre? Come, in una parola, rispondere alla nostra vocazione e divenire lodi perfette di gloria alla santissima Trinità? In cielo, ogni anima è una lode di gloria al Padre, al Verbo ed allo Spirito Santo, perché ognuna è stabilita nel puro amore e non vive più della propria vita, ma di quella di Dio. Allora essa Lo conosce, dice san Paolo, come è conosciuta da Lui. In altri termini: Una lode di gloria: è un’anima che ha posto la sua dimora in Dio, che Lo ama con amore puro e disinteressato, senza cercare se stessa nella dolcezza di questo amore; un’anima che Lo ama al di sopra di tutti i Suoi doni, anche se non le avesse dato nulla, e che desidera il bene dell’oggetto a tal punto amato. Ora, come desiderare e volere effettivamente del bene a Dio, se non compiendo la Sua volontà? Poiché questa volontà dispone tutte le cose per la Sua maggior gloria. Quest’anima deve dunque abbandorvisi pienamente, perdutamente, fino a non poter voler altra cosa se non ciò che Dio vuole. – Una lode di gloria: è un’anima di silenzio che se ne sta come un’arpa sotto il tocco misterioso dello Spirito Santo, perché Egli ne tragga armonie divine. Sa che il dolore è la corda che produce i suoni più belli; perciò è contenta che vi sia questa corda nel suo strumento, per commuovere più deliziosamente il cuore del suo Dio. –  Una lode di gloria: è un’anima che contempla Dio nella fede e nella semplicità; è un riflesso di tutto ciò che Egli è: è come un abisso senza fondo nel quale Egli può riversarsi ed espandersi; è come un cristallo attraverso il quale può irradiare contemplare le proprie perfezioni ed il proprio splendore. Un’anima che permette in tal guisa all’Essere divino di saziare in lei il bisogno che Egli ha di comunicare tutto ciò che è, tutto ciò che possiede, è veramente la lode di gloria di tutti i suoi doni. Finalmente una lode di gloria è un’anima immersa in un incessante ringraziamento; tutti i suoi atti, i suoi movimenti, i suoi pensieri, le sue ispirazioni, mentre la fissano sempre più profondamente nell’amore, sono come una eco del Sanctus eterno. Nel cielo della gloria, i beati non hanno riposo né giorno né notte, ma sempre ripetono: «Santo, santo, santo il Signore onnipotente …; prostrandosi adorano Colui che vive nei secoli dei secoli »(Apoc. IV, 8). Nel cielo della sua anima, la lode di gloria inizia già l’ufficio che sarà suo in eterno; il suo cantico è ininterrotto e, benché non ne abbia sempre coscienza perché la debolezza della natura non le consente di fissarsi in Dio senza distrazioni, pure rimane sempre sotto l’azione dello Spirito Santo che tutto opera in lei. Canta sempre, adora sempre, è, per così dire, interamente trasformata nella lode e nell’amore, nella passione della gloria del suo Dio. Nel cielo dell’anima nostra, siamo lodi di gloria della Trinità santa, lodi di amore della nostra Madre Immacolata. Un giorno, il velo cadrà, e saremo introdotte negli atrî eterni; ivi canteremo nel seno stesso dell’Amore infinito, e Dio ci darà il nome nuovo promesso al vincitore. E quale sarà questo nome?: « Laudem gloriæ ».

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (24)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (24)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Ultimi consigli di vita interiore (**)

(**) In questa risposta, scritta l’11 settembre 1906 (qualche settimana prima di morire) ad una amica d’infanzia, traspare tutta la sua esperienza della vita interiore, formulata alla maniera dei Santi: con la semplicità del Vangelo.

« Voglio rispondere alle tue domande ».

« Ecco che finalmente Elisabetta viene, con la matita, a porsi vicino alla sua Fr… cara; dico: con la matita, perché col cuore ti sono sempre vicina, e da tanto tempo ormai, non è vero? e sempre restiamo strettamente unite l’una all’altra. Come sono belli i nostri promessi incontri della sera! Sono come il preludio di quella comunione che si stabilirà fra le anime nostre dal cielo alla terra. Mi sembra di starmene reclinata su di te come una mamma sulla sua figlioletta prediletta. Alzo gli occhi, guardo il Signore, poi li abbasso ancora su di te, e ti espongo ai raggi del suo amore. Non gli dico nulla, ma Egli mi comprende anche meglio senza parole, e preferisce il mio silenzio.

Mia figliola cara, vorrei essere santa per poterti fin d’ora aiutare quaggiù, in attesa di farlo lassù, in cielo. Che cosa non vorrei soffrire per ottenerti quella forza, quelle grazie di cui hai bisogno!

Voglio rispondere, ora, alle tue domande. Parliamo prima di tutto dell’umiltà. Ho letto su questo argomento delle parole magnifiche. Un pio autore dice che « nulla può turbare l’umile; esso possiede la pace inalterabile, perché si è sprofondato in un tale abisso, che nessuno andrà a cercarlo così in basso ». Dice ancora che « l’umile trova la più saporosa dolcezza della sua vita nel sentimento della propria impotenza di fronte a Dio ». Ma l’orgoglio, sai, non è un nemico che si possa atterrare con un bel colpo di spada. Senza dubbio, certi atti di umiltà eroica come ne vediamo nella vita dei Santi, lo colpiscono, se non mortalmente, in modo almeno da indebolirlo di molto; ma bisogna farlo morire ogni giorno. « Quotidie morior », diceva san Paolo, « io muoio ogni giorno » (1 Cor. XV, 31). Questa dottrina del « morire ogni giorno a se stessi» è divenuta legge per ogni anima cristiana, dal momento che Gesù ha detto: « Se qualcuno vuol seguirmi, prenda la sua croce e rinneghi se stesso » (S Matteo XVI, 24); sembra così austera, ed è di una soavità ineffabile, se si considera qual è il termine di questa morte. È la vita; la vita di Dio che si sostituisce alla nostra vita di miserie e di peccati. E proprio questo voleva dire san Paolo quando scriveva: « Spogliatevi dell’uomo vecchio e rivestitevi del nuovo, secondo l’immagine di Colui che lo ha creato » (Col. III, 20). Questa immagine è Dio stesso. E ricordi come Egli esprime formalmente questa Sua volontà nel giorno della creazione, quando dice: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza »? (Gen. I, 26).

Oh, credimi; se pensassimo di più alla nostra origine, le cose della terra ci sembrerebbero così puerili, che non potremmo più stimarle. San Pietro, poi, scrive in una delle sue epistole che « siamo fatti partecipi della natura Divina » (II S. Piet. I, 4). E san Paolo ci raccomanda di « conservare salda sino alla fine questa base » (Ebr. III, 14), inizio del suo Essere, che Egli ci ha dato.

L’anima che ha coscienza della sua grandezza entra in quella santa libertà dei figli di Dio (Rom. VIII, 21), di cui parla l’Apostolo, cioè supera tutte le cose ed anche se stessa.

Mi sembra che l’anima più libera sia quella che più si dimentica; e se mi si chiedesse il segreto della santità, direi: non fare nessun conto di sé, rinnegare il proprio io, sempre. Ecco un buon sistema per uccidere l’orgoglio: farlo morire di fame. L’orgoglio è amore di noi medesimi; ebbene: l’amore di Dio cresca tanto e sia così forte da estinguere ogni altro amore in noi.

Dice sant’Agostino che in noi abbiamo due città: quella di Dio e quella dell’« io »: in proporzione dell’affermarsi della prima, sarà demolita la seconda. Un’anima che vivesse di fede sotto lo sguardo di Dio, che avesse quell’« occhio Semplice » di cui parla Gesù nel Vangelo (S. Matt. VI, 22)), cioè quella purezza d’intenzione che mira a Dio solo, una tale anima mi pare che vivrebbe anche nella umiltà: saprebbe riconoscere i doni ricevuti da Lui, perché l’umiltà è verità, ma non si approprierebbe nulla, riferendo tutto a Dio, come faceva la Vergine santa. I movimenti di orgoglio che senti in te non divengono colpevoli se non quando la volontà se ne fa complice: altrimenti, potrai soffrire molto, ma non offenderai il Signore. Le colpe di questo genere che ti sfuggono come tu dici, senza neppure rifletterci, denotano certamente un fondo di amor proprio; ma questo, mia povera cara, fa parte in qualche modo del nostro essere. Quello che il Signore vuole da te, è che non ti fermi mai volontariamente in un pensiero di orgoglio qualunque esso sia, e che tu non compia mai un atto ispirato da questo stesso orgoglio, perché faresti male; ma se anche tu dovessi poi riconoscere di avere agito così, non scoraggiarti, perché l’irritarsi è ancora segno di orgoglio; deponi invece la tua miseria ai piedi del Maestro come faceva la Maddalena, e chiedigli che te ne guarisca; gli piace tanto vedere che l’anima riconosca la propria impotenza! Allora, come diceva una grande santa, « l’abisso dell’immensità di Dio si trova di fronte all’abisso del nulla (Sant’Angela da Foligno).

Figliola mia, non è orgoglio pensare che tu non vuoi saperne di una vita facile; anch’io ritengo che il Signore vuole davvero che la tua vita si svolga in una sfera dove si respira aria divina. Credi; sento una compassione profonda per le anime che non vivono più in su della terra e delle sue volgarità; mi sembrano schiave, e vorrei dir loro: Scuotete il giogo che pesa su di voi; perché vi trascinate con cotesti lacci che vi incatenano a voi stesse ed a cose inferiori a voi? Io ritengo che i felici, quaggiù, siano quelli che sanno tanto disprezzare e dimenticare se stessi, da scegliersi in retaggio la croce; quando sa trovare la gioia nel dolore, che pace deliziosa! « Io completo nella mia carne ciò che manca alla Passione di Gesù Cristo per il suo corpo che è la Chiesa » (Col. I, 24): ecco ciò che formava la felicità dell’Apostolo. Questo pensiero non mi abbandona mai; e ti confesso che provo una gioia intima e profonda nel vedere che Dio mi ha scelta per associarmi alla passione del suo Cristo. Questa via del Calvario che salgo ogni giorno mi sembra piuttosto la strada della beatitudine. Hai visto mai quelle immagini rappresentanti la morte che miete con la falce? È quanto accade in me; e la sento che si avvicina. La natura ne freme di pena, talvolta; e ti assicuro che, se mi fermassi lì, non esperimenterei che la mia viltà nel dolore; ma questo è lo sguardo umano, e subito « apro l’occhio dell’anima al lume della fede »; questa fede mi dice che è l’amore che mi consuma lentamente, che mi distrugge; e allora provo una gioia immensa e mi abbandono a Lui come sua preda.

Per raggiungere la vita ideale dell’anima, io credo che sia necessario vivere nel soprannaturale, cioè non agire mai « naturalmente ». Bisogna sapere e pensare che Dio è in noi, nell’intimo del nostro essere, e agire sempre con Lui; allora non si diventa mai volgari, neppure compiendo le azioni più ordinarie, perché non si vive in queste cose, ma si oltrepassano. Un’anima soprannaturale non discute mai con le cause seconde, ma si volge a Dio solo; e come è semplificata la sua vita, come si accosta a quella degli spiriti beati, come è sciolta da se stessa e da qualsiasi cosa! Tutto, per lei, si riduce all’unità, a quell’« unico necessario » (S. Luc. X, 42) di cui il Maestro parlava alla Maddalena; ed allora è veramente grande, veramente libera, perché ha « racchiusa la sua volontà in quella di Dio ».  Come appaiono spregevoli le cose visibili, quando si contempla la nostra predestinazione eterna! Ascolta san Paolo: « Quelli che Dio ha predestinati, li ha anche voluti conformi all’immagine del Figlio suo ». Ma questo non è ancor tutto; ed egli ti dirà che tu sei anche nel numero dei predestinati: « Quelli che ha predestinati, li ha pure chiamati ». È il Battesimo che ti ha resa figlia di adozione, che ti ha segnata col suggello della santissima Trinità. « E i chiamati li ha anche giustificati ». Quante volte sei stata giustificata anche tu dal sacramento della penitenza e da tutti quei tocchi di Dio nella tua anima, che ti hanno purificata senza che neppure te ne accorgessi! « Coloro che ha giustificati, poi, li ha anche glorificati » (Rom. VIII, 28-30). È ciò che ti attende nell’eternità; ma ricordati che il nostro grado di gloria corrisponderà al grado di grazia nel quale Dio ci troverà in punto di morte. Lasciagli dunque compiere in te l’opera della tua predestinazione, e segui san Paolo che ti dà un programma di vita: « Camminate in Gesù Cristo, radicati ed edificati in Lui, fortificati nella fede e crescendo in essa sempre più con rendimento di grazie » (Col. II, 6-7).

Sì, figliolina dell’anima mia, cammina in Gesù Cristo; hai bisogno di questa via larga e spaziosa; non sei fatta, tu, per gli angusti sentieri della terra. Sii radicata in Lui, quindi sradicata da te; cioè, ogni volta che incontri il tuo io, contrarialo e santificalo. Sti edificata in Lui, molto in alto, al di sopra di tutto ciò che passa, lassù dove tutto è puro, tutto è luminoso. Sti ben ferma nella fede, non agire che secondo la luce di Dio e mai le tue impressioni o la tua fantasia; credi che Egli ti ama, che vuole aiutarti nelle tue lotte e difficoltà; oh sì, credi al suo amore, al suo « amore troppo grande » (Efes. II, 4), come dice san Paolo. Nutri la tua anima dei grandi pensieri di fede che ci rivelano le nostre vere ricchezze e il fine per cui Dio ci ha creati. Se vivrai di queste verità, la tua pietà non sarà una esaltazione nervosa, come temi, ma sarà soda e vera; è così bella la verità, la verità dell’amore! « Egli mi ha amato e si è dato per me » (Gal. II, 20). Ecco, bambina mia, che cosa vuol dire essere veraci nell’amore. E poi, finalmente, cresci nell’azione di grazie; è l’ultima parola del programma e non ne è che le conseguenze. Se camminerai radicata in Gesù Cristo, forte nella. tua fede, vivrai nella azione di grazie, nella dilezione dei figli di Dio.

Mi domando come è mai possibile che non sia lieta sempre, in qualsiasi pena, in qualunque dolore, l’anima che ha sondato l’amore che c’è « per lei » nel cuore di Dio. Ricordati che « Egli ti ha eletta in Lui, prima della creazione, perché tu sia pura e immacolata al suo cospetto, nell’amore » (Ef. I, 4): è ancora san Paolo che te lo dice. Quindi non temere la lotta, la tentazione. « Quando sono debole — esclamava l’Apostolo — allora sono forte perché la virtù di Gesù Cristo si trova in me » (I Cor. XII, 9).

Che cosa penserà la nostra reverenda i Madre quando vedrà questa lunga lettera? Ella non mi permette quasi più di scrivere, perché sono di una debolezza estrema, e ad ogni momento mi sento mancare. Ma sarà forse l’ultima lettera della tua Elisabetta; ci son voluti molti giorni per scriverla, e questo ti spiegherà la sua incoerenza; eppure, stasera, non so ancora decidermi a lasciarti. Sono le sette e mezzo; la comunità è in ricreazione, ed io sono qui, nella solitudine della mia celletta, e mi sembra di essere già un po’ in paradiso; sono qui, sola con Lui solo, portando la croce con Lui, il mio Maestro diletto. La mia gioia cresce in proporzione delle mie sofferenze; se tu sapessi quale dolcezza si cela in fondo al calice preparato dal Padre dei Cieli!

A Dio, Fr… cara; non posso continuare; ma nei nostri silenziosi incontri, tu sentirai, tu comprenderai tutto quello che non potrò dirti. Ti abbraccio, ti amo come una mamma ama la sua figliolina. Addio, mia piccola cara. Che all’ombra delle sue ali Egli ti custodisca da ogni male ».

