UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNE: S. S. LEONE XIII – “EXEUNTE JAM ANNO”

«Niente può stare a fronte della Chiesa… Quanti la combatterono, altrettanti perirono. La Chiesa trascende i cieli. La sua grandezza è tale che, combattuta, vince; insidiata, supera gli agguati… lotta e non è abbattuta, si azzuffa nel pugilato e non è mai superata ». Queste parole della parte finale di questa magistrale Lettera Enciclica danno conforto a tutti i veri tenaci Cristiani che in ogni tempo e soprattutto oggi cercano di barcamenarsi impavidi tra errori dottrinali, corruzione estrema dei costumi, paganesimo luciferino, martirio spirituale e in molti casi anche corporale. Il nemico si è così ben insediato in ogni luogo di potere, soprattutto spirituale, per poter colpire occultamente o apertamente le anime di quanti gli resistono. Inutile dire che il nemico si sta servendo di falsi chierici, di false strutture religiose, di false autorità che fingono di essere Vicario di Cristo (come il duo famigerato del gatto e la volpe attuali che portano i loro sparuti ignoranti fedeli – sempre però più perplessi – nel regno dei balocchi infernali allontanandoli dal regno dei cieli), da spettacoli orripilanti proposti nelle “discoteche vaticane” o addirittura nei prestigiosi templi ove un tempo si sacrificava degnamente e maestosamente il Sacrificio redentivo di Cristo… Leone XIII, che pure nella sua celebre visione del 1888 aveva contemplato la discesa dei demoni che si impossessavano di S. Pietro e del Vaticano, dando vita ad una parodia satanica della Chiesa di Cristo, avrebbe orrore ed una paralisi totale nel constatare come la sua visione si sia materializzata nel modo peggiore immaginabile. Ma la lettera, e soprattutto le parole succitate, che sono la versione aggiornata del non praevalebunt evangelico, ci danno conforto e speranza come gli ultimi capitoli dell’Apocalisse biblica. Dopo l’arrivo del Signore, le bestie, i falsi profeti ed il dragone saranno scaraventati nello stagno di fuoco ove soffriranno in eterno, ed i fedeli di Cristo, del suo vero Vicario e della sua vera unica Chiesa, saranno accolti nella Gerusalemme celeste a godere l’eterna visione beatifica.

Leone XIII
Exeunte iam anno

Lettera Enciclica

Sul declinare dell’anno in cui, per singolare dono e beneficio di Dio, abbiamo celebrato sani e salvi il cinquantesimo anniversario di sacerdozio, l’animo Nostro naturalmente ripercorre col pensiero i mesi trascorsi, e nel ricordo di tutto questo tempo grandemente si diletta. – E n’ha ben donde: infatti un avvenimento che Ci riguardava solo personalmente, e che non era né grande per se stesso, né meraviglioso per la novità, suscitò tuttavia negli animi un insolito entusiasmo, venendo celebrato con tante e così luminose manifestazioni di esultanza e di congratulazione che non si poteva desiderare di più. La qual cosa certamente Ci tornò sommamente gradita ed amabile: ma ciò che soprattutto in essa apprezziamo è il significato delle dimostrazioni e la costanza nella fede apertamente professata. La concorde acclamazione, con la quale venimmo salutati da ogni parte, diceva chiaro ed aperto che da tutte le regioni le menti e i cuori sono rivolti al Vicario di Gesù Cristo; che, fra tanti mali dai quali siamo oppressi, gli uomini rivolgono fiduciosi gli sguardi alla Sede Apostolica, come ad una perenne e incontaminata fonte di salvezza; e che dovunque vige il nome cattolico, si rispetta e si venera, com’è doveroso, con ardente amore e somma concordia la Chiesa Romana, madre e maestra di tutte le Chiese. – Per queste ragioni nei trascorsi mesi più d’una volta levammo gli occhi al cielo, ringraziando Iddio ottimo ed immortale, che Ci aveva benignamente concesso una lunga vita e quel conforto delle Nostre pene, che più sopra abbiamo ricordato. Nello stesso tempo, appena Ci si offerse l’occasione, dichiarammo a chi di dovere la Nostra riconoscenza. Ora poi la chiusura dell’anno e del giubileo C’invita a rinnovare la memoria del beneficio ricevuto; e Ci torna molto gradito che la Chiesa tutta si unisca con Noi nel rinnovare il ringraziamento a Dio. Il Nostro cuore contemporaneamente domanda che attestiamo pubblicamente – e lo facciamo con la presente lettera – che come Ci furono di non lieve lenimento alle cure e ai travagli Nostri le molte prove di ossequio, di urbanità e di amore ricevute, così pure ne vivranno perenni in Noi la memoria e la riconoscenza. – Ma un più grave e santo dovere ancora Ci rimane. In questo trasporto di animi, esultanti nel rendere con inusitato ardore riverenza e onore al Romano Pontefice, Noi ravvisiamo la potenza e la volontà di Colui che suole spesso, e che solo può, trarre da minime cose il principio di grandi beni. Sembra infatti che il provvidentissimo Iddio abbia voluto, in mezzo a tanto traviamento d’idee, ravvivare la fede e offrirci insieme l’opportunità di richiamare il popolo cristiano all’amore di una vita migliore. Pertanto non resta che metter mano all’opera, affinché il seguito corrisponda al felice inizio, e attivarsi al massimo affinché i disegni di Dio vengano compresi ed attuati. Allora finalmente l’ossequio verso la Sede Apostolica sarà pieno e perfetto in ogni sua parte, quando, associato all’ornamento delle virtù cristiane, valga a condurre gli uomini alla salvezza: risultato che è il solo desiderabile e duraturo in eterno. Dall’alto del ministero apostolico, in cui la bontà di Dio Ci ha collocati, prendemmo spesso il patrocinio della verità, e Ci studiammo di esporre principalmente quei punti della dottrina che Ci sembravano più adatti alla necessità, e più proficui al pubblico bene, affinché, conosciuta la verità, ognuno, vegliando e cautelandosi, fuggisse il soffio nefasto degli errori. Ora poi, quale padre amantissimo verso i suoi figliuoli, Noi vogliamo parlare a tutti i Cristiani e con familiare discorso esortare ognuno di loro a intraprendere un tenore di vita cristiana. Infatti, per ben meritare il nome di Cristiano, oltre alla professione della fede occorre l’esercizio delle virtù cristiane, dalle quali non solo dipende l’eterna salvezza dell’anima, ma anche la vera prosperità sociale e la tranquillità del consorzio civile. – Se si esamina lo svolgersi della vita, non vi è chi non veda quanto i costumi pubblici e privati siano discrepanti dai precetti evangelici. Si adatta troppo bene alla nostra età quella sentenza dell’Apostolo Giovanni: “Tutto ciò che è nel mondo, è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita” (1Gv II,16). I più, infatti, dimenticando il principio per cui nacquero ed il fine a cui sono chiamati, fissano tutti i loro pensieri e le loro sollecitudini nei vani e caduchi beni della terra; violentando la natura e scompigliando l’ordine stabilito, si rendono volontariamente schiavi di quelle cose che l’uomo dovrebbe, secondo ragione, dominare. – È poi naturale che con l’amore degli agi e dei piaceri si accoppî la cupidigia delle cose idonee a comprarli. Di qui quella sfrenata avidità di denaro che rende ciechi quanti invase, e corre tutto fuoco e a briglia sciolta a scapricciarsi, senza distinguere spesso il giusto dall’ingiusto, e non di rado con ributtante insulto alla miseria altrui. E così moltissimi, la cui vita nuota nell’oro, vantano a parole una fratellanza col popolo, che poi nell’intimo del cuore superbamente disprezzano. Allo stesso modo l’animo preso dalla superbia tenta di scuotere il giogo di ogni legge, calpesta ogni autorità, chiama libertà l’egoismo. “Come il puledro dell’onagro, ritiene di essere nato libero” (Gb, 11,12). – Gl’incentivi del vizio e i fatali allettamenti al peccato avanzano: intendiamo dire le licenziose ed empie rappresentazioni teatrali; i libri e i giornali scritti per fare apparire onesto il vizio e sfatare la virtù; le stesse arti, già inventate per le comodità della vita e l’onesto sollievo dell’animo, sono utilizzate quale esca per infiammare le passioni umane. Né possiamo spingere lo sguardo nel futuro senza tremare, vedendo i novelli germi dei mali che vengono di continuo deposti e accumulati in seno alla adolescente generazione. Vi è noto l’andamento delle pubbliche scuole: in esse non si dà luogo all’autorità ecclesiastica; e proprio nel tempo in cui sarebbe sommamente necessario informare con la più solerte cura gli animi ancor giovani alla pratica dei doveri cristiani, tacciono il più delle volte gl’insegnamenti della Religione. Gli adolescenti poi vanno incontro ad un pericolo maggiore, qual è una viziata dottrina; la quale sovente è tale che, più che ad istruire con la nozione del vero, serve ad infatuare la gioventù con i sofismi dell’errore. Infatti, nell’insegnamento delle scienze, moltissimi, trascurata la fede divina, amano filosofare col solo magistero della ragione; per cui, rimossi il solido fondamento e lo smagliante lume della fede, sono incerti in molte cose, e non distinguono il vero. Tale è il credere che quanto è nel mondo, tutto sia materiale; che gli uomini e gli animali abbiano identità d’origine e di natura; né mancano taluni che stanno in forse se vi sia, o no, un sommo Artefice del mondo e dominatore delle cose, Iddio; ovvero errano grandemente, a mo’ dei pagani, intorno alla sua natura. Donde è necessario che vengano alterati anche il concetto e la forma della virtù, del diritto e del dovere. E così mentre essi boriosamente vantano grandemente la supremazia della ragione e magnificano oltre misura l’acume dell’ingegno, scontano con l’ignoranza d’importantissime verità la pena dovuta alla loro superbia. Col pervertimento delle idee, si infiltra fin nelle vene e nel midollo delle ossa la corruzione dei costumi, e questa in tale gente non può venire sanata che con grandissima difficoltà: poiché da un lato i falsi principi alterano il giudizio dell’onestà, e dall’altro manca la luce della fede cristiana, che è principio e fondamento di ogni giustizia. – Per queste ragioni vediamo ogni giorno in qualche modo coi nostri occhi da quanti mali sia travagliata la società umana. Il veleno delle dottrine rapidamente invase la vita pubblica e privata: il razionalismo, il materialismo, e l’ateismo partorirono il socialismo, il comunismo, il nichilismo: atre e funeste pestilenze, le quali dovevano logicamente e inevitabilmente scaturire da quei principi. In verità, se si può rigettare impunemente la Religione cattolica, la cui divina origine è chiara per segni tanto evidenti, perché non si dovrebbero respingere le altre forme di culto, che certamente mancano di tali prove di credibilità? Se l’anima non è per sua natura distinta dal corpo, e per conseguenza, se nella morte del corpo nessuna speranza ci resta di un’eternità beata, perché dovremo noi sobbarcarlo a fatiche e a travagli al fine di sottomettere il talento alla ragione? Il sommo bene dell’uomo sarà riposto nel godimento degli agi e dei piaceri della vita. E poiché non v’è alcuno che per istinto e impulso di natura non tenda alla felicità, a buon diritto ognuno spoglierebbe gli altri, secondo le sue possibilità, per procacciarsi con le cose altrui il godimento della felicità. Né vi sarebbe potere al mondo che avesse così poderosi freni da imbrigliare le impetuose passioni; conseguentemente ove venga ripudiata la somma ed eterna legge di Dio, è inevitabile che il vigore delle leggi s’infranga, e ogni autorità si svigorisca. Ne consegue necessariamente che la società civile si sconvolga fin dal profondo, e che i singoli membri siano spinti a perpetua lotta dalla loro insaziabile cupidigia, affannandosi gli uni a raggiungere gli agognati beni, e gli altri a conservarli. Tale è certamente la tendenza dell’età nostra. Tuttavia, vi è di che consolarci alla vista dei mali presenti, e sollevare l’animo a liete speranze per l’avvenire. Infatti “Dio creò tutte le cose perché esistessero, e fece sanabili le nazioni di tutto l’orbe” (Sap 1,14). Ma come questo mondo non può essere conservato se non dalla volontà e dalla provvidenza di Colui che l’ha creato, così pure gli uomini non possono essere risanati che dalla sola virtù di Colui che li ha redenti. Infatti, Gesù Cristo a prezzo del suo sangue riscattò una volta sola il genere umano, ma perenne e perpetua è l’efficacia di tanta opera e di sì gran beneficio: “e non c’è salvezza fuori di Lui” (At IV,12). Pertanto, quanti si affaticano per estinguere, a forza di leggi, la crescente fiamma delle passioni popolari, essi si affaticano sì per la giustizia, ma si debbono anche persuadere che con nessuno o con scarsissimo risultato consumeranno la fatica, ove persistano a ripudiare la forza del Vangelo e a non volere la cooperazione della Chiesa. La guarigione dei mali è riposta in questo che, mutato indirizzo, gl’individui e la società ritornino a Gesù Cristo e al retto cammino della vita cristiana. – Ora la sostanza e il perno della vita cristiana consistono nel non assecondare i corrotti costumi del secolo, ma nell’osteggiarli con virile fermezza. Questo ci insegnano le parole e i fatti, le leggi e le istituzioni, la vita e la morte di Gesù, “autore e perfezionatore della fede”. Dunque, per quanto il guasto della natura e dei costumi ci attiri altrove, lontano dalla meta, occorre che noi corriamo “alla tenzone che ci aspetta”, agguerriti e pronti con quel coraggio e con quelle armi con le quali Egli, “propostosi il gaudio, sostenne la croce” (Eb XII, 1-2). – Gli uomini vedano pertanto e comprendano quanto sia lontano dalla professione della fede cristiana il seguire – come si fa oggi – ogni sorta di piaceri e rifuggire le fatiche, compagne della virtù e nulla rifiutare a se stesso di quanto piacevolmente e delicatamente alletta i sensi. “Coloro che sono di Cristo hanno crocifisso coi vizi e le concupiscenze la propria carne” (Gal V, 24): dal che si rileva che non sono di Cristo coloro i quali non si esercitano né si abituano a patire, disprezzando le mollezze e la voluttà. L’uomo, mercé l’infinita bontà di Dio, fu restituito alla speranza dei beni immortali dai quali era precipitato; ma non può conseguirli, se non cercando di calcare le orme di Cristo, meditandone gli esempi, conformando a Lui il cuore e i costumi. Pertanto, non è consiglio, ma dovere, né solamente per quelli che abbracciarono un genere di vita più perfetto, ma per tutti, “il portare nel corpo la mortificazione della carne” (2 Cor IV, 10). Come potrebbe altrimenti rimanere salda la stessa legge di natura, la quale comanda all’uomo di vivere virtuosamente? Infatti, col santo Battesimo si cancella la colpa che si contrasse nascendo, ma non per questo vengono recisi i rei germogli innestati dal peccato. Quella parte dell’uomo che è irragionevole, ancorché non possa nuocere a chi, mercé la grazia di Cristo, si oppone virilmente, tuttavia contrasta con il regno della ragione, turba la pace dell’animo e tirannicamente trascina la volontà lontano dalla virtù con tanta forza che, senza una lotta quotidiana, non possiamo né fuggire il vizio né compiere i nostri doveri. “Il santo Concilio riconosce e dichiara che nei battezzati rimane la concupiscenza, o stimolo, che, lasciata all’uomo per la battaglia, non può nuocere a chi non si arrende, ma anzi la respinge virilmente con la grazia di Gesù Cristo; chi debitamente combatterà, verrà coronato” . In questa battaglia vi è un grado di forza a cui non perviene che una virtù eccellente, cioè quella di coloro i quali, combattendo i moti contrari alla ragione, si avvantaggiarono a tal punto che sembrano condurre in terra una vita quasi celeste. – Per quanto sia di pochi una così rilevante perfezione, tuttavia, come la stessa antica filosofia insegnava, nessuno deve lasciare senza freno le proprie passioni, soprattutto coloro che utilizzando ogni giorno le cose terrene sono più esposti ai pericoli del vizio, a meno che qualcuno non pensi stoltamente che deve essere minore la vigilanza dove è più imminente il pericolo, o abbiano meno bisogno della medicina coloro che sono più gravemente ammalati. Quanto poi alla fatica che viene sostenuta in tale lotta, essa viene compensata, oltre che dai beni celesti e immortali, anche da altri grandi vantaggi, il primo dei quali è che, riordinati gli appetiti dell’uomo, moltissimo si rende alla natura della sua dignità primitiva. Infatti, con questa legge e con quest’ordine l’uomo venne creato affinché l’anima dominasse il corpo, e la cupidigia fosse governata dalla ragione e dal buon senso: da ciò deriva che il non darsi in preda alle tiranniche passioni sia la più sublime e desiderabile libertà. – Inoltre, senza quella disposizione di animo, non si vede che cosa ci si possa aspettare di bene nella stessa società umana. Potrà, per ventura, essere propenso a beneficare gli altri chi è abituato a prendere norma e misura di quanto deve fare, o fuggire, dall’amore di se stesso? Nessuno, che non sappia dominare se medesimo, e disprezzare per amore della virtù tutte le cose umane, può mai essere né magnanimo, né benefico, né misericordioso, né disinteressato. Non taceremo nemmeno che gli uomini – come è deciso dalla volontà divina – non possono raggiungere la salvezza senza fatica e senza pena. Infatti, se Dio concedette all’uomo la liberazione dalla colpa e il perdono dei peccati, glieli accordò con questa legge: che il suo Unigenito ne portasse la giusta e dovuta pena. E Gesù Cristo, pur potendo per altre vie soddisfare alla giustizia divina, volle piuttosto soddisfarla a prezzo di sommi tormenti, col dono della vita. E ai discepoli e seguaci impose questa legge suggellata col suo sangue: che la loro vita fosse una continua battaglia coi vizi dei costumi e dei tempi. Che cosa formò invitti gli Apostoli nell’addottrinare con la verità il mondo, e rinvigorì innumerevoli martiri nel dare testimonianza alla fede cristiana con la prova suprema del sangue, se non la disposizione dell’animo ossequiente senza timore a detta legge? Non scelsero di andare per altra via quanti ebbero a cuore di vivere cristianamente e di procacciare con la virtù il proprio bene; né per altra dobbiamo incamminarci noi, se vogliamo provvedere alla nostra e alla comune salvezza. – Pertanto, in mezzo a questa spudorata e dominante licenza, è necessario che ciascuno virilmente si difenda dagli allettamenti della lussuria; e poiché è tanto sfrontata l’ostentazione che si suol fare di una vita agiata ed opulenta, è anche necessario premunire l’animo contro il fascino del lusso e delle ricchezze, affinché il cuore, desiderando quelle cose che si dicono beni ma che non possono sfamarlo e sono fugaci, non venga a perdere un tesoro immarcescibile in cielo. Da ultimo, è altresì da deplorare che massime ed esempi dannosi abbiano avuto tanta forza da effeminare gli animi a tal punto che moltissimi oggi arrossiscono del nome e della vita cristiana, il che è proprio o di una profonda corruzione, o di una grande insipienza. Entrambe detestabili, entrambe tali che non può capitare all’uomo un male peggiore. Infatti, quale scampo rimarrebbe agli uomini, o in che cosa appoggerebbero essi la loro speranza, se tralasciassero di gloriarsi del nome di Gesù Cristo e ricusassero di comportarsi a viso aperto e con fermezza secondo i precetti evangelici? È comune lamento che la nostra età è infeconda di uomini forti. Si richiamino in vigore i costumi cristiani, e con ciò saranno restituite fermezza e costanza alle umane capacità. – Ma a tanta grandezza e varietà di doveri la virtù dell’uomo non può bastare da sola. Quindi conviene che, come si domanda a Dio il pane quotidiano per alimento del corpo, così pure da Lui s’implorino la forza e il vigore per l’anima, affinché questa si consolidi nella pratica della virtù. Per cui, quella comune legge e condizione della vita, che dicemmo consistere in un perpetuo combattimento, va sempre congiunta con la necessità della preghiera, poiché, come con verità e grazia dice Agostino, la pia orazione trascende gli spazi del mondo e fa scendere dal cielo la misericordia divina. Contro gli assalti delle torbide passioni e contro le insidie del demonio dobbiamo, per non essere irretiti dalle sue frodi, chiedere i conforti e gli aiuti celesti, secondo il divino oracolo: “Pregate per non cadere in tentazione” (Mt XXVI, 41). Quanto maggiormente ne abbiamo bisogno, se in più vogliamo procurare la salvezza agli altri! Cristo Signore, l’Unigenito Figlio di Dio, fonte d’ogni grazia e virtù, ci comandò con le parole quanto per primo ci dimostrò con l’esempio, “trascorrendo le notti nella preghiera a Dio” (Lc VI, 12), e vicino al sacrificio “pregava più intensamente” (Lc XXII, 43). – Per la verità assai meno sarebbe da temere la fragilità della natura, né i costumi si pervertirebbero nell’ozio e nell’infingardaggine, se questo divino precetto non fosse così spesso per negligenza o per stanchezza trascurato. Infatti, Dio è placabile con la preghiera; Egli vuole beneficiare gli uomini, e ha chiaramente promesso che a larga mano darà dovizia di grazie a chi gliene chiederà. Ché anzi Egli stesso ci invita, e quasi ci provoca con amorevolissime parole: “Io vi dico, chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi verrà aperto” (Lc XI, 9). E affinché non temiamo di pregarlo con fiducia e familiarità, tempera la sua divina maestà con l’immagine e la somiglianza di un tenerissimo padre a cui nulla è più caro dell’amore dei figli: “Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a coloro che gliele domandano?” (Mt VII, 11). – Chi avrà meditato queste cose, non si meraviglierà se a Giovanni Crisostomo la preghiera sembra tanto efficace da reputarla paragonabile alla stessa potenza di Dio. Infatti, nello stesso modo in cui Dio con una parola creò l’universo, l’uomo con la preghiera ottiene da Lui ciò che vuole. Niente è più efficace per ottenere grazie, quanto le buone orazioni, poiché esse contengono quei motivi dai quali Iddio si lascia più facilmente placare e intenerire. Nell’orazione noi storniamo l’animo dalle cose terrene e, attratti col pensiero nella contemplazione del solo Dio, abbiamo coscienza dell’umana debolezza: pertanto riposiamo nella bontà e nell’amplesso di nostro Padre, e cerchiamo rifugio nella potenza del Creatore. Noi ci presentiamo con insistenza all’Autore di tutti i beni, come per mostrargli l’anima nostra inferma, le forze fiacche e la nostra indigenza; pieni di speranza imploriamo tutela e soccorso da Colui che solo può somministrare il rimedio alle nostre infermità e offrire conforto alla nostra miseria e alla nostra debolezza. Grazie a questa umile e modesta disposizione d’animo, necessaria da parte del credente, meravigliosamente Iddio si piega a clemenza; perché, come resiste ai superbi, “così dà grazia agli umili” (1Pt V, 5). – Sia dunque sacra a tutti la pratica dell’orazione: preghino la mente, l’anima, la voce, e concordi il vivere con il pregare; affinché la nostra vita, mercé l’osservanza delle leggi divine, appaia un continuo volo dell’anima a Dio. Come tutte le altre virtù, così anche questa di cui parliamo venne generata e sorretta dalla fede divina. Infatti, Dio è Colui che ci dà a intendere quali siano i veri e desiderabili beni; e ci fa conoscere la sua infinita bontà e i meriti di Gesù Redentore. Ma niente vien meglio in aiuto ad alimentare e crescere la fede quanto la pia pratica dell’orazione. Appare chiaro quanto sia stringente il bisogno di tale virtù, che in molti è rilassata e in altri addirittura spenta. Infatti, da essa deve specialmente attendersi non solo la correzione dei costumi privati, ma anche la norma per giudicare di quelle cose, il cui conflitto non lascia gli Stati tranquilli e sicuri. Se il popolo è tormentato da una sete ardente di libertà, se dappertutto scoppiano minacciosi i fremiti dei proletari, se la snaturata ingordigia dei più ricchi non dice mai basta, e se vi sono altri sconci di tal fatta, a questo certamente non si può recare, come altra volta più diffusamente dimostrammo, un rimedio migliore e più sicuro della fede cristiana. – Qui cade in proposito rivolgere il pensiero e la parola a voi tutti, che Dio elesse a suoi cooperatori nell’amministrazione dei misteri e investì del suo divino potere. Ove si ricerchino le cause della privata e pubblica salute, non v’ha dubbio che, sia per il bene, sia per il male, influiscono assai la vita e i costumi degli ecclesiastici. Si ricordino dunque di essere da Cristo chiamati “luce del mondo”; poiché “come la luce che irraggia tutto l’orbe, conviene che splenda l’anima del sacerdote” . Si ricerca nel sacerdote un lume non comune della dottrina, dato che è suo compito infondere negli altri la sapienza, estirpare gli errori, essere guida del popolo per gli sdrucciolevoli e incerti sentieri della vita. La dottrina poi vuole innanzi tutto avere per compagna l’innocenza della vita; massime perché nella riforma degli uomini si ottiene più con gli esempi che con la parola: “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone” (Mt V, 16). Questa sentenza divina significa che nei sacerdoti la perfezione e la raffinatezza della loro virtù devono essere tali da servire da specchio a chi li osserva. “Nulla meglio ammaestra gli altri nella pietà e nel culto di Dio, come la vita e l’esempio di coloro che si dedicarono al divino ministero, poiché, essendo essi esposti agli sguardi in luogo più alto e sovrastante le cose del mondo, tutti si specchiano in loro, e da loro prendono il modello da imitare” . Per la qual cosa se tutti gli uomini debbono accuratamente guardarsi di cadere nei pericoli dei vizi, e di non correre con smodato amore dietro le cose caduche, appare ben chiaro con quanta più ragione debbano fare ciò con ogni scrupolosa cura e con costanza i Sacerdoti. – Ma non è sufficiente non servire alle passioni: la santità del loro sublime grado domanda in più che si abituino a padroneggiare virilmente se stessi e a sottomettere a Cristo tutte le forze dell’anima, specialmente l’intelletto e la volontà, che sulle altre dominano. “Tu che ti prepari ad abbandonare tutto, ricordati che tra le cose da lasciare vi è l’amore di te stesso, anzi, sopra tutto rinnega te stesso”. Quando essi abbiano sciolto e liberato da ogni cupidigia il cuore, allora finalmente concepiranno un alacre e generoso zelo per l’altrui salute, senza neppure provvedere abbastanza alla propria: “Un solo guadagno, un solo vanto, una sola gioia essi debbono cercare nei loro fedeli, ed è di studiarsi di preparare in essi un popolo perfetto. A questo fine tutti debbono adoperarsi, mortificando anche la carne e il cuore, e non badando a fatiche e pene, a fame e sete, a freddo e nudità”. Codesta impavida e sempre desta virtù, che si prodiga per il bene del prossimo in ardue imprese, viene mirabilmente alimentata e rinvigorita dalla frequente contemplazione delle cose celesti, e quanto più ad essa si dedicheranno, tanto meglio comprenderanno la grandezza e la santità del ministero sacerdotale. Comprenderanno quanto sia deplorevole cosa che tanti, redenti da Gesù Cristo, piombino nell’eterna rovina: con la meditazione dell’essere divino ecciteranno maggiormente se stessi e gli altri all’amore di Dio. Ecco la via sicurissima della salvezza pubblica. Però bisogna stare molto attenti che nessuno si abbatta per la grandezza delle difficoltà o disperi della guarigione per la permanenza dei mali. L’imparziale ed immutabile giustizia di Dio riserba il premio alle buone opere, la pena alle malvagie: ma quanto alle nazioni, che non possono propagarsi oltre la cerchia del tempo, conviene che esse abbiano la loro retribuzione su questa terra. Non è cosa nuova, è vero, che prosperi successi allietino una nazione peccatrice, e ciò per giusta disposizione di Dio, il quale, non essendovi popolo al mondo che sia privo di ogni onestà, con siffatti premi talora ricompensa le lodevoli azioni; come successe al popolo romano secondo Agostino. Nondimeno è legge stabilita che il più delle volte alla prospera fortuna giovi il pubblico culto della virtù, massime di quella che è madre di tutte le altre, cioè la giustizia. “La giustizia solleva, il peccato deprime e immiserisce i popoli” (Pr 14,34). Non vale qui rivolgere l’attenzione alla trionfante ingiustizia, né ricercare se vi siano regni i quali, correndo prospera la cosa pubblica e secondo i loro desideri, covino tuttavia nelle intime viscere il germe dei mali. Questo solo vogliamo che s’intenda, e di questi esempi è ricca la storia: doversi presto o tardi pagare il fio delle ingiustizie, e tanto più severamente quanto furono più durevoli i misfatti. – Quanto a Noi, Ci è di gran conforto la sentenza dell’Apostolo Paolo: “Tutte le cose sono vostre; voi siete di Cristo; Cristo è di Dio” (1Cor III, 22-23). Il che significa che per arcana disposizione della provvidenza divina il corso delle cose mortali viene retto e governato in modo che quanto succede agli uomini è subordinato alla gloria di Dio, e parimenti portano alla salvezza le opere di coloro che seguono Gesù Cristo sinceramente e di cuore. – Di questi è madre e nutrice, guida e custode la Chiesa, la quale, come con intima e immutabile carità è unita a Cristo, suo Sposo, così si associa con Lui nelle lotte e partecipa della vittoria. Non siamo dunque né possiamo essere inquieti per la causa della Chiesa: ma temiamo vivamente per la salvezza di moltissimi, i quali, voltate superbamente le spalle alla Chiesa, errando per vie diverse, precipitano nella dannazione, e Ci angosciamo altresì per quegli Stati che siamo costretti a vedere lontani da Dio, e con stupida sicurezza addormentati sull’orlo del precipizio. “Niente può stare a fronte della Chiesa… Quanti la combatterono, altrettanti perirono. La Chiesa trascende i cieli. La sua grandezza è tale che, combattuta, vince; insidiata, supera gli agguati… lotta e non è abbattuta, si azzuffa nel pugilato e non è mai superata”. – Né soltanto non è mai superata, ma conserva intera quella virtù riformatrice della natura, principio di salute ch’ella perennemente attinge e deriva da Dio: resta immutabile pur nel mutare dei tempi. Se già divinamente rigenerò il mondo invecchiato nei vizi e perduto nelle superstizioni, perché non potrà richiamarlo, traviato, sul retto sentiero? Tacciano una buona volta i sospetti e gli odii: e la Chiesa, tolti di mezzo gli ostacoli, sia ovunque padrona dei propri diritti, poiché ad essa spetta conservare e diffondere i benefici procurati da Gesù Cristo. Allora si potrà conoscere, attraverso l’esperienza, fin dove giunga il potere illuminante del Vangelo, e quanto possa la virtù di Cristo redentore. – Questo stesso anno prossimo a finire ha mostrato, come dicemmo all’inizio, non pochi indizi che la fede torna a rivivere nei cuori. Voglia Dio che questa piccola scintilla cresca in gran fiamma, la quale, distrutte le radici dei vizi, sgombri sollecitamente la via al rinnovamento dei costumi e ad opere salutari. Noi, preposti al governo della mistica nave della Chiesa in tempi così burrascosi, fissiamo la mente e il cuore nel divino Pilota che siede invisibile a poppa, governandone il timone. Tu vedi, o Signore, come da ogni parte erompano impetuosi i venti ed il mare si arruffi, levando altissimi flutti. Deh, Tu che solo lo puoi, comanda ai venti e al mare. Rendi all’umana famiglia la vera pace, che il mondo non può dare, e la tranquillità dell’ordine. Cioè gli uomini, mercé la tua grazia e il tuo impulso, facciano ritorno all’ordine dovuto, restaurando nei loro cuori la necessaria pietà verso Dio, la giustizia e la carità verso il prossimo e la temperanza verso se stessi, con pieno dominio della ragione sull’ingordigia. Venga il tuo regno; e quelli stessi che lontano da Te si affaticano invano nella ricerca della verità e della salute, intendano che è indispensabile che a Te si assoggettino e Ti servano. Sono connaturate nelle tue leggi la giustizia e una soavità paterna: e Tu stesso spontaneamente ci doni, mercé la tua grazia, la possibilità di osservarle. La vita dell’uomo sulla terra è combattimento, ma Tu stesso “sei spettatore della battaglia, aiuti l’uomo a vincere, se è scorato lo rinfranchi, e se è vincitore lo coroni” . Con l’animo sollevato da queste considerazioni verso una lieta e salda speranza, Noi amorosamente nel Signore impartiamo a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero e a tutto il popolo cattolico l’Apostolica Benedizione, auspice dei celesti doni e testimone della Nostra benevolenza.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno del Natale di Nostro Signore Gesù dell’anno 1888, undecimo del Nostro Pontificato.

