CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: DICEMBRE 2020

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA:

DICEMBRE 2020.

Dicembre è il mese che la Chiesa Cattolica dedica all’Immacolata Concezione ed alla Natività di Gesù Cristo.

… finalmente, nel racconto dell’annunziazione non è detto solamente: Maria concepirà; ma ancora che: Ella sarà gravida e partorirà un Figliuolo conforme alla profezia: Una Vergine concepirà e partorirà, ed è lo stesso Vangelo che le fa l’applicazione di questa profezia. (Matt. I, 23). Diciamo dunque colla Chiesa, esprimendo la fede universale dei Cristiani: Virgo prius ac posterius; e, in questo prodigio del parto verginale di Maria, onoriamo la continuazione delle sue grandezze. Il Vangelo dice che ella partorì il suo Figliuolo primogenito. Noi abbiamo già perentoriamente confuso la stolta obbiezione che trae da questa denominazione di primogenito la conseguenza che Maria avrebbe messo al mondo altri figliuoli dopo Gesù. Ma quanto questa espressione ripugna a questa conseguenza nel senso carnale, altrettanto essa vi si presta nel senso spirituale. Dio, difatti, ci dice san Paolo, ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinché sia il primogenito tra molti fratelli (Rom. VIII, 29); ed è perciò che Egli ha partecipato della nostra carne e del nostro sangue, dovendo essere totalmente simile ai fratelli, affinché divenisse pontefice misericordioso e fedele presso Dio». Perciò Maria ha realmente partorito un Figliuolo primogenito, primogenito di tutti i Cristiani, dei quali perciò Ella è veramente la Madre. V’ha di più: siccome, partecipando alla nostra natura, il Figliuolo di Dio si è appropriato in lei tutta la creazione della quale noi siamo il sommario, così Egli è diventato per la sua incarnazione, come anche dice san Paolo, il primogenito di tutte le creature, primogenitus omnis creaturæ (Coloss. I, 15):  espressione la cui sublimità non toglie nulla all’esattezza, e che riflette così sulla Vergine Maria lo splendore più universale. Tutte le creature animate e inanimate, celesti e terrestri, rigenerate, pacificate, consacrate dal Figliuolo primogenito di Maria, salutano in lei la Madre e la Signora dell’universo. E tutto ciò sotto queste semplici espressioni: Ella partorì il Figliuolo suo primogenito! Non ci faccia stupire adunque che così semplici parole racchiudano un senso così profondo, poiché questo piccolo fanciullo che esse ci mostrano, racchiude e nasconde un Dio. Maria, dice il Vangelo, lo fasciò e … lo pose a giacere in una mangiatoia, perché non eravi luogo per essi nell’albergo. Parrebbe che il caso e la necessità fossero quelli che ridussero Maria a partorire Gesù in una stalla e ad adagiarlo in una mangiatoia. Ma, in realtà, è la scelta, e la scelta dell’amor materno, della sapienza infinita, dell’onnipotenza. Quegli che ha posto il suo padiglione nel sole, come dice il reale profeta, poteva senza dubbio farsi allestire un posto nell’osteria d’un piccolo borgo: Egli poteva nascere nel palazzo di Erode o di Cesare, e farsi adorare dal senato nel Campidoglio, perché tutta la terra è sua. Ma che avrebbe fatto, in ciò, di più e di meglio dei potenti del mondo che veniva ad umiliare? Quale alleviamento avrebbe recato all’umanità povera e miserabile, che voleva liberare e consolare? Era cosa degna di Colui che non ha da ricevere nulla e che veniva a recare ogni cosa, scegliere ciò che v’ha di più povero per arricchirlo, ciò che v’ha di più umile per innalzarlo, ciò che non è, per farne ciò che è; e il manifestare tanto la sua ricchezza e la sua potenza, quanto la sua misericordia e il suo amore. Era cosa degna dell’eterna sapienza lo smascherare i falsi beni ripudiandoli, e additare i veri beni sposandoli. Era cosa degna del riparatore della natura umana precipitata nell’orgoglio e nella concupiscenza, il raddrizzarla, mettendo il contrappeso e l’allettativo della sua divinità dal lato della povertà e del patimento: sì, era cosa degna del Dio buono, onnipotente, infinitamente sapiente, il nascere in una stalla e il morire sopra una croce. Ah! se questa vile stalla, se questa spaventevole croce fossero rimaste ciò che furono quando egli ne ha sposata l’ignominia, io tacerei. Ma quando io vedo tutta la terra stupefatta abbandonare in breve tutti i suoi idoli d’orgoglio e di voluttà, per venire ad adorare la stella e la croce; quando io vedo trasformata la stalla in una cattedrale, come Nostra Signora di Chartres e di Parigi; e vedo la croce mutata in segno di gloria ed in istrumento di consolazione; quando io le vedo diventate ambedue una sorgente di dolcezza e di forza, una scuola di sapienza e di santità, un centro di lumi e d’incivilimento, di cui venti secoli di esperienza e di progresso non hanno fatto che tentare la pienezza; quando finalmente questa gran meraviglia è raddoppiata ai miei occhi da quella della sua spedizione, e, se così oso dire, del suo pegno; allora, oppresso sotto tante prove della onnipotenza, della sapienza infinita e della bontà suprema, io mi arrendo e credo…

(A. Nicolas: La Vergine Maria secondo il Vangelo, vol. II, – S. E. I. Milano … 1938)

Ecco le feste del mese di DICEMBRE (2020)

2 Dicembre  S. Bibianæ Virginis et Martyris    Semiduplex

3 Dicembre  S. Francisci Xaverii Confessoris    Duplex majus

4 Dicembre S. Petri Chrysologi Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

                                         PRIMO VENERDI

5 Dicembre S. Sabbæ Abbatis    Feria

                                      PRIMO SABATO

6 Dicembre Dominica II Adventus    Semiduplex II. Classis

S. Nicolai Episcopi et Confessoris    Duplex

7 Dicembre S. Ambrosii Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

8 Dicembre In Conceptione Immaculata Beatæ Mariæ Virginis  Duplex I. classis *L1*

10 Dicembre S. Melchiadis Papæ et Martyris    Feria

11 Dicembre S. Damasi Papæ et Confessoris    Duplex

13 Dicembre Dominica III Adventus    Semiduplex II. classis

16 Dicembre S. Eusebii Episcopi et Martyris    Feria

                   Feria IV Quattuor Temporum Adventus    Semiduplex

18 Dicembre

Feria VI Quattuor Temporum Adventus    Semiduplex

19 Dicembre

Sabbato Quattuor Temporum

20 Dicembre Dominica IV Adventus    Semiduplex II. classi

21 Dicembre S. Thomæ Apostoli    Duplex II. classis

24 Dicembre In Vigilia Nativitatis Domini    Duplex I. classis

25 Dicembre In Nativitate Domini    Duplex I. classis *L1*

26 Dicembre

S. Stephani Protomartyris    Duplex II. classis *L1*

27 Dicembre Dominica Infra Octavam Nativitatis    Semiduplex Dominica minor

S. Joannis Apostoli et Evangelistæ    Duplex II. classis *L1*

28 Dicembre

Ss. Innocentium    Duplex II. classis *L1*

29 Dicembre Die quinta post Nativitatem    Semiduplex *L1*

                       S. Thomæ Episcopi et Martyris    Duplex *L1*

30 Dicembre Die sexta post Nativitatem    Semiduplex *L1*

31 Dicembre Die septima post Nativitatem    Semiduplex *L1*

                      S. Silvestri Papæ et Confessoris    Duplex *L1*

GNOSI: LA TEOLOGIA DI sATANA (49) – LA VERA E LA FALSA FEDE -IV-

LA VERA E LA FALSA FEDE –IV.-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

§ V. – Si dimostra la stessa verità colla storia delle moderne eresie, ovvero del protestantismo che tulle le contiene. Lutero e i suoi errori. Le sue prime tre prosapie dei SACRAMENTARJ, degli ANABATTISTI e dei CONFESSIONISTI, e loro principali diramazioni, che producono L’INDIFFERENTISMO e la disperazione di conoscere alcuna verità.

Or, come era naturale ad accadere, queste dottrine sì temerarie, sì licenziose, sì empie, corruppero i costumi principalmente dei grandi; alienarono i popoli dalle vie della dipendenza all’autorità ecclesiastica, rallentarono i legami dell’unità cattolica, e prepararono le mentì e i cuori al più grande, al più scandaloso, al più funesto di tutti gli scismi, che si disse protestantismo o riforma, e che nel secolo decimosesto strappò tante nazioni dal seno della Chiesa Cattolica per darle in preda a tutti gli errori e a tutti i vizj. – Il protagonista di questo dramma infernale fu Martino Lutero, già religioso e sacerdote, e poi, perché credutosi offeso ne’ suoi ambiziosi disegni dal Sommo Pontefice, apostata infame della fede e della pudicizia, essendosi unito in incestuoso e sacrilego matrimonio con Anna Bore, moniale professa da lui sedotta. Quest’uomo, il più turbolento, il più audace, il più dissoluto che fosse mai, poiché non interrompeva le sue tresche lascive che per immergersi nella crapula e nella ubriachezza, osò, come Riccardo, di attribuirsi una ispirazione ed una missione soprannaturale, colla sola differenza che, più modesto di Riccardo che si era detto figlio di Dio, contentossi Lutero di passare per famigliare del diavolo, asserendo di averlo sempre avuto a sua guida ed a suo consigliere. Fu dunque sotto l’ispirazione infernale che Lutero pose sossopra la Chiesa e gli stati, ingannò i principi, sedusse il clero, corruppe i popoli, calpestò le leggi umane e divine, e insultò il cielo e la terra, gli uomini e Dio: finché, non reggendo al rimorso destatogli dalla memoria di tante scelleratezze e ai tanti scandali, con un capestro si strozzò da sé medesimo, non potendo certo perire per più degne mani. – Questo discepolo del diavolo insegnò con Talentino e Manete che il libero arbitrio si è dall’uomo perduto affatto per lo peccato; con Eonomio, che la fede sola giustifica, e le buone opere non servono a nulla: e eoa Berengario infine, che nella Eucaristia il corpo e d Signore si trova colla sostanza del pane. Negò di più eoi valdesi l’infallibilità della Chiesa, l’autorità del sommo Pontefice, le indulgenze e il purgatorio. Abolì coi novaziani la confessione, e cogli ussiti la Messa e l’Estrema-Unzione. Tolse di mezzo le tradizioni come avea fatto Nestorio, Dioscoro, Eutiche. Disse, come già i donatisti, la Chiesa essere perita e risorta in lui e ne’ suoi seguaci. Condannò la verginità e i voti religiosi, come Gioviniano. E colla massima che aveva di continuo in bocca « Venga la serva se non è pronta la moglie, adsit ancilla, si nolit uxor, » avendo, a somiglianza di Carpocrate e di Valentino, permesso l’adulterio e il divorzio, fece del sacramento del matrimonio un contratto di affitto temporaneo a comodo e capriccio della voluttà.In compagnia però di questi errori Lutero sparse il seme di moltissimi altri, che i suoi discepoli non mancarono di far germogliare: di modo che il protestantismo, preso nél complesso di tutte le sette che lo compongono, è stato la restaurazione di tutte le eresie che lo avevano preceduto; e perciò rimonta a Lutero il delitto e l’obbrobrio di essere stato nei tempi moderni ciò che Lucifero fu dal principio del mondo: l’omicida delle anime, il patriarca di tutti gli empj ed il dottore di ogni empietà. Non sarà discaro però al lettore il vedere, qui, come in un quadro, le sette principali e i principali errori cui diede il natale questo turpe eresiarca; poiché io lo ripeto, nulla vi è di più istruttivo di questa vasta figliazione dell’errore, di queste divisioni degli eretici, per far conoscere di che è capace la ragione quando si sottrae dall’autorità della Chiesa, e per convincerci sempre di più che, in questa Chiesa, in cui abbiam la sorte di vivere, solo si trova coll’unità dell’insegnamento, la verità della fede.Dai tre primogeniti figli o discepoli di Lutero nacquero da prima tre prosapie di eretici: 1. quella dei sacramentari,che ebbe Carlostadio; 2. quella degli anabattisti, che ebbe Bernardo Rotmano; 3. quella dei confessionisti, che ebbe Filippo Melantone per padre; ed una quarta ancora ne venne alla luce dei sacramentarj, che ebbe Giovanni Calvino per fondatore. Poiché però la divisione è la legge inevitabile dell’errore, come l’unità è il carattere proprio della verità; nate appena queste quattro prosapie, si suddivisero in cento altre: ed ecco qui le principali diramazioni di ognuna.

PRIMA PROSAPIA DI LUTERO

I SACRAMENTARI.

Carlostadio, il primo dei discepoli di Lutero che, ad imitazione del maestro, prendesse sfacciatamente moglie, essendo sacerdote, veduto che Lutero avea negata la Messa, volle andare ancora più innanzi. E d associandosi Zwinglio ed Ecolampadio, rinnovò la prima eresia di Berengario, negando arditamente la reale presenza di Gesù Cristo nell’Eucaristia, e fermò la prosapia dei sacramentarj. Di costui dice Erasmo che morì strozzato dal suo Dio, cioè dal Demonio. – I capi principali però della sua setta essendo, non meno di Carlostadio, smaniosi di divenire anch’essi fondatori e maestri di eresie, si divisero, e quindi ne vennero:

1. I zwingliani, da Zwinglio, uomo facinoroso e fanatico, che, come aveva abbandonato Lutero di cui fu discepolo, si staccò ancora da Carlostadio con cui fu complice nell’impugnare i sacramenti. Formò perciò una nuova setta con dottrine sue proprie: che volendo propagar colle armi, ne fu vittima, giacché fu scannato in una mischia e buttato alle fiamme. I suoi seguaci furono detti significativi da ciò che Zwinglio avea insegnato, che nell’Eucaristia non vi è altrimenti il corpo ma il segno del corpo del Signore; e perciò coll’autorità che disse di avere ricevuto dallo Spirito Santo, avea anche cambiato le parole della consacrazione ordinando che nella cena sacramentaria, invece di « hoc est CORPUS Meum » si dicesse « hoc SIGNIFICAT corpus meum. »

2. I neutrali; che come era naturale ad aspettarsi, ridendosi di questo segno, sostennero non esser necessaria né l’uno né l’altra specie, molto meno tutte e due: aggiungendo, il sacramento non servire a nulla: la grazia ottenersi solo colla fede in esso, non col suo uso, che perciò fu abolito in questa sezione de’ sacramentarj.

3. Gli energiaci; che nell’Eucaristia ammisero la presenza non del corpo, ma dell’energia o virtù di Gesù Cristo, la promessa del soccorso e della grazia da ricevere.

5. Gli adessenarj; che al contrario vi confessarono la presenza reale del. corpo, ma gli uni nel pane, gli altri intorno al pane, i terzi col pane, gli ultimi sotto il pane: che però si sminuzzarono in quattro altre sette diverse.

6. Gl’iscariotti; che negarono che Giuda nell’ultima cena abbia ricevuto il vero corpo di Gesù Cristo.

7. I metamorfisti pei quali, come già per gli armeni, il corpo del Signore asceso al cielo si è metamorfosizzato in Dio; e perciò per costoro vi è nell’ostia un corpo divino che non ha nulla di carnale e di umano, cioè vi è un corpo che non è corpo: errore manifestamente condannato dalle stesse parole di Gesù Cristo, che ha chiamata l’Eucaristia il suo corpo e la sua carne.

SECONDA PROSAPIA DI LUTERO

GLI ANABATTISTI.

Botmano, avendo letto in una lettera di Lutero non doversi dare il Battesimo ai fanciulli, ma convenire aspettare perciò la maturità della ragione e della fede, incominciò ad insegnare doversi ribattezzare coloro che avevano ricevuto il Battesimo nell’infanzia; e fondò la setta degli anabattisti o dei ribattezzanti. Di questa setta furono Baldassare Pacimontano, Giorgio Davide, Tomaso Monetario, e Giovanni di Leida, uomini di un fanatismo e di una crudeltà al di là di ogni idea: che non avendo potuto meglio accordarsi fra loro di quello che avevan fatto con Lutero, da cui eran divenuti apostati, e di cui avevano sfigurate le dottrine, si suddivisero pure fra loro e crearono:

1. Gli adamiti; che, rinnovando le orge invereconde e dissolute di Riccardo, si unirono a vivere ignudi nelle selve, come Adamo ed Eva, vantando di avere acquistato l’integrità e l’innocenza originale.

2. Gli stebleri; che condannarono assolutamente nei Cristiani l’uso delle armi, anche del caso di una giusta difesa.

3. I sabbatarj; che, imitando gli Ebrei, si diedero a santificare il sabbato, invece della domenica; ed adorando solo il Dio creatore, proscrissero il culto e il nome di Gesù Cristo e dello Spirito Santo, cioè a dire abiurarono il Cristianesimo.

4. I clancularj; che sostennero la sola fede interna e nascosta bastare per l’acquisto dell’eterna salute, l’esterno culto nei templi e l’esterna confessione della fede non servire a nulla; e però richiesti se erano anabattisti, poterlo impunemente negare.

5. I manifestarj; che insegnavano tutto il contrario, e che dalla confessione di essere anabattisti facean dipendere la salute eterna.

6. I demoniaci; che, come gli antichi origenisti, credono la salvazione dei demonj.

7. I condormienti; che, per soverchio amore del nuovo evangelio, dormivano alla rinfusa uomini e donne in una stessa sala: ed al segno dato dal capo, colle parole crescite et multiplicamini, rinnovavano la comunione mistica dei seguaci di Carpocrate.

8. I comunisti; che fecero comuni non solo le donne e i figliuoli, ma ancora i beni, volendo realizzare la repubblica di Platone. Questa setta è rinata ai dì nostri collo stesso nome. Fourier, che ne è stato il restauratore, ha organizzato in modo le simpatie dell’amore che, a capo di un dato tempo, ogni uomo si sarà trovato con tutte le donne; ed ogni donna con tutti gli uomini di questa sublime società; in cui perciò al matrimonio cristiano è sostituita la promiscuità dei bruti. Or queste belve a due piedi che hanno abjurata l’umanità osano dirsi uomini e Cristiani!

9. I gementi; che, simili agli antichi euchiti, dicevano la divozione e il culto più accetto a Dio essere il piangere e il gemere.

10. Gli steimbakiani; da Martino Steinbak. Costui disse di essere esso pure lo Spirito Santo, che si era alla sua volta incarnato, come erasi di già incarnato il Figliuolo. Questo matto bestemmiatore, che sembra impossibile come abbia potuto avere seguaci, corresse ancora il Pater noster, togliendone le parole, qui es in cælis: poiché diceva Dio padre non essere altrimenti in cielo, ma fuori del cielo, ed attendere l’incarnato Spirito Santo Martino venisse ad aprirgli le porte. È però già un pezzo che non Martino a Dio, ma Dio a Martino ha aperte le porte…. ma dell’inferno!

11. I georgiani; che negarono la risurrezione della carne: detti davidici, perché Giorgio lor capo si era chiamato il secondo Davide, come Lutero si era detto il terzo Elia, ed il secondo Enoch. Oh egregia copia di profeti…. del diavolo!

12. I poligamisti; che sostenevano esser lecito ad un uomo di potere, allo stesso tempo avere più mogli, a guisa dei Turchi; come ne diede l’esempio Giovanni di Leida, che si fece re di Munster, e poi Arrigo VIII in Inghilterra, ambedue di crudele e impudica rimembranza.

TERZA PROSAPIA DI LUTERO

CONFESSlONISTI.

Melantone, autore della celebre confessione di Augusta, avendo in essa parte accresciuti e parte modificati gli errori di Lutero suo padre e maestro, divenne patriarca di eretici esso stesso e il più fecondo di tutti i suoi fratelli. Giacché i confessionisti, che lo riconoscono per fondatore, formarono subito quattro altre distinte prosapie, che si ripartirono ancora in moltissime altre sette. Le quattro prosapie subalterne furono quelle 1. dei confessionisti rigidi; 2. dei confessionisti molli; 3. dei confessionisti stravaganti; 4. dei confessionisti indifferenti, delle quali ecco le principali diramazioni:

1. Confessionisti rigidi, detti stoici.

Loro capo fu Mattia Illirico, autore principale dell’empia Storia Maddeburgense, e che, tra le altre pazzie, disse che il peccato originale è sostanza. I suoi discepoli furono designati col nome di rigidi, perché pria di tutto accolsero, come un secondo evangelio, tutte e singole le stravaganze, le turpitudini e le empietà di Lutero, senza ometterne una sola sillaba. Ma siccome sopraccaricarono quest’infernale evangelio con molti altri errori, così si divisero in:

1. Antinomj o nemici delia legge, che dicono l’osservanza della legge divina non essere né necessaria né utile ai seguaci del Vangelo.

2. Samosateni (nuovi), che trassero origine da Francesco David e da altri ministri transilvani: essi negano che la parola VERBO nella Trinità significa figliuolo e persona: e perciò negano l’augustissima Trinità e la divinità di Gesù Cristo.

3. Trideiti; che al contrario ammettono in Dio, come già i discepoli di Filopono, non solo tre persone, ma tre nature distinte: e perciò ammettono tre dei.

4. Infernali; che negano la discesa di Gesù Cristo al limbo; e, per far corto, negano ogni inferno.

5. Infernali-eterogenei; che, al contrario, non solo ammettono che vi è l’inferno e che Gesù Cristo vi è disceso, ma ancora che ne ha subite tutte le pene.

6. Antidemoniaci; che negano l’esistenza del demonio, dei mali spiriti e delle loro operazioni.

7. Ambsderffiani; che, andando più in là degli antinomj, riguardano le opere buone come perniciose all’eterna salute, e però le abborrono.

8. Antidiaforisti; che non riconoscono nella Chiesa alcuna giurisdizione episcopale, alcuna antica cerimonia o rito.

9. Antiosiandrini; che affermano la giustificazione dell’uomo, per mezzo della grazia, essere sol di parole, e non vera o reale.

10. Anticalviniani; che ammettono bensì la presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia, ma colla sostanza del pane e transitoria, cioè durante solo il tempo della cena; e perciò negano l’adorazione del Santissimo Sacramento.

11. Impositori delle mani; che riguardano come sacramento l’imposizione delle mani, anche dei laici.

12. Bisacramentarj; che ammettono solo due sacramenti; il Battesimo e la Cena.

13. Sacerdotali: che rigettano l’ordine, affermando tutti i Cristiani, uomini e donne, essere egualmente sacerdoti per poter predicare, amministrare la cena ed assolvere.

14. Invisibili; che, per liberarsi dall’impaccio di decidere qual sia la vera Chiesa tra la confessione di tante sette fra loro contrarie, anziché riconoscere la Chiesa vera nella cattolica comunione, amarono di dire che la vera Chiesa è invisibile, e che non si può affatto riconoscere.

15. Ubiquisti; da Giovanni Benzio, che, volendo ritenere da una parte la presenza reale coi melantonj, ed evitare la transustanzazione in grazia dei calvinisti, sognarono l’insulso errore dell’ubiquità, o della presenza reale del corpo del Signore in tutti i luoghi ed in tutte le creature.

2. Confessionisti molli.

Formarono questa prosapia tutti i seguaci di Melantone che procurarono d’interpretare la confessione d’Augusta e la dottrina di Lutero in un senso più prossimo a quello della Chiesa Cattolica; ma che, non essendo d’accordo fra loro in queste benigne interpretazioni, si divisero in

1. Biblisti, che sostennero dal Cristiano non doversi leggere altro libro fuorché la Bibbia senza interpretazioni o commenti, giacché lo Spirito Santo ne dà a tutti l’intelligenza. Interdissero perciò ogni altro studio; ed in Vittemberga fecero chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri; affermando dovere tutti i figli di Adamo, secondo la primitiva condanna, vivere del lavoro delle loro mani. Carlostadio e Melantone diedero da prima di ciò l’esempio, prendendo quegli a lavorare la terra, questi a molire il grano. Ma ben presto persuadendosi che, a conto fatto, il mestiere di dottore è più comodo di quello di molinaro e di bifolco, posero essi medesimi fine a queste stolide stravaganze per ispacciarne delle altre senza tanto loro disagio.

2. Adiaforisti o indifferenti; che affermarono non peccare chi viola, non meritare chi osserva le decisioni e le leggi della Chiesa, essendo queste cose affatto indifferenti.

3. Trisacramentarj; che ritennero tre soli sacramenti. il Battesimo, la Cena e l’Assoluzione. Melantone non seppe mai perdonare a Lutero l’avere abolita la confessione.

4. Quadrisacramentarj; che ai tre indicati sacramenti aggiunsero per quarto il Sacerdozio.

5. Lutero-calvinisti che pretesero conciliare la dottrina di Lutero con quella di Zwinglio intorno ai sacramenti, affermando la differenza fra questi due luminari della riforma essere solo di parole. E dicean vero; giacché in fondo ciò che afferma Lutero còlle parole, lo nega col fatto; ed in fondo è d’accordo con Zwinglio per distruggere ogni sacramento.

6. Semiosiandrini; che, volendo conciliare Osiandrio, che sosteneva la giustificazione reale, e gli antiosiandrini, che l’ammettevano solo di parole, dissero la giustificazione dell’uomo per mezzo della grazia esser solo di parole in questa vita, e reale nell’altra.

7. Maggioristi; da Giorgio Maggiore, che insegnarono l’uomo esser giustificato solo dalle proprie sue opere precedenti, perciò il Battesimo non giustificare i fanciulli.

8. Penitenziarj; che all’errore di Melantone, che sosteneva la penitenza consistere nel rimorso del peccato e nella fede del perdono, ne aggiunsero altri sette ancora e più grossolani.

9. Sincretizzantij che persuadono a tutte le sette di simulare una finta pace fra loro, non potendo averne una vera affine di riunire gli sforzi comuni contro la Cattolica Chiesa.

3. Confessionisti stravaganti.

La confessione di Augusta, come di poi avvenne dei trentanove articoli del protestantismo inglese, non tardò a divenire, in molte parti della Germania, legge di stato, che i governi imposero alle coscienze colla forza, non potendo persuaderla colla ragione. Per quieto vivere adunque coi principi, moltissimi discepoli di Melantone si adattarono a ricevere esteriormente questa confessione per regola di fede, mentre che nell’interno del loro cuore la detestavano e facevano sforzi comuni per distruggerla. Costoro furono di tutti i confessionisti quei che andarono più lungi dalle dottrine di Lutero; e costituirono perciò la prosapia dei confessionisti stravaganti. Ma siccome al solito, all’uscire dalla comunione confessionista, presero diverse vie, così formarono diverse sette, sotto il nome di:

1. Schuvenkfeldianij da Gaspare Schuvenkfeldio, che, avendo per domma comune che l’umanità di Gesù Cristo era stata generata dallo Spirito Santo, e che il Battesimo (la penna rifugge di scrivere questa bestemmia) è un bagno porcino (balneum suillum), si suddivisero in quattro altre sette.

2. Osiandriani, che opinarono che Gesù Cristo solamente colla sua divinità, escluso ogni soccorso della sua umanità ha compiuta la giustificazione del genere umano.

3. Stancarianij che sostenevano tutto il contrario: la giustificazione del genere umano essere stata opera della sola umanità di Gesù Cristo, e che la divinità sua non vi ha avuta alcuna parte.

4. Aniistancariani; che, opponendosi a tutte e due le sette precedenti, rinnovarono l’orribile bestemmia degli armeni, dicendo la giustificazione degli uomini essere stata sì fattamente l’opera delle due nature insieme che anche la divinità fu morta in Gesù Cristo in croce.

5. Nuovi pelagiani; che dissero il peccato originale essere una malattia, non una colpa; e perciò posero in paradiso Numa Pompilio, Catone, Scipione e tutti i gentili che hanno lasciato un nome nella storia; riprovati perciò da Lutero e da Zwinglio.

6. Nuovi manichei; che insegnarono tutti i mali accadere per una assoluta necessità e che Dio è l’autor del peccato, concorrendovi non solo permissivamente ma effettivamente ancora. Sicché nessun furto, omicidio, adulterio si commette dall’uomo contro il volere di Dio; ma tutti i peccati si commettono da Dio nell’uomo, e, più che l’uomo il vero peccatore é Dio. E perciò il peccato di Davide e il tradimento di Giuda essere stata opera di Dio tanto quanto la conversione di S. Paolo. Altri di loro poi portarono sì lungi la bestemmia che dissero che Dio ispira a bella posta pensieri rei all’uomo. Poiché però i semi di queste empie dottrine si trovano sparsi nelle opere di Lutero e di Calvino. può senza ingiustizia disputarne loro il primo magistero.

4. I Confessionisti indifferenti.

Questa orribile confusione d’idee, di giudizj, di credenze contradittorie, nate dalla stessa confessione d’Augusta, non erano certo una buona raccomandazione per farla credere il vero simbolo cristiano, la formola vera e sicura di ciò che bisogna credere e fare per piacere a Dio e salvarsi: ma tutto al contrario, era un argomento infallibile, un motivo possente per disperare di trovar nulla di certo e di vero nella luterana riforma, o in alcuna delle sette infinite in cui si era trasformata. Or la conseguenza che si avrebbe dovuto tirare da questo gran fatto pubblico e solenne dell’impossibilità di trovare una forma certa e vera di religione fuori della Cattolica Chiesa era questa: Dunque bisogna ritornar nella Chiesa che abbiamo abbandonata, ed in cui solo si trova una dottrina uniforme, stabile e costante e perciò vera e sicura. Ma questo ritorno sarebbe costato molto all’orgoglio ed alle passioni, che nell’apostasia della Chiesa avevano trovato tutto il loro conto. Perciò l’argomento che era stato sì buono a discoprire la grande decezione, l’orribile scherno, il nulla della riforma, non fu più buono per conchiuderne la necessità del ritorno alla vera Chiesa. La logica dell’errore, forte contro l’errore, disanimata si arresta in faccia ai sacrifici che imporrebbe la verità: e perciò procura di non vederla, di non accorgersene, per non essere obbligata a seguirla, come appunto un debitore fugge l’incontro di un creditore severo; e se lo vede da lungi, torce altrove il volto e cambia cammino. Perciò moltissimi confessionisti, che. da ciò che vedevano accadere, non potevano credere che nella confessione d’Angusta, seminario di tanti errori, di tanti scismi, di tanta rivalità, vi fosse il vero Cristianesimo: anziché ridursi a cercarlo, a riconoscerlo nella Chiesa Cattolica, in cui era sì visibile e sì facile a ritrovarlo, amaron meglio di dire che il vero Cristianesimo non si trova in nessun luogo; e quindi i confessionisti scettici e indifferenti, che, mentre erano ancor calde le ceneri di Lutero, si formarono in diverse sette, onde ebbero origine:

1. Gli anfidossi; che, per un avanzo di pudore, volendo conservare un’ombra di Cristianesimo, dissero che tutte le religioni sono buone per salvarsi, purché si creda che Gesù Cristo è morto per tutti.

2. I teodossi; che, più empj, ma almeno più franchi e più consentanei ai principj della riforma, rigettando senza tanti complimenti ogni verità cristiana, ritennero che per salvarsi bastava credere in un solo Dio creatore del cielo e della terra; e perciò, che il maomettanismo, il giudaismo e il Cristianesimo sono religioni ugualmente buone per andar salvo.

3. Gli eterodossi; che, avendo rinunziato ad ogni comunione cristiana e rigettando con eguale indifferenza il magistero di Lutero e di Melantone, di Zwinglio e di Calvino, di tutte le dottrine di sì bravi maestri ritennero quello solamente che ad ognuno parve bene di ritenere; e rimanendovi pertinacemente attaccati, con ciò solo credevano di potere salvarsi.

4. Gli autodossi; che facendo un passo di più di tutti i settarj precedenti, professarono che non era affatto necessario l’ammettere e ritenere alcuna dottrina di alcuna comunione cristiana; ma che vera e bastante per conseguir la salute era quella religione che ognuno si formerebbe col suo giudizio, né esservi alcun obbligo di restare immobile in questa religione, ma potersi variare secondo il proprio capriccio; in una parola, che bisogna render culto a Iddio come e quando ognuno l’intende.