Suor Maria Elisabetta della Trinità

« Laudem gloriæ »

Questo sarà il mio nome nuovo in cielo…

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DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (23)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (23)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

EPILOGO

LA SUA MISSIONE

1) «La mia missione sarà quella di mantenere le anime in questo grande silenzio interiore »

2) « Vi lascio questa vocazione che fu la mia in seno alla Chiesa: Lode di gloria della Trinità Santa ».

1) Il grande silenzio interiore — 2) Lode di gloria della Trinità.

 I grandi servi di Dio, mentre stavano per lasciare la terra, sentivano che la loro attività apostolica al servizio della Chiesa, lungi dal cessare con la morte, avrebbe anzi potuto espandersi soprattutto quando l’anima loro fosse giunta in seno a Dio. Non avevano essi l’esempio e il ricordo della promessa del Maestro agli Apostoli: « È bene per voi che io me ne vada. Quando sarò ritornato al Padre, vi manderò lo Spirito »? – San Paolo ci ha lasciato la descrizione dell’attività eterna di Cristo sempre vivo dinanzi al Volto del Padre, per adorarlo e glorificarlo, ma anche «per intercedere continuamente in nostro favore » (Ebr. VII, 25). – E chi oserebbe pensare che, dopo la sua gloriosa assunzione, la Madre degli uomini si sia disinteressata delle nostre terrene miserie e che nel suo mistero eterno, frai gaudî della visione, la Madre di Dio non sia sempre occupata di questi altri suoi figli, intercedendo per loro? Che non sia sempre china su di essi tutti quanti, per « generarli al Cristo », più madre che mai? – Non è raro trovare sulle labbra dei grandi fondatori di Ordini, parole simili a quelle di san Domenico ai suoi figli che piangevano intorno a lui morente: « Vi sarò più utile di lassù ». Il mondo intero ha udito il desiderio della « santa più grande dei tempi moderni » (Pio X, ad un Vescovo missionario.), Teresa di Gesù Bambino: « In cielo, io non starò inattiva. Voglio passare il mio cielo a fare del bene sulla terra ». E la sua umile sorella di Digione ha lasciato erompere dall’anima lo stesso grido apostolico: « Non dubitate: lassù, nella sorgente dell’Amore, io penserò attivamente a voi; e chiederò per voi una grazia di unione, di intimità col divino Maestro: è quella che ha resa la mia vita un paradiso anticipato ». Qualche giorno prima di morire, mossa dallo Spirito Santo. tracciò in matita, con mano tremante, questa frase celebre, indirizzata ad una povera sorella conversa: « Mi sembra che la mia missione, in cielo, sarà quella di attirare le anime nel raccoglimento interiore, aiutandole a uscire da loro stesse per aderire a Dio, mediante un movimento semplicissimo e tutto d’amore; e di mantenerle in quel grande silenzio interiore che permette a Dio di imprimersi in esse e di trasformarle in Sé ». Parole profetiche. E la propagazione rapida e mondiale dei « Ricordi » ce ne fa constatare la realizzazione.

1) In cielo, i santi hanno ciascuno la loro missione in armonia col piano della redenzione e in ricompensa dei meriti acquistati sulla terra. E sino alla fine del mondo, essi continuano a lavorare per l’estensione del regno di Dio e per la formazione del « Cristo totale »; tutti: la Madre del Verbo Incarnato come Mediatrice universale di tutte quante le grazie, senza eccezione; gli altri Santi, chi più chi meno, ciascuno nella propria linea, secondo il loro posto nell’economia provvidenziale. Così, i patriarchi degli ordini religiosi vegliano particolarmente sui membri del loro istituto, una santa Giovanna d’Arco sulla sua patria, un Vescovo sulla sua diocesi, un curato sulla sua parrocchia, un padre o una madre sui figli. La missione affidata dalla Provvidenza a suor Elisabetta della Trinità non è di intervenire luminosamente nella direzione del mondo, ma di attirare le anime nelle vie del silenzio e del raccoglimento, per la gloria della Trinità. « Credo che la mia missione, in Cielo, sarà quella di attirare le anime nel raccoglimento…» … « aiutandole a uscire da loro stesse ». È la grazia delle grazie. Quante anime « labirinti » non riescono mai ad uscire da loro stesse, attraverso ai dedali innumerevoli del proprio « io »! Le più ferventi ne gemono e si desolano; ma invano cercano di liberarsi coi loro proprî sforzi; non vi riescono, perché è compito che supera le forze umane: ci vuole la grazia di Dio. È dunque grazia preziosissima quella che promette la cara serva di Dio a tutte le anime interiori che sono imprigionate nel loro « io ». Dal Cielo, il suo aiuto silente le conduce a quella liberazione totale che le getta « pienamente in Cristo ». – Ma l’anima non si distacca che per unirsi, « per aderire a Dio ». È l’aspetto positivo della missione di suor Elisabetta della Trinità. I suoi scritti spirituali hanno portato già tanti tato già tanti frutti negli ambienti cattolici più diversi, perché il suo invito al raccoglimento interiore si rivolge a tutte le anime della Chiesa di Dio. Tuttavia — bisogna riconoscerlo — la silenziosa Carmelitana di Digione sembra aver ricevuto una missione tutta particolare da svolgere presso le anime contemplative, per strapparle a loro stesse e qualche volta ai loro poveri « cenci », e rapirle nella grande corrente della vita divina che conferisce loro potenza di redenzione sul Cuore di Dio. Ma, per un gran numero di queste anime interiori, quante complicazioni nella pratica della loro vita spirituale! Alcune cercano Dio nelle mortificazioni eccessive, altre in una fedeltà minuziosa troppo attaccata alla lettera, troppo meccanica, troppo poco attenta al soffio dello Spirito. A tutte queste anime di buona volontà, qualche volta male illuminate, suor Elisabetta ricorda che bisogna andare a Dio « con un movimento semplicissimo, tutto di amore ». Soltanto l’amore dona la semplicità. Un’anima che in ogni cosa non cerca che la gloria divina, con amore perfetto, è un’anima che va diritta a Dio. – « Deus ignis consumens »: il nostro Dio è un fuoco consumante, cioè un fuoco d’amore che distrugge, che trasforma in Sé tutto ciò che tocca. Per le anime che, nel loro intimo, sono tutte abbandonate alla Sua azione, la morte mistica di cui parla san Paolo diviene tanto semplice, tanto soave! Esse pensano molto meno al lavoro di spogliamento e di distruzione che rimane loro da compiere, che non ad immergersi nel fuoco d’amore che arde in loro e che è lo Spirito Santo, quello stesso Amore che, nella Trinità, è il vincolo di unione fra il Padre e il suo Verbo. La fede ve le introduce; e là, semplici e quiete, sono da Lui stesso trasportate in alto, più in alto delle cose tutte, dei gusti sensibili, fino alla « tenebra sacra », e sono trasformate nell’immagine divina. Esse vivono, secondo l’espressione di san Giovanni: « in società » con le Tre adorabili Persone; la loro vita è in comune: è la vita contemplativa » («Il paradiso sulla terra» – 6° orazione). – Allora, l’anima è custodita « in quel grande silenzio interiore » così caro a suor Elisabetta della Trinità e centro in cui converge tutta la sua dottrina spirituale. Dopo il capitolo consacrato all’Ascesi del silenzio, non c’è più bisogno di insistere su questo punto importantissimo. Oggi, nel mondo, tutto è assorbito da un’attività dinamica; e non si pensa che all’azione esteriore. Le anime non sanno più tacere per ascoltare Dio. In questo mondo moderno che si agita rumorosamente c’è forse una missione più urgente di quella affidata dalla Provvidenza alla santa Carmelitana di Digione? Ricondurre, cioè, le anime nella via del raccoglimento e « custodirle in quel profondo silenzio interiore che permette a Dio di imprimersi in loro, e di trasformarle in Se medesimo ». Lei stessa ci ha insegnato « che un’anima che si riserba ancora qualche cosa nel suo regno interiore, un’anima le cui potenze non sono tutte « raccolte » in Dio, non può essere una perfetta lode di gloria… Un’anima che scende a patti col proprio « io », che si occupa delle sue sensibilità, che va dietro ad un pensiero inutile, a un desiderio qualsiasi, quest’anima disperde le proprie forze, non è concentrata in Dio; la sua arpa non vibra all’unisono; e quando il Maestro divino la tocca, non può trarne armonie divine. Vi è incora troppo di umano » (Ultimo ritiro – II giorno.). Tutto deve tacere in noi: i sensi esteriori alle cose della terra, le potenze interiori a tutti i rumori del di dentro: silenzio dello sguardo, silenzio dell’immaginazione della memoria, silenzio del cuore soprattutto. « Perché nulla mi distolga da questo bel silenzio interiore, sono necessarie sempre le stesse condizioni, lo stesso isolamento, stesso distacco, lo stesso spogliamento. Se i miei desiderî, i miei timori, le mie gioie, i miei dolori, se tutti i movimenti che derivano da queste quattro passioni non sono perfettamente ordinati a Dio, io non sarò silenziosa, vi sarà del tumulto in me; occorre dunque la quiete, il sonno delle potenze, l’unità dell’essere » (Ultimo ritiro – X giorno). Anche le facoltà spirituali più elevate devono, a loro volta, entrare in questo « alto silenzio interiore »: silenzio dell’intelligenza; nessun pensiero inutile; silenzio del giudizio, così radicalmente opposto allo spirito moderno. Critico per eccellenza; silenzio della volontà soprattutto, che produce nell’anima il grande silenzio dell’amore. Questo « alto silenzio interiore » quando si sia profondamente affermato nelle anime, « permette a Dio di imprimersi in esse e di trasformarle in Se medesimo ». Si realizza, allora. lo scopo supremo di ogni vita umana: l’unione trasformante. « Ormai il Signore è libero: libero di effondersi, di donarsi « a suo beneplacito ». e l’anima così semplificata, unificata, diventa il trono dell’Immutabile, poiché l’unità è il trono della santa Trinità » (Ultimo ritiro – II giorno.).

2) Un documento postumo, di straordinaria importanza, ci rivela un altro aspetto ancora più essenziale della missione provvidenziale della serva di Dio. Dopo la sua morte, fu trovata una piccola busta, accuratamente sigillata con ceralacca rossa che recava questo indirizzo: « Segreto per la nostra Madre ». Confidenza suprema, nell’ora in cui i Santi vedono tutte le cose alla luce dell’eternità. « Madre mia. quando leggerete queste righe, la vostra piccola « lode di gloria » non canterà più sulla terra, ma sarà inabissata in seno all’Amore… L’ora è così grave. Così solenne! e non voglio indugiarmi a dirvi cose che mi sembrerebbe di diminuire volendo esprimerle con la parola… Ma la vostra figliola vuol rivelarvi quello che sente o, per essere più esatta. quello che il suo Dio le ha fatto comprendere nelle ore di raccoglimento profondo, di contatto unificante… Madre venerata, Madre per me consacrata fin dall’eternità, a Voi, partendo, io lascio in eredità quella vocazione che fu la mia in seno alla Chiesa militante e che, d’ora innanzi, adempirò incessantemente nella Chiesa trionfante: « lode di gloria della Santa Trinità ». La gloria della Trinità: ecco il testamento supremo della santa Carmelitana a tutte le anime che vorranno seguirla nel cammino della vita interiore. Questa « lode di gloria della Trinità » che fu « la sua vocazione fin dall’esilio », e rimane il « suo ufficio per la eternità » alla presenza della maestà di Dio, risponde al più sublime disegno divino riguardo a tutte le creature. Sì; tutto, nell’opera di Dio, è ordinato a questa gloria. – « Universa propter se operatus est Dominus » (Prov., XVI, 4.). Se ha mandato nel mondo il Figlio suo, è stato prima di tutto per riparare questa gloria offesa dal peccato. Gesù stesso riassumeva in una parola la sua missione sulla terra: « Padre, non ho cercato che la tua gloria: Glorificavi Te, Pater » (San Giovanni, XVII, 4.). Ormai possiamo abbracciare in tutta la sua ampiezza la dottrina mistica di suor Elisabetta della Trinità. La Trinità adorabile è il Bene supremo al quale tendono tutte le anime e il mondo dei puri spiriti; e proprio per farci entrare « in società » con le Persone divine, il Padre ha creato l’universo ed ha « inviato il Figlio suo ». Tutto il mistero della Chiesa e della Madre di Dio, Mediatrice di grazia, è di condurre il « Cristo totale » alla contemplazione della Trinità. « La visione della Trinità nell’Unità: questo è il sublime destino dell’uomo » (Cfr. san Tommaso, I Sent. I, II, 1 Expositio textus: « Cognitio Trinitatis in Unitate est fructus et finis totius vitæ nostræ ».). – Egli cammina penosamente sulla terra, in Cristo, il « Crocifisso per amore », ma per giungere a perpetuarsi in Dio. E attraverso tutte le croci, tutte le notti, tutte le morti della Chiesa militante, continua la silenziosa ascesa delle anime verso l’immutabile e beatificante Trinità. Ma giungono alla visione divina che è « la consumazione nell’unità » quelli soltanto che, in questa ascesa, hanno il coraggio di abbandonare tutto ciò che è estraneo a Dio, per gioire di Lui, nel suo isolamento, nella sua semplicità, nella sua purezza; di Lui, l’Essere da cui tutto dipende, a cui tutto mira, dal quale deriva l’essere, la vita, il pensiero. « C’è un Essere che è l’Amore, e che vuol farci vivere in società con Lui » (Lettera alla mamma – 20 ottobre 1906). « Questo Amore infinito che ci avvolge e ci penetra vuole associarci, fin da questa vita, alla sua beatitudine. Riposa in noi tutta la Trinità, questo mistero che sarà, in Cielo, la nostra visione » (Lettera a G. de G. 20 agosto 1903.). – Come sembra vano tutto il resto all’anima che ha intravisto, mediante la fede, questi splendori trinitarî. Essa è cosciente di possedere in sé un Bene, così grande, dinanzi al quale ogni altro bene illanguidisce e scompare. « Tutte le gioie che le sono concesse sono per lei come altrettanti inviti a gustare il Bene che possiede, preferendolo a tutto perché nessun altro bene può essergli paragonato » (« Il paradiso sulla terra » – 11° orazione.). E quale amore, quale desiderio di unirsi a Lui, nell’anima fortunata che ha incontrato questo Bene! Lo ama di un amore « più forte della morte », lo vuole con brama ardente, si disillude di ogni altro amore, trascura le altre bellezze che per un istante avevano potuto sedurla. La privazione di tutto il creato non è una sofferenza per chi possiede Dio; infelice è soltanto chi è privo della visione di questa suprema Bellezza. Bisogna, dunque, lasciare tutto per possedere questa ricchezza ineffabile, svincolarsi completamente dal fascino delle bellezze fugaci che potrebbero distogliere l’anima dal suo fine; bisogna non voler sapere più nulla della terra, fuggirsene « sola col Solo », estranea a tutto. La vera patria dell’anima è là, in seno alla Trinità beata, nel silenzio e nel raccoglimento. « La Trinità: ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa paterna donde non dobbiamo uscire mai» (« Il paradiso sulla terra » – 1° orazione). – Una fase superiore di vita spirituale si realizza nell’anima quando, trionfando del suo « io », e « dimenticandosi interamente », essa non vive più che per Dio, come i beati in cielo, nell’« incessante lode di gloria ». « In ogni suo movimento, in ogni sua aspirazione, come in ogni sua azione per quanto ordinaria sia, quest’anima è, per così dire, un « Sanctus » perpetuo, una continua « lode di gloria » (Ultimo ritiro – VIII giorno.). Comincia nel tempo il suo « ufficio della eternità »; ma sempre raccolta nel fondo del suo essere, nell’intimo santuario dove si è ritirata col suo Dio. – « O la più bella delle creature, anima che desideri ardentemente di conoscere il luogo dove si trova il tuo Diletto, per cercarlo e unirti a Lui, sei tu stessa il rifugio dove Egli si ritira, la dimora in cui si nasconde. Il tuo Diletto, il tuo tesoro, l’unica tua speranza, ti è così vicino, che anzi, abita in te; e, senza di Lui, tu non puoi nemmeno esistere » (San Giovanni della Croce – « Cantico spirituale, strofa 1°.). Si ricordi però, quest’anima, che Dio abita in lei non per lei soltanto, per la sola sua gioia, ma prima di tutto per la propria gloria. « La Trinità brama ritrovare nelle sue creature la propria immagine e somiglianza ». Ecco quindi che la gloria della Trinità deve elevare alfine l’anima al di sopra di se stessa e della sua propria gioia. propria gioia. « Poiché l’anima mia è un cielo in cui vivo aspettando la celeste Gerusalemme, questo cielo deve cantare la gloria dell’Eterno, niente altro che la gloria dell’Eterno » (Ultimo ritiro – VII giorno.). A questo, in ultima analisi, la dottrina spirituale di suor Elisabetta della Trinità vuole condurre le anime: « Vivere in un eterno presente ad immagine dell’immutabile Trinità, sempre adorandola per Lei stessa, e divenire, mediante uno sguardo sempre più semplice, più unitivo, lo splendore della sua gloria o, in altre parole, l’incessante lode di gloria delle sue adorabili perfezioni » (Ultimo ritiro – XVI giorno). – Mentre santa Teresa di Gesù Bambino ha suscitato schiere di anime che l’hanno seguita nella sua offerta di vittima all’Amore misericordioso, suor Elisabetta della Trinità sembra aver ricevuto la missione di suscitare nella Chiesa una moltitudine di « Lodi di gloria » alla Trinità: Vi lascio in eredità questa vocazione che fu la mia in seno alla Chiesa militante e che adempierò d’ora innanzi incessantemente nella Chiesa trionfante:

« Lode di gloria

della Santissima Trinità».