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: AGOSTO 2022

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: AGOSTO 2022

Surge! Jam terris fera bruma cessit,
Ridet in pratis decus omne florum,
Alma quæ Vitæ Génitrix fuísti,
Surge, María!

Lílium fulgens velut in rubéto,
Mortis auctórem teris una, carpens
Sóntibus fructum pátribus negátum
Arbore vitæ.

Arca non putri fabricáta ligno
Manna tu servas, fluit unde virtus,
Ipsa qua surgent animáta rursus
Ossa sepúlcris.

Prǽsidis mentis dócilis minístra,
Haud caro tabo pátitur resólvi;
Spíritus imo sine fine consors
Tendit ad astra.

Surge! Dilécto pete nixa cælum,
Sume consértum diadéma stellis,
Teque natórum récinens beátam
Excipe carmen.

Laus sit excélsæ Tríadi perénnis,
Quæ tibi, Virgo, tríbuit corónam,
Atque regínam statuítque nostram
Próvida matrem.
Amen.

[Inno  – dal Proprio dei Santi –
Sorgi! Cessi già in terra l’aspro inverno; rida nei prati ogni bellezza di fiori: tu, che fosti la divina Madre della Vita, sorgi, o Maria! / O giglio fulgente tra le spine, tu sola abbatti l’autore della morte, togliendo il frutto negato ai padri colpevoli con l’albero della vita. / Nell’arca fabbricata con legno non guasto conservi la manna, da cui fluisce la forza che dai sepolcri fa di nuovo risorgere, animate, le ossa. / Docile ministra della mente di Dio, la carne non si assoggetta alla corruzione; anzi per sempre consorte dello Spirito, sale al cielo, /Sorgi! Col tuo Diletto, vola in cielo, ricevi il diadema intrecciato di stelle ed accogli il carme dei figli, che ricanta, te beata. / Lode perenne alla Triade eccelsa, che a te, o Vergine, consegnò la corona
e provvide a stabilirti Regina e nostra Madre. Amen.]

Dagli Atti del Papa S. S. Pio XII

Poiché la Chiesa universale nel corso dei secoli ha manifestato la fede nell’Assunzione corporea della beata vergine Maria, e i Vescovi del mondo cattolico con quasi unanime consenso chiesero che questa verità, fondata sulla sacra Scrittura, insita profondamente nell’animo dei fedeli e sommamente consona con le altre verità rivelate, fosse definita come dogma di fede divina e cattolica, il sommo pontefice Pio XII, annuendo ai voti di tutta la Chiesa, stabilì di proclamare solennemente questo privilegio della beata vergine Maria. Perciò il primo novembre 1950, anno del massimo giubileo, a Roma, nella piazza della basilica di san Pietro, alla presenza di moltissimi Cardinali e Vescovi di santa romana Chiesa giunti anche dalle più remote regioni, dinanzi ad un’ingente moltitudine di fedeli, col plauso dell’universo mondo cattolico, con infallibile oracolo proclamò in questi termini l’assunzione corporea in cielo della beata vergine Maria: « Dopo aver innalzato ancora a Dio supplici istanze, ed aver invocato la luce dello Spirito di verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria la sua speciale benevolenza, ad onore del suo Figlio, re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre ed a gioia ed esultanza di tutta la Chiesa, per l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo esser dogma da Dio rivelato che l’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo ».

Il Cuore Immacolato di Maria SS. — Giunta tant’alto là dove niun’altra semplice creatura mai giungerà — quale sarà il cuore di Maria SS. verso di noi — esuli figli di Eva – eredi miserabili di colpe e di sciagure? — Il dubbio sarebbe ragionevole, se si trattasse d’una donna qualsiasi: — è tanto difficile che un cuore in festa armonizzi nel suo palpito con cuori in lutto: — com’è difficile che le luminose ebbrezze della gloria làscino ancor un affettuoso interesse alle necessità degli umili, ormai troppo al di sotto … Ma non è così di Maria SS. — anche nella gloria celeste il suo Cuore non muta! — È sempre il bel ore d’una volta!

Cuore di Vergine! — Immune assolutamente dal peccato originale — come pure da qualsiasi personale mancanza — esso fu ed è Cuore senza alcun naturale difetto: — tanto si doveva alla sua dignità di Madre di Dio! — Inoltre esso fu ed è un Cuore ripieno incredibilmente della divina grazia — e dei doni dello Spirito Santo — anche per la continua corrispondenza usata qui in terra ai divini favori: — quanto dunque non dovette quel Cuore divenire anche soprannaturalmente sempre più bello — più perfetto — più degno di tutte le nostre simpatie — e quindi pienamente meritevole di tutta la nostra fiducia!

È Cuor di Regina! — Destinata da Dio all’Impero dell’Universo, — Impero anche spiccatamente di misericordia — la SS. Vergine ebbe, appunto per questo, dalla Divina Provvidenza un Cuore magnanimo — che cioè si piace di moltiplicare sulla più larga scala i suoi benefici. — Possiamo dunque approfittarne amplissimamente — assiduamente — e per l’anima e per il corpo — e per l’eternità e per il tempo — e per noi personalmente e per i nostri cari — per i nostri amici e dipendenti — e per quanti siano oggetto della nostra sollecitudine!

È Cuore di Madre! — « Cuore di Madre! ». — Lo capiamo noi che cosa voglia dire? — Allora n’avremo basta, per confidarci interamente a Maria SS. in tutte le nostre miserie — e di corpo — e di spirito — in tutte le afflizioni — e persino in quei giorni, in cui il rimorso travagliasse la povera anima nostra. — E, su quel Cuore materno posando il nostro capo, nulla avremo a temere: — ché Maria SS. è onnipotente a nostro favore — essendo insieme e Madre di Dio e Madre nostra: — onnipotente per grazia, dacché il suo Divin Figlio è l’Onnipotente per natura! (G. Monetti S.J.: Sapienza cristiana vol. II, p. 2)

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Fidelibus, quolibet mensis augusti die, si ad honorem immaculati Cordis B. M. V. aliquas preces vel alia pietatis exercitia devote præstiterint, conceditur:

Indulgentia quinque annorum semel. Iis vero, qui per integrum præfatum mensem eiderh exercitio quotidie vacaverint, conceditur: Indulgentia plenaria suetis conditionibus (S. C. S. Officii, 13 mart. 1913; S. Pæn. Ap., 2 iun. 1935).

Agosto è il mese che la Chiesa Cattolica dedica all’Assunzione in cielo della Vergine ed al Cuore Immacolato di Maria SS

ECCO LE FESTE DEL MESE DI AGOSTO 2022.

1 Agosto S. Petri ad Vincula    Duplex majus *L1*

               Commemoratio: Ss. Mártyrum Machabæorum

2 Agosto S. Alfonsi Mariæ de Ligorio Episc. Conf. et Eccles. Doct.    Duplex

                Commemoratio: S. Stephani Papæ et Martyris

3 Agosto De Inventione S. Stephani Protomartyris    Semiduplex *L1*

4 Agosto S. Dominici Confessoris    Duplex majus

5 Agosto S. Mariæ Virginis ad Nives    Duplex

6 Agosto In Transfiguratione Domini Nostri Jesu Christi    Duplex II. classis *L1*

7 Agosto Dominica IX Post Pentecosten II. Augusti    Semiduplex Domin. minor *I* 

                 S. Cajetani Confessoris    Duplex

8 Agosto Ss. Cyriaci, Largi et Smaragdi Martyrum    Semiduplex

9 Agosto S. Joannis Mariæ Vianney Confessoris    Duplex

10 Agosto S. Laurentii Martyris    Duplex II. classis *L1*

11 Agosto Ss. Tiburtii et Susannæ Virginis, Martyrum    Feria

12 Agosto S. Claræ Virginis    Duplex

13 Agosto Ss. Hippolyti et Cassiani Martyrum    Feria

14 Agosto Dominica X Post Pentec. III. Augusti  Semiduplex Domin. minor*I*

                 In Vigilia Assumptionis B.M.V.    Duplex II. classis

15 Agosto In Assumptione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex I. classis *L1*

16 Agosto S. Joachim Confessoris, Patris B. M. V.    Duplex II. classis

17 Agosto S. Hyacinthi Confessoris    Duplex

18 Agosto S. Agapiti Martyris    Feria

19 Agosto S. Joannis Eudes Confessoris    Duplex

20 Agosto S. Bernardi Abbatis et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

21 Agosto Dominica XI Post Pentec. IV. Augusti    Semiduplex Domin. minor *I*

               S. Joannæ Franciscæ Frémiot de Chantal Viduæ    Duplex

22 Agosto Immaculati Cordis Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis

23 Agosto S. Philippi Benitii Confessoris    Duplex

24 Agosto S. Bartholomæi Apostoli    Duplex II. classis

25 Agosto S. Ludovici Confessoris    Duplex

26 Agosto S. Zephyrini Papæ et Martyris    Feria

27 Agosto S. Josephi Calasanctii Confessoris    Duplex

28 Agosto Dominica XII Post Pentec. V. Augusti    Semiduplex Dominica minor

29 Agosto In Decollatione S. Joannis Baptistæ    Duplex *L1*

30 Agosto S. Rosæ a Sancta Maria Limanæ Virginis    Duplex

31 Agosto S. Raymundi Nonnati Confessoris    Duplex

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi

Durante la festa di Pentecoste la Chiesa ha ricevuto la manifestazione dello Spirito Santo e la liturgia di questo giorno ce ne mostra le felici conseguenze. Questo Spirito ci rende figli di Dio, tanto che possiamo dire in tutta verità: Padre nostro; siamo quindi assicurati dell’eredità del cielo (Ep.): ma per questo bisogna che, vivendo per opera di Dio, noi viviamo secondo Dio (Oraz.), lasciandoci indurre in tutto dallo Spirito di Dio (Ep.), cosi Egli ci accoglierà un giorno nei tabernacoli eterni (Vang.). Sta qui la vera sapienza di cui ci parla la storia di Salomone, della quale in questa settimana si continua la lettura nel Breviario; qui sta la grande opera alla quale il re dedicò tutta la sua vita. – Salomone costruì il Tempio del Signore nella città di Gerusalemme, secondo la volontà di David suo padre, che non aveva potuto edificarlo egli stesso per le continue guerre che i nemici gli avevano mosso contro. Salomone impiegò tre anni a preparare il materiale, cioè le pietre che ottantamila uomini estraevano dalle cave di Gerusalemme e il legno di cedri e cipressi che trentamila uomini abbattevano sul Libano nel regno dell’Iram (V. Domenica prec.). – Quando tutto fu pronto si cominciò, nel 480° anno dopo l’uscita dall’Egitto, la costruzione che durò sette anni. Pietre da taglio, legno e fregi ornamentali erano stati così esattamente misurati prima, che i lavori si compivano nel più grande silenzio. Nella casa di Dio non si sentiva colpo di martello, né ascia, né altro strumento di ferro durante il tempo che si edificava. Salomone prese come piano quello del tabernacolo di Mosè; ma gli diede proporzioni più vaste e vi accumulò tutte le ricchezze che poté. I soffitti e i pavimenti di legni preziosi erano rivestiti da placche di oro, gli altari e le tavole erano ricoperti di oro, i candelabri e i vasi erano di oro massiccio. Tutte le mura del tempio erano ornate da cherubini e da palmizi coperti di oro. A lavori terminati, Salomone consacrò con grande solennità questo Tempio al Signore. In presenza di tutti gli Anziani di Israele e di un popolo immenso appartenente alle dodici tribù, i sacerdoti trasportavano l’Arca dell’alleanza nella quale si trovavano le tavole della legge di Mosè, sotto le ali spiegate di due cherubini, ricoperte di oro e alte dieci cubiti, che si innalzavano nel santuario. Si immolarono anche migliaia di pecore e di buoi e, quando i sacerdoti uscirono dal Sancta Sanctorum, una nube riempì la casa del Signore. Allora Salomone levando gli occhi verso il cielo, domandò a Dio di ascoltare le suppliche di tutti quelli, Israeliti o estranei, che sarebbero venuti in differenti circostanze, felici o infelici, nella loro vita, a pregarlo in questo luogo che era stato a Lui consacrato. Gli domandò anche di esaudire tutti quelli che, con la faccia rivolta verso Gerusalemme e verso il Tempio, gli avrebbero indirizzato le loro suppliche, per mostrare che Egli aveva scelta questa casa per sua residenza e che non vi era in nessun luogo altro Dio, che quello d’Israele. – Le feste della Consacrazione del Tempio durarono quattordici giorni in mezzo a sacrifici e banchetti sacri. E il popolo se ne tornò benedicendo il re e sentendo riconoscenza per tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele dal giorno dell’alleanza sul Sinai. Il Signore apparve allora una seconda volta a Salomone e gli disse: « Ho esaudita la tua preghiera, ho scelto e benedetto il tempio che mi hai innalzato; là saranno sempre i miei occhi e il mio cuore per vegliare sul mio popolo fedele ». Nella Messa di questo giorno la Chiesa canta alcuni versetti di sei Salmi differenti che riassumono tutti i pensieri espressi da Salomone nella sua preghiera: « Il Signore è grande e degno di lode nella città del nostro Dio, sulla sua montagna santa » (l’Intr., Alt.). « Chi è dunque Dio se non il Signore?» (Off.). È nel suo tempio che si riceve la manifestazione della sua misericordia » (Intr.) e che « si prova e si sente quanto il Signore sia dolce » (Com.), poiché Egli è « per tutti quelli che sperano in Lui, un Dio protettore e un luogo di rifugio » (Grad.), — Come il regno di Salomone fu una specie di abbozzo e di figura del regno di Cristo (2° Nott.), cosi il tempio che egli innalzò a Gerusalemme non fu che una figura del cielo nel quale Dio risiede ed esaudisce le preghiere degli uomini. È sulla montagna santa e nella città di Dio (All.) che noi andremo un giorno a lodarlo per sempre. L’Epistola ci dice che se noi vivremo di Spirito Santo, facendo morire in noi le opere della carne saremo figli di Dio, e che da quel momento, eredi di Dio e coeredi di Cristo, entreremo nel cielo che è il luogo della nostra eredità. Ed il Vangelo completa questo pensiero dicendoci, sotto forma di una parabola, quale sia l’uso che dobbiamo fare delle ricchezze d’iniquità per assicurarci l’entrata nei tabernacoli eterni. Un fattore infedele, accusato di aver dissipato i beni del padrone, si procura degli amici con i beni che questi gli aveva affidato, per avere, dopo essere stato cacciato, « persone pronte ad accoglierlo nelle proprie case ». I figli della luce, dice Gesù, contendano per zelo coi figli del secolo, e, imitando la previdenza di questo fattore, utilizzino i beni, che Dio ha messi a disposizione loro per venire in. aiuto dei bisognosi e si faccianoamici nel cielo, perché quelli che avranno sopportato cristianamente le privazioni sulla terra entreranno lassù e renderanno testimonianza ai loro benefattori nel momento in cui tutti dovranno rendere conto al divino Giudice della loro amministrazione (Vang.)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis tuis, perdúcat te ad vitam ætérnam.
S. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

Introitus

Ps XLVII: 10-11.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Ps XLVII: 2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus.

[Grande è il Signore, e degnissimo di lode nella sua città e nel suo santo monte.]

Ps XLVII: 10-11 Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Largíre nobis, quǽsumus, Dómine, semper spíritum cogitándi quæ recta sunt, propítius et agéndi: ut, qui sine te esse non póssumus, secúndum te vívere valeámus.

[Concedici propizio, Te ne preghiamo, o Signore, di pensare ed agire sempre rettamente; così che noi, che senza di Te non possiamo esistere, secondo Te possiamo vivere.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII: 12-17

Fratres: Debitóres sumus non carni, ut secúndum carnem vivámus. Si enim secúndum carnem vixéritis, moriémini: si autem spíritu facta carnis mortificavéritis, vivétis. Quicúmque enim spíritu Dei aguntur, ii sunt fílii Dei. Non enim accepístis spíritum servitútis íterum in timóre, sed accepístis spíritum adoptiónis filiórum, in quo clamámus: Abba – Pater. – Ipse enim Spíritus testimónium reddit spirítui nostro, quod sumus fíli Dei. Si autem fílii, et herédes: herédes quidem Dei, coherédes autem Christi.

(“Fratelli: Non abbiam alcun debito versa la carne per vivere secondo la carne. Se, pertanto, vivrete secondo la carne, morrete; se, al contrario, con lo spirito farete morire le opere della carne, vivrete. Poiché, quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Invero, non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, ma avete ricevuto lo spirito di adozione in figliuoli, per il quale gridiamo «Abba! (o Padre)». E lo Spirito Santo stesso attesta al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. Ora, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo”).

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.]

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Che grande parola ha detto il Cristianesimo agli uomini quando ha detto loro: voi siete figli di Dio! Fuori del Cristianesimo, osservate, l’uomo o è avvilito o è adulato. Gli spregiatori dicono all’uomo: sei una scimmia, appena un poco più perfezionato. Gli adulatori dicono: sei un Dio, sei Dio… E gli uni e gli altri dicono parole che hanno sapore di falsità e riescono moralmente funeste; perché è funesta l’abbiezione del bruto, come è funesto l’orgoglio di un falso iddio, di un idolo. Il Cristianesimo appaga e non solletica i nostri istinti, le nostre aspirazioni di grandezza, quando ci dice: voi siete figli di Dio. Purtroppo noi abbiamo fatto l’abitudine a questa parola, ed essa, che dovrebbe riempirci di gioia e di legittimo orgoglio, per poco non ci lascia indifferenti. – Ma non fu così per le prime generazioni cristiane. San Paolo si esalta, si entusiasma analizzando e quasi assaporando la frase. Per meglio gustarla e illuminarla, Paolo contrappone la sorte nostra, di noi Cristiani, a quella dei Giudei, che furono pure per tutto il mondo antico, e prima che venisse Gesù, i depositari della religione vera. Ma quella loro religione era pervasa da un suo spirito, perché dominata da una sua idea. Lo spirito onde l’anima giudaica era pervasa nel suo momento religioso, ben s’intende, era spirito di timore, anzi di timore servile, perché per il fedele giudeo cresciuto alla scuola di Mosè e della sua Legge, Dio era il Padrone, il grande, il vero padrone, il Re, il Sovrano, alla guisa orientale. L’anima, davanti a quel padrone, temeva e tremava. Era la forza specifica della sua adorazione. San Paolo ne aveva fatta l’esperienza: aveva tremato anche lui e sofferto insieme e goduto di quel timore. Più sofferto che goduto, perché la sua anima avrebbe voluto aprirsi a sensi più nobili, come sono i sensi dell’affetto. Ma la vecchia legge non glielo consentiva. Ed ecco sopraggiungere Gesù, non più semplice profeta, e servo, ma Figlio di Dio veracemente, propriamente. Ed ecco annunziare agli uomini, coll’autorità sua di Figlio, che Dio è per noi e vuole essere Padre « Pater noster; » Padre già per diritto e fatto di creazione, ma assai più e meglio per diritto e fatto di redenzione; Padre dacchè ci ha dato per fratello vero il vero e unico suo Figlio. – Chiamarsi così per noi non è più una usurpazione — come non fu usurpazione per Gesù il dirsi eguale al Padre — non è una metafora: è un diritto. Guardate — dirà un altro Apostolo agli stessi primi Cristiani, — quale carità ci ha usato il Signore, dandoci nome e realtà di suoi figlioli: « ut filì Dei nominemur et simus ». Il Cristianesimo ha fatto e fa lievitare in noi, in noi esalta tutti quegli elementi che già costituiscono un fondo di sbiadita rassomiglianza con Dio. Esalta col lume della fede il lume dell’intelletto, orma di Dio nella nostra anima; ci solleva a quelle verità che sono il segreto di Dio, che nessuno dei principi di questo mondo sarebbe arrivato a scoprire. Esalta la nostra coscienza e la spinge a desiderare e volere forme nuove e più atte al bene. È qui anzi, nella fornace dell’amore al bene, della carità, che si compie questa meravigliosa trasformazione del Cristiano in figlio di Dio, simile — non uguale, privilegio questo di Gesù Cristo — simile al Padre. Trasformazione dovuta alla grazia, ma alla cui completa realizzazione noi dobbiamo collaborare, operando da figli di Dio. I filosofi dicono che l’opera segue l’essere e lo dimostrano. « Operari seguitur esse ». Siamo figli di Dio! E operiamo allora da figli di Dio, non da estranei, non da nemici. Siano divine le nostre opere, sia divina la nostra condotta. Per fortuna, quale sia la divina condotta di un uomo noi lo sappiamo, guardando a N. S. Gesù Cristo, l’Uomo-Dio. Verrebbe voglia di riepilogare con parola evangelica questa condotta divina, superiore sovrannaturale in un binomio: spirito e verità. Seguiamo le ispirazioni dello spirito e non le suggestioni della carne; queste fanno l’uomo animale, bruto, inferiore, degenere; lo spirito, al contrario, ci dà l’uomo superiore, spirituale. E della verità siamo solleciti ed entusiasti: Dio in ciascuno di noi… Se procederemo così secondo spirito e verità, avremo la soddisfazione arcana e profonda di sentirci davvero figli di Dio: quello che pareva sogno superbo, sarà diventato per noi realtà consolante.

Graduale

Ps LXX: 1

V. Deus, in te sperávi: Dómine, non confúndar in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[V. O Dio, in Te ho sperato: ch’io non sia confuso in eterno, o Signore. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XLVII:2

Alleluja, Alleluja.

Magnus Dóminus, et laudábilis valde, in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. Allelúja.

[Grande è il Signore, degnissimo di lode nella sua città e sul suo santo monte. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. (Luc XVI: 1-9)

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: jam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii hujus saeculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula

 (“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Eravì un ricco, che aveva un fattore, il quale fu accusato dinanzi a lui, come so dissipato avesse i suoi beni. E chiamatolo a sé, gli disse: Che è quello che io sento dire di te? Rendi conto del tuo maneggio; imperocché non potrai più esser fattore. E disse il fattore dentro di sé: Che farò, mentre il padrone mi leva la fattoria? non sono buono a zappare; mi vergogno a chiedere la limosina. So ben io quel che farò, affinché, quando mi sarà levata la fattoria, vi sia chi mi ricetti in casa sua. Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, disse al primo: Di quanto vai tu debitore al mio padrone? E quegli disse: Di cento barili d’olio. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo; mettiti a sedere, e scrivi tosto cinquanta. Di poi disse a un altro: E tu di quanto sei debitore? E quegli rispose: Di cento staia di grano. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo, e scrivi ottanta. E il padrone lodò il fattore infedele, perché prudentemente aveva operato: imperocché i figliuoli di questo secolo sono nel loro genere più prudenti dei figliuoli della luce. E io dico a voi: Fatevi degli amici per mezzo delle inique ricchezze; affinché, quando venghiate a mancare, vi dian ricetto ne’ tabernacoli eterni”).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – 1957, Milano)