5. Gli epicurei novelli; che, ancora più espliciti, dissero che non vi è alcun bisogno di render culto a Dio; giacché l’anima muore col corpo, come quella dei bruti, di cui però imitavan la vita.

6. I fratelli di Rosa Croce; nati da ciò che la setta degli anabattisti avea prodotto di più empio e di più impuro: che, fingendosi confessionisti in apparenza, furono atei in sostanza; e promettendo d’insegnare l’alchimia o l’arte di convertire in oro i metalli, attiravano alla loro setta gl’incauti; e fermativili per mezzo di orribili giuramenti, li iniziavano a tutti i misteri d’empietà.

7. I libertini; che ammisero che non vi é altro che un solo spirito immortale, e non solamente le anime umane, ma ancora gli angioli essere soggetti alla morte; che la morte di Gesù Cristo sulla croce fu solo apparente; che è lecito di dissimulare la propria religione e prendere alla circostanza quella delle persone con cui si tratta, per avere pace con tutti. Di questa setta parlando Io stesso Calvino, dice che era numerosa di molte migliaja fino mentr’esso vivea.

8. Gli atei; che, più empj, ma più progressisti e più conseguenti di tutti, insegnarono che non vi è alcun Dio, e che la religione è invenzione degli uomini.

9. I machiavellisti; che, convenendo interamente cogli atei nel negare ogni verità ed ogni religione, dissero però che una qualche religione bisogna ritenerla, come mezzo di politica, per contenere in dovere il popolo. Sicché l’ateismo puro è stata l’ultima conseguenza e l’ultima orribil parola del protestantismo. Così quando si abbandona la fede e l’autorità della Chiesa, sola depositaria sicura del vero, l’uomo che ragiona, di conseguenza in conseguenza, di errore in errore, è strascinato a non creder più nulla a negar tutto fino Dio stesso; ciò che fece dire a Fénélon che « tra la Religione Cattolica e l’ateismo non vi è alcun mezzo ragionevole, e la storia di tutte le eresie é una prova costante di questa verità. »

Beerlinkio, dopo aver tessuto il catalogo di queste sette di indifferenti o di atei (questi due vocaboli sono sinonimi) assicura che essi nel secolo XVII, in cui egli scriveva, erano sparse negli angoli più remoti della Germania, sebbene non cosi pubbliche che si potessero da tutti riconoscere: Inveniuntur hae omms et singula secta in omnibus Germaniæ angulis, licet non usque adeo apertæ ut ab omnibus dignosci queant. Aggiunge però che esse appettavano l’occasione. opportuna per prodursi alla luce del giorno e, come un fiume accresciuto dalle piene di torrenti devastatori,rompere in ogni luogo; Sed parum abest quin, ut ingens flumen torrentibus auctum, hae sectæ, data occasione in lucem apertissimam prorumpant (Theatr. vit. hum., art. HÆRETICUS) . E di fatti questa profezia ebbe nel secolo decimottavotutto il suo compimento.

§ VI. – Siegue la storia delle moderne eresie. Quarta prosapia di Lutero. Calvino, suoi errori e sua indole. Sette principali nate dal calvinismo. Il protestantismo inglese e suoi effetti. Scuola anticristiana del secolo decimottavo, e panteistica del nostro. La ragione umana, negando la vera fede, finisce col negare se stessa.

QUARTA PROSAPIA DI LUTERO

I CALVINISTI.

Ma la più maligna e la più infamemente feconda e feroce delle prosapie di Lutero, fu quella che questo eresiarca ottenne per mezzo di Calvino. Costui figlio negli errori e discepolo di Zwinglio, e nipote perciò di Lutero, superò cotanto il padre e l’avolo nell’abominazione dei costumi e nella intrepidezza della bestemmia che il suo nome ebbe il triste vanto di essere associato a quello di Lutero nel patriarcato infernale delle moderne eresie. Imperciocché, cacciato dalla Francia per le sue scelleratezze, e nella Svizzera battuto con verghe e bollato alle spalle con ferro rovente per delitto provato di sodomia, abbracciò da prima l’eresia per prender moglie, ecclesiastico che esso era; e poi, erettosi in caposcuola egli pure, oltre di aver con Zwinglio negati i sacramenti, o ridottili a pura cerimonia, e con Lutero negato il libero arbitrio e la necessità delle buone opere, disse che i figli dei battezzati nascono santi; che la grazia divina, una volta ricevuta, non si può più perdere; che Gesù Cristo mori disperato sulla croce: che né il Papa né i Vescovi né i sacerdoti hanno alcun carattere sacro; che l’unica regola di fede pel Cristiano è la Scrittura sacra, del cui senso ognuno è legittimo interprete. Quello però che non è stato notato abbastanza si è l’odio profondo onde quest’uomo indiavolato era animato contro la persona adorabile di Gesù Cristo, e che, non ostante la sua ipocrisia, traspira da tutti i suoi scritti. Dimodoché, se fosse vera la trasmigrazione delle anime, bisognerebbe dire che l’anima di Caino, dopo essere passata in Giuda, sia rinata in Calvino; e che più tardi lasciata nel sepolcro la maschera, sia ricomparsa in Voltaire più invereconda e più empia. Finalmente Calvino straziato per quattro continui anni, come già Erode e Nestorio, da malattia pediculare e da vermini, che gli divorarono, vivente ancora, tutte le carni, spirò, come era vissuto, bestemmiando Iddio ed invocando il diavolo. Tale fu il fondatore e padre della setta dei calvinisti, la più assurda, la più audace, la più spietata, la più dissoluta di tutte le sette moderne; che col favore di tutte le passioni, cui accordò la più grande licenza e la più grande impunità, si estese non solo in molti paesi della Germania, ma ancor nella Svizzera, nell’ Olanda e più tardi in Inghilterra. – Essa pure, come le precedenti, si suddivise e formò due ampie prosapie: una sul continente, l’altra nelle isole britanniche; che, prive di un capo comune, la cui autorità fosse da tutti riconosciuta, si sminuzzarono esse ancora in sette infinite. Le principali furono:

Calvinisti del continente.

1. I nuovi iconoclasti. Il vero spirito del calvinismo essendo quello dell’odio contro Gesù Cristo, la santissima Vergine e i santi, dovea farne necessariamente detestare le immagini. Tutti i calvinisti perciò sono iconoclasti o distruttori delle sacre immagini. Ciò non ostante però questo nome rimase a’ più fanatici fra loro, che formarono una setta particolare il cui scopo fu di abbattere col ferro e col fuoco i sacri templi, le croci, le statue, le pitture sacre ed ogni sensibile emblema del cristianesimo. Nulla difatti eguagliò il furore di questa setta infernale in questa guerra sacrilega a tutto ciò che è oggetto di venerazione, e risveglia le più care memorie al Cristiano. Ma ciò che distinse ancora di più questa dalle altre sette calviniste si fu che i nuovi iconoclasti non isbandirono dai sacri templi le immagini sacre che per sostituirvi le profane: poiché nel luogo delle immagini di Gesù Cristo e dei santi vi posero le loro e quelle delle loro donne e dei loro figliuoli negli atteggiamenti i più lascivi. Cosi già Simon mago, patriarca di tutti gli eretici, fece porre in chiesa il suo ritratto e quello della sua amica Sifone; e così pure, nel tempo della rivoluzione francese del 1793, furono i calvinisti puri quelli che posero sul tabernacolo della cattedrale di Parigi viva una prostituta ignuda. Questi orrori in sì diversi tempi furono dettati dallo stesso spirito.

2. Gli ugonotti, che a tutto il furore degli iconoclasti contro le sacre immagini aggiunsero l’odio contro ogni potestà anche civile. Perciò in Francia, ove particolarmente si stabilirono, eccitarono non solo scismi religiosi ma ancora rivoluzioni politiche, onde quel bel paese fu per più di cento anni straziato e ricoperto di stragi e di sangue.

3. I nuovi ariani. Tutti i libri di Calvino contengono i germi dell’arianesimo e sono una orribile congiura contro la divinità di Gesù Cristo, ma occulta e nascosta. Ora quello che Calvino aveva solo segretamente insinuato, Michele Serveto e Valentino Gentile lo insegnarono pubblicamente, e formarono in Isvizzera la setta de’ nuoci ariani. – Ma siccome non era giunto peranco il tempo in cui si potesse proclamare quest’orribile conseguenza della dottrina di Calvino, cosi Serveto fu fatto bruciar rivo da Calvino medesimo in Ginevra, e a Gentile fu mozzato il capo dagli stessi eretici in Berna.

4. I sociniani, da Lelio Socino senese, che passato in Isvizzera, vi si dichiarò ariano. Ma consigliato da Calvino e molto più istruito dal supplicio di Serveto. usò prudenza finché non fu libero di sé in Polonia; dove i grandi signori accoglievano tutti gli eretici che vi accorrevano da tutte le parti, ed assicuravano loro la più grande impunità. Il suo nipote però Fausto Socino recatosi in Zurigo per prendere l’eredità dello zio, coi beni e gli scritti di lui adottò anche gli errori, anzi li portò ancora più innanzi, dicendo che gli ariani erano stati molto discreti, giacché aveano molto, accordato a Gesù Cristo. Perciò fondò una nuova setta, che propagò nella Svizzera, in Polonia ed in Olanda; e fu impudente nel negare tutto ciò che prima di lui si era creduto dai Cristiani che ebbe il tristo vanto che il suo nome sia stato associato a quello di Lutero e di Calvino nella gloria infernale di aver voluto distruggere il Cristianesimo, come appare da quest’empia iscrizione posta sul suo sepolcro: « Lutero ha levato il tetto di Babilonia, Calvino ne ha atterrate le pareti; ma Socino ne ha distrutte le fondamenta. »

5. I mennonisti; sul principio non furono essi che avanzi della sentina degli anabattisti, che, fuggendo da Munster dopo la caduta del preteso regno di Giovanni Leida, furono da Mennone raccolti nella Frisia. Conservarono essi alcun tempo le dottrine di Botmano, ma poi avendo adottate anche quelle di Calvino, e non essendo al solito più fra loro d’accordo, si divisero in trenta novelle sette.

6. I gommarani dall’olandese Gommaro, che avendo estratto da Calvino i dommi più spietati e più disperati intorno alla predestinazione, alla grazia, al peccato originale, li insegnò pubblicamente e si fece molti seguaci. Dai gommarani nacquero più tardi in Olanda pure …

7. I giansenisti; che ritenendo le stesse dottrine, vi aggiunsero la maschera dell’ipocrisia, pretendendo di passare per buoni cattolici e membri della Chiesa, mentre abbattono le fondamenta del Cattolicismo e negano l’autorità della Chiesa. Coll’ajuto però della simulazione e della perfidia si sono insinuati in tutte le contrade cattoliche e vi hanno cagionato un immenso danno non solo alla Religione ma ancora alla politica. A sentire questi impostori, non vogliono essi che la dottrina sana e la morale pura. In fatti però colle loro atroci dottrine ispirando un secreto odio di Dio e la disperazione di salvarsi, per una via contraria a quella che tendono gli atei manifesti, conducono l’uomo al medesimo termine, ad abbandonarsi, cioè, a tutti i vizj e non credere alcuna verità.

8. Gli arminiani: da Giacomo Anninio, acerrimo avversario di Gommaro e dei suoi dommi ingiuriosi alla bontà di Dio e distruttori di ogni sentimento di fiducia e di cristiana carità nell’uomo. Fermissimo egli però nell’errore calviniano, che ad ognuno è lecito l’interpretare a suo modo la Scrittura, ed obbligato a soffrire le interpretazioni delle altre sette per avere perdonate le proprie, proclamò in Olanda la dottrina della tolleranza universale di tutte le sette e di tutti gli errori, cioè l’indifferenza e lo scetticismo assoluto in materia di religione; che formò poi tutta la filosofìa e la religione che Bayle ha professata nel suo Dizionario. Perciò gli arminiani, detti ancora rimostrami per una rimostranza da essi fatta agli stati generali, furono ragionevolmente sospetti di socinianismo.

9, I worstiani, da Worstio professore di Leida, uno dei più arditi bestemmiatori di Dio, cui negò la trinità, l’immutabilità, l’immensità, e fece ad accidenti materiali soggetto. Oneste bestemmie prepararono la via a Benedetto Spinoza per fabbricarvi il suo orribile sistema del panteismo; onde, a forza di sostenere che tutto è Dio, si viene a distruggere ogni idea della divinità.

10. I contro-rimostranti o rigidi calvinisti; che, per opporsi agli arminiani, si posero a difendere fino alle sillabe la dottrina di Calvino; ma non essendo d’accordo nell’intenderla, si divisero subito in tre sette diverse.

11. I pescatoriani, da Giovanni Pescatore, che con una rara modestia disse che Dio avea a lui conceduto il suo spirito in maggiore abbondanza che a qualunque altro uomo per intendere bene la Scrittura. Quest’uomo, si pieno dello spirito di Dio, però bestemmiò come un demonio: asserendo che Gesù non meritò nulla colla sua vita, ma solo colla sua morte e pei soli eletti; che la dannazione, o la salvazione è l’effetto della necessità. Ma siccome pose per cerimonia essenziale la frazione del pane nella cena, ed alterò in altri punti la purezza della dottrina di Calvino, dai calvinisti di Francia e di Germania fu colla sua setta scomunicato come eretico.

Calvinisti d’Inghilterra.

Arrigo VIII, di cui è stato detto che non risparmiò mai l’onore di alcuna donna alla sua lascivia, né la vita di alcun uomo al suo orgoglio, marito inverecondo e crudele di diciannove mogli, che fece quasi tutte decapitare pel delitto di avere amato in lui un mostro a forme umane; volendo ripudiare la sua prima legittima moglie per isposare una prostituta, ed opponendovisi, come era di ragione, il Sommo Pontefice, fece scisma dalla Chiesa ed abbracciò la riforma luterana, la quale, per raccomandarsi al favore e alle passioni dei grandi, avea per primo articolo conceduto il divorzio, o l’adulterio legale. Chiamò Arrigo varj eresiarchi dalla Germania e dall’Olanda, e col loro ajuto formò la nuova religione anglicana, di cui egli si costituì capo e pontefice. Ma una religione non si forma così facilmente dall’uomo come un impero. Gli eresiaschi di tutte le comunioni e di tutte le sette, principalmente calviniste, venuti in Inghilterra dal continente, e tutti d’accordo in ripudiare la Chiesa Cattolica, non convennero però nel riconoscere la religione d’Arrigo e dei suoi degni successori: e però si scissero da prima in due grandi divisioni, quella dei calvinisti protestanti e quella dei puritani.

1. I calvinisti-protestanti professarono una dottrina mista di luteranismo e di calvinismo. Questa setta formossi d’individui di tutte le opinioni delle innumerabili sette luterane e calviniste del continente. Ad essa unironsi

2. Gli anglo-papisti, ossia l’ammasso di ecclesiastici apostati e di nobili dilapidatori e loro degni aderenti, che, per godersi gl’immensi beni tolti al clero cattolico, conservarono una specie di gerarchia ecclesiastica, e molte cerimonie della Chiesa Cattolica affine d’ingannare più facilmente il popolo. – Queste due sette, per partecipare alla protezione ed alle largizioni ecclesiastiche, di cui si fece arbitro assoluto e dispensatore il monarca, si rassegnarono a riconoscerlo per pontefice e capo legittimo della religione, protestando con giuramento di credere « che al principe secolare si deve ubbidienza cieca in materia di fede. » Una certa restrizione a questo giuramento degradante ed assurdo, particolarmente per uomini che avevano rigettata l’autorità del Pontefice della Chiesa universale, ve l’apposero

3. I formalisti, che sostennero che formalmente la podestà ecclesiastica risiede nel ministero della parola, e solo protestantivamente ed in quanto all’esteriore esercizio si deve riconoscere nel principe. Ma siccome essi ancora prestavano in pubblico il giuramento di supremazia religiosa al potere civile, salvo il diritto di ridersene in privato, così tutte e tre queste grandi sette, con tutte quelle in cui si suddivisero all’infinito, esteriormente non ne formarono che una sola. Lo stesso avvenne dei …

4. Puritani; essi in principio non furono che calvinisti puri, che con una cieca ostinazione sostennero tutti e singoli i dommi di Calvino, e particolarmente quello di un’assoluta libertà di coscienza e di non riconoscere alcuna autorità in materia di fede. Più tardi vi si unirono:

5. I presbiteriani, che sostengono che ogni Cristiano è presbitero. Quindi ancora vi aggiunsero:

6. Gli arminiani, 7. i pescatoriani, 8. i worstiani, 9. I sociniani inglesi e scozzesi, e tutte quante le sette dette dei dissidenti perché non riconoscevano né in privato né in pubblico la religione legale del parlamento e la supremazia spirituale del re. Tutti costoro, facendo causa comune coi puritani, formarono come una setta comune. Questa orribile riunione di tutte le sette le più fanatiche e le più turbolenti sosteneva essere dalla natura del protestantismo, come la stessa parola abbastanza lo indica, il protestare contro ogni autorità in materia di religione per attenersi alla pura parola delle Scrittore interpretate secondo il privato senso di ognuno, come i patriarchi della riforma lo avevano insegnato; perciò i protestanti-anglicani essere contradittorj a sé medesimi nel pretendere che si riconoscesse da tutti per vera la chiesa anglicana, dopo che essi pure aveano rigettata la Chiesa Cattolica, e che si accettasse per capo della religione il re da uomini che ricusavano di riconoscerne il Papa. Nulla eravi di più ragionevole di questo discorso. Ma il re-pontefice rispondendo col cannone e colle forche ai raziocini dei teologi, si venne alle armi, e le due grandi divisioni dei protestanti-anglicani e dei puritani si fecero una guerra ostinata e crudele. Mentre adunque i veri Cattolici, perseguitati e cerchi a morte come bestie feroci, rinnovarono, colla loro costanza nella vera fede, gli esempi di eroismo dei primi martiri, in faccia ad Arrigo, ad Elisabetta, a Giacomo, a Gromwel, che rinnovarono gli orrori degli antichi tiranni: i dissidenti ricoprirono il paese di stragi e di sangue; in che, dopo più di cento anni di scismi, di ribellioni, di guerre in cui il sangue dei re bagnò i patiboli, dopo tante riforme di una religione non mai formata, la religione anglicana, ridotta ai famosi trentanove articoli e sostenuta dalla forza delle baionette, del potere e dell’oro, trionfò della forza dei raziocinj, la sola che era rimasta ai dissidenti; e sopra fondamenta di fango insanguinato sorse ad insultare il pubblico buon senso e la verità quell’impasto mostruoso che si disse chiesa-anglicana-stabilita, opera di tante usurpazioni, di tante rapine, di tante apostasie, di tanti sacrilegi e di tanto sangue. – Ma la forza, che mantenne una forma esteriore di religione, non poté produrre il convincimento interiore, la concordia e la fede. Le dissidenze adunque si manifestarono nella stessa comunione anglicana e presero a lacerarne il seno, come le vipere si rivolgono a mordere la loro madre. In tutte le quattro funeste prosapie di Lutero con tutte le loro molteplici discendenze vi ebber seguaci, che crearono mille altre sette più libere, più stravaganti e più bizzarre, come in particolare quelle dei quaccheri e dei metodisti. Quelle però che vi si moltiplicaron di più furono le diverse sezioni dei confessionisti indifferenti, di cui si è parlato. Una gran parte di coloro che, per potere essere ammessi alla rappresentanza nazionale o ai pubblici impieghi, prestavano giuramento di supremazia al re e di fedeltà ai trentanove articoli erano allo stesso tempo notoriamente anti-trinitarj, sociniani, materialisti o atei. Il giuramento divenne un affare di pura cerimonia, che non impose alla coscienza alcun dovere; e col favore della libertà della stampa si venne a tal licenza di opinare e di credere che fra gli stessi anglicani, nella stessa famiglia, fu difficile trovare due individui che avessero le stesse credenze in materia di religione. La chiesa anglicana perciò, restata come stabilimento politico, fu a poco a poco demolita dai suoi stessi figli come dottrina teologica e come comunione religiosa; e sulle sue rovine sorse la scuola o setta anti-cristiana dei libertini, che numerò tra i suoi padri i Collins, i Bolinbroke, gli Hume, i Gibbon, i quali negarono ed attaccarono tutto il Cristianesimo. – Tali furono e sono tuttavia i discendenti di Lutero, di un padre malvagio figli peggiori, che con nomi comuni si chiamano protestanti perché protestano contro la vera fede della Chiesa: evangelici perché dicono di professare il puro Vangelo, essi che l’un dopo l’altro hanno distrutto tutti i dommi e tutti i precetti del Vangelo: e finalmente riformati perché spacciano di avere riformata la Chiesa, essi che per dottrine o per costumi moltiformi, difformi, informi e deformi l’avrebbero dalle fondamenta distrutta, se le porte dell’inferno avessero potuto prevalere contro di essa, e non fosse essa l’opera che Dio sostiene, come Dio è che l’ha stabilita. – Infatti la scuola di empietà di cui si è detto, ultimo parto ed espressione ultima del protestantismo inglese, trapiantata in Francia da Voltaire, il Lutero della filosofia, partorì un Rousseau, che ne fu come il Calvino, e quindi i D’Alembert, i Diderot, i D’Argens, i La-Metrie, i D’Holbach, gli Elvezi. Costoro discordanti di opinioni fra loro, e solo uniti da un odio comune contro la Religione Cristiana, anzi contro ogni sorta di religione, associandosi a tutti quelli che avean di già abbracciate le empietà dei confessionisti indifferenti, degli illuminati di Germania e dei libertini della Svizzera, formarono la setta filosofica del secolo decimottavo, di sempre turpe ed esecranda memoria: che, non contenta di avere negata la Trinità, Gesù Cristo, il Cristianesimo, rinnovò con una intrepidezza infernale, quasi nei medesimi termini, tutti gli errori, tutte le turpitudini, tutti i delirj. Tutte le assurdità della filosofia pagana. Imperciocché negò ogni culto, ogni divinità, ogni legge morale, l’immortalità dell’anima, anzi l’anima assolutamente e perfino la ragione dell’uomo, asserendo l’uomo non differire dai bruti se non perché ha le mani. Oh prova tremenda, oh lugubre monumento dell’impotenza di edificare, della funesta energia di distruggere della ragione umana, allora quando, abbandonate le vie dell’autorità e della fede, pretende colle sole sue forze crearsi la religione e la verità. – Che avvenne però da questa orribile apostasia della fede? Gibbon, autor non sospetto, dimostra che l’indifferentismo o l’ateismo pratico in cui sotto gl’imperatori degenerò in Roma la filosofia pagana, terminando di corrompere i costumi, fece discendere il popolo romano sino al fondo della turpitudine e della barbarie, e partorì quei portenti di lascivia e di crudeltà di cui parla con orrore la storia augusta e che, più che le armi dei barbari, fecero crollare dalle fondamenta l’impero romano e vendicarono il mondo. Ora le stesse cause produssero gli stessi effetti nel secolo decimottavo. L’indifferentismo o l’ateismo, nato dalla filosofia ereticale del protestantismo moderno, e propagato in Francia da empi sofisti, vi produsse quella orribile licenza di pensare e di vivere che andò a terminare colle turpi e sanguinose orge del 1793, collo sconvolgimento e la rovina della società. I filosofi pagani però, spaventati dalle orribili conseguenze dell’ateismo, per salvare un avanzo di credenza onde sostenere la società pagana caduta in dissoluzione e in ruina, fabbricarono, sotto il nome di neoplatonismo, nelle scuole filosofiche di Roma e di Alessandria, un certo misticismo panteista che fu l’ultimo errore che la ragion pagana oppose al Cristianesimo. Ora così pure i filosofi anti-cristiani di oggidì, atterriti dai tremendi effetti dell’ateismo, in cui è finita la filosofia degli eretici, volendo mantenere un’ombra di ordine sociale senza il Cristianesimo, hanno sognato anch’essi il panteismo, lo hanno eretto in iscuola ed in religione: orribile religione! che non è se non il composto del sacrilegio e dell’assurdità: e in cui l’orgoglio e la voluttà, all’ombra del domma « che tutto è Dio, » divinizzando la ragione e la carne umana, credono di poter delirare e scapricciarsi senza rimorso. E questo pure è l’ultimo errore che la ragione ereticale oppone al Cattolicismo. – Ma poiché questa orribile dottrina «che l’universo con tutti gli esseri che lo compongono non sono che una sola e medesima sostanza, un solo e medesimo Dio » è distruttiva d’ogni idea vera di Dio; il dire che tutto ciò che esiste è Dio equivale a dire che Dio non esiste in alcun modo. Il panteismo adunque dei sofisti anti-cristiani dei nostri giorni non è in fondo che l’ateismo mascherato dello scorso secolo. Sono essi simili agli antichi epicurei, ai quali Tullio rimproverava che, ammettendo Dio colle parole, lo toglievano col fatto: Verbis quidem ponunt deos, re tollunt. I.a sola differenza che passa tra i sofisti atei del secolo decimottavo e quelli del decimonono si è, che quelli erano atei e lo confessavano, questi lo son niente meno e non osano di comparirlo. Quelli, negando Dio, aveano finito col negare l’uomo, facendone un bruto; questi, dicendo che tutto è Dio, negano nientemeno anche l’uomo, facendone un Dio. Perciò, tolta la circostanza, che i moderni panteisti all’orribile dell’ateismo aggiungono la maschera dell’ipocrisia ed il delirio di un immenso orgoglio, in tutto il resto la loro dottrina, non meno che quella dei loro padri funesta, finisce al medesimo termine di negare il sentimento, la coscienza, l’intelletto, la ragione, l’individualità, la persona propria dell’uomo. Ciò è a dire che la ragione umana, a forza di ragionare, di negazione in negazione, ha finito col negare sé medesima; che, pretendendo indovinare coi soli suoi lumi ogni verità, non ha trovato che tutti gli errori, giacché l’ateismo tutti li comprende; che, essendosi alzata come un gigante verso del cielo, ha finito collo stramazzare in terra nel fango come un vilissimo insetto; che, ripromettendosi d’intendere i misteri di Dio, è divenuta a sé medesimo un mistero affatto incomprensibile; che in luogo della luce, cui si augurava di giungere, non ha fatto che addensare sopra di sé tenebre sopra a tenebre e perdersi nella loro oscurità; che, vantandosi di ergere colle sole sue forze l’edifìcio del vero, non ha ammassate che mine che l’hanno oppressa; e analmente che, sognando di crear poco meno che tutto, la religione, la società, Dio stesso, ha esaurita tutta la sua attività funesta nel distruggere, e non ha terminato questo suo tremendo lavorio di demolizione che distruggendo persin sé stessa, Ecco a che è buona la ragione senza la fede!

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. LEONE XIII – RERUM NOVARUM (2)

La questione sociale, non trova soluzione né rimedio alcuno senza che si ricorra alla Religione Cattolica e alla dottrina della Chiesa … Questo è il compendio che il Pontefice indicava già in precedenza nel corso della presente Enciclica. Qui definisce i ruoli complementari ma subordinati alla Chiesa, dello Stato nei confronti dei cittadini o sudditi, e il ruolo delle associazioni. Il mondo di oggi invece ha escluso il ruolo della Chiesa e della Religione – unica vera – da ogni processo sociale, da ogni contesto produttivo, assegnando alle speculazioni finanziarie di usurai senza scrupolo, che manipolano burattini sciocchi asserviti alle logge massoniche dirette dalle forze oscure e tenebrose dedite a culti satanici e a pratiche esoteriche, il compito di regolare il mondo del lavoro e l’assetto sociale, con i risultati che tutti possiamo con orrore e raccapriccio vedere. In pratica la moderna politica finanziaria, sociale, lavorativa è gestita dai poteri infernali che per poter liberamente operare, oltre alle zecche di stato, ai mass media volutamente ignoranti ma obbedienti, hanno dovuto scardinare – almeno in apparenza – le strutture ecclesiastiche e le direttive dottrinali della Chiesa di Cristo non solo dall’esterno con le mille abominevoli teorie filosofiche, pedagogiche, economiche, tutte minate dall’immanentismo e panteismo gnostico – vedi socialismo, comunismo, liberismo sfrenato, mondialismo … – ma direttamente dall’interno introducendosi con logge del G. O., degli Illuminati e del B’nai b’rith fin nel tempio sacro, facendone una turpe conchiglia che mostra un’apparenza di Cristianesimo modernista, in sostanza sterco gnostico indorato condito da indifferentismo, soggettivismo, ecumenismo becero anticristiano che mescola un ignobile finto Cattolicesimo al protestantesimo di ogni risma ed eresia, al talmudismo-kabalistico, al maomettanesimo ebionita, taoismo, buddismo, e finanche all’animismo, a sciamanesimo e allo spiritismo. A questo punto dobbiamo solo aspettare che si compiano gli eventi profetizzati e che la bestia, i falsi profeti ed il dragone maledetto siano gettati nello stagno dell’eterno fuoco.

RERUM NOVARUM

LETTERA ENCICLICA DI

S.S. LEONE XIII -2-

1 – Il diritto d’intervento dello Stato

26. I governanti dunque debbono in primo luogo concorrervi in maniera generale con tutto il complesso delle leggi e delle istituzioni politiche, ordinando e amministrando lo Stato in modo che ne risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità. Questo infatti è l’ufficio della civile prudenza e il dovere dei reggitori dei popoli. Ora, la prosperità delle nazioni deriva specialmente dai buoni costumi, dal buon assetto della famiglia, dall’osservanza della religione e della giustizia, dall’imposizione moderata e dall’equa distribuzione dei pubblici oneri, dal progresso delle industrie e del commercio, dal fiorire dell’agricoltura e da altre simili cose, le quali, quanto maggiormente promosse, tanto più felici rendono i popoli. Anche solo per questa via, può dunque lo Stato grandemente concorrere, come al benessere delle altre classi, così a quello dei proletari; e ciò di suo pieno diritto e senza dar sospetto d’indebite ingerenze; giacché provvedere al bene comune è ufficio e competenza dello Stato. E quanto maggiore sarà la somma dei vantaggi procurati per questa generale provvidenza, tanto minore bisogno vi sarà di tentare altre vie a salvezza degli operai.

a) per il bene comune

27. Ma bisogna inoltre considerare una cosa che tocca più da vicino la questione: che cioè lo Stato è una armoniosa unità che abbraccia del pari le infime e le alte classi. I proletari né di più né di meno dei ricchi sono cittadini per diritto naturale, membri veri e viventi onde si compone, mediante le famiglie, il corpo sociale: per non dire che ne sono il maggior numero. Ora, essendo assurdo provvedere ad una parte di cittadini e trascurare l’altra, è stretto dovere dello Stato prendersi la dovuta cura del benessere degli operai; non facendolo, si offende la giustizia che vuole si renda a ciascuno il suo, Onde saggiamente avverte san Tommaso: Siccome la parte e il tutto fanno in certo modo una sola cosa, così ciò che è del tutto è in qualche maniera della parte (S. Th. II-II, q. 61, a. 1 ad 2). Perciò tra i molti e gravi doveri dei governanti solleciti del bene pubblico, primeggia quello di provvedere ugualmente ad ogni ordine di cittadini, osservando con inviolabile imparzialità la giustizia cosiddetta distributiva.

b) per il bene degli operai

Sebbene tutti i cittadini senza eccezione alcuna, debbano cooperare al benessere comune che poi, naturalmente, ridonda a beneficio dei singoli, tuttavia la cooperazione non può essere in tutti né uguale né la stessa. Per quanto si mutino e rimutino le forme di governo, vi sarà sempre quella varietà e disparità di condizione senza la quale non può darsi e neanche concepirsi il consorzio umano. Vi saranno sempre pubblici ministri, legislatori, giudici, insomma uomini tali che governano la nazione in pace, e la difendono in guerra; ed è facile capire che, essendo costoro la causa più prossima ed efficace del bene comune, formano la parte principale della nazione. Non possono allo stesso modo e con gli stessi uffici cooperare al bene comune gli artigiani; tuttavia vi concorrono anch’essi potentemente con i loro servizi, benché in modo indiretto. Certo, il bene sociale, dovendo essere nel suo conseguimento un bene perfezionativo dei cittadini in quanto sono uomini, va principalmente riposto nella virtù. Nondimeno, in ogni società ben ordinata deve trovarsi una sufficiente abbondanza dei beni corporali, l’uso dei quali è necessario all’esercizio della virtù (S. Th., De reg, princ. I,17). Ora, a darci questi beni è di necessità ed efficacia somma l’opera e l’arte dei proletari, o si applichi all’agricoltura, o si eserciti nelle officine. Somma, diciamo, poiché si può affermare con verità che il lavoro degli operai è quello che forma la ricchezza nazionale. È quindi giusto che il governo s’interessi dell’operaio, facendo si che egli partecipi ín qualche misura di quella ricchezza che esso medesimo produce, cosicché abbia vitto, vestito e un genere di vita meno disagiato. Si favorisca dunque al massimo ciò che può in qualche modo migliorare la condizione di lui, sicuri che questa provvidenza, anziché nuocere a qualcuno, gioverà a tutti, essendo interesse universale che non rimangano nella miseria coloro da cui provengono vantaggi di tanto rilievo.