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (24)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (22)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (22)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO NONO (2)

Elevazione alla Trinità

(Commento)

2 – Pacifica l’anima mia.

Un aspetto nuovo di questa preghiera ci fa penetrare nella sua maniera tutta propria e personale di concepire la vita interiore. Non già che essa abbia scoperto una dottrina inedita del Cristianesimo, ma perché ha saputo compenetrare il significato profondo della parola di Gesù: « Il regno di Dio è dentro di voi ». E suor Elisabetta ha proprio avuto da Dio la grazia di ricondurre le anime su questo punto, al puro Vangelo. Non si può forse dire di lei quello che essa scriveva della Vergine, modello della sua vita interiore: « In lei, tutto si svolge di dentro »? Fu proprio la sua grazia particolare, quella di vivere nel fondo dell’anima sua le ricchezze trinitarie del suo Battesimo e di invitare le anime a questo ritorno alle veraci sorgenti della vita divina. « Rendila tuo cielo ». L’anima stabilita nella pace e liberata dal suo « io » diviene il teatro delle meraviglie della grazia e, per il Signore, un vero cielo, una dimora cara, un luogo di riposo. Notiamo l’elevatezza di questa vita di intimità con le Persone divine. Qui, le mire ordinarie sono capovolte. La maggior parte delle anime aspirano all’unione con Dio per il desiderio, lodevole del resto, di divenire sante; ma pensano poi al perché supremo di ogni santità: la gioia di Dio e la sua maggior gloria? Esse tendono a Dio con tutte le loro brame, ma senza giungere però a dimenticarsi interamente. Quanti pericoli latenti sotto questo metodo di spiritualità che si potrebbe chiamare: dell’« io » santificato! Qui, al contrario, risplende il primato di Dio. L’anima è un tempio vivo in cui la Trinità santa riceve senza posa un culto di adorazione, di ringraziamento, di lode e di amore. Le Persone divine gioiscono una dell’Altra nell’intimo di quest’anima in cui insieme abitano, in cui il Padre genera il Figlio, il Padre e il Figlio spirano uno stesso Amore. L’anima diviene un cielo per il suo Dio. Più tardi, suor Elisabetta della Trinità, contemplando questa bontà divina che trova le sue delizie ad abitare tra i figli degli uomini, descriverà così l’ufficio di una lode di gloria: « Un’anima che permette all’Essere divino di saziare in lei il Suo bisogno di comunicare tutto ciò che Egli è, e tutto ciò che Egli ha ». « Che io non ti lasci mai solo ». Ecco la collaborazione personale, necessaria: « Essere lì, interamente presente. ben desta nella fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata all’azione creatrice ». Veramente, Dio non è mai solo: né in Se stesso, né nelle anime; e questa società trinitaria gli basta. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo vivono insieme « adesso come in principio e per i secoli dei secoli », trovando nel più intimo della loro Essenza, in un’amicizia perfetta, luce e amore e gioia, in grado infinito. Dio non è dunque mai solo, e la teologia trinitaria nota giustamente che, a rigor di termine, è proibito e pericoloso definire Dio: solitario. Questa vita di Dio « dentro di Sé » è talmente la gioia del nostro Dio, che se — supponendo l’impossibile. — questa pluralità delle Persone non esistesse in seno alla vita trinitaria, anche in mezzo ad una moltitudine infinita di uomini e di Angeli chiamati a partecipare, per grazia, alla sua vita intima, Egli rimarrebbe sempre l’Eterno Solitario, un po’ come una creatura dotata di intelligenza e di volontà, si aggirerebbe solitaria in un giardino, malgrado la presenza di innumerevoli piante e animali » (Cfr. il testo così profondo di san Tommaso; 1° q. 31, a. 3; ad 1). – Per sovrabbondanza di pura bontà e per « eccesso di amore », Dio ha voluto trovare le sue delizie tra i figli degli uomini. Lo abbiamo visto, proprio Lui, in mezzo alla sua creazione: Il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi. E noi siamo nel numero di quei privilegiati ai quali fu concesso di divenire i « figli di Dio », in comunione del « Verbo », predestinati a vivere « in intima unione con Lui ». « In società », in intima unione: questa parola di san Giovanni, così cara a suor Elisabetta della Trinità, ci spiega il senso profondo della sua preghiera: « Che io non ti lasci mai solo ». « Ma che tutta io vi sia…». La sua ascetica e la sua mistica consistevano appunto nel serbarsi libera e interamente distaccata da tutto, per vivere nel fondo dell’anima sua, « alla presenza del Dio vivo ». «Vigile e attiva nella mia fede ». « Una Carmelitana è un’anima di fede ». La serva di Dio ritornava spesso, nella sua vita intima, a questa prima virtù teologale: « Il programma del mio ritiro sarà di starmene, con fede e amore, sotto l’unzione di Dio». « Essere desta e attiva nella fede » significa andare più in là delle formule che racchiudono le verità da credere: significa abitare in Dio. « Tutta immersa nell’adorazione… ». È sempre lo stesso atteggiamento essenzialmente adorante di fronte a Dio. « Tutta abbandonata alla tua azione creatrice… ». Suor Elisabetta della Trinità fu una di quelle anime che si danno senza riserva all’azione dello Spirito, convinte che la vita spirituale consiste meno nel moltiplicare gli sforzi personali, che nel lasciarsi prendere da Dio. La sua cura costante e sempre più intensa, fu di « credere all’Amore », di lasciarsi trasformare dall’Amore. Ed è importantissimo, alla sua scuola, essere profondamente convinti che ogni iniziativa di santità viene prima di tutto da Dio e rivela in prima linea una realizzazione della sua grazia, cioè del suo gratuito amore. Il carattere proprio dell’amore di Dio verso di noi non è forse di essere Amore creatore? Lasciarsi amare, dunque, è lasciare che Dio agisca nel nostro intimo, lasciare che crei in noi tutte le meraviglie di grazia e di gloria. – Suor Elisabetta della Trinità aveva compreso la risposta da dare a questo Amore che non chiede che di potere agire in noi: « Abbandonarsi pienamente alla Sua azione creatrice ».

3 – O amato mio Cristo.

Ed ecco la via che conduce alla Trinità: il Cristo. Sembra apparire d’un tratto; in realtà, è al centro della preghiera di suor Elisabetta della Trinità come è al centro della sua vita. « O amato mio Cristo! ». Quando si tratta di Lui, non c’è più che da amare, « amare fino a morirne ». Aveva già scritto nel suo diario di fanciulla: « Vorrei farlo conoscere, farlo amare in tutto il mondo ». Da allora, sono passati cinque anni, anni di intimità quotidiana, di vita di sposa del Cristo. La sua devozione a Cristo va diritta all’essenziale: al « Crocifisso per amore », a Colui che, nella veglia della sua professione, le aveva detto di essersela scelta per tutta una vita di silenzio e di amore. Suor Elisabetta si era donata: « Vorrei essere una sposa per il tuo cuore » e, « in quella mattina, la più bella della sua vita », era divenuta sposa del Cristo, fino alla morte. Ormai, Cristo sarà l’unica sua vita. « Coprirti di gloria… ». « Mulier gloria viri » (I ai Corinti, XI-7.). Come una fedele sposa, si dedica, con sempre maggiore intensità, a « zelare il Suo onore ». Dio non le ha ancora rivelata la sua vocazione suprema di « Lode di gloria », ma già ve la incammina. Verrà poi un giorno in cui questo anelito accentrerà tutto, nell’anima sua, per la gloria della Trinità e per quella del suo Cristo. « Ma io sento la mia impotenza… ». È incoraggiante il pensiero che i Santi sentivano la loro debolezza, come noi. E Gesù stesso non ha voluto anch’Egli accettare il soccorso dell’Angelo dell’agonia, e l’aiuto di un Cireneo? Di fronte ad un ideale sovrumano, i Santi non indietreggiavano; sapevano chiamare in loro aiuto il Forte, Colui la cui virtù segreta è con noi sempre, pronta a purificarci, a salvarci, a divinizzarci, a trasformarci in Lui. « Egli è sempre attivo, sempre operante nell’anima nostra. Lasciamoci formare da Lui. Che Egli sia l’anima della nostra anima, la vita della nostra vita, sì che possiamo dire con san Paolo: « Per me, vivere è Cristo » (Lettera alla signora A… – 9 novembre 1902). Le loro miserie, le loro infermità, invece di sorprenderli o di arrestarli, li gettano in Dio e in Gesù Cristo. Ascoltate questo crescendo sublime della confidenza dei Santi: « Rivestimi di Te, unificami a tutti i movimenti dell’anima tua ». Poi le parole si accumulano, premono, incalzano, per esprimere un sentimento che trabocca, incontenibile: « Ti prego, sommergimi, pervadimi, sostituisciti a me…; la mia vita non sia che un riflesso della tua vita. Vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore!… ». La trasformazione in Cristo è completa, il motto scolpito sul « bel Crocifisso della sua professione » è realizzato: « Non sono più o che vivo; Cristo vive in me. Jam non ego, vivit vero in me Christus ».

4 – O Verbo eterno!

Il volto Cristo conduce agli splendori del Verbo. È uno dei temi familiari agli autori mistici; ogni vera devozione a Gesù Cristo si rivolge principalmente alla sua divinità: l’umanità non è che la via. Anche a questo punto, ci troviamo in piena linea tradizionale, perfettamente equilibrata. Dopo essersi soffermata nelle piaghe redentrici del « Crocifisso per amore », con un colpo d’ala, si slancia fino al Verbo: « O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la vita ad ascoltarti ». Che cosa importano all’anima che ha incontrato il Verbo, tutte le meraviglie della natura e della grazia? Queste creature non sono Lui ed « è Lui, Lui che noi cerchiamo ». I cieli che ci narrano la sua gloria, non lo celano però anch’essi ai nostri sguardi? « Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la vita ad ascoltarti »; Tu mi racconterai tutti i segreti racchiusi nel seno del Padre, il mistero dei Tre nell’Unità. «Voglio rendermi docilissima, per imparare tutto da Te ». La serva di Dio ci rivela ora quale sia la sorgente dei suoi lumi più sublimi: è la scuola di Dio. Raramente si trova un’anima che meno di lei sia stata desiderosa di libri: si è nutrita soltanto di qualche raro libro di spiritualità: il Cantico spirituale, la Viva fiamma del suo Padre san Giovanni della Croce « che penetrò così addentro nella divinità », e le Epistole di san Paolo. Lei stessa confidava sommessamente alla sua Priora: « Ciò che Egli mi insegna, è ineffabile ». E la Madre Germana, da parte sua, ne era perfettamente convinta: suor Elisabetta della Trinità fu soprattutto la discepola e l’ascoltatrice del Verbo. « Poi, nelle notti dello spirito, nella desolazione, nella impotenza… ». Si ritrova, qui, il sentiero del « nulla » che conduce al vertice del monte Carmelo. L’anima contemplativa, l’anima Carmelitana in particolare, è chiamata a conoscere le lunghe e dolorose purificazioni delle « notti » oscure, prima di raggiungere l’unione divina: dopo aver lasciato tutto per Cristo, sentirlo scomparire… non per un giorno o per qualche mese, ma per lunghi anni, per tutta una vita forse…, e nonostante, rimanere fedele, senza mai indietreggiare, senza lamentarsi mai. Una grande esperienza vissuta si cela in queste brevi parole: Le anime di orazione non cerchino Dio per il sentiero delle consolazioni, ma nella nudità della fede e nello spogliamento assoluto; e qui rimangono, fedeli « in tutte le notti, tutte le desolazioni, tutte le impotenze ». «Voglio fissarti sempre, e starmene sotto il tuo grande splendore ». Suor Elisabetta della Trinità aveva gustato anch’essa, nelle prime ore della sua ascesa per le vie mistiche, le gioie inebrianti della presenza di Dio. Ma ben presto, e a lungo, dovrà cercare il suo Dio nella pura fede. « Dopo queste estasi, questi sublimi rapimenti nei quali l’anima dimentica tutto il resto e non vede che il suo Dio, come par dura e penosa l’orazione ordinaria e quanta fatica ci vuole per raccogliere le proprie potenze! Come costa e come sembra difficile! ». Eppure, non è davvero il momento di lasciare la vita di orazione. È l’ora benedetta che conduce all’unione trasformante, nel silenzio della notte. Dunque, più che mai, « guardarlo fissamente, sempre », e « rimanere in pace sotto la grande luce » della notte oscura e transluminosa. Lasciarsi sempre più passivamente attirare dal Verbo: « O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione ». Come la farfalla, che io sia abbagliata e vinta dal fulgore della tua luce. « Spirito d’amore… ». Essere, nel seno della Trinità, l’Amore Personale del Padre e del Figlio: ecco tutto il mistero dello Spirito Santo, vero « Spirito d’Amore », nel quale Dio ama Sé ed ama tutto l’universo. La natura più intima di questa Persona divina, uguale al Padre e al Figlio da cui procede, è di essere il loro Amore sostanziale e coeterno in una stessa vita a Tre. – La serva di Dio, anche qui, non fa che appoggiarsi sopra un dato fondamentale del dogma Trinitario, il più profondo per l’anima contemplativa che vorrebbe vivere già sulla terra di questo mistero, il mistero di un Dio che è personalmente l’Amore. Ma ciò a cui essa mira è di un ordine più pratico. La sua preghiera non è una elevazione sulla vita trinitaria, ma il movimento di una anima contemplativa che trova, in questo mistero della Trinità, « il suo Tutto, la sua Beatitudine, la infinita Solitudine in cui si perde ». Lo Spirito d’Amore è invocato per la sua azione santificatrice nelle anime che cercano l’unione con Dio. « O Fuoco consumante, Spirito di Amore, discendi in me perché si faccia nell’anima mia quasi un’incarnazione del Verbo ». Ha già supplicato Cristo di immedesimarla con la Sua Anima, di sostituirsi a lei affinché la sua vita non sia che un’irradiazione della vita di Lui; poi, nella sua invocazione al Padre e in quella allo Spirito Santo, ritorna sullo stesso pensiero, perché il desiderio della sua trasformazione in Cristo è veramente il punto centrico di questa preghiera essenzialmente trinitaria. E nulla rivela con maggior evidenza a qual punto Gesù si era sostituito alla sua vita propria. « Si faccia nell’anima mia quasi un’incarnazione del Verbo ». Espressione audace, che bisogna comprendere bene; « quasi » un’incarnazione. Non si tratta di un desiderio da prender troppo alla lettera e che sarebbe un assurdo; ma è il linguaggio di un’anima innamorata di Cristo che vagheggia di divenire un altro Lui stesso. « Che io gli sia un prolungamento di umanità in cui Egli possa rinnovare il Suo mistero ». Formula luminosa che rischiara tutto. La spiega lei stessa tre giorni dopo, scrivendo ad un giovane sacerdote: « Che io sia per Lui un prolungamento di umanità, cioè che Egli possa perpetuare in me la sua vita di riparazione, di sacrificio, di lode e di adorazione… Gli ho chiesto di venire in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore ».