ABILITÀ NEGLI AFFARI

La più strana parabola del Vangelo è quella dell’astuto fattore. Doveva essere uno di quegli uomini incantatori, svelti a parlare e più svelti a fare: rubava senza scrupoli, e scialava senza rincrescimenti. Il padrone, quasi ipnotizzato da tanta e tale scaltrezza, gli aveva affidato la gestione di tutti i suoi beni, ciecamente. E ci vollero accuse, denunzie, prove prima di fargli aprire gli occhi. Finalmente si risvegliò come da un sonno, e chiamato il fattore, gli disse a bruciapelo: « Belle cose ascolto di te! Portami i conti, e vattene che sei licenziato ». La folgore si scaricò tanto inaspettata che lo scaltrissimo fattore si trovò smarrito. « E adesso che cosa farò io, che il padrone mi leva la fattoria? A zappare non son buono, a limosinare mi vergogno ». Fu un attimo di stordimento, poi ritrovò la sua tremenda presenza di spirito: e approfittò delle ultime ore di potere per farsi degli amici che lo aiutassero nell’imminente disavventura. E Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, con la disinvolture dell’uomo abituato a falsare le ricevute, disse al primo: « Quanto devi al padrone? » E quello rispose: « Cento barili d’olio ». « Prendi la tua fattura presto, siedi e scrivi cinquanta ». Poi disse ad un altro: «E tu quanto devi? ». E quello: « Cento staie di grano ». « Prendi la tua fattura e scrivi ottanta ». Il padrone, che ormai stava all’erta, scoprì tosto ogni cosa. Ma non potè trattenersi un’espressione di sbigottita ammirazione: « Che scaltrezza in quest’uomo, Che abilità negli affari! ». – A questo punto Gesù fece l’applicazione morale della parabola. « Perché i figli della luce non mettono nel bene quell’avvedutezza e quell’abilità che i figli delle tenebre mettono nel male? Perché mentre sanno che nella fattoria di questo mondo possono restare per poco tempo e poi saranno dalla morte scacciati fuori, non procurano di farsi degli amici che diano a loro ricetto nei tabernacoli eterni? ». Non è difficile, Cristiani, rispondere a queste domande. Ci sono degli uomini che negli affari e raggiri terreni hanno un occhio da lince, un coraggio da leone; ma negli affari celesti sono ciechi come talpe, timidi come conigli. Guardate quanto e qual progresso ha fatto il nostro secolo nell’arte distruggitrice della guerra, nella maniere corrompitrice del piacere e del godimento; e dov’è il progresso nell’arte di amare il Signore, di salvare l’anima? C’è dunque un’abilità sviata e un’abilita giusta negli affari. La prima è quella dei figli di questo secolo che, simili all’astuto fattore, nell’ingranaggio degli affari del mondo stritolano la coscienza e la giustizia e l’anima intera. L’altra è quella dei figli della luce, che soprattutto e prima di tutto, mettono la loro abilità negli affari eterni del regno di Dio e della salvezza dell’anima. – 1. L’ABILITÀ DEI FIGLI DI QUESTO SECOLO. Nessuno può negare audacia e abilità ai fratelli di Giuseppe. S’erano accorti che il loro fratello minore con l’ubbidienza aveva conquistato la preferenza del padre; inoltre, dei presagi misteriosi nel sonno predicevano loro che un dì avrebbero dovuto riconoscerlo come principe e dipendere da un suo cenno. Perciò, spogliatolo della tunica, dapprima lo nascosero in una cisterna: poi portarono la tunica al padre, non senza prima averla intrisa nel sangue d’una pecora svenata, e gli fecero credere che una belva avesse divorato il fanciullo; in realtà il fanciullo era stato da loro venduto a dei mercanti che lo portarono lontano lontano, in Egitto. Tutto era riuscito bene, e rimasero così dominatori della situazione familiare. Se non che una forza maggiore di loro, la carestia, li costrinse a recarsi in Egitto a prendere il grano per non morire di fame. Dovettero inginocchiarsi davanti al viceré, supplicarlo di un po’ di pane, giurare di mettersi a suo servizio. Quel viceré, lo riconobbero poscia, era il loro fratello Giuseppe. Lo avevano venduto per non sottomettersi a lui, e appunto per averlo venduto sono costretti a sottomettersi. L’abilità dei figli di questo secolo si squaglia alla fine e le frodi ordite si risolvono in loro danno. – Ricordiamo un altro esempio della Storia Sacra. Nabot possedeva una vigna non lontana dal palazzo del re di Samaria, e gli era molto cara perché era stata bagnata dal sudore dei suoi padri, i quali l’avevano lasciata a lui in eredità. Ma il re la voleva per farsene un giardino; e insieme alla regina Gezabele ordì questo astuto tranello. Furono subornati due perfidi uomini che accusarono Nabot in tribunale di aver bestemmiato contro Dio e contro il re; così l’infelice fu condannato alla lapidazione, ed il re guadagnò la vigna e se la godette. Non passò molto tempo e i cani leccavano il sangue del re ucciso in guerra, della regina gettata sulla strada da un balcone. Non si deve però credere che tutti quelli che con ingiustizia e scaltrezza si procurano una fortuna materiale abbiano sempre un castigo sensibile in questo mondo. Agli occhi di Dio i beni materiali hanno così poco valore, che sono sparsi sulle case dei buoni come su quelle dei peccatori. Ma il peccatore s’illude d’essere astuto; perché, mentre con frodi e abilità si fabbrica una prosperità materiale, perde i valori spirituali ed eterni, e va incontro all’inferno. Reca meraviglia pensare che anche tra quelli che si dicono Cristiani l’abilità iniqua dei figli del secolo trova dei seguaci. Alcuni raggiungono un posto desiderato sparlando, mormorando, calunniando quelli che prima l’occupavano o che erano rivali. Altri pensano di aumentare le rendite con maneggi illeciti, con l’infedele amministrazione dei beni altrui, con smoderati guadagni. Altri infine ricorrono all’adulazione, alla menzogna, all’inganno, alla corruzione di impiegati e amministratori con promesse di denaro. Gli uomini come sono ancora poco Cristiani! si credono astuti se, a scapito dei beni eterni, riescono ad ammassare beni materiali e caduchi. Chiamano sciocchi quelli che osservano i comandamenti di Dio con loro svantaggio, e non immaginano che da un momento all’altro può risuonare al loro orecchio l’annuncio spaventoso: Lo stolto sei tu! poiché stanotte morrai, e le sostanze che con tanta abilità hai radunate di chi saranno? a che ti gioveranno? » (Lc., XII, 20). – 2. L’ABILITÀ DEI FIGLI DELLA LUCE. I figli della luce, a base d’ogni loro abilità, pongono questa parola del Signore: Che giova all’uomo guadagnare anche il mondo intero, se poi la sua anima subisce una perdita? » (Mt., XVI, 26). I figli della luce fissano lo sguardo e il cuore nei beni immortali: l’amore di Dio, il Paradiso, la grazia, la pace dell’innocenza, il tesoro della virtù. E quando li abbassano a considerare le cose del mondo, gli onori umani e i piaceri della carne e le allegrie terrene, a loro sembrano vili come una spazzatura. Pertanto, sono convinti che il più grasso guadagno materiale non potrà mai compensare la più piccola perdita spirituale. – Uno splendido avvenire brillava davanti al giovane Saulo di Tarso. Possedeva tutte le invidiabili qualità per fare carriera ed in breve avrebbe raggiunto uno dei primi posti nella sua nazione e nella sua religione. Israelita puro sangue della tribù di Beniamino, apparteneva al movimento d’avanguardia come Fariseo, dirigeva le più audaci spedizioni punitive contro la nascente Chiesa. Quando gli sembrava dovesse raccogliere i primi frutti della sua ardimentosa vita, improvvisamente si ritirò nel deserto, e di là uscì mutato completamente. Fu deriso, compianto, calunniato, scacciato, perseguitato a sangue dagli stessi che prima l’ammiravano: ma niente lo poté smuovere. « Quelli che erano per me guadagni, io li stimai perdite, in confronto a Cristo. Credo proprio che tutte le cose siano una perdita di fronte all’eccellenza della cognizione di Cristo Gesù, mio Signore; per amor del quale mi sono privato di tutto, e tutto tengo in conto di spazzatura allo scopo di guadagnarmi Cristo » (Filipp., III, 7-8). Certo che agli occhi dei figli di questo secolo la prudenza e l’abilità dei figli della luce è giudicata una grulleria. Quella povera madre di famiglia che lavora tutto il giorno, perché balza dal letto per tempissimo e va in chiesa ogni mattina? È una sciocchezza inspiegabile sprecare le ore del riposo migliore. E quel giovane che passa la domenica in chiesa con la messa e con la dottrina, invece di recarsi alle passeggiate e ai divertimenti, non è forse un incapace di godere la vita? Quando i fratelli di S. Tommaso d’Aquino seppero ch’egli aveva deciso di farsi domenicano, lo credettero fuori di senno. Ricco, sano, bello, intelligente, abbandonare il castello natio e chiudersi nell’ombra melanconica di un chiostro?!… Pensarono di rinsavirlo imprigionandolo, e mandandogli un’impudica lusingatrice. Sappiamo con quale forza ed abilità vinse la tentazione della donna e dei fratelli. Prese un  tizzone acceso e sì scagliò contro la sciagurata, poi seppe fuggire dalla domestica reclusione. – Quando S. Filippo Neri umilmente nascondeva le sue virtù e la sua grande santità facendo il giullare davanti a uomini illustri che dall’estero arrivavano apposta a consultarlo, non venne forse giudicato uno sciocco? E quando S. Giovanni Bosco cominciò a manifestare il suo zelo per le anime, a creare tutto quel mirabile movimento di bene che ancora ammiriamo, non fu forse giudicato pazzo e come tale non si tentò di rinchiuderlo in un manicomio? – Ci fu un uomo che vendette quello che aveva, casa, roba, vestiti, tutto, per comprare un campicello spinoso e sassoso che molti non avrebbero preso neppur per regalo. Tutti lo consideravano come uno stolto. Ma poi si seppe che nascosto in quel campicello, sotto quei sassi e quei rovi, c’era un tesoro favoloso. Allora compresero che quell’uomo era stato il più furbo di tutti. Ebbene, i figli della luce sanno che sotto i rovi e i sassi della umiliazione e della mortificazione sta nascosto il tesoro della vita eterna. Essi, più furbi di tutti, rinunciano alle misere cose di quaggiù, per la conquista di quell’immenso bene. I figli delle tenebre son come gli Egiziani felici e superbi che a cavallo e in cocchio dorato corrono ad affogare nel mar Rosso; i figli della luce, nel nome del Signore, con la pazienza, con la carità, con le buone opere, vanno verso la terra promessa. Hi in curribus et hi in equis, nos autem în nomine Domini (Ps. XIX, 8). – Quando Gesù ebbe terminato di contare questa parabola, alzò la voce come per farsi udire non solo dai presenti, ma anche da quelli che sarebbero nati dopo, negli anni venturi, e conchiuse: « I figli di questo secolo sono, nel loro genere, molto più scaltriti dei figli della luce. Anche voi con le cose di quaggiù in terra fatevi degli amici lassù in cielo: così quando la morte vi scaccerà da questo mondo, essi vi faranno accoglienza nelle tende eterne ». Filii huius sæculi prudentiores! Questa parabola del divin Maestro per alcuni istanti noi mediteremo: essa contiene un rimprovero ed un lamento. Noi pure, Cristiani, siamo fattori, ma non forse astuti come quello della parabola. – 1. ANCHE NOI SIAMO FATTORI. È una verità tanto chiara, eppure troppo dimenticata. Ecco un uomo che vive lontano dalla Chiesa, senza preghiera, senza sacramenti, senza istruzione cristiana. La voce della coscienza in certe pause si leva e grida: « La tua anima è fuor di strada! ». Ma quegli scrolla le spalle e mormora: « Della mia anima faccio come voglio io ». Eh, no! tu sbagli di grosso: tu sei il fattore della tua anima, e devi fare come ti prescrive il padrone. Ecco una fanciulla di nessuna serietà che veste, senza modestia, le mode più provocanti al male. Qualche amica assennata l’avverte: « Guarda che dai scandalo ». Ma quella inviperita, stride: « Mi vesto come mi piace ». Eh no! qui c’è un equivoco: t’illudi di essere la padrona del tuo corpo, ma invece non sei che la custode e come tale sei tenuta alle prescrizioni del vero padrone. Ecco ancora un padre di famiglia. Io lo prendo in disparte e gli ragiono così: « Sentite. Voi mandate il vostro figliuolo a servire in quell’albergo, in quel ritrovo: perderà senza dubbio la fede e il buon costume. Voi mandate la vostra figliuola in quell’officina, in quella famiglia; la costringete, ogni giorno, a passare delle ore sui treni pigiati, lei quattordicenne appena. Voi, da due anni, fate soffrire la vostra maggiore negandole il permesso di ritirarsi in convento dove il Signore la vuole… « Quante storie! — mi risponde. — I figliuoli sono miei e ho diritto di sfruttarli meglio che posso ». Eh no, benedetto uomo! voi avete preso un qui pro quo: voi siete soltanto il responsabile dei vostri figli, il padrone è un altro! A chiarire quest’idea quanto opportuna non è mai la parabola del fattore: quella che or ora avete sentito! Il gran ricco è Dio, mentre ciascuno di noi è raffigurato nel fattore che deve custodire, fertilizzare, amministrare una fattoria più o meno vasta, più o meno preziosa. La fattoria della nostra anima: essa è prediletta dal gran Padrone, perché vi ha impresso la sua immagine, perché l’ha comperata col prezzo di un Suo Figliuolo, perché bagnata dal sangue divino di questo suo Figlio Unigenito morto in croce. Noi dobbiamo difenderla dal demonio che, come un porco, cerca di sforzare le siepi e gettarsi dentro ad insozzarla. Noi dobbiamo liberarla da ogni vizio che vi spunti come erba cattiva. Noi dobbiamo farla fruttificare con frutti di virtù e di buone opere. La fattoria del nostro corpo: ecco è il tempio dello Spirito Santo. Ricordate S. Paolo che nelle sue lettere frequentemente scrive: « Voi siete la casa in cui Dio abita. Il vostro corpo è come una chiesa ». Dobbiamo quindi avere un gran rispetto della nostra carne, circondarla di modestia, di temperanza. Soprattutto dobbiamo conservarla pura da ogni disonestà. – La fattoria della famiglia: chi ha un padre e una madre dovrà ubbidirli e aiutarli. Chi ha una moglie dovrà amarla come Cristo comanda. Chi ha figliuoli dovrà educarli secondo i comandamenti della Religione. Se prima di questa sera il gran Padrone ci chiamasse a palazzo e ci dicesse: « Qua i conti di tua famiglia » cosa potrebbe rispondere ciascuno di noi? « Che cosa ne hai fatto della tua consorte? Perché ne hai conculcato la virtù spingendola ai peccati nefandi e ai delitti? ». « Che cosa ne hai fatto dei tuoi figliuoli? Io non li vedo all’oratorio, non li vedo alla dottrina, non li sento chiamarmi né mattino né sera. E quella tua figliuola: tu la sopporti vestita così, leggera così? ». « Qua i conti, che per te è finita! Redde rationem villicationis tuœ ». – La fattoria del tempo. Chi tiene un prestito per due anni non avrà da rendere solo l’interesse di un anno. E chi abita una casa per dieci anni, non darà appena l’affitto di cinque. E perché allora, o Cristiani, non meditiamo che ogni anno che passa aumenta la nostra responsabilità di fattori? Perché tramandiamo indifferentemente, di giorno in giorno, di anno in anno, un’opera buona o anche la nostra stessa conversione? – Udite come fu ingenuo un contadino. Arrivato alla sponda di un fiumiciattolo, dovendo traghettare al di là, cominciò a sedersi sull’erba fresca. E come si ricordava che sarebbe  che sarebbe stato necessario oltrepassarlo, diceva: « Aspetterò che l’acqua sia trapassata tutta via, passerò sull’asciutto ». E aspetta e aspetta, venne la morte ed egli era ancora là. Proprio come quel contadino goffo siete ancora voi se, dimenticando che il tempo non è vostro e che l’avete in prestito, rimandate sempre l’ora delle buone azioni (HORATIUS, I Ep., II, 42: … vivendi qui recte prorogat horam. — Rusticus expectat dum defluit annis). – 2. MA NON FORSE ASTUTI . Come sa d’amara tristezza il lamento di Gesù: « Sì! sono più scaltri nei loro affari i figli del mondo ». Il mondo promette cose vili e fugaci e tutti gli corrono dietro con affannosa brama; Iddio promette cose eterne e sublimi e una torpida noia circonda i cuori degli uomini » (De Imit., lib., III, cap. 2). Confrontate gli avari con voi. L’avaro prima di spendere un soldo ci pensa una notte, e lo guarda e lo soppesa sulla mano, e lo accarezza, e nel cederlo gli par di cedere anche una fibra del cuore. Il Cristiano invece, non di un soldo appena, ma fa gettito di un immenso tesoro, — quale è la grazia di Dio, — in un momento, senza esitare, senza rimorsi pur di godere un piacere proibito. L’avaro come traffica! non perde tempo, non s’acquieta, sta in vedetta di ogni buona occasione e vende quello che vale di meno per quello che vale di più. Il Cristiano invece non s’interessa delle ricchezze spirituali e se gli capita la tentazione vende il Cielo per comprare la terra, vende il Paradiso per comprare l’inferno. L’avaro se talvolta è implicato in un fallimento, se talvolta un affare gli riesce in perdita, gli manca il fiato, gli manca l’appetito, gli manca il sonno: il Cristiano, se il demonio gli ha rapito l’innocenza, la grazia, ogni virtù, vive indifferentemente la vita di prima come se nulla di triste gli fosse capitato. L’avaro, e con lui ogni uomo previdente, si assicura sulla vita, sulla roba, sul lavoro, contro la grandine o contro l’incendio o contro il furto: il Cristiano non è previdente, non vuole esserlo. Non si assicura con le indulgenze dal fuoco del purgatorio, non si assicura dai furti del demonio con la mortificazione dei sensi. Et ego vobis dico: facite vobis amicos de mammona iniquitatis! (Lc., XVI, 9). Nessuno trascuri l’avviso del Signore: con le cose di questo mondo conquistiamo l’altro mondo. E giacché le parole del Vangelo mirano direttamente ad inculcarci l’elemosina, udite una leggenda dei libri ebraici. « Due uomini andavano un giorno nel vicino bosco a tagliar legna. Un astrologo, che non la sbagliava mai, vedendoli esclamò: « Questi due escono, ma non ritorneranno vivi ». Uscendo dalla città, i due incontrarono. un vecchio che diceva: « Fatemi la carità: da tre giorni patisco la fame ». Essi presero l’unica pagnotta che avevano portato con sé, e ne diedero metà al vecchio, che mangiandola fece questa preghiera: « Dio vi conservi oggi in vita, come oggi voi avete conservato me ». « Alla sera, prima che le stelle tornassero in cielo, i due uomini, con la legna in spalla, rientrarono in città. « Come! — dissero alcuni all’astrologo — non avevi assicurato che costoro sarebbero morti? ». « Rispose l’astrologo: « Strano davvero! ci voglio veder chiaro ». Esaminato il fascio della legna che riportavano, trovò nel carico dell’uno la metà di un serpente, l’altra metà nel carico dell’altro. Sorpreso domandò allora: « Che buona azione avete mai compiuta oggi? ». E quelli si fecero a raccontare la storia del vecchio. « Che cosa posso farci io — esclamò l’astrologo — se il Signore si lascia commuovere da una mezza pagnotta? » (Talmud, Ieruscialmì, Sciabbath 6). Quanti che avrebbero dovuto perire nell’inferno morsicati dal serpente antico e maligno, noi un giorno vedremo placidamente entrare nella città del paradiso! Come mai! — esclameremo. — Che buona azione hanno compiuto? ». E allora comprenderemo che la generosità verso il prossimo, verso le missioni, verso la parrocchia ha meritato loro la grazia di convertirsi prima di morire. — L’ASTUZIA DEI FIGLI DEL SECOLO. Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — E questo lamento che sta nella parabola di Gesù, è vero anche per noi. Quanto interesse per le cose mondane e quanto disinteresse per le cose del cielo! Quanta astuzia nel fare il male e quanta trascuratezza nel fare il bene! Impariamo dai figli del secolo. – 1. FIGLI DEL SECOLO E I MISTERI DELLA NATURA. Quando Michele Montgolfier, con un pallone di carta gonfiato d’aria calda dimostrò a Parigi che l’uomo poteva volare nei cieli, un poeta esclamava: « O uomo! che più ti resta? tu hai saputo scoprire le origini del tuono; hai saputo imprigionare il lampo e disperderlo nelle voragini della terra; hai saputo descrivere l’orbita alle stelle e misurare la loro distanza; tutto hai saputo scoprire e domare: la terra, il fuoco, il mare, il cielo, le fiere ». E veramente l’uomo, « con brando e con fiaccola » ascende arditamente alla conquista del mondo anche sacrificando la propria vita. Plinio, soffocato dalle ceneri e dai lapilli ardenti, muore a Stabia per scrutare l’eruzione del Vesuvio. Colombo con tre caravelle si slancia nel mistero tenebroso dell’oceano. Galileo consuma la vista e la vita a scrutare le macchie del sole. Clemente Adler, uno dei primi aviatori, cade in un mattino umido, con le gambe sfracellate sotto l’apparecchio, ma con lo sguardo nei cieli che aveva tentato di violare. È una sete d’ignoto e di conquista che sospinge i figli del secolo. Si può dir così anche dei figli della luce? Anche per essi c’è un mondo da conoscere e da conquistare: il mondo dello spirito. S’incontrano talvolta dei Cristiani che confondono le tre Persone della Sacra Famiglia con le tre Persone della SS. Trinità; che confondono l’Immacolata Concezione con il virginale concepimento di Maria; che non sanno bene che cosa ricevono nella santa Comunione. Eppure, ogni festa, queste sublimi verità si spiegano nella Chiesa. Ma i figli della luce non vengono ad istruirsi, e non hanno vergogna della loro supina ignoranza, mentre arrossirebbero di non sapere certe nozioni d’elettricità. Quanta ammirazione nel mondo per l’uomo che slancia il suo veicolo ad una folle velocità, che in poche ore attraversa l’oceano, che con una forza bestiale di pugno atterra un suo simile. E per l’uomo che sa vincere l’astutissimo demonio, conservarsi nell’equilibrio del bene anche in mezzo a tanto male, volare nei cieli della santità, per l’uomo che in pochi anni, come S. Luigi, S. Stanislao, S. Teresa del Bambin Gesù, sa raggiungere la cima della perfezione cristiana, nulla o fors’anche un sorriso di compatimento. – 2 I FIGLI DEL SECOLO E GLI INTERESSI MATERIALI. È triste la partenza degli emigranti. Con gli occhi lacrimosi, col cuore martoriato da mille sentimenti, ascendono la nave e dalla tolda si rivoltano a salutare. Povera gente che varca i mari verso un destino ignoto! Lasciati i loro cari, la loro casa, il loro campicello, il paese dei loro giuochi e dei loro sogni, la patria, tutto; ma perché? Perché sperano di tornare un giorno ricchi, riabbracciare i loro vecchi e i loro figli cresciuti e passare con loro beatamente gli ultimi giorni. Anche i figli della luce devono pensare al loro avvenire: quando questo mondo finirà, ed entreranno nei regni eterni. Eppure, sono pochi quelli che sanno distaccarsi dai luoghi, dalle persone, dalle cose terrene per accumulare meriti per il cielo. Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — Napoleone per conquistare un regno patì freddo e fame, stanchezza e sonno, e si espose più volte alla guerra. Eppure, il suo regno non fu che una meteora ed egli moriva, lacrimando, sulla scogliera brulla in mezzo al mare. Cesare, sospirando l’impero di Roma, combatté le difficili guerre coi Galli, e le più difficili con i suoi rivali; eppure egli raggiunse appena le soglie del sognato impero, che cadde, pugnalato, ai piedi della statua di Pompeo. Alessandro combatté con una forza di volontà non mai vista sopra la terra e quando ottenne la signoria del mondo lo raggiunse la morte, e con lui si sfasciò il suo impero. Ma se i figli del secolo sanno patire ineffabili tormenti, superare terribili difficoltà  per raggiungere il regno d’un giorno, perché i figli della luce non sapranno sopportare piccoli patimenti, combattere le passioni, respingere la lusinga del mondo per conquistarsi un regno eterno di felicità inimmaginabile? Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — LE RICCHEZZE E IL LORO USO. Il Signore è paziente e grande nella sua fortezza. Quegli che fa tremare i monti e disseccare gli oceani, un giorno disse a Nahum, suo profeta: «Va a Ninive ed annuncia i castighi di Javé ». Il messo di Dio accorse e predicò sulla piazza ad un popolo numeroso come l’arena del mare. « Voi avete fatto più gran numero d’affari che non sono le stelle del cielo. Ma ecco che il nemico famelico vi tiene d’occhio: e quando vi avrà visto ben pasciuti si getterà sopra di voi come una nube di cavallette sui campi biondi di spighe. Prenderanno l’argento, prenderanno l’oro e non vedranno la fine delle ricchezze nascoste nei vostri vasi. Le case saranno rovinate e le sostanze disperse: dissipata, et scissa et dilacerata » (Nah., II, 10). Quello che disse il Signore al suo profeta, lo dice Gesù a noi oggi nel Vangelo. Il padrone dové ammirare tanta scaltrezza. « Che canaglia, ma che furberia! »: furberia però dei figli delle tenebre, dei cattivi immersi negli affari materiali e nelle ricchezze del secolo. Ma c’è un’altra furberia, la vera che devono imparare i figli della luce, quelli che guardano in alto, nella regione del sole. Che debbono fare i figli della luce? I beni acquistati in eredità, accumulati col guadagno, ottenuti con mezzi forse non del tutto onesti, sono chiamati « mammona di iniquità »: occasione, frutto, mezzo di ingiustizia. Quelli che li hanno a disposizione sono semplici amministratori, come l’economo della parabola: bisogna ch’essi stiano attenti a non defraudare il Padrone che sta nei cieli, ma ad amministrarli bene, a prelevare qualche cosa per i poveri, per essere ricevuti in cielo assieme a loro, che sono gli amici di Dio. Altrimenti la loro furberia sarà quella dei figli del secolo, e se la scamperanno in vita, non la scamperanno in morte: e le sostanze loro saranno et dissipata et scissa et dilacerata. « Ed io vi dico: fatevi degli amici per mezzo delle ricchezze materiali e dei beni di fortuna, affinché, quando veniate a morire, vi diano ricetto nelle tende eterne ». – 1. L’USO CATTIVO. Seneca, che fu un filosofo pagano, andava torturandosi un dì il cervello per sapere dov’è la vera sapienza. Gli accadde d’incontrarsi con un uomo che mangiava in un piatto d’argilla, ma s’accorse che aveva in cuore tanta brama d’aver vasellame d’oro: concluse che quello non era un uomo saggio. Gli venne poi d’incontrarsi con un uomo che mangiava in un piatto d’argento beveva in una coppa d’oro; lo interrogò e seppe che mangiava e viveva con tanta semplicità come se il vasellame fosse d’argilla; e concluse: questi è l’uomo saggio. Anche il Signore Gesù aveva detto chi erano i ricchi saggi ed i ricchi stolti, quando distinse due specie di poveri, quelli di spirito e quelli di mezzi. I poveri di spirito sono anche i ricchi, quando non sono attaccati ai beni della terra e non dimenticano quelli del cielo, e vivono in semplicità, con l’animo medesimo con cui vive anche il povero. Quando è così, buone sono le ricchezze, dice S. Agostino, perché sono usate come vuole Dio, per operare il bene. E la Scrittura chiama beato quel ricco « che si è elevato sino alla comprensione del povero e dell’indigente ». Ma quanto è difficile essere savi fra le ricchezze! Sentite ancora Gesù: «In verità vi dico: un ricco entrerà difficilmente nel regno dei cieli. E aggiunge: è più facile per un cammello passar per la cruna d’un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli »: e nel Vangelo di quest’oggi le ricchezze sono da lui chiamate mammona iniiquitatis, perché spesso sono frutto, occasione, mezzo di iniquità. La S. Scrittura chiama la cupidigia simulacrorum servitus; ah! quanto è vera l’espressione, quando l’idolo di cui s’è schiavi è la ricchezza! Per l’avidità di possedere, quanti mali acquisti fa l’uomo! speculatore, gioca sul danaro altrui con false notizie; capitalista, sfrutta il bisogno con un interesse da usuraio; industriale, non ripaga equamente l’operaio; commerciante, altera il peso, la misura, la merce; operaio, inganna il padrone. Così le ricchezze sono frutto di iniquità. Quando le ricchezze si hanno, divengono spesso mezzo di peccato: e si pongono nello scrigno avaramente o si spendono all’osteria, nelle sale, nei teatri, per i piaceri, per il fango; così come il ricco Epulone e come il Figliuol Prodigo. Ah, è troppo inumano che il denaro grondi sudore altrui o sprema sangue, ah! è troppo vergognoso che divenga mezzo di peccato. Domandate alle famiglie in dissidio la causa perché son divise, e vi risponderanno: il denaro; domandate alla società la causa dell’odio, delle inimicizie, delle lotte fra il ricco ed il povero, e vi risponderà: il denaro; domandate a quell’uomo perché ha perso la fede, l’onore e vi risponderà: per il denaro; domandate a quell’altro perchè ha dimenticato il suo dovere e vi risponderà: per il denaro. Denaro, sempre denaro; ah! è una ben triste occasione di peccato, il denaro! E se poteste domandare a tanti e a tanti perché sono nell’inferno, ancora con un gesto disperato e con un singulto orribile vi risponderebbero: per il denaro. Morì il ricco e fu sepolto nell’inferno ». La furberia dei figli del secolo non chiude quelle porte di fuoco. – 2. L’USO BUONO. Nell’Antico Testamento e vi erano due specie di sacrificio: un sacrificio che uccide la vita e un sacrificio che dona la vita. Noi conosciamo bene il primo: la giustizia divina, che fulmina e scuote e strappa i cedri del Libano, esigeva sacrifici di sangue che spruzzava di rosso l’altare, sacrifici di fuoco che consumava la vittima. Ma vi era l’altro sacrificio di cui parla l’Ecclesiastico: Qui facit misericordiam offert sacrificium. (Eccl., XXXV, 4). Se con sacrificio di sangue si onora la giustizia divina offesa, col sacrificio dell’elemosina si onora la bontà divina, dolce e amabile che vuole la vita del peccatore, che non ha pensieri di afflizione, ma pensieri di pace. « Beati questi misericordiosi, perché otterranno misericordia » disse Gesù nel Nuovo Testamento, e la otterranno più splendida nel dì finale. Nel dì finale il Re dirà a coloro che sono a destra: « Venite benedetti, perché  ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; sete e mi avete dato da bere; ero pellegrino e mi avete ricoverato; nudo e mi avete vestito; malato e mi avete curato, prigioniero e mi avete visitato ». « Quando, o Signore, abbiamo fatto questo? ». – «Ve lo dico in verità, tutto quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me medesimo ». Ora le capite le parole del Vangelo: « Colle ricchezze fatevi amici che vi riceveranno in cielo »; quanti, dopo averle udite e dopo averle meditate, hanno distribuito ai poveri i loro averi, hanno riparato alla ingiustizia, hanno reso la merce defraudata: e si sono fatti amici in cielo. Ora le capite le parole della Sacra Scrittura: « La elemosina copre non solamente i peccati, ma la moltitudine dei peccati »; « come l’acqua estingue il fuoco, così l’elemosina estingue la colpa ». Ora capite che il buon uso delle ricchezze è di colui che non si considera un padrone assoluto, ma nel tempo e secondo i limiti che il Padrone Assoluto Eterno ha stabilito: ora capite che il buon uso delle ricchezze è di colui che, quando ha soddisfatto alla propria necessità, alla convenienza della sua posizione, alla esigenza della sua famiglia, il resto lo dà ai poveri. Ora capite che l’elemosina diviene frutto, mezzo, occasione di giustizia. Chi ha rubato e non trova l’antico padrone, chi ha danneggiato e non può riparare il danno, chi ha ereditato male e non può far più nulla; tutti costoro con l’elemosina convertono mammona iniquitatis in frutti di giustizia che raccoglieranno in cielo. Colui che penetra nel cuore e nell’anima del tapino per diffondere un po’ di luce fra tanto odio, per portare la pace e la grazia del Signore fra tanta miseria e fra tanta colpa, costui conquista anime e fa veramente amici in cielo: l’elemosina è occasione di tanto bene. « Chiudi la limosina nel seno del povero, e questa pregherà per te contro ogni male: essa è come sigillo dinanzi a Dio che segnerà il libro di vita, essa è come pupilla dell’occhio di Dio e irraggerà di luce in cielo » (Eccli., XXIX, 15). – V’è nella vita del B. de la Colombière questo piccolo episodio autentico. Un ricco gentiluomo di Francia era morto dopo aver vissuto la vita galante di società. Il primo marzo del 1680 un’umile e santa suora della Visitazione lo vede mentre prega in coro e ascolta le sue parole: « Ah! quanto è grande Iddio, e giusto e santo! Nulla è piccolo ai suoi occhi, tutto è pesato, punito, ricompensato ». « Avete ottenuto misericordia? » domanda la suora. « Sì, per le elemosine ai poveri ». E sparve. Costui ha trovato in cielo i poveri suoi amici: e fu salvo. Li troveremo anche noi, che ci spaventiamo, guardando ai nostri peccati e al giudizio di Dio?

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XVII: 28; XVII: 32

Pópulum húmilem salvum fácies, Dómine, et óculos superbórum humiliábis: quóniam quis Deus præter te, Dómine?

[Tu, o Signore, salverai l’umile popolo e umilierai gli occhi dei superbi, poiché chi è Dio all’infuori di Te, o Signore?]

Secreta

Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera, quæ tibi de tua largitáte deférimus: ut hæc sacrosáncta mystéria, grátiæ tuæ operánte virtúte, et præséntis vitæ nos conversatióne sanctíficent, et ad gáudia sempitérna perdúcant.

[Gradisci, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che noi, partecipi dell’abbondanza dei tuoi beni, Ti offriamo, affinché questi sacrosanti misteri, per opera della tua grazia, ci santífichino nella pratica della vita presente e ci conducano ai gaudii sempiterni.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXXIII: 9 Gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus: beátus vir, qui sperat in eo.

[Gustate e vedete quanto soave è il Signore: beato l’uomo che spera in Lui.]

Postcommunio

Orémus.

Sit nobis, Dómine, reparátio mentis et córporis cæléste mystérium: ut, cujus exséquimur cultum, sentiámus efféctum.

[O Signore, che questo celeste mistero giovi al rinnovamento dello spirito e del corpo, affinché di ciò che celebriamo sentiamo l’effetto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (213)

LO SCUDO DELLA FEDE (213)

MEDITAZIONI AI POPOLI (I)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE I.