2 – Norme e limiti del diritto d’intervento

28. Non è giusto, come abbiamo detto, che il cittadino e la famiglia siano assorbiti dallo Stato: è giusto invece che si lasci all’uno e all’altra tanta indipendenza di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altrui diritti. Tuttavia, i governanti debbono tutelare la società e le sue parti. La società, perché la tutela di questa fu da natura commessa al sommo potere, tanto che la salute pubblica non è solo legge suprema, ma unica e totale ragione della pubblica autorità; le parti, poi, perché filosofia e Vangelo si accordano a insegnare che il governo è istituito da natura non a beneficio dei governanti, bensì dei governati. E perché il potere politico viene da Dio ed è una certa quale partecipazione della divina sovranità, deve amministrarsi sull’esempio di questa, che con paterna cura provvede non meno alle particolari creature che a tutto l’universo. Se dunque alla società o a qualche sua parte è stato recato o sovrasta un danno che non si possa in altro modo riparare o impedire, si rende necessario l’intervento dello Stato.

29. Ora, interessa il privato come il pubblico bene che sia mantenuto l’ordine e la tranquillità pubblica; che la famiglia sia ordinata conforme alla legge di Dio e ai principi di natura; che sia rispettata e praticata la religione; che fioriscano i costumi pubblici e privati; che sia inviolabilmente osservata la giustizia; che una classe di cittadini non opprima l’altra; che crescano sani e robusti i cittadini, atti a onorare e a difendere, se occorre, la patria. Perciò, se a causa di ammutinamenti o di scioperi si temono disordini pubblici; se tra i proletari sono sostanzialmente turbate le naturali relazioni della famiglia; se la religione non é rispettata nell’operaio, negandogli agio e tempo sufficiente a compierne i doveri; se per la promiscuità del sesso ed altri incentivi al male l’integrità dei costumi corre pericolo nelle officine; se la classe lavoratrice viene oppressa con ingiusti pesi dai padroni o avvilita da fatti contrari alla personalità e dignità umana; se con il lavoro eccessivi o non conveniente al sesso e all’età, si reca danno alla sanità dei lavoratori; in questi casi si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l’autorità delle leggi. I quali fini sono determinati dalla causa medesima che esige l’intervento dello Stato; e ciò significa che le leggi non devono andare al di là di ciò che richiede il riparo dei mali o la rimozione del pericolo. I diritti vanno debitamente protetti in chiunque li possieda e il pubblico potere deve assicurare a ciascuno il suo, con impedirne o punirne le violazioni. Se non che, nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per sé stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue.

3 – Casi particolari d’intervento

a) difesa della proprietà privata

30. Ma giova discendere espressamente ad alcuni particolari di maggiore importanza. Principalissimo è questo: i governi devono per mezzo di sagge leggi assicurare la proprietà privata. Oggi specialmente, in tanto ardore di sfrenate cupidigie, bisogna che le popolazioni siano tenute a freno; perché, se la giustizia consente a loro di adoperarsi a migliorare le loro sorti, né la giustizia né il pubblico bene consentono che si rechi danno ad altri nella roba, e sotto colore di non so quale eguaglianza si invada l’altrui. Certo, la massima parte degli operai vorrebbe migliorare la propria condizione onestamente, senza far torto ad alcuni; tuttavia non sono pochi coloro i quali, imbevuti di massime false e smaniosi di novità, cercano ad ogni costo di eccitare tumulti e sospingere gli altri alla violenza. Intervenga dunque l’autorità dello Stato e, posto freno ai sobillatori, preservi i buoni operai dal pericolo della seduzione e i legittimi padroni da quello dello spogliamento.

b) difesa del lavoro

1) contro lo sciopero

31. Il troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata scarsa porgono non di rado agli operai motivo di sciopero. A questo disordine grave e frequente occorre che ripari lo Stato, perché tali scioperi non recano danno solamente ai padroni e agli operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi e, per le violenze e i tumulti a cui d’ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio, poi, in questa parte, più efficace e salutare, si é prevenire il male con l’autorità delle leggi e impedire lo scoppio, rimovendo a tempo le cause da cui si prevede che possa nascere il conflitto tra operai e padroni.

2) condizioni di lavoro

32. Molte cose parimenti lo Stato deve proteggere nell’operaio, e prima di tutto i beni dell’anima. La vita di quaggiù, benché buona e desiderabile, non è il fine per cui noi siamo stati creati, ma via e mezzo a perfezionare la vita dello spirito con la cognizione del vero e con la pratica del bene. Lo spirito è quello che porta scolpita in sé l’immagine e la somiglianza divina, ed in cui risiede quella superiorità in virtù della quale fu imposto all’uomo di signoreggiare le creature inferiori, e di far servire all’utilità sua le terre tutte ed i mari. Riempite la terra e rendetela a voi soggetta: signoreggiate i pesci del mare e gli uccelli dell’aria e tutti gli animali che si muovono sopra la terra (Gen 1,28). In questo tutti gli uomini sono uguali, né esistono differenze tra ricchi e poveri, padroni e servi, monarchi e sudditi, perché lo stesso è il Signore di tutti (Rom 10,12). A nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato all’acquisto della vita eterna. Che anzi, neanche di sua libera elezione potrebbe l’uomo rinunziare ad esser trattato secondo la sua natura, ed accettare la schiavitù dello spirito, perché non si tratta di diritti dei quali sia libero l’esercizio, bensì di doveri verso Dio assolutamente inviolabili. Di qui segue la necessità del riposo festivo. Sotto questo nome non s’intenda uno stare in ozio più a lungo, e molto meno una totale inazione quale si desidera da molti, fomite di vizi e occasione di spreco, ma un riposo consacrato dalla religione. Unito alla religione, il riposo toglie l’uomo ai lavori e alle faccende della vita ordinaria per richiamarlo al pensiero dei beni celesti e al culto dovuto alla Maestà divina. Questa è principalmente la natura, questo il fine del riposo festivo, che Iddio con legge speciale, prescrisse all’uomo nel Vecchio Testamento, dicendogli: Ricordati di santificare il giorno di sabato (Es 20,8) e che egli stesso insegnò di fatto, quando nel settimo giorno, creato l’uomo, si riposò dalle opere della creazione: Riposò nel giorno settimo da tutte le opere che aveva fatte (Gen 2,2).

33. Quanto alla tutela dei beni temporali ed esteriori prima di tutto è dovere sottrarre il povero operaio all’inumanità di avidi speculatori, che per guadagno abusano senza alcuna discrezione delle persone come fossero cose. Non è giusto né umano esigere dall’uomo tanto lavoro da farne inebetire la mente per troppa fatica e da fiaccarne il corpo. Come la sua natura, così l’attività dell’uomo è limitata e circoscritta entro confini ben stabiliti, oltre i quali non può andare. L’esercizio e l’uso l’affina, a condizione però che di quando in quando venga sospeso, per dar luogo al riposo. Non deve dunque il lavoro prolungarsi più di quanto lo comportino le forze. Il determinare la quantità del riposo dipende dalla qualità del lavoro, dalle circostanze di tempo e di luogo, dalla stessa complessione e sanità degli operai. Ad esempio, il lavoro dei minatori che estraggono dalla terra pietra, ferro, rame e altre materie nascoste nel sottosuolo, essendo più grave e nocivo alla salute, va compensato con una durata più breve. Si deve avere ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado un lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un’altra o del tutto insopportabile o tale che sí sopporta con difficoltà. Infine, un lavoro proporzionato all’uomo alto e robusto, non é ragionevole che s’imponga a una donna o a un fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non ammetterli nelle officine prima che l’età ne abbia sufficientemente sviluppate le forze fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella puerizia sbocciano simili all’erba in fiore, un movimento precoce le sciupa, e allora si rende impossibile la stessa educazione dei fanciulli. Così, certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per í lavori domestici, í quali grandemente proteggono l’onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l’educazione dei figli e il benessere della casa. In generale si tenga questa regola, che la quantità del riposo necessario all’operaio deve essere proporzionata alla quantità delle forze consumate nel lavoro, perché le forze consumate con l’uso debbono venire riparate col riposo. In ogni convenzione stipulata tra padroni e operai vi è sempre la condizione o espressa o sottintesa dell’uno e dell’altro riposo; un patto contrario sarebbe immorale, non essendo lecito a nessuno chiedere o permettere la violazione dei doveri che lo stringono a Dio e a sé stesso.

3) la questione del salario

34. Tocchiamo ora un punto di grande importanza, e che va inteso bene per non cadere in uno dei due estremi opposti. La quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso delle parti: sicché  il padrone, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro. Si commette ingiustizia solo quando o il padrone non paga l’intera mercede o l’operaio non presta tutta l’opera pattuita; e solo a tutela di questi diritti, e non per altre ragioni, è lecito l’intervento dello Stato. A questo ragionamento, un giusto estimatore delle cose non può consentire né facilmente né in tutto; perché esso non guarda la cosa sotto ogni aspetto; vi mancano alcune considerazioni di grande importanza. Il lavoro è l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione: Tu mangerai pane nel sudore della tua fronte (Gen 3,19). Ha dunque il lavoro dell’uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura. Ora, se si guarda solo l’aspetto della personalità, non v’è dubbio che può l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché siccome egli offre volontariamente l’opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si considera la necessità: due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. Infatti, conservarsi in vita è dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce, come necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che nella povera gente sí riducono al salario del proprio lavoro. L’operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale si intende, e di retti costumi. Se costui, costretto dalla necessità o per timore di peggio, accetta patti più duri i quali, perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia protesta. Del resto, in queste ed altre simili cose, quali sono l’orario di lavoro, le cautele da prendere, per garantire nelle officine la vita dell’operaio, affinché l’autorità non s’ingerisca indebitamente, specie in tanta varietà di cose, di tempi e di luoghi, sarà più opportuno riservare la decisione ai collegi di cui parleremo più avanti, o usare altri mezzi che salvino, secondo giustizia, le ragioni degli operai, limitandosi lo Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richiede, tutela ed appoggio.

c) educazione al risparmio

35. Quando l’operaio riceve un salario sufficiente a mantenere sé stesso e la sua famiglia in una certa quale agiatezza, se egli è saggio, penserà naturalmente a risparmiare e, assecondando l’impulso della stessa natura, farà in modo che sopravanzi alle spese una parte da impiegare nell’acquisto di qualche piccola proprietà. Poiché abbiamo dimostrato che l’inviolabilità del diritto di proprietà è indispensabile per la soluzione pratica ed efficace della questione operaia. Pertanto le leggi devono favorire questo diritto, e fare in modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari. Da qui risulterebbero grandi vantaggi, e in primo luogo una più equa ripartizione della ricchezza nazionale. La rivoluzione ha prodotto la divisione della società come in due caste, tra le quali ha scavato un abisso. Da una parte una fazione strapotente perché straricca, la quale, avendo in mano ogni sorta di produzione e commercio, sfrutta per sé tutte le sorgenti della ricchezza, ed esercita pure nell’andamento dello Stato una grande influenza. Dall’altra una moltitudine misera e debole, dall’animo esacerbato e pronto sempre a tumulti. Ora, se in questa moltitudine s’incoraggia l’industria con la speranza di poter acquistare stabili proprietà, una classe verrà avvicinandosi poco a poco all’altra, togliendo l’immensa distanza tra la somma povertà e la somma ricchezza. Oltre a ciò, dalla terra si ricaverà abbondanza di prodotti molto maggiore. Quando gli uomini sanno di lavorare in proprio, faticano con più alacrità e ardore, anzi si affezionano al campo coltivato di propria mano, da cui attendono, per sé e per la famiglia, non solo gli alimenti ma una certa agiatezza. Ed è facile capire come questa alacrità giovi moltissimo ad accrescere la produzione del suolo e la ricchezza della nazione. Ne seguirà un terzo vantaggio, cioè l’attaccamento al luogo natio; infatti non si cambierebbe la patria con un paese straniero, se quella desse di che vivere agiatamente ai suoi figli. Si avverta peraltro che tali vantaggi dipendono da questa condizione, che la privata proprietà non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto della proprietà privata deriva non da una legge umana ma da quella naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso e armonizzarlo col bene comune. È ingiustizia ed inumanità esigere dai privati più del dovere sotto pretesto di imposte.

C) L’opera delle associazioni

1 – Necessità della collaborazione di tutti

36. Finalmente, a dirimere la questione operaia possono contribuire molto i capitalisti e gli operai medesimi con istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi e ad avvicinare e udire le due classi tra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private destinate a prendersi cura dell’operaio, della vedova, dei figli orfani, nei casi d’improvvisi infortuni, d’infermità, o di altro umano accidente; i patronati per i fanciulli d’ambo i sessi, per la gioventù e per gli adulti. Tengono però il primo posto le corporazioni di arti e mestieri che nel loro complesso contengono quasi tutte le altre istituzioni. Evidentissimi furono presso i nostri antenati i vantaggi di tali corporazioni, e non solo a pro degli artieri, ma come attestano documenti in gran numero, ad onore e perfezionamento delle arti medesime. I progressi della cultura, le nuove abitudini e i cresciuti bisogni della vita esigono che queste corporazioni si adattino alle condizioni attuali. Vediamo con piacere formarsi ovunque associazioni di questo genere, sia di soli operai sia miste di operai e padroni, ed è desiderabile che crescano di numero e di operosità. Sebbene ne abbiamo parlato più volte, ci piace ritornarvi sopra per mostrarne l’opportunità, la legittimità, la forma del loro ordinamento e la loro azione.

2 – Il diritto all’associazione è naturale

37. Il sentimento della propria debolezza spinge l’uomo a voler unire la sua opera all’altrui. La Scrittura dice: E’ meglio essere in due che uno solo; perché due hanno maggior vantaggio nel loro lavoro. Se uno cade, è sostenuto dall’altro. Guai a chi è solo; se cade non ha una mano che lo sollevi (Eccl 4,9-10). E altrove: il fratello aiutato dal fratello è simile a una città fortificata (Prov 18,19). L’istinto di questa naturale inclinazione lo muove, come alla società civile, così ad altre particolari società, piccole certamente e non perfette, ma pur società vere. Fra queste e quella corre grandissima differenza per la diversità dei loro fini prossimi. Il fine della società civile è universale, perché è quello che riguarda il bene comune, a cui tutti e singoli i cittadini hanno diritto nella debita proporzione. Perciò è chiamata pubblica; per essa gli uomini si mettono in mutua comunicazione al fine di formare uno Stato (S, Th., Contra impugn. Dei cultum et religionem, c. II). Al contrario le altre società che sorgono in seno a quella si dicono e sono private, perché hanno per scopo l’utile privato dei loro soci. Società privata è quella che si forma per concludere affari privati, come quando due o tre si uniscono a scopo di commercio (Ivi).

38. Ora, sebbene queste private associazioni esistano dentro la Stato e ne siano come tante parti, tuttavia in generale, e assolutamente parlando, non può lo Stato proibirne la formazione. Poiché il diritto di unirsi in società l’uomo l’ha da natura, e i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli. Vietando tali associazioni, egli contraddirebbe sé stesso, perché l’origine del consorzio civile, come degli altri consorzi, sta appunto nella naturale socialità dell’uomo. Si danno però casi che rendono legittimo e doveroso il divieto. Quando società particolari si prefiggono un fine apertamente contrario all’onestà, alla giustizia, alla sicurezza del consorzio civile, legittimamente vi si oppone lo Stato, o vietando che si formino o sciogliendole se sono formate; è necessario però procedere in ciò con somma cautela per non invadere i diritti dei cittadini, e non fare il male sotto pretesto del pubblico bene. Poiché le leggi non obbligano se non in quanto sono conformi alla retta ragione, e perciò stesso alla legge eterna di Dio (Cfr. S. Th. I-II, q. 13, a. 3).

39. E qui il nostro pensiero va ai sodalizi, collegi e ordini religiosi di tante specie a cui dà vita l’autorità della Chiesa e la pietà dei fedeli; e con quanto vantaggio del genere umano, lo attesta la storia anche ai nostri giorni. Tali società, considerate al solo lume della ragione, avendo un fine onesto, sono per diritto di natura evidentemente legittime. In quanto poi riguardano la religione, non sottostanno che all’autorità della Chiesa. Non può dunque lo Stato arrogarsi più quelle competenza alcuna, né rivendicarne a sé l’amministrazione; ha però il dovere di rispettarle, conservarle e, se occorre, difenderle. Ma quanto diversamente si agisce, soprattutto ai nostri tempi! In molti luoghi e in molti modi lo Stato ha leso i diritti di tali comunità, avendole sottoposte alle leggi civili a private di giuridica personalità, o spogliate dei loro beni. Nei quali beni la Chiesa aveva il diritto suo, come ognuno dei soci, e similmente quelli che li avevano destinati per un dato fine, e quelli al cui vantaggio e sollievo erano destinati. Non possiamo dunque astenerci dal deplorare spogliazioni sì ingiuste e dannose, tanto più che vediamo proibite società cattoliche, tranquille e utilissime, nel tempo stesso che si proclama altamente il diritto di associazione; mentre in realtà tale diritto vieni largamente concesso a uomini apertamente congiurati ai danni della religione e dello Stato.

40. Certe società diversissime, costituite specialmente di operai, vanno oggi moltiplicandosi sempre più. Di molte, tra queste, non è qui luogo di indagar l’origine, lo scopo, i procedimenti. È opinione comune però, confermata da molti indizi, che il più delle volte sono rette da capi occulti, con organizzazione contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico; costoro con il monopolio delle industrie costringono chi rifiuta di accomunarsi a loro, a pagar caro il rifiuto. In tale stato di cose gli operai cristiani non hanno che due vie: o iscriversi a società pericolose alla religione o formarne di proprie e unire così le loro forze per sottrarsi coraggiosamente a sì ingiusta e intollerabile oppressione. Ora, potrà mai esitare sulla scelta di questo secondo partito, chi non vuole mettere a repentaglio il massimo bene dell’uomo?

3 – Favorire i congressi cattolici

41. Degnissimi d’encomio sono molti tra i cattolici che, conosciute le esigenze dei tempi, fanno ogni sforzo per migliorare onestamente le condizioni degli operai. E presane in mano la causa, si studiano di accrescerne il benessere individuale e domestico; di regolare, secondo equità, le relazioni tra lavoratori e padroni; di tener viva e profondamente radicata negli uni e negli altri il senso del dovere e l’osservanza dei precetti evangelici; precetti che, allontanando l’animo da ogni sorta di eccessi, lo inducono alla moderazione e, tra la più grande diversità di persone e di cose, mantengono l’armonia nella vita civile. A tal fine vediamo che spesso si radunano dei congressi, ove uomini saggi si comunicano le idee, uniscono le forze, si consultano intorno agli espedienti migliori, Altri s’ingegnano di stringere opportunamente in società le varie classi operaie; le aiutano col consiglio e i mezzi e procurano loro un lavoro onesto e redditizio. Coraggio e protezione vi aggiungono i vescovi, e sotto la loro dipendenza molti dell’uno e dell’altro clero attendono con zelo al bene spirituale degli associati. Non mancano finalmente i cattolici benestanti che, fatta causa comune coi lavoratori, non risparmiano spese per fondare e largamente diffondere associazioni che aiutino l’operaio non solo a provvedere col suo lavoro ai bisogni presenti, ma ad assicurarsi ancora per l’avvenire un riposo onorato e tranquillo. I vantaggi che tanti e sì volenterosi sforzi hanno recato al pubblico bene, sono così noti che non occorre parlarne. Di qui attingiamo motivi a bene sperare dell’avvenire, purché tali società fioriscano sempre più, e siano saggiamente ordinate. Lo Stato difenda queste associazioni legittime dei cittadini; non si intrometta però nell’intimo della loro organizzazione e disciplina, perché il movimento vitale nasce da un principio intrinseco, e gli impulsi esterni facilmente lo soffocano.

4 – Autonomia e disciplina delle associazioni

42. Questa sapiente organizzazione e disciplina è assolutamente necessaria perché vi sia unità di azione e d’indirizzo. Se hanno pertanto i cittadini, come l’hanno di fatto, libero diritto di legarsi in società, debbono avere altresì uguale diritto di scegliere per i loro consorzi quell’ordinamento che giudicano più confacente al loro fine. Quale esso debba essere nelle singole sue parti, non crediamo si possa definire con regole certe e precise, dovendosi determinare piuttosto dall’indole di ciascun popolo, dall’esperienza e abitudine, dalla quantità e produttività dei lavori, dallo sviluppo commerciale, nonché da altre circostanze, delle quali la prudenza deve tener conto. In sostanza, si può stabilire come regola generale e costante che le associazioni degli operai si devono ordinare e governare in modo da somministrare i mezzi più adatti ed efficaci al conseguimento del fine, il quale consiste in questo, che ciascuno degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di benessere fisico, economico, morale. È evidente poi, che conviene aver di mira, come scopo speciale, il perfezionamento religioso e morale, e che a questo perfezionamento si deve indirizzare tutta la disciplina sociale. Altrimenti tali associazioni degenerano facilmente in altra natura, né si mantengono superiori a quelle in cui della religione non si tiene conto alcuno. Del resto, che gioverebbe all’operaio l’aver trovato nella società di che vivere bene, se l’anima sua, per mancanza di alimento adatto, corresse pericolo di morire? Che giova all’uomo l’acquisto di tutto il mondo con pregiudizio dell’anima sua? (Mat 16,26). Questo, secondo l’insegnamento di Gesù Cristo, é il carattere che distingue il cristiano dal pagano: I pagani cercano tutte queste cose… voi cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e gli altri beni vi saranno dati per giunta (Mat 6,32-33). Prendendo adunque da Dio il principio, si dia una larga parte all’istruzione religiosa, affinché ciascuno conosca i propri doveri verso Dio; sappia bene ciò che deve credere, sperare e fare per salvarsi; e sia ben premunito contro gli errori correnti e le seduzioni corruttrici. L’operaio venga animato al culto di Dio e all’amore della pietà, e specialmente all’osservanza dei giorni festivi. Impari a venerare e amare la Chiesa, madre comune di tutti, come pure a obbedire ai precetti di lei, e a frequentare i sacramenti, mezzi divini di giustificazione e di santità.

5 – Diritti e doveri degli associati

43. Posto il fondamento degli statuti sociali nella religione, è aperta la strada a regolare le mutue relazioni dei soci per la tranquillità della loro convivenza e del loro benessere economico. Gli incarichi si distribuiscano in modo conveniente agli interessi comuni, e con tale armonia che la diversità non pregiudichi l’unità. E’ sommamente importante che codesti incarichi vengano distribuiti con intelligenza e chiaramente determinati, perché nessuno dei soci rimanga offeso. I beni comuni della società siano amministrati con integrità, così che i soccorsi vengano distribuiti a ciascuno secondo i bisogni; e i diritti e i doveri dei padroni armonizzino con i diritti e i doveri degli operai. Quando poi gli uni o gli altri si credono lesi, è desiderabile che trovino nella stessa associazione uomini retti e competenti, al cui giudizio, in forza degli statuti, si debbano sottomettere. Si dovrà ancora provvedere che all’operaio non manchi mai il lavoro, e vi siano fondi disponibili per venire in aiuto di ciascuno, non solamente nelle improvvise e inattese crisi dell’industria, ma altresì nei casi di infermità, di vecchiaia, di infortunio. Quando tali statuti sono volontariamente abbracciati, si é già sufficientemente provveduto al benessere materiale e morale delle classi inferiori; e le società cattoliche potranno esercitare non piccola influenza sulla prosperità della stessa società civile. Dal passato possiamo prudentemente prevedere l’avvenire. Le umane generazioni si succedono, ma le pagine della loro storia si rassomigliano grandemente, perché gli avvenimenti sono governati da quella Provvidenza suprema la quale volge e indirizza tutte le umane vicende a quel fine che ella si prefisse nella creazione della umana famiglia. Agli inizi della Chiesa i pagani stimavano disonore il vivere di elemosine o di lavoro, come tacevano la maggior parte dei cristiani. Se non che, poveri e deboli, riuscirono a conciliarsi le simpatie dei ricchi e il patrocinio dei potenti. Era bello vederli attivi, laboriosi, pacifici, giusti, portati come esempio, e singolarmente pieni di carità. A tale spettacolo di vita e di condotta si dileguò ogni pregiudizio, ammutolì la maldicenza dei malevoli, e le menzogne di una inveterata superstizione cedettero il posto alla verità cristiana.

6 – Le questioni operaie risolte dalle loro associazioni

44. Si agita ai nostri giorni la questione operaia, la cui buona o cattiva soluzione interessa sommamente lo Stato. Gli operai cristiani la sceglieranno bene, se uniti in associazione, e saggiamente diretti, seguiranno quella medesima strada che con tanto vantaggio di loro stessi e della società, tennero i loro antenati. Poiché, sebbene così prepotente sia negli uomini la forza dei pregiudizi e delle passioni, nondimeno, se la pravità del volere non ha spento in essi il senso dell’onesto, non potranno non provare un sentimento benevolo verso gli operai quando li scorgono laboriosi, moderati, pronti a mettere l’onestà al di sopra del lucro e la coscienza del dovere innanzi a ogni altra cosa. Ne seguirà poi un altro vantaggio, quello cioè di infondere speranza e facilità di ravvedimento a quegli operai ai quali manca o la fede o la buona condotta secondo la fede. Il più delle volte questi poveretti capiscono bene di essere stati ingannati da false speranze e da vane illusioni. Sentono che da cupidi padroni vengono trattati in modo molto inumano e quasi non sono valutati più di quello che producono lavorando; nella società, in cui si trovano irretiti, invece di carità e di affetto fraterno, regnano le discordie intestine, compagne indivisibili della povertà orgogliosa e incredula. Affranti nel corpo e nello spirito, molti di loro vorrebbero scuotere il giogo di si abietta servitù; ma non osano per rispetto umano o per timore della miseria. Ora a tutti costoro potrebbero recare grande giovamento le associazioni cattoliche, se agevolando ad essi il cammino, li inviteranno, esitanti, al loro seno, e rinsaviti, porgeranno loro patrocinio e soccorso.

CONCLUSIONE

La carità, regina delle virtù sociali

45. Ecco, venerabili fratelli, da chi e in che modo si debba concorrere alla soluzione di sì arduo problema. Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi, perché il ritardo potrebbe rendere più difficile la cura di un male già tanto grave. I governi vi si adoperino con buone leggi e saggi provvedimenti; i capitalisti e padroni abbiano sempre presenti i loro doveri; i proletari, che vi sono direttamente interessati, facciano, nei limiti del giusto, quanto possono; e poiché, come abbiamo detto da principio, il vero e radicale rimedio non può venire che dalla religione, si persuadano tutti quanti della necessità di tornare alla vita cristiana, senza la quale gli stessi argomenti stimati più efficaci, si dimostreranno scarsi al bisogno. Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e in nessun modo l’opera sua, la quale tornerà tanto più efficace quanto più sarà libera, e di questo devono persuadersi specialmente coloro che hanno il dovere di provvedere al bene dei popoli. Vi pongano tutta la forza dell’animo e la generosità dello zelo i ministri del santuario; e guidati dall’autorità e dall’esempio vostro, venerabili fratelli, non si stanchino di inculcare a tutte le classi della società le massime del Vangelo; impegnino le loro energie a salvezza dei popoli, e soprattutto alimentino in sé e accendano negli altri, nei grandi e nei piccoli, la carità, signora e regina di tutte le virtù. La salvezza desiderata dev’essere principalmente frutto di una effusione di carità; intendiamo dire quella carità cristiana che compendia in sé tutto il Vangelo e che, pronta sempre a sacrificarsi per il prossimo, è il più sicuro antidoto contro l’orgoglio e l’egoismo del secolo. Già san Paolo ne tratteggiò i lineamenti con quelle parole: La carità è longanime, è benigna; non cerca il suo tornaconto: tutto soffre, tutto sostiene (1 Cor 13,4-7). Auspice dei celesti favori e pegno della nostra benevolenza, a ciascuno di voi, venerabili fratelli, al vostro clero e al vostro popolo, con grande affetto nel Signore impartiamo l’apostolica benedizione.

Dato a Roma presso san Pietro, il giorno 15 maggio 1891, anno decimoquarto del nostro pontificato.

LEONE PP. XIII

DOMENICA I DI AVVENTO (2020)

DOMENICA I DI AVVENTO (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B.; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Maria Maggiore.

Semid. Dom. privil. di I cL. – Paramenti violacei.

A Natale Gesù nascerà nelle nostre anime, perché allora si celebrerà l’anniversario della sua nascita e alla domanda della Chiesa sua Sposa, alla quale non rifiuta nulla, accorderà alle nostre anime le stesse grazie che ai pastori e ai re magi. Cristo tornerà cosi alla fine del mondo per « condannare i colpevoli alle fiamme e per invitare con voce amica i buoni in cielo » (Inno Matt..). Tutta la Messa di questo giorno ci prepara a questo doppio Avvento (Adventus) di misericordia e di giustizia.

Alcune parti si riferiscono indifferentemente all’uno e all’altro (Intr. Oraz. Grad. All.), altre fanno allusione alla umile nascita del nostro Divin Redentore, (Comm. Postcomm.). Altre, infine, parlano della sua venuta come Re in tutto lo splendore della sua potenza e della sua maestà (Ep., Vang.). L’accoglienza che noi facciamo a Gesù quando viene a redimerci, sarà quella ch’Egli ci farà quando verrà a giudicarci. Prepariamoci dunque, con sante aspirazioni e col mutamento della nostra vita alle feste di Natale, per essere pronti all’ultimo tribunale, dal quale dipenderà la sorte della nostra anima per l’eternità. Abbiamo fiducia, perché « quelli che aspettano Gesù non saranno confusi » (Intr. Grad. Off.). – Nella basilica di S. Maria Maggiore tutto il popolo di Roma un tempo si intratteneva in questa la Domenica di Avvento, per assistere alla Messa solenne che celebrava il Papa, assistito dal suo clero. Si sceglieva questa chiesa, perché è Maria che ci ha dato Gesù e poiché in questa chiesa si conservano le reliquia della mangiatoia nella quale la Madre benedetta adagiò il suo Figlio divino.

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV: 1-3.
Ad te levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.

[A Te ho innalzato l’ànima mia: Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire, né abbiano a deridermi i miei nemici: poiché quelli che confidano in Te non saranno confusi.]


Ps XXIV: 4
Vias tuas, Dómine, demónstra mihi: et sémitas tuas édoce me.

[Mostrami le tue vie, o Signore, e insegnami i tuoi sentieri.]

Ad te levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.

[A Te ho innalzato l’ànima mia: Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire, né abbiano a deridermi i miei nemici: poiché quelli che confidano in Te non saranno confusi.]

Oratio

Orémus.
Excita, quǽsumus, Dómine, poténtiam tuam, et veni: ut ab imminéntibus peccatórum nostrórum perículis, te mereámur protegénte éripi, te liberánte salvári:

[Súscita, o Signore, Te ne preghiamo, la tua potenza, e vieni: affinché dai pericoli che ci incombono per i nostri peccati, possiamo essere sottratti dalla tua protezione e salvati dalla tua mano liberatrice.]

Lectio

Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Romános Rom XIII: 11-14.

“Fratres: Scientes, quia hora est jam nos de somno súrgere. Nunc enim própior est nostra salus, quam cum credídimus. Nox præcéssit, dies autem appropinquávit. Abjiciámus ergo ópera tenebrárum, et induámur arma lucis. Sicut in die honéste ambulémus: non in comessatiónibus et ebrietátibus, non in cubílibus et impudicítiis, non in contentióne et æmulatióne: sed induímini Dóminum Jesum Christum” .