***

« E Tu, o Padre! ». Ed ora, si rivolge al Padre, Principio della divinità. È Padre: ed è questo tutto il suo mistero, il suo carattere proprio, in seno ai Tre. È il Principio senza principio, da cui deriva, come da propria sorgente infinitamente feconda, tutta la vita trinitaria « al di dentro ». E sarà la suprema luce del « faccia a faccia », scoprire in Lui, come nella sua origine eterna, tutto il mistero dei Tre nell’Unità. Ma non si tratta di questo direttamente, nell’ora di grazia in cui suor Elisabetta ha composta la sua preghiera. Alla presenza di questa divina Paternità, ella vede soprattutto il suo niente. « O Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura! ». E, ricordando il mistero della Vergine della Incarnazione, la Vergine sua prediletta, soggiunge: « Coprila della tua ombra », cioè: proteggila. E infine l’anima sua, ritornando sempre a Cristo, al suo centro, implora: « Non vedere in essa che il Diletto in cui hai poste tutte le tue compiacenze ».

5- O miei Tre.

La preghiera volge all’epilogo. Un ultimo slancio la solleva verso i « Tre » ai quali suor Elisabetta ha consacrata tutta la sua vita: « O miei Tre, mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità in cui mi perdo, o mi abbandono a Voi come una preda; seppellitevi in me perché io mi seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella Vostra luce, l’abisso delle vostre grandezze ».

La preghiera dell’inizio è esaudita: non ritrova più vestigio in sé.

L’anima è transumanata in Dio.

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (23)

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (21)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (21)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO NONO (1)

Elevazione alla Trinità

(Commento)

« O miei Tre, mio Tutto, mia Beatitudine,

Solitudine infinita, Immensità

in cui mi perdo… ».

O mio Dio, Trinità che adoro…

Guardare un’anima che prega, è sorprenderla nel momento della sua maggiore intimità con Dio, come il Sacerdote all’altare. L’orazione è la sintesi di un’anima: quale la preghiera, tale la vita. Tutto il genio dottrinale di un san Tommaso d’Aquino rifulge nel suo « Ufficio del santissimo Sacramento ». Lo stesso Verbo Incarnato non si sottrae a questa legge della nostra psicologia umana; e la sua « preghiera sacerdotale » è la suprema rivelazione del suo Cuore: Cuore di Cristo. Nulla manifesta meglio il suo amore per il Padre e la sua carità redentrice per i fratelli, quanto il movimento circolare di quest’Anima che parla al Padre della sua gloria e della consumazione di tutti nell’Unità: vi è tutto il suo mistero di « Cristo ». Così è della preghiera dei Santi. Suor Elisabetta della Trinità non ha scritto, come la santa Madre Teresa, un trattato sull’orazione; ma la sublime preghiera: « O mio Dio, Trinità che adoro… », ci dà la testimonianza più ricca sulla maniera tutta Carmelitana di concepire la vita di orazione: una comunione incessante con la Trinità. « La preghiera non consiste in una determinata quantità di orazioni vocali che ci si impone di recitare ogni giorno; ma in un’elevazione dell’anima a Dio, attraverso tutte le cose, la quale ci stabilisce in una specie di comunione continua con la Trinità Santa, semplicemente facendo tutto sotto il suo sguardo » (Lettera a G. de G… – Febbraio 1905.). Composta d’un sol getto, senza la minima correzione, in un giorno in cui tutto il Carmelo rinnovava i voti, questa preghiera è la sintesi della vita interiore di suor Elisabetta. I tratti essenziali della sua anima vi si ritrovano perfettamente delineati: la grande devozione della sua vita: la Trinità — la forma propria della sua vita di orazione: l’adorazione — la sua tenerezza appassionata per il Cristo « amato fino a morirne, amato sulla croce — infine lo slancio irresistibile verso i « Tre », « sua beatitudine, suo tutto, solitudine infinita in cui l’anima si smarrisce ». Non vi è nominata la Madonna, ma Essa c’è, lo si sente dalla stessa data autografa: novembre 1904, festa della Presentazione. Vi manca soltanto — e questo è da notare — l’eco dell’ascesa suprema: gli ampi orizzonti della sua vita di « lode di gloria » le sono ancora ignoti. Di fronte ad una tale preghiera, una delle più belle del Cristianesimo, abbiamo esitato a lungo, prima di arrischiarci ad un commento, provando qualche cosa di simile all’imbarazzo che deve provare l’esegeta o il teologo in presenza della preghiera sacerdotale di Cristo. Tutti gli umani commenti esegetici o teologici, per quanto sublimi siano, dispereranno per sempre di poter giungere ad esprimere la semplicità tutta divina dell’ultima preghiera di Gesù per l’unità: « Ut unum sint…» (S. Giov. XVII, 21). Ma abbiamo pensato alle tante anime contemplative per le quali questa elevazione alla Trinità è divenuta una delle preghiere più care, e costituisce tutto un programma di vita interiore in cui trovano il segreto dell’oblio di sé. Una Carmelitana ci scriveva: « Ognuna di queste parole mi introduce nell’orazione; è una preghiera che raccoglie la mia anima quanto i più sublimi trattati di mistica ». Avendo studiato molto da vicino, e per degli anni, quest’anima privilegiata, forse il commento che intraprendiamo sarà di qualche utilità per farne penetrare il senso vero e così profondo. Senza volere imporre al movimento di quest’anima essenzialmente contemplativa delle divisioni troppo rigide, mi sembra che si potrebbero distinguere in questa preghiera cinque aspetti principali:

1° – Un primo slancio spontaneo dell’anima verso quella Trinità che è divenuta il tutto della sua vita: « O mio Dio, Trinità che adoro… ».

2° – La descrizione del clima spirituale in cui si muove la sua vita contemplativa al centro dell’anima, in una atmosfera di pace immutabile: «Pacifica l’anima mia… ».

3° – Un movimento di tenerezza appassionata verso il suo Cristo « amato fino a morirne ». Le parole si incalzano, esprimendo, nel ritmo accelerato, l’impeto dei sentimenti un’anima il cui ideale ardentemente vagheggiato è di essere immedesimata con tutti i movimenti dell’anima di Cristo: « O mio Cristo adorato… ».

4° – Poi l’invocazione subitanea e successiva a ciascuna delle Tre Persone divine verso le quali è protesa la sua vita: « O Verbo eterno… O Fuoco divorante… E tu, o Padre… ». Si indugia soprattutto nel Verbo, più accessibile per la Sua Incarnazione ai nostri occhi di carne, con l’anima affascinata da questo « Verbo eterno, Parola del suo Dio ». Lo « Spirito d’amore» pure è invocato, ma perché compia in lei quasi una incarnazione del Verbo, ed essa sia per Lui un prolungamento di umanità nella quale il Padre possa ritrovare il volto di Cristo « in cui ha posto tutte le sue compiacenze ». Cristo è veramente al centro di questa sua preghiera, come tutta la sua vita.

5° – Un grido finale con cui si compie questa invocazione alla Trinità. Il tema dell’inizio: « O mio Dio, Trinità che adoro…» viene ripreso dalla sua anima di artista, ma ripreso con uno sviluppo ampio, con un largo movimento ritmico che trasporta definitivamente l’anima negli abissi della Trinità: « O miei Tre…, io mi abbandono a Voi come una preda!… ».

I.- O mio Dio, Trinità che adoro.

« O mio Dio! ». L’anima sua va dritta, non alle perfezioni divine, ma all’essenza, sorgente di tutti gli attributi; a Dio stesso. « Trinità! ». Non il Dio dei filosofi e dei sapienti, ma il Dio dei Cristiani e dei mistici: Padre, Verbo, Amore. Altre anime saranno più particolarmente attirate verso il Padre, come una santa Caterina da Siena, per esempio; o verso il Figlio quali una santa Geltrude, una santa Margherita Maria; oppure verso lo Spirito Santo; e la Chiesa le legittima tutte, queste forme di preghiera, poiché anch’Essa, nella sua liturgia, si rivolge ora al Padre, ora al Figlio, ora allo Spirito Santo. Il culto è indirizzato alle Persone che, nella Trinità, rimangono infinitamente distinte. Un san Tommaso d’Aquino poi, da vero teologo, rivolgerà particolarmente la sua devozione alla « Trinità nell’unità », raccogliendo in una formula sintetica tutta l’essenza del mistero. Suor Elisabetta della Trinità non è tanto colpita da questo aspetto intimo del mistero in se stesso, quanto invece occupata a scoprirvi il termine beato ed esplicito della sua vita di unione: « La Trinità: ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa paterna donde non dobbiamo uscire mai » («Il paradiso sulla terra » – 1° orazione.). Bisognava sentire con quale accento di tenerezza, premendo le mani sul cuore come su di una presenza amata, ella parlava dei suoi « Tre! »: « Amo tanto questo mistero! È un abisso nel quale mi perdo ». « Che adoro!…». L’adorazione è la forma propria di questa vita di adorazione. Essa ama l’atteggiamento dei beati nella Città eterna, descritto negli ultimi capitoli dell’Apocalisse: « Si prostrano e adorano, gettando palme dinanzi al trono dell’Agnello ». Con questa forma principalmente adoratrice della vita di orazione, quanto siamo lontani da quella moltitudine di anime mendicanti che sembrano non accostarsi a Dio che con la mano tesa per ricevere! Da vera contemplativa che possiede il senso di Dio, ella, prima di tutto, gli rende omaggio in ragione delle di Lui perfezioni senza limite o, secondo la sua formula prediletta, « a causa di Lui stesso ». La sua anima religiosa si esprime con tutta naturalezza nell’atteggiamento che è il più fondamentale dinanzi a Dio: l’adorazione. La preghiera di supplica considera l’indigenza bisognosa di aiuto, il ringraziamento serba uno sguardo sui benefici ricevuti, l’espiazione è unita al ricordo dei peccati commessi; soltanto l’adorazione contempla Dio in se stesso, nell’eccellenza increata della sua Essenza e delle sue Persone. Dinanzi alla gloria del suo Dio, l’anima dimentica tutto: « L’adorazione è l’estasi dell’amore annientato dalla bellezza, dalla forza, dalla grandezza immensa dell’oggetto amato » (Ultimo ritiro – VIII giorno.). « Aiutami a dimenticarmi interamente». Il grande ostacolo della Carmelitana e di ogni anima contemplativa in generale, è il proprio io. « L’amor proprio non muore che un quarto d’ora dopo di noi », diceva sorridendo san Francesco di Sales, e i Santi hanno sferrato le loro più tremende battaglie contro se stessi per la distruzione di questo « io » così tenace. Del resto, non deve meravigliarci che persista così ostinatamente anche nelle grandi anime, anche in quelle da Dio predilette, fino al giorno in cui piaccia al Maestro, per una grazia tutta gratuita, di liberarle per sempre. Suor Elisabetta della Trinità, che Dio aveva destinato per vocazione speciale ad essere modello e patrona delle anime interiori, doveva imparare con la propria esperienza quale sia il grande scoglio di queste anime che Dio vuole profondamente raccolte in se stesse, per vivervi di Lui solo. La sua vita spirituale, per lungo tempo, fu ingombrata dal suo povero « io ». Ne soffriva. Ma nulla riusciva a liberarla. Questa liberazione sovrana dell’anima non può essere che il trionfo della grazia e uno degli effetti supremi dei doni dello Spirito Santo. Non a caso, dunque, ma sotto l’impulso di un pensiero che sempre l’assilla nell’intimo, ella, fin dalla seconda frase di questa preghiera sublime, ricade sopra di sé, ultimo gemito di un « io » che non tarderà a morire; « Aiutami a dimenticarmi interamente ». Tre giorni dopo la composizione di questa preghiera, tornava sullo stesso pensiero: « I Santi, quelli sì, avevano capito la vera scienza; la scienza che ci fa uscir da tutto e principalmente da noi medesimi, per slanciarsi in Dio e non farci vivere che di Lui » (Lettera alla signora A… – 24 novembre 1904). « Interamente…» . Comprendiamolo bene: « dimenticarsi interamente ». Non essere arrestati più da niente nello slancio verso Dio, né dagli avvenimenti esteriori, né dalle vicissitudini interiori… Suor Elisabetta della Trinità mira alto: si tratta di giungere a quella trasformazione in Cristo, che san Paolo esprime con formula ardita: « Non vivo più io, ma Cristo vive in me ». Quale oblio di sé, richiede! Quale morte! Il grande santo scriveva ai Colossesi: «Voi siete morti, e la vostra vita è nascosta con Gesù Cristo in Dio ». Ecco la condizione: bisogna essere morti. Altrimenti, si può essere nascosti in Dio ogni tanto, ma non si vive abitualmente in questo Essere divino; perché la sensibilità e tutto il resto vengono a ricondurci fuori. L’anima non è tutta intera in Dio » (Ultimo ritiro – VI giorno). E ancora: « Mi sono isolata, separata, spogliata di tutto e di me stessa, tanto nell’ordine naturale che nell’ordine soprannaturale, anche riguardo ai doni di Dio; perché un’anima che non sia morta a se stessa, libera del proprio io, sarà per forza, in certi momenti, banale e umana; e ciò non è degno di una figlia di Dio, di una sposa di Cristo, di un tempio. dello Spirito Santo » (Ultimo ritiro – X giorno.).  – « Aiutami! ». Questa sovrana liberazione, nei Santi, è il trionfo supremo della grazia sulla natura. E suor Elisabetta della Trinità implora umilmente: « Aiutami! ». Noi sappiamo che Dio esaudì la preghiera della sua umile serva. Un anno dopo, poteva scrivere ad un’amica: « Vi pare che sia tanto difficile dimenticarsi? Se sapeste … invece, come è semplice! Ve ne confiderò il segreto, il mio segreto: pensate a quel Dio che abita in voi e di cui voi siete tempio. Ce lo dice san Paolo, possiamo dunque crederlo. A poco a poco, l’anima comprende che porta in sé un piccolo cielo dove il Dio d’amore ha stabilito il suo soggiorno, e si abitua a vivere nella sua dolce compagnia. Allora respira in un’atmosfera quasi divina; anzi, non è sulla terra che col corpo, e l’anima sua abita in Colui che è l’Immutabile. Ed eccone anche il metodo: non certo guardando e riguardando la nostra miseria, saremo purificate, ma guardando Colui che è la stessa purezza e santità » (Lettera alla signora A… – 24 novembre 1905.). « Per fissarmi in Te…». L’anima interamente sciolta da se stessa e giunta sulle purissime vette della montagna del Carmelo, entra definitivamente nel ciclo della vita Trinitaria: è stabilita in Dio. Questa intimità con Dio era divenuta così familiare a suor Elisabetta della Trinità, che le sembrava Egli stesse per comparire, da un momento all’altro, nel giro degli ampi chiostri: «Dio in me e io in Lui, oh! è la mia vita ». « Immobile e quieta, come se l’anima mia già fosse nell’eternità ». È uno dei frutti di questa spiritualità contemplativa; rapire l’anima alle sue preoccupazioni meschine ed a se stessa per fissarla in un’atmosfera di eternità. Ogni anima cristiana non dovrebbe considerarsi in esilio sulla terra? poiché la grazia del Battesimo ha deposto in lei il germe di quella esistenza immutabile, ed essa già vive per mezzo della fede, nella luce del Verbo. C’è una parola, nel Credo, ineffabilmente profonda, che esprime bene l’atteggiamento fondamentale di ogni anima di fede di fronte a questo mondo che passa: « Exspecto, attendo la vita eterna ». (Questo presentimento di eternità diveniva sempre più dominante, nell’anima della serva di Dio, a mano a mano che gli anni passavano. L’anima sua abitava già tutta quanta nell’al di là, invisibile, ma tanto vicino. Negli ultimi mesi, si udiva mormorare: « Egli non mi parla più che di eternità ». « Immobile e in pace… ». La pace occupa un posto di capitale importanza in questa dottrina spirituale; suor Elisabetta vi ritorna per tre volte nella sua breve preghiera: « Immobile e in pace come se la mia anima già fosse nell’eternità ». — « Che nulla possa turbare la mia pace ». — « Pacifica l’anima mia ». Questa pace che supera ogni senso non viene dalla terra, ma ha la sua origine in un attributo divino: « Nulla possa farmi uscire da Te, o mio Immutabile ». Sant’Agostino ce ne ha lasciato una definizione celebre: « Pax est tranquillitas ordinis: la tranquillità dell’ordine ». La pace spirituale è un’armonia delle potenze dell’unità, è la fusione dei loro sforzi verso un unico fine. Ha per principio Dio amato in tutto e al di sopra di tutto. I teologi lo sanno che la pace è uno degli effetti interiori della carità; sanno che in una anima tutta ordinata a Dio, regna la pace. Suor Elisabetta della Trinità ce ne ha dato delle spiegazioni conformi: « È fare l’unità in tutto il proprio essere per mezzo del silenzio interiore; è raccogliere tutte le proprie potenze per occuparle nel solo esercizio dell’amore » (Ultimo ritiro – II giorno.). « Se i miei desideri, i miei timori, le mie gioie o i miei dolori, se tutti i movimenti che derivano da queste quattro passioni non sono perfettamente ordinati a Dio, vi sarà del rumore in me e io non avrò la pace. Occorre dunque la quiete, il sonno delle potenze, l’unità dell’essere » (Ultimo ritiro – X giorno.). Allora, l’anima non ha più da temere i contatti esterni né le difficoltà interiori » (Ultimo ritiro – II giorno.), poiché « essendosi, la sua volontà, perduta nella volontà di Dio, le sue inclinazioni, le sue facoltà, non si muovon più che in questo amore e per questo amore» (« Il paradiso sulla terra » – 7° orazione.). « Le cose, lungi dall’esserle un ostacolo, non fanno che radicarla più profondamente nell’amore del suo Maestro » (Ultimo ritiro – VIII giorno). Nell’unità delle potenze tutte per Cristo vigilate e custodite, regna la pace immutabile. « Che ad ogni istante io mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero ». Si rivela, in questa invocazione, l’anima ardente della santa Carmelitana, il suo desiderio di realizzare ogni giorno di più il perché fondamentale di ogni vita religiosa: tendere alla perfezione. Questa preoccupazione amorosa del più perfetto, che santa Teresa aveva fatto oggetto di un voto speciale, si ritrova nella sua figliola ad un grado eminente. È — perché non confessarlo? — l’impressione dominante che risulta in noi dai molti anni di contatto con suor Elisabetta della Trinità, è la rapidità, continuamente accelerata, del suo slancio verso Dio. Una Carmelitana di Digione che era con lei in grande intimità e della quale la serva di Dio diceva: « Noi siamo come le due parti di un’unica dimora », ci ha dichiarato che soprattutto la fine della sua vita durante gli ultimi otto mesi di infermeria fu un’ascesa ammirabile: « Non riuscivamo più a seguirla ». Ed ecco, allora, farsi per noi più luminosa questa frase che esprime così bene la sua avidità di perfezione sovrana: « Che, ad ogni istante, io mi immerga sempre più nella profondità del tuo mistero ». Era fermamente convinta che « ogni minuto ci è dato perché ci radichiamo sempre meglio in Dio, perché più viva sia la somiglianza col nostro divino Modello, più intima l’unione ». E il suo pensiero non cambierà. Nel ritiro che, come un testamento, compose per la sua sorella, riprenderà lo stesso pensiero, e con più ricca concisione, definendo la vita spirituale « una vita eterna incominciata, e in continuo progresso ».