Una cosa sola importa, salvare l’anima nostra

Quale conforto per un ministro di Gesù Cristo! Egli, ogni volta che si presenta ad un popolo nelle chiese, trova sempre una famiglia di figliuoli tutti adunati nel bacio santo di carità intorno alla mensa del comun Padre, l’altare, e sopra l’altare il Crocifisso cogli occhi sopra noi, colle braccia levate al cielo, per dirci: « O figliuoli del Sangue mio, sto io qui con voi in Sacramento per menarvi al Padre nostro che vi aspetta in paradiso: » e appiè della croce trova pur sempre Maria Santissima da Gesù lasciataci per madre, la quale vuole noi suoi figli avere tutti beati in seno alla bontà di Dio! Ora mandato che io sono da Gesù Cristo a trattare con voi del più importante interesse vostro, di mettere in salvo le vostre anime e scamparvi dalla più orrenda disgrazia, la dannazione, io con tutta l’anima abbracciandomi a voi dico la prima parola che mi vien dal cuore: cari fratelli, non andiamoci a perdere in questa povera vita che ci vien meno tutti i momenti. Vedete, dice s. Basilio, noi siamo come un albero piantato sulla riva di un fiume, a cui la corrente mangia il terreno sotto. Viene un’ondata, e scava la voragine; e la pianta scherza colle radici nell’acqua: un’altra ondata, e il ciglione della riva si abbassa e la pianta si siede abbandonata sull’onda, che soavemente le lambisce le frondi. Intanto fiorisce a pompa, e si promette abbondanza di frutti: quando ecco la travolge un fiotto di piena…. Dov’ è l’albero allora? È scomparso per sempre. No; guardate alcuni passi lontano, e lo vedete rigettato alla riva tra i ributti delle acque nella melma, colle radici squallide come l’ossa di uno scheletro. Signori! anche noi su questo suolo mal fido del mondo, mentre il tempo ci porta via di sotto ai piedi la terra, siamo qui fiorenti in lieta vita: noi colle sempre di speranze ci promettiamo abbondanza di beni fino all’ultimo istante che ci trabocca nell’eternità. Ahi! intanto vediamo scomparire molti dei nostri: e che sarà di loro travolti non preparati in quell’orrido abisso?…. Io mi rivolgo a voi, per supplicarvi di provvedere in tempo per le anime vostre, affinché non vi troviate disperatamente perduti, e farò con voi quello che vorreste voi fare ad altri. Dite, ditelo voi: vedeste il vostro fratello costruire con tutto dispendio la casa colà, dove scoscende a falde il pendio del suolo, ben vorreste gridargli: fratello, non fare; perché a momenti l’edificio tuo rovina, e tu ti perdi con esso! Anche noi, vedendovi con tanto affanno edificare qui la vostra fortuna, vogliamo di qui avvisarvi che, dandovi a tutto uomo in affari di terra, fabbricate nel mondo sopra un’arena fluente, che vi scorre via di sotto: vogliamo gridarvi: ahi! che a momenti vi sprofondate nella tremenda eternità, in cui vi troverete o paradiso o inferno, che duran sempre! Noi qui di sotto alla croce, caldi del Sangue di Gesù che versò per salvare le anime nostre, vi stendiamo le braccia, per mettervi in sicuro in seno a Lui: anzi ci gettiamo ai piedi vostri pregandovi tremanti di spavento… Deh mettiamoci col cuore sul Cuore del Salvatore di tutti a ben meditare questo: che una cosa più di tutte l’importa, salvar cioè l’anima nostra, e che tutt’altri interessi paragonati a questo non sono che misere vanità: porro unum est necessarium (Luc. 10); perché scompare a nulla tutta la vita nostra presente quando si pensa, che va a finire in paradiso o nell’inferno per sempre. Grande verità che ben meditata, sì, ci farà risolvere di salvarci. – A questo fine noi ci presentiamo a voi in questa missione, questo solo veniamo a domandarvi, di questo vi scongiuriamo: salvate l’anima vostra! E se mai ci udirete a gridar alto, e tutta ardenza, anzi come fuor di noi nel fremito di un angoscioso terrore, ci perdoni la vostra pietà; e dite fra voi medesimi: povero padre! e’ vorrebbe salvare tutti: oh come stride per ispavento al sol pensare che di noi si possa perdere un solo. — Se noi non abbiamo meriti, che ci raccomandino, guardateci al cuore che non può amarvi di più, perché vi ama dell’amor di Gesù Cristo; e sian meriti nostri la vostra bontà. – Salvatore nostro benedetto, purgate prima di tutto queste nostre labbra di fango: e dateci quella parola che, se mortifica, vivifica; se spaventa, poi consola: ed essa saprà svellere, saprà piantare: saprà distruggere, ma meglio edificare; e mandateci dalle fiamme. del vostro Cuor di bontà tutta divina un raggio di quella luce, che fa vedere il nulla della vita del mondo del tempo presente dirimpetto al paradiso e all’inferno, che durano eternamente. O Maria santissima, benedetta Madre, che tutta aspersa del Sangue di Gesù Figliuol vostro divino, ci avete ricevuti per figli, Voi vi siete accordata con Lui del modo di salvare queste anime nostre, che tanto Sangue costarono al nostro Gesù, e costarono tanti dolori al vostro Cuore. A Voi consacriamo questa predicazion nostra: Voi otteneteci la grazia e il frutto di vita eterna colla vostra materna benedizione. Angeli e Santi, intercedeteci misericordia. ( Ave Maria. — Omnes Sancti et Sanctæ Dei, intercedite pro nobis). In questo solenne momento, nella presente quiete della chiesa, fuori delle agitazioni del mondo che passa, cerchiamo di ravvisarci davanti a Dio. Dove ci troviamo noi ora? Facciamo come quel beato san Francesco d’Assisi là sul monte d’Alvernia; con una mano sul cuore diciamo a noi stessi: anima mia, dove siamo in questo istante!… Santa fede! qui sollevato tra il cielo e la terra, sopra del capo mi sta aperto il paradiso, sotto i miei piedi mi è spalancato l’inferno: spinto senza posa verso l’uno e l’altro di questi termini, pendo attaccato ad una vita sottile come un filo di ragnatela: e dove cadrò a momenti? Non lusinghiamoci, noi corriamo rapidamente alla morte. Se guardiamo indietro, che spavento! una gran porzione della nostra vita è già passata; se guardiamo innanzi,… questo pensiero cupo ci piomba sul cuore: forse da qui a dieci anni, forse da qui a un anno, ahi! forse in questo mese la mia carriera è compiuta, io cado morto…. la mia sorte è gettata! e sono nel paradiso o nell’inferno per sempre. Signori! non conviene punto fare l’intrepido, ostentando di non avere paura!… Ci Sconvolge le idee questo pensiero: la mia Religione sicura a tutte prove, la Religione, che mai non ingannò nessuno, mi dà per certo, che ancor un poco, e poi o sarò beato in paradiso, o sarò nell’inferno dannato per Sempre. Saremo in paradiso?… Apriti, o cielo !… Là in paradiso vi è quel gran popolo di tribolati, che in miseria di ogni cosa di mondo strascinando le loro croci appresso al Salvatore Gesù, arrivarono all’eterno regno: là tante povere donnicciole, ricche di virtù solamente note a Dio: esse nascosero qui le loro lacrime disprezzate in seno al grande Amico degli afflitti; ora eccole là nella beata gloria di Dio. Ve? in paradiso quei Cattolici coraggiosi, i quali, mentre l’accozzaglia dei vili per rispetto umano era strascinata a far guerra alla Chiesa, frequentarono i Sacramenti in vita devota ed ora tutti i malnati in disperazione eterna; ed essi per sempre felici in paradiso. Là vi sono ricchi in carità, là servi fedeli entrati tutti a sommergersi nell’eterno gaudio del loro Signore. Là le schiere di quei Martiri, che resistettero a tanti tormenti. E che tormenti, mio Dio, e che tormenti!… Strascinati negli anfiteatri (lo accennammo nelle Conferenze), si aizzavano contro a quei santi cristiani i leoni, le iene, le tigri. E il lione dava dentro nel petto nudo al giovanetto che l’aspettava fermo; quindi versando le viscere per terra veniva divorato col grido sulle labbra: viva Gesù!… oh paradiso!… e saliva allora in paradiso. E la madre cristiana colla figliuola esposta alle fiere, quando la iena le si slanciava alla gola, la trascinava con tremendo ruggito pel Circo col collo tra le zanne gridando: coraggio o figliuola, viva Gesù!… al paradiso!.. moriva strozzata: e da quel punto ell’è beata in paradiso! E quando la, tigre fremente acceffava nel petto la verginella (e lungo il circo mandavano un urlo fino quei crudi !), di là quell’angelo divorato in terra volava cogli Angioli in paradiso! Racconterovvi tra mille un sol fatto. Santa Potamiena verginetta, fior di bellezza nei sedici anni fu dal sozzo padrone, che la solleticava a vitupero, accusata come ella era cristiana. Il giudice, perché restava pura e a Dio fedele, la condannò ad essere calata viva in una caldaia di pece bollente. Attaccano la caldaia gli sgherri, e soffiano sotto nei carboni ardenti quelle faccie di fuoco. Gorgoglia la pece, e si travolge nei vortici spumanti. I crudeli depongono coi piedi nudi nella caldaia ardente la verginella, che si serra le vesticine alla vita. Ahi!.. stride la pece, si copre di fumo e salta via spruzzando, quasi inorridita di cuocere tanta innocenza; e Potamiena in quella atrocità esclama: oh Gesù!.. ancor un momento! Viene calata giù sino alla vita; e Potamiena vedesi intorno le carni ricotte e il sangue grommato galleggiar tra le bolle della pece avvampante. Oh Gesù mio… ancor un momento!.. e vien calcata giù fino alla gola. Potamiena non ne potendo più, lascia cadere la bionda testolina dentro la pece, con l’ultimo gemito: Gesù, Gesù mio… O paradiso!… Miei fratelli, sono mille e cinquecento anni ormai che quell’angioletto in quel gaudio eterno… esclama beato: che brevi momenti son questi secoli di paradiso! Intanto il gentame degli spensierati del mondo di quei tempi, come nel povero mondo nostro presente, sdraiati su per gli scaglioni del Circo gridavano agl’imperatori: dateci pane e giuochi; e vadano pur a morte i Cristiani matti dietro alla vana speranza di una sognata vita futura!… Signori, dove sono ora quei godenti?… Verità di Dio!… Spalancati, o inferno… e in quel truce fuoco, che la fede rivela, vedeteli arrovellati in quel mare di disperati dolori. Cercano la morte, ma trovano una vita che la tremenda parola di Dio chiama la morte eterna! Ancor vi domando, se quei beati godano un paradiso migliore di quello che siete destinati a godere voi, o fratelli, e se quell’inferno è più orrendo di quello, in cui precipiteremo noi (ce lo minaccia l’immancabile parola di Dio) ove non pensiamo a salvare l’anima nostra?… Ah che sopra la terra, tra il cielo e l’inferno, tuona tremendamente vera la gran parola del Salvator nostro: quid prodest homini si universum mundum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? Che giova all’uomo, guadagnasse pur tutto il mondo, se va dell’anima dannato per tutta l’eternità? Da questo tuono balena un lampo di luce dell’eterno vero, che spalanca la terribile eternità davanti a noi, e manda a nulla codesto mondo che dura un’ora! A noi adesso qui confinati in basso pare certo la gran cosa la vita, cui c’immaginiamo bella dell’incanto della fantasia in un avvenire a mille colori storiato, e senza confini. Eh posso vivere, diciamo nei nostri calcoli, ancora vent’anni; poi anche trenta. Si, bene immaginatevi anche gli ottanta! Più in là no, ché a ottant’anni anche i bambini qui che non hanno messo ancor vita, saranno già tutti morti: e godiamo pure coll’inganno della speranza di tutti quegli anni, senza pensare mai di doverci trovare già in faccia alla morte. Quasi la morte debbaci fuggire sempre dinanzi, come fa l’arco dell’orizzonte, il quale, più cammini, più ti sfugge lungi egualmente. Così avviene a noi, come a chi misura, figuratevi, una gran torre, collo sguardarla dai piedi alla vetta. Essa pare di un’altezza che spaventa. Ma fate, ch’egli s’innalzi sulla vicina montagna, e di là guardi. Dov’è la torre tant’alta! Oh!.. la vede in fondo alla valle che spunta appena tra le chiome degli alberi. Signori! innalzatevi da questi pochi anni di vita col pensiero alla eternità. Se da qui a mille e mill’anni ci troveremo in Paradiso, ovvero (deh! che la misericordia di Dio ci scampi) ci trovassimo mai nell’inferno… ah tutti gli anni della vita nostra ci appariranno come un breve momento, come un lampo di visione confusa! Sì veramente da quest’altezza dell’eternità è da vedere il nulla della vita umana! Di là, osserva s. Giovanni Grisostomo, questi grandi faccendieri che si disputano un palmo di terra, che si fan ricchi sulle altrui miserie, questi grandi politici, che scavalcano gli emuli nella presente palestra del mondo; sì, di là appaiono come quei fanciulletti, i quali nei giocarelli incoronano un compagno con una corona di carta dorata, e battono le manine a lui d’intorno; finché un altro più arditello strappagli via la corona di carta. Di loro chi ride e chi piange; ebbene ei fanno il giuoco di noi: chi ride e chi piange, chi in fortuna e chi nella sventura; e ridenti e piangenti, e fortunati e disgraziati roviniamo tutti confusamente nel sepolcro: e il sepolcro è la porta della tremenda eternità. Di qui intendete che, se pei mondani la vita è una festa, la è una festa che dura un’ora; che l’ambizione è vapore che stordisce, gli onori sono nebbia che passa, i piaceri frutti, che san di lazzo; e le ricchezze polvere, che si scuote via correndo nell’eternità: e che in verità poi il tempo del viver nostro non è che un passaggio al paradiso o all’inferno che duran sempre. Noi, nel vedervi andare tanto sicuri in questo bivio tremendo, faremo con voi come racconta san Leonardo da Porto Maurizio aver fatto un buon uomo. State attenti. Un giovane signore camminava un di entro una gola di monti, quasi grande affare l’urgesse. Era d’inverno » l’aere nebbioso, ghiacciato il sentiero dopo caduto il nevaio; ed egli non conoscendo bene il suo viaggio, tirava avanti alteramente a casaccio. Quando un buon uomo gli grida dall’alto di un monticello: indietro, signore! indietro da quel sentiero. Ma quegli, come indegnato di quell’audacia, tirava avanti con un fare impettito. Il buon uomo sì gli stride appresso più forte: indietro vi dico! Ma colui in dispetto: e che v’importa, se io vado per dove mi piace? — Che m’importa? risponde l’altro gridando più forte, m’importa salvarvi! Voi camminate sopra una crosta di ghiaccio: un tetro lago vi si sprofonda sotto… ancora un passo, si rompe il ghiaccio e… Ma date indietro per carità! L’ardito giovane ristà….; e si rivolge indietro, e guata quel pericolo, in cui alcuni animali andavano sbandati. Oh!… Si ruppe il ghiaccio! e sprofondarono nel lago. Anche noi qui sollevati dai piedi del Crocifisso nel vedere gittarsi a perdere i nostri cari gridiamo col cuore che fa sangue: indietro da quella via di peccato! Che? Continuate ancora?…. Guardate innanzi. Quegli era pure un giovane più baldo di voi: calpestava ogni fior di virtù, e voi sentite ancor il rumore de’ suoi scandali. Veniva questa notte dall’osteria ubriaco, veniva dalla tana di… Abbiamo sentito un colpo! cadde morto!.. Si è rotto il ghiaccio: oh!… è sprofondato nell’eternità! … Finalmente, diceva ieri una giovine sposa, sono giunta al sospirato matrimonio: ed ebbe un bel gridare il prete contro il mio continuare all’amore: io intanto in questa casa sono fortunata per sempre. Che è? sentite le strida in quella famiglia?… La poverina ha cessato di vivere !… Si è rotto il ghiaccio oh!… è sprofondata nell’eternità! A me poi, dice quel ricco, va tutto bene: quest’anno la raccolta mi si promette abbondante, farò allargare i granai…. — Stolto! questa notte è chiamato al giudizio di Dio! Stulte, hac nocte animam tuam repetent a te. Si è rotto il ghiaccio: oh… meschino! era là che faceva i suoi conti e cadde morto colla faccia sulle carte dei conti! Morirono questi in mezzo ai disordini di una povera vita. E noi, al vedere tante splendide scene del mondo terminare nel buio della tremenda eternità spaventati tratteremo con voi, come s. Paolo trattò in Atene coì più gran dotti dell’universo. Corsa voce ch’era venuto fra loro questo Giudeo portatore di una nuova sapienza, si avevano essi dato il convegno nell’Areopago, e stavano con quel loro gran fare sui loro stalli per dar giudizio della nuova dottrina, disprezzando con sogghigno velato, già prima di averlo udito, quell’omiciattolo da nulla, che appariva s. Paolo. Ma egli: Signori filosofi, voi aspettate ciò che io vi abbia a dire di più importante. Ebbene! v’è un Dio sommo che voi poi non ignorate del tutto, il quale vi aspetta al suo giudizio. Si muore, signori, e dopo la morte si risorge a vita pel paradiso o per l’inferno per sempre! Quei dotti restarono come da tuono percossi all’intronar di quella parola piena d’eternità. Ma riavutisi tosto, e sforzatisi d’ostentar dello Spirito, ammiccaron tra loro cogli occhi: e Straniero, gli dissero, non hai tu nient’altro che dirci? E s. Paolo: Niente altro per ora: ma a nome di Dio per cui siete vivi quì vi avverto che si muore, e che dopo la morte, vi è la risurrezione all’eternità!… Allora queglino a lui: Venditore di ciance! va: che ti ascolteremo un’altra volta! Restarono superbamente increduli molti; alcuni però vi pensarono ben bene sopra, corsero appresso a s. Paolo, e trovata vera la sua dottrina, si convertirono. Questi morirono santi: morirono anche quei peccatori. Ma sono già mille ottocento anni che quei convertiti stanno in paradiso e che quei morti in peccato sono nell’inferno. . Sì veramente! dice Platone, il filosofo antico più dotto, la morte mostra da qual parte stanno i prudenti, e da qual parte stanno gli stolti. Ora anche noi colla potenza dell’eterna verità veniamo a mettervi dinanzi il nulla del mondo in faccia al paradiso e all’inferno, in cui saremo forse a momenti. Perocché, dice lo Spirito Santo, voi siete come gli alberi, che il padrone getta a terra quando gli piace. Se tu meni la scure a piè di un albero, da qual parte egli cadrà? a destra o a sinistra? Certo dalla parte verso cui pende, e quivi starà. Ora mano alla coscienza: se il colpo del taglio m’incoglie in questo istante, da qual parte io pendo?… Ho più meriti pel paradiso, o più peccati per lo inferno!… Gran Dio!… credere che abbiamo l’inferno spalancato sotto i piedi; sentire il peso dei peccati che ci trabocca già dentro, e restare sopra il baratro nella più stupida indifferenza. Eh! la ragione umana non può fare così. « Parleremo noi col linguaggio della nostra madre la Chiesa, e bisogna, pur confessarlo (dice, e non un santo padre, ma il filosofo Pascal), che qui vi è la mano di un essere fuor di natura che ci chiude gli occhi: è la mano del nemico delle anime che tiene saldi i peccatori colla costanza di demonio, perché non tremino sopra l’abisso d’inferno! » Intanto come quegli sciagurati (l’avete udito voi l’altro d’) che nelle delizie dei dintorni di Napoli, allorquando si sentiva il cupo rombare del tuono nelle viscere della terra, e dal suolo in sussulto già sbuffavano le fiamme, e già il furente Vesuvio eruttava una fiumana di fuoco, e il buon popolo era in processioni di penitenza!.. essi pigliando tutto a divertimento, pur tra le ceneri ed i lapilli che tempestavano, correvano incontro a goder dello spettacolo… Ahi, pur troppo! ducento e più venivano travolti in quel fuoco furente, immagine d’inferno. Così anche i poveri nostri fratelli in peccato, nelle delizie della vita presente, tra i gemiti di tanti che ci muoiono d’intorno, corrono a gettarsi in perdizione in gola alla morte. Su, su salviamoci noi dall’inferno che minaccia d’ingoiarci! O fratelli, immaginatevi che accada qui uno spaventoso cataclisma (come avvenne già tante volte, può avvenire ancora nei nostri paesi) in quest’ora. Oh se voi vedeste!.. che è mai? Ahi si abbassa la terra sotto dei nostri piedi! Ve’! ve’! che si sprofonda il suolo, gorgogliano fuori le acque dappertutto, diventano laghi i cortili, i giardini, sono già un mare le campagne. Ahi si sommergono le case: fuggiamo, fuggiamo sulle alture. Ma s’inabissano fin le montagne. Tutto sparisce… Oh Dio! i nostri annegano tutti! le acque raggiungono la vetta! Ci sono già alla vita… poveri noi che affoghiamo! mettiamo orride strida!… Ma si vede un naviglio che voga verso noi per tentare salvamento…. Salviamoci, salviamoci!… Anche i più timidi si slanciano a combattere coi fiotti, per giungere a bordo del naviglio salvatore. Ah fratelli miei, che noi siamo proprio nel pauroso frangente! Sentite che ci manca sotto la vita! noi caliamo senza posa giù; abbiamo l’eternità alla gola; già c’ingoia l’inferno!… Spingetevi fuori da quell’occasione, o questa notte forse vi restate sommersi!… fuggite via da quella casa, in cui ormai restate sepolti in peccato!… Gettate quel peso dalla coscienza, che vi tira giù nell’inferno!… scappate fuori da quel mal abito, che vi affoga nel baratro della disperazione. Ecco, ecco Gesù Salvatore sulla nave: gridiamogli incontro con le braccia stese: Signore, salvateci, che noi andiamo a dannarci: « Domine, salva nos, perimus! » – Scuotiamoci; risolviamo! E perché restate ancor incantati alla vista del mondo? Via, imparate da questo fatto come dovete trattarlo. Tommaso Moro, gran cancelliere, dal sozzo eretico re d’Inghilterra Enrico, egualmente tiranno che assassino dell’anime, perché restava fedele al Papa, veniva condannato a morire. Imprigionato in sotterranea secreta, vestito a sacco, sopra un po’ di paglia in ginocchio e’ si preparava alla morte, fermo, come chi sa di combattere per Dio. Quando sente sbarrarsi la porta del carcere. Tommaso crede venga il carnefice, fa il segno di croce, e si volta imperterrito ad aspettare il colpo. Ah vede, chi?…. la sua giovine sposa, sparsi i capelli, squarciata sul seno la veste a lutto, colle braccia a lui stese si getta abbasso in quell’antro gridando: o mio Tommaso!… Tommaso balza in piedi; e la sposa.. si slancia sul petto a lui in uno scoppio di pianto. O consorte mio, cedete al re; vi porto la sua grazia: rinunziate al Papa!… Ma la pena del duolo le strozza la voce in gola… In quest’affanno sollevati colla mano i capelli… con due occhi in volto pieni di dolore infinito, singhiozza: salvatevi, Tommaso mio, salvatevi! In quella corron giù stridenti i suoi bambini; e stringergli le ginocchia, e baciargli le mani: Padre! gridando, no, padre non muori! Scappa via con noi! Tommaso trema tutto fremendo un istante. Poi: sposa mia!.. dimmi, se io cedo all’eretico re, quanto tempo potrò godere insieme con te de’ suoi favori? La sposa: Ah, principe mio, voi siete in buona età, sincero di complessione, robusto di forze: voi potete vivere ancora vent’anni… Lasciatelo dire all’amore della vostra sposa, anche trent’anni. Vent’anni!…. dice Tommaso, trent’anni… che tu non mi puoi assicurare!… Eh vuoi che io li cambi coll’eternità del paradiso, che mi assicura l’immancabile parola di Dio?.. Brutto cambio che mi proponi?… Va, va, che sei una mercantessa ben stolta! recede a me, stulta mercatrix! Così dicendo si slega dalle braccia della sposa, colla mano sul petto la respinge indietro, e muore martire. Signori, ci tradisce il mondo, il quale, nulla curandosi di noi, se andiamo dannati, ci promette beni; e non ce li assicura un sol dì; mentre la parola di Dio ci assicura il paradiso per sempre. Deh! coll’inferno aperto sotto dei piedi, col paradiso innanzi da conquistare, tutti gli altri affari del mondo non sono che misere vanità. Tutto adunque è vanità, dice la Sapienza divina, fuorché amare e servir Dio, e così salvare le anime nostre. Porro unum est necessarium: questo, questo solo è necessario, dice il Salvatore nostro, che vuole non si perda nessuno. O figliuoli degli uomini, e fino a quando amerete le vanità, e spenderete tutta la vita in un lavorio che dura un istante? Grandi faccendieri in questi affari da niente, voi siete simili, dice s. Giovanni Grisostomo, a quell’insettuccio, che ragno è detto comunemente. A vederlo girare tra le cortine ed i festoni della sala, sembra che mulini anch’esso un gran disegno, e specoli il campo, dove poterlo eseguire. Allunga una zampetta, assaggia il terreno; non è da ciò: stende l’altra, e la ritira; poi si slancia ardito dall’alto in mezzo al vano della finestra e pende dal filo che gli esce di bocca, e gli consuma la vita; e là in aria in quel vano già si dà vanto il superbetto del suo grand’ardimento. Aspetta un buon alito di vento, e si getta con esso ad attaccare il filo in una imposta; e dice in se stesso: va bene la mia fortuna. Ad un nuovo soffio di vento di buona ventura attacca il filo dall’altra, poi torna a bomba in mezzo: gira e rigira, e fa quei cerchietti concentrici, ognora più stendendo le fila del suo dominio. Li ferma a nodi, a mo’ di raggi, e pone nel centro la sua casetta, o il suo gran palagio, ché tale debbe sembrare alla sua testolina… Di là adocchia, se un moscherino s’impigli nella sua ragna, e gli salta alla vita, gli succhia il sangue, e porta gli avanzi nella sua casa. Allora egli come un piccolo re si mette in mezzo al suo possesso, pendente sui fili in aria col ventre al sole in goderie, e par che dica, sono il padrone del mondo. Ma entra il padrone nella sala: vede quella schifezza, chiama stizzito la fante, e, buttala via, dice, quella bruttura. La donna alza la scopa, dà un colpo… e di tutto quel grande lavorio del gran re, e del suo bel mondo che mai vi resta? Una macchia schifosa, dove rimane l’insettuzzo schiacciato sotto del piede. Signori! fanno così gli uomini del mondo, massime nel nostro tempo. Si slanciano arditi ad ogni cimento, attraversano i mari, legan le fila dei grandi commerci, portan l’oro d’America, specolano alle borse, tiran partito delle altrui disgrazie; comprano, comprano: poi in mezzo ai grandi acquisti fatti, ricchi già tanto, da non curarsi più della Chiesa e ridere dei Sacramenti, adoratori pur solamente dell’idolo borsa, lasciano alla povera gente di essere buoni Cristiani e di salvare le loro animette. Essi sono grandi!….. E chi è mai Dio per costoro?… Chi è Dio?!… È il gran padrone dell’universo, il quale guarda quel ributto orgoglioso della creazione, fa un cenno alla sua serva, e la morte dà un colpo!… Dove è il superbo del mondo?.. Non vi resta di lui che una lurida macchia dove rimane schiacciato sotto il piede della morte nel fango del cimitero. Ah che questi affari della terra, quando ci disputano tutta la vita, se sono più che vanità, sono tremendi inganni! Dice sant’Eucherio che e’ sono come tanti anelli di una gran catena, la quale pende dall’alto, in cui uno va dentro e si lega nell’altro: e chi colle mani s’abbandona lungh’essi, dall’ultimo anello é lasciato cadere in rovina. Gli affari sono come i fiotti del mare, che passan l’un sopra l’altro; e la vita è la navicella che volge ad ostro od a ponente a seconda delle soffiate di vento di buona o cattiva fortuna; finché viene l’ultimo colpo del maroso che la sprofonda a naufragio. Ma intanto noi corriamo alla morte!… La vita umana adunque, dice s. Basilio, è somigliante ad un cammino, che va a terminare in un gran precipizio. Ben noi siamo avvertiti, che la legge è pubblicata, che bisogna spingerci innanzi sempre; eppure ci lusinghiam di fermarci. Ma una voce tuona continuo: avanti, avanti! Entriamo nella gioventù, e noi come in mezzo a prati fiorenti, noi vogliam folleggiare; ma una voce ci grida avanti, avanti! ed una mano ci tira innanzi… Passiamo nell’età virile, ivi a noi pare di trovarci tra campi pieni di biade e di frutta; e qui affannarci a fare raccolta, e vogliam fermarci a goderne; ma una voce ci grida: avanti, avanti! e una mano ci tira innanzi… Andiamo innanzi: oh i prati sono più pallidi, i fiori meno ridenti, meno chiare le acque, la campagna diventa più squallida: cioè sono già bianchi i capelli, s’incurva il dorso, le bellezze sì fanno sparute, monotona diventa la vita, proviamo un tristo sentore del precipizio che non può essere lontano! Vorremmo restarci; ma una voce ci grida: avanti, avanti! ed una mano ci tira innanzi… Ahi che squallore d’intorno! dirupato il sentiero, tentenniamo nei passi. Abbiamo varcato i sessant’anni, presto i settanta….. E i compagni di viaggio con cui scherzavamo fanciulli? Scomparvero tutti; tutti caduti nei precipizi lungo la via!…. Buon Dio, ci vien meno la vita! Vorremmo fare posata un istante; ma una voce tuona più forte avanti, avanti! ed una mano ci strascina innanzi… Ve?!… siam giunti soll’orlo dell’abisso; ci gettiamo per terra, gridiamo atterriti: deh un po’ di tempo ancora! ma rintuona la voce: avanti, avanti! ed una mano ci urta innanzi… Ahimè! l’orrore ci turba i sensi, ci gira il capo, si offuscano gli occhi; freddo sudor alla vita, e noi nelle ansie dell’agonia diam l’ultimo passo…. precipitiamo nell’eternità, sepolti nell’abisso del sempre, ch’è o paradiso o inferno! … Dietro di noi orrendo fragore: è il tempo che con tutte le cose rovina nel nulla; e l’eternità sempre rintuona: Porro unum est necessarium: questo solo importa, salvare l’anima nostra in paradiso…. – Deh! prima che io discenda, sì io ancora col Crocifisso innalzato qui tra il paradiso e l’inferno!… Guardate Egli Dio!… Ei venne di cielo, e lasciossi coronare la testa di spine per salvare le anime vostre…. E voi non volete darvi un pensiero? Ve? ve’ che lasciossi squarciare le mani per portarvi via d’inferno!… E voi non vorrete muover una mano per mettervi in salvo? Ah ah! come lasciossi lacerare questi piedi, per menarvi seco in paradiso!… e voi non vorreste far un passo neppur per confessarvi e da Lui lasciarvi menar in cielo? Dio, dirovvi colla eloquente parola di san Giovanni Grisostomo, Dio stesso ha paura… perché Egli sa ciò che vuol dire paradiso ed inferno: sì Dio ha paura…. che noi andiamo dannati!… E noi cì ridiamo della sua paura?…. Miserabili, miserabili troppo!… Oh nostro buon Gesù! Voi qui con noi col Cuor che fa Sangue aperto; nel Sacramento … là là…. noi vi giuriamo sul vostro Cuore che ci vogliamo salvare.

LA GRAZIA E LA GLORIA (3)

LA GRAZIA E LA GLORIA (3)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO PRIMO

IL FATTO E LA REALTÀ DELL’ADOZIONE DIVINA

CAPITOLO II

L’adozione dei figli di Dio, che poggia su una generazione spirituale, è un rinnovamento interiore del nostro essere e come un’altra creazione.

1. – Quando parliamo dell’adozione divina, guardiamoci dal concepirla alla maniera delle adozioni umane, perché essa è di un tipo incomparabilmente superiore. In assenza di qualsiasi altro motivo, i soli termini che le nostre Sacre Lettere usano per rivelarcelo, basterebbero a renderlo chiaro. Nessun uomo, quando parla di un figlio adottivo, per quanto esprima il suo amore, oserebbe dire che questo figlio debba la sua nascita a lui e che lui stesso lo abbia generato. Ora nulla è più ordinario nella bocca di Dio di questo linguaggio nei confronti dei suoi figli adottivi. Citiamo alcuni passaggi a sostegno di tale dottrina consolante. « In verità, in verità – disse Gesù a Nicodemo – Io ti dico che se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio. » (Joan, III, 3). A queste parole del Salvatore Nicodemo è stupito: « Come – egli chiede – può rinascere un uomo che è già vecchio? »  E Gesù gli risponde con più enfasi: « In verità, in verità ti dico che se uno non nasce da acqua e da Spirito Santo, non può entrare nel regno di Dio. Quello che nasce dalla carne è carne; e ciò che è nato dallo spirito è spirito. Non vi meravigliate se vi ho detto: Dovete nascere di nuovo » (Gv. III, 4-7). Queste ultime parole non ritrattano nulla: è veramente di una nuova nascita che Egli ha parlato, ma di una nascita secondo lo spirito e non secondo la carne; di una nascita che non dà la vita del tempo, ma la vita dell’eternità. – La nascita presuppone la generazione. Nascere di nuovo è quindi essere rigenerati. Spetta agli Apostoli insegnarci e spiegarci fedelmente il pensiero del Maestro su questo punto. Ascoltiamoli dirci, per bocca di San Paolo, ciò che noi siamo senza la grazia dell’adozione e cosa diventiamo grazie ad essa. « In passato eravamo stolti, increduli, ingannati, schiavi di ogni tipo di desiderio e di piacere, vivendo nella malizia e nell’invidia, odiosi ed odiandoci gli uni gli altri.  Ma quando apparve la bontà e l’umanità del nostro Dio salvatore, non fu per le opere della nostra giustizia che ci salvò, ma nella sua misericordia attraverso il Battesimo di rigenerazione e il rinnovamento dello Spirito Santo » (Tito III,3-5). Questo, dice, è ciò che eravamo; e questo è ciò che siamo o dovremmo essere, « …affinché giustificati dalla sua grazia, siamo eredi della vita eterna secondo la nostra speranza » (Ibid. III, 6). – Sembrerebbe che San Giovanni non sappia più pensare che a questa nuova nascita, tanto spesso riappare nelle sue pagine ispirate. « Chiunque è nato da Dio non pecca, perché il Seme di Dio (questo Seme incorruttibile – I Petr. I, 23 -, principio della nostra rigenerazione), dimora in Lui; egli non può peccare, perché è nato da Dio » (1 Joan. III, 9). Al che si deve osservare che, finché siamo nella prova, l’impeccabilità di cui l’Apostolo parla qui è solo un’impeccabilità relativa. La qualità di figlio di Dio è incompatibile con il peccato mortale; e se abbiamo la sventura di commetterlo, questo avviene, dice Sant’Agostino, come figli della carne, e col diventare figli del diavolo). – E ancora: « Chi crede che Gesù è il Cristo è nato da Dio; e chi ama il Padre che lo ha generato, ama anche chi è nato dal Padre » (I Joan. V, 1). E qualche riga più avanti, nello stesso capitolo: « Noi sappiamo che chi è nato da Dio non pecca; ma la generazione di Dio (l’essere nato da Dio) lo preserva, ed il maligno non lo tocca » (I Joan. I, 1, 18). È necessario fermarsi: perché diverremmo infiniti se volessimo mettere davanti agli occhi del lettore tutta la dottrina delle nostre Sante Lettere. Per concludere, aggiungiamo questo testo di san Giacomo che esprime così bene la profondità del rinnovamento operato in questa rinascita: « È volontariamente che Egli (il Padre delle luci) ci ha generati per mezzo della parola di verità, così che siamo un inizio della sua creatura » (Giac. I, 18).