 “È già ora che ci svegliamo dal sonno, perché al presente la salute è più vicina che quando credemmo. La notte è avanzata e il giorno è vicino: gettiam via le opere delle tenebre e vestiamo le armi della luce. Camminiamo con decoro, come chi cammina alla luce del giorno; non in crapule e in ubriachezze, non sotto coltri ed in lascivie, non nelle contese e nell’invidia; ma rivestite il Signore Gesù Cristo e non accarezzate la carne per concupiscenza „ (Ai Rom. XIII, 11-14).

S. Paolo, dopo avere spiegato in questa ammirabile lettera i principali doveri del Cristianesimo, eccita i Romani a praticar la virtù, rammentando loro la breve durata di una vita che tanti uomini passano in un tristo assopimento. Gli esorta ad uscirne, perché il tempo stringe, ed il momento definitivo della nostra salute non è molto lontano. – Che cosa si intende qui per l’assopimento, per la notte ed il giorno, e per le opere delle tenebre?

Per assopimento s’intende quella funesta tiepidezza che fa trascurare a tanti Cristiani ogni mezzo di salute. Ah! di quanti noi possiamo dire che la morte sarà il loro risvegliarsi! Per la notte s’intende il peccato, che immerge l’anima nelle tenebre allontanando da Dio, che è il vero lume; per il giorno, s’intende la fede, la grazia, la riconciliazione con Dio, la scienza della salute. Le opere delle tenebre sono i peccati in generale, ed in particolare quelli che si commettono nell’oscurità della notte da chi l’aspetta per abbandonarsi al male. – Quali sono le  armi della luce, delle quali dobbiamo rivestirci? Sono la fede, la speranza e la carità, e in generale tutte le buone opere. Noi combatteremo per esse il demonio, il mondo e la carne.

Che significa camminare nella decenza come durante il giorno?

Significa il non fare e non dire alla presenza di Dio. che vede e sente tutto, nulla di ciò che non si osa fare o dire in presenza delle persone che più si rispettano.

Che vuol dire rivestirsi di Gesù Cristo?

Vuol dire pensare, parlare ed operar come Gesù Cristo.

Aspirazione: O mio divino Gesù! fate che la penitenza mi tolga dal sonno del peccato; la pratica delle buone opere mi faccia camminare alla luce delle vostre grazie, e l’imitazione delle vostre virtù mi rivesta di Voi stesso, che dovete essere l’ornamento dell’anima mia.

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.]

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

SCUOTIAMOCI.

La nostra vita di Cristiani oscilla tra un grande ricordo e una grande, immensa speranza. Non aspettiamo più nulla e aspettiamo ancora tutto. Non abbiamo l’attesa degli ebrei, i quali, come è noto, aspettano ancora la grande manifestazione di Dio; aspettano il Messia. Egli per noi è venuto. Ma Egli deve ritornare. È venuto… deve tornare; qui è il ritmo della nostra vita cristiana. – Fede nel Venuto, attesa nel Venturo. Qualcuno ha parlato dell’attesa come di uno stato psicologico proprio dei primi Cristiani. E certo essi cantavano all’indirizzo di Gesù, il Salvatore: tornerà a giudicare i vivi ed i morti. Ma lo cantiamo anche noi con la stessa tonalità interiore. Non con tristezza, con gioia, non con terrore, con fiducia. L’annuncio di questo ritorno è fatto in forma e con tono d’invocazione: Signore, vieni! La stagione ecclesiastica, (c’è un anno ecclesiastico come c’è un anno meteorologico, quello per gli spiriti, questo per i corpi), dell’avvento è l’espressione concreta, sociale, liturgica dei due sentimenti. Noi ricordiamo il primo Avvento del Cristo, riconoscenti. Lo diciamo, lo ripetiamo, lo cantiamo: è venuto. Dopo secoli di ripetute promesse, di attesa angosciosa, è venuto. E una gran gioia si diffonde nelle nostre anime… Il terreno religioso è solido sotto i nostri piedi. Le promesse di Dio non falliscono. La parola di Lui non torna indietro vuota mai. Ecco perché siamo sicuri che tornerà. La seconda promessa si adempierà come la prima si è adempiuta. Come è venuto il Salvatore, tornerà il Giudice. La sicurezza del ritorno si traduce in un’impressione di rapidità, di prontezza. Tanto più che il ritorno finale, universale, definitivo si confonde per ciascuno di noi con un ritorno parziale, individuale. Il Giudice torna quando noi gli andiamo incontro, colla morte… E allora l’attitudine è quella che la odierna epistola ci descrive d’accordo con la frase della parabola evangelica. Lo sposo è alle porte, torna, viene!… Pronti dunque a riceverlo! Sempre pronti! I veri sempre pronti siamo noi Cristiani. Sempre vigili. Fuori, nel mondo si dorme o si sonnecchia. Si fa il male, (notte, tenebre) o non si fa abbastanza alacremente il bene (sonnecchiare). In piedi, grida l’Apostolo ai dormienti e ai sonnecchianti. « Hora est jam nos de somno surgere. » E’ l’ora della sveglia, sempre… Non c’è un’ora: questa o quella: sempre desti perché lo sposo può arrivare da un momento all’altro. Tutte le ore sono buone per il  Suo ritorno. Bella e balda attitudine di temperanza e di operosità. Non fare il male mai, nessun male: fare il bene sempre, tutto il bene possibile, finché è giorno, finché dura la vita. Operare con chi ha coscienza della luce che gli brilla d’attorno. Il malfattore non lavora di giorno, la luce gli dà fastidio, la teme, gli dà noia. Il male si fa di notte. È da compatirsi se lo fa il pagano, per cui non è ancora spuntata la luce, non è venuto ancora il giorno. Non il Cristiano per cui il giorno della verità, della bontà è spuntato. Il programma negativo del non fare male, l’Apostolo lo svolge analiticamente: niente lussuria, niente piaceri illeciti, niente contese reciproche e miserabili invidie. Non la bestialità molle e non la bestialità violenta: nessuna delle due forme in un Cristiano. Ma di giorno l’uomo conscio del tempo che fa, conscio della luce che brilla non sta ozioso, pago a non far male di giorno lavora, utilizza il tempo, fa bene, fa il bene. Così noi Cristiani. La luce splende sul nostro capo, ci si irradia d’intorno, profittiamone per camminare, per progredire. Attizziamo il fuoco nella lampada con cui dovremo da un momento all’altro ricevere lo Sposo: versiamoci dentro l’olio pingue, l’olio abbondante delle opere buone, « Lumbi præcincti, lucernæ ardentes in manibus. » Che bella falange questi sempre pronti alla vita morale e religiosa! Questi intransigenti col male, questi incontentabili del bene! Falange in aumento continuo, mentre i giorni passano e le generazioni si succedono, e lo Sposo pare che tardi. In realtà i tempi maturano sempre. Il ritardo rafforza l’attesa; l’attesa più intensa nutre le operosità più febbrili. E la misura del bene voluta dalla Provvidenza di Dio nella storia dell’umanità si colma. Possiamo noi avere oggi la gioia di lavorare a questo colmarsi della misura, domani la gioia di vederla compiuta!

Graduale

Ps XXIV: 3; 4
Univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur, Dómine.

[Tutti quelli che Ti aspettano, o Signore, non saranno confusi].


V. Vias tuas, Dómine, notas fac mihi: et sémitas tuas édoce me.

[Mostrami le tue vie, o Signore, e insegnami i tuoi sentieri.]

Alleluja

Allelúja, allelúja.

Ps LXXXIV: 8. V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam: et salutáre tuum da nobis. Allelúja.

[Mostraci, o Signore, la tua misericordia: e dacci la tua salvezza. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secundum S. Lucam.

Luc XXI: 25-33.

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Erunt signa in sole et luna et stellis, et in terris pressúra géntium præ confusióne sónitus maris et flúctuum: arescéntibus homínibus præ timóre et exspectatióne, quæ supervénient univérso orbi: nam virtútes coelórum movebúntur. Et tunc vidébunt Fílium hóminis veniéntem in nube cum potestáte magna et majestáte. His autem fíeri incipiéntibus, respícite et leváte cápita vestra: quóniam appropínquat redémptio vestra. Et dixit illis similitúdinem: Vidéte ficúlneam et omnes árbores: cum prodúcunt jam ex se fructum, scitis, quóniam prope est æstas. Ita et vos, cum vidéritis hæc fíeri, scitóte, quóniam prope est regnum Dei. Amen, dico vobis, quia non præteríbit generátio hæc, donec ómnia fiant. Coelum et terra transíbunt: verba autem mea non transíbunt.

“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Vi saranno dei prodigi nel sole, nella luna e nelle stelle, e pel mondo le nazioni in costernazione per lo sbigottimento (causato) dal fiotto del mare e dell’onde: consumandosi gli uomini per la paura e per l’aspettazione di quanto sarà per accadere a tutto l’universo: imperocché le virtù de’ cieli saranno commosse. E allora vedranno il Figliuolo dell’uomo venire sopra una nuvola con potestà grande e maestà. Quando poi queste cose principieranno ad effettuarsi, mirate in su, e alzate le vostre teste; perché la redenzione vostra è vicina. E disse loro una similitudine: Osservate il fico e tutte le piante: quando queste hanno già buttato, sapete che la state è vicina. Così pure voi, quando vedrete queste cose succedere, sappiate che il regno di Dio è vicino. In verità vi dico, che non passerà questa generazione, fino a tanto che tutto si adempia. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”

Omelia

Sul giudizio finale.

[Discorsi di S. G. B. M. VIANNEY, curato d’Ars – Vol. I, 4° ed. Ed. Marietti, Torino-Roma, 1933]

Tunc videbunt Filium hominis venientem cum potestate magna et majestate.

(Allora vedranno venire il Figlio dell’uomo con grande potenza e maestà terribile, circondato dagli Angeli e dai Santi.)

Non è più, fratelli miei un DIO rivestito dalle nostre infermità, nascosto nell’oscurità di una povera stalla, adagiato in una mangiatoia, saziato di obbrobri, accasciato sotto il pesante fardello della croce; è un DIO rivestito da tutto lo splendore della sua potenza e della sua maestà, che fa annunziare la sua venuta dai prodigi più eclatanti, cioè dall’eclissi del sole, della luna, dalla caduta delle stelle e da un intero stravolgimento della natura. Non è più un Salvatore che viene con la dolcezza di un agnello, per essere giudicato dagli uomini e riscattarli: è un Giudice giustamente irritato, che giudica gli uomini con tutto il rigore della sua giustizia. Non è più un pastore caritatevole che viene a cercare le sue pecore disperse e perdonarle: è un DIO  vendicatore che viene a separare per sempre i peccatori dai giusti, caricare i malvagi della sua più terribile vendetta, e deliziare i giusti con un torrente di dolcezze. Momento terribile, momento spaventoso, quando giungerai? Momento doloroso, ahimè! Forse, in qualche mattino, noi ascolteremo i precursori di questo Giudice così terribile per i peccatori. O voi, peccatori, uscite dalla tomba dei vostri peccati, venite al tribunale di DIO, istruitevi sulla maniera in cui il peccatore sarà trattato. L’empio, in questo mondo, sembra voler disconoscere la potenza di DIO, vedendo i peccatori senza punizione; egli giunge fin’anche a dire: No, no, non c’è DIO, né inferno; oppure: DIO non bada a ciò che accade sulla terra. Ma aspettiamo il giudizio e, in questo grande giorno, DIO manifesterà la sua potenza e mostrerà a tutte le nazioni che ha visto tutto e contato tutto. Qual differenza, fratelli miei, con le meraviglie che operò creando il mondo! Che sgorghino le acque, fertilizzino la terra; e nello stesso istante, le acque copriranno la terra donandole la fertilità. Ma quando Egli verrà per distruggere il mondo, comanderà al mare di lasciare le sue rive con una impetuosità spaventosa che ingoierà tutto l’universo nel suo furore. Quando DIO creò il cielo, ordinò alle stelle di attaccarsi al firmamento. Alla sua voce, il sole rischiarò il giorno, e la luna presiedette alla notte. Ma in questo ultimo giorno, il sole si oscurerà, la luna e le stelle non daranno più luce. Tutti questi astri meravigliosi cadranno con uno spaventoso fracasso. Quale differenza, fratelli miei cari. DIO impiegò sei giorni nel creare il mondo; ma per distruggerlo, sarà sufficiente un battito d’occhio. Per creare l’universo e tutto ciò che esso racchiude, DIO non chiamò nessuno spettatore di tante meraviglie; ma nel distruggerlo, saranno presenti tutti i popoli, tutte le nazioni confesseranno che c’è un DIO e che Esso è potente. Venite, empi beffardi, venite, increduli raffinati, venite a conoscere se c’è un DIO, e se è onnipotente! O DIO mio! Il peccatore cambierà linguaggio in questo momento! Quanti rimpianti! Qual pentimento per aver tralasciato un tempo sì prezioso! Ma non c’è più tempo, tutto è finito per il peccatore, tutto è senza speranza! Oh! Quanto terribile sarà questo momento! San Luca ci dice che gli uomini si disseccheranno per la paura fin dalla punta dei piedi pensando ai dolori che saranno loro preparati. Ahimè, fratelli miei, si può disseccare per la paura e morire dallo spavento nell’attesa di un malore infinitamente meno grande di quello di cui è minacciato il peccatore e che certamente gli arriverà se continua a vivere nel peccato. In questo momento, fratelli miei, io mi dispongo a parlare del giudizio in cui noi compariremo tutti per rendere conto di tutto il bene ed il male che avremo fatto, per ricevere la nostra sentenza definitiva per il cielo o per l’inferno: se venisse un Angelo dal cielo ad annunciarvi da parte di DIO che tra ventiquattro ore tutto l’universo sarà ridotto in fuoco da una pioggia di fuoco e zolfo, e voi cominciaste ad avvertire i tuoni scuotenti, i furori delle tempeste abbattersi sulle vostre case, i fulmini talmente numerosi tanto da rendere l’universo un rogo ardente, e l’inferno vomitasse già tutti i suoi riprovati le cui urla e grida si possono ascoltare da tutti gli angoli del mondo; che il solo mezzo per evitare tutti questi malanni fosse lasciare il peccato e fare penitenza; intendereste voi, fratelli miei, tutti questi uomini senza versare un torrente di lacrime e gridare: misericordia! Non vi gettereste ai piedi degli altari per chiedere misericordia? O accecamento, o incomprensibile infelicità dell’uomo peccatore! I mali che il vostro pastore vi annuncia sono ancor più infinitamente spaventosi e degni di strappare le vostre lacrime, lacerare i vostri cuori. Ahimè! Queste verità così terribili diventeranno tante sentenze che stanno per pronunciare la vostra eterna condanna. Ma la più grande di ogni disgrazia, è che voi ne siete insensibili e continuate a vivere nel peccato e non riconosciate la vostra follia se non nel momento in cui non avrete più rimedio. Ancora un momento, e questo peccatore che viveva tranquillamente nel peccato, sarà giudicato e condannato; ancora un istante ed egli porterà questo rimpianto per l’eternità. Sì, fratelli miei, noi saremo giudicati, nulla di più certo; sì, noi saremo giudicati senza misericordia; sì noi rimpiangeremo eternamente l’aver peccato.    

I. — Noi leggiamo nella Sacra Scrittura, fratelli miei, che tutte le volte che DIO vuole inviare qualche flagello al mondo o alla sua Chiesa, Egli lo fa sempre precedere da qualche segno per cominciare a gettare il terrore nei cuori, e per portarlo a placare la sua giustizia. Volendo far perire l’universo con un diluvio, l’arca di Noè, che si impiegarono cento anni per costruirla, fu un segno per condurre gli uomini alla penitenza, cosicché tutti non dovessero perire. Lo storico Giuseppe ci dice che prima della distruzione della città di Gerusalemme, comparve per molto tempo una cometa in forma di falce che gettò nella costernazione il mondo. Ognuno diceva: Ahimè, cosa vuol dire questo segno? Forse qualche grande sventura che DIO vuole inviarci? La luna rimase otto giorni senza dare luce; le genti sembravano già non potessero vivere. Tutto ad un tratto comparve un uomo sconosciuto che per tre anni non faceva altro che gridare per le strade di Gerusalemme, giorno e notte: Guai a Gerusalemme! Guai a Gerusalemme! … lo si prese e lo si batté con verghe per impedirgli di gridare, ma niente lo fermò. Dopo tre anni, egli gridò: Ah! Gerusalemme: ah! guai a me. Una pietra lanciata da una macchina gli cadde addosso e lo schiacciò in quell’istante. Allora tutti i mali di cui questo sconosciuto aveva minacciato Gerusalemme, le si abbatterono addosso. La fame fu così grande, che le madri sgozzavano i loro figli per servirsene da nutrimento. Gli abitanti, senza sapere perché, si sgozzavano gli uni gli altri; la città fu presa e come annientata; le strade e le piazze erano coperte da cadaveri; il sangue scorreva a fiumi, i pochi che sopravvissero, furono venduti come schiavi. Ma, siccome il giorno del giudizio sarà il giorno più terribile ed il più spaventoso che ci sia mai stato, sarà preceduto da segno così paurosi che getteranno il terrore fino al fondo degli abissi. Nostro Signore ci dice che, in questo momento terribile per il peccatore, il sole non darà più luce, la luna sarà simile ad una massa di sangue, e le stelle cadranno dal cielo. L’aria sarà talmente piena di fulmini che sarà tutta un fuoco, e si sentiranno tuoni, il cui rimbombo sarà così grande che gli uomini disseccheranno per il terrore fin dalla pianta dei loro piedi. I venti saranno così impetuosi che nulla potrà resistere loro. Gli alberi e le case, saranno inghiottiti dal caos del mare; il mare stesso sarà talmente agitato dalle tempeste che i suoi flutti si alzeranno di quattro cubiti sopra le montagne più alte, e scenderanno così in basso da mostrare gli orrori degli inferi; tutte le creature, anche inanimate, sembreranno volersi annientare per evitare la presenza del loro Creatore, vedendo quanto i crimini degli uomini hanno lordato e sfigurato la terra. Le acque dei mari e dei fiumi gorgoglieranno come olio nei bracieri; gli alberi e le piante vomiteranno torrenti di sangue; i tremori della terra saranno così grandi che si vedrà la terra aprirsi da ogni parte; la maggior parte degli alberi e delle bestie saranno distrutti, gli uomini che resteranno saranno come insensati; le rocce, i monti crolleranno con un frastuono spaventoso. Dopo tutti questi orrori, sarà acceso il fuoco nei quattro angoli del mondo, ma un fuoco così violento che brucerà le pietre, le rocce e la terra, come un filo di paglia gettato in una fornace. Tutto l’universo sarà ridotto in cenere; è necessario che questa terra lordata da tanti crimini, sia purificata dal fuoco che sarà acceso dalla collera del Signore, di un DIO giustamente irritato.  – Dopo che questa terra, fratelli miei, coperta da tanti crimini sarà purificata, DIO invierà i suoi Angeli che soneranno la tromba ai quattro angoli del mondo, e che diranno a tutti i morti: Alzatevi, morti, uscite dalle vostre tombe, venite e preparatevi al giudizio. Allora tutti i morti, buoni e cattivi, giusti e peccatori, riprenderanno le stesse forme che un tempo avevano, il mare vomiterà tutti i suoi cadaveri rinchiusi in esso, la terra rigetterà tutti i corpi seppelliti da tanti secoli nel suo seno. Dopo questa rivoluzione, tutte le anime dei santi discenderanno dal cielo raggianti di luce, ogni anima si ricongiungerà con il suo corpo dando mille e mille benedizioni. Venite – esse diranno – compagno delle mie sofferenze; se avete lavorato per piacere a DIO; se avete fatto consistere la vostra felicità nelle sofferenze e nei combattimenti, oh! Quanti beni ci sono riservati, sono più di mille anni che io gioisco di questa felicità; oh! Quale gioia per me ad annunciarvi i tanti beni che si sono stati preparati per l’eternità. Venite, occhi benedetti, che tante volte vi siete chiusi al cospetto di oggetti impuri, timorosi di perdere la grazia del vostro DIO, venite nel cielo dove non vedrete che beltà che mai in questo mondo si vedono. Venite, orecchie mie, voi che avete avuto orrore delle parole e dei discorsi impuri e calunniatori; venite ed ascolterete nel cielo questa musica celeste che vi metterà in continuo rapimento. Venite, miei piedi e mani mie, che tante volte vi siete adoperate a sollevare gli sventurati; andiamo a trascorrere la nostra eternità in questo bel cielo ove vedremo il nostro amabile e caritatevole Signore che tanto ci ha amato. Ah! voi vedrete Colui che tante volte è venuto a riposare nel vostro cuore. Ah! noi vi vedremo questa mano ancora tinta del sangue del nostro divin Salvatore, per mezzo del quale Egli ci ha meritato tanta gioia. Infine, il corpo e l’anima dei Santi si daranno mille e mille benedizioni, e questo per tutta l’eternità. Dopo che tutti i Santi avranno ripreso i loro corpi raggianti di gloria, tutti là, secondo le buone opere e le penitenze che avranno fatto, attenderanno con piacere il momento in cui DIO starà per svelare in faccia a tutto l’universo tutte le lacrime, tutte le penitenze, tutto il bene che avranno compiuto durante tutta la loro vita senza trascurarne neppure una, neppure una sola, già tutte rapite dalla felicità di DIO stesso. Aspettate, dirà loro Gesù-Cristo stesso, aspettate, io voglio che tutto l’universo veda quanto voi abbiate lavorato con piacere. I peccatori induriti, gli increduli dicevano che Io fossi indifferente a tutto ciò che voi facevate per me; ma Io voglio mostrare loro oggi che vi ho visto ed ho contato tutte le vostre lacrime versate nel fondo dei deserti; Io voglio oggi mostrare loro che Io ero al fianco vostro sui patiboli. Venite tutti e comparite davanti a questi peccatori che mi hanno disprezzato ed oltraggiato, che hanno osato negare che Io esistessi, che Io li vedessi. Venite, figli miei, venite miei diletti e vedrete quanto sono stato buono, quanto grande è il mio amore per voi. – Contempliamo, fratelli miei, per un istante, questo numero infinito di anime giuste che rientrano nei loro corpi, che rendono simili a dei soli luminosi. Voi vedete tutti questi martiri, con in mano la palma. Vedete tutte queste Vergini, con la corona della verginità sulla testa. Vedete tutti questi Apostoli, questi sacerdoti, che hanno salvato tante anime, con i raggi di gloria di cui sono abbelliti. Fratelli miei, tutti diranno a Maria, questa Madre-Vergine: andiamo a raggiungere Colui che è in cielo per dare un nuovo splendore alle vostre beltà. Ma no, un momento di pazienza; Voi siete stata disprezzata, calunniata e perseguitata dai malvagi, è giusto che, prima di entrare in questo reame eterno, i peccatori vengano a fare ammenda onorevole. – Ma, terribile e fragorosa rivoluzione! … Io sento la stessa tromba che intima ai riprovati di uscire dagli inferi. Venite peccatori, carnefici e tiranni – dirà DIO che voleva tutti salvi – venite, comparite al tribunale del Figlio dell’Uomo, a Colui del quale sì sovente avete voluto persuadervi che non vi vedesse, né vi intendesse! Venite e comparite, perché tutto quello che voi avete commesso, sarà manifestato in faccia a tutto l’universo. Allora l’Angelo griderà: Abissi degli inferi, aprite le vostre porte, vomitate tutti i riprovati, il loro Giudice li chiama. Ah! Momento terribile! Tutti queste anime maledette riprovate, orribili come demoni, usciranno dagli abissi ed andranno, come dei disperati, a cercare i propri corpi. Ah! Momento crudele! Nel momento in cui l’anima entrerà nel suo corpo, questo corpo proverà tutti i rigori dell’inferno. Ah! Corpo maledetto, dirà l’anima al suo corpo che ha rotolato e trascinato nel fango delle sue impurità; sono già mille anni che soffro e brucio nell’inferno. Venite occhi maledetti, che tante volte avete avuto piacere nel volgere sguardi disonesti su di voi od altri, venite all’inferno per contemplarvi i mostri più orribili. Venite, orecchie maledette, che avete tratto tanto piacere da queste parole, da questi discorsi impuri, venite eternamente a sentire le grida, le urla, i ruggiti dei demoni. Venite, lingua e bocca maledetta che tante volte avete dato baci impuri e che nulla avete risparmiato per accontentare la vostra sensualità e la vostra ingordigia; venite nell’inferno e non avrete che il fiele dei dragoni per nutrimento. Vieni, corpo maledetto che ho tanto cercato di accontentare; vieni, tu sarai immerso per l’eternità in uno stagno di fuoco e di zolfo, alimentato dalla potenza e dalla collera di DIO! Ah! chi potrà comprendere e raccontarci le maledizioni che il corpo e l’anima si vomiteranno per tutta l’eternità? Sì, fratelli miei, ecco tutti i giusti ed i riprovati che hanno ripreso la forma antica, cioè i loro corpi tali come ora li vediamo, che attendono il loro Giudice, ma un Giudice giusto e senza compassione, per punire o ricompensare, secondo il bene o il male che noi avremo fatto. Eccolo che arriva, seduto su di un trono, sfolgorante di gloria, circondato da tutti gli Angeli, con lo stendardo della sua croce che marcerà davanti a Lui. I dannati vedranno il loro Giudice; ah! che dico? Vedranno Colui che essi non hanno visto procurare loro la felicità del Paradiso, e che, malgrado Lui, si sono dannati: montagne, essi grideranno, schiacciateci, nascondeteci dalla faccia del nostro Giudice; rocce, cadeteci addosso; ah! di grazia, precipitateci negli inferi! No, no, peccatore, avanza e vieni a render conto di tutta la tua vita. vieni avanti maledetto, che tanto hai disprezzato un DIO così buono. Ah! Giudice mio, Padre mio, mio Creatore, dove sono mio padre, mia madre che mi hanno dannato? Ah! io vorrei vederli; ah! io vorrei loro domandare il cielo che essi mi hanno lasciato perdere. Padre mio e madre mia, siete voi che mi avete dannato, siete voi la causa della mia rovina. No, no, avanza verso il tribunale del tuo DIO, per te tutto è perduto: sì, tu sei perduto! Sì, tutto è perduto, poiché tu hai perduto la tua anima ed il tuo DIO. Ah! chi potrà mai comprendere il dolore di un dannato che si vedrà di fronte, cioè nel lato dei Santi, un padre o una madre tutti raggianti di gloria e pronti per il cielo, e vedersi riservato all’inferno? Montagne, diranno questi riprovati, fateci sfuggire; ah! di grazia cadeteci addosso! Ah! porte degli abissi, apritevi per nasconderci! No, peccatore; tu hai sempre disprezzato i miei comandamenti; ma oggi Io voglio mostrarti che sono Io il tuo padrone. Comparirai davanti a me con tutti i tuoi crimini dei quali è intessuta tutta la tua vita. Ah! è allora – ci dice il profeta Ezechiele – che il Signore prenderà questo gran foglio miracoloso, ove sono scritti e consegnati tutti i crimini degli uomini. Quanti peccati, mai comparsi agli occhi dell’universo, si vedranno apparire. Ah! tremate, voi che forse dopo quindici o venti anni, avete accumulati peccati su peccati. Ah! guai a voi! Allora Gesù-Cristo, con il libro delle coscienze in mano, chiamerà tutti i peccatori per convincerli di tutti i peccati che avranno commesso nel corso della loro vita, con il suono di un tuono spaventoso. Venite impudichi – dirà loro – avvicinatevi e leggete giorno per giorno; ecco tutti questi pensieri che hanno riempito la vostra immaginazione, tutti questi desideri vergognosi che hanno corrotto il vostro cuore; leggete e contate i vostri adulteri, eccone il luogo, il momento in cui li avete commessi, ecco la persona con la quale avete peccato. Leggete tutte le vostre mollezze e le vostre lascivie, leggete e contate quante volte avete perso delle anime che mi erano costate così caramente. Era da più di mille anni che il vostro corpo era marcito e la vostra anima all’inferno, ed il vostro libertinaggio portava ancora anime all’inferno. Vedete questa donna che avete perduto, vedete questo marito, questi figli e questi vicini! Tutti chiedono vendetta, tutti vi accusano che li avete perduti e che senza di voi sarebbero destinati al cielo. – Venite figlie mondane, strumenti di satana, venite e leggete tutte queste cure e questi tempi che avete impiegato nel prepararvi; contate il numero dei cattivi pensieri e dei cattivi desideri che avete suscitato a coloro che vi hanno visto. Vedete tutte le anime che gridano che siete state voi che li avete perduti. – Venite maldicenti, seminatori di falsi rapporti, venite e leggete, ecco dove sono segnate tutte le vostre maldicenze, i vostri insulti, le vostre ingiurie; ecco tutte le divisioni che avete provocato; ecco tutte le turbe che avete fatto nascere, tutte le perdite e tutti i mali dei quali la vostra lingua maledetta è stata la prima causa. Andate disgraziati, andate ad ascoltare le grida e le urla spaventose dei demoni. – Venite avari maledetti, leggete e contate questo denaro e questi beni fatiscenti ai quali avete legato il vostro cuore, il disprezzo del vostro DIO, e per i quali avete sacrificato la vostra anima. Avete dimenticato la vostra durezza per i poveri? Eccola, leggete e contate. Ecco il vostro oro ed il vostro denaro, chiedete ora loro soccorso, dite loro che vi traggano dalle mie mani. Andate maledetti a soffrir fame negli inferi. – Venite vendicativi, leggete e vedete tutto ciò che voi avete fatto per nuocere al vostro prossimo, contate tutte queste ingiustizie, contate tutti questi pensieri di odio e di vendetta che avete nutrito nei vostri cuori; andate, maledetti, nell’inferno. Voi siete stati ribelli: i miei ministri hanno detto mille volte che se non amate il vostro prossimo come voi stessi, non c’è perdono per voi. Ritiratevi da me, maledetti, andate all’inferno, sarete la vittima della mia eterna collera, ove conoscerete che la vendetta non è che per DIO solo. – Vieni, vieni, ubriacone, ecco là un bicchiere di vino, un pezzo di pane che tu hai strappato dalla bocca di tua moglie e dei tuoi figli; ecco tutti gli eccessi, li riconosci? Sono i tuoi, o sono quelli del tuo vicino? Ecco il numero delle notti, dei giorni, le domeniche e le feste che tu hai trascorso nelle bettole; ecco  fino all’ultima, le parole disoneste che hai dette nelle tue sbornie; ecco tutti i giuramenti, tutte le imprecazioni che hai vomitato; ecco tutti gli scandali che hai dato a tua moglie, ai tuoi figli, ai vicini. Sì, io ho scritto tutto, ho tutto contato. Va, disgraziato, ad ubriacarti negli inferi del fiele della mia collera. – Venite mercanti, operai, di qualunque stato voi siate, venite, rendetemi conto fino all’obolo di tutto ciò che avete comprato e venduto; venite, esaminiamo insieme se le vostre misure ed i vostri conti siano conformi ai miei? Ecco, mercanti, il giorno in cui avete ingannato questo bambino. Ecco il giorno in cui avete fatto pagare due volte la stessa cosa. Venite, profanatori dei Sacramenti, ecco tutti i vostri sacrilegi, tutte le vostre ipocrisie. Venite, padri e madri, rendetemi conto di queste anime che a voi ho affidato; rendetemi conto di tutto ciò che hanno fatto i vostri figli, i vostri domestici; ecco tutte le volte che avete dato loro il permesso di andare nei luoghi e con le compagnie in cui hanno peccato. Ecco tutti i cattivi pensieri ed i cattivi desideri che vostra figlia ha coltivato; ecco tutti gli abbracci e le azioni infami; ecco tutte le parole impure che i vostri figli hanno pronunziato. Ma, Signore, diranno i padri e le madri, io non li ho comandati. Non importa, dirà ad essi il loro Giudice, i peccati dei tuoi figli, sono i tuoi peccati. Dove sono le virtù che hai fatto loro praticare? Dove sono i buoni esempi che hai loro dati o le buone opere che hai fatto fare loro? Ahimè! Cosa sarà di questi padri e queste madri che vedono che i loro figli, gli uni vanno a ballare, gli altri ai giochi o alla bettola, e vivono tranquilli. O DIO mio quale cecità! Oh! Da quali crimini si vedranno oppressi in questi terribili momenti! Oh! Quanti peccati nascosti che saranno manifestati alla presenza di tutto l’universo! Oh! Abissi profondi degli inferi, apritevi per ingoiare questa folla di perversi che non hanno vissuto che per oltraggiare DIO e dannarsi. Ma – voi mi direte – tutte le buone opere che abbiamo fatto non serviranno dunque a niente? Questi digiuni, queste penitenze, queste elemosine, queste Comunioni, queste Confessioni saranno dunque senza ricompensa? No, vi dirà Gesù-Cristo, tutte le vostre preghiere non erano che pratiche di abitudini, i vostri digiuni ipocrisie, le vostre elemosine vanagloria; il vostro lavoro non aveva altro scopo che l’avarizia e la cupidigia, le vostre sofferenze non erano accompagnate che da pianti e mormorii; in tutto ciò che facevate, Io non c’ero per nulla; tuttavia vi ho ricompensato con beni temporali, ho benedetto il vostro lavoro, ho dato fertilità ai vostri campi, arricchiti i vostri figli, il poco di bene che avete fatto ve l’ho ricompensato con più di quanto potevate attendere. Ma, Egli ci dirà, i vostri peccati vivono ancora, essi vivranno eternamente davanti a me; andate maledetti, nel fuoco eterno preparato per tutti coloro che mi hanno disprezzato durante la loro vita. – Sentenza terribile, ma infinitamente giusta. Cosa di più giusto? Un peccatore che per tutta la sua vita, non ha fatto che rivoltarsi nel crimine, malgrado le grazie che il buon DIO gli presentava incessantemente per uscirne! Vedete questi empi che si lamentavano del loro pastore, che disprezzavano le parole di vita, che volgevano in ridicolo quello che il loro pastore diceva ad essi? Vedete questi peccatori che si gloriavano nel non avere Religione, che schernivano coloro che la praticavano? Vedeteli, questi cattivi Cristiani che avevano così spesso in bocca queste orribili bestemmie che- essi dicevano – trovavano ancora eccellente il pane, e non avevano bisogno di Confessione? Vedete questi increduli che ci dicevano che, quando fossimo morti, tutto era finito? Vedete la loro disperazione, ascoltateli confessare la loro empietà? Li udite implorare misericordia? Ma tutto è finito, non avete più che l’inferno per retaggio. – Vedete questo orgoglioso che scherniva e disprezzava tutti? Lo vedete inabissato nel suo cuore, condannato per una eternità sotto i piedi dei demoni? Vedete quell’incredulo che diceva che non c’è DIO, che non c’è inferno? Lasciate confessare loro davanti a tutto l’universo che c’è un DIO Giudice, ed un inferno dove sta per precipitare per non uscirne mai più? È vero che DIO darà la libertà a tutti i peccatori di portare lo loro ragioni, le loro scuse per giustificarsi, se possono. Ma ahimè! Che potrà dire un criminale che non vede che crimine e ingratitudine? Ahimè! Tutto ciò che potrà dire un peccatore in questo momento doloroso non servirà che a mostrare ancor più la sua empietà e la sua ingratitudine. – Ecco, senza dubbio, fratelli miei, ciò che vi sarà di più sconvolgente in questo terribile momento; questo sarà quando vedremo che DIO non ha nulla risparmiato per salvarci; che Egli ci fa fatto partecipi dei meriti infiniti della sua morte in croce; che Egli ci ha fatto nascere nel seno della sua Chiesa; che ci ha dato dei pastori per mostrarci ed insegnarci tutto ciò che si debba fare per essere felici. Egli ci ha dato i Sacramenti per farci recuperare la sua amicizia tutte le volte che l’avessimo perduta. Non ha posto dei limiti al numero dei peccati che voleva perdonarci; se il nostro ritorno fosse sincero, saremmo stati sicuri del nostro perdono, egli ci ha atteso per un numero infinito di anni, benché non vivessimo che per oltraggiarlo; Egli non voleva perderci o piuttosto voleva assolutamente salvarci; e noi non abbiamo voluto! Siamo noi stessi che lo forziamo con i nostri peccati a fargli emettere una sentenza di eterna riprovazione: Andate, figli maledetti, andate a trovare colui che avete imitato: io non vi riconosco, se non per non schiacciarvi con tutti i furori della mia eterna collera. – Venite, ci dice il Signore per mezzo di uno dei suoi Profeti, venite, uomini, donne, ricchi e poveri, quantunque peccatori, di qualunque stato e condizione siate, dite tutti insieme, ditemi le vostre ragioni, ed Io vi dirò le mie. Entriamo in giudizio, pesiamo tutto ai piedi del santuario. Ah! momento terribile per un peccatore che da qualunque lato consideri la sua vita, non vede che peccato, ed alcun bene. DIO mio! Che sarà di lui? In questo mondo, il peccatore ha sempre qualche scusa da recare per tutti i peccati che ha commesso; egli porta finanche il suo orgoglio al tribunale della penitenza, dove non dovrebbe comparire se non per accusar se stesso e condannarsi. Per gli uni l’ignoranza; per altri le tentazioni troppo violente; infine per altri, le occasioni e i cattivi esempi: ecco, ogni giorno le ragioni che i peccatori accampano per nascondere la oscurità dei loro crimini. Venite peccatori orgogliosi, vedete se le vostre scuse saranno bene accolte nel giorno del giudizio, e spiegatevi con Colui che ha la falce in mano, che ha visto tutto, tutto contato, tutto pesato. Voi non sapevate, direte, che questo fosse un peccato! Ah! Sventurati, vi dirà Gesù-Cristo, se foste nati tra le nazioni idolatre che non hanno mai sentito parlare del vero DIO, potreste ancora scusarvi per la vostra ignoranza; ma voi Cristiani, che avete avuto la fortuna di nascere nel seno della mia Chiesa, allevati nel centro della luce, voi, ai quali si parla della vostra eterna felicità? Dalla vostra infanzia vi si insegna cosa fare per procurarvela, voi che mai si è cessato di istruire; era proprio perché non avete voluto istruirvi; era proprio perché non avete voluto profittare delle istruzioni o che voi avete rifuggito. Andate maledetti! Andate, le vostre scuse vi rendono ancor più degni di maledizione! Andate, figli maledetti, negli inferi e bruciate con la vostra ignoranza. – Ma, dirà un altro, le mie passioni erano troppo vive e grande la mia debolezza. Ma, dirà loro il Signore, poiché DIO era così buono da farvi conoscere la vostra debolezza, ed i vostri pastori vi dicevano che bisognava continuamente vegliare su voi stessi, mortificarvi, se volevate domarle; perché facevate tutto all’opposto? Perché prendevate tanta cura nel contentare il vostro corpo ed i vostri piaceri? DIO vi faceva conoscere la vostra debolezza e voi ricadevate ad ogni istante? Perché non facevate ricorso a DIO per chiedergli la sua grazia? Perché non ascoltavate i vostri pastori che non cessavano di esortarvi nel chiedere le grazie e le forze di cui avevate bisogno per vincere il demonio? Perché avete dunque tanto spesso disprezzato la parola di DIO che vi avrebbe guidato nel cammino che dovevate intraprendere per andare a Lui? Ah! Peccatori ingrati e ciechi, tutti questi beni erano a vostra disposizione, voi potevate servirvene come tanti altri. Cosa avete fatto per impedirvi di cadere nel peccato? Voi non avete pregato che per uso ed abitudine. Andate maledetti! Più avete conosciuto la vostra debolezza, più dovevate far ricorso a DIO che vi avrebbe sostenuto ed aiutato per operare la vostra salvezza. Andate maledetti, voi non siete se non più colpevoli. – Ma ci sono tante occasioni di peccare, dirà ancora un altro. Amico mio, io conosco tre tipi di occasione che possono portare al peccato. Tutti gli stati hanno i loro pericoli. Io dico che ve ne sono di tre sorta: quelli in cui siamo necessariamente esposti per i doveri del nostro stato, quelli che incontriamo senza cercarli, e quelli ai quali ci esponiamo senza necessità. Se per quelli in cui ci invischiamo senza necessità non abbiamo scusanti, non cerchiamo di scusare un peccato con un altro peccato. Voi avete inteso cantare cattive canzoni, voi dite; avete ascoltato una maldicenza o una calunnia, e perché siete andato in questa casa o con questa compagnia? Perché frequentate queste persone senza Religione? Non sapete che chi si espone al pericolo è colpevole e vi perirà? Colui che cade senza esporsi si rialza ben presto, e la sua caduta lo rende ancor più vigilante e saggio. Ma non vedete voi che DIO ci ha promesso il suo soccorso nelle tentazioni, non ce lo ha promesso però quando abbiamo la temerarietà di esporci da noi stessi. Andate maledetti, voi stessi avete cercato di perdervi; voi meritate l’inferno che è riservato ai peccatori come voi. – Ma, voi mi direte, si hanno continuamente cattivi esempi davanti agli occhi. Voi avete cattivi esempi … quale scusa frivola! Se ne avete di cattivi, non ne avete pure di buoni? Perché non avete seguito piuttosto i buoni che i cattivi? Quando vedevate che questa giovane andava in chiesa, alla sacra mensa, perché non la seguivate, piuttosto che seguire quella che andava alle danze? Quando quest’uomo andava in chiesa per adorarvi Gesù-Cristo nel santo tabernacolo, perché non avete seguito i suoi passi piuttosto che seguire le orme di coloro che si recavano alla bettola? Dite piuttosto, peccatori, che avete amato più la via larga che vi ha condotto in questo disastro in cui vi trovate, che il cammino che il Figlio di DIO ha tracciato Egli stesso. La vera causa delle vostre cadute e della vostra riprovazione, non viene dunque né dai cattivi esempi, né dalle occasioni, né dalle vostre debolezze, né dalle grazie che vi mancavano; ma soltanto dalle cattive disposizioni del vostro cuore che non avete voluto reprimere. Se avete fatto il male, è perché lo avete voluto. La vostra perdita non viene dunque, che solamente da voi. – Ma, mi direte, non ci veniva sempre detto che DIO era buono. È vero che Egli è buono, ma Egli è giusto; la sua bontà e la sua misericordia sono per voi passate: non c’è più che la sua giustizia e la sua vendetta. Ahimè! Fratelli miei, noi che abbiamo tanta ripugnanza nel confessarci, se cinque minuti prima di questo grande giorno, DIO ci concedesse dei sacerdoti per confessare i nostri peccati perché fossero cancellati, ahimè! Con quanta premura non ne profitteremmo? Questo non ci sarà mai concesso in questo momento di disperazione. Il re Bogoris fu molto più saggio di noi. Essendo stato istruito da un missionario della Religione Cattolica, ma trattenuto ancora dai falsi piaceri del mondo, per effetto della Provvidenza di DIO, un pittore cristiano al quale aveva dato la commissione di dipingere nel suo palazzo la caccia più terribile alle bestie selvatiche, gli dipinse all’opposto il giudizio finale, il mondo tutto in fuoco, Gesù-Cristo in mezzo ai fulmini ed ai tuoni, l’inferno già aperto per inghiottire i dannati, con figure tanto spaventose, per cui il re restò di stucco. Ritornato in sé, si sovvenne di ciò che il missionario gli aveva detto per evitare gli orrori di questo momento, in cui il peccatore non può che avere la disperazione per retaggio, e rinunciando in seguito ai suoi piaceri, passò il resto della sua vita nella penitenza e nelle lacrime. Ahimè! Fratelli miei, se questo re non si fosse convertito, sarebbe morto egualmente, avrebbe lasciato tutti i suoi beni ed i suoi piaceri, è vero, un po’ più tardi; ma morendo, nel volgere di secoli, sarebbero passati ad altri. Egli sarebbe invece a bruciare per sempre nell’inferno, mentre è in cielo per l’eternità, ed è contento, aspettando questo giorno, di vedere che tutti i suoi peccati gli siano perdonati e non riappariranno mai più, né agli occhi di DIO, né agli occhi degli uomini. – Fu questo pensiero ben meditato da San Girolamo che lo spinse a tanti rigori per il suo corpo e a versare tante lacrime. Ah! esclamava egli in questa vasta solitudine, mi sembra di sentire ad ogni istante questa tromba che deve svegliare tutti i morti, chiamarmi al tribunale del mio Giudice. Questo pensiero faceva tremare un Davide sul suo trono, un Agostino in mezzo ai suoi piaceri, malgrado tutti gli sforzi che faceva per soffocare questo pensiero che un giorno sarebbe stato giudicato. Egli diceva di tanto in tanto al suo amico Alipio: Ah! caro amico, verrà il giorno in cui noi appariremo davanti al tribunale di DIO per ricevervi la ricompensa del bene o il castigo del male che avremo fatto durante la nostra vita; lasciamo, amico caro mio la strada del crimine per quella che hanno seguito tutti i santi. Prepariamoci a questo giorno, fin dal momento presente. – San Giovanni Climaco ci racconta che un solitario lasciò il suo monastero per passare in un altro a farvi più penitenza. La prima notte, fu chiamato al tribunale di DIO che gli mostrò come egli fosse debitore verso la sua giustizia di cento libbre d’oro. Ahimè! Signore, egli esclamò, cosa devo fare per acquistarli? Egli restò tre anni in questo monastero, dove DIO permise che fosse disprezzato e maltrattato da tutti gli altri, al punto che gli sembrava che nessuno potesse sopportarlo. Il Signore gli apparve una seconda volta dicendogli che non aveva acquistato ancora che un quarto del suo debito. Ah! Signore, esclamò ancora, cosa devo fare quindi per farmi giustificare? Egli si finse pazzo per tredici anni, facendo tutto ciò che gli si voleva: lo si trattava duramente come una bestia da soma. Il buon DIO gli apparve una terza volta, dicendogli che era giunto alla metà. Ah! Signore, poiché io l’ho voluto, devo soffrire per poter soddisfare alla vostra giustizia. Ah! DIO mio! Non aspettate che i miei peccati siano puniti dopo il giudizio. San  Giovanni Climaco ci racconta un fatto che ci fa tremare. C’era, ci dice, un solitario che dopo quarant’anni piangeva i suoi peccati in fondo ad un bosco. Alla vigilia della sua morte, tutto ad un tratto, fuor di sé, aprendo gli occhi, guardando a destra ed a sinistra del suo letto, come se avesse visto qualcuno che gli domandasse conto della sua vita, rispondeva con voce tremante: Sì, io ho commesso questo peccato, ma io l’ho confessato ed ho fatto penitenza per trenta anni, fino a quando il buon DIO mi ha perdonato. Tu hai commesso anche questo peccato, gli diceva questa voce. No, gli rispose il solitario, io non l’ho commesso. Prima di morire lo si sentì gridare: DIO mio, DIO mio, togliete, togliete i miei peccati, per piacere, da davanti agli occhi miei, io non posso più sopportarli. Ahimè! Cosa ci accadrà se il demonio ci rimprovera anche i peccati che non abbiamo commesso, a noi che siamo tutti coperti dai peccati e non abbiamo fatto penitenza; ahimè! Cosa dobbiamo aspettarci per questo terribile momento? Se i Santi appena sono rassicurati, cosa accadrà a noi? – Cosa dobbiamo concludere da tutto questo, fratelli miei? Non bisogna mai perdere di vista che noi saremo giudicati un giorno senza misericordia, e che tutti i nostri peccati saranno mostrati agli occhi di tutto l’universo; e che dopo questo giudizio, se ci troviamo in questi peccati, andremo a piangerli negli inferi senza poterli né cancellarli, né dimenticarli. Oh! Quanto siamo ciechi, fratelli miei, se non profittiamo del poco di tempo che ci resta da vivere per assicurarci il cielo. Se siamo peccatori, abbiamo la speranza del perdono; se noi invece lo aspettiamo allora, non ci saranno più risorse. DIO mio! Fatemi la grazia di non farmi mai perdere il ricordo di questo terribile momento, soprattutto quando sarò tentato, per non lasciarmi soccombere; affinché in questo giorno noi udiamo queste dolci parole uscite dalla bocca del Salvatore: « Venite, benedetti dal Padre mio, a possedere il regno che vi è stato preparato fin dal principio del mondo. »