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (22)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (20)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (20)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO OTTAVO

I doni dello Spirito Santo (4)

8) Il dono della sapienza è il dono regale, quello che più di ogni altro mette le anime in possesso della maniera deiforme del sapere divino. È l’estremo culmine, oltre. il quale è impossibile innalzarsi, al di qua della visione di Dio intuitiva e beatificante, massimo grado di sapienza. È lo sguardo del «Verbo che spira l’Amore » partecipato ad un’anima, la quale giudica tutte le cose dalle cause più alte, più divine, dalle ragioni supreme, a quel modo che Dio le giudica e le conosce. Introdotta, per mezzo della carità, nell’infinito abisso delle Persone divine e per così dire nella Trinità, l’anima divinizzata, sotto l’impulso dello Spirito d’Amore, tutto contempla da cotesto punto centrale, indivisibile, dove le appaiono come allo stesso Iddio: i divini attributi, la creazione, la redenzione, la gloria, l’ordine ipostatico, i più piccoli avvenimenti del mondo. Per quanto è consentito ad una semplice creatura, il suo sguardo mentale tende a identificarsi alla pienezza e acutezza di visione che Dio ha in sé e dell’universo. È la contemplazione in modo deiforme al lume della esperienza spirituale della divinità, della quale l’anima esperimenta in sé l’ineffabile dolcezza: « per quamdam experientiam dulcedinis » (S. Tommaso, I-II, q. 112, a. 5). Per bene comprendere questo, bisogna tener presente che Dio non può vedere le cose se non in Se medesimo: nella Sua causalità. Le creature non le conosce direttamente in se stesse, nemmeno nel movimento delle cause contingenti e temporanee che regolano la loro attività. In maniera eterna, le contempla nel suo Verbo. Conosce ed apprezza tutti gli eventi della Provvidenza alla luce della sua Essenza e della sua gloria. In due modi l’anima può comunicare o partecipare alla Luce increata: in un modo immutabile secondo che più o meno partecipa dell’eternità, ed è la visione di gloria nel Verbo; e in un altro modo, al di fuori del Verbo, per via di esperienza mistica e conoscimento saporoso delle divine dolcezze: nell’irradiazione, quindi, della luce beatifica o, in mancanza di questa, e tuttavia in condizioni di una certa quale violenza, sotto l’azione della fede rischiarata dai doni. Non è mai soverchio insistere su questa verità: l’esperienza mistica è come in esilio sulla terra; la vera patria dei doni è il cielo nel prolungarsi delle gioie beatificanti della visione « faccia a faccia » (I ai Corinti, XIII-12), ossia intuitiva, della Trinità. Che cosa accade, quaggiù, nell’anima che giudica tutto così, alla luce della Trinità presente in lei, presenza di cui esperimenta nell’intimo gli effetti — quanto almeno glielo consente lo stato di unione? Nelle potenze più elevate, più spirituali del suo essere reso deiforme dalla grazia santificante, sorge un’attività del medesimo ordine che permette all’anima così divinizzata di vivere « in società » con le Persone divine al livello di un’esperienza propriamente trinitaria. La fede le ha già aperto gli orizzonti soprannaturali e l’ha messa in contatto con tutto il paradiso; i doni della scienza e dell’intelletto le hanno permesso di assaporare, insieme al « niente » della creatura, il «Tutto » di Dio e di penetrare nelle insondabili ricchezze della vita trinitaria; sopravviene allora il dono della sapienza, il più divino di tutti i doni, il quale farà sì che quest’anima partecipi, nel più alto grado possibile sulla terra, alla conoscenza sperimentale che Dio gusta nel proprio seno, cioè nel suo Verbo che spira l’Amore. Oh, essa può ben « gioire di Dio » (San Tommaso, I, q. 3, a. 3, ad 1.) ora che l’unione trasformante l’ha stabilita in permanenza nell’atmosfera delle Persone Increate e l’ha introdotta come figlia adottiva nella famiglia della Trinità! Partecipe della divina natura, essa giudica tutto: in Dio, nel mondo e in se stessa, con la sua esperienza della divinità. Mentre il dono della scienza prende un movimento ascensionale per elevare l’anima delle creature fino a Dio, mentre il dono dell’intelletto penetra, con semplice sguardo d’amore, tutti; misteri di Dio, nell’intimo e al di fuori, il dono della sapienza non esce mai, per così dire, dal cuore stesso della Trinità. Tutto è visto da questo centro indivisibile. E l’anima, resa in tal modo deiforme, non considera ormai le cose che nel loro perché, nei loro motivi più alti, più divini. Tutto il movimento dell’universo fino ai minimi atomi cade quindi sotto il suo sguardo alla luce purissima della Trinità e dei divini attributi, ma con ordine, secondo il ritmo con cui le cose procedono da Dio. Creazione, redenzione, ordine ipostatico, tutto, anche il male, le appare ordinato alla maggior gloria della Trinità. Elevandosi infine, con uno sguardo supremo, al di sopra della Giustizia, della Misericordia, della Provvidenza e di tutti gli attributi divini, l’anima scopre d’improvviso tutte queste perfezioni increate nella loro Sorgente eterna: in quella Deità, Padre, Figlio e Santo Spirito, che supera all’infinito tutte le nostre, umane concezioni le quali la rimpiccioliscono e la circoscrivono; e lascia invece Dio incomprensibile, ineffabile, anche allo sguardo dei beati, anche allo sguardo beatificato di Cristo… quel Dio che, nella sua Semplicità sovraeminente, è insieme Unità e Trinità, Essenza indivisibile e Società di Tre Persone viventi, realmente distinte secondo un ordine di processione che non infrange la loro Uguaglianza consustanziale. L’occhio umano non avrebbe potuto scoprire mai un tale mistero, né l’orecchio percepire tali armonie, né il cuore supporre una tale beatitudine, se la Divinità non si fosse inchinata, con la grazia, fino a noi in Cristo, per farci penetrare negli insondabili abissi di Dio, sotto la condotta stessa del suo Spirito. Dopo tutto questo, c’è forse ancora bisogno di insistere per far comprendere che un’anima la quale viva abitualmente sotto queste alte ispirazioni del dono della sapienza, risale in tutti i campi alla visione del Principio supremo, in Dio, e — come notava e praticava suor Elisabetta della Trinità — non si arresta a considerare le cause seconde? E proprio in questa. riflessione suor Elisabetta ci lascia carpire il: suo intimo segreto. Dopo essere stati, per parecchi anni, a contatto dei suoi scritti, scrutando studiando tutti i moti dell’anima Sua; questa è la nostra convinzione più essenziale: che il dono della sapienza è il dono più caratteristico della sua dottrina e della sua vita. Istintivamente, possedeva il senso dell’eterno e del divino. – Avrebbe dovuto farsi violenza per discendere al li vello delle meschinità fra cui si trascina una moltitudine di anime, anche religiose — così dette contemplative — e che non sanno elevarsi al di sopra delle loro miserie e dei loro cenci. Suor Elisabetta andava diritta al Cristo ed alla Trinità, senza occuparsi troppo delle rare mancanze che sfuggivano alla sua fragilità. Crocifissa al suo dovere, non sì sovraccaricava di una quantità di pratiche minuziose, Ma attraverso alle innumerevoli piccolezze della monotona e spesso banale vita quotidiana, sapeva, come la Vergine dell’Incarnazione, tenere fisso lo sguardo alle alte cime. Ad imitazione della sua grande sorella del Carmelo, santa Maria Maddalena De. Pazzi. « imitatrice del Verbo » nella sua vita religiosa, suor Elisabetta della Trinità scopre nella sua vocazione di Carmelitana il mezzo per essere, insieme col Cristo, corredentrice del mondo, glorificatrice della Trinità. « Come è sublime la vocazione di una Carmelitana. Essa deve essere mediatrice con Gesù Cristo, essere per Lui quasi un prolungamento di umanità dove Egli possa perpetuare la sua vita di riparazione; di sacrificio, di lode e di adorazione. Chiedetegli che io sia all’altezza della mia vocazione ? (Lett. al Canonico A…  Gennaio 1906). I santi hanno visuali sconfinate. Si ricordi il grido apostolico di santa Teresa di Gesù Bambino: « Voglio trascorrere il mio paradiso a far del bene sulla terra: No, non potrò prendermi nessun riposo sino alla fine del mondo. Ma quando l’Angelo avrà detto: Il tempo non è più —, allora mi riposerò, allora potrò gioire, perché il numero degli eletti sarà completo ». Suor Elisabetta della Trinità aveva le stesse ambizioni. « Vorrei poter dire a tutte le anime quale sorgente di forza, di pace e anche di felicità esse troverebbero vivendo in intimità con le Persone divine » (Lettera alla mamma – 2 agosto 1906.). Da vera Carmelitana, desiderava ardentemente di « zelare la gloria del suo Dio ».  « Mi dono a Lui per la sua Chiesa e per tutti i suoi interessi. Ho bisogno dell’onore suo, come la mia santa Madre Teresa. Pregate perché questa sua figliola sia anche essa « vittima di amore: caritatis victima (Lettera al Canonico A… – Giugno 1906.). vivendo in epoca di persecuzione, gemeva sulla sua patria: «Povera Francia! Ho bisogno di coprirla col Sangue del Giusto » (Al medesimo – Gennaio 1906.). Nel suo intimo ideale di unione con Dio, va diritta alla causa esemplare suprema: all’anima di Cristo; e sogna di « essere talmente trasformata in Gesù, che la sua vita sia più divina che umana e il Padre possa riconoscere in lei l’immagine del Figlio suo » («Il paradiso sulla terra» – 5° orazione.). – Per esprimere questa sapienza cristiforme, trova delle formule di una robusta concisione: « Andiamo incontro ad ogni persona o cosa con le disposizioni d’animo vi andava il nostro Maestro santo » (Lettera, 1904); oppure racchiude il giudizio di più alta sapienza sull’essenza della vita cristiana in brevi frasi, come queste: « Esprimere Cristo agli sguardi del Padre » (Ultimo ritiro, XIV). « Che io non sia più io, ma Lui, e il Padre, guardandomi, possa riconoscerlo »(Lettera al Canonico ARLES Luglio 1906.). «Quando sarò perfettamente conforme a questo divino esemplare, tutta in Lui ed Egli in me, allora adempirò la mia vocazione eterna » quella per la quale Dio mi elesse « in Lui » « in principio », quella che proseguirò « in æternum » quando, inabissata nel seno della Trinità, sarò la incessante lode della sua gloria : laudem gloriæ eius » (Ultimo ritiro). Da questa luce, emana la risposta adeguata che risolve il problema del male e il mistero della sofferenza « Configuratus morti eius » la conformità alla sua morte: ecco ciò che bramo raggiungere » (Lettera al Canonico A. luglio 1906). « ciò che bramo raggiung Voglio andare con Lui alla mia passione per essere redentrice con Lui » (Lettera alla mamma 18 luglio 1906)Espressioni simili sono rivelatrici di tutta un’esistenza. Il medesimo atteggiamento di spirito essa prende di fronte a tutti i misteri divini. Basa l’intera sua vita nella fede al « troppo grande amore » È la sua visione, qui sulla terra (Lettera a Don Ch… 25 dicembre 1904).; « ogni cosa è un sacramento il quale le dona Dio ». Considera la sofferenza. non in se stessa, ma come uno strumento che obbedisce all’Amore (Lettera alla signora De S… – 25 luglio 1902) e sul suo letto do dolore ripete: «Il Dio nostro è un fuoco consumante; io subisco la sua azione ? (Alla priora). –  Così, nello svolgersi progressivo degli eventi, tutte le cose umane le apparivano in una luce sempre più divina. Nell’ora solenne in cui, per l’ultima volta, le sue sorelle del Carmelo sì riunirono intorno a lei, la udirono pronunciare, sotto un impulso luminoso del dono della sapienza, quasi in un canto: «Alla sera della vita, tutto passa. L’amore solo rimane ». Fa pensare a ciò che dice san Giovanni della Croce: « Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore » e si ricongiunge al comandamento supremo di Gesù: il primato della carità che tutto ordina e modera nella vita dei santi. Ma l’oggetto delle predilezioni dello Spirito di sapienza è il mistero della Trinità. Per sviluppare questo punto, bisogna riprendere, qui, e rivedere a questa luce tutto il capitolo che abbiamo consacrato allo studio dell’inabitazione della Trinità ed alla parte di centrale importanza che ha questo mistero nella vita e nella dottrina di suor Elisabetta della Trinità; nulla rivela con altrettanta evidenza il predominio del dono della sapienza nella vita intima dell’anima sua. L’esercizio continuo della presenza di Dio diviene in lei rapidamente il segreto di tutte le fedeltà. Pochi giorni prima di morire, ce ne ha lasciato lei stessa la preziosa testimonianza: « Credere che un Essere che si chiama l’Amore abita in noi sempre, in tutti gli istanti del giorno e della notte, e che ci chiede di vivere in società con Lui, è ciò che ha trasformato la mia vita, ve lo confido, in un paradiso anticipato » (Alla signora G. de B… – 1906). Tutta l’attività della vita spirituale, per lei, si riassume in questo: «La mia continua occupazione consiste nel rientrare dentro di me e perdermi in Coloro che sono qui» (Lettera a G. de G… – Fine settembre 1903.). Al tramonto della sua esistenza così breve, stabilita ormai nell’unione trasformante, ella giunge all’oblio perfetto di sé: è la fase suprema della sua vita spirituale che abbiamo già a lungo analizzata (Cfr. Capitolo I, paragrafo II « Carmelitana », e soprattutto il Capitolo IV « Lode di gloria » che ci sembra il più importante per la comprensione intima della dottrina e della vita di suor Elisabetta). Suor Elisabetta della Trinità è scomparsa dinanzi a Laudem gloriæ. Lei stessa non firma più le sue lettere che con questo « nome nuovo », e non vuol più chiamarsi che così; ché ormai l’anima sua, elevandosi al di sopra delle dolcezze della divina presenza, al di sopra di se stessa, si oblìa interamente, per non essere più che « l’incessante lode di gloria della Trinità ». È il trionfo del dono della sapienza: tutto è dominato da un unico pensiero: la gloria della Trinità; quindi, tutto ciò che non coopera alla glorificazione divina, o peggio, che minaccerebbe di ritardarla viene eliminato senza pietà. Però, essa non si ripiega egoisticamente in se stessa per arrestarsi a « godere di Dio » nella gioia beatificante di questa presenza delle divine Persone in lei, che forma il suo cielo anticipato. No; si tratta, innanzi tutto, della gloria di Dio; e, nel « cielo dell’anima sua » il suo ufficio essenziale è cantare giorno e notte, come i beati nel « cielo della gloria », la lode della Trinità; e sotto l’impulso del dono della sapienza, in corrispondenza all’esercizio e al progresso nella carità, tutta la sua vita prende il ritmo che conviene alla lode di gloria. « Una lode di gloria è un’anima di silenzio che se ne sta come un’arpa sotto il tocco misterioso dello Spirito Santo, perché Egli ne tragga armonie divine. Sa che il dolore è la corda che produce i suoni più belli; perciò è contenta che questa corda non manchi nel suo strumento, per commuovere più deliziosamente il cuore del suo Dio. Una lode di gloria è un’anima che contempla Dio nella fede e nella semplicità. È un riflesso di tutto ciò che Egli è, è come un cristallo attraverso il quale Egli può irradiare e contemplare tutte le proprie perfezioni e il proprio splendore. Un’anima che permette così all’Essere divino di saziare in lei il Suo bisogno di comunicare tutto ciò che Egli è e tutto ciò che ha, è veramente la lode di gloria di tutti i suoi doni. Finalmente, una lode di gloria è un’anima immersa in un incessante ringraziamento; ciascuno dei suoi atti, dei suoi movimenti, dei suoi pensieri, delle sue aspirazioni, mentre la fissa più profondamente nell’amore, è come una eco del « Sanctus » eterno. Nel cielo della gloria, i beati non hanno riposo né giorno né notte, ma sempre ripetono: «— Santo, santo, santo, il Signore onnipotente — …e, prostrandosi, adorano Colui che vive nei secoli dei secoli ». Nel cielo dell’anima sua, la lode di gloria inizia già l’ufficio che sarà suo in eterno; e, quantunque non ne abbia sempre coscienza, perché la debolezza della natura non le consente di fissarsi in Dio senza distrazioni, pure rimane sempre sotto l’azione dello Spirito che opera tutto, in lei. Canta sempre, adora sempre, è, per così dire, interamente trasformata nella lode e nell’amore, nella passione della gloria del suo Dio » (« Il paradiso sulla terra » – 13° orazione.).