2. Volgiamo ora l’orecchio ai Santi Padri; essi ci aiuteranno a penetrare più profondamente in queste magnificenze della filiazione dei figli di Dio, rigenerati dal Battesimo. Prima di tutto, ecco un discepolo di Sant’Agostino, San Fulgenzio, che, in un testo eccellente, contrappone le due nascite di Cristo alla doppia nascita dei fedeli. La prima nascita di Cristo è da Dio, la seconda dall’uomo; per noi, la nostra prima nascita è dall’uomo e la seconda da Dio. E poiché Dio per nascere ha preso la nostra carne in un grembo verginale, a noi che siamo rinati nel Battesimo ha dato lo Spirito di adozione. Ciò che Dio non era per natura in virtù della sua prima nascita, lo divenne per grazia in virtù della seconda, affinché noi, per la grazia della nostra seconda nascita, fossimo ciò che non eravamo naturalmente per la prima. Quando Dio è nato dall’uomo, questa è una grazia data a noi; ed è ancora una grazia puramente gratuita che riceviamo, quando per la munificenza di Dio nato dalla carne, diventiamo partecipi della natura divina. « È perché il Figlio di Dio si è fatto Figlio dell’uomo, che a tutti coloro che lo hanno ricevuto, ha dato il potere di essere fatti figli di Dio… Sì, se il Figlio di Dio che è nel seno del Padre, Figlio eterno da un Padre eterno attraverso una nascita eterna, se –  dico – questo Figlio diletto non si fosse degnato di accettare una nuova nascita per santificare gli uomini, l’uomo concepito nell’iniquità sarebbe rimasto per sempre impigliato nei vincoli della sua nascita terrena » (S. Fulg. ep. 17, p. 14-15. P. Lat., t. 65). E per esaltare ancora di più il beneficio della nostra nuova nascita, ci mostra in un’altra opera, da quali mali essa ci libera, opponendola alla prima: « Quello che ci basta sapere è che la prima nascita ci contamina e la seconda ci purifica; che la prima nascita ci rende prigionieri e la seconda ci rende uomini liberi; che con la prima nascita siamo terreni e carnali e con la seconda nascita siamo celesti e spirituali; e infine, che alla prima nascita dobbiamo l’essere figli dell’ira e figli del mondo e alla seconda nascita dobbiamo l’essere figli della grazia e figli di Dio » (Id. de verit. prædest. et grat. – Fu combattendo per la gratuità della grazia e l’esistenza del peccato originale contro i pelagiani, che negavano entrambi i dogmi, che il Santo dottore, scrisse questi passaggi). Dopo il discepolo viene il maestro, cioè il grande dottore di Ippona. Egli ci farà meditare su quello che abbiamo riportato in precedenza sulla misteriosa conversazione del Signore Gesù con Nicodemo. « Questo spirito e questa vita (di cui nostro Signore parlò alla Samaritana al pozzo di Giacobbe) non erano ancora stati gustati dal capo dei Giudei, Nicodemo, che venne da Gesù di notte. Gesù gli disse: « Chi non è nato di nuovo non vedrà il regno di Dio ». E Nicodemo, che ancora intendeva solo la carne, Nicodemo, la cui bocca non aveva ancora gustato la carne di Cristo, disse: « Come può nascere di nuovo un uomo che è già vecchio? È possibile per lui tornare nel grembo di sua madre e rinascere? » Quest’uomo non conosceva che una nascita: quella che possono dare Adamo ed Eva; quanto a quella che è di Dio e della Chiesa, non la conosceva ancora. Non conosceva altri genitori che quelli che generano per la morte; non conosceva i genitori che generano per la vita. Non conosceva i genitori che danno alla luce coloro che presto prenderanno il loro posto; ma non conosceva coloro che generano per vivere per sempre con dei figli immortali come loro. – Ci sono due nascite, e Nicodemo ne conosceva solo una. Una è della terra e l’altra del cielo; una è della carne e l’altra dello spirito; una è della mortalità e l’altra dell’eternità; una è dell’uomo e della donna e l’altra di Dio e della Chiesa. E queste due nascite sono singolari: perché né questa né l’altra possono essere ripetute. – Della nascita carnale Nicodemo era convinto. Quello che pensava della nascita secondo la carne, intendetelo della nascita spirituale. Che intendeva Nicodemo? Può un uomo tornare nel grembo di sua madre e nascere una seconda volta? E anche voi, quando vi si chiede di nascere di nuovo spiritualmente, rispondete con Nicodemo: Può un uomo tornare al seno di sua madre e nascere di nuovo; io sono già nato da Cristo; Cristo non può generarmi di nuovo. Né il grembo di mia madre, né le acque del Battesimo possono accogliermi una seconda volta. (S. August. In Joan. Tract. XI, p. 6.). – Chiunque sia a conoscenza delle controversie che allora erano in corso nella Chiesa, capirà che Sant’Agostino voglia proteggere i fedeli contro l’errore dei ribattezzatori. Egli non dice che non si possa recuperare la vita spirituale una volta che sia stata persa; quello che dice è che non può essere recuperata da una nuova nascita. Ci sono guarigioni, ritorni dalla morte alla vita attraverso la penitenza; non c’è una nuova generazione né nell’ordine della natura né in quello della grazia; ed è per questo che il sacramento della Penitenza può essere ripetuto, il sacramento del Battesimo, mai. – Seguiamo di nuovo il grande dottore nella sua esposizione del nostro Vangelo. Il Signore disse a Nicodemo: « In verità, in verità ti dico che se uno non nasce di nuovo da acqua e da Spirito Santo, non può entrare nel regno di Dio. Ecco come il Signore spiega il suo pensiero. Avevi in mente solo una nascita carnale quando hai detto: Può un uomo entrare nel grembo di sua madre? Ed è dall’acqua e dallo Spirito Santo che egli deve rinascere per il regno di Dio. Se egli nasce per ereditare temporalmente da un padre mortale, che sia formato nelle viscere della carne; ma se nasce per l’eredità senza fine del Padre che è Dio, che nasca dalle viscere della Chiesa. È da una donna che il padre mortale genera il figlio che prenderà il suo posto; è dalla Chiesa che Dio genera i figli che rimarranno con Lui per sempre. Ascoltate ciò che segue: ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito. C’è dunque per noi una nascita spirituale, e questa nascita nello Spirito viene dalla parola e dal Sacramento. Lo Spirito è lì per dare la nascita: è lì, invisibile, nella fonte da cui tu nasci; perché anche tu sei nato invisibilmente. E il Vangelo continua: non stupirti se ti dico: devi nascere di nuovo! Lo Spirito soffia dove vuole; tu senti la sua voce e non sai dove va, né donde venga. Nessuno vede lo Spirito. Come possiamo sentire la voce dello Spirito? Il salmo canta: è la voce dello Spirito; il Vangelo parla: è la voce dello Spirito; la parola di Dio risuona nelle nostre orecchie, ed è sempre la voce dello Spirito. Si sente la sua voce e non si sa da dove venga o dove sia. E anche tu, se sei nato dallo Spirito, sarai tale che chi non è ancora nato dallo Spirito non saprà da dove vieni e dove vai. Questo è il significato delle seguenti parole: Così è per chiunque sia nato dallo Spirito » (S. Agos. Tr. XII in Joan., n. 5).

3. – La Santa Chiesa ci conferma nella fede della nostra filiazione adottiva e della nostra rinascita: lo testimonia il Concilio di Trento nei suoi capitoli dottrinali sulla giustificazione. « Il Padre celeste, il Padre delle misericordie, Dio di ogni consolazione, quando venne la beata pienezza del tempo, mandò il suo Figlio, annunciato e promesso ai Santi Padri, sia prima della Legge che al tempo della Legge. » E perché ha mandato questo Figlio del suo amore? « Per riscattare i Giudei dalla schiavitù della Legge, per portare alla giustizia le nazioni che non hanno seguito la giustizia, e perché tutti ricevessero l’adozione a figli » (Conc. Trid. Sess. VI, c. 2). Riconoscete l’adozione come il frutto proprio e finale del grande mistero del Verbo Incarnato. Ecco come questa adozione divina, a differenza delle adozioni umane, poggi su una generazione misteriosa: « Così come – ci dice il Concilio – gli uomini devono nascere da Adamo peccatore per nascere nel peccato… così essi devono rinascere in Gesù Cristo per essere giustificati: perché in questa rinascita la grazia che li giustifica è data loro dal merito di Gesù Cristo. » (Ibid. c. 3). Quindi la giustificazione dell’empio deve essere intesa « come un passaggio dallo stato in cui l’uomo è nato figlio del primo Adamo, allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio da parte del Secondo Adamo: Gesù Cristo, nostro Salvatore. E questo passaggio, il Vangelo una volta promulgato, non può essere fatto senza il sacro bagno della rigenerazione o il voto di questo stesso bagno, secondo quanto è scritto: “Chi non è nato di nuovo da acqua e da Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio” » (Conc. Trid. Sess., c. 4): – Ma questa mistica sposa di Gesù Cristo, la Madre secondo lo spirito dei figli di Dio, non ha aspettato questi ultimi tempi per spiegare loro il mistero della loro origine. Niente è così istruttivo e spesso così delizioso come le formule o i Simboli che, fin dai primi giorni della sua esistenza, Essa era solita  impiegare per questo scopo. Il Battesimo l’ha chiamato rigenerazione; i battezzati, qualunque fosse la loro età, erano per Essa dei bambini, neonati, infantes, modo geniti infantes (1 Piet. II, 2): una qualifica che vediamo applicata anche a uomini di trenta-quarant’anni nelle iscrizioni cristiane (Mabillon, de Re diplom. Suppl. 15. Martigny. Antiq. chrét. Baptème III). In alcuni luoghi, si dà loro da mangiare, dopo il Battesimo, miele misto a latte, cioè un nutrimento adatto ai bambini. Essi prendono un nome nuovo, perché hanno appena ricevuto una nuova nascita, e talvolta questo nome esprime anche la rinascita spirituale che lo motiva. Da qui, per citare alcuni esempi, i nomi di Regenerato, Renato, Theosgonio, Vitale, Vivente, Zoe, e altri frequentemente ricordati dalle iscrizioni funerarie e dai nostri Martirologi. (Martigny. Ibid. Nomi di Cristiani, 2a classe.). Le istruzioni speciali date loro dal Vescovo sono i sermoni per i bambini “Ad Infantes” – Si sa che il pesce, nelle antiche rappresentazioni, simboleggiava Nostro Signore. I cimiteri cristiani della vecchia Roma, chiamati comunemente Catacombe, ci forniscono mille esempi. Cosa saranno i battezzati? Piccoli pesci, nati nelle acque del Battesimo per la virtù del Pesce divino (Ἱχθύς = iktus), Gesù Cristo Nostro Signore. « Noi – scrive Tertulliano – piccoli pesci, ad immagine del Pesce per eccellenza, Gesù Cristo, siamo nati nell’acqua. Nos piscicuculi, secundum ἲχθυν [=iktun] nostrum Jesum Christum, in aqua nascimur. » (Tert. De Baptismo, c. 1). Da qui i dipinti in cui vediamo il ministro del Battesimo gettare la sua lenza in mezzo all’acqua per tirare fuori un piccolo pesce; da qui le immagini di pesci, dipinte o scolpite, che decoravano gli antichi battisteri. Un dipinto recentemente scoperto nel cimitero di San Callisto offre una rappresentazione del Battesimo, dove troviamo la stessa idea. È un Sacerdote che versa acqua sulla testa di un bambino nudo i cui piedi sono bagnati dalla corrente di un fiume; un bambino non a causa della sua età, ma per il Sacramento della rigenerazione che sta ricevendo: perché nessuno ignora quanto fossero frequenti i Battesimi di adulti in questi primi giorni della nostra era. Devo ricordare di nuovo la fenice rappresentata sulle piscine? Per i nostri padri era l’emblema della resurrezione; ma in questo uso particolare simboleggiava la rinascita spirituale (Vedere per questo simbolo e i seguenti: Martigny, Dictionnaire des antiquités chrétiennes, alle parole: Battesimo, battistero, pesce, fenice, ecc.. Sappiamo che secondo la favola la fenice risorge dalle sue ceneri. Sappiamo anche perché il pesce sia diventato il simbolo di Gesù Cristo e per estensione del Cristiano. Il mistero dell’Eucaristia doveva rimanere nascosto agli occhi profani anche quando veniva riprodotto nei dipinti cristiani. Fin dall’inizio, i fedeli hanno fatto ricorso al simbolismo per esprimerlo velandolo. Il cibo eucaristico era rappresentato sotto la figura del pesce. Questo perché prendendo la prima lettera delle cinque parole greche che compongono la formula dogmatica: Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore,  Ἱησοῦς, Χριστός, Ξεοῦ, Υἰὸς Σωτήρ [= Iesoùs Kristos Tèoù Uios Soter], da cui si ottiene l’anagramma Ἱχθύς [= iktus], pesce. Se Cristo è il Pesce, cosa sarà il Cristiano, se non un piccolo pesce, pisciculus: tanto più che N.-S. aveva detto ai suoi Apostoli: Vi farò peccatori di uomini? – Cf. S. Agost. de Civit, L. XVIII, c. 25). Infine, ricorderò questi nomi di seno, di matrice, di “madre di adozione” (Dionys. Areop. de Eccl. Hierar, c. 2, § 7, P. Gr. 3, p. 396. Unda genitalis nelle inscrizioni), dati o all’acqua, o alle vasche battesimali, e lo Spirito Santo che aleggia su queste vasche e queste acque per renderle feconde, come rese feconde le onde nei primi giorni della terra, e, nella pienezza dei tempi, il grembo verginale di Maria, la Madre del Figlio di Dio per natura, Gesù Cristo nostro Signore? – Sarebbe impossibile ignorare le nostre ammirevoli preghiere liturgiche. Ascoltando le preghiere che la Santa Chiesa recita oggi, sentiremo la voce di tutti i secoli cristiani, di cui sono l’eco perpetua. Parlerò solo per la cronaca del Canone della Messa in cui i fedeli sono chiamati « la famiglia di Dio ». È l’Ufficio del Sabato Santo, giorno anticamente dedicato specialmente al Battesimo dei catecumeni, che ce ne offre la più bella testimonianza. « O Dio, Padre Supremo … che moltiplicate in tutto l’universo i figli della vostra promessa con l’infusione della grazia dell’adozione … donate ai vostri popoli la grazia di entrare degnamente nella vostra santa vocazione » (Missale Rom. Sab. sancto. Orat. Post 3° Profeta.) – « O Dio onnipotente ed eterno, riempite della vostra presenza i misteri della vostra grande pietà, e per ricreare i nuovi popoli che la fonte del Battesimo genera in voi, mandate il vostro Spirito di adozione » (ibid. Orat. ad benedict. Fontis). – « O  Dio, il cui Spirito fu portato sulle acque fin dai primi giorni del mondo, per inocularle in anticipo di una virtù santificante, gettate gli sguardi sulla vostra Chiesa e moltiplicate in essa le rinascite. Voi che la inondate dei torrenti della vostra grazia, e che per il rinnovo dei popoli aprite per tutto l’universo le fonti battesimali; vi preghiamo che, per ordine della vostra maestà, riceva dallo Spirito Santo la grazia del vostro unico Figlio. Che questo stesso Spirito fecondi per una segreta mescolanza della sua divinità, queste acque preparate per la rigenerazione degli uomini, in modo che una linea celeste concepita nella santità possa uscire dal seno immacolato della divina Fonte, come una creatura rinata e rinnovata; e che la grazia, loro madre, possa generare per una nuova infanzia coloro che distingue o il sesso nel corpo, o l’età nella durata » (Ibid. ad benedict. Fontis. Queste orazioni si trovano nel più antico Sacramentario. C’è in esso la fede di tutti i secoli). E più avanti nello stesso testo: « Che la virtù dello Spirito Santo scenda sulla pienezza di questa fonte, e riempia la sostanza intera di queste acque con una virtù che rigenera ….. Che ogni uomo che entra in questo misterioso Sacramento della rigenerazione rinasca bambino con la perfezione dell’innocenza. » – Queste magnifiche preghiere trovano una meravigliosa risposta in un’iscrizione incisa per ordine di Papa Sisto III nel Battistero di San Giovanni in Laterano, dove si conserva ancora oggi. « Qui la razza da consacrare per il cielo nasce da un Seme augusto; e lo Spirito Santo la genera dalle acque fecondate dalla sua virtù. In questa fonte la Chiesa, nostra madre, partorisce dal suo grembo verginale i figli che ha concepito sotto il Soffio di Dio. Sperate il regno dei cieli, o voi che siete rinati da quest’onda; perché la vita beata è per coloro che essa ha rigenerato. È una fonte di vita che, sgorgando dal fianco di Cristo, inonda tutto l’universo. Immergiti, quindi, o peccatore, in questo sacro torrente, per lasciare le tue sozzure; scendendo con la tua vitalità nativa, ne uscirai rinnovato. Tu che vuoi essere innocente, purificati in questo bagno, che sia il crimine del tuo primo padre o il tuo che pesa su di te. Non c’è più distanza tra i rigenerati: essi sono uno, per l’unità della Sorgente, l’unità dello sìSpirito, l’unità della fede. Che nessuno si disperi per il numero e la grandezza dei suoi crimini; sarà santo chiunque sia nato da quest’acqua. – Queste considerazioni bastano, se non erro, a mostrare quanto la nostra filiazione soprannaturale superi in verità quella che l’adozione comune può dare tra gli uomini: perché è una rigenerazione spirituale: una vera rinascita in Dio (Il grande pubblicista cristiano, L. Veuillot, racconta in una delle sue opere – Les Nattes, 1 ed, p. 201 e segg,. Quella che segue è una versione abbreviata di questo fatto. Un povero uomo aveva adottato per amore di Dio due orfani, un ragazzo affetto da idiozia, ed una ragazza afflitta da un gozzo che la rendeva impotente. Successe che il marito si ammalò gravemente. Anche l’idiota era disteso sul suo letto e si pensava che sarebbe morto. Improvvisamente si alzò e andò al letto del suo padre adottivo. « Padre mio – disse al suo benefattore – ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me. » – « Che cosa dici, Mattia », esclamò la sorella col gozzo, che, come tutti i presenti, fu colta da un profondo stupore nel sentire una parola umana provenire da una bocca che fino ad allora aveva emesso solo suoni inarticolati. « Oh – disse l’idiota, tornando al suo letto, dopo aver baciato la fronte di suo padre – io me ne torno, torno a casa mia. » Mentre diceva questo, salì di nuovo sul letto, mise le braccia sul petto, guardò il cielo e fece un sospiro … l’ultimo. Mattia era morto, o meglio era tornato alla casa del Padre che è nei cieli).

4. Ci sono altre espressioni, spesso ripetute nei nostri libri sacri, che ci dimostrano in modo ancora più eloquente quanto sia reale questa filiazione, quanto sia sublime la rinascita. È prima di tutto la parola creazione che usano per esprimere l’origine dei figli adottivi di Dio. In seguito, sarà facile per noi capire a quale punto preciso l’adozione divina si avvicini ad un’azione creativa. Ci basti, in questo momento, dimostrare con alcuni passi quanto enfaticamente gli Apostoli abbiano usato questa parola per caratterizzare l’opera della nostra adozione spirituale. Paolo dice: « Ritornate all’uomo nuovo, che è stato creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità » (Efesini II, 8-10). E ancora: « Siamo opera sua, creati in Cristo Gesù per opere buone…. (ibid. IV, 24). Questo è ciò che disse ai Cristiani di Efeso. Lo stesso linguaggio è stato usato in Galati: « In Cristo Gesù non ha alcun valore né la circoncisione né l’incirconcisione, ma una nuova creazione » (Gal. VI, 15). « Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; ciò che era vecchio è passato; ora tutto è nuovo » (2 Cor. V, 17). Nello stesso senso, San Giacomo scrive a sua volta: «Ci ha generato volontariamente, affinché fossimo qualche inizio del suo essere » (Giac. I, 18). – Un testo doppiamente notevole, poiché, mentre ci ricorda la nostra generazione dalla grazia, la collega all’idea della creazione. – Inoltre, anche se gli altri testi non menzionano la filiazione adottiva, ci rimandano ad essa mettendoci davanti agli occhi l’idea di rinnovamento: perché l’uomo rinnovato è l’uomo che è diventato di nuovo figlio di Dio, da figlio dell’ira che era dopo la caduta originale. Così, il Battesimo in cui nascono i figli di Dio, è chiamato il Sacramento del rinnovamento. – È ancora S. Paolo che ce lo insegna in un luogo dell’epistola agli Ebrei, troppo spesso usata per sostenere dottrine senza speranza. « È impossibile che coloro che siano stati una volta illuminati – cioè i battezzati – (Il battesimo è chiamato illuminazione nei monumenti più antichi, perché fa passare coloro che lo ricevono dalle tenebre alla luce di Cristo, e dà loro, come nuovo organo per conoscere le cose di Dio, la virtù della fede. Martigny, dizionario, alla parola Battesimo.), hanno gustato il dono perfetto, e sono stati resi partecipi dello Spirito Santo… e che essendo caduti, sono rinnovati dalla penitenza, crocifiggendo di nuovo in se stessi il Figlio di Dio rinnovando i propri obbrobri. » (Ebr. VI. 4-6); cioè, è impossibile ricevere dalla ripetizione del Battesimo quel perfetto rinnovamento di vita che esso produce nelle anime. – Perché? Perché siamo battezzati nella morte di Cristo; perché il Battesimo è per noi la rappresentazione vivente della morte e della sepoltura dell’Uomo-Dio, in virtù della quale moriamo al peccato e siamo come sepolti spiritualmente con Cristo per rinascere a una vita nuova. Ora c’è stata una sola morte e una sola sepoltura per Cristo. Così anche il rinnovamento battesimale è unico. Questo è il modo in cui è stato esposto il nostro testo da S. Agostino (August. Expos. in. Ep. ad Rom. n. 19), Sant’Ambrogio (de Pænit., L. II, c. 2, n. 10 e 12), San Giovanni Damasceno, San Giovanni Crisostomo, Sant’Epifanio e molti altri, e San Tommaso dopo di loro (S. Theol. III p. q. 66, a 9, ecc.).  – Lo stesso apostolo aveva espresso più brevemente questa idea di rinnovamento per mezzo del Battesimo, quando lo chiamò « il lavacro di rigenerazione e di rinnovamento dello Spirito Santo » (Tit. III, 5). Nei Padri, come nella Sacra Scrittura, queste stesse idee di rinnovamento e rigenerazione spirituale sono frequentemente combinate o con quella della creazione, o con altre idee equivalenti. Facciamo alcuni esempi! S. Agostino, nella sua esposizione del Salmo 103, arriva a questo versetto: “O Signore, quale magnificenza nelle tue opere, e qual saggezza in tutto ciò che hai fatto: la terra è piena della vostra creatura. Repléta est terra creatura tua. Così portava la versione allora in uso, invece dell’espressione “possessione tua” che si legge nel testo attuale. « O Cristo – esclama – la terra è piena della tua creatura. E come, cosa noi vediamo? Cosa c’è che il Padre non abbia creato attraverso il Figlio? Tutto ciò che cammina o striscia sulla terra, tutto ciò che nuota nelle acque, tutto ciò che vola nell’aria, tutto ciò che rotola nel cielo, in una parola, il mondo intero è la creatura di Dio. Ma voi mi chiedete cosa intenda qui il salmista con questa nuova creatura di cui l’Apostolo dice: Se uno è in Cristo, è una nuova creatura: ciò che era vecchio è passato; ecco, tutto è nuovo. Ora tutte le cose sono di Dio (II Cor. V, 17-18). La nuova creatura che è stata fatta sono tutti coloro che, credendo in Cristo, si sono spogliati dell’uomo vecchio e si sono rivestiti del nuovo (Efesini 22, 24). – Una pagina dopo il santo Dottore ritorna al suo testo: « La terra era piena della tua creatura. Con quale creatura, Signore, l’hai riempito? Gli alberi, gli animali, tutto il genere umano, è la creatura di Dio che riempie la terra. Lo vediamo, lo conosciamo, e in questa conoscenza e vista lodiamo e glorifichiamo la maestà divina; e né la nostra lode né la nostra ammirazione eguagliano quella che sale nei nostri cuori alle opere del nostro Dio. Ma c’è un’altra creatura che è ancora più degna della nostra attenzione: quella di cui l’Apostolo ha detto: “Se in Cristo c’è una nuova creatura, allora le cose vecchie sono passate e tutto è diventato nuovo”. Quali vecchie cose sono passate? Tra i popoli, l’idolatria; tra i Giudei, la servitù della Legge con i Sacrifici che profetizzavano il nuovo Sacrificio. Allora era la vetustà dell’uomo; è venuto Colui che doveva rinnovare la sua opera, che doveva fondere di nuovo il suo oro e coniare una moneta a sua immagine. E vediamo la terra piena di Cristiani che credono in Dio, Cristiani che, rifiutando sia le loro precedenti impurità che le loro pratiche idolatriche, si volgono dalle vane speranze del passato alla speranza della Nuova Era. Se questo non è ancora la piena realtà, è un possesso anticipato nella speranza, e con la speranza già cantiamo e diciamo: La terra è stata riempita dalla tua creatura » (S. Agost. Serm. 3 in Ps. 103, n. 26; serm. 4, n. 3). Vorremmo estendere questi estratti dei Padri. Ma è sufficiente per il momento riportare brevemente alcune espressioni comuni che prendiamo in prestito dall’Oriente. Per Gregorio di Nazianzo la rigenerazione è una nuova formazione dell’immagine cancellata dalla colpa originale, opera e come creazione tutta divina (S. Greg. Naz. Orat. 40 de Baptis, n, 3, n. 4. P. Gr. T. 46, p. 584); per Gregorio di Nissa, un ritocco che va fino alla profondità dell’essere, una metamorfosi della nostra condizione di creatura umana in uno stato divino, un rinnovamento di tutto l’uomo interiore (S. Greg. Nys. Orat. de Bapt. Christi. Pat. Gr., t. 46, p. 584); per San Cirillo, un rifacimento che trasforma la creatura e la innalza gloriosamente al di sopra della sua natura (San Cirillo, Aless. In Joan III, 6. P G. t, 73, p. 245). Le parole non riescono a rendere in tutta la loro energia i termini impiegati dai nostri dottori. Possiamo dire, senza volerne esagerare la portata, che questi termini non sono talvolta né meno espressivi né meno forti di quelli con cui esprimono o la formazione naturale dell’uomo, o anche il cambiamento operato nell’augusto Sacramento dell’Eucaristia, tanto profondo e reale appare il loro il rinnovamento. Bisognerebbe ascoltare S. Zenone di Verona, nelle sue Invitationes ad Fontem – Invit. 3° ad neophitos post baptisma 3. P. L. t. 11, p. 478).

LA GRAZIA E LA GLORIA (4)

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (8)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (8)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO TERZO

L’INABITAZIONE DELLA TRINITÀ

(II)

2) Cosa vana sarebbe voler chiedere a suor Elisabetta della Trinità una dottrina rigorosamente sistematica, da lei stessa compilata ordinandone gli elementi. Essa ha vissuto da contemplativa i più alti misteri della fede, e specialmente il dogma della inabitazione divina, senza mai pretendere di fare l’ufficio di dottore o di teologo, anzi, senza nemmeno supporre il valore e la missione universale da Dio riservata ai suoi scritti. Nelle sue note intime, essa stessa rimanda ad alcuni passi di san Giovanni della Croce che l’hanno particolarmente colpita, in cui il santo Dottore, nel suo Cantico spirituale, tratta della natura e degli effetti di questa misteriosa presenza divina. Vi si ritrova la classica dottrina della teologia cattolica vista in un’altissima luce contemplativa: Dio è sostanzialmente presente in tutti gli esseri con la sua potenza creatrice; a questa presenza comune, si aggiunge una presenza speciale, nelle anime dei giusti c negli spiriti beati, come oggetto di conoscenza e di amore nell’ordine soprannaturale. Suor Elisabetta della Trinità aveva meditato a lungo questi testi ed aveva attinto da san Giovanni della Croce gli elementi di una dottrina mistica su questa intima presenza di Dio nell’anima dei giusti, dottrina che costituisce una delle più tradizionali e più consolanti verità del Cristianesimo. La Chiesa ne ha sempre riconosciuto la sorgente nell’insegnamento così chiaro di Gesù: « Se alcuno mi ama e custodisce la mia parola, il Padre mio lo amerà; e noi verremo a lui e stabiliremo in lui la nostra dimora» (S. Giovanni, XIV-23). Il testo è chiaro. Il Figlio e il Padre, come pure lo Spirito Santo, che è Uno con Essi, abitano nell’anima fedele. Tutto il mistero della generazione del Verbo e della spirazione dell’Amore si compie silenziosamente nelle più intime profondità dell’anima. La nostra vita spirituale diviene una partecipazione continua alla vita della Trinità in noi. L’anima, divinizzata dalla grazia di adozione, viene elevata alla divina amicizia e introdotta nella famiglia della Trinità per vivervi come il Padre, come il Verbo, come l’Amore e insieme con Essi, della medesima luce e del medesimo amore, « consumata in Essi, nell’Unità » (S. Giovanni, XVTI-23.). – Gesù, nella sua preghiera sacerdotale, ci ha lasciato la descrizione di questa vita deiforme delle anime perfette, ammesse al consortium della vita trinitaria: « Padre santo, custodisci nel nome tuo quelli che Tu mi hai dati, affinché siano Uno con noi… Che tutti siano una cosa sola, e come Tu, o Padre, sei in Me ed Io in Te, così anch’essi siano in noi… Siano Uno, come noi lo siamo: Io in loro e Tu in Me, affinché siano consumati nella unità… e l’amore col quale mi hai amato sia in essi, ed Io in loro» (S. Giovanni, XVII… 26). Dopo un discorso così esplicito del Maestro, che cosa vogliamo di più? Fra la Trinità santa e noi, non vi è, no, unità di natura — sarebbe panteismo —, ma unità per grazia, che ci associa, a titolo di figli adottivi, alla vita stessa del nostro Padre dei Cieli ad immagine del Figlio, in un medesimo Spirito d’amore. Senza la Trinità, l’anima è deserta; ma non lo è più quando, possedendo in sé le Persone divine, essa viene ad entrare « in società » (Epistola Giovanni, 3.) intima col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo mediante la fede e la carità. Le tre divine Persone sono lì, sostanzialmente presenti nell’anima del piccolo battezzato che, secondo l’espressione di san Paolo, è divenuto « tempio dello Spirito Santo ». Tutta la nostra vita spirituale, dal battesimo alla visione beatifica, si svolge come un’ascesa progressiva e sempre più rapida verso la Trinità; ma la visione beatifica e, più ancora, tutti gli stati mistici intermedi, anche quelli più elevati dell’unione trasformante, sono in germe nel Battesimo. – Non si riflette abbastanza sull’importanza primordiale di questa grazia del santo Battesimo alla quale siamo debitori di potere entrare, come figli adottivi, nella famiglia della Trinità. – Questa bella teologia dell’inabitazione divina è il substrato della dottrina spirituale e della vita mistica di suor Elisabetta, e ci permette di seguirla nelle più recondite pieghe dell’anima sua. Essa non ha bisogno, per comprenderla, di lunghe dissertazioni sul come sia possibile il mistero; per la via della sapienza infusa, in tutta semplicità ma con rara profondità di pensiero, suor Elisabetta aveva penetrato il senso della sua vocazione battesimale, aveva compreso che, fin da questa vita, era chiamata a vivere secondo la parola di san Giovanni a lei sì cara « in società » con la Trinità santa. Aveva anche composto per sua sorella, quasi come testamento, un intero ritiro per spiegarle come si può « trovare il paradiso sulla terra ». Quelle pagine, da lei scritte nelle ultime settimane di vita e consegnate a Margherita dopo la sua morte, costituiscono insieme all’intimo ritiro di Laudem gloriæ, quasi una piccola « Somma » della sua dottrina spirituale nella fase più evoluta. Ora, fin dalla sua prima orazione, suor Elisabetta, elevandosi all’altissima luce contemplativa della Preghiera sacerdotale di Cristo, considera il nostro soprannaturale destino secondo le parole stesse del suo Maestro che chiama le anime alla loro « consumazione nell’Unità » (S. Giovanni, XVII-23) della Trinità mediante la grazia. « Padre, io voglio che, dove sono io, anch’essi, quelli che Tu mi hai dati, siano meco, affinché contemplino la gloria che mi hai data, perché mi hai amato prima della creazione del mondo » (S. Giovanni, XVII-24). –  Questa è l’ultima volontà di Cristo, la sua preghiera suprema, prima di ritornare al Padre. Egli vuole che là dov’è Lui, ci siamo noi pure, non solo nell’eternità, ma già nel tempo che è l’eternità incominciata e in continuo progresso. È importante quindi sapere dove noi dobbiamo vivere con Lui, per realizzare il suo dono divino. Il luogo in cui si cela il Figlio di Dio è il seno del Padre, ossia l’Essenza divina, invisibile ad ogni sguardo mortale, inaccessibile ad ogni intelligenza umana, il che fa dire ad Isaia: « Tu sei veramente un Dio ascoso » (Isaia, XLV-15). E tuttavia, la sua volontà è che siamo fissati in Lui, che dimoriamo dove Egli dimora, in unità d’amore; che siamo, per così dire, la sua stessa ombra. « Col battesimo — dice san Paolo — noi siamo stati innestati in Gesù Cristo » (Romani, VI-5). E ancora: « Dio ci fece sedere nei cieli in Cristo Gesù, per mostrare ai secoli futuri le magnifiche ricchezze della sua grazia ». Poi soggiunse: « Voi non siete più pellegrini o stranieri; ma siete concittadini dei santi; siete della famiglia di Dio» (Efesini, II, 6, 7). « La Trinità! ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa paterna da cui non dobbiamo uscire mai » (« Il paradiso sulla terra »).