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXIV: 1-3. Ad te levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.

[A Te ho innalzato l’ànima mia: Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire, né abbiano a deridermi i miei nemici: poiché quelli che confidano in Te non saranno confusi.]

Secreta

Hæc sacra nos, Dómine, poténti virtúte mundátos ad suum fáciant purióres veníre princípium.[Questi misteri, o Signore, purificandoci con la loro potente virtú, ci facciano pervenire piú mondi a Te che ne sei l’autore.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXXIV: 13.
Dóminus dabit benignitátem: et terra nostra dabit fructum suum.

[Il Signore ci sarà benigno e la nostra terra darà il suo frutto.]

Postcommunio

Orémus.
Suscipiámus, Dómine, misericórdiam tuam in médio templi tui: ut reparatiónis nostræ ventúra sollémnia cóngruis honóribus præcedámus.
[Fa, o Signore, che (per mezzo di questo divino mistero) in mezzo al tuo tempio sperimentiamo la tua misericordia, al fine di prepararci convenientemente alle prossime solennità della nostra redenzione.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SUL GIUDIZIO FINALE.

I SERMONI DEL CURATO D’ARS

Sul giudizio finale.

[Discorsi di S. G. B. M. VIANNEY, curato d’Ars – Vol. I, 4° ed. Ed. Marietti, Torino-Roma, 1933]

Tunc videbunt Filium hominis venientem cum potestate magna et majestate.

(Allora vedranno venire il Figlio dell’uomo con grande potenza e maestà terribile, circondato dagli Angeli e dai Santi.)

(Ev. s. S. Luc., XXI, 27.)

Non è più, fratelli miei un DIO rivestito dalle nostre infermità, nascosto nell’oscurità di una povera stalla, adagiato in una mangiatoia, saziato di obbrobri, accasciato sotto il pesante fardello della croce; è un DIO rivestito da tutto lo splendore della sua potenza e della sua maestà, che fa annunziare la sua venuta dai prodigi più eclatanti, cioè dall’eclissi del sole, della luna, dalla caduta delle stelle e da un intero stravolgimento della natura. Non è più un Salvatore che viene con la dolcezza di un agnello, per essere giudicato dagli uomini e riscattarli: è un Giudice giustamente irritato, che giudica gli uomini con tutto il rigore della sua giustizia. Non è più un pastore caritatevole che viene a cercare le sue pecore disperse e perdonarle: è un DIO  vendicatore che viene a separare per sempre i peccatori dai giusti, caricare i malvagi della sua più terribile vendetta, e deliziare i giusti con un torrente di dolcezze. Momento terribile, momento spaventoso, quando giungerai? Momento doloroso, ahimè! Forse, in qualche mattino, noi ascolteremo i precursori di questo Giudice così terribile per i peccatori. O voi, peccatori, uscite dalla tomba dei vostri peccati, venite al tribunale di DIO, istruitevi sulla maniera in cui il peccatore sarà trattato. L’empio, in questo mondo, sembra voler disconoscere la potenza di DIO, vedendo i peccatori senza punizione; egli giunge fin’anche a dire: No, no, non c’è DIO, né inferno; oppure: DIO non bada a ciò che accade sulla terra. Ma aspettiamo il giudizio e, in questo grande giorno, DIO manifesterà la sua potenza e mostrerà a tutte le nazioni che ha visto tutto e contato tutto. Qual differenza, fratelli miei, con le meraviglie che operò creando il mondo! Che sgorghino le acque, fertilizzino la terra; e nello stesso istante, le acque copriranno la terra donandole la fertilità. Ma quando Egli verrà per distruggere il mondo, comanderà al mare di lasciare le sue rive con una impetuosità spaventosa che ingoierà tutto l’universo nel suo furore. Quando DIO creò il cielo, ordinò alle stelle di attaccarsi al firmamento. Alla sua voce, il sole rischiarò il giorno, e la luna presiedette alla notte. Ma in questo ultimo giorno, il sole si oscurerà. La luna e le stelle non daranno più luce. Tutti questi astri meravigliosi cadranno con uno spaventoso fracasso. quale differenza, fratelli miei cari. DIO impiegò sei giorni nel creare il mondo; ma per distruggerlo, sarà sufficiente un battito d’occhio. Per creare l’universo e tutto ciò che esso racchiude, DIO non chiamò nessuno spettatore di tante meraviglie; ma nel distruggerlo, saranno presenti tutti i popoli, tutte le nazioni confesseranno che c’è un DIO e che Esso è potente. Venite, empi beffardi, venite, increduli raffinati, venite a conoscere se c’è un DIO, e se è onnipotente! O DIO mio! Il peccatore cambierà linguaggio in questo momento! Quanti rimpianti! Qual pentimento per aver tralasciato un tempo sì prezioso! Ma non c’è più tempo, tutto è finito per il peccatore, tutto è senza speranza! Oh! Quanto terribile sarà questo momento! San Luca ci dice che gli uomini si disseccheranno per la paura fin dalla punta dei piedi pensando ai dolori che saranno loro preparati. Ahimè, fratelli miei, si può disseccare per la paura e morire dallo spavento nell’attesa di un malore infinitamente meno grande di quello di cui è minacciato il peccatore e che certamente gli arriverà se continua a vivere nel peccato. In questo momento, fratelli miei, io mi dispongo a parlare del giudizio in cui noi compariremo tutti per rendere conto di tutto il bene ed il male che avremo fatto, per ricevere la nostra sentenza definitiva per il cielo o per l’inferno: se venisse un Angelo dal cielo ad annunciarvi da parte di DIO che tra ventiquattro ore tutto l’universo sarà ridotto in fuoco da una pioggia di fuoco e zolfo, e voi cominciaste ad avvertire i tuoni scuotenti, i furori delle tempeste abbattersi sulle vostre case, i fulmini talmente numerosi tanto da rendere l’universo un rogo ardente, e l’inferno vomitasse già tutti i suoi riprovati le cui urla e grida si possono ascoltare da tutti gli angoli del mondo; che il solo mezzo per evitare tutti questi malanni fosse lasciare il peccato e fare penitenza; intendereste voi, fratelli miei, tutti questi uomini senza versare un torrente di lacrime e gridare: misericordia! Non vi gettereste ai piedi degli altari per chiedere misericordia? O accecamento, o incomprensibile infelicità dell’uomo peccatore! I mali che il vostro pastore vi annuncia sono ancor più infinitamente spaventosi e degni di strappare le vostre lacrime, lacerare i vostri cuori. Ahimè! Queste verità così terribili diventeranno tante sentenze che stanno per pronunciare la vostra eterna condanna. Ma la più grande di ogni disgrazia, è che voi ne siete insensibili e continuate a vivere nel peccato e non riconosciate la vostra follia se non nel momento in cui non avrete più rimedio. Ancora un momento, e questo peccatore che viveva tranquillamente nel peccato, sarà giudicato e condannato; ancora un istante ed egli porterà questo rimpianto per l’eternità. Sì, fratelli miei, noi saremo giudicati, nulla di più certo; sì, noi saremo giudicati senza misericordia; sì noi rimpiangeremo eternamente l’aver peccato.    