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (19)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (19)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO OTTAVO

I doni dello Spirito Santo (3)

5) Il dono del consiglio è per eccellenza un dono di governo. Ora, suor Elisabetta della Trinità non fu Priora né in alcun modo incaricata delle anime; l’intera sua vita religiosa trascorse dal noviziato all’infermeria. E tuttavia possedette in sommo grado questo Spirito di Dio. Il dono del consiglio, del resto, se è più manifesto in chi è investito di autorità, non è meno necessario a tutte le anime per il perfetto orientamento della loro vita secondo i disegni di Dio… Nei superiori, assume la forma di una direzione prudente e soprannaturale che, anche nella organizzazione delle cose materiali, cura innanzi tutto il bene spirituale delle anime e si preoccupa di dare a Dio la più grande gloria; negli inferiori, insinua una docilità vigilante nel sottomettersi a tutti i voleri del Signore manifestati dai suoi legittimi rappresentanti; perché, prescindendo dai loro pregi o dai loro difetti, Dio solo parla in essi, e in essi merita di essere ascoltato. Il dono del consiglio si mostrò, in suor Elisabetta della Trinità, dapprima sotto questa forma di pronta docilità al suo direttore spirituale; giovinetta, lo consultava su tutto quello che concerneva il bene dell’anima sua, e si atteneva fedelmente a quanto egli aveva deciso; novizia, ricorreva in ogni occasione alla sua Priora, qualche volta anche per dei nonnulla, tanto bramava di essere interamente nella linea della divina volontà. Un testimonio afferma: « Bastava accennarle: — L’ha detto la reverenda Madre —; per farla andare in capo al mondo ». Lo Spirito di consiglio, infatti, non solo conduce le anime con ispirazioni individuali e segrete, ma le induce anche a lasciarsi dirigere e guidare. Più tardi, questo stesso dono prese in lei un’altra forma, più elevata. Leggendo la sua corrispondenza, si resta sorpresi e ammirati nel vedere con quale disinvolta agilità va ad adattarsi alla varietà straordinaria delle sue relazioni: membri della sua famiglia, bambine, giovinette, persone del mondo nelle situazioni più diverse, anime sacerdotali: alcune attendevano da lei la parola decisiva che le avrebbe orientate verso l’unione con Dio. Eppure, non vi è corrispondenza epistolare più spontanea e meno convenzionale di questa. Nulla di pedante e che sappia di predica o di lezione morale; ma sempre un grande spirito di discrezione, un tatto squisito, un senso perfetto delle situazioni. Sa aspettare degli anni, se è necessario, prima di insinuare delicatamente la parola di rimprovero che sconcerterà un’anima. « Addio! Quando sarò lassù, vorrai permettermi di aiutarti, di rimproverarti, anche, se vedrò che non darai tutto al Maestro divino; e questo, perché ti amo. Che Egli ti custodisca interamente sua, perfettamente fedele; in Lui, io sarò tua per sempre» (Ad un’amica). I lumi più sublimi sulla « lode di gloria » o sul mistero della Trinità sono messi alla portata di tutte le anime, espressi in forma chiara e di una semplicità così luminosa e serena, che conferisce alla sua spiritualità una nota singolare di equilibrio e di precisione dottrinale. E quante anime, proprio per questo, hanno fatto degli scritti di suor Elisabetta della Trinità la loro lettura più intima e cara! Questa facilità di trasposizione e di adattamento dipende direttamente dal dono del consiglio, il quale inclina le anime, dopo aver consultato le ragioni supreme della Sapienza del Verbo, a discernere i mezzi pratici più semplici e più rapidi per giungere alla sommità della unione divina attraverso le difficoltà innumerevoli della vita. E proprio questa è la forma caratteristica che prese in lei lo Spirito di consiglio. La sua missione non era di dirigere una comunità, ma di condurre una moltitudine di anime verso le profondità della vita trinitaria per il sentiero dello spogliamento assoluto e dell’oblio di sé, « fino al grande silenzio interiore che permette a Dio di imprimersi in esse, di trasformarle in Sé » (Lettera a suor Odilia – Ottobre 1906.

6) Con i doni della scienza, dell’intelletto, della sapienza, penetriamo nella psicologia più profonda dell’anima dei Santi. L’azione di questi doni superiori ci consente di sorprendere il loro atteggiamento più intimo e segreto di fronte al «nulla » della creatura e al « Tutto » di Dio. Di qui, la loro primordiale importanza nello studio di un’anima contemplativa. In suor Elisabetta della Trinità, ci danno la chiave della sua vita spirituale e della sua dottrina mistica. Lo Spirito di scienza dà l’esperienza delle creature alla luce della carità; dà la capacità di giudicarle secondo le loro proprietà contingenti e temporali, e anche di elevarsi, per esse, fino a Dio. – Sotto il suo impulso, un duplice movimento si determina nell’anima: da un lato, l’esperienza del vuoto della creatura, del suo nulla; dall’altro, la rivelazione, nel creato, dell’orma di Dio. Questo medesimo dono della scienza strappava lacrime a san Domenico quando considerava la sorte dei poveri peccatori, mentre ispirava a san Francesco di Assisi il suo magnifico « Cantico al sole », dinanzi allo spettacolo della natura. Entrambi questi sentimenti si trovano espressi in quel noto passo del « Cantico spirituale » di san Giovanni della Croce, in cui descrive il conforto e insieme il tormento dell’anima mistica dinanzi al creato, perché le cose tutte dell’universo le rivelano il passaggio del Diletto, mentre Lui si è involato e si cela, invisibile, fino a che l’anima, in Lui trasformata, Lo incontrerà nella visione beatifica. – Nei grandi convertiti — in sant’Agostino, per esempio, nelle sue Confessioni — questo dono riveste l’espressione di una dolorosa esperienza del peccato. Ma l’anima verginale di suor Elisabetta della Trinità non provò mai in questa forma acuta e tragica gli effetti del dono della scienza. Secondo il ritmo soave della sua anima contemplativa, esso tendeva piuttosto a divenire in lei un potente stimolo allo spogliamento ed alla perfezione. Le creature sono fallaci ed oppongono ostacolo alla pienezza della vita divina: bisogna considerare tutte le cose della terra come rifiuti per possedere Cristo; e in Lui bisogna tutto dimenticare. È il «nescivi» dell’ultimo « Ritiro ». L’anima sua vuole attraversare le creature senza vederle, per non fermarsi che nel Cristo. Tutta l’ascesi del silenzio si spiega e si comprende a questa luce: le cose create, tutte quante, valgono mai la pena di uno sguardo per chi, fosse pure una volta sola, ha sentito il Signore? Il dono della scienza presenta un’altra forma positiva, nei Santi: lo spettacolo delle creature, come un tempo nello stato di innocenza, le porta irresistibilmente a Dio. La voce possente del concerto della creazione esercitava a volte, in alcune anime contemplative, una tale forza di rimprovero, che si sentivano mormorare ai cieli e ai fiori: — Tacete, oh, tacete! Sotto la mozione dello Spirito di scienza, il salmista. cantava: « Cœli enarrant gloriam Dei. I cieli narrano la gloria di Dio » (Ps. XVIII, 2). A questo secondo aspetto piuttosto che all’altro bisognerebbe ricollegare i movimenti della grazia che suor suor Elisabetta della Trinità provava abitualmente dinanzi alle bellezze del creato; come per tutti i Santi, la natura era per lei il gran « libro di Dio ». Da fanciulla aveva amato i vasti boschi solitari, la maestosità selvaggia dei Pirenei, l’immensità dell’Oceano; aveva amato soprattutto gli spazi sconfinati di una notte stellata; allora il senso dell’infinito la soggiogava e il contatto della natura le dava intensamente il suo Dio. – A mano a mano che procederà nella vita, questi due sentimenti del dono della scienza si confonderanno in lei in un sentimento unico. La miseria della creatura e la coscienza del suo proprio nulla la risospingeranno in Dio solo. « Se guardo dal lato della terra, vedo la solitudine ed anche il vuoto, perché non posso dire che il mio cuore non abbia sofferto » (Lettera al Canonico A… – 4 gennaio 1904). « Come fa bene, allorché si sente la propria miseria, andare a farsi salvare da Lui! » (Lettera alla signora A… – 24 novembre 1905.). « Quando si considera il mondo divino che ci avvolge fin d’ora, nell’esilio, quel mondo in cui possiamo vivere e agire, come svaniscono le cose di quaggiù! Esse sono ciò che non è, sono meno che niente ». « I Santi, quelli sì, avevano capito la vera scienza, la scienza che ci separa da tutto e da noi stessi, per slanciarsi in Dio e non farci vivere che di Lui!» (Lettera alla signora A… – 24 novembre 1904.) Così si manifestava all’anima sua quella conoscenza rivelatrice del «nulla» della creatura e del «Tutto » di Dio, che lo Spirito di Gesù comunica a coloro che Lo amano e che la sacra Scrittura chiama la « scienza dei santi » (Sapienza, X-10.).