3) Il luogo di questo incontro dell’anima col suo Dio è nell’anima stessa, nel centro più profondo del suo essere. I mistici chiamano mens o vertice dell’anima questo luogo recondito e segreto delle divine operazioni, dove Dio solo penetra e può agire; invece suor Elisabetta della Trinità, accostandosi di preferenza alla terminologia di santa Teresa e di san Giovanni della Croce, lo designa come « il centro dell’anima », il suo centro più profondo. « Questo cielo, questa casa del nostro Padre, è nel centro dell’anima nostra; quando ci troviamo nel centro più profondo di noi stessi, allora siamo in Dio » (Alla sorella -, Agosto 1905). « Per trovarlo, non abbiamo bisogno di uscirne, perché il regno di Dio è « dentro di noi» (S. Luca, XVII-21). San Giovanni della Croce dice che proprio nella sostanza dell’anima, inaccessibile al demonio e al mondo, Dio le si dona; allora, tutti i moti dell’anima diventano divini, e quantunque siano di Dio, sono però anche suoi, perché in lei e con lei il Signore li produce. San Giovanni dice ancora che « Dio è il centro dell’anima »; dunque, quando essa conoscerà Dio perfettamente, secondo tutta la sua capacità, quando Lo amerà, e ne gioirà pienamente, allora sarà arrivata nel centro più profondo che possa raggiungere in Lui. È vero che l’anima, anche prima di essere giunta a questo punto già si trova in Dio che è suo centro; ma non è ancora nel suo centro« più intimo » potendosi inoltrare di più. Poiché l’amore unisce l’anima a Dio, quanto più intenso è questo amore, tanto più profondamente essa penetra in Dio e in Lui si concentra. Possedendo anche un sol grado di amore, l’anima è già nel suo centro; ma quando questo amore avrà raggiunto la sua perfezione, essa sarà penetrata nel suo centro « più profondo »; e lì, sarà trasformata a tal punto, da divenire molto simile a Dio. A quest’anima che vive « interiormente » si possono rivolgere le parole del Padre Lacordaire a santa Maria Maddalena: « Non chiedere più il Maestro a nessuno, sulla terra, a nessuno nel cielo; perché Egli è l’anima tua, e l’anima tua è Lui» (« Il paradiso sulla terra » – 3a orazione.).

4) Questa divina presenza, misteriosa e reale, resta inaccessibile ai sensi: « Dio è spirito » e chi si avvicina a Lui, deve farlo « in ispirito e in verità » (S. Giovanni, IV-24). Con cura particolare, suor Elisabetta insiste nel rilevare che la sensibilità, in tutto questo, non ha nulla a che fare. La brama di sentire Dio è proprio lo scoglio dei principianti, nella vita spirituale; ma anche le anime più progredite nella perfezione provano talvolta molta e penosa difficoltà a liberarsi da tale desiderio che persiste, celandosi sotto i pretesti più sottili. Suor Elisabetta della Trinità aveva imparato, con la propria esperienza, a diffidare della sensibilità, e il ricordo delle dure purificazioni che, per tutto l’anno del noviziato, erano state quasi il suo pane quotidiano, serbava l’anima sua attenta a non cercare che la pace di Dio, la quale « supera ogni sentimento » (Filippesi, IV-7.). Dopo le prime inebrianti gioie sensibili della presenza divina di cui il Padre Vallée le aveva dato piena certezza, Elisabetta dovette ben presto aggrapparsi alla sua fede per trovare Dio presente dentro di sé. « Non più un velo soltanto, ma un grosso muro me Lo nasconde. È cosa dura, non ti pare, dopo averlo sentito così vicino? Ma sono pronta a rimanere in questo stato per tutto il tempo che piacerà al mio Diletto lasciarmici, perché la fede mi dice che Egli è qui lo stesso; e allora, che cosa importano le dolcezze, le consolazioni? Esse non sono Lui; mentre Lui solo noi cerchiamo. Andiamo dunque a Lui nella fede pura» (Lettera a M. G… – 1901).

5) Per progredire sicuramente in « questa via magnifica della presenza di Dio» (Ultimo ritiro – 9° giorno), la fede è l’atto essenziale, il solo che ci consenta di accedere al Dio vivo, ma ascoso. « Per avvicinarsi a Dio, bisogna credere » Hebr., XI-6), ci dice san Paolo; e soggiunge: «la fede è sostanza delle cose che dobbiamo sperare e convinzione di quelle che non vediamo » (Hebr., XI-1). Cioè, la fede ci rende talmente certi e presenti i beni futuri che, per essa, prendono quasi essenza nell’anima nostra e vi sussistono prima che ci sia dato fruirne. San Giovanni della Croce dice che la fede « è per noi il piede che ci porta a Dio », che è « il possesso allo stato di oscurità ». – Soltanto la fede può darci lumi sicuri su Colui che amiamo, può versare a fiotti nel nostro cuore tutti i beni spirituali; e noi dobbiamo eleggerla come il mezzo per raggiungere l’unione beatifica. È la fede quella « sorgente d’acqua viva, zampillante fino alla vita eterna » che Gesù, parlando alla Samaritana, prometteva a tutti quelli che crederebbero in Lui. La fede, dunque, ci dona Iddio fino da questa vita; ce lo dona, è vero, celato nel velo di cui l’avvolge, ma pur sempre Lui, Lui realmente. « Quando verrà ciò che è perfetto » (ossia la chiara visione) « ciò che è imperfetto » (o, in altre parole, la conoscenza dataci dalla fede) « avrà fine » (I Corinti, XIII-10). « Sì, abbiamo conosciuto l’amore di Dio per noi, e vi abbiamo creduto » (I S. Giovanni, IV-16.). Questo è il grande atto della nostra fede, il modo di rendere al nostro Dio amore per amore; è il segreto di cui parla san Paolo, ascoso nel cuore del Padre, e che riusciamo finalmente a penetrare; e tutto l’essere nostro esulta. Quando l’anima sa credere a questo « eccessivo amore » che su lei si posa, si può dire di lei, come già di Mosè, che « è incrollabile nella sua fede, come se avesse visto l’Invisibile » (Hebr. Ebrei, XI-27). Non si arresta più al gusto, al sentimento; poco le importa sentire Dio o non sentirlo, avere da Lui la gioia o la sofferenza; essa crede al suo amore e basta. Quanto più è provata, altrettanto cresce la sua fede, perché, forte di tutti gli ostacoli superati, va a riposarsi nel seno dell’Amore infinito, il quale non può compiere che opera d’amore. A quest’anima, tutta desta nella sua fede, la voce del Maestro può dire nell’intimo la parola che rivolgeva un giorno a Maria Maddalena: « Va’ in pace; la tua fede ti ha salvata » (« Il paradiso sulla terra »). – Suor Elisabetta fu fedele sino alla fine nell’andare a Dio con la fede pura. « Una Carmelitana — diceva — è un’anima di fede ». E, anche dopo la grazia. Straordinaria ricevuta nell’ultima festa dell’Ascensione che passò sulla terra, quando le tre divine Persone le si manifestarono, con irresistibile evidenza, presenti nell’anima sua ove tenevano notte e giorno « il loro onnipotente Consiglio » (Formula con la quale esprimeva alla sua priora la grazia dell’Ascensione del 1906), anche allora suor Elisabetta, reclusa nella solitudine dell’infermeria, dovrà cercare il suo Dio mediante la fede. È la condizione assoluta di ogni vita divina sulla terra. « Io sono la piccola reclusa del buon Dio; e quando rientro nella mia cara celletta per continuarvi il colloquio già iniziato, mi sento invasa da una gioia divina. Amo tanto la solitudine con Lui solo, e conduco una piccola vita di eremita, veramente deliziosa; eppure è ben lungi dall’essere esente da dolorose impotenze; ho tanto bisogno anch’’io di cercare il mio Signore che sa nascondersi così bene! Ma allora, risveglio la mia fede, e sono più contenta di non gioire, io, della Sua presenza, perché gioisca Lui, invece, del mio amore» (Alla sorella – 15 luglio 1906). La sua vita religiosa fu la realizzazione delle parole sentite nell’intimo, mentre pregava in coro, la notte che precedette la sua professione: «…il cielo nella fede, con la sofferenza e l’immolazione per Colui che amo » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1903).

LA GRAZIA E LA GLORIA (2)

LA GRAZIA E LA GLORIA (2)

Del R. P. J-B. TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO PRIMO

IL FATTO E LA REALTÀ DELL’ADOZIONE DIVINA

CAPITOLO PRIMO

Il fatto dell’adozione divina; il suo rapporto con l’Incarnazione e con la filiazione naturale del Figlio unico di Dio.

1. – Non è solo un dogma di fede, ma una verità della ragione che la nostra condizione di creature ragionevoli ci obbliga con un dovere essenziale ad essere servi di Dio. Non è sovranamente giusto che l’opera appartenga al suo unico autore, e che la volontà limitata sia soggetta alla Volontà onnipotente che sola esiste? La fede va oltre: perché ci insegna che, in virtù della nostra discendenza e come membri della famiglia umana, siamo una razza degradata, figli dell’ira, natura filii iræ (Ephes. II, 31). Questa è la doppia condizione che la nostra natura e la nostra origine ci hanno dato. Cosa possiamo diventare per mezzo della misericordia divina ed il sangue di Gesù Cristo versato per noi? Figli di Dio per adozione! Chi ci assicura di questo? Dio stesso! E, certamente, non c’era bisogno di una testimonianza minore per convincerci di una verità così consolante, ma così incredibile per le piccole e miserabili creature che noi siamo. E così è: Dio ha voluto moltiplicare nelle Scritture le rassicurazioni esplicite che ci dà di tale gloriosa filiazione. Egli non ignorava che ci sarebbero stati uomini ciechi o ingrati che avrebbero detto di questa dottrina ciò che dissero i Cafarnaiti quando Gesù predicò loro la divina Eucaristia: « Questa parola è dura, e chi la può ascoltare … » (Joan., VI, 61). Tale è, infatti, la sfortunata condizione dell’uomo che si aggrappa alla bassezza, e il più delle volte ha aspirazioni solo per una falsa grandezza. Da qui sono venute queste ripetute negazioni di tutto l’ordine soprannaturale che si trovano in ogni pagina della storia del dogma cattolico, e di cui l’angelo ribelle ha dato il primo esempio. Questo è il motivo per cui noi dobbiamo, prima di ogni altra cosa, leggere e meditare quei passi dei nostri Libri santi in cui lo Spirito Santo, lo Spirito di Verità, ci ha rivelato nei termini più formali questi alti destini della nostra natura. Potremmo chiederci per quali ragioni il Figlio eterno del Padre porti il titolo di Primogenito, e vedremmo che una delle ragioni principali, a giudizio di San Paolo e dei Dottori (Rom. VIII, 29), è che Dio ha altri figli, e che questo frutto della fecondità del Padre ha dei fratelli. Non mi si dica che Gesù, sebbene sia l’unico della Vergine, sia anche chiamato il primogenito, perché questa unicità non mi impedisce di guardare la purissima Vergine Maria come vostra e mia Madre. Ma dobbiamo arrivare ad una testimonianza più decisiva. Vedete – scrive l’apostolo S. Giovanni (1 Gv. III, 2), – vedete quale amore il Padre ha avuto per noi per volerci chiamare figli di Dio, e lo siamo veramente. e che siamo davvero figli di Dio. Sì, miei cari, noi siamo già fin da ora figli di Dio. Ma quello che saremo un giorno non appare ancora. Sappiamo che quando verrà nella Sua gloria, saremo simili a Lui perché Lo vedremo come Egli è. E chi ha questa speranza in sé diventa santo, come Dio stesso è Santo. Noi l’abbiamo sentito: la nostra figliolanza divina è un nome, ma un nome che porta con sé la sua realtà. Questa grandezza è oggi coperta ai nostri occhi, ma un giorno, nello splendore del Figlio unigenito, apparirà come realmente è: la rappresentazione viva e fedele della sua stessa figliolanza. – San Paolo parla non meno chiaramente del discepolo prediletto: « Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, formato da una donna, soggetta alla legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione di figli. E poiché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori, gridando: “Abba, Padre“. Nessuno di voi è più schiavo, ma figlio; e se siete figli, siete eredi di Dio (Gal. IV, 4-7). » Ora quello che scriveva ai fedeli della Galazia, lo stesso Apostolo aveva scritto a quelli di Roma: « Quanti sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. Voi non avete ricevuto di nuovo (come i Giudei) lo spirito di schiavitù e di timore, ma avete ricevuto lo Spirito di adozione dei figli in cui si grida: “Padre, Padre”. Perché lo Spirito stesso testimonia al nostro spirito che siamo figli di Dio. Se dunque figli, anche eredi; eredi di Dio, coeredi con Gesù Cristo. Se tuttavia soffriamo con Lui, è per essere glorificati con Lui (Rom. VIII, 14-17; col. Ephes- I, 12, 44) » E questa filiazione, più autenticamente e splendidamente rivelata nella nuova legge, i profeti dell’Antico Testamento l’avevano intravista e salutata come una speranza in epoche lontane: testimonianza ne è questo oracolo di Osea: « E verrà il tempo in cui gli uomini sentiranno questa parola: voi non siete il mio popolo; essi saranno chiamati figli del Dio vivente (Os. I, 20). » Ma che bisogno c’è di interrogare ancora gli scrittori ispirati, quando abbiamo la parola del Figlio unico di Dio stesso? Ascoltiamolo: ci insegnerà a pregare come figli: “Padre nostro, che sei nei cieli” (Mt. VI, 11). Più tardi, apparendo a Maddalena, la incarica di annunciare la Sua resurrezione. Va’ – le ordina – va’ a dire ai miei fratelli: “Salgo al Padre mio e Padre vostro” (Gv. XX, 17). Avere Dio per padre e Gesù Cristo per fratello, non è questo essere figlio di Dio? Tuttavia, le ultime parole del Salvatore ci fanno già capire che la nostra filiazione, pur essendo simile alla Sua, non è uguale ad essa. « Io salgo – dice – al Padre mio e Padre vostro ». Non dice: al Padre nostro. È perché la filiazione nostra è filiazione al di sotto della filiazione del Verbo di Dio. – Questa è la dottrina delle nostre Sacre Lettere. Dio ha un solo Figlio secondo natura; ed è perciò che questo Figlio è chiamato il Figlio unico di Dio, il Figlio proprio di Dio, il vero Figlio nella pienezza del termine; Dio da Dio, luce da luce, splendore infinito della gloria paterna; generato da tutta l’eternità, perché da tutta l’eternità il Padre gli comunica con un atto ineffabile la sua propria e semplicissima essenza, senza divisione o moltiplicazione. – Ed ecco perché il Figlio può dire al Padre: «Tutto ciò che è mio è tuo; e tutto ciò che è tuo è mio » (Gv. XVI, 15; Col. VII, 16). Tutto è comune, tutto è identico, sostanza, natura, perfezione, operazione; tutto, tranne la distinzione delle Persone. – Quale creatura, per quanto perfetta, potrebbe senza follia tenere un tale linguaggio? Lungi da noi quell’empietà sacrilega che condivideva l’essenza divina e forgiava gli dei dagli dei con una comunicazione di natura analoga a quella che avviene nelle generazioni umane. Lungi da noi anche quel sogno dei falsi mistici per i quali la produzione di figli di Dio consisteva in non so quale flusso della sostanza del giusto nella sostanza di Dio per essere trasformato in essa, come il pane è cambiato nel corpo di Gesù Cristo (“Nos transformamur totaliter in Deum et convertimur in simil modo sicut panis convertitur in corpus Christi, sic ego convertor in eum…” è la n. 10 tra le proposizioni di Ekard condannate da Giovanni XXII -1329 -. Vedi anche gli articoli seguenti). La nostra filiazione non è dunque una filiazione naturale. Trovo nelle Sacre Scritture una filiazione molto diversa. « Chi è il padre della pioggia e chi ha generato le gocce di rugiada? » chiede il Signore al santo patriarca Giobbe (Giobbe XXXVIII, 8). E altrove, Mosè, rivolgendo i suoi rimproveri al popolo d’Israele: « Non è – egli dice – vostro Padre che vi ha posseduto, che vi ha fatto, che vi ha creato (Deuter. XXXII, 6)? » Filiazione basata sulla somiglianza naturale delle creature a Dio, il loro primo principio: tanto più elevato, tanto più perfetto, quanto maggiore è la somiglianza, e quanto più brillantemente le perfezioni dell’Operatore divino risplendono nelle perfezioni della sua opera (S. Thom. 1 p., q. 33, a. 1). – Né è questa la figliolanza che ci è promessa e che ci è data. Perché per quanto alte e sublimi possano essere le perfezioni ricevute da Dio, l’Autore della natura spirituale, la creatura che le possiede può ancora sentirsi dire, a sua eterna disgrazia: «Voi non siete nel numero dei miei figli; ritiratevi, non vi conosco. » – Cos’è dunque questa filiazione che è adatta solo alle creature ragionevoli e, tra gli esseri intelligenti, solo ai giusti, gli amici di Dio? Ancora una volta, è una filiazione basata non sull’atto della generazione naturale, non sull’operazione creativa degli esseri, ma su un’adozione di grazia: questa è la figliolanza che San Paolo ci ha già nominato con il suo stesso nome e che ricorda costantemente ai fedeli: « Sia benedetto Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetto con ogni benedizione spirituale per i cieli in Cristo. Come Egli ci ha scelti in Lui prima della costituzione del mondo, affinché fossimo santi e immacolati al suo cospetto nell’amore; Egli ci ha predestinati ad essere figli adottivi per mezzo di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà (Ef. I, 3-5). » – Figli di Dio per grazia e per adozione, questo è il nostro titolo e la nostra gloria, se rimaniamo fedeli al Dio che ci ha scelti.

2. – Il testo appena riportato ci invita a risalire alla Fonte da cui ci è giunto questo incomparabile beneficio della nostra adozione. È dall’Incarnazione dell’unico Figlio di Dio e, per innalzarci ancora più in alto, dal libero e beneplacito volere del Padre. Meditiamo su queste due verità alla luce dei nostri Libri Santi e degli scritti dei Padri. Se c’è una cosa chiaramente stabilita nei sacri monumenti della nostra fede, è che l’Incarnazione fu fatta in vista della nostra filiazione adottiva. S. Giovanni lo afferma all’inizio del suo Vangelo. Dopo aver magnificamente descritto gli eterni splendori del Verbo: « Venne tra i suoi – dice – e i suoi non lo ricevettero. Ma a tutti quelli che l’hanno accolto, ha dato il potere di essere fatti figli di Dio, a quelli che credono nel suo Nome; i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio (Gv. I, 11-13). » L’insegnamento di San Paolo risponde a quello del discepolo amato. Abbiamo già sentito da Lui: « Dio, nella pienezza del tempo, mandò il suo Figlio, progenie di donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione di figli (Gal. IV, 4-5) ». Questo è dunque il motivo per cui il Verbo si è fatto carne, e il grande bene che è venuto dal cielo a portare alla razza umana decaduta: l’adozione dei figli. Ecco perché è nato, perché ha sofferto, perché è morto su una croce. – I Padri non si stancano di ritornare su questo pensiero apostolico e divino. Sarebbe impossibile trascrivere qui tutto quello che essi dicono. Accontentiamoci di qualche testimonianza tra mille altre. « Perché – chiede San Bernardo – il Figlio di Dio si è fatto uomo, se non per fare degli uomini tanti figli di Dio (Serm. 1, De Nativ., 15)? » S. Agostino aveva già detto quasi negli stessi termini: « Il Figlio di Dio, il suo Unico generato secondo natura, per una meravigliosa condiscendenza si è fatto Figlio dell’uomo, affinché noi, che siamo figli dell’uomo per natura, potessimo diventare figli di Dio per grazia sua » (S. Agostino de Civit. Dei. 1. XXI, c.15). E ancora: « Vediamo un gran numero di uomini avere figli per adozione: ma ciò che li spinge a farlo è la necessità di supplire per libera scelta al difetto di natura che ha negato loro i figli. Se hanno un figlio unico, si guardano bene dal cercargli compagni che dividano con lui l’eredità e lo impoveriscano di conseguenza. Così fanno gli uomini; ma non così il nostro grande Dio. Colui attraverso il quale ha prodotto ogni creatura, l’ha mandato in questo mondo, volendo che non rimanesse solo, ma che avesse dei fratelli per adozione (S. Aug. Tr. II in Joan. I) ». – I Padri greci fanno eco a quelli della Chiesa latina, come attesta Ireneo, il grande dottore venuto dall’Oriente per illuminare i Galli: « Se il Verbo si fece carne, e il Figlio eterno del Dio vivente si fece Figlio dell’uomo, fu perché l’uomo, entrando in società con il Verbo e ricevendo l’adozione, diventasse figlio di Dio  (S. Iren. c. Hæres. L. III, c. 49, n. 1. Patrol. Græc. – ed. Migne) ». Mi appello di nuovo a San Giovanni Crisostomo. Egli spiegava al suo popolo il capitolo di San Matteo che riporta la genealogia di Nostro Signore. Improvvisamente esclama con eloquente trasporto: « Non è cosa che dovrebbe gettarci nello stupore il vedere il Dio ineffabile, impronunciabile, incomprensibile, uguale in tutto e per tutto a suo Padre, nato nel grembo di una vergine e che conta Abramo e Davide tra i suoi antenati? Che dico, Abramo e Davide? Anche le donne colpevoli di cui ho parlato prima. Al contrario, sii pieno di ammirazione senza limiti quando vedi il vero Figlio dell’eterno Dio degnarsi di chiamarsi Figlio di Davide, per renderti figlio di Dio; riconoscere come padre un servo, uno schiavo, in modo che tu stesso, schiavo e servo, possa veramente chiamare Dio tuo Padre. Vedete ora cosa sono i Vangeli? Avete qualche dubbio sull’incomparabile onore che vi promettono? Bene allora! Lasciate che gli abbassamenti del Figlio di Dio vi insegnino a credere nella vostra elevazione. – In effetti, agli occhi della mente umana è più difficile fare di un Dio un uomo che di un uomo un figlio di Dio. Quando, dunque, sentirete dire che il Figlio di Dio è il figlio di Davide e di Abramo, non dubitare che voi, figli di Adamo, possiate diventare figli di Dio. Perché se Dio si è umiliato fino a questo eccesso, non è stato per un nulla, ma per elevarci alle più sublimi altezze. Egli è nato secondo la carne, perché tu rinasca secondo lo spirito; è nato da una donna, perché tu non sia più figlio della donna. – Ecco quindi due generazioni, una che assomiglia alla nostra, l’altra che la supera infinitamente. Nascere da donna è ciò che ci è proprio; nascere non da sangue, non dalla volontà dell’uomo e della carne, ma da Dio, è la generazione suprema che ci aspettiamo dallo Spirito (S. J. Chrysost. in Matt., hom. 2, n. 2 Pat. G. t. 57, p. 26) ». – San Cirillo di Alessandria sviluppa la stessa dottrina con una varietà sorprendente, specialmente nei suoi commenti sul Vangelo di San Giovanni. Citiamo per esempio quello che ha scritto su questo testo dell’Apostolo: « Egli ha dato loro il potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo Nome (Gv. I, 12) ». – « Il Figlio di Dio è venuto per dare loro il potere di essere per grazia ciò che Egli è per natura, e per rendere comune ciò che è suo: tanto è grande la sua bontà verso gli uomini, tanto è grande la sua carità verso il mondo. Era impossibile per noi, che portiamo l’immagine dell’uomo terreno, sfuggire alla corruzione, se non potessimo ricevere impressa nelle nostre anime la bellezza dell’immagine celeste; cioè, se non fossimo chiamati all’adozione dei figli di Dio. Essendo diventati partecipi del Figlio unigenito per mezzo dello Spirito Santo, abbiamo ricevuto il sigillo della sua somiglianza, conformandoci così a quell’immagine divina in cui, come attestano le Scritture, siamo stati fatti. È così che, recuperando l’antica bellezza della nostra natura, e riformati sulla natura stessa di Dio, sfuggiremo ai mali causati dalla prevaricazione originale. Così, dunque, ci innalziamo alla dignità soprannaturale – « Eppure non è stata rimossa ogni differenza tra noi e Lui. Perché se diventiamo figli di Dio, è a sua somiglianza, in virtù della grazia che ci rende a sua immagine. Egli è il vero Figlio che procede eternamente dal Padre, e noi siamo solo figli di adozione, ammessi per privilegio e senza merito a questo onore incomparabile. Io l’ho detto: Voi siete dei e figli dell’Altissimo (Sal. LXXXI, 6). Perché la natura creata, e di conseguenza lo schiavo, è chiamato ai beni soprannaturali solo dal beneplacito e dalla volontà del Padre. Il Figlio, al contrario, Dio e Signore, non è né Dio né Signore per questo beneplacito e questo libero volere; Splendore scaturente dalla sostanza del Padre, ne possiede tutta la perfezione in virtù della sua stessa natura. È confrontandolo con noi che lo conosciamo come il vero Figlio. Perché altro è ciò che si basa sulla natura, altro ciò che viene dall’adozione; altro limite, altra verità. Siamo figli di Dio per adozione e per imitazione; Egli lo è per natura e secondo la pienezza della verità. Così rimane l’opposizione: da una parte la dignità naturale, dall’altra il favore e la grazia. » – Il santo dottore, continuando il suo commento, passa al tredicesimo versetto dello stesso capitolo, dove si legge: « Che non sono nati dal sangue, né dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio », e su queste parole Continua: « Quelli – dice l’Evangelista – che per mezzo della fede in Gesù Cristo sono stati chiamati all’adozione dei figli di Dio, mettono da parte l’umiltà della propria natura e, rivestiti pienamente della grazia di Dio come di una veste di luce ineffabile, si elevano ad una dignità soprannaturale. Perché non saranno più considerati come figli della carne, ma piuttosto come la stirpe adottata da Dio. Osservate, tuttavia, la prudenza dell’Evangelista. Stava per dire che i fedeli erano nati da Dio: temendo che il lettore fraintendesse queste parole e giungesse a credere o che essi fossero della sostanza di Dio Padre, come l’Unico, o che questo Unico fosse egli stesso impropriamente generato dal Padre, e quindi creato come loro, prende precauzioni contro un’interpretazione così pericolosa. E come, vi chiederete? In due modi: essi hanno ricevuto – dice – il potere di diventare figli di Dio, e l’hanno ricevuto dal Figlio: per cui è evidente che essi sono nati da Dio per adozione e per grazia, e che Egli è il Figlio per natura » (S. Cirillo Alex., L. I in Joan. P. Gr, vol. 73, p. 153 ss).

3. – Avevo intenzione di fermarmi a quest’ultimo testo: ma è impossibile per me non tornare ancora a Sant’Agostino per sentire da lui come siamo adottati e perché la nostra filiazione sia un’opera della grazia. Volendo far luce sulla nostra rinascita spirituale, la grazia del Nuovo Testamento, come la chiama lui, il grande Dottore ci rimanda al testo di San Giovanni: « A tutti quelli che lo hanno ricevuto, ha dato il potere di diventare figli di Dio. » (Gv. I, 12-13). « Questa – dice – è la grazia della nuova Alleanza, che era latente nella vecchia Alleanza, senza che Dio cessasse di annunciarla in profezie e figure, affinché sotto il velo l’anima possa conoscere Dio e rinascere a Lui per mezzo della sua grazia. È una nascita spirituale: quindi non è del sangue, né della volontà dell’uomo, né della volontà della carne, ma da Dio. Si chiama anche adozione, perché prima di essere figli di Dio eravamo già qualcosa, ed è per un grande beneficio che siamo diventati ciò che non eravamo. Così il figlio adottivo non era ancora, prima dell’adozione, un figlio del padre che lo avrebbe adottato; ma esisteva già come soggetto dell’adozione. – A questa generazione secondo la grazia non appartiene Colui che, essendo il Figlio di Dio per natura, è venuto a farsi Figlio dell’uomo e a dare a coloro che sono figli degli uomini per natura, di essere figli di Dio. È diventato ciò che non era, ma prima di diventarlo, era qualcosa; che cosa allora? il Verbo di Dio per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte, la vera luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, Dio da Dio e Dio in Dio. E anche noi, per la sua grazia, siamo diventati ciò che non eravamo, cioè figli di Dio; eppure eravamo qualcosa di infinitamente più umile, voglio dire: figli degli uomini. La sua discesa, dunque, è la nostra ascesa: rimanendo nella sua natura, Egli si è fatto partecipe della nostra, affinché, rimanendo nella nostra natura, partecipassimo alla sua. Ma le condizioni non sono uguali: perché la partecipazione della nostra natura non l’ha degradato, mentre partecipando alla sua natura siamo ottimamente nobilitati… – « E perché non osassimo aspirare a questo eccesso di onore, l’Apostolo, dopo averci parlato di questa meravigliosa rinascita, aggiunge: E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; come se dicesse: Uomini, non temete di non poter diventare figli di Dio, perché il Figlio stesso di Dio, il Verbo di Dio, si è fatto carne per essere come uno di voi. Quindi fate lo stesso per Lui. Diventate a vostra volta spirituali in Colui che, divenuto carne, è disposto ad abitare in voi. No, l’uomo non deve disperare di non essere giammai figlio di Dio attraverso la partecipazione del Verbo, quando il Figlio di Dio stesso è diventato figlio dell’uomo attraverso la partecipazione della nostra carne » (S. August., ep. ad Honorat., 140, n. 9-11).  Questo, dunque, è il fine immediato dell’unione del Figlio eterno con la nostra natura: fare dell’uomo un figlio adottivo di Dio. Non si obietti che la Sacra Scrittura e la Tradizione cattolica assegnino spesso a questa unione tre scopi: lo scopo della riparazione, lo scopo della liberazione, lo scopo della riconciliazione per l’uomo colpevole e decaduto: perché tutte queste cose si riferiscono naturalmente alla filiazione che ci viene restituita da Cristo Redentore. Non dimentichiamo il mistero della nostra prima origine, né la disgrazia della nostra caduta. In quella caduta siamo usciti dalle mani di Dio, splendenti della gloria dei figli di Dio; in quella caduta siamo stati spogliati delle nostre prerogative e ridotti alla miserabile condizione di figli dell’ira. Per elevarci, per ristabilire la nostra dignità così tristemente e totalmente perduta, dovevamo soddisfare alla giustizia divina, riscattare il colpevole e guadagnare l’amicizia di Dio. Solo a questa condizione Dio ci ha ricevuto in grazia e ci ha riaperto il suo seno paterno. Né si obietti che il fine ultimo del grande mistero del Verbo incarnato è la manifestazione della gloria di Dio attraverso il prodigio della sapienza, della giustizia, della potenza e della bontà che Egli offre all’ammirazione degli Angeli e degli uomini. È vero che queste perfezioni divine brillano di un bagliore incomparabile – cieco chi non lo veda; stolto che lo neghi – ma è piaciuto al nostro grande Dio di collegare questa manifestazione della sua gloria indissolubilmente con la salvezza della nostra natura; e la salvezza di questa natura non sarà più la natura di uno schiavo e di un essere degradato, ma quella di un figlio di Dio. Infine, non si neghi che il frutto supremo dell’incarnazione per gli uomini redenti debba essere il pieno possesso di Dio nella beatitudine eterna, poiché questa pienezza di gloria e di gioia non è che l’ultima perfezione ed il compimento completo dei figli di adozione. – Quanto grande, dunque, quanto ammirevole è questa grazia della filiazione divina, poiché il Figlio eterno del Padre non ha creduto di poter pagare un prezzo troppo alto per essa con il suo annientamento e lo spargimento del suo sangue immacolato!