I. — Noi leggiamo nella Sacra Scrittura, fratelli miei, che tutte le volte che DIO vuole inviare qualche flagello al mondo o alla sua Chiesa, Egli lo fa sempre precedere da qualche segno per cominciare a gettare il terrore nei cuori, e per portarlo a placare la sua giustizia. Volendo far perire l’universo con un diluvio, l’arca di Noè, che si impiegarono cento anni per costruirla, fu un segno per condurre gli uomini alla penitenza, cosicché tutti non dovessero perire. Lo storico Giuseppe ci dice che prima della distruzione della città di Gerusalemme, comparve per molto tempo una cometa in forma di falce che gettò nella costernazione il mondo. Ognuno diceva: Ahimè, cosa vuol dire questo segno? Forse qualche grande sventura che DIO vuole inviarci? La luna rimase otto giorni senza dare luce; le genti sembravano già non potessero vivere. Tutto ad un tratto comparve un uomo sconosciuto che per tre anni non faceva altro che gridare per le strade di Gerusalemme, giorno e notte: Guai a Gerusalemme! Guai a Gerusalemme! … lo si prese e lo si batté con verghe per impedirgli di gridare, ma niente lo fermò. Dopo tre anni, egli gridò: Ah! Gerusalemme: ah! guai a me. Una pietra lanciata da una macchina gli cadde addosso e lo schiacciò in quell’istante. Allora tutti i mal di cui questo sconosciuto aveva minacciato a Gerusalemme, le si abbatterono addosso. La fame fu così grande, che le madri sgozzavano i loro figli per servirsene da nutrimento. Gli abitanti, senza sapere perché, si sgozzavano gli uni gli altri; la città fu presa e come annientata; le strade e le piazze erano coperte da cadaveri; il sangue scorreva a fiumi, i pochi che sopravvissero, furono venduti come schiavi. Ma, siccome il giorno del giudizio sarà il giorno più terribile ed il più spaventoso che ci sia mai stato, sarà preceduto da segno così paurosi che getteranno il terrore fino al fondo degli abissi. Nostro Signore ci dice che, in questo momento terribile per il peccatore, il sole non darà più luce, la luna sarà simile ad una massa di sangue, e le stelle cadranno dal cielo. L’aria sarà talmente piena di fulmini che sarà tutta un fuoco, e si sentiranno tuoni, il cui rimbombo sarà così grande che gli uomini disseccheranno per il terrore fin dalla pianta dei loro piedi. I venti saranno così impetuosi che nulla potrà resistere loro. Gli alberi e le case, saranno inghiottiti dal caos del mare; il mare stesso sarà talmente agitato dalle tempeste che i suoi flutti si alzeranno di quattro cubiti sopra le montagne più alte, e scenderanno così in basso da mostrare gli orrori degli inferi; tutte le creature, anche inanimate, sembreranno volersi annientare per evitare la presenza del loro Creatore, vedendo quanto i crimini degli uomini hanno lordato e sfigurato la terra. Le acque dei mari e dei fiumi gorgoglieranno come olio nei bracieri; gli alberi e le piante vomiteranno torrenti di sangue; i tremori della terra saranno così grandi che si vedrà la terra aprirsi da ogni parte; la maggior parte degli alberi e delle bestie saranno distrutti, gli uomini che resteranno, saranno come insensati; le rocce, i monti crolleranno con un frastuono spaventoso. Dopo tutti questi orrori, sarà acceso il fuoco nei quattro angoli del mondo, ma un fuoco così violento che brucerà le pietre, le rocce e la terra, come un filo di paglia gettato in una fornace. Tutto l’universo sarà ridotto in cenere; è necessario che questa terra lordata da tanti crimini, sia purificata dal fuoco che sarà acceso dalla collera del Signore, di un DIO giustamente irritato.  – Dopo che questa terra, fratelli miei, coperta da tanti crimini sarà purificata, DIO invierà i suoi Angeli che soneranno la tromba ai quattro angoli del mondo, e che diranno a tutti i morti: Alzatevi, morti, uscite dalle vostre tombe, venite e preparatevi al giudizio. Allora tutti i morti, buoni e cattivi, giusti e peccatori, riprenderanno le stesse forme che un tempo avevano, il mare vomiterà tutti i suoi cadaveri rinchiusi nel caos, la terra rigetterà tutti i corpi seppelliti da tanti secoli nel suo seno. Dopo questa rivoluzione, tutte le anime dei santi discenderanno dal cielo tutti raggianti di luce, ogni anima si ricongiungerà con il suo corpo dando mille e mille benedizioni. Venite – esse diranno – compagno delle mie sofferenze; se avete lavorato per piacere a DIO; se avete fatto consistere la vostra felicità nelle sofferenze e nei combattimenti, oh! Quanti beni ci sono riservati, sono più di mille anni che io gioisco di questa felicità; oh! Quale gioia per me ad annunciarvi i tanti beni che si sono stati preparati per l’eternità. Venite, occhi benedetti, che tante volte vi siete chiusi al cospetto di oggetti impuri, timorosi di perdere la grazia del vostro DIO, venite nel cielo dove non vedrete che beltà che mai in questo mondo si vedono. Venite, orecchie mie, voi che avete avuto orrore delle parole e dei discorsi impuri e calunniatori; venite ed ascolterete nel cielo questa musica celeste che vi metterà in continuo rapimento. Venite, miei piedi e mani mie, che tante volte vi siete adoperate a sollevare gli sventurati; andiamo a trascorrere la nostra eternità in questo bel cielo ove vedremo il nostro amabile e caritatevole Signore che tanto ci ha amato. Ah! voi vedrete Colui che tante volte è venuto a riposare nel vostro cuore. Ah! noi vi vedremo questa mano ancora tinta del sangue del nostro divin Salvatore, per mezzo del quale Egli ci ha meritato tanta gioia. Infine, il corpo e l’anima dei Santi si daranno mille e mille benedizioni, e questo per tutta l’eternità. Dopo che tutti i Santi avranno ripreso i loro corpi raggianti di gloria, tutti là, secondo le buone opere e le penitenze che avranno fatto, attenderanno con piacere il momento in cui DIO starà per svelare in faccia a tutto l’universo tutte le lacrime, tutte le penitenze, tutto il bene che avranno compiuto durante tutta la loro vita senza trascurarne neppure una, neppure una sola, già tutte rapite dalla felicità di DIO spesso. Aspettate, dirà loro Gesù-Cristo stesso, aspettate, io voglio che tutto l’universo veda quanto voi abbiate lavorato con piacere. I peccatori induriti, gli increduli dicevano che Io ero indifferente a tutto ciò che voi facevate per me; ma Io voglio mostrare loro oggi che vi ho visto, ed ho contato tutte le vostre lacrime versavate nel fondo dei deserti; Io voglio oggi mostrare loro che Io ero al fianco vostro sui patiboli. Venite tutti e comparite davanti a questi peccatori che mi hanno disprezzato ed oltraggiato, che hanno osato negare che Io esistessi, che Io li vedessi. Venite, figli miei, venite miei diletti e vedrete quanto sono stato buono, quanto grande è il mio amore per voi. – Contempliamo, fratelli miei, per un istante, questo numero infinito di anime giuste che rientrano nei loro corpi, che rendono simili a dei soli luminosi. Voi vedete tutti questi martiri, con in mano la palma. Vedete tutte queste Vergini, con la corona della verginità sulla testa. Vedete tutti questi Apostoli, questo sacerdoti, che hanno salvato tante anime, con i raggi di gloria di cui sono abbelliti. Fratelli miei, tutti diranno a Maria, questa Madre-Vergine: andiamo a raggiungere Colui che è in cielo per dare un nuovo splendore alle vostre beltà. Ma no, un momento di pazienza; Voi siete stata disprezzata, calunniata e perseguitata dai malvagi, è giusto che, prima di entrare in questo reame eterno, i peccatori vengano a fare ammenda onorevole. – Ma, terribile e fragorosa rivoluzione! … Io sento la stessa tromba che intima ai riprovati di uscire dagli inferi. Venite peccatori, carnefici e tiranni – dirà DIO che voleva tutti salvi – venite, comparite al tribunale del Figlio dell’Uomo, a Colui del quale sì sovente avete voluto persuadervi che non vi vedesse, né vi intendesse! Venite e comparite, perché tutto quello che voi avete commesso, sarà manifestato in faccia a tutto l’universo. Allora l’Angelo griderà: Abissi degli inferi, aprite le vostre porte, vomitate tutti i riprovati, il loro Giudice li chiama. Ah! Momento terribile! Tutti queste anime maledette riprovate, orribili come demoni, usciranno dagli abissi ed andranno, come dei disperati a cercare i propri corpi. Ah! Momento crudele! Nel momento in cui l’anima entrerà nel suo corpo, questo corpo proverà tutti i rigori dell’inferno. Ah! Corpo maledetto, dirà l’anima al suo corpo che ha rotolato e trascinato nel fango delle sue impurità; sono già mille anni che soffro e brucio nell’inferno. Venite occhi maledetti, che tante volte avete avuto piacere nel volgere sguardi disonesti su di voi od altri, venite all’inferno per contemplarvi i mostri più orribili. Venite, orecchie maledette, che avete tratto tanto piacere da queste parole, da questi discorsi impuri, venite eternamente a sentire le grida, le urla, i ruggiti dei demoni. Venite, lingua e bocca maledetta che tante volte avete dato baci impuri e che nulla avete risparmiato per accontentare la vostra sensualità e la vostra ingordigia; venite nell’inferno e non avrete che il fiele dei dragoni per nutrimento. Vieni corpo maledetto che ho tanto cercato di accontentare; vieni, tu sarai immerso per l’eternità in uno stagno di fuoco e di zolfo, alimentato dalla potenza e dalla collera di DIO! Ah! chi potrà comprendere e raccontarci le maledizioni che il corpo e l’anima si vomiteranno per tutta l’eternità? Sì, fratelli miei, ecco tutti i giusti ed i riprovati che hanno ripreso la forma antica, cioè i loro corpi tali come ora li vediamo, che attendono il loro Giudice, ma un Giudice giusto e senza compassione, per punire o ricompensare, secondo il bene o il male che noi avremo fatto. Eccolo che arriva, seduto su di un trono, sfolgorante di gloria, circondato da tutti gli Angeli, con lo stendardo della sua croce che marcerà davanti a Lui. I dannati vedranno il loro Giudice; ah! che dico? Vedranno Colui che essi non hanno visto procurare loro la felicità del Paradiso, e che, malgrado Lui, si sono dannati: montagne, essi grideranno, schiacciateci, nascondeteci dalla faccia del nostro Giudice; rocce, cadeteci addosso; ah! di grazia, precipitateci negli inferi! No, no, peccatore, avanza e vieni a render conto di tutta la tua vita. vieni avanti maledetto, che tanto hai disprezzato un DIO così buono. Ah! Giudice mio, Padre mio, mio Creatore, dove sono mio padre, mia madre che mi hanno dannato? Ah! io vorrei vederli; ah! io vorrei loro domandare il cielo che essi mi hanno lasciato perdere. Padre mio e madre mia, siete voi che mi avete dannato; siete voi che mi avete dannato; siete voi la causa della mia rovina. No, no, avanza verso il tribunale del tuo DIO, per te tutto è perduto: sì, tu sei perduto! Sì, tutto è perduto, poiché tu hai perduto la tua anima ed il tuo DIO. Ah! chi potrà mai comprendere il dolore di un dannato che si vedrà di fronte, cioè nel lato dei Santi, un padre o una madre tutti raggianti di gloria e pronti per il cielo, e vedersi riservato all’inferno! Montagne, diranno questi riprovati, fateci sfuggire; ah! di grazia cadeteci addosso! Ah! porte degli abissi, apritevi per nasconderci! No, peccatore; tu hai sempre disprezzato i miei comandamenti; ma oggi Io voglio mostrarti che Io sono il tuo padrone. Comparirai davanti a me con tutti i tuoi crimini dei quali è intessuta tutta la tua vita. Ah! è allora – ci dice il profeta Ezechiele – che il Signore prenderà questo gran foglio miracoloso, ove sono scritti e consegnati tutti i crimini degli uomini. Quanti peccati mai comparsi agli occhi dell’universo, si vedranno apparire. Ah! tremate, voi che forse dopo quindici o venti anni, avete accumulati peccati su peccati. Ah! guai a voi! Allora Gesù-Cristo, con il libro delle coscienze in mani, chiamerà tutti i peccatori per convincerli di tutti i peccati che avranno commesso nel corso della loro vita, con il suono di un tuono spaventoso. Venite impudichi – dirà loro – avvicinatevi e leggete giorno per giorno; ecco tutti questi pensieri che hanno riempito la vostra immaginazione, tutti questo desideri vergognosi che hanno corrotto il vostro cuore; leggete e contate i vostri adulteri, eccone il luogo, il momento in cui li avete commessi, ecco la persona con la quale avete peccato. Leggete tutte le vostre mollezze e le vostre lascivie, leggete e contate quante volte avete perso delle anime che mi erano costate così caramente. Era da più di mille anni che il vostro corpo era marcito e la vostra anima all’inferno, ed il vostro libertinaggio portava ancora anime all’inferno. Vedete questa donna che avete perduto, vedete questo marito, questi figli e questi vicini! Tutti chiedono vendetta, tutti vi accusano che li avete perduti e che senza di voi sarebbero destinati al cielo. – Venite figlie mondane, strumenti di satana, venite e leggete tutte queste cure e questi tempi che avete impiegato nel prepararvi; contate il numero dei cattivi pensieri e dei cattivi desideri che avete suscitato a coloro che vi hanno visto. Vedete tutte le anime che gridano che siete state voi che li avete perduti. – Venite maldicenti, seminatori di falsi rapporti, venite e leggete, ecco dove sono segnate tutte le vostre maldicenze, i vostri insulti, le vostre ingiurie; ecco tutte le divisioni che avete provocato; ecco tutte le turbe che avete fatto nascere, tutte le perdite e tutti i mali dei quali la vostra lingua maledetta è stata la prima causa. Andate disgraziati, andate ad ascoltare le grida e le urla spaventose dei demoni. – Venite avari maledetti, leggete e contate questo denaro e questi beni fatiscenti ai quali avete legato il vostro cuore, il disprezzo del vostro DIO, e per i quali avete sacrificato la vostra anima. Avete dimenticato la vostra durezza per i poveri? Eccola, leggete e contate. Ecco il Vostro oro ed il Vostro denaro, chiedete ora loro soccorso, dite loro che vi traggano dalle mie mani. Andate maledetti a soffrir fame negli inferi. – Venite vendicativi, leggete e vedete tutto ciò che voi avete fatto per nuocere al vostro prossimo, contate tutte queste ingiustizie, contate tutti questi pensieri di odio e di vendetta che avete nutrito nei vostri cuori; andate, maledetti, nell’inferno. Voi siete stati ribelli: i miei ministri hanno detto mille volte che se non amate il vostro prossimo come voi stessi, non c’è perdono per voi. Ritiratevi da me, maledetti, andate all’inferno, sarete la vittima della mia eterna collera, ove conoscerete che la vendetta non è che per DIO solo. – Vieni, vieni, ubriacone, ecco là un bicchiere di vino, un pezzo di pane che tu hai strappato dalla bocca di tua moglie e dei tuoi figli; ecco tutti gli eccessi, li riconosci? Sono i tuoi, o sono quelli del tuo vicino? Ecco il numero delle notti, dei giorni, le domeniche e le feste che tu hai trascorso nei cabaret; ecco  fino all’ultima, le parole disoneste che hai dette nelle tue sbornie; ecco tutti i giuramenti, tutte le imprecazioni che hai vomitato; ecco tutti gli scandali che hai dato a tua moglie, ai tuoi figli, ai vicini. Sì, io ho scritto tutto, ho tutto contato. Va, disgraziato, ad ubriacarti negli inferi del fiele della mia collera. – Venite mercanti, operai, di qualunque stato voi siate, venire, rendetemi conto fino all’obolo di tutto ciò che avete comprato e venduto; venite, esaminiamo insieme se le vostre misure ed i vostri conti siano conformi ai miei? Ecco, mercanti, il giorno in cui avete ingannato questa bambino. Ecco il giorno in cui avete fatto pagare due volte la stessa cosa. Venite, profanatori dei Sacramenti, ecco tutti i vostri sacrilegi, tutte le vostre ipocrisie. Venite, padri e madri, rendetemi conto di queste anime che a voi ho affidato; rendetemi conto di tutto ciò che hanno fatto i vostri figli, i vostri domestici; ecco tutte le volte che avete dato loro il permesso di andare nei luoghi e con le compagnie in cui hanno peccato. Ecco tutti i cattivi pensieri ed i cattivi desideri che vostra figlia ha coltivato; ecco tutti gli abbracci e le azioni infami; ecco tutte le parole impure che i vostri figli hanno pronunziato. Ma, Signore, diranno i padri e le madri, io non li ho comandati. Non importa, dirà ad essi il loro Giudice, i peccati dei tuoi figli, sono i tuoi peccati. Dove sono le virtù che hai fatto loro praticare? Dove sono i buoni esempi che hai loro dati o le buone opere che hai fatto fare loro? Ahimè! Cosa sarà di questi padre e queste madri che vedono che i loro figli, gli uni vanno a ballare, gli altri ai giochi o alla bettola, e vivono tranquilli. O DIO mio quale cecità! Oh! Da quali crimini si vedranno oppressi in questi terribili momenti! Oh! Quanti peccati nascosti che saranno manifestati alla presenza di tutto l’universo! Oh! Abissi profondi degli inferi, apritevi per ingoiare questa folla di perversi che non hanno vissuto che per oltraggiare DIO e dannarsi. Ma – voi mi direte – tutte le buone opere che abbiamo fatto non serviranno dunque a niente? Questi digiuni, queste penitenze, queste elemosine, queste Comunioni, queste Confessioni saranno dunque senza ricompensa? No, vi dirà Gesù-Cristo, tutte le vostre preghiere non erano che pratiche di abitudini, i vostri digiuni ipocrisie, le vostre elemosine vanagloria; il vostro lavoro non aveva altro scopo che l’avarizia e la cupidigia, le vostre sofferenze non erano accompagnate che da pianti e mormorii; in tutto ciò che facevate, Io non c’ero per nulla; tuttavia vi ho ricompensato con beni temporali, ho benedetto il vostro lavoro, ho dato fertilità ai vostri campi, arricchiti i vostri figli, il poco di bene che avete fatto ve l’ho ricompensato con più di quanto potevate attendere. Ma, Egli ci dirà, i vostri peccati vivono ancora, essi vivranno eternamente davanti a me; andate maledetti, nel fuoco eterno preparato per tutti coloro che mi hanno disprezzato durante la loro vita. – Sentenza terribile, ma infinitamente giusta. Cosa di più giusto! Un peccatore che per tutta la sua vita, non ha fatto che rivoltarsi nel crimine, malgrado le grazie che il buon DIO gli presentava incessantemente per uscirne! Vedete questi empi che si lamentavano del loro pastore, che disprezzavano le parole di vita, che volgevano in ridicolo quello che il loro pastore diceva ad essi? Vedete questi peccatori che si gloriavano nel non avere Religione, che schernivano coloro che la praticavano? Vedeteli, questi cattivi Cristiani che avevano così spesso in bocca queste orribili bestemmie che- essi dicevano – trovavano ancora eccellente il pane, e non avevano bisogno di Confessione? Vedete questi increduli che ci dicevano che, quando fossimo morti, tutto era finito? Vedete la loro disperazione, ascoltateli confessare la loro empietà? Li udite implorare misericordia? Ma tutto è finito, non avete più che l’inferno per retaggio. – Vedete questo orgoglioso che scherniva e disprezzava tutti? Lo vedete inabissato nel suo cuore, condannato per una eternità sotto i piedi dei demoni? Vedete quell’incredulo che diceva che non c’è DIO, che non c’è inferno? Lasciate confessare loro davanti a tutto l’universo che c’è un DIO Giudice, ed un inferno dove sta per precipitare per non uscirne mai più? È vero che DIO darà la libertà a tutti i peccatori di portare lo loro ragioni, le loro scuse per giustificarsi, se possono. Ma ahimè! Che potrà dire un criminale che non vede che crimine e ingratitudine? Ahimè! Tutto ciò che potrà dire un peccatore in questo momento doloroso non servirà che a mostrare ancor più la sua empietà e la sua ingratitudine. – Ecco, senza dubbio, fratelli miei, ciò che vi sarà di più sconvolgente in questo terribile momento; questo sarà quando vedremo che DIO non ha nulla risparmiato per salvarci; che Egli ci fa fatto partecipi dei meriti infiniti della sua morte in croce; che Egli ci ha fatto nascere nel seno della sua Chiesa; che ci ha dato dei pastori per mostrarci ed insegnarci tutto ciò che si debba fare per essere felici. Egli ci ha dato i Sacramenti per farci recuperare la sua amicizia tutte le volte che l’avessimo perduta. Non ha posto dei limiti al numero dei peccati che voleva perdonarci; se il nostro ritorno fosse sincero, saremmo stati sicuri del nostro perdono, egli ci ha atteso per un numero infinito di anni, benché non vivessimo che per oltraggiarlo; Egli non voleva perderci o piuttosto voleva assolutamente salvarci; e noi non abbiamo voluto! Siamo noi stessi che lo forziamo con i nostri peccati a fargli emettere una sentenza di eterna riprovazione: Andate, figli maledetti, andate a trovare colui che avete imitato: io non vi riconosco, se non per non schiacciarvi con tutti i furori della mia eterna collera. – Venite, ci dice il Signore per mezzo di uno dei suoi Profeti, venite, uomini, donne, ricchi e poveri, quantunque peccatori, di qualunque stato e condizione siate, dite tutti insieme, ditemi le vostre ragioni, ed Io vi dirò le mie. Entriamo in giudizio, pesiamo tutto ai piedi del santuario. Ah! momento terribile per un peccatore che da qualunque lato consideri la sua vita, non vede che peccato, ed alcun bene. DIO mio! Che sarà di lui? In questo mondo, il peccatore ha sempre qualche scusa da recare per tutti i peccati che ha commesso; egli porta finanche il suo orgoglio al tribunale della penitenza, dove non dovrebbe comparire se non per accusar se stesso e condannarsi. Per gli uni l’ignoranza; per altri le tentazioni troppo violente; infine per altri, le occasioni e i cattivi esempi: ecco, ogni giorno le ragioni che i peccatori accampano per nascondere la oscurità dei loro crimini. Venite peccatori orgogliosi, vedete se le vostre scuse saranno bene accolte nel giorno del giudizio, e spigatevi con Colui che ha la face in mano, che ha visto tutto, tutto contato, tutto pesato. Voi non sapevate, direte, che questo fosse un peccato! Ah! Sventurati, vi dirà Gesù-Cristo, se foste nati tra le nazioni idolatre che non hanno mai sentito parlare del vero DIO, potreste ancora scusarvi per la vostra ignoranza; ma voi Cristiani, che avete avuto la fortuna di nascere nel seno della mia Chiesa, allevato nel centro della luce, voi, ai quali si parla della vostra eterna felicità? Dalla vostra infanzia vi si insegna cosa fare per procurarvela, voi che mai si è cessato di istruire; era proprio perché non avete voluto istruirvi; era proprio perché non avete voluto profittare delle istruzioni o che voi avete rifuggito. Andate maledetti! Andate, le vostre scuse vi rendono ancor più degni di maledizione! Andate, figli maledetti, negli inferi e bruciate con la vostra ignoranza. – Ma, dirà un altro, le mie passioni erano troppo vive e grande la mia debolezza. Ma, dirà loro il Signore, poiché DIO era così buono da farvi conoscere la vostra debolezza, ed i vostri pastori vi dicevano che bisognava continuamente vegliare su voi stessi, mortificarvi, se volevate domarle; perché facevate tutto all’opposto? Perché prendevate tanta cura nel contentare il vostro corpo ed i vostri piaceri? DIO vi faceva conoscere la vostra debolezza e voi ricadevate ad ogni istante? Perché non facevate ricorso a DIO per chiedergli la sua grazia? Perché non ascoltavate i vostri pastori che non cessavano di esortarvi nel chiedere le grazie e le forze di cui avevate bisogno per vincere il demonio? Perché avete dunque tanto spesso disprezzato la parola di DIO che vi avrebbe guidato nel cammino che dovevate intraprendere per andare a Lui? Ah! Peccatori ingrati e ciechi, tutti questi beni erano a vostra disposizione, voi potevate servirvene come tanti altri. Cosa avete fatto per impedirvi di cadere nel peccato? Voi non avete pregato che per uso ed abitudine. Andate maledetti! Più avete conosciuto la vostra debolezza, più dovevate far ricorso a DIO che vi avrebbe sostenuto ed aiutato per operare la vostra salvezza. Andate maledetti, voi non siete se non più colpevole. – Ma ci sono tante occasioni di peccare, dirà ancora un altro. Amico mio, io conosco tre tipi di occasione che possono portare al peccato. Tutti gli stati hanno i loro pericoli. Io dico che ve ne sono di tre sorta: quelli in cui siamo necessariamente esposti per i doveri del nostro stato, quelli che incontriamo senza cercarceli, e quelli ai quali ci esponiamo senza necessità. Se per quelli in cui ci invischiamo senza necessità non abbiamo scusanti, non cerchiamo di scusare un peccato con un altro peccato. Voi avete inteso cantare cattive canzoni, voi dite; avete ascoltato una maldicenza o una calunnia, e perché siete andato in questa casa o con questa compagnia? Perché frequentate queste persone senza Religione? Non sapete che chi si espone al pericolo è colpevole e vi perirà? Colui che cade senza esporsi si rialza ben presto, e la sua caduta lo rende ancor più vigilante e saggio. Ma non vedete voi che DIO ci ha promesso il suo soccorso nelle tentazioni, non ce lo ha promesso però quando abbiamo la temerarietà di esporci da noi stessi. Andate maledetti, voi stessi avete cercato di perdervi; voi meritate l’inferno che è riservato ai peccatori come voi. – Ma, voi mi direte, si hanno continuamente cattivi esempi davanti agli occhi. Voi avete cattivi esempi … quale scusa frivola! Se ne avete di cattivi, non ne avete pure di buoni? Perché non avete seguito piuttosto i buoni che i cattivi? Quando vedevate che questa giovane va in chiesa, alla sacra mensa, perché non la seguite, piuttosto che seguire quella che andava alle danze? Quando quest’uomo andava in chiesa per adorarvi Gesù-Cristo nel santo tabernacolo, perché non avete seguito i suoi passi piuttosto che seguire le orme di coloro che si recavano alla bettola? Dite piuttosto, peccatori, che avete amato più la via larga che vi ha condotto in questo disastro in cui vi trovate, che il cammino che il Figlio di DIO ha tracciato Egli stesso. La vera causa delle vostre cadute e della vostra riprovazione, non viene dunque né dai cattivi esempi, né dalle occasioni, né dalle vostre debolezze, né dalle grazie che vi mancavano; ma soltanto dalle cattive disposizioni del vostro cuore che non avete voluto reprimere. Se avete fatto il male, è perché lo avete voluto. La vostra perdita non viene dunque, che solamente da voi. – Ma, mi direte, non ci veniva sempre detto che DIO era buono. È vero che Egli è buono, ma Egli è giusto; la sua bontà e la sua misericordia sono per voi passate: non c’è più che la sua giustizia e la sua vendetta. Ahimè! Fratelli miei, noi che abbiamo tanta ripugnanza nel confessarci, se cinque minuti prima di questo grande giorno, DIO ci concedesse dei sacerdoti per confessare i nostri peccati perché fossero cancellati, ahimè! Con quanta premura non ne profitteremmo? Questo non ci sarà mai concesso in questo momento di disperazione. Il re Bogoris fu molto più saggio di noi. Essendo stato istruito da un missionario della Religione Cattolica, ma trattenuto ancora dai falsi piaceri del mondo, per effetto della Provvidenza di DIO, un pittore cristiano al quale aveva dato la commissione di dipingere nel suo palazzo la caccia più terribile alle bestie selvatiche, gli dipinse all’opposto il giudizio finale, il mondo tutto in fuoco, Gesù-Cristo in mezzo ai fulmini ed ai tuoni, l’inferno già aperto per inghiottire i dannati, con figure tanto spaventose, per cui il re restò di stucco. Ritornato in sé, si sovvenne di ciò che il missionario gli aveva detto per evitare gli orrori di questo momento, in cui il peccatore non può che avere la disperazione per retaggio, e rinunciando in seguito ai suoi piaceri, passò il resto della sua vita nella penitenza e nelle lacrime. Ahimè! Fratelli miei, se questo re non si fosse convertito, sarebbe morto egualmente, avrebbe lasciato tutti i suoi beni ed i suoi piaceri, è vero, un po’ più tardi; ma morendo, nel volgere di secoli, sarebbero passati ad altri. Egli sarebbe invece a bruciare per sempre nell’inferno, mentre è in cielo per l’eternità, ed è contento, aspettando questo giorno, di vedere che tutti i suoi peccati gli siano perdonati e non riappariranno mai più, né agli occhi di DIO, né agli occhi degli uomini. – Fu questo pensiero ben meditato da San Girolamo che lo spinse a tanti rigori per il suo corpo e a versare tante lacrime. Ah! esclamava egli in questa vasta solitudine, mi sembra di sentire ad ogni istante questa tromba che deve svegliare tutti i morti, chiamarmi al tribunale del mio Giudice. Questo pensiero faceva tremare un Davide sul suo trono, un Agostino in mezzo ai suoi piaceri, malgrado tutti gli sforzi che faceva per soffocare questo pensiero che un giorno sarebbe stato giudicato. Egli diceva di tanto in tanto al suo amico Alipio: Ah! caro amico, verrà il giorno in cui noi appariremo davanti al tribunale di DIO per ricevervi la ricompensa del bene o il castigo del male che avremo fatto durante la nostra vita; lasciamo, amico caro mio la strada del crimine per quella che hanno seguito tutti i santi. Prepariamoci a questo giorno, fin dal momento presente. – San Giovanni Climaco ci racconta che un solitario lasciò il suo monastero per passare in un altro a farvi più penitenza. La prima notte, fu chiamato al tribunale di DIO che gli mostrò come egli fosse debitore verso la sua giustizia di cento libbre d’oro. Ahimè! Signore, egli esclamò, cosa devo fare per acquistarli? Egli restò tre anni in questo monastero, dove DIO permise che fosse disprezzato e maltrattato da tutti gli altri, al punto che gli sembrava che nessuno potesse sopportarlo. Il Signore gli apparve una seconda volta dicendogli che non aveva acquistato ancora che un quarto del suo debito. Ah! Signore, esclamò ancora, cosa devo fare quindi per farmi giustificare? Egli si finse pazzo per tredici anni, facendo tutto ciò che gli si voleva: lo si trattava duramente come una bestia da soma. Il buon DIO gli apparve una terza volta dicendogli, che era giunto alla metà. Ah! Signore, poiché io l’ho voluto, devo soffrire per poter soddisfare alla vostra giustizia. Ah! DIO mio! Non aspettate che i miei peccati siano puniti dopo il giudizio. San  Giovanni Climaco ci racconta un fatto che ci fa tremare. C’era, ci dice, un solitario che dopo quarant’anni piangeva i suoi peccati in fondo ad un bosco. Alla vigilia della sua morte, tutto ad un tratto, fuor di sé, aprendo gli occhi, guardando a destra ed a sinistra del suo letto, come se avesse visto qualcuno gli domandasse conto della sua vita, rispondeva con voce tremante: Sì, io ho commesso questo peccato, ma io l’ho confessato ed ho fatto penitenza per trenta anni, fino a quando il buon DIO mi ha perdonato. Tu hai commesso anche questo peccato, gli diceva questa voce. No, gli rispose il solitario, io non l’ho commesso. Prima di morire lo si sentì gridare: DIO mio, DIO mio, togliete, togliete i miei peccati, per piacere, da davanti agli occhi miei, io non posso più sopportarli. Ahimè! Cosa ci accadrà se il demonio ci rimprovera anche i peccati che non abbiamo commesso, a noi che siamo tutti coperti dai peccati e non abbiamo fatto penitenza; ahimè! Cosa dobbiamo aspettarci per questo terribile momento? Se i Santi appena sono rassicurati, cosa accadrà a noi? – Cosa dobbiamo concludere da tutto questo, fratelli miei? Non bisogna mai perdere di vista che noi saremo giudicati un giorno senza misericordia, e che tutti i nostri peccati saranno mostrati agli occhi di tutto l’universo; e che dopo questo giudizio, se ci troviamo in questi peccati, andremo a piangerli negli inferi senza poterli né cancellarli, né dimenticarli. Oh! Quanto siamo ciechi, fratelli miei, se non profittiamo del poco di tempo che ci resta da vivere per assicurarci il cielo. Se siamo peccatori, abbiamo la speranza del perdono; se noi invece lo aspettiamo allora, non ci saranno più risorse. DIO mio! Fatemi la grazia di non farmi mai perdere il ricordo di questo terribile momento, soprattutto quando sarò tentato, per non lasciarmi soccombere; affinché in questo giorno noi udiamo queste dolci parole uscite dalla bocca del Salvatore: « Venite, benedetti dal Padre mio, a possedere il regno che vi è stato preparato fin dal principio del mondo. »

TEMPO DI AVVENTO (2020)

TEMPO DI AVVENTO (2020)

[Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani – Comm. D. G. Lefebvre O.S. B.; L.I.C.E. Berruti & C. Torino, 1950]

Dalla Domenica di Avvento al 24 Dicembre.

I. Commento Dogmatico.

La lettura dei testi liturgici dei quali si serve la Chiesa durante le quattro settimane del tempo dell’Avvento, ci mostra chiaramente la sua intenzione di farci partecipi dello spirito dei Patriarchi e dei veggenti di Israele, che attendevano la venuta del Messia, nel suo duplice avvento di grazia e di gloria. – La Chiesa Greca celebra nell’Avvento gli Antenati del Signore, e specialmente Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella quarta domenica, essa venera tutti i Patriarchi dell’Antico Testamento da Adamo fino a S. Giuseppe e i Profeti dei quali S. Matteo parla nella genealogia di Gesù. La Chiesa Latina, senza onorarli di un culto particolare, ce ne parla tuttavia nell’Ufficio, citando le promesse che sono state loro fatte circa il Messia. È il magnifico corteo che precede Gesù nel corso dei secoli, che la Chiesa fa cosi sfilare ogni anno avanti ai nostri occhi.