7) I grandi contemplativi, come le aquile, puntano i loro sguardi sulle eccelse vette. Essi sanno che il più debole lume intorno alla Trinità è infinitamente più delizioso della conoscenza dell’intero universo. Che cos’è infatti tutto il movimento degli atomi e delle creature uscite dalle mani di Dio, di fronte alla silente ed eterna generazione del Verbo che si cela nel Suo seno? Introdurci nelle profondità di questi abissi trinitari, è il compito dei doni contemplativi. A questa luce tutta deiforme, l’anima vede le cose con lo sguardo stesso di Dio; e san Giovanni della Croce osa dire che l’anima, giunta a questo grado di unione trasformante, partecipa al mistero delle processioni divine: della generazione del Verbo, della spirazione dell’Amore. Mediante la fede e la carità, irradiata da questa luce altissima dei doni, essa compie degli atti riservati a Dio e propri delle divine Persone. È, secondo la promessa di Gesù, « la consumazione nella unità » (San Giovanni, VII-23). Il concetto di « partecipazione » indica, nello stesso tempo, la distanza infinita — che rimane sempre fra Dio e la sua creatura — e una vera comunicazione, per grazia, della vita trinitaria. L’anima partecipa alla luce del Verbo e al movimento dell’Amore increato. « Particeps Verbi, particeps Amoris » (I q. XXXVIII, a. 1, in corpore), secondo l’audace formula di sanTommaso, così scrupoloso nell’esattezza dottrinale e sempre così misurato nei suoi termini.L’effetto essenziale del dono dell’Intelletto è proprioquello di far penetrare, quanto più profondamente è possibile,nell’intimo delle verità soprannaturali alle quali lafede invece si accontenta di aderire su semplice testimonianzaesteriore.Questa penetrazione amante e saporosa delle più alteverità divine, soprattutto del mistero trinitario che è l’oggettodelle sue predilezioni, non dipende dall’acutezza intellettualedel soggetto, ma dal suo grado di amore e dallasua docilità perfetta al soffio dello Spirito. I tocchi piùsegreti di questo Spirito non potremo afferrarli mai, sullaterra; sempre essi sfuggiranno alle nostre indagini, comeciò che vi ha di più ineffabile e divino nella vita dei Santi.Le tracce che ne possiamo sorprendere in suor Elisabettadella Trinità ci dicono come l’attività dello Spiritod’intellettonon ebbe in lei tutto il suo ampio respiro senon dopo l’entrata al Carmelo, a contatto con la teologiamistica di san Giovanni della Croce e nella lettura di sanPaolo, dopo le supreme purificazioni della sua vita di fede. Si possono ridurre gli effetti del dono dell’intelletto asei principali; una realtà divina, infatti, può celarsi: sottogli accidenti, sotto le parole, sotto le figure o le analogie.sotto le cose sensibili, nelle sue cause, nei suoi effetti.È chiaro che questo Spirito si manifesta in maniera differentissimasecondo le circostanze, le indoli diverse deiSanti e la loro missione; dona, ad alcuni, una intelligenzapenetrante delle sacre Scritture, ad altri il discernimentodel divino nelle anime, oppure una conoscenza particolaredell’anima di Cristo o del mistero di Maria, il senso dellaRedenzione, della Provvidenza, di questo o di quell’attributodivino, della Unità nella Trinità. Non si finirebbepiù se si volessero specificare i modi innumerevoli e variin cui questo Spirito d’intelletto essenzialmente multiformepuò comunicarsi agli uomini ed agli Angeli, secondo chepiace a Dio, per sua bontà, di rivelarci la sua gloria.In suor Elisabetta della Trinità, i doni dello Spirito Santo, come gli aspetti della sua vita spirituale, presero normalmente una forma Carmelitana. Nei suoi scritti, nella sua vita luminosa, si possono raccogliere tante prove rivelatrici dell’azione dello Spirito di intelletto. Il suo sguardo contemplativo si fissava a lungo, adorante, nella anima di Cristo nascosto nel tabernacolo sotto le apparenze eucaristiche. « Noi possediamo — diceva — la visione in sostanza, sotto il velo dell’ostia » (A Don Ch… – 14 giugno 1903). Il dono dell’intelletto le apre il libro delle sacre Scritture e gliene svela i reconditi sensi; manifestazione, questa, singolarmente evidente della azione dello Spirito di Dio nell’anima sua. Il suo modo di procedere più abituale è la parafrasi mistica condotta con una rara penetrazione. Senza costringere o svisare il senso letterale, ne trae la sua ammirabile dottrina spirituale; le frasi ispirate le servono come punto di partenza, come motivo per delle magnifiche elevazioni contemplative in cui la sua anima di Carmelitana trova diletto. Talvolta una sola parola della Scrittura le dona, per anni interi, « la luce di vita » (San Giovanni, VIII-12.). San Paolo le svela il « nome nuovo » che le indica da parte di Dio, quale sarà il suo ufficio per l’eternità, l’ufficio che deve però già iniziare nel tempo: « l’incessante lode di gloria alla Trinità ». Nell’ultima fase della sua vita, è ancora san Paolo che viene a definire, in una formula che le reca tanta grazia nell’anima, il suo programma supremo di trasformazione in Cristo: « la conformità alla di Lui morte » (Filippesi, III-10.). Basta, a volte, un semplice accostamento di testi, perché ne scaturisca luce divina nell’anima sua. « Siamo stati predestinati, per decreto di Colui che compie ogni cosa secondo il consiglio della sua volontà, affinché siamo la lode della sua gloria… Dio ci ha eletti in sé prima della creazione, perché siamo immacolati e santi al suo cospetto, nella carità ». Se accosto fra loro queste due enunciazioni del piano di Dio « eternamente immutabile », posso concludere che, per compiere degnamente il mio di « laudem gloriæ », devo tenermi, in mezzo a tutto e nonostante tutto, « alla presenza di Dio »; anzi, l’Apostolo ci dice: « in caritate », cioè in Dio; « Deus caritas est »: e il contatto con l’Essere divino mi renderà « immacolata e santa ai suoi sguardi » (Ultimo ritiro, II.). Essere lode di gloria con l’esercizio continuo della presenza di Dio; ecco l’essenza della sua vocazione; e l’ha colta in san Paolo, con un solo sguardo. Ma un secondo movimento del dono dell’intelletto possiamo discernere in suor Elisabetta, movimento familiare alle anime pure e contemplative per le quali le minime cose sono, simbolicamente o per analogia, un richiamo alla divina presenza. « Quando vedo il sole penetrare e diffondersi nei nostri chiostri, penso che Dio invade così, come i raggi del sole trionfante, l’anima che non cerca che Lui » (Lettera a G. de G… – 14 settembre 1902). – Tutto l’universo visibile assume, nelle anime dei Santi, un senso spirituale che le eleva a Dio; il loro sguardo rivolge sempre al volto mistico delle cose. Una santa Caterina De Ricci non poteva vedere una rosa senza pensar al sangue redentore; e suor Elisabetta apparteneva alla stirpe di quelle anime verginali che sembrano aver ritrovato lo stato d’innocenza e leggono Dio nel libro del creato. Fino dalla sua entrata al Carmelo, essa Lo scopre negli infimi particolari della sua vita: « Qui — scrive — tutto parla di Lui » (A_M. L. M… – 26 ottobre 1902). « Al Carmelo, dappertutto c’è il Signore ». (Alla sorella, 1901). « Il Maestro è così presente, che si crederebbe sia lì lì per comparire nei lunghi viali solitari » (Alla zia – Pasqua 1903). Appena le viene annunciata la nascita di una nipotina, si informa della data del battesimo, perché vuole essere presente in ispirito nel momento in cui la Trinità santa scenderà in quell’anima, sotto i segni della rigenerazione cristiana. È il fiorire del simbolismo mistico: «Ogni cosa è un sacramento che le dona Dio » (Lettera alla signora A… – 1906). Vi è un altro aspetto del dono dell’intelligenza, particolarmente sensibile nei teologi contemplativi. Dopo le dure fatiche della scienza umana, d’un tratto, sotto un forte impulso dello Spirito, tutto si illumina: ed ecco che un mondo nuovo appare in un principio o in una causa universale: quali ad esempio, Cristo-Sacerdote, unico mediatore fra il cielo e la terra; oppure il mistero della Vergine Corredentrice che porta spiritualmente nel suo seno tutti i membri del Corpo mistico: o ancora il mistero dell’identificazione degli innumerevoli attributi di Dio nella sua sovrana semplicità e la conciliazione della Unità d’essenza con la Trinità delle Persone, in una Deità che oltrepassa all’infinito le indagini più acute e profonde di tutti gli sguardi creati. Ecco altrettante verità che il dono dell’intelletto approfondisce senza sforzo, saporosamente, nella gioia beatificante di una «vita eterna iniziata sulla terra », alla luce stessa di Dio. Due princìpi soprattutto attirarono e fissarono lo sguardo contemplativo di suor Elisabetta: l’influenza universale della Trinità che dimora nell’intimo dell’anima per santificarla e custodirla « immobile e in pace », sotto la sua azione creatrice; e l’attività redentrice di Cristo presente sempre in lei per purificarla e per divinizzarla: due punti cardinali della sua spiritualità. – In senso inverso, il dono dell’intelletto rivela Dio e la sua onnipotente causalità negli effetti, senza bisogno dei lunghi raggiri discorsivi del pensiero umano abbandonato alle proprie forze, ma con un semplice sguardo comparativo e per intuizione « alla maniera di Dio ». Negli indizi più impercettibili, nei minimi avvenimenti della sua vita, un’anima attenta allo Spirito Santo scopre d’un tratto tutto il piano della Provvidenza a suo riguardo. Senza ragionamento dialettico sulle cause, la semplice vista degli effetti della giustizia o della misericordia di Dio le fa intravedere tutto il mistero della predestinazione divina, del « troppo grande amore » (Efesini, II-4) che insegue, instancabile le anime per unirle alla beatificante Trinità. Attraverso a tutto, Dio conduce a Dio. – Quando si pensa alla limitata cultura religiosa di suor Elisabetta della Trinità, si resta stupiti delle pagine così profonde e luminose che ci ha lasciate sul mistero della Vergine e di Cristo, sull’abitazione di Dio nelle anime dei giusti, sulla lode di gloria che deve elevarsi, incessante, verso la Trinità adorabile. Il teologo attento deve concludere che tale conoscenza sopratecnica non può spiegarsi in quest’anima se non con l’esperienza di quella sapienza incomunicabile che Dio riserba « ai cuori puri» (S. Matteo, V-8.).

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (18)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (18)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO OTTAVO

I doni dello Spirito Santo (2)

2) Nessuna colpa grave ha deturpato mai la sua anima verginale; è naturale, quindi, che non vi sia in lei nessuna traccia di quel timore colpevole che angustia le persone mondane. L’angoscia dell’inferno, che ha fatto tremare tante altre anime quantunque sante, sembra non averla nemmeno sfiorata. Nel peccato., una cosa sola essa considera: l’offesa infinita al Dio d’amore; ed à questa che la spaventa nella sorte dei peccatori e nella sua propria vita: timore filiale di un’anima che teme soltanto la pena causata ad un Padre infinitamente buono, meritevole di tutta la fedeltà. « Io piango questi peccati che ti hanno fatto tanto male » (Diario – 14 marzo 1899.). – Piuttosto la morte che il peccato. « Se dovessi., un giorno, offendere mortalmente Io Sposo che amo sopra tutte le cose, o morte, falciami presto, te ne scongiuro, prima che io abbia avuta un’infelicità così grande » (Ibidem – 10 marzo 1899.). « Mi sento disposta a morire piuttosto che offenderti volontariamente. Sia pure co] peccato veniale » ((26) Diario – 11 marzo, 1899.). Sotto l’influenza dello Spirito di timore, l’anima si sente tremare dinanzi all’infinita Maestà che abita in lei e che potrebbe annientarla in un attimo. come le sembra di meritare per i suoi peccati. Fino a che rimane ferma in questo sentimento di religioso timore, quasi di terrore sacro, le diviene impossibile qualsiasi ripiegamento di compiacenza sopra se stessa; ma, con tutte le forze, elimina quanto in lei potrebbe dispiacere al suo Dio. Questo Spirito di timore la mantiene nell’umiltà che è custode della carità perfetta. Sentimento necessario ad ogni creatura dinanzi alla Maestà di Dio: tanto che esso anima ancora ed in eterno i beati nel cielo, e raggiunge la sua espressione suprema nell’anima del Cristo di fronte alla potenza tremenda del Padre suo, infinitamente temibile ai peccatori. Se non troviamo., in suor Elisabetta della Trinità dinanzi alla tremenda Maestà di Dio, quella forma di timore riverenziale così pungente nell’anima di certi santi e nell’Agonizzante del Gethsemani, possiamo riconoscerne però nella sua vita altri effetti caratteristici. Al dono del timore si ricollega quella beatitudine, la prima di tutte,dei « poveri in spirito », la quale ha una speciale affinità col primo dei sette doni; doni che rendono l’anima docilissima all’azione dello Spirito Santo. « Beati i poveri in ispirito », i distaccati da tutto, quelli che non vogliono altra ricchezza che la Trinità e, di tutto il resto, niente, nada. Niente delle creature; niente nella memoria e nei sensi; povertà, povertà, povertà. Niente nell’intelligenza, fuorché la luce del Verbo; niente nella volontà e nel più intimo dell’anima, se non la presenza della Trinità, la sola beatificante. – Sotto l’influenza dello Spirito di timore., l’anima, libera da ogni pensiero d’amore estraneo a Dio, s’immerge nel proprio nulla, si vuota di se stessa, paventa la più lieve colpa, il minimo attacco, l’ombra stessa dell’imperfezione, la fiducia che si appoggia alla creatura; per realizzare questa povertà, liberatrice che la renderà beata, vuole camminare, assolutamente « sola col Solo ». Ora, in Suor Elisabetta della Trinità, il dono del timore assume proprio questa forma essenzialmente Carmelitana, stimolandola lo Spirito, a distaccarsi da tutto per rifugiarsi in Dio solo, al di sopra di ogni motivo umano, nel vuoto di tutto il creato.