(Ecco due testi del Papa S. Leone Magno che riportano felicemente alle idee espresse in questo primo capitolo: « Dum Salvatoris nostri adoramus ortum invenimur nos nostrum celebrare principium. Generatio enim Christi origo est populi christiani. Habeant licet singuli quique vocatorum ordinem suum, et omnes Ecclesiae filii temporum sint successione distincti, universa tamen summa fidelium, fonte orta baptismatis, sicut cum Christo in passione crucifixi, in resurrectione resuscitati, in ascensione ad dexteram Patris collocati, ita cum ipso sunt in nativitate congeniti. Quisquis enim hominum in quacumque mundi parte credentium regeneratus in Christo, interciso originalis tramite vetustatis, transit in novum hominem renascendo, nec jam, in propagine habetur carnalis partis, sed in germine Salvatoris, qui ideo Filius hominis est factus, ut nos filii Dei esse possimus ». Serm. in Nat. Dom. 6. P. L. t. 54, p. 243. Ed ancora:

« Quamvis enim ex una eademqu  e pietate sit quidquid creaturae Creator impendit, minus tamen mirum est homines ad divina proficere, quam Deum ad humana descendere », Serm. in Nat. D. 4, c. 2, Ibid., p. 204).

LA GRAZIA E LA GLORIA (3)

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (7)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (7)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed.Brescia, 1957.

CAPITOLO TERZO

L’INABITAZIONE DELLA TRINITÀ

(I)

« La mia occupazione continua è rientrare “nell’intimo”e perdermi in Coloro che sono qui ».

1) La santa della divina inabitazione — 2 La sua dottrina dell’inabitazione divina — 3) Il luogo di questa presenza: il centro più profondo dell’anima — 4) Suoi atti essenziali: l’attività della fede; l’esercizio dell’amore. – 5) Nella fede pura — 6) Primato dell’amore. — 7) La Pratica: fare atti di raccoglimento – 8) Piccolo catechismo della Presenza di Dio — 9) Progresso nella presenza di Dio —10) I due principali effetti di questa presenza: l’oblìo di sé e l’unione trasformante — 11) Ah! se potessi dire a tutte le anime!

Il silenzio non è che una condizione della vita vera. Col mistero del l’inabitazione della Trinità, ci troviamo al punto centrico della dottrina e della vita di suor Elisabetta, che è veramente la santa dell’inabitazione divina. Ed anche in questo, ella fu carmelitana. Se c’è una Verità cara alla dottrina mistica del Carmelo, è proprio questo mistero e questa certezza; che Dio è presente in noi e che, per trovarlo, bisogna rientrare « nell’intimo », in questo nostro regno interiore, Tutta la vita spirituale sì riassume qui. – Nel suo « Cammino di perfezione », commentando il Pater, santa Teresa nota, con profonda osservazione, che Dio non è soltanto in cielo, « ma nell’intimo dell’anima nostra» e lì bisogna sapersi raccogliere per cercarlo e scoprirvelo. Nel « Castello interiore », questa presenza della Trinità santa segna il punto culminante della sua mistica; le anime giunte all’unione trasformante vivono abitualmente in unione alle Persone divine, e trovano, in questa « Società Trinitaria », le gioie più beatificanti della terra. Anche san Giovanni della Croce ne fa il punto di convergenza di tutta la sua teologia mistica, specialmente degli stati spirituali più elevati. Egli diceva spesso per devozione la Messa votiva della santissima Trinità; e, durante la celebrazione del santo Sacrificio, l’anima sua, irresistibilmente rapita da questo mistero, con difficoltà si sottraeva all’estasi. La tradizione del Carmelo è rimasta fedele all’insegnamento di questi due grandi Maestri spirituali; e non è raro incontrare nei chiostri teresiani delle anime la cui vita di silenzio è tutta orientata verso il mistero trinitario. La stessa santa Teresa di Gesù Bambino non si offrì vittima all’Amore proprio il giorno della festa della Trinità? E la sua offerta all’Amore misericordioso fa parte di una preghiera essenzialmente trinitaria: « O mio Dio, Trinità beata, al fine di vivere in un atto di amore perfetto, mi offro al tuo Amore misericordioso come vittima di olocausto » (Storia di un’anima.). – Bisogna però riconoscere che suor Elisabetta della Trinità ricevette una grazia tutta speciale per vivere di questo mistero. Dio, che la predestinava alla missione di ricondurre le anime nel profondo di se stesse per prendervi coscienza delle divine ricchezze del loro Battesimo, fece di lei, veramente, la santa dell’inabitazione della Trinità.

1) Nella prima pagina del suo taccuino di fanciulla, aveva trascritto in carattere diverso questo pensiero di santa Teresa: « Bisogna che tu mi cerchi in te » (Santa Teresa a Monsignor Alvaro di Mendoz). Verso l’età di 19 anni, ella si sentiva « inabitata ». E spesso ripeteva ad un’amica: « Mi sembra che Egli sia qui », e faceva il gesto di stringerlo fra le braccia, di premerlo sul suo cuore. « Quando vedrò il mio Confessore domanderò che cos’è mai quello che accade in me ». Da allora, rassicurata sulla verità di questo mistero di fede, si seppellì senza timore nelle profondità di se stessa, per cercarvi i suoi « Tre ». – Le testimonianze di questo periodo non ci lasciano alcun dubbio che Elisabetta, prima ancora della sua entrata in chiostro, non fosse già « presa » dal mistero della divina inabitazione, e in un grado non comune. Era il tema delle sue confidenze intime: «La Trinità era il suo Tutto » (Testimonianza di un’amica). All’inizio di questa rivelazione subitanea che illuminò tutta la sua vita, ella non poteva tacerne. Qualche mese più tardi, non ne parlava quasi più; ma piuttosto si sentiva che era « presa » dalla Trinità. Questa espressione di un testimonio dice molto bene la passività dell’anima sua sotto l’azione dello Spirito Santo, dopo le prime grazie mistiche del ritiro del 1899. « Perdiamoci in questa Trinità santa, in questo Dio tutto amore. Lasciamoci trasportare in quelle regioni superne in cui non c’è più che Lui, Lui solo! » (Lettera a M. G… . 1901). « Dio in me, io in Lui, sia il nostro motto. Come è bella questa presenza di Dio in noi, nell’intimo santuario delle anime nostre! Qui noi Lo troviamo sempre, anche quando il sentimento non avverte più la sua presenza. Ma Egli è qui lo stesso; è qui, mi piace tanto cercarlo. Oh, non lasciamolo mai solo! Sia, la nostra vita un’orazione continua. Chi mai potrebbe rapircelo? Chi potrebbe anche solo distrarci da Colui che ci ha prese interamente, che ci fa tutte sue? » (Lettera a M. G. 1901). – Suor Elisabetta, dunque, ha già trovato la formula della sua vita; e otto giorni dopo la sua entrata in Convento, non farà che trascriverla, nel formulario che le si chiederà di riempire. — Qual è il vostro motto? — Dio in me; io in Lui. Al Carmelo, questa vita alla presenza di Dio è considerata come un’eredità sacra che si fa risalire al Patriarca Elia: « Io sto sempre alla presenza di Jahveh, il Dio vivo » (III Re, XVII, 1). È l’essenza stessa del Carmelo. Tutti gli spogliamenti, tutti i silenzi, tutte le purificazioni non hanno che uno scopo: serbare l’anima libera di applicare tutte le sue potenze a questa continua presenza di Dio. Suor Elisabetta, dunque, trovò su questo punto tutta una dottrina spirituale divenuta familiarissima nell’ambiente in cui doveva vivere. E fu, per la sua vita interiore, l’inizio di una fioritura stupenda. Fin allora, Elisabetta era stata una fanciulla tutta pura, molto pia, alla quale il Signore, in premio della sua fedeltà eroica, aveva elargito qualche tocco mistico; ma le mancava ancora una dottrina ed una formazione spirituale. L’incontro col Padre Vallée aveva stabilito con tutta certezza l’anima sua nella luce intravista; la lettura assidua di san Giovanni della Croce le dette una dottrina; l’ambiente religioso fece il resto. – Ella stessa, studiando il suo nuovo maestro spirituale, ne segnava con cura i punti che trattano della natura e degli effetti di questa misteriosa ma reale e sostanziale presenza della Trinità santa nell’anima. E, per una grazia tutta singolare, seppe trovare, in questa presenza delle tre divine Persone nel profondo dell’anima sua, « il suo cielo in terra », il segreto della sua santità eroica. – E, anzitutto, il suo nome trinitario la rapiva. « Non vi ho detto ancora il mio nome al Carmelo? Maria Elisabetta della Trinità. Sento che questo nome racchiude una vocazione particolare. Non è vero che è molto bello? Io amo tanto questo mistero della santissima Trinità; è un abisso nel quale mi perdo » (Lettera al Canonico A… – 14 giugno 1901.). – « Io sono Elisabetta della Trinità, cioè Elisabetta che scompare, che si perde, che si lascia invadere dai Tre” » (Lettera:-a-G. de G. 20 agosto 1903). Fu la parola d’ordine della sua vita di Carmelitana. « La mia occupazione continua è rientrare nell’intimo e perdermi in Coloro che vi abitano… Lo sento così vivo nell’anima mia, che basta io mi raccolga per trovarlo qui, dentro di me. Ed è tutta la mia felicità » (Lettera al Canonico A… – 15 luglio 1903). « Viviamo con Dio come con un amico. Rendiamo tutta viva la nostra fede, per unirci a Lui attraverso tutte le cose. È ciò che fa i santi. Noi portiamo il nostro cielo in noi; poiché Colui che sazia i beati nella luce dell’eterna visione, a noi si dona nella fede e nel mistero. Ma è sempre Lui. Io ho trovato sulla terra il mio cielo; perché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia. Il giorno in cui l’ho compreso, tutto per me si è illuminato; vorrei svelare questo segreto a tutti quelli che amo, perché anch’essi aderiscano sempre a Dio, e si realizzi, così, la preghiera di Cristo: « Padre, che essi siano consumati nella unità » (Lettera alla signora De S… – 1902). Per quel fenomeno di accentramento familiare a tutte le anime dominate da una grande idea, suor Elisabetta riconduce tutto al pensiero che regna in lei, sovrano. Le feste liturgiche apparentemente meno collegate al mistero trinitario di cui essa vive nel profondo dell’anima, vi si riallacciano per una trasposizione che le viene naturalissima. Il Natale ce ne dà un esempio caratteristico. « Il Natale al Carmelo!… È veramente singolare. La sera, mi sono messa in coro, e là ho trascorso la mia veglia, insieme alla Vergine santa, nell’attesa del piccolo Dio che questa volta sarebbe nato, non più nel presepio, ma nell’anima mia, nelle nostre anime, perché Egli è Emmanuele, il « Dio con noi» (Lettera alla zia R… – 30 dicembre 1903.). La sua ispirazione poetica trova in questa abitazione divina nel profondo dell’anima il suo motivo fondamentale: O Beata Trinitas La grazia di Dio ti inondi e ti invada spandendosi in te come un fiume di pace; nell’ampie sue onde tranquille ti immerga! Che nulla d’estraneo ti sfiori mai più. Nell’intima pace di questo mistero sarai visitata da Lui, dal tuo Dio; e là ti festeggio in silenzio o mia Madre, la Trinità Santa adorando con te. Laudem Gloriæ – Giugno 1906 (A una Madre del Carmelo di Digione.). – Nella ricorrenza del 29 luglo, festa delle suore converse, scrive: « Il giorno di santa Marta, abbiamo festeggiato le nostre buone sorelle dal velo bianco. In onore della loro santa Patrona, vengono dispensate per quel giorno dal loro ufficio, per potersi dedicare con Maddalena ai dolci riposi della contemplazione. E tocca alle novizie sostituirle nei lavori della cucina. Io mi trovo ancora in noviziato, perché vi restiamo per tre anni dopo la professione; ho passato quindi una bella giornata presso il fornello. Avendo — come si dice — il mestolo in mano, io non sono andata in estasi come la mia Madre santa Teresa, ma ho creduto alla divina presenza del Maestro che era in mezzo a noi, e l’anima mia adorava nel centro di se stessa Colui che Maddalena aveva saputo riconoscere sotto il velo della umanità » (Lettera alla zia R… – Estate 1905). Le sue lettere sono piene di consigli sulla presenza di Dio: « L’anima vostra sia il suo santuario, il suo riposo su questa terra, in cui Egli è tanto offeso » (Lettera alla signora De B… – 17 agosto 1905). « Che Egli faccia dell’anima vostra un piccolo paradiso ove possa riposarsi deliziosamente; toglietene tutto quello che potrebbe ferire il suo sguardo divino. Vivete lì, insieme a Lui. Ovunque voi siate, qualsiasi cosa facciate, Egli non vi lascia mai; dunque rimanete voi pure con Lui, sempre. Entrate nell’intimo dell’anima vostra: sempre ve Lo troverete, impaziente di farvi del bene. Io rivolgo a Dio, per voi, la preghiera che san Paolo faceva per i suoi quando chiedeva « che Gesù abitasse, con la fede, nei loro cuori, affinché fossero radicati nell’amore » (Efesini, III-17). Queste parole sono così profonde, così misteriose! Oh, sì! quel Dio che è tutto Amore sia la vostra perpetua dimora, la vostra cella e il vostro chiostro in mezzo al mondo. Ricordatevi sempre che Egli è lì, nel centro più intimo dell’anima vostra, come in un santuario dove vuole essere amato fino alla adorazione » (Lettera alla signora De B… – Estate 1905). Sebbene adattato alle varie persone e circostanze, è però lo stesso pensiero fondamentale che ritorna sempre: la vera vita è nel profondo dell’anima, con Dio. Qui, essa ritrova coloro che ama, e qui sta il segreto della gioia che ha fatto della sua vita un paradiso anticipato. Suor Elisabetta della Trinità fu veramente l’anima di un’idea. Quando, ogni domenica, nell’Ufficio di « Prima », la Chiesa poneva sulle sue labbra il « Quicumque », essa, come già la Madre sua santa Teresa, si sentiva rapita verso questo mistero dei misteri dove l’anima sua viveva sempre. E ogni domenica era da lei consacrata all’onore della santissima Trinità. All’avvicinarsi poi della festa della Trinità santa, si sentiva pervasa da una grazia irresistibile; e, per molti giorni, la terra non esisteva più per lei. « Questa festa dei « Tre » è proprio la mia festa; per me, non ve n’è un’altra che le somigli; né io avevo mai capito così bene il mistero e tutta la vocazione che racchiude il mio nome. E in questo grande mistero ti do convegno, perché esso sia il nostro centro, la nostra dimora. Ti lascio con questo pensiero del Padre Vallée che formerà il soggetto della tua orazione: — Che lo Spirito Santo ti porti al Verbo, il Verbo ti conduca al Padre, e possa tu essere consumata nell’Unità, come il Cristo e i nostri santi » (Lettera alla sorella – Giugno 1902). In tal modo, gli anni e le grazie della sua vita religiosa la seppellivano ogni giorno più nel profondo di se stessa con Colui che. ad ogni istante, col suo contatto, le comunicava la vita eterna. I minimi avvenimenti tradivano la presa di possesso, piena, di quest’anima da parte della Trinità. Le viene comunicata la nascita di una nipotina, e subito esulta in uno slancio verso la Trinità: « Abbiamo fatto una vera ovazione alla piccola Bettina. Questa mattina, in ricreazione, la nostra reverenda Madre così buona, era tutta lieta di mostrarci la sua fotografia, e tu puoi pensare come batteva il cuore della zia Elisabetta. Margherita mia. come l’amo, questo piccolo angelo! L’amo, io credo, quanto la sua mammina. E non è dir poco. E poi, sai: mi sento tutta penetrata di rispetto dinanzi a questo piccolo tempio della Trinità santa. La sua anima mi appare come un cristallo che irradia la Divinità; se le fossi vicina, mi metterei in ginocchio per adorare Colui che dimora in lei. Vuoi abbracciarla per la sua zia Carmelitana e poi prendere la mia anima con la tua, per raccoglierti presso la tua creaturina? Se fossi ancora tra voi, come vorrei cullarla, vezzeggiarla! Ma il Signore mi ha chiamata sul monte santo perché io sia il suo angelo e la circondi di preghiera. Di tutto il resto, ne faccio serenamente il sacrificio, per Lei »; (Lettera alla sorella – Marzo 1904.). Nelle sue conversazioni in parlatorio, nelle sue lettere, con la mamma, con la sorella, con le amiche, con tutti quelli che la avvicinano, ella si fa apostola di questa presenza divina nell’anima, con discreta ma instancabile perseveranza. « Pensa che tu sei in Lui, che Egli si fa tua dimora quaggiù. E poi, che Egli è in te, che Lo possiedi nell’intimo del tuo essere, che in ogni ora del giorno e della notte, in ogni gioia, in ogni prova, tu puoi trovarlo lì, così vicino, così intimo! È il segreto della gioia; il segreto dei santi. Essi sapevano tanto bene di essere il tempio di Dio e che, unendosi a questo Dio, si diviene «uno stesso spirito con Lui », come dice san Paolo. Quindi si muovevano sempre sotto la Sua irradiazione (Lettera. a M. L. M… – 24 agosto 1903). – Bisognerebbe moltiplicare le citazioni. A chi studia da vicino l’evolversi di quest’anima, appare chiaro come il mistero della Trinità divenga sempre più intensamente la verità dominatrice della sua vita, mentre tutto il resto dilegua e scompare. – Il 21 novembre, festa della Presentazione di Maria santissima al Tempio, tutte le Carmelitane rinnovavano i voti della loro santa professione. Mentre suor Elisabetta pronunciava di nuovo, con le compagne, la formula dei suoi santi voti, si sentì trasportata da un movimento irresistibile della grazia verso la Trinità santa. Rientrata in cella, prese la penna e, sopra un semplice foglio di quaderno, senza esitazione, senza la minima correzione, tutta di getto, scrisse la sua celebre « Preghiera », come un grido che erompe dal cuore.

« O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente, per fissarmi in Te, immobile e quieta come se la mia anima già fosse nell’eternità. Nulla possa turbare la mia pace, né farmi uscire da Te, o mio Immutabile, ma che ad ogni istante, io mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero. Pacifica l’anima mia; rendila tuo cielo, tua prediletta dimora e luogo del tuo riposo. Che, qui, io non ti lasci mai solo; ma tutta io vi sia, vigile e attiva nella mia fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice. O amato mio Cristo, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti… fino a morirne! … Ma sento tutta la mia impotenza; Ti prego di rivestirmi di Te, di identificare tutti i movimenti della mia anima a quelli dell’anima tua, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che un riflesso della Tua vita. Vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la mia vita ad ascoltarti, voglio rendermi docilissima ad ogni tuo insegnamento, per imparare tutto da Te; e poi, nelle notti dello spirito, nel vuoto, nell’impotenza, voglio fissarti sempre e starmene sotto il tuo grande splendore. – O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione. O Fuoco consumante, Spirito d’amore, discendi in me, perché si faccia nell’anima mia quasi una incarnazione del Verbo! Che io Gli sia un prolungamento di umanità, in cui Egli possa rinnovare tutto il Suo mistero. E Tu, o Padre, chinati verso la tua povera piccola, coprila della tua ombra, non vedere in essa che il Diletto nel quale hai posto tutte le tue compiacenze. O miei « Tre », mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a Voi come una preda. Seppellitevi in me, perché io mi seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella Vostra Luce l’abisso delle Vostre grandezze ».

21 novembre 1904.

C’è voluta tutta una vita di santità per comporre una tale preghiera, una delle più belle del Cristianesimo, e un carisma speciale per farla sgorgare dal cuore. Quante anime religiose ne vivono, da mesi ed anni, senza provarne mai stanchezza! Mentre, nel silenzio, mormorano questa preghiera, suor Elisabetta, fedele alla sua missione, induce queste anime nel raccoglimento, le aiuta ad uscire da se stesse con un movimento semplicissimo e pieno di amore e, così pacificate, le porta e le abbandona alla Trinità.

Dopo il 1904, data in cui compose la sua « Elevazione alla santa Trinità » Dio la visitò col dolore; e ancora e sempre in questa presenza divina, ella attinse la forza del suo eroismo sorridente. E, nell’ora suprema, si rivolge alle sue amiche, ai suoi cari, con una tenerezza ancora più intensa, per lasciare loro in testamento la sua cara devozione ai « Tre ». – «…Vi lascio la mia fede nella presenza di Dio, del Dio tutto Amore che abita nelle anime nostre. Mi è caro confidarvi che questa intimità con Lui «dentro di me» è stato il bel sole che ha illuminato la mia vita, facendo di essa quasi un paradiso anticipato. Ed è la forza che mi sostiene oggi, nel dolore. Io non ho paura della mia debolezza, perché il Forte è in me, e la sua virtù è onnipotente. E opera, dice l’Apostolo, più di quanto possiamo sperare » (Lettera alla signora De B… – 1906.). Uguale testamento, e più commovente ancora, alla sorella: « Sorellina mia, sono felice di andare lassù, per essere il tuo angelo. Come sarò gelosa della bellezza dell’anima tua, che ho già tanto amata, qui, sulla terra! Ti lascio la mia devozione ai « Tre ». Vivi con Essi nell’intimo, nel cielo dell’anima tua. Il Padre ti coprirà della sua ombra, ponendo come una nube fra te e le cose della terra, per custodirti tutta sua; e ti comunicherà la sua potenza perché tu l’ami di un amore forte come la morte. Il Verbo imprimerà nell’anima tua, come in un cristallo, l’immagine della sua stessa bellezza, affinché tu sia pura della sua purezza, luminosa della sua luce. Lo Spirito Santo ti trasformerà in un’arpa mistica dalla quale, al tocco divino, si sprigionerà un magnifico cantico dell’Amore. Allora, sarai tu la « lode di gloria » che io sognavo di essere sulla terra. Tu mi sostituirai. Io sarò « Laudem gloriæ » dinanzi al trono dell’Agnello, e tu « Laudem gloriæ » nel centro dell’anima tua » (Lettera alla sorella – 1906). – La dimora di Dio nel centro più profondo della sua anima fu, per suor Elisabetta, il segreto della sua rapida santità. Si può ben credere alla testimonianza che ce ne ha lasciata lei stessa, solo pochi giorni prima della sua morte: « Lassù, in seno all’Amore, penserò attivamente a voi: per voi chiederò — e sarà il segno della mia entrata in cielo — una grazia di unione intima col Maestro divino. È il segreto che ha trasformato la mia vita, ve lo confido, in un paradiso anticipato: credere, cioè, che un essere che si chiama l’Amore, abita in noi ad ogni istante del giorno e della notte e che Egli ci chiede di vivere «in società » con Lui» (Lettera alla signora G. De B… – 1906).

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (8)

LA GRAZIA E LA GLORIA (1)

LA GRAZIA E LA GLORIA (1)

O

La filiazione adottiva dei figli di Dio studiata nella sua realtà, nei suoi principi, il suo perfezionamento e il suo finale coronamento.

Del R. P. J-B. TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. , Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