Ecco Giacobbe, [I domenica, 3° respons.], Giuda, [IV dom., 2° resp.], Mosè 3) [Intr. Vig. di Nat.] David [Epif. ed Ev. di Nat.], Michea [lI dom., I resp.], Geremia [Merc, I Sett., 3° resp.], Ezechiele [I Sett., 2° resp.], Daniele [I dom. 2° resp.], Gioele [Lun. I Sett., 3° resp.], Zaccaria [I Dom., 2a Ant. lod.], Habacuc [mart. I Sett. 3° resp.], Osea1 [Ven. I Sett., Ant. Magnif.], Aggeo [VI Ant. Magg.], Malachia [Merc. II Sett., Benedictus]; ma soprattutto Isaia [Tutte le lezioni del I Notturno di Mattutino nell’Avvento sono di Isaia, come pure l’Introito della II dom., il Communio della III Dom., l’Introito, la Lezione, l’Offertorio e il Communio del Mercoledì delle Quattro Tempora, l’Epistola del Venerdì, le quattro lezioni del Sabato e il Communio della Vigilia di Natale], S. Giovanni Battista [Dei quattro Vangeli dell’Avvento, tre sono dedicati a lui], S. Giuseppe [Vang. Della Vig. di Nat., e la gloriosa Vergine Maria [I Dom., 3° resp. Ecc.], che riassume in sé tutte le speranze messianiche, perché dal suo Fiat dipende la loro realizzazione. E tutte queste anime sante anelano al Salvatore, e, accese di desiderio, lo supplicano d’affrettare la sua venuta. Non si può fare a meno, seguendo le diverse parti delle Messe e dell’Ufficio dell’Avvento, d’essere colpiti da queste invocazioni al Messia, insistenti e continue: « Vieni, o Signore, non tardare più [IV. Dom. All.]— Venite adoriamo il Re che viene [Invit. Dom.]; « Il Signore è vicino, venite adoriamolo [Invit. III Dom.]. — « Vieni, Signore, per salvarci [Tratto Sab. Q. T.] — «Mostra la tua potenza, Signore, e vieni » [Oraz. IV Dom.]. — « O Saggezza, vieni ad insegnarci la via della prudenza» [Antif. Magg.. — « O Dio, guida della casa di Israele, vieni a redimerci con la potenza del tuo braccio » [Antif. Magg.] ! — « O discendente di Jesse, vieni a liberarci e non tardare » [Antif. Mag. — « O chiave di David e scettro della casa d’Israele, vieni e libera il prigioniero immerso nelle tenebre e nell’ombra della morte » [Ant. Mag.]. — « O Oriente, splendore della luce eterna, vieni ed illumina quelli che giacciono nelle tenebre e nell’ombra della morte » [Anti. Mag.]. — « O Re delle Nazioni e loro desiderio, vieni a salvare l’uomo che hai creato dal fango » [Antif. Mag.]. — « O Emmanuele (Dio con noi) nostro Re e Legislatore, vieni a salvarci, Signore nostro Dio » [Ant. Mag.]. II Messia atteso è dunque lo stesso figlio di Dio, il Gran Re liberatore [III Dom. 4° e 8° resp.], che vincerà satana [Ep. Sab. Q. T.], che regnerà eternamente sul suo popolo [IV Dom. 4° resp.], e che tutte le nazioni serviranno [Sab. Q. T. 3° lez.] . — Ed è principalmente perché la misericordia divina si estende non solo a Israele, ma a tutti i Gentili, che noi dobbiamo far nostro questo « vieni » e dire a Gesù: « O pietra angolare, che riunisci in Te i due popoli, vieni ». — E quando sarà venuto, tutti saremo insieme guidati da questo divino Pastore. « Egli pascolerà il suo gregge, dice Isaia, prenderà gli agnelli nelle sue braccia e li porterà in seno, Egli il Signore nostro Dio » [II Dom. intr.]. Questa venuta del Cristo, annunciata dai Profeti ed alla quale anela il popolo di Dio, è duplice; è insieme V Avvento di misericordia, nel quale il Divino Redentore è apparso in terra nell’umile condizione della Sua esistenza umana, e l’avvento di giustizia, nel quale apparirà pieno di gloria e di maestà, alla fine del mondo, come Giudice e supremo Rimuneratore degli uomini. I Profeti dell’Antico Testamento non hanno separato queste due venute, così la liturgia dell’Avvento, che ci riferisce le loro parole, parla ora dell’uno e ora dell’altro. Nostro Signore stesso (Cfr. il Vangelo della I Domenica di Avvento), passa senz’altro dalla sua prima venuta alla seconda, e nella sua omelia sul Vangelo della III Domenica dell’Avvento, S. Gregorio spiega che S. Giovanni Battista, il precursore del Redentore, è, nello spirito e nella virtù, Elia, il precursore del Giudice. Queste due venute non hanno del resto lo stesso fine? Che, se il Figlio di Dio si è abbassato fino a noi facendosi uomo (1a venuta) è per farci risalire fino al Padre suo (Orazione della Domenica delle Palme) con l’introdurci nel suo regno celeste (2a venuta). E la sentenza che il Figlio dell’uomo, cui sarà rimesso ogni giudizio, pronuncerà quando tornerà in questo mondo, dipenderà dall’accoglienza che gli sarà stata fatta quando venne per la prima volta. « Questo fanciullo — dice Simeone — è posto per rovina e per risurrezione di molti, e come segno di contraddizione  ».(Vang. Dom. ottava di Natale]. Il Padre e lo Spirito attesteranno che il Cristo è il Figlio di Dio, e Gesù stesso lo proverà con le sue parole e con i suoi miracoli. E gli uomini dovranno far propria questa triplice testimonianza di Dio in tre Persone, e decideranno cosi essi stessi la loro sorte futura. « Beato — dice il Maestro — chi non si scandalizzerà di me » [Ev. II Dom. Avv.] perché « chi confiderà nel Cristo non sarà confuso » [1 S. Pietro II, 6). Sventura, al contrario, a chi si getterà contro questa pietra di salvezza, perché vi si spezzerà. « Se qualcuno arrossisce di me o delle mie parole — dichiara ancora Gesù, — il Figlio dell’uomo arrossirà di lui quando verrà nella sua gloria e in quella del Padre e dei Santi Angeli » [S. Luc. IX, 26). — « Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua Maestà e con Lui tutti gli Angeli, si porrà sul trono della sua gloria. E, adunate tutte le genti avanti a sé, separerà gli uni dagli altri, come il pastore le pecore dai capri. Porrà le pecore alla Sua destra e i capri alla sua sinistra. Allora il Re dirà a quelli che sono alla sua destra: « Venite, benedetti dal Padre mio, e possedete il regno dei Cieli, che vi è stato preparato dall’origine del mondo. Dirà poi a quelli che sono alla sua sinistra: « Fuggite da me, maledetti, andate al fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli » [Matth. XXV, 34, 41]. — Il Giudizio divino sarà dunque una separazione che Dio farà tra i buoni e i cattivi. « Giudicami, o Dio — dice il Salmista — e separa la causa mia da quella di un popolo che mi è nemico; liberami dall’uomo malvagio e ingannatore » [Ps. XLII, ai piedi dell’altare]. — Tutti quelli che avranno rinnegato il Cristo sulla terra, saranno da Lui allontanati e separati per sempre da quelli che gli sono fedeli, mentre adunerà intorno a se quelli che l’avranno seguito, per farne i figli di Dio. Accoglierà nel suo seguito tutti quelli che lo avranno accolto con fede e con amore, e li farà entrare nel regno del Padre Suo. Intimamente uniti al Figlio di Dio fatto uomo, essi saranno per tutta l’eternità ciò che S. Paolo chiama il Cristo e il suo Corpo mistico » e S. Agostino « il Cristo totale ». E su questo principio Gesù giustificherà la sua sentenza, che separerà i buoni dai cattivi, dicendo: « Tutto ciò che avrete fatto al minimo dei miei, l’avrete fatto a me, e tutto ciò che non avrete fatto a questi, non l’avrete fatto a me ». È dunque proprio dall’accettazione del « mistero del Cristo » come lo chiama l’Apostolo, cioè del mistero dell’Incarnazione con tutte le sue conseguenze (accettazione di Gesù nel suo avvento d’umiltà, e accettazione della sua Chiesa, che dividerà le umiliazioni del suo Sposo divino), che dipenderà il giudizio finale; ed è per questo che, dopo aver parlato della nascita del fanciullo Gesù a Natale, la Chiesa parla, nel tempo dopo l’Epifania, dell’accoglienza ch’ebbe tanto dagli umili pastori giudei come dai potenti re-Magi, primizie delle nazioni pagane ch’entreranno nella Chiesa per la loro fede in Gesù, mentre gli orgogliosi giudei ne rimarranno fuori. « I Gentili dovevano essere tutti raccolti, scrive S. Gregorio, mentre i giudei stavano per essere dispersi a causa della loro perfidia »  [Sab. Q. T., T. I lez.]. — « Non ho trovato fede si grande in Israele — dirà il Cristo al Centurione pagano, — e cosi molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente, e parteciperanno al festino con Abramo, Isacco e Giacobbe, nel regno dei cieli; mentre i figli del regno (i Giudei) saranno gettati nelle tenebre esteriori » [V. III Don. Epif.]. E ancora: « Lasciate crescere insieme il loglio e il frumento, fino al tempo della mietitura, e al tempo della mietitura, io dirò ai mietitori: « Raccogliete prima il loglio, e legatelo in fasci per bruciarlo e radunate poi il grano nel mio granaio » [Ev. V Dom. Epif.] . — E in tutte le Epistole di questo stesso tempo dopo l’Epifania che chiude il ciclo di Natale, San Paolo insisterà sul grande precetto dell’amore verso il prossimo. « Soprattutto, abbiate la carità, che è il vincolo della perfezione: e la pace di Cristo regni nei vostri cuori, nella quale siete uniti per formare un solo corpo. E tutto quello che farete in parole ed in opere, fatelo tutto nel nome del Signore Gesù Cristo, rendendo grazie a Dio per Gesù Cristo nostro Signore » [Ep. V Dom. Epif.]. Si comprende allora il compito dell’Avvento. Questo tempo ci prepara a ricevere, con le disposizioni necessarie, Gesù nel suo primo avvento, perché le feste di Natale sono per la Chiesa l’anniversario ufficiale della venuta del Salvatore; ed Egli ci prepara perciò ad essere nel numero dei benedetti dal Padre Suo quando verrà la seconda volta. La liturgia di questo tempo ci mostra dunque insieme le due venute affinché, noi guardiamo con la stessa confidenza alla nascita del Fanciullo del Presepio che nascerà sempre di più in noi per la grazia a Natale, e alla venuta del nostro Sovrano Giudice che ci introdurrà nel suo regno, e ci separerà dai malvagi, « mettendo tra loro e noi un abisso » [S. Luc. XVI, 26]. Al contrario dunque dei Giudei, i quali non vollero ammettere che la venuta di gloria del Messia, occupiamoci ora soltanto della sua venuta di misericordia. Lasciamo alle formule liturgiche tutta la loro ampiezza per non togliere nulla della loro efficacia, e diciamo come la Chiesa: Veni, Domine, vieni, o Signore, mio Salvatore e mio Giudice. Liberami quaggiù dai miei peccati e accoglimi un giorno nel tuo Cielo. Adveniat regnum tuum. Con tutti i Patriarchi ed i Profeti, io metto in Te, o Signore, ogni mia speranza: Per adventum tuum libera nos, Domine. Quanto è provvida la liturgia di questo tempo che ci prepara a celebrare il primo avvento di Gesù in preparazione del secondo, in modo che, godendo delle grazie del Redentore, non abbiamo a temere i castighi del Giudice. « Fa’, o Signore — domanda la Chiesa — che accogliendo con allegrezza il Figlio di Dio ora che viene a redimerci, possiamo rimirarlo con fiducia quando verrà per giudicarci » [Oraz. V. di Nat.]. L’Avvento ci mostra dunque che Gesù è il centro di tutta la storia del mondo. Cominciata da Adamo con l’attesa del suo avvento di grazia, finirà con l’attuazione della sua venuta di gloria. E la liturgia affida a tutti i Cristiani un ufficio in questo disegno divino; perché, se Gesù è venuto sulla terra rispondendo alla chiamata dei giusti dell’Antico Testamento, è rispondendo all’appello che di generazione in generazione fanno risonare le anime fedeli, ch’Egli viene sempre più in esse con la sua grazia nelle feste di Natale; ed è infine in risposta all’invito degli ultimi Cristiani, che saranno perseguitati dall’Anticristo, alla fine dei tempi, che egli affretterà la sua Venuta per liberarli. « Per gli eletti questi giorni saranno abbreviati » dice Gesù. Il compito della preghiera nell’attuale economia della Provvidenza, è cosi essenziale, che non può non cooperare a questo doppio avvento del grande Liberatore: « Veni, Domine, noli tardare». E come nella sua eternità Dio ha inteso, in qualche modo simultaneamente, tutte queste preghiere, la Chiesa preferisce nella, sua liturgia sopprimere quasi del tutto le nozioni del tempo e di distanza, e rendere in un certo senso contemporanee tutte le generazioni. Ed è cosi che le nostre aspirazioni al Cristo sono identiche a quelle dei Patriarchi e dei Profeti, perché il Breviario e il Messale mettono sulle nostre labbra le stesse parole da loro un tempo pronunciate. Così, nel corso dei secoli, non è che un solo grido di fede, di speranza e d’amore che si eleva verso Dio e il Suo Figlio divino. Partecipiamo dunque alle aspirazioni entusiastiche e alle ardenti suppliche di Isaia, di Giovanni Battista e della benedetta Vergine Maria, queste tre figure che riassumono così perfettamente tutto lo Spirito del Tempo dell’Avvento, ed attendiamo sinceramente, amorosamente, impazientemente Gesù nel suo doppio Avvento: « Venite, adoriamo il Re che viene ». – Le iniziali delle Antifone Maggiori dell’Avvento lette in senso inverso, offrono questa frase: Ero Cras, cioè: io sarò domani. Ciò significa che la preparazione alla doppia venuta di Gesù è tanto più necessaria in quanto l’una e l’altra sono vicine. La prima è Natale che ci ricorda la sua venuta passata; la seconda è il momento della nostra morte che ci annunzia la sua venuta futura.

E — O Emmanuel veni!

R — O Rex veni!

O — O Oriens veni!

C — O Clavis veni!

R — O Radix veni!

A — O Adonai veni!

S — O Sapientia veni!

II. – Commento Storico.

Le predizioni dei Profeti si erano verificate: il retaggio Dio era passato nelle mani dei Romani, lo scettro era stato tolto alla casa di Giuda (2° resp. IV Dom.). Il Messia doveva venire, e il mondo, e soprattutto i Giudei, lo attendevano. Giovanni Battista, docile alla voce di Dio, lascia il deserto dove ha trascorso l’infanzia: viene nella regione del Giordano a Betania e dà un battesimo di penitenza per preparare e anime alla venuta del Cristo (Vangelo della IV Domenica dell’Avvento). Le sue virtù sono tali che si potrebbe credere Egli sia il Messia. Anche i Farisei gli mandano, da Gerusalemme, una deputazione di Sacerdoti e di leviti per interrogarlo. Egli risponde di essere colui, del quale Isaia ha predetto: « Io sono la voce che grida nel deserto: preparate la via del Signore » (Vangelo della III Dom. dell’Avvento). E vedendo Gesù che viene allora al Giordano per essere battezzato, dichiara che quegli è l’Agnello di Dio, il cui sangue cancellerà i peccati degli uomini. – Più tardi Giovanni Battista è gettato in prigione nella fortezza di Macheronte, a Oriente del Mar Morto, in Perea. Li conosce il numerosi miracoli di Gesù, e probabilmente la risurrezione del figlio della vedova di Naim che Egli ha operato in Galilea nel secondo anno del suo ministero pubblico; Giovanni gli manda allora dalla sua prigione due discepoli, perché il Cristo possa manifestare a tutti la sua missione: «Sei tu quello che deve venire?» (Vang. della II Dom. dell’Avvento). E Gesù risponde con la profezia di Isaia che diceva del Messia: « Dio verrà Egli stesso e vi salverà. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno le orecchie dei sordi; lo zoppo salterà come un cervo, e sarà sciolta la lingua dei muti » [Isai. XXXV, 4-6]. Questi miracoli il Figlio di Maria li fa, Egli è dunque il Messia. In quanto a Giovanni, continua il Maestro, è di Lui che Isaia ha cosi scritto: « Ecco che Io mando avanti a te il mio Angelo per precederti e prepararti la via ». Egli è il precursore di Gesù, « egli viene per rendere testimonianza alla luce ». Questa testimonianza egli la rese ai Giudei; ed egli ce la rende ogni anno per mezzo dei Vangeli, che si leggono durante l’Avvento, e ogni giorno nell’ultimo Vangelo e nell’« Ecce Agnus Dei » della Messa. Un tempo le domeniche dell’Avvento si succedevano nell’ordine inverso a quello attuale. La Domenica più vicina a Natale era la prima, la domenica precedente la seconda, ecc.. È da notare che i Vangeli che parlano di S. Giovanni si succedevano in tal caso nell’ordine storico. – Il Vangelo della IX Domenica dopo la Pentecoste, ci riferisce un’altra profezia che fece Gesù. Il giorno della sua entrata trionfale in Gerusalemme, trovandosi coi suoi discepoli sul monte degli Ulivi, e, vedendo la città che si stendeva davanti ai suoi occhi, annunciò che Gerusalemme sarebbe stata distrutta, perché non l’aveva accolto. E due giorni dopo parlò della sua seconda venuta alla fine del mondo. Allora gli elementi saranno sconvolti ed il Figlio dell’Uomo verrà con grande potenza e grande maestà. « Alzate allora il capo perché la vostra redenzione è vicina… quando vedrete tutto questo, sappiate che il regno di Dio è vicino ». Il cielo e la terra passeranno, ma le parole del Maestro non passeranno; avranno dunque la loro realizzazione.

III. – Commento Liturgico.

La data iniziale dell’anno liturgico era nel V secolo la festa dell’Annunciazione [Lettera di Papa Gelasio I (492-496)]. Celebrata prima in Dicembre, questa Solennità fu trasferita in Marzo. Nel X secolo si comincia l’anno alla I Domenica di Avvento, cioè qualche settimana prima di Natale. Dal 380, un Concilio di Saragozza ordina una preparazione di otto giorni alla festa di Natale. Al Concilio di Tours nel 563 si fa menzione dell’Avvento come di un periodo liturgico con suoi riti e formule proprie. Nella liturgia nestoriana (v°. secolo) l’Avvento aveva una durata di quattro domeniche, chiamate Domeniche dell’Annunciazione, e nelle liturgie ambrosiane e mozarabica, se ne contavano sei. Nella liturgia Romana l’Avvento durò prima cinque settimane, attualmente quattro. La prima domenica dell’Avvento è quella che è più vicina alla festa di S. Andrea, celebrata il 30 novembre. – La gioia di veder presto venire il Cristo è una delle note dominanti nell’Avvento. Contenuta prima, vi erompe poi liberamente fino a divenire esultanza a Natale. L’idea della purificazione delle anime, intimamente legata a quella del ritorno di Cristo, si trova così in questo tempo in ogni pagina del Breviario e del Messale. Gli Inni, la scelta dei Salmi, la predicazione dei Profeti, quella del Precursore, le Collette delle quattro domeniche, il versetto così spesso ripetuto: Rectas facile semitas eius, rendete diritti i suoi sentieri, parlano delle necessità della preparazione delle nostre anime alla venuta del Salvatore nel suo duplice avvento. « Fate penitenza, dice Gesù, perché il regno dei cieli è vicino» (Ant. Bened. Lunedi IV Settimana). Nel Medio evo si prescrisse il digiuno durante l’Avvento, che si chiamava « La quaresima di Natale ». Si velarono anche le statue come al tempo della Passione. Ora si impiegano ancora, come in quaresima, gli ornamenti violetti e si sostituisce il Benedicamus Dominoall’Ite missa est. Durante l’Avvento si canta l’Antifona Alma Redemptoriscol suo versetto Angelus Domini, e la seconda orazione della Messa è De beata, per la parte che Maria ebbe nell’Incarnazione, che è il mistero che occupa in questo momento la Santa Chiesa. Non si canta più il Gloria in Excelsis, perchè è il canto degli angeli al presepe e bisogna, in questo nuovo anno ecclesiastico, ora incominciato, che solo a Natale si faccia sentire per la prima volta.

LO SCUDO DELLA FEDE (137)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (4)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE IV.

La Supremazia di San Pietro.

14. Prot. Fin qui pertanto nulla avrei che ridire contro il Cattolicismo, ma egli oltre a ciò crede ed insegna come dogma di fede, che S. Pietro fu da Gesù Cristo costituito Capo Supremo di tutta la Chiesa, in qualità di suo Vicario, capite? di suo Vicario in terra, con tale un’autorità che non ha pari nel mondo, che non riconosce superiori fuori di Gesù Cristo, e che in tutto ciò a lui succede il Papa di Roma!!! Alla larga! Ammetto ancor io che S. Pietro abbia ricevuto un primato su tutta la Chiesa, ma un primato di ordine, di onore, non mai un primato di autorità, di giurisdizione.- » (Giacomo. Picenino Pastore di Coirà. Nella sua Apologia, ed altri assai.)

Bibbia. Gesù disse a S. Pietro: « Io dico a te che tu sei Pietro –pietra-, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei. E a te darò le chiavi del regno de’ cieli; e tutto ciò che avrai legato sopra la terra, sarà legato anche ne’ cieli: e tutto ciò che avrai sciolto sopra la terra, sarà sciolto anche ne’ cieli.» (Matt. XVI, 18 e segg.). « E tu una volta ravveduto conferma i tuoi fratelli. »  (Luc. XXII, 22) « Disse Gesù a Simon Pietro: Simone di Giovanni, mi ami tu più che questi? Gli disse: Certamente, Signore, tu sai che io ti amo. Disse a lui: Pasci i miei agnelli. Dissegli di nuovo: Simone di Giovanni, mi ami tu? Ei gli disse: Certamente, Signore, tu sai che io ti amo. Dissegli: Pasci i miei agnelli. Gli disse per la terza volta: Simone di Giovanni mi ami tu?… Dissegli: Signore, tu sai il tutto: Tu sai che io ti amo: Disse a lui: Pasci le mie pecorelle. » (GIOV.. XXI, 15-17). –  Ora ti spiegherò questi testi. Pertanto nel primo Gesù dice a Pietro: « Io dico a te che tu sei la pietra della mia religione, e sopra di te sarà edificato il fondamento della mia Chiesa ». Che altro mai significano queste parole se non che a Pietro è affidato il governo di tutta la Chiesa, e quindi che tutta la Chiesa finalmente dipende dalla di lui autorità e giurisdizione? Ciò è anche  maggiormente dichiarato dalla tradizione delle mistiche chiavi; poiché tal simbolo nella parola di Dio, ed anche presso gli uomini, altro non significa che autorità e potere supremo, indipendente da tutti, fuorché da colui che lo conferisce. – Infatti volendo il Signore indicare che avrebbe conferito ad Eliacim la dignità e superiorità di prefetto del tempio, così si esprime: «Porrò sull’omero di lui la CHIAVE della casa di Davidde, e aprirà, né altri potrà chiudere, e chiuderà, né altri potrà aprire. » (Isai. XXI, 1,2). Dalle quali ultime parole è ben dichiarata la supremazia, e indipendenza in quella carica o dignità. Lo stesso simbolo è usato per indicarci la potestà conferita ad un Angelo sopra il Demonio. « Vidi un Angelo scender dal cielo, che aveva la CHIAVE dell’abisso, e una gran catena in mano. Ed egli afferrò il dragone, quel serpente antico che è il Demonio e Satanasso, e lo legò per mille ann, etc. » (Apoc. XX, 1, 2). Dello stesso simbolo Gesù Cristo medesimo si è servito per indicare il supremo suo dominio e autorità su tutta la Chiesa, e sopra l’inferno e la morte. «Così dice il Santo, il Verace che ha la CHIAVE di Davide: che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre. » (ivi, III, 7). « Ho le CHIAVI della morte e dell’inferno. » (ivi, I, 18). Le ultime parole del primo testo: Tutto ciò, etc. sono una decisiva perentoria conferma della supremazia di S. Pietro; poiché significano una potestà e giurisdizione la più illimitata e indipendente: mentre contengono la solenne dichiarazione che sarà in cielo ratificato, senza eccezione di sorta, quanto egli avrà su questa terra disposto, ordinato, deciso pel governo della Cristiana Chiesa.

16. Prot. Anche agli altri Apostoli disse Gesù: «Tutte quelle cose che avrete legate sopra la terra, saranno legate anche nel cielo: e tutte quelle cose che avrete sciolte sopra la terra, saranno sciolte anche nel cielo. » (Matt. XVIII, 18). Eppure nessuno di essi fu mai Capo Supremo di tutta la Chiesa.

Bibbia. È vero, ma non vi è parità nel confronto: 1° Perché a S. Pietro non disse: Tutte quelle cose, etc; ma disse: Tutto ciò, etc. Lo quale espressione ha un significato molto più esteso e importante. 2.° Perché nella concessione fatta in comune agli Apostoli manca il più e il meglio delle prerogative concesse in particolare a S. Pietro. Imperocché a lui solo fu detto: Sopra questa pietra, cioè sopra di te, edificherò la mia Chiesa: a te darò le CHIAVI del regno de’ cieli. Le quali parole propriamente denotano quella Supremazia, quel Primato che a lui solo appartiene,  né può essere ad altri comune. 3.° Perché la suddetta prerogativa: Tutte quelle cose, etc. fu a S. Pietro data due volte, cioè la seconda volta gli fu data in comune con gli altri Apostoli, e la prima volta fu data a lui solo unitamente alle altre sue singolarissime prerogative; la qual distinzione fa ben conoscere la sua distinta dignità, e ciò che più monta, gli fu data presenti gli altri Apostoli, e in modo solenne, senza che a questi nulla, affatto nulla, si concedesse. La quale distintissima singolarità non può in altro modo spiegarsi, se non che la potestà di sciogliere e di legare a Pietro concessa estendevasi ancora sopra i medesimi Apostoli. – Queste grandi prerogative. questa Supremazia di S. Pietro non erano in quel momento che una promessa, ma promessa di un Dio, la quale fu di poi mandata ad effetto allorché Gesù gli disse: Pasci i miei agnelli: Pasci ì miei agnelli: Pasci le mie pecore: cioè tutti i fedeli Laici e Pastori, niuno eccettuato, essendo i primi significati col nome di agnelli, e perciò raccomandati due volte, perché più bisognosi di assistenza, ed i secondi col nome di pecore, perché sono le madri degli agnelli, ed esse pure applicate sono alla cura dei medesimi sotto il comando e la direzione del comune Pastore. – E qui nota, 1.° Che la seconda volta il Redentore non disse a S. Pietro: vosche, pasci, ma gli disse: pimene, che significa pascere e con bontà di pastore, e con piena autorità di superiore. Onde questa sola espressione è più che bastante senza altre prove a dimostrare incontrastabilmente, nel senso cattolico, la Supremazia di S. Pietro. – 2. ° Che avendo ciò detto, presenti gli altri, al solo S. Pietro (a cui solo aveva pur detto: Conferma i tuoi fratelli) in que’ solenni momenti in cui disponevasi a lasciare visibilmente la Chiesa per salire al Cielo; non vi è più luogo a dubitare che non lo lasciasse al governo visibile della stessa Chiesa in luogo di sé medesimo, e quindi in qualità di suo Vicario, e, per conseguenza, di Supremo Pastore, che non ha superiori né eguali sopra la terra. Arroge che oltre a ciò a lui solo concesse furono tali e tante prerogative e grazie singolarissime, a lui solo sempre usate furono tante distinzioni e tanti riguardi, e per parte degli Apostoli e dello stesso Divin Redentore, che è impossibile non ravvisarlo in tutti gli eventi e circostanze qual Capo di tutti, qual Supremo Pastore di tutta la Chiesa.

17. Infatti, tra tutti gli Apostoli egli è il solo a cui Gesù muta il nome. « Tu sei Simone figliuolo di Giona: tu sarai chiamato Cepha: cioè pietra.1 » (Giov. I, 4), Per tal modo lo decora di quel suo medesimo gloriosissimo nome, col quale tanto sovente è appellato ne’ Libri Santi. Che se poi rifletti che in seguito disse al medesimo: « Tu sei Pietro [pietra), e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa: » ne comprenderai tosto il gran significato e valore. Quindi allorché Gesù domanda agli Apostoli cosa pensino di lui, Pietro è il solo a cui ne è rivelata dal cielo la divinità. « Disse loro Gesù: E voi chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro, e disse: Tu se’ il Cristo, il Figliuolo di Dio viro. E Gesù rispondendo gli disse : Beato sei tu…. perché non la carne e il sangue te lo ha rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. » (Matt. XVI, 15, 16). Egli è il solo che Gesù fa camminare sopra le acque ; il solo che fa uguale a sé nel pagamento del tributo. « Ed egli (Gesù) gli disse: « Vieni: E Pietro sceso di barca camminava sulle acque per andare a Gesù. » (ivi, XIV, 29). « Va’ al mare e getta l’amo, e prendi il primo pesce che verrà su: e apertagli la bocca, vi troverai uno statere: piglialo e paga per me e per te. » (ivi XVII, 26). E qui nota che questo tributo non si esigeva che dai superiori, o capi di famiglia. Onde li esattori non degli Apostoli, ma di Gesù si lamentavano, dicendo: « Il vostro Maestro non paga le due dramme: » Bastando dunque che avesse pagato Gesù come Capo di tutti, perché volle che pagasse anche S. Pietro, e con somma uguale alla sua?

18. Egli è il solo a cui Gesù predice la qualità della sua morte. « Quando sarai invecchiato, stenderai le tue mani, e un altro ti cingerà…. Or questo disse indicando con qual morte fosse per glorificare Iddio. (Giov. XXI, 18, 19). Egli è il solo, che da Gesù Cristo e dagli Apostoli è sempre nominato in primo luogo, mentre per nessuno degli altri si tiene ordine fisso. « E Gesù ordinò che dodici stesser con lui.„. Simone, a cui pose il soprannome di Pietro, e Giacomo figliuolo di Zebedeo, e Giovarmi : etc. » – « I nomi de’ dodici Apostoli sono questi: il primo Simone chiamato Pietro. e Andrea suo fratello, etc. » • Erano insieme Simon Pietro, e Tommaso, etc. » (Giov. XXI, 2). « E andò (Gesù) da’ suoi discepoli, e trovogli addormentati, e disse a Pietro: Così dunque non avete potuto, etc. » (Matt. XXVI, 40). Tralascio per brevità gli altri moltissimi esempj.

19. Egli è il solo che in ogni occorrenza è sempre a tutti preferito dal Redentore. Nella lavanda dei piedi Gesù comincia da Pietro. « Cominciò (Gesù) a lavare i piedi dei discepoli…. Venne dunque a Simon Pietro. » (Giov. XIII, 8, 6) Da Pietro vuol esser seguito a preferenza d’ogni altro, e dello stesso discepolo amato. « E (Gesù) disse » (a Pietro): seguimi. Pietro voltatosi vide quel discepolo amato da Gesù,… e disse a Gesù: Signore, e costui che? Dissegli Gesù: Se io voglio che questi rimanga,… che importa a te? Tu seguimi. »  (Ivi, XXI, 19) Egli è il solo che parla sovente a Gesù in luogo di tutti e per tutti: « Allora Pietro rispondendo disse : Ecco che noi abbiamo abbandonato tutte le cose, e ti abbiamo seguito. Che dunque ne avremo noi ?  »( Matt. XIX, 27)   « Disse perciò Gesù a’ dodici: Volete forse andarvene anche voi? E Simon Pietro gli rispose: Signore, a chi andremo noi? » (Giov. VI, 68, 69).  Egli è il solo che nei tribunali, e davanti a’ popoli parla per tutti, e prende le difese di tutti. « Il dì seguente si congregarono…. i principi e i seniori,… e fattili venire alla loro presenza, gli interrogarono, etc… Allora Pietro ripieno di Spirito Santo, disse loro, etc. » (Att. IV, V, e seg)  « Or essendosi fatto questo, la moltitudine si radunò e rimase attonita :… Altri poi facendosi beffe dicevano: Sono pieni di vino dolce. Ma Pietro levatosi in piedi con gli undici alzò la voce e disse loro: Uomini Giudei…. non sono costoro, come voi pensate, ubriachi, mentre è l’ora terza del dì »(Ivi, II, 6, e seg.).

20. Egli è sempre il primo a parlare nei tribunali, e davanti ai popoli, come è noto dai due ultimi testi citali, e da altri che per brevità non rammento. Il primo, a cui Gesù si fa vedere dopo la sua risurrezione. « E trovarono adunati gli undici, e gli altri che stavan con essi: i quali dissero: Il Signore è veramente risuscitato, ed è apparso a Simone. » (Luc. XXIV, 33, 31)  « Vi ho insegnato che Cristo risuscitò, e che fu veduto da Cefa, e di poi dagli undici. » (I. a’ Cor. XV. 3)

21. Egli è il primo (presenti li altri) a promulgare solennemente il Vangelo. « Levatosi su Pietro con gli undici, alzò la voce, e disse loro: Uomini Giudei, e voi tutti che abitate Gerusalemme, sia noto a voi questo, e aprite le orecchie alle mie parole: (Att. II, 14) etc. etc. Egli, in prova dall’annunziato Vangelo, opera il primo strepitoso miracolo. « E veniva portato un certo uomo storpiato dalla nascita, il quale ponevano ogni giorno alla porta del tempio:… E Pietro fissamente guardandolo con Giovanni, disse: Volgiti a noi…. Nel nome di Gesù Cristo Nazzareno alzati, e cammina: e si rizzò in un subito, e camminava. » (1 Gesù)  Egli è il primo a scomunicare e condannare gli eretici. «Ma Pietro gli disse [a Simone Mago): il tuo danaro perisca con te, poiché hai giudicato che il dono di Dio con danaro si acquisti: tu non hai parte né sorte in questo sermone. » (ivi, VIII, 19)

22. Quindi, egli è il solo che ci è rappresentato come capo di famiglia, cui tutti seguono: il solo che sempre è riguardato anche da’ popoli come il superiore del Collegio Apostolico. « Erano insieme Simon Pietro e Tommaso, etc… Disse loro Simon Pietro: Vo a pescare: Gli .risposero, veniamo anche noi…. Partirono, etc.,  Ed essendo venuti in Cafarnao si accostarono a Pietro quelli che riscuotevano le due dramme, e gli dissero, etc. » (Matt. XVII, 53). Pietro ed i suoi compagni gli dissero, etc. (Luc. VIII, 36) » « Dissero a Pietro, e agli altri Apostoli, etc. » (Att. I. 17). « Simon Pietro, e quelli che si trovavan con lui, etc. » (Marc. I, 13). Ora se da quel detto dell’Apocalisse. « Michele e gli Angeli suoi » (Apoc. XII, 7) si deduce che S. Michele è il Principe delle celesti milizie: come non dovrà tirarsi da questi ultimi testi la medesima conseguenza riguardo a S. Pietro? Finalmente, egli tra tutti li Apostoli è il solo, per cui, trovandosi in carcere, tutta la Chiesa è in moto a far continua orazione, affinché sia liberata. Pietro adunque era custodito in carcere, ma orazione continua Dio dalla Chiesa per lui. 9 » (Att. XII. 3.)   La qual cosa è degna di esser notata, essendoché la pubblica universale preghiera mai si fa dalla Chiesa pei privati, né tampoco pei superiori subalterni, ma pel solo Capo supremo. Ond’è che non si legge sia stata fatta per gli altri Apostoli, che carcerati furono e prima c dopo S. Pietro.

23. Che se non basta il detto fin qui a persuaderti, eccoti altri fatti e ragioni assai più concludenti. E Per la caduta dì Giuda essendo rimasto incompleto il numero degli Apostoli, S. Pietro, non per comune deliberazione, ma di moto proprio, con atto di suprema autorità, ordina la nomina del duodecimo Apostolo, e prescrive le qualità e condizioni che aver deve la persona da nominarsi. « In que’ giorni alzatosi Pietro in mezzo a’ fratelli…. disse: E d’uopo che di questi uomini, i quali sono stati uniti con noi per tutto quel tempo che fe’ dimora tra noi il Signore Gesù, cominciando dal battesimo di Giovanni sino al giorno in cui, tolto a noi, fu assunto, uno di questi sia costituito testimone con noi della risurrezione di lui.1 » (Alt. I, 13. e seg.) Tutti agli ordini di Pietro obbedirono: nessuno mosse parola in contrario. « E nominarono due, Giuseppe detto Barnaba, soprannominato il giusto, e Mattia. » La scelta di quello che doveva preferirsi non fu già messa a’ voti, nel qual caso soltanto potrebbe dirsi che anche gli altri Apostoli vi ebbero parte attiva, ma fu rimessa alla sorte, perché, trattandosi di un Apostolo, doveva essere scelto immediatamente da Dio; onde così pregarono: « Tu, o Signore, che conosci il cuore di tutti, dichiara quale di questi due abbi eletto. ».

24. Anania e sua moglie Saffira bruttamente mentiscono circa il prezzo di un loro podere venduto, e sebbene il contante non fosse portato in particolare a S. Pietro, ma fosse stato deposto, secondo il costume, a’ piedi degli Apostoli, né egli ne fosse tampoco il distributore, essendo a ciò deputati i Diaconi; pure nessuno osò parlare, presente Pietro: Pietro solo è quegli che chiama davanti a sé i delinquenti in giudizio, e col soffio potente di sua parola li fa cader mosti ai suoi piedi. « Un certo uomo di nome Anania con Saffira sua moglie vendé un podere, e d’accordo con sua moglie ritenne del prezzo, etc… E Pietro disse: Anania, come mai satana tento il cuor tuo a mentire allo Spirito Santo? Non hai mentito agli uomini, ma a Dio. Udite ch’ebbe Anania queste parole, cadde e spirò:… E Pietro disse a lei (a Saffira), per qual motivo vi siete accordati di tentare lo Spirito del Signore?… E immediatamente ella cadde a’ suoi piedi e spirò.- »  (ivi, IV, 34, 35 – V, 1, e seg.).