3) Il dono della Fortezza à uno dei doni più caratteristici della fisonomia spirituale e della dottrina mistica di suor Elisabetta della Trinità. I suoi primi sgomenti di bimba scomparvero ben presto al contatto contemplativo dell’Anima del Crocifisso. Fu segreto della trasformazione così rapida del suo atteggiamento dinanzi alla sofferenza. Il suo diario di giovinetta ce la mostra già vittoriosa di se stessa e della sensibilità puerile che l’aveva fatta tremare per dovere andare dal dentista. Il suo ideale si à fatto virile; adesso guarda in faccia il dolore, anzi lo desidera vivamente. A diciannove anni scrive: « Voglio vivere e morire da crocifissa » (Diario – 31 marzo 1899). – Tali desideri Dio li esaudisce; e fece bene, suor Elisabetta, a prendere come parola d’ordine. della sua vita religiosa: rendere i movimenti della propria anima sempre più uguali a quelli dell’Anima del Crocifisso. La vita religiosa à un vero martirio; e le sue anime sante vi trovano ampia messe di sacrifici crocifiggenti il cui merito può uguagliare e persino sorpassare quello del martirio di sangue. Dio sa determinare per ogni anima, nella cornice della propria vocazione, la via del Calvario che la condurrà diritta, senza indugi, alla conformità perfetta col Crocifisso, a condizione che non venga trascurata nessuna occasione di mortificare la natura e di abbandonarsi senza riserva alle esigenze dell’Amore. – Anche la sola pratica — assolutamente fedele — di una regola approvata dalla sapienza della Chiesa basterebbe per condurre le anime alle più alte vette della santità: tanto è vero che il sommo Pontefice Giovanni XXII diceva: — Datemi un Frate dell’Ordine dei Predicatori che osservi la sua regola e le sue costituzioni e, senza bisogno di altro miracolo, lo canonizzo. – Altrettanto si potrebbe dire delle sante regole del Carmelo e di ogni altra forma di vita religiosa. Il compimento perfetto dell’oscuro dovere di ogni giorno esige l’esercizio quotidiano del dono della fortezza. Non sono le cose straordinarie, lo sappiamo, che formano i santi, ma la maniera divina nel fare le cose ordinarie. Questo « eroismo di piccolezza » di cui santa Teresa di Gesù Bambino rimane nella Chiesa l’esempio forse più luminosamente noto, trovò nella Carmelitana di Digione una attuazione nuova. Poiché le mortificazioni straordinarie non le erano permesse, essa vi supplì con una fedeltà eroica alle minime osservanze del suo ordine, sapendo trovare nella regola del Carmelo « la forma della sua Santità » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1903) e il segreto di « dare il sangue a goccia a goccia per la Chiesa, fino a morirne » (Alla sua Priora.). La fortezza, infatti, questo dono dello Spirito Santo, consiste meno — contrariamente a quanto per lo più si  crede — nell’intraprendere coraggiosamente grandi opere per il Signore, che nel sopportare con pazienza e col sorriso sul labbro tutto ciò che la vita ha di crocifiggente; essa poi si manifesta stupendamente nei santi allora del martirio e nella vita di Gesù, al momento della sua morte sulla Croce. Giovanna d’Arceo è più intrepida sul rogo che alla testa del suo esercito entrante vittorioso ad Orléans. – In Suor Elisabetta della Trinità, si trovano tutte due queste forme del dono della Fortezza, la seconda specialmente. All’inizio della vita religiosa e nell’entusiasmo del suo primo fervore, una fame e una sete inesprimibile di santità la divorano: « Sono contenta di vivere in questa epoca di persecuzione. Come bisognerebbe essere santi!… Chiedetela per me questa santità di cui ho sete.….. Vorrei amare come amano i santi, i martiri » (Lettera al Canonico A.- 11 settembre 1901). In lei, non erano parole vaghe come se ne sentono da certe anime che sognano il martirio d’amore e poi sopportano à stento una puntura di spillo e i minimi urti della vita comune. Senza smarrirsi in lontani miraggi di santità chimerica, ma col realismo pratico dei santi, suor Elisabetta, alla luce del suo Dio Crocifisso, ebbe la sapienza di scoprire nei minimi atti della vita ordinaria il mezzo migliore per provare à Dio quanto lo amava. « Non so se avrò la felicità di dare al mio Sposo divino la testimonianza del sangue; ma, se vivo pienamente la mia vita di Carmelitana, ho almeno la consolazione di consumarmi per Lui » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1903.). « Se mi si chiedesse il segreto della felicità, risponderei: non far nessun conto di sé, rinnegare continuamente il proprio io » (Lettera à Fr. di S… – 11 settembre 1906.). Negli ultimi mesi, andò incontro al dolore « con la maestà di una regina » (Espressione di un testimonio.). Tutto il suo povero essere andava in rovina, Straziato, consumato, ma in quell’anima di martire. fu l’ora trionfale del dono della fortezza. La valorosa « ode di gloria », immedesimata sempre di più con l’anima del Crocifisso, faceva pensare alla forza divina del Calvario: vedendola, la sua Madre Priora si volgeva istintivamente all’immagine del Crocifisso. Ed ella stessa si rendeva conto perfettamente del senso di questa consumazione della vita nel dolore: scriveva alla mamma: «Tu temi che io sia designata come vittima per il dolore. Oh. te ne scongiuro, non ti rattristare; io temo, invece, di non esserne degna. Pensa, mamma, che sublime cosa partecipare alle sofferenze del mio Sposo Crocifisso e andare alla mia passione con Lui, per essere con Lui redentrice! » (Lettera alla mamma 18 luglio 1900). «Il dolore mi attira sempre di più: e il desiderio che ne provo supera persino quello del cielo, che è davvero grande. Il Signore non mi aveva fatto mai comprendere così bene che la sofferenza è la prova più grande di amore che Egli possa dare alla sua creatura, e allora, credi, ad ogni nuova pena, bacio a croce del mio Maestro e gli dico: — Grazie! — Ma non ne sono degna; penso che la sofferenza fu la compagna della sua vita. ed io non merito di essere trattata come Lui dal Padre suo » (Alla mamma – Settembre 1906). – «Il segno al quale possiamo riconoscere che Dio à in noi e che il suo amore ci possiede, è il ricevere non solo pazientemente ma con riconoscenza quello che ci ferisce e che ci fa soffrire. Per giungere a questo, bisogna contemplare il nostro Dio Crocifisso per amore e questa contemplazione, se è reale e sentita. conduce infallibilmente all’amore della sofferenza. Mamma cara. ricevi ogni prova, ogni contrarietà, ogni avvenimento sgradevole considerandoli alla luce che emana dalla croce; e così, sai;, che si piace a Dio e che si progredisce nelle vie dell’amore. Oh, digli grazie per me! Io sono tanto, ma tanto felice; e vorrei poter comunicare un po’ di questa felicità a coloro che amo… Ci ritroveremo all’ombra della croce; lì ti attendo per impararvi la scienza del dolore » (Alla mamma – 25 settembre 1906). – Suor Elisabetta, « lieta per dominio di volontà, sotto la mano che la crocifiggeva, sentiva il bisogno di rifugiarsi nella devozione della Regina dei martiri inabissata nella vastità di un dolore « immenso come il mare » (Thren. II-13) ma « ritta e forte ai piedi della croce » (Stabat), nella pienezza di un gaudio tutto divino —  « plane gaudens » [Enciclica « Ad diem illum », 2 febbraio 1904) — perché pensava, questa Madre addolorata, che l’oblazione del Figlio suo e lo spettacolo della redenzione placavano la Trinità santa. – Uno degli ultimi biglietti scritti alla mamma ci permette di sorprenderla in questo atteggiamento eroico del dono della fortezza. « C’è un Essere, che è Amore, il quale vuole che viviamo in società con Lui. Egli è qui con me, mi tiene compagnia, mi aiuta a soffrire, mi insegna a passare al di là del dolore per riposarmi in Lui… Così, tutto si trasſorma. » (Alla mamma, 20 ottobre 1906). È chiaro che tutto ciò supera la misura umana e non può spiegarsi se non mediante lo stesso Spirito di Fortezza che sosteneva Cristo in Croce.

4) Lo Spirito di Gesù riveste in noi aspetti multiformi: è lo Spirito di timore, di fortezza, di pietà., di consiglio, di scienza, di intelletto, di sapienza. Nel dono del timore e nella beatitudine dei poveri, sospinge l’anima al distacco assoluto e le ispira come parola d’ordine: « Nulla, nulla, nada » (S. Giov. Della Croce). Non contare che su Dio il quale non ci viene mai meno. Diffidente di sé, l’anima si rifugia nell’Onnipotenza divina; e allora Io Spirito di fortezza si impadronisce di lei e le fa ripetere con fiducia:. « Ho ſame e sete di giustizia, di santità (S. Matt. V, 6). Signore, spero in te e la mia speranza non sarà delusa » (Ps. XXX, 2). Pronta à tutti i martirii per il suo Dio, potrebbe esclamare come Teresa di Gesù Bambino: « Un martirio solo non basta: li vorrei tutti » (Storia di un’anima ); o come suor Elisabetta della Trinità: Vorrei amare come amano i santi, i martiri, …. amare fino à morirne » ( Cfr. Diario e lettera al Canon. A. 11 sett. 1901). Che dire delle meraviglie ineffabili che lo Spirito di Gesù può compiere silenziosamente in tali anime? E li penetra nelle più intime profondità del loro essere e le fa sospirare a Dio con gemiti inenarrabili. Ed allora l’anima, figlia adottiva della Trinità, mormora con una tenerezza tutta filiale: « Abba Pater! » (Rom. VIII, 5); è lo Spirito medesimo del Figlio. – Suor Elisabetta, possedendo una chiara coscienza di questa paternità divina, si fermava spesso e con tanto diletto, alla luce del suo caro san Paolo, nella meditazione di quella grazia di adozione che vivificava il suo culto verso Dio. Non metodi rigidi, né formule complicate che potrebbero paralizzare gli slanci del suo cuore filiale; corre à Dio come una bimba al padre suo. Tutto à semplificato: la Trinità à per lei la « cara dimora », la « casa paterna » donde non vuole uscir mai, l’atmosfera familiare dove l’anima sua di battezzata si Sente pienamente a suo agio. Tutti i moti del suo spirito si volgono a Dio come ad un Padre teneramente amato; e la sua sublime preghiera alla Trinità non è che l’effusione del suo cuore di figlia; bisognerebbe analizzarla alla luce del dono della pietà per scoprirvi il segreto della sua vita di orazione. Come è lontana da quelle preoccupazioni interessate che ingombrano tante vite di preghiera, le quali sembra che non si avvicinino a Dio se non per implorarne il soccorso. (Qui, il primo posto è per l’orazione silenziosa e adoratrice, per la conformità all’anima di Cristo, per la contemplazione degli « abissi » della Trinità; e, senza sforzo alcuno, l’anima si eleva fino alle Persone divine con lo Spirito stes3o de Figlio: « O mio Cristo. vieni in me come Adoratore e come Riparatore.….. tu, o Padre, chinati verso la tua povera piccola creatura e non vedere in essa che il Figlio diletto in cui hai posto tutte le tue compiacenze » (Elevazione alla Trinità). – Anche la preghiera di domanda per i peccatori occupa intensamente, à vero, la sua anima di Carmelitana e di corredentrice; ma, nella sua vita di adorazione, la preghiera che adora tiene — e di molto — il primo posto: è il più puro spirito di Gesù, il perfetto Adoratore del Padre, venuto sulla terra prima di tutto per raccogliere intorno à sé i veri adoratori che « il Padre cerca » (S. Giov. IV, 23) e che la Trinità attende. Infatti, il carattere proprio del dono della pietà è di elevare l’anima religiosa, nelle sue relazioni con Dio, al di sopra di ogni considerazione interessata e di ogni motivo creato, siano essi bisogni o benefici (Cfr. IL teologo classico dei doni dello Spirito Santo, Giovanni di San Tommaso – q. 70, disp. XVIII, art. 6, Vivès 668 – . Tutto lo sforzo della sua analisi del dono di pietà ha per testo fondamentale l’insegnamento di san Tommaso nelle sentenze – Ill, d. 34. Q. 3, a. 2, q. 1, ad 1 – « Pietas quæ est donum accipit in hoc ALIQUID DIVINUM pro MENSURA, ut scilicet Deo honorem impendat, Non quia sit E1 DEBITUS, Sed quia Deus honore dignus est, PER QUENM MODUM etiam ipse DEUS sibi honori est ». E, di qui, Giovanni di san Tommaso, p. 669: « At vero donum pietatis RELICTA hac MENSURA RETRIBUTIONIS et largitionis bonorum, honorat et magnihcat Dominum RATIONE SUI…, SOLUM attendit ad MAGNITUDINEM DIVINAM {IN SE », etc.). Mentre la virtù infusa di religione rende à Dio il culto che gli è dovuto nella sua qualità di sovrano Signore, principio e fine supremo di tutte le cose, autore dell’ordine dell’universo naturale e soprannaturale, invece il dono di pietà, prescindendo da tutto ciò che a Dio è dovuto per le sue liberalità, non guarda che l’eccellenza increata dell’Eterno, e la misura della sua lode è la gloria stessa che Dio trova nel proprio seno, nel Suo Verbo, cioè, e nelle sue perfezioni infinite. La Vergine santa, nel suo Magnificat, ci lascia cogliere un movimento bellissimo dell’anima sua vibrante al soffio dello Spirito di pietà, quando glorifica Iddio, non solo per le di lui « infinite misericordie di generazione in generazione », e nemmeno per la grazia sublime della maternità divina per cui tutte le nazioni la chiameranno beata, ma soprattutto perché Egli è grande in se medesimo, e le cose meravigliose operate da Lui nella sua povera serva non sono che il segno della « sua onnipotenza e della santità del suo Nome. Et sanctum Nomen eius » (Luc. I, 49). Di modo che la ragione per la quale glorifica Dio ed esulta in Lui, non è se non quella divina grandezza di cui tutte le opere esteriori non sono che debolissima manifestazione.La virtù di religione considera Dio creatore e provvidenza: « Degno sei tu, o Signore e Dio nostro, di ricevere l’onore e la gloria perché hai creato tutte le cose e le fai sussistere con la tua volontà » (Apoc. IV, 11). Ma rende a Dio anche un culto di riconoscenza e di Iode, perché Egli é l’autore della Redenzione e di tutto l’ordine soprannaturale: « Degno tu sei, o Signore, di ricevere ü libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e col tuo sangue hai riscattato a Dio uomini da ogni tribù e lingua e popolo e nazione; e li hai fatti popolo regale e sacerdoti, e regneranno Sulla terra » (V., 9 -10). Il dono della pietà, elevandosi al di sopra di tutti questi motivi di bontà di Dio verso di noi, non vuole considerare che Lui, Dio stesso, e il mistero insondabile perfezioni di questa Essenza divina in seno alla Trinità. Quindi non fissa il suo sguardo soltanto sulla paternità di Dio per le anime mediante la grazia, ma come il Verbo, lo Spirito di pietà penetra negli intimi recessi della divinità, fino alle più segrete ricchezze di questa natura increata: paternità eternamente feconda. Generazione di un Verbo consustanziale al Padre, sua immagine, sua gloria e suo splendore, spirazione di un comune Amore consustanziale e coeterno che sempre li ha uniti e li unirà, adesso e per i secoli senza fine; natura identica, comunicata dal Padre al Figlio, dal Padre e dal Figlio allo Spirito Santo, senza anteriorità di tempo, senza ineguaglianza di perfezione, senza dipendenza, ma con ordine e distinzione delle Persone in una indivisibile Unità. Il motivo del dono della pietà à la Trinità stessa. L’anima, non arrestandosi più alla stima dei benefici di Dio, vorrebbe glorificarlo tanto quanto Egli a se stesso la propria Iode. Vorrebbe uguagliare la misura divina, e ciò imprime una maniera deiſorme a tutto il suo culto di preghiera, di ringraziamento e soprattutto di adorazione. Secondo la formula così profonda, familiare a suor Elisabetta della Trinità, ella « adora Dio à causa di Lui stesso » e perché è Dio. La Chiesa della terra à sotto questa mozione speciale del dono di pietà quando, ogni giorno, al Gloria della Messa, canta: « Noi ti ringraziamo, o Signore, Per la tua gloria infinita. Gratias agimus tibi, propter magnam gloriam, tuam ». (Questo culto di glorificazione della divina Maestà non si rivolge ad alcuno dei suoi benefici, ma alla sola grandezza di Dio in se stesso; il motivo quindi di questo movimento di pietà adoratrice à la Deità stessa nella sua eccellenza increata, infinitamente superiore à tutti i suoi doni. Un sentimento simile à questo faceva esultare l’anima religiosa di suor Elisabetta della Trinità, come una volta quella della Madre sua santa Teresa, quando la domenica, all’ufficio di « Prima », la liturgia metteva suulle sue labbra il « Quicumque », facendo passare sotto Io sguardo contemplativo della Chiesa l’enumerazione delle perfezioni divine celate nel seno del mistero trinitario: Unità nella Trinità e Trinità nell’unità, senza confusione di Persone. senza Separazione di sostanza; una sola Divinità: Padre, Figlio e Santo Spirito; gloria identica, maestà coeterna, uguale potenza, uguale immensità, uguale eternità (« Quicumque »; a Prima della domenica.). – Nelle ultime ore della sua vita, suor Elisabetta, tutta dominata dal pensiero dell’eternità, amava tanto i capitoli dell’Apocalisse che le descrivevano la vita adoratrice della liturgia del cielo, dove tutto ciò che passa, al di sopra di se medesima, adora sempre Dio per Se stesso, secondo la parola del Salmista : « Adorate il Signore, perché Lui è santo ». L’adorazione è veramente una parola di cielo; mi pare che si possa definirla: l’estasi dell’amore; è l’amore annientato dalla bellezza, dalla forza, dalla Immensa dell’oggetto amato ». – « L’anima sa che Colui che essa adora possiede in sé ogni gloria ed ogni felicità e gettando la sua corona, come 1 beati, dinanzi à Lui, si disprezza, non bada più à sé, e trova la propria {elicità in quella dell’Essere ,adorato » (Ultimo ritiro. VIII). Con La liturgia eterna, espansione suprema del dono della pietà, la Chiesa trionfante, trasportata in Cristo e da Cristo nella lode del Verbo, realizza il sogno più caro dell’anima adoratrice di suor Elisabetta: l’incessante lode di gloria alla presenza della Trinità.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (19)