Opera depositata conformemente alle leggi, nel maggio, 1901

Nuove edizione riveduta e corretta

TOMO PRIMO

PARIS – P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 10

INTRODUZIONE

Non c’è discendente di una stirpe nobile che non legga con compiacimento i titoli e le gesta dei suoi antenati. Se ha un cuore grande, il legittimo orgoglio che concepirà delle sue origini, lo stimolerà più energicamente di qualsiasi altro motivo a vivere una vita che corrisponda al lustro della sua nascita. Come erede degradato di un grande nome, non dimenticherà ciò che furono i suoi padri, e si lusingherà di trovare nel loro merito un brillante velo per coprire la propria nullità. Perché, per uno strano contrasto, noi Cristiani che siamo, in virtù del nostro Battesimo, della razza di Dio, i suoi figli adottivi, i fratelli di Gesù Cristo il Verbo Incarnato suo unico Figlio, ignoriamo, o almeno conosciamo così poco la grandezza e la gloria contenute in questi titoli? Dove sono quelli che li meditano, quelli che sanno apprezzarsi e glorificarsi, come dovrebbero? Si scires donum Dei. Se tu conoscessi il dono di Dio, disse Nostro Signore a quella donna di Samaria (Gv. IV, 10)! Ahimè, non ci sono forse molti, non nelle tenebre in cui questa donna era nata, ma nella piena luce del Vangelo, che meritano sia questo rimprovero che questa lamentela? Chiedete non a quegli uomini che non hanno nulla di cristiano se non il carattere del loro Battesimo e il loro nome, ma a quelli che si vantano di mantenere la loro fede, e persino di praticarla, come intendano la loro filiazione divina e questo stato di grazia, il più stimabile dei doni dopo quello della gloria celeste. Alla loro risposta, Gesù Cristo non potrebbe ancora ripetere: « Se tu conoscessi il dono di Dio! »? Quello che di solito pensano è che si sia in pace con Dio, che i peccati siano perdonati e che un giorno, se nuove gravi colpe non lo impediranno, si godrà della felicità eterna. Ma per quanto riguarda questo rinnovamento, così meraviglioso e così divino che avviene nei cuori, questa rigenerazione che trasforma la natura e le facoltà dei figli adottivi nel loro intimo, questa deificazione che fa dell’uomo un dio, tutti questi doni che sono prerogativa della creatura giustificata, della creatura glorificata, quanti pochi fedeli li conoscono, e quanti pochi li meditano ancora! La conseguenza che ne segue naturalmente è che stimiamo poco ciò che conosciamo troppo poco; e che non abbiamo né energia né vigore per acquisire, conservare e aumentare questo tesoro misconosciuto. Un figlio di re che non conosca né i suoi natali, né i pensieri elevati che essi esigono da lui è l’immagine di troppi Cristiani. Ecco perché il grande Papa San Leone fece questa forte esortazione ai fedeli del suo tempo: « Riconosci, o Cristiano, la tua dignità e, divenuto partecipe della natura divina, non tornare alla tua antica bassezza con una condotta sregolata. Ricorda di quale corpo tu sia membro e qual sia la tua testa. Ricordati come sei stato tratto dal potere delle tenebre al regno della luce, e come il santo Battesimo ti abbia consacrato come tempio dello Spirito Santo » (S. Leone, Serm. 21, par. 20, in nativit. Dom. 1, c. 4). Figlio di Dio, renditi degno con la tua vita di un tale Padre e di un’origine così regale! – Devo proprio dirlo? Mi sembra che se il popolo fedele sia troppo ignorante di questi tesori soprannaturali, di cui il Padre delle misericordie lo ha così liberalmente riempito, potremmo senza ingiustizia darne la colpa, almeno in parte, a coloro che per vocazione sono responsabili della loro istruzione: essi parlano troppo poco di questi misteri della grazia e della gloria; e, quando ne parlano, lo fanno in termini così generali, così vaghi, così imprecisi, a volte così torbidi, che l’ascoltatore è spesso più affascinato dalla bellezza del loro linguaggio, che penetrato dai pensieri che dovrebbe esprimere. – Non si dica, come a volte accade, che questi argomenti siano troppo sublimi per essere messi alla portata dei semplici fedeli: … essi non hanno né il tipo di cultura intellettuale né le abitudini di riflessione necessarie per afferrare le idee che si cercherebbe di comunicare loro. Questa è una scusa che non regge all’esempio degli Apostoli e alla loro esplicita dottrina. – Le epistole di Paolo, per non parlare delle altre, cosa sono se non una costante predicazione dei misteri ineffabili della grazia e della filiazione divina? Ed è per tutti i Cristiani che il grande Apostolo ha scritto le sue lettere ispirate. Io so bene che, secondo l’istituzione del Maestro, Egli ha affidato ai pastori la missione di interpretarli ai comuni credenti. Ma questo dimostra chiaramente quale dovrebbe essere, oggi come allora, il ruolo di coloro che sono incaricati dell’ufficio di promulgare e spiegare il contenuto dei nostri Libri sacri. – Indicare la mancanza di cultura della maggior parte dei Cristiani come motivo per non entrare in queste profondità, è ignorare la parentela che queste verità hanno in qualche modo con la loro fede; è dimenticare che tutti noi “non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo, ma lo Spirito che è di Dio, affinché conosciamo i doni che Dio ci ha dato” (1 Cor: XI,-42); è infine trascurare l’azione dello Spirito divino, che apre interiormente l’intelligenza dei fedeli per far loro ascoltare le sante verità che vengono loro annunciate. So bene che la scienza della fede non è un privilegio di molti. Ma quello che so anche è che, se non spetta a tutti entrare ugualmente nella comprensione dei misteri della grazia e della gloria; se gli stessi più dotti non possono, senza avventata presunzione, sperare di penetrare tutti i segreti quaggiù, c’è certamente un grado di conoscenza a cui tutti i Cristiani possano arrivare, purché siano istruiti con il tipo e la chiarezza di linguaggio che si adatti alla loro debolezza. Questo è quello che pensavano i Padri, e tra tutti l’immortale dottore S. Agostino, che non aveva paura di mostrare gli splendori del Verbo e le profondità di Dio davanti agli occhi dei suoi pescatori di Ippona. Era anche lo stesso pensiero che ispirava San Paolo quando pregava « … il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di Lui. Possa Egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi abbia chiamati, quale tesoro di gloria racchiuda la sua eredità fra i santi e quale sia la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza » (Efesini I, 17-19). – Se è sempre stato necessario pregare affinché lo Spirito Santo desse ai Cristiani questa luce divina e insegnasse loro con cura diligente le verità che essa deve incidere nei loro cuori, forse mai questa necessità è apparsa più urgente di quanto lo sia al momento attuale, perché mai i doni soprannaturali della grazia e della gloria sono stati più universalmente attaccati, distorti o fraintesi come ai nostri giorni. Per non parlare dell’eresia razionalista che li considera come un beneficio di Dio che si è liberi di ricevere o rifiutare, quand’anche non distorca la loro natura o neghi del tutto la loro esistenza, per cui c’è stata nel nostro secolo, anche all’interno del Cattolicesimo, una scuola di pensiero che vede nell’ordine della grazia poco più di un aiuto dato da Dio per l’adempimento dei suoi precetti, e non so quale stato di perfezione morale, privo di qualsiasi dono soprannaturale insito nel profondo delle anime (Hermes e la sua scuola Cf. P. Kleutgen, Theol. der Vorzeit, II Band, 1). Anche se questo errore, combattuto vittoriosamente dai sostenitori della pura dottrina, non ha più un posto al sole, Dio voglia che non se ne trovi mai traccia nelle opere destinate a dare ai fedeli i precetti della vita cristiana. Essi errori conservano ancora tutta la loro attualità. Le gravi parole che uno dei più notevoli interpreti dei nostri libri sacri, Cornelio della Pietra, scrisse nel XVII secolo nel suo commentario al profeta Osea « pochi uomini apprezzano il dono della grazia per il suo valore. I predicatori e gli insegnanti di scienza sacra dovrebbero spiegarla, come abbiamo fatto noi, e inculcare una profonda conoscenza di essa nel popolo. In questo modo i fedeli e i santi imparerebbero che essi sono i templi viventi dello Spirito Santo, e che portano Dio stesso nei loro cuori; che essi debbano, quindi, camminare divinamente alla sua presenza, e vivere una vita degna di un tale Ospite che li accompagna tutti e li guarda ovunque » (Cornel. a Lap., in Osee, 1, 10). Si dirà che in un’epoca in cui il genio dell’uomo si sforza di sollevare i veli che ci nascondono i misteriosi segreti della terra e del cielo, in cui persino i bambini, a torto o a ragione, vengono iniziati a tante conoscenze profane, la scienza delle grandi opere che Dio fa o prepara nel cuore dell’umanità rigenerata, cioè la più bella, la più alta delle scienze, oltre che la più feconda, una scienza infine che racchiude l’intera economia della Religione fondata da Dio fatto uomo, sia fra tutte la più negletta? – Io non ignoro che siano state scritte opere eccellenti su questo argomento. Credo, tuttavia, che quello che propongo al lettore sarà di qualche utilità, non fosse altro che per il merito di abbracciare in tutta la sua ampiezza un soggetto così fecondo. – È ai miei fratelli nel Sacerdozio che mi rivolgo più in particolare. La conoscenza che essi hanno della scienza sacra non mi permetterebbe di offrire loro un’esposizione semplice e rudimentale, tale da essere appropriata per il fedele comune. Per questo mi sforzerò di approfondire le verità della nostra fede, di trarne le conseguenze e di spiegarle, nella misura compatibile con la loro profondità e la mia debolezza. È anche per questo che mi appellerò così spesso ai nostri Libri santi, ai decreti dogmatici della Chiesa, agli scritti dei Padri, ai principali dottori della scienza teologica, e specialmente al maestro per eccellenza, San Tommaso d’Aquino. Se a volte ci sono questioni che siano così astratte da richiedere teologi professionisti per capirle correttamente, saranno o totalmente scartate o più spesso rigettate in appendice. Non so se mi stia lusingando, ma mi sembra che, grazie a questa precauzione, la presente opera non rimarrà inavvicinabile per coloro che non hanno frequentato le nostre scuole teologiche. Spero che essi vi troveranno cibo per la loro intelligenza e considerazioni per i loro cuori che alimenteranno in loro i sentimenti di una solida pietà. Papa S. Leone Magno ha riassunto in due parole tutto il mistero della nostra elevazione soprannaturale per la grazia e la gloria: « Il dono che supera tutti i doni è che Dio chiami l’uomo suo figlio, e che l’uomo chiami Dio suo Padre » (S. Leo, Serm. VI de Nativit. Domini). Queste due parole riassumeranno anche tutto il soggetto di questo lavoro: perché è alla nostra filiazione divina che intendo collegare ciò che Dio ha fatto e farà per noi in questo ordine della grazia, il capolavoro della sua sapienza, della sua potenza e della sua bontà. – Per non superare i limiti di questa introduzione, indicherò brevemente i punti fondamentali che dobbiamo affrontare. Prima di tutto, stabiliremo il fatto della nostra filiazione soprannaturale e mostreremo l’altezza incomparabile a cui la grazia ci innalza. Diremo poi qual sia la natura di questa stessa filiazione, e su quali principi, sia creati che increati, essa poggi. Poi studieremo la perfezione che essa può ricevere nelle anime giuste, e i mezzi con cui la crescita spirituale avvenga in noi; infine considereremo la perfezione finale dei figli di adozione, cioè il completo compimento della grazia del tempo nella gloria dell’eternità. – Un esame su tutto l’insieme delle materie, ci permetterà di stabilire chiaramente le nozioni tanto necessarie ai tempi d’oggi, della natura e della grazia, del gratuito e del soprannaturale. – Indubbiamente, tutto ciò che avremo da dire nella continuazione delle nostre spiegazioni, non sarà dogma cattolico. La fede che cerca la comprensione di ciò che crede “fides quærens intellectum“, senza mai smettere di avere gli occhi invariabilmente fissi sulla verità rivelata, non teme di fare appello ai lumi della ragione scientifica e di proiettare i suoi raggi sull’oggetto della sua fede, per illuminarne il senso e la portata. Ma, a Dio piacendo, non trarremo alcuna conclusione, né daremo alcuna teoria che sia in contrasto con gli insegnamenti dello Spirito Santo, tanto avremo in cuore di affidarci costantemente, in tutto ed ovunque, alla dottrina dei Padri e Dottori più autorevoli della Chiesa di Dio. Permettetemi di concludere prendendo in prestito alcune delle parole che Sant’Agostino rivolgeva ai suoi lettori all’inizio della sua grande opera sulla Trinità: « Che ognuno di coloro che leggono queste pagine vada avanti con me, se condivide la mia certezza; se esita dove io esito, cerchi con me; se riconoscerà di essersi smarrito, torni da me, e mi richiami alla verità se mi vede in errore. Entriamo dunque insieme e, per così dire, mano nella mano, nella via della carità, raggiungendo Colui del quale è scritto: “Cercate sempre il suo volto: Quærite faciem ejus semper” (Salmo, CIV, 4). Perciò, nel nome del Signore, iniziamo l’opera intrapresa per la sua gloria » (S. August, de Trinit.: L. I, n. 5-6).

LA GRAZIA E LA GLORIA (2)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. PIO IX – “GRAVIBUS ECCLESIÆ”

In questa lettera di S. S. Pio IX, viene bandito un anno giubilare, anno di grazie e di indulgenze da lucrare per i fedeli vivi, che possono ottenere perdono per i propri peccati, e per i defunti, che possono vedersi ridotto da chi per essi acquista le indulgenze, il tempo della loro espiazione prima di accedere alla eterna beatitudine. Erano tempi difficili per la Chiesa, ma c’era la consolazione di avere un Santo Padre che si affannava per la salute dell’anima dei fedeli di tutto il mondo. Oggi che abbiamo dei burattini massonici ad occupare fraudolentemente la santa Sede e la Cattedra di S. Pietro, mentre la vera Chiesa è eclissata ed il Papa, Vicario di Cristo, impedito e costretto all’ “inerzia” domiciliare, questa consolazione non l’abbiamo più, canonicamente parlando (i falsi papi-marionetta proclamano falsi anni santi per i settari della falsa chiesa-sinagoga dell’uomo). Ma anche questa è volontà di Dio che all’occorrenza si serve degli angelos malos (Ps LXXVII, 49) per punire il suo popolo ed i suoi ministri infedeli, sordi alla voce di Dio e lungi dall’osservare un fervente culto divino, e riportarli così sulla retta via della salvezza … Ma la grazia può esserci data dallo Spirito Santo – se impediti – anche in altro modo, come dice espressamente l’Angelico Dottore, se siamo fermamente adesi alla fede apostolica ed in comunione – anche solo di desiderio – col vero Santo Padre, condicio sine qua non per giungere alla beata vita eterna. Oggi non abbiamo anni giubilari validamente banditi dal Santo Padre impedito, ma la nostra pazienza, la nostra caparbia resistenza agli errori-orrori propinati da falsi chierici e ai perversi costumi del secolo pagano e corrotto, può farci guadagnare una serie infinita di grazie e di meriti spirituali. Godiamoci questa bella e santa lettera Enciclica, ma conserviamo la nostra piena fiducia ed osservanza nella parola del Verbo incarnato e del Magistero infallibile ed irreformabile della vera Chiesa Cattolica, aspettando con gioia il martirio, a Dio piacendo, anche se questa è una grazia veramente speciale e non concessa a tutti.


Pio IX
Gravibus Ecclesiæ

Mossi dalle gravi calamità della Chiesa e di questo secolo, nonché dalla necessità d’implorare l’aiuto divino, giammai omettemmo nel tempo del Nostro Pontificato di eccitare il popolo cristiano, affinché si sforzasse di placare la Maestà di Dio e di meritare la clemenza celeste con i santi costumi della vita, con le opere della penitenza e con le pie e doverose suppliche della preghiera. A questo scopo aprimmo più volte ai fedeli, con apostolica liberalità, i tesori spirituali delle indulgenze, affinché, stimolati alla vera penitenza e purgati, per il Sacramento della riconciliazione, dalle macchie dei peccati, potessero più fiduciosi appressarsi al trono della grazia, ed essere fatti degni che le loro preghiere venissero benignamente ricevute da Dio. Questo poi, come altre volte, così specialmente pensammo doversi compiere da Noi in occasione del Concilio Ecumenico Vaticano, affinché l’opera importantissima intrapresa per l’utilità della Chiesa universale, con le preghiere parimenti di tutta la Chiesa venisse accolta favorevolmente presso l’Altissimo; e quantunque rimanga sospesa, per la calamità dei tempi, la celebrazione dello stesso Concilio, tuttavia facemmo noto e dichiarammo, a beneficio del popolo fedele, che l’indulgenza da conseguirsi in forma di Giubileo, promulgata in quella occasione, rimaneva, come rimane tuttora, in tutta la sua forza, fermezza e vigore. Senonché, proseguendo ancora il corso di tristissimi tempi, incomincia già l’anno 1875 dell’era cristiana, l’anno cioè che segna quel sacro spazio di tempo, che la santa consuetudine dei Nostri Maggiori e le disposizioni dei Pontefici Nostri Predecessori consacrarono a celebrare la solennità del Giubileo universale. Con quanto rispetto e religione sia stato praticato l’anno del Giubileo, quando i tranquilli tempi della Chiesa permisero di celebrarlo con ogni solennità, lo attestano gli antichi ed i recenti monumenti della storia. Esso, infatti, fu sempre considerato come l’anno della salutare espiazione di tutto il popolo cristiano, come l’anno della redenzione e della grazia, della remissione e dell’indulgenza, nel quale si concorreva da tutto il mondo in quest’alma Nostra Città e Sede di Pietro, e a tutti i fedeli, eccitati ad opere di pietà, si offrivano abbondantissimi aiuti di riconciliazione e di grazia per la salute delle anime. Quale pia e santa solennità fu vista nello stesso nostro secolo, quando cioè, essendo stato indetto da Leone XII, Predecessore Nostro di felice memoria, il Giubileo nell’anno 1825, questo beneficio, fu ricevuto con tanto fervore dal popolo cristiano al punto che lo stesso Pontefice poté rallegrarsi di aver visto per tutto il corso dell’anno un ininterrotto concorso di pellegrini in questa Città, nella quale si era meravigliosamente manifestato lo splendore della religione, della pietà, della fede, dell’amore e di tutte le virtù. Oh, fosse pur tale oggi la Nostra condizione, e la condizione delle cose civili e sacre Ci permettesse di poter felicemente celebrare, secondo l’antico rito e costume, che solevano osservare i Nostri Maggiori, quella solennità del massimo Giubileo che, ricorrendo nell’anno 1850 di questo secolo, Ci fu necessario omettere per le luttuose circostanze dei tempi! Ma quelle gravi cause che allora C’impedirono d’indire il Giubileo, anziché essere oggi cessate, si sono invece, così permettendo Iddio, giornalmente accresciute. – Tuttavia, vedendo Noi i tanti mali che affliggono la Chiesa, i tanti sforzi dei suoi nemici diretti a svellere dagli animi la fede in Cristo, a corrompere la sana dottrina, e a propagare il veleno dell’empietà, i tanti scandali che si offrono ovunque ai veri credenti, la corruzione dei costumi che spaziosamente si propaga, e la turpe manomissione dei diritti divini ed umani tanto ampiamente diffusa, tanto feconda di rovine, e che tende a distruggere nell’animo degli uomini lo stesso senso del retto; considerando che in tanta colluvie di mali maggiormente Noi dobbiamo procurare, secondo il Nostro Apostolico dovere, che la fede, la religione e la pietà siano premunite e si ravvivino, che lo spirito della preghiera sia sostenuto e si accresca, che i traviati siano eccitati alla penitenza del cuore e alla emendazione dei costumi, che i peccati, i quali meritarono l’ira di Dio, siano redenti con sante operazioni, frutti tutti, al conseguimento dei quali è principalmente diretta la celebrazione del massimo Giubileo: pensammo di non dovere Noi permettere che in questa occasione il popolo cristiano fosse privato di questo salutare beneficio, secondo quella forma che è permessa dalla condizione dei tempi, affinché così confortato nello spirito cammini più alacremente nelle vie della giustizia, e purgato dalle colpe consegua più facilmente e più ubertosamente la divina propiziazione ed il perdono. Riceva dunque la Chiesa di Cristo universale e militante le Nostre voci, con le quali indiciamo, annunciamo e promulghiamo per tutto il prossimo anno 1875 l’universale e massimo Giubileo. In funzione ed in considerazione di esso sospendiamo e dichiariamo sospesa, a beneplacito Nostro e di questa Sede Apostolica, la indulgenza sopra ricordata, concessa in forma di Giubileo in occasione del Concilio Vaticano, e apriamo in tutta la sua ampiezza quel celeste tesoro che, formato dai meriti, dalle passioni e dalla virtù di Cristo Signore, e della di Lui Vergine Madre, e di tutti i Santi, venne dall’Autore dell’umana salvezza affidato alla Nostra dispensazione. – Pertanto, confidando nella misericordia di Dio e nella autorità dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, in forza di quella suprema potestà di legare e di sciogliere che Iddio volle conferita a Noi, quantunque immeritevoli, concediamo e misericordiosamente impartiamo nel Signore, a tutti e singoli i fedeli di Cristo tanto dimoranti in questa Nostra alma Città, o che saranno per venire in essa, quanto a tutti quelli esistenti fuori della detta Città, in qualunque parte del mondo, e che si trovano nella grazia e nell’obbedienza della Sede Apostolica, i quali (veramente pentiti, confessati e comunicati, una volta al giorno per quindici giorni continui, o interpolati, naturali o ecclesiastici, da computarsi cioè dai primi vespri di un giorno fino all’intero vespertino crepuscolo del giorno seguente) visiteranno i primi le Basiliche dei Santi Pietro e Paolo, di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore in Roma, e i secondi la loro Chiesa Cattedrale, o maggiore, e altre tre Chiese della stessa città o luogo, ovvero dei suburbi del medesimo, da designarsi dagli Ordinari dei luoghi, o dai loro Vicari, o da altri per disposizione dei medesimi, dopo che sarà venuta loro a notizia questa Nostra lettera, ed ivi innalzeranno umili preghiere al Signore per la prosperità e l’esaltazione della Chiesa Cattolica e di questa Sede Apostolica, per l’estirpazione delle eresie, per la conversione di tutti gli erranti, per la pace e l’unità di tutto il Popolo Cristiano, secondo la Nostra mente, [concediamo] che una volta nell’annuo spazio di tempo sopra detto possano conseguire la pienissima indulgenza dell’anno del Giubileo, e la piena remissione e il perdono di tutti i loro peccati. Concediamo che tale indulgenza possa anche essere applicata come suffragio e valga per quelle anime che congiunte a Dio per carità partirono da questa vita. – In virtù poi della presente Nostra lettera concediamo che i naviganti ed i viaggiatori, quando avranno fatto ritorno ai loro domicilii, o saranno giunti ad una certa dimora, compiute le opere sopra prescritte, e visitata altrettante volte la Chiesa Cattedrale, o maggiore, o Parrocchiale del luogo del loro domicilio o dimora, possano e siano abili a conseguire la stessa indulgenza. Parimenti concediamo ai sopraddetti Ordinari dei luoghi che possano, secondo il prudente loro consiglio, dispensare, solamente per quanto si riferisce alle visite, le monache oblate, le fanciulle e le donne viventi nella clausura dei monasteri, o in altre case religiose o pie, e comunità, nonché gli anacoreti e gli eremiti, ed altre persone qualunque esse siano, tanto laiche che ecclesiastiche, o regolari, esistenti in carcere, o in cattività, o affette da qualche infermità del corpo, o trattenute da qualunque altro impedimento, purché siano assolutamente impossibilitate a compiere le dette visite; concediamo che i fanciulli non ancora ammessi alla prima Comunione siano dispensati dalla predetta Comunione, prescrivendo ad essi tutti e singoli, sia da loro stessi sia per mezzo dei rispettivi superiori o prelati regolari, o per mezzo di prudenti confessori, altre opere di pietà, carità e religione in luogo delle visite, o della sacramentale Comunione che dovrebbe compiersi dai medesimi. Inoltre, ai Capitoli e alle Congregazioni tanto di secolari che di regolari, ai Sodalizi, alle Confraternite, alle Università che visiteranno processionalmente le nominate Chiese, concediamo che possano ridurre le prescritte visite ad un numero minore. – Inoltre, alle stesse monache e alle loro novizie concediamo che possano a questo effetto scegliersi qualunque confessore fra quelli approvati dall’attuale Ordinario del luogo ove si trovano i loro monasteri per ascoltare le confessioni delle monache; e a tutti e singoli gli altri fedeli di ambedue i sessi sia laici sia ecclesiastici, e ai regolari di qualunque Ordine, Congregazione e Istituto da doversi ancora specialmente nominare, concediamo licenza e facoltà di potersi al medesimo effetto scegliere qualunque Sacerdote confessore tanto secolare, quanto regolare, di qualunque diverso Ordine e Istituto, e parimenti approvato per ascoltare le confessioni delle persone secolari dagli attuali Ordinari nelle città, diocesi e territori nei quali si dovranno ricevere le dette confessioni. Tali confessori, entro lo spazio dell’anno sopra nominato, potranno assolvere coloro che sinceramente e seriamente avranno deciso di lucrare il presente Giubileo e con questo intento compiranno le opere necessarie e si confesseranno; potranno assolverli dalla scomunica, dalla sospensione e da altre sentenze ecclesiastiche e censure comminate ed inflitte a jure vel ab homine per qualunque causa, anche se riservata agli Ordinari dei luoghi, a Noi o alla Santa Sede Apostolica, compresi i casi in modo speciale riservati a chiunque, al Sommo Pontefice, alla Sede Apostolica, e che altrimenti in qualunque concessione, quantunque ampia, non s’intenderebbero concessi; parimenti potranno i detti confessori assolvere i nominati penitenti da tutti i peccati ed eccessi, per quanto gravi ed enormi anche, come si dice, riservati agli stessi Ordinari e a Noi e alla Sede Apostolica, ancorché siano ingiunte ad essi una penitenza salutare, ed altre cose da comminarsi per diritto. Inoltre, potranno commutare in altre opere pie e salutari qualunque voto, anche giurato e riservato alla Sede Apostolica (eccettuati però sempre i voti di castità, di religione e di obbligazione che sia stata accettata da un terzo, o nei quali si tratti del pregiudizio di un terzo, nonché i voti penali che chiamansi preservativi dal peccato, seppure la commutazione non si giudichi tale che non meno della prima materia del voto allontani dal commettere il peccato). Inoltre, con la stessa autorità ed ampiezza della benignità apostolica concediamo e permettiamo che possano dispensare quei penitenti, anche regolari costituiti negli Ordini sacri, dall’occulta irregolarità per l’esercizio dei medesimi Ordini, e per ascendere agli altri superiori, contratta solamente per la violazione delle censure. – Non intendiamo poi, in forza della presente, dispensare da qualunque altra irregolarità, pubblica od occulta, o difetto, o nota, o da qualunque altra incapacità o inabilità in qualunque maniera contratta, o concedere una qualche facoltà di dispensare dalle medesime, o riabilitare, e restituire nello stato primiero, anche nel foro della coscienza; né ancora intendiamo derogare alla Costituzione, con le opportune dichiarazioni, emanata da Benedetto XIV, Nostro Predecessore di felice memoria, che incomincia Sacramentum Poenitentiæ, dell’1 giugno 1741, anno primo del suo Pontificato. Né infine intendiamo che questa stessa Nostra lettera possa o debba giovare a quelli che da Noi e dalla Sede Apostolica, o da qualunque altro Prelato o Giudice ecclesiastico fossero stati nominativamente scomunicati, sospesi, interdetti, o dichiarati caduti in altre sentenze e censure, o pubblicamente denunziati, se entro il termine del predetto anno non avranno soddisfatto e concordato, ove occorra, con le parti. – Del resto, se alcuni con il proposito di conseguire questo Giubileo dopo aver incominciato l’adempimento delle opere prescritte, colpiti dalla morte, non potranno compiere il prestabilito numero di visite, Noi, desiderando giovare alla loro pia e pronta volontà, vogliamo che i medesimi veramente pentiti, confessati e comunicati siano partecipi della predetta indulgenza e remissione come se avessero nei prescritti giorni realmente visitato le predette Chiese. – Se alcuni poi dopo avere ottenuto, in forza della presente, le assoluzioni dalle censure o le commutazioni dei voti, o le dispense predette, muteranno quel serio e sincero proposito di lucrare questo Giubileo e perciò di compiere le opere necessarie per lucrarlo, quantunque per questo stesso possano reputarsi immuni dal reato di colpa, tuttavia decretiamo e dichiariamo persistere nel loro vigore le assoluzioni, commutazioni e dispense ottenute con la predetta disposizione. – Vogliamo ancora e decretiamo che la presente lettera sia valida ed efficace in tutto ed abbia ed ottenga i suoi pieni effetti dovunque sarà stata dagli Ordinari dei luoghi pubblicata e mandata in esecuzione, e che giovi a tutti i fedeli di Cristo persistenti nella grazia ed obbedienza della Sede Apostolica che dimorano in detti luoghi, o che ivi si porteranno dopo la navigazione ed il viaggio: nonostante le Costituzioni delle indulgenze da non concedersi ad instar e le altre Costituzioni Apostoliche, e le Costituzioni, Ordinazioni e le generali o speciali riserve di assoluzioni, concessioni e dispense edite nei Concili generali, provinciali e sinodali, nonché gli statuti, le leggi, gli usi e le consuetudini di qualunque Ordine di Mendicanti, e Militari, Congregazione e Istituto, corroborati anche da giuramento, apostolica conferma, e da qualunque altro sostegno, come ancora i privilegi, gl’indulti e le lettere apostoliche ai medesimi concesse, e quelle specialmente nelle quali è espressamente proibito che i professi di qualche Ordine, Congregazione e Istituto confessino i loro peccati fuori della propria religione. Alle quali cose tutte e singole, quantunque per la loro sufficiente derogazione, di esse e di tutto il loro tenore si dovesse fare speciale, specifica, espressa e individua menzione, e a ciò si dovesse riservare qualche speciale forma, avendo tal tenore per inserito, e tali forme per esattissimamente osservate, per questa volta e soltanto per l’effetto sopraccennato, pienamente deroghiamo come anche deroghiamo a qualunque altra cosa in contrario. – Mentre poi, per l’ufficio Apostolico che esercitiamo e per la sollecitudine con la quale dobbiamo abbracciare tutto il gregge di Cristo, proponiamo questa salutare opportunità di conseguire la remissione e la grazia, non possiamo astenerci dal pregare e scongiurare per il nome del Signor Nostro e Principe di tutti i Pastori Gesù Cristo, tutti i Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi e gli altri Ordinari dei luoghi, i Prelati, e coloro che legittimamente esercitano locale ordinaria giurisdizione in mancanza dei Vescovi e Prelati sopraddetti, aventi grazia e comunione con la Sede Apostolica, affinché annuncino un tanto bene ai popoli affidati alla loro fede, e con ogni studio s’impegnino affinché i fedeli tutti, riconciliati per la penitenza con Dio, convertano in lucro ed utilità delle loro anime la grazia del Giubileo. Pertanto sarà vostra prima cura, Venerabili Fratelli, dopo avere implorato con pubbliche preghiere la Divina Clemenza allo scopo che riempia della sua luce e della sua grazia le menti e i cuori di tutti, dirigere con opportune istruzioni e ammonizioni il popolo cristiano onde percepisca il frutto del Giubileo, e perché accuratamente intenda quali siano la forza e la natura del Giubileo cristiano per l’utilità e il vantaggio delle anime; in esso con una spirituale ragione si compiono abbondantissimamente, per la virtù di Cristo Signore, quei beni che una vecchia legge aveva introdotto presso il popolo giudaico, annunciatrice delle cose future ogni cinquant’anni. Ciò, affinché il popolo sia anche sufficientemente istruito intorno alla forza delle Indulgenze e su tutte quelle cose che deve compiere per la fruttuosa confessione dei peccati, e per ricevere santamente il Sacramento dell’Eucaristia. Poiché, poi, non solo l’esempio, ma è assolutamente necessaria l’opera del ministero ecclesiastico onde si abbiano nel popolo i frutti della desiderata santificazione, non omettete, Venerabili Fratelli, di eccitare lo zelo dei vostri sacerdoti perché specialmente in questo tempo di salute vogliano alacremente esercitare il loro ministero: al che, e per il bene comune, conferirà certo molto, ove questo possa farsi, se essi precedendo il popolo cristiano con l’esempio della pietà e della religione vorranno per mezzo degli esercizi spirituali rinnovare lo spirito della loro santa vocazione, affinché poi s’impieghino più utilmente e più salutevolmente nel disimpegno dei propri uffici e nelle sacre Missioni da espletare presso i popoli secondo l’ordine ed il metodo da voi prescritto. – Siccome poi tanti sono in questo secolo i mali che hanno bisogno di essere riparati, e i beni che abbisognano d’essere promossi, brandendo la spada dello spirito, che è la parola di Dio, ponete ogni cura perché il vostro popolo venga indotto a detestare l’immane delitto della bestemmia, secondo il quale in questo tempo nulla è così sacro da meritare rispetto, e perché conosca ed adempia i suoi doveri nell’osservare santamente i giorni festivi, nel rispettare le leggi del digiuno e dell’astinenza da osservarsi secondo il prescritto della Chiesa di Dio, e così evitare quelle pene che il disprezzo di tali cose ha chiamato sulla terra. – Parimenti il vostro studio e il vostro zelo veglino costantemente nel mantenere la disciplina del clero, e nel procurare la retta formazione dei chierici; con ogni maniera possibile recate aiuto alla assediata gioventù, la quale si trova esposta a tanti pericoli e a tante gravi rovine quali voi certamente non ignorate. Questo genere di male fu così acerbo al cuore dello stesso Redentore Divino da fargli proferire contro gli autori del medesimo quelle parole: “Chiunque avrà scandalizzato uno di questi fanciulli che hanno fede in me, meglio sarebbe per lui che gli fosse circondato il collo con una mole asinaria, e fosse gettato nel mare” (Mc IX,41). – Niente poi è più degno del tempo del sacro Giubileo quanto esercitarsi indefessamente in ogni opera di carità; sarà perciò anche ufficio del vostro zelo, Venerabili Fratelli, aggiungere stimoli, perché siano aiutati i poveri, i peccati siano redenti con le elemosine, alle quali nelle Sante Scritture si attribuiscono tanti benefici: e perché più ampiamente rimanga il frutto della carità, e riesca più stabile, sarà molto opportuno che i sussidi della carità siano diretti a fomentare o eccitare quei pii Istituti che sono stimati in questo tempo più idonei alla utilità delle anime e dei corpi. Se per conseguire questi beni, si uniranno le vostre menti ed i vostri sforzi, non potrà mancare che il regno di Cristo e la sua giustizia ricevano grandi incrementi, e che in questo tempo favorevole e in questi giorni di salute la celeste clemenza non diffonda sopra i figli dell’amore grande quantità di doni superni. – A voi infine, Figli tutti della Chiesa cattolica, rivolgiamo il Nostro discorso; e voi tutti e singoli esortiamo con paterno affetto perché così vi serviate di questa occasione di Giubileo per conseguire il perdono, come da voi richiede il severo studio della vostra salvezza. Se lo è sempre, ora poi è necessarissimo, Figli dilettissimi, mondare la coscienza dalle opere morte, offrire i sacrifici di giustizia, fare frutti degni della penitenza, e seminare nelle lacrime per mietere nell’esultanza. La divina Maestà a sufficienza ci fa noto cosa ricerchi da noi, mentre già da gran tempo per la nostra pravità ci affatichiamo sotto le sue minacce e sotto l’ispirazione dello spirito dell’ira sua. In verità “gli uomini sono soliti ogni volta in cui patiscono una troppo ardua necessità, mandare dei legati alle genti vicine per riportarne un soccorso. Noi, ciò che è meglio, destiniamo una delegazione allo stesso Dio“; da Lui imploriamo gli aiuti, a Lui rivolgiamoci col cuore, con le orazioni, con i digiuni e con le elemosine. Infatti, “quanto più saremo vicini a Dio, tanto più lontani da noi saranno respinti i nostri avversari“. Ma poiché siamo Noi i legati di Cristo, voi ascoltate principalmente la voce apostolica: voi che siete travagliati e preoccupati; allontanandovi dalla strada della salvezza rimanete oppressi dal giogo delle prave cupidigie e della diabolica servitù. Non vogliate disprezzare le ricchezze della bontà, della pazienza e della longanimità di Dio; e mentre vi si apre davanti una via così facile ed ampia per conseguire il perdono, non vogliate per la vostra contumacia rendervi inescusabili presso il Divino Giudice, e accumulare su di voi l’ira nel giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio. Ritornate pertanto, o peccatori, al cuore; riconciliatevi con Dio; il mondo passa, e con esso la sua concupiscenza; rigettate le opere delle tenebre, indossate le armi della luce, cessate di essere nemici delle anime vostre, onde meritare finalmente la pace in questo secolo, e nell’altro i premi eterni dei giusti. Questi sono i Nostri voti; queste cose non cesseremo di chiedere al clementissimo Signore, e questi stessi beni, congiunti a Noi tutti i figli della Chiesa Cattolica in una società di preghiere, confidiamo potere abbondantemente conseguire dal Padre delle Misericordie. – Frattanto per il fausto e salutare frutto di questa santa opera sia auspice di ogni grazia, e di ogni celeste dono, l’Apostolica Benedizione che a voi tutti, Venerabili Fratelli, e a voi, diletti Figli, quanti siete annoverati nella Chiesa Cattolica, dall’intimo del Nostro cuore affettuosamente concediamo nel Signore.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 24 dicembre 1874, anno ventinovesimo del Nostro Pontificato.