3.° Essendo nata tra i fedeli fervida controversia circa la osservanza della legge Mosaica: « … Si radunarono gli Apostoli, e i Seniori per disaminar questa cosa, e mentre ferveva la disputa, tosi Pietro disse loro: « Uomini fratelli,… perché tentate voi Dio per imporre sul collo de’ discepoli un giogo che né i padri nostri né noi abbiam potuto portare? » (Att. XV, 6). Alla decisione di Pietro tosto cessarono tutte le dispute, tutti a quella riverentemente si sottoposero, e divenne essa il Decreto di quel Concilio. « Tutta la moltitudine si tacque. » Oh! tutto questo è troppo per uno che non sia Capo Supremo; tanto più che tutte queste cose avvennero in Gerusalemme, ove era Vescovo l’Apostolo S.Giacomo, detto il Minore a cui perciò nessuno che non fosse il Capo Supremo di tutta la Chiesa levar poteva il diritto di punire que’ delinquenti (Anania e Saffira) suoi diocesani, il diritto di presiedere, di parlare il primo, etc. nel secondo citato Concilio; insomma, il diritto di farla ivi da superiore. Ma vi è di più ancora.

26. 4.° Egli, S. Pietro, con sua Lettera Enciclica impone ordini e regolamenti ai fedeli laici, e pastori di varie provincie anche le più lontane, e non escluse quelle immediatamente governate dai medesimi Apostoli; il che non è lecito che al Capo Supremo di tutti fedeli, al solo Principe dei Pastori. « Pietro, Apostolo di Gesù Cristo, agli abitanti in paese straniero dispersi pel Ponto, pella Galazia, Cappadocia, Asia e Bitinia, eletti…. Siate dunque per riguardo a Dio soggetti ad ogni creatura, etc.1 » (I. di Piet. I, e seg.)  « I Seniori adunque (cioè i pastori) che sono tra di voi, gli scongiuro io conseniore:… Pascete il gregge di Dio, che è tra di voi, governandolo non forzatamente, ma di buona voglia, ec.2 » (Ivi, V, I,) Anche S. Giacomo, e S. Giovanni, e S. Giuda, scrissero Lettere Cattoliche, ma non vi troverai una parola che indichi autorità, superiorità, giurisdizione, come non la troverai in quelle scritte da S. Paolo a’ Romani, e agli Ebrei, perché non erano dì sua dipendenza.

27. Passa ben presto dagli ordini ai fatti: ascolta. « La Chiesa pertanto per tutta la Giudea, Galilea e Samaria aveva pace…. Or’avvenne che Pietro andando attorno da tutti, giunse ai Santi che abitavano in Lidda etc.3 » (Att. IX, 31, 32).  Ecco dunque che Pietro, dopo le Lettere Encicliche, intraprende la visita pastorale in una diocesi non sua, presente il proprio Vescovo, presenti gli Apostoli, e nessuno reclama. – Dimmi adesso, come mai tanti onori, preferenze e riguardi al solo S. Pietro per parte di tutti gli Apostoli, di tutta la Chiesa, e dello stesso Divin Redentore? Come mai tanta autorità e giurisdizione in tutto, e su tutti, in ogni tempo, in ogni luogo e circostanza; cosicché egli è sempre il solo che ordina tutto, decide, dispone, a tutti comanda e niuno ad esso si oppone, ma tutti e in tutto si rassegnano riverenti a’ suoi atti, alla sua volontà? Era egli forse il più anziano di età? Ciò non costa dalla parola divina, e la ecclesiastica Tradizione assicura che il più vecchio era S. Giacomo Vescovo di Gerusalemme. Era forse il più anziano nell’Apostolato? No certamente: egli era il terzo tra i chiamati dal Redentore. Andrea fratello di Simon Pietro era uno dei due che aveva udito le parole di Giovanni, ed avevan seguito Gesù. Il primo che questi trovò fu il suo fratello Simone: e dissegli: Abbiamo trovato il Messia. » (Giov. I, 40, 41) Era almeno il prediletto del Redentore? Neppure; il prediletto era S. Giovanni. « Disse perciò a Pietro quel discepolo amato da Gesù, etc. » (ivi, XXI, 7) Insomma non può addursi di tutto ciò altra ragione se non che egli era il Capo Supremo di tutta la Chiesa; e quindi se anche non se ne avessero le manifeste dichiarazioni del Redentore, questi soli fatti sarebbero più che bastanti a dimostrare la suprema sua autorità, il suo gran Primato.

28. Prot. Sta scritto: « Gesù disse loro (agli Apostoli): voi sapete che i principi delle genti dominano sopra di loro, e i loro magnati le governano con potestà: ma non cosi sarà tra di voi: ma chiunque vorrà tra di voi divenir superiore, sia vostro ministro; e chi vorrà tra di voi essere il primo, sia vostro servo. » (Matt. XX, 25, 26). S. Paolo dice: « Chi die’ potere a Pietro per l’apostolato de’ circoncisi, lo ha dato anche a me tra le genti. » (Galat. II, 8) « Essendo poi venuto Cefa ad Antiochia gli resistei in faccia, perché era reprensibile. » (ivi, II, 11) Tutto ciò in verun modo può conciliarsi colla Supremazia di S. Pietro.

Bibbia. Il primo testo fa contro di te; poiché in esso Gesù Cristo espressamente fa intendere che tra gli Apostoli vi doveva essere il maggiore, il primo, prescrive il modo di governare proibendo il fasto, l’arroganza, la tirannia de’ re pagani; e così nuovamente conferma la supremazia di S. Pietro. Il secondo non è a proposito: perché ivi S. Paolo non parla di governo ecclesiastico, ma unicamente del ministero apostolico; e quanto a questo nessuno dubita che tutti li Apostoli fossero uguali. Riguardo al terzo, ti dico esser cosa veramente ridicola il pretendere che un superiore non sia superiore, perché un suddito gli rappresenta con zelo un commesso difetto, una mancanza. Del resto il lungo e disastroso viaggio intrapreso dallo stesso S. Paolo per andare a presentarsi a S. Pietro, ti fa ben conoscere se lo riguardasse o no per suo superiore. « Indi a tre anni dopo andai a Gerusalemme per visitar Pietro » (ivi, I, 18).

29. Prot. Lo stesso S. Paolo dice: « Altro fondamento non può gettar chicchessia, fuor di quello, che è stato gettato, che è Cristo Gesù.1 » (I, Cor, III, 11)

Bibbia. Egli dice ancora: « Fratelli…. edificati sopra il fondamento degli Apostoli, e de’ Profeti, pietra maestra angolare essendo lo stesso Cristo Gesù? » (Efes. II, 20). Con ciò chiaramente ti spiega che non può gettarsi altro fondamento primario, ma non ripugnano altri fondamenti secondari.

30. Prot. Ho voluto divertirmi a farvi obbiezioni, ma credo anch’io come voi. Ascoltatemi. « Pietro fu designato dal Signore per fondamento di tutta la Chiesa, la quale doveva sopra di lui appoggiarsi come si appoggia un edifizio sul fondamento. » (M. Ant. de Dominis, lìb. 6 n. 2)

« Molti interpreti (protestanti) per petran, pietra, hanno malamente inteso o lo stesso Cristo, o la professione di Pietro fatta avanti. » (Kuinoel, sopra questo passo)

« È però evidente che, se Pietro, se gli Apostoli, se i Profeti possono esser considerati come portanti l’edifizio della Chiesa (in senso infinitamente subordinato), sono eglino alla lor volta portati da quel solo che ne forma la vera base » (Un protestante anonimo di Ginevra: Dissert. sur le pouvoir de Saint Pierre dans l’Eglise, Genève, 1833).

« Nella Sacra Scritturalo CHIAVI, delle quali qui si parla, non sono che un segno del potere nelle mani di qualcheduno. Per la qual cosa le parole di S. Matteo – XVI. 19 – a te darò le chiavi del regno de’ cieli: e qualunque cosa avrai legato sopra la terra, etc. questo vogliono significare: Io ti do la suprema potestà della società religiosa da me istituita. E di vero, le figure e i simboli come questo, di sciogliere e di legare, se al valore si riguarda e allo spirito della lingua giudaica, esprimono la potestà d’insegnare: in breve, quello che sia lecito, e ciò che sia vietato » (Reinhard, Discorsi sopra la dogmatica: 1612, p. 633).

« Cristo volle aggiudicare e commettere alla fede di Pietro una potestà assai più grande e sublime che non fosse quella dei rimanenti Apostoli. Volle, insomma, che soprastasse all’universa Chiesa. Lo costituì Capo visibile della medesima, dandogli in pari tempo quell’autorità e giurisdizione, di che non si poteva far senza, ed era necessaria: ed avvisando in maniera che Pietro avesse un soave e dolcissimo impero su tutti li altri.’»  (Marlieinecke, nella sua Simbolica, pag. 75). –  Poiché era soprumano divisamente di Gesù chiamare a raccolta tutti i suoi figliuoli sparsi e divisi per tutta la terra, e radunarli in una famiglia che avesse il principio e il nome di Dio; abbisognava che questa novella società, la quale visibilmente si veniva a formare, avesse un Capo visibile! Infatti, un corpo, o a meglio dire, uno Stato visibile senza di un Capo visibile che lo governi, non potrebbe mai riputarsi intero. Esso tutto al più sarebbe un corpo monco e dimezzato. » (Pustenkuclien-Glanzow, Il ripristinamento del protestantismo, ossia sull’unione, l’azienda e la costituzione episcopale. Amburgo, 1827 p. 61).

« S. Paolo ci insegna – Efes. IV. 11. – che nella Chiesa vi debbono essere i gradi dei prepositi, e che per que’ gradi è compaginata essa Chiesa. L’ordine, sia nelle parti, sia nel tutto, è contenuto in un certo principio, ossia nella unità di un Capo. E questo è ciò che Gesù Cristo ci ha insegnato in Pietro. Questo imparò da Cristo Cipriano, e con Cipriano lo dice Girolamo contro Gioviniano. » (Grozio, Vot. prò pace, art. 7.).

« Forse che i dieci Apostoli sarebbero stati così consenzienti ed uniti fra loro, se non avessero avuto un Capo? Fin da’ tempi primitivi della Chiesa, nei quali a niuno è ignoto quanto abbondante e copiosa fosse la grazia di Dio, si sperimentò qual mezzo ottimo e salutare, questo di avere un Capo. » (Cowel, presso Theiner, Op. Dell’introduzione del protestantismo in Italia, part.2 pag. 122).

« E inutile dimostrare, poiché è certissimo che Pietro sia il primo fra gli Apostoli. » (Alberto Fabrizio, Difesa del Vangelo: 1707) Egli è questo un fatto confermato da tutta l’antichità. » (Baratier, Disquisitiones theolog. de success. Episcopor. Romanor.)

« Io direi solamente ciò di cui tutti i Cattolici convengono, cioè, che Cristo ha scelto S. Pietro tra tutti i suoi Apostoli, per dare a lui non solo il Primato di ordine, di onore e di rango, in dare a lui il primo luogo, come quello che è il primo tra gli eguali, e ne’ suoi doni, e ne’ suoi poteri, e nella suo grazie che inseparabili sono dall’apostolato, e dal suo episcopato; ma anche il Primato di giurisdizione, di potestà e di autorità su tutti i fedeli, in tutta la Chiesa, della quale lo ha costituito Capo. » (Mainburg. Op. De V établissement, et des prerogatives.de l’Eglise de Rome, et ses eveques 1685, Chap. 4 p. 57)

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (48) – LA VERA E LA FALSA FEDE – III –

LA VERA E LA FALSA FEDE –III.-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

§ IV. – Si dimostra la facilità di errare della ragione umana, che si fida di sé sola, colla storia dei principali errori onde gli antichi eretici, lungi di avere coi loro privati lumi scoperta alcuna nuova verità cristiana, hanno, per quanto da loro dipendeva, distrutte tutte quelle che la rivelazione divina avea fatto conoscere.

Ma l’insegnamento cattolico, che apparisce sì prezioso, si bello, sì nobile, sì magnifico, confrontato coll’insegnamento della filosofia, confrontato coll’insegnamento dell’eresia, apparisce ancor più magnifico, più nobile, più bello e più prezioso. A buon conto, come i filosofi non attinsero dalla loro privata ragione, ma dalle credenze e dai sentimenti universali le poche verità di cui nei loro libri menaron gran vanto, così gli eretici non hanno essi scoperto coi loro lumi le poche verità cristiane di cui fan pompa nei loro simboli o nelle loro confessioni, fabbricate all’ombra del potere civile, all’officina dell’interesse, della voluttà e dell’orgoglio; e, come S. Gregorio lo ha avvertito, non hanno essi conosciuto per privata ispirazione divina ciò che ritengono di vero e dicono di grande e di sublime intorno alla cristiana dottrina, ma per mezzo delle tradizioni universali della Chiesa, e da lei ricevono tutto il bene, essi che combattono contra di lei: Si non nunquam hæretici vera quædam et sublimìa loquuntur, non hæc ipsi divinitus percipiunt, sed quod ex Ecclesia! contentione didicerunt (Moral.). Del resto, come si è notato degli antichi filosofi, così può dirsi ancora degli eretici, che essi non hanno per se stessi conosciuto nulla di vero e di buono che nella Chiesa non si conosca prima di loro; non essendovi alcuna verità cristiana di cui si possa dire che, ignota nella Chiesa, è stata da tale eretico ritrovata e scoperta. Ma come la filosofia pagana, così l’eresia, se non ha inventata e scoperta alcuna verità, ha però inventati tutti gli errori. E la Scrittura, abbandonata al giudizio privato degli eretici, non è riuscita regola più sicura di fede di quello che lo fa la natura abbandonata al privato giudizio dei filosofi. Come la filosofia pagana non lasciò intatta alcuna verità primitiva, cosi l’eresia non ha lasciato illesa alcuna verità cristiana. E questi inventori orgogliosi di verità non sono stati che fabbri funesti di tutti gli errori: sicché se ramane tuttavia nel mondo la rivelazione cristiana nella sta integrità e nella sua purezza, ciò non è merito degli eretici, che han fatto di tutto per distruggerla; ma è l’effetto della potenza di Dio, che l’ha mantenuta e la mantiene nella sua Chiesa. – Non rincresca perciò al lettore di vedere qui indicati alcuni dei parti mostruosi nati dall’orgoglio ereticale unito alla voluttà. Non ai soli teologi, ma a tutti i fedeli è utile il conoscere in quali orribili stravaganze, in quali sacrileghe follie è le sì gran volte caduta la ragion cristiana che ha voluto formarsi la regola del credere sotto l’ispirazione dell’Io solamente, il più fallace di tutti i consiglieri: dappoiché nulla è più capace di far sentire il pregio dell’insegnamento e dell’autorità tutelare della Chiesa e di confermare il vero Cattolico nella sua fede.

Simone, che S. Ireneo chiama il padre di tutti gli eretici (anno 43 dell’era cristiana), appena si eresse in giudice dell’insegnamento cattolico, che col Battesimo avea dagli stessi Apostoli ricevuto, con un eccesso di orgoglio, che solo lucifero poté inspirargli, spacciò di essere egli stesso Dio uno e trino: che, come Padre era apparso in Samaria: come Figliuolo, nella Giudea; come Spirito Santo in Roma: e che in qualità di Figliuolo, solo apparentemente e per burla, aveva patito ed era morto in croce per man dei Giudei. Ebione e Cerinto (an. 103) bestemmiarono che Gesù Cristo, nato da Maria e da Giuseppe alla foggia degli altri uomini, non era nulla più che uomo e che solo pel battesimo era divenuto un Cristo spirituale. Il mondo è però obbligato a siffatta eresia. Essa ci ha procurato il Vangelo di S. Giovanni, che questo grande Apostolo scrisse appunto per confutarla; il Vangelo di S. Giovanni, dico, il capo d’opera dell’ispirazione divina, di cui ogni tratto, ogni parola è una prova luminosa della divinità del Signore nostro. – Saturnio, Basilìde e Carpocrate (an. 488), non paghi di avere rinnovato la eresia di Cerinto, vi aggiunsero altre enormi stravaganze. Carpocrate in particolare, di mostro di lussuria, ne divenne maestro, proscrivendo il matrimonio tra i suoi seguaci ed affermando che l’anima, solo per poter gustare ogni genere di voluttà, si unisce al corpo. Perciò volle che tra i suoi fossero comuni le donne e che, dopo la cena, smorzatisi i lumi, ognuno si avvicinasse alla donna in cui si fosse alla cieca imbattuto; e questa orribile promiscuità dei sessi, da cui abborrono gli stessi bruti, chiamò la comunione mistica,- e così gettò le fondamenta della setta abbominevole degli gnostici (parola che significa i conoscenti), che si è in questi ultimi tempi riprodotta sotto il vocabolo di setta degli illuminati. – Valentino (an. 203) insegnò essere più dèi; Gesù Cristo aver portato la sua carne dal cielo; non aver fatto che passare, come per un canale, pel ventre di Maria; dalle lacrime del creatore esser nate tutte le sostanze create, e dal suo riso la luce. Volle comuni anch’esso le mogli: giacché la lussuria è stata la salsa più ordinaria di tutte le eresie. Proscrisse la verginità; e perché non ne rimanesse alcun esempio, bestemmiò che anche Gesù Cristo, anche gli Angioli hanno avute spose carnali. – Cardone, uno dei discepoli di Valentino, e Marcione, discepolo di Cardone, superarono nell’intrepidezza della bestemmia e della stravaganza i loro turpi maestri. Cardone si era contentato di ammettere due dèi, uno buono e l’altro cattivo. Marcione ne volle tre: uno visibile, l’altro invisibile, il terzo medio. Negò che il corpo di Gesù Cristo fosse un vero corpo umano. Insegnò che tutte le azioni sono indifferenti, e che la loro bontà o malvagità non dipende che dall’opinione degli uomini; e come era naturale ad aspettarsi, fece virtù del vizio, e del vizio virtù e poi disse che i sodomiti o Giuda son salvi, e tutti i patriarchi dannati. Quel Marcione che, come narra S. Girolamo, avendo un giorno incontrato in Roma S. Policarpo, vescovo di Smirne e poi martire, ed avendogli detto: Policarpo, mi conosci? S. Policarpo gli rispose: Ti riconosco pel primogenito del diavolo. – Taziano (an. 219) capo degli encratiti ossia astinenti, avendo ammesso egli pure, come Cardone, doe principi creatori, Dio e il demonio, disse che la donna e la vite sono state create dal demonio. Condannò adunque l’uso delle nozze e del vino: il perché i suoi scolari pretesero consacrare coll’acqua 1’Eucaristia. Ma Dioscoro. uno di loro, per calmare in alcun modo la collera delle donne, insegnò che anche il corpo dell’uomo dall’ombilico in giù è stato creato dal demonio, e solo la parte dall’ombilico in su è stata creata da Dio: Iniqua mentis asellus. – Ma se Taziano avea abbassato la donna sino all’ inferno, Montano (an. 220), capo dei catafrigi, la sollevò fino al cielo nelle persone delle sue feminette Priscilla e Massimilla, di cui fece due profetesse: e perché il loro esaltamento non pregiudicasse alla propria dignità, nel tempo stesso che proclamò profetessa la donna, ebbe la modestia di proclamarsi esso stesso lo Spirito Santo. Disse Gesù Cristo solo uomo per natura, ma per virtù superiore ai Profeti. Ove molti eretici han negato il Battesimo pei vivi, Montano battezzava anche i morti. Proclamò illecite al cristiano le nozze; e portò a tanto la crudeltà ed il sacrilegio che formava il pane da consacrarsi di farina impastata col sangue di un bambino di un anno, estortogli a forza di punture di ago. Ed è un esempio tremendo della miseria dell’uomo quando a sé  stesso si abbandona, che anche il grande Tertulliano siasi lasciato sedurre da sì turpe e sì stravagante eresia! – Origene (an. 227), avendo perduto il cervello colla filosofia di Platone (chiamato dai Padri il patriarca di tutti gli eretici e il condimento di tutte l’eresie), disse ineguali le tre Persone divine, eterna l’origine dell’anima, temporanea la pena dei reprobi, possibile la salute eterna dei demonj. Novato (an. 254), negando esistere nella Chiesa la potestà di rimettere i peccati commessi dopo il Battesimo, tolse ogni speranza al pentimento e non lasciò ai peccatori che la disperazione per conforto. – Elexeo (an. 267) ammise un Dio e due Cristi, uno superno, l’altro terrestre. Lo Spirito Santo, secondo questo matto bestemmiatore, non è stato che la sorella di Gesù Cristo e della stessa forma e statura, avendo tutti e due sei miglia d’altezza e ventiquattro di larghezza. Oh ragione umana! siffatte follie han trovato seguaci. – Sabellio (an. 261), ritenendo la parola trinità, ne negò il domma, dicendo che il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo non son che tre nomi, o vocaboli diversi di una sola e medesima persona. Da esso ebbero origine ì patripassiani, ossia coloro che hanno insegnato che il Padre Eterno ha patito ed è morto in croce sul Calvario. Prassea ed Ermogene furono di questa scuola; ma quest’ultimo aggiunse: il corpo di Gesù Cristo essere ora collocato nel sole, la materia eterna, e la promiscuità delle donne, domma prediletto di quasi tutti gli eretici. – Paolo Samosateno, che volle farsi adorare come un angelo (an. 269), fu però nelle dottrine e ne’ costumi un demonio. Non ammise in Dio che una sola persona; disse che Gesù Cristo non è stato che puro uomo, e che, pel solo profitto che fece nella virtù, conseguì la figliolanza divina; figliolanza di grazia però e non di natura, simile a quella onde tutti i giusti si chiamano figli di Dio. – Manete (an. 278) rinnovò la dottrina dei due principj coeterni e dei due dèi, l’uno buono e l’altro cattivo, che chiamò Socia o il principe della materia, e da esso disse creato il corpo dell’uomo. Perciò asserì esso pure, come Marcione, che Gesù Cristo non ebbe un vero corpo umano, ma apparente: ammise con Origene le anime coeterne a Dio: negò il libero arbitrio. Rigettò l’antico Testamento, come opera del Dio cattivo, ritenendo solo il nuovo, come opera del Dio buono. Abolì il Battesimo, ritenendo l’Eucaristia, ma da prendersi in un modo che il pudore e l’orrore non ci permettono d’indicare. Negò la risurrezione dei corpi; stabili il paradiso de’ suoi nella luna; e disse che il plenilunio accade quando le anime accorrono alla luna in gran moltitudine, e che cessa quando una barchetta viene a sollevar la luna dal peso di tanta gente per iscaricarla nel sole. E perché sapesse ognuno che egli avea imparate sì grandi e si belle cose a buona scuola, non mancò di proclamarsi per quello spirito paracleto che Gesù Cristo avea promesso di mandare sulla terra per farla felice: ciò che per altro non impedì al re di Persia di fare scorticar vivo Manete. I suoi seguaci adoravano gli elementi ed il demonio: ammisero la metempsicosi; si astenevano dal mangiar carne; condannavano l’agricoltura ed il matrimonio, affermando che l’anima di chi pianta un albero, dopo morte, rimane a questo stesso albero legata, e di chi prende moglie passa in corpo di donna. Non condannavano però l’uso legittimo del matrimonio che per abbandonarsi a sfoghi contro natura: perché sia vero che degli eretici anche l’astinenza e la castità sono sempre sospette. – Ario (an. 314) imparò da questi maestri, che lo avevano preceduto nel cammino della bestemmia contro Gesù Cristo. a negarne la divinità, dicendolo pura creatura, come disse lo Spirito Santo, creatura di Gesù Cristo. Eunomio ed Ezio, furono di questa setta; ma agli errori del maestro aggiunsero ancora queste altre bestemmie: in Dio esservi tre sostanze o nature diverse, come l’oro, l’argento e il bronzo; non esser necessarie le buone opere, ma bastare la sola fede per andar salvo; i vescovi e i semplici sacerdoti esser eguali. Esser vani i sacrifici pe’ defunti, né doversi osservare i digiuni, né le feste della Chiesa. Lutero rinnovò mille anni dopo gli stessi errori. Tra le sette innumerabili in cui si divise l’arianesimo (an. 361) vi fu quella ancora dei duliani, dalla parola greca dulion, che significa servo; perché, per disprezzo, così questi scellerati chiamarono Gesù Cristo. – Apollinare (an. 375), senza negare le divine Persone, le disse, come Origene, ineguali, chiamando grande lo Spirito Santo, maggiore il Figliuolo, massimo il Padre. E volendo alterare il domma dell’incarnazione, come avea fatto di quello della Trinità, insegnò che il Verbo, nel farsi uomo, prese un corpo senz’anima: che la carne stessa che prese da Maria era increata e dell’essenza della stessa Trinità: dal che fu strascinato a dire che Gesù Cristo anche nella divinità aveva patito e che il Verbo nell’incarnarsi erasi trasmutato in corpo ed avea cambiata natura. – Mentre però gli apollinaristi negavano, siccome il maestro, al Figliuolo un corpo umano e terreno, gli antropomorfiti (an. 393), uomini al pari di Vadio loro maestro, grossolani di mente, turpi di cuore, uman corpo attribuivano ancora al Padre, affermando che la divina natura ha figura e forma umana come abbiam noi. La storia delle eresie presenta un fenomeno singolare, ed è, che le sette che sembrano essersi meno delle altre allontanate dalle dottrine del Cattolicismo sono però quelle che più delle altre hanno odiato e perseguitato i Cattolici. Tali sono oggi i Greci scismatici e i giansenisti, che detestano la Chiesa Cattolica più degli stessi Turchi e Giudei. E tali furono già i donatisti (an. 408), le cui persecuzioni atroci contro al clero cattolico dell’Africa richiamarono la memoria di quelle di Nerone e Diocleziano. Questi settarj. ammettendo il Figlio al Padre consustanziale, lo fecero però minore del Padre. Ma non essendo giusto che i bestemmiatori di Gesù Cristo risparmiassero la Chiesa sua sposa, sostennero ancora che la vera Chiesa non esisteva che nel loro partito; che i sacramenti sono santi ed efficaci quando sono amministrati dai santi della loro tempra. Si legge di alcuni di loro che, avendo buttata ai cani la divina Eucaristia consacrata da un sacerdote cattolico, furono dagli stessi cani divorati. In fine, chiamavano martino il suicidio, o la morte violenta che si davan da sé o si facevan dare da altri: bene inteso però che vi si preparavano santamente coll’essersi saziati di ogni genere di lascivia, prima di andarvi: dimostrando così il nesso misterioso che vi è tra il contentare la carne ed odiare se stesso, tra la vita del bruto e la morte del disperato. – Nessuno però, in fatto di stravaganza e di empietà, andò in quest’epoca (an. 408) tant’oltre quanto Priscilliano. La sua dottrina fu un impasto mostruoso delle assurde e turpi bestemmie de’ manichei e degli gnostici. Disse il mondo creato dal demonio; le anime, della stessa sostanza di Dio: la Trinità essere solo nei vocaboli; il corpo umano composto secondo i dodici segni dello zodiaco; il mondo reggersi dal fato. Vietò il cibarsi delle carni degli animali, ma non fu nemico di altre carni, perché permise il divorzio ed osò di pregare tutto nudo in mezzo ad un branco di femmine, senza dubbio per rendere la sua preghiera più santa, più raccolta, più efficace e soprattutto più pura. Non bisogna separare da questi entusiasti della lascivia i messaliani. entusiasti dell’orgoglio, detti ancora sataniani, perché, ammettendo più dèi, ma non adorandone che un solo, rendevano però culto a Satanasso per non riceverne nocumento. Si chiamarono ancora euchiti o pregatori, perché sostenevano che il Battesimo non toglie i peccati, se non come il rasojo recide i peli della barba, lasciandone la radice, e che la preghiera è il solo mezzo di estirparli; e perciò pregavano buona parte del giorno. Spacciavano di ricevere, nel tempo della quiete o del sonno, rivelazioni dalla Trinità, delle quali ognuno faceva parte a’ compagui: poi tutto ad un tratto rizzatisi in piedi, incominciavano a cantar salmi, detti perciò ancora psallian: poi vedevansi tremare, danzare e saltare, diceano essi, sopra i demonj. – Questi matti sono stati i maestri ed i modelli dei quaccheri moderni. Dopo essere stato cotanto bestemmiato il Figlio di Dio, non poteva essere dagli eretici risparmiata la madre (an. 409-425); ed ecco Nestorio che, partendo dall’errore di Anastasio, che in Gesù Cristo vi erano due persone, l’una divina e l’altra umana, e che non fu egli sempre Dio, ma che la persona divina a lui si aggiunse per merito dopo la nascita, negò che la SS. Vergine si dovesse dire madre di Dio: degno però di morire colla lingua rosa de’ vermi. Ecco Elvidio negare a Maria la verginità dopo il divino suo parto, facendola Madre di quegli Apostoli che nel Vangelo sono detti fratelli del Signore, perché ne eran cugini. Ecco Gioviniano insegnare esso pure che Maria non restò vergine dopo aver dato alla luce Gesù Cristo; e poi aggiungere: uguale essere il merito della verginità e del matrimonio: uguali i peccati in malizia; uguali per tutti nel cielo le ricompense; e l’uomo che ha ricevuto con vera fede il Battesimo divenire impeccabile. Ed ecco infine Vigilanzìo, uomo corrottissimo, che, pensando che tutti i corpi dei cristiani e dei santi fossero cosi impuri ed immondi siccome il suo, dopo avere proscritto il celibato e derisa la verginità, negò il culto delle reliquie dei martiri, abolì come vana l’invocazione dei santi e della loro regina. A questa scuola hanno attinta la loro fede, nelle stesse materie, i luterani, i calvinisti, gli anglicani, degni discepoli di un sì edificante maestro! – Ma a completare l’istruzione de’ moderni eretici contribuirono anche altri antichi maestri. Tale si fu Pelagio (an. 402), che negò la trasfusione del peccato originale e però la necessità del Battesimo pei bambini affin di conseguire la vita eterna. Perciò asserì ancora che la concupiscenza, come pure la morte dell’uomo, è opera di Dio e non l’effetto del peccato; che la grazia altro non è che il libero arbitrio, e perciò può l’uomo adempire la legge di Dio senza quel soccorso soprannaturale che si dice propriamente grazia; in fine, che è inutile la preghiera, ed impossibile che un eletto pecchi anche volendo. – Mentre i pelagiani combattevan la grazia, Eutiche sorse ad attaccare di nuovo l’incarnazione. Disse che Gesù Cristo non ebbe carne simile alla nostra, ma carne portata dal cielo e fatta solo passare pel seno di Maria; che non fu egli altrimenti vero uomo, ma uomo in cui di due nature si formò una sola natura ed una sola persona; e perciò che in lui anche la divinità fu crocifissa. L’eresia di Eutiche però, come è proprio di tutte l’eresie, degenerò ben presto in molte altre. Poiché Giulio di Alicarnasso (an. 533) insegnò l’unica natura, sognata da Eutiche, essere stata in Gesù Cristo, sin dalla concezione, impassibile. – Temisto, capo degli agnoiti, sostenne (an. 066) che a quest’unica natura di Cristo molte cose furon dal Padre velate e nascoste. Gli armeni (an. 600) vi aggiunsero che la carne di Gesù Cristo era la carne della divinità, e che il corpo della divinità si consacra nella Eucaristia. In conseguenza di ciò adorano la croce con un sol chiodo fisso nel mezzo per indicare che la sola divinità fu crocifissa. I monoteliti finalmente, sull’autorità di Ciro vescovo e di Sergio monaco, dall’errore di una sola natura in Gesù Cristo tirarono la conseguenza che non vi era in lui che una sola volontà ed una sola operazione. Agli attacchi però contro l’incarnazione vennero subito appresso nuovi attacchi contro la Trinità e Dio stesso; perché nella religione cristiana tutti i misteri sono insieme legati come i fondamenti di uno stesso edificio. Filippo (an. 606), capo dei tritelli, insegnò che le tre divine persone sono tre dèi. Anastasio imperatore alle tre persone ne aggiunse una quarta, dicendo non doversi ammettere trinità, ma quaternità in Dio; e i venusiani, discepoli di Paterno, rinnovando le turpi assurdità di Dioscoro. insegnarono che Dio non ha creato l’uomo che dalla testa sino all’ombelico, e che il resto del corpo umano è opera del demonio: e che però basta conservarsi puro dal capo sino allo stomaco, e che, pel rimanente del corpo, abbandonare ad ogni libidine l’opera del demonio non è alcun male; dottrina comoda alla voluttà e che, come era naturale a succedere, non tardò ad avere tra la sentina dei voluttuosi molti seguaci. – Queste orribili dottrine foggiate dagli eretici intorno alla Trinità, a Gesù Cristo, alla pudicizia, divulgatesi per tutto l’Oriente, prepararono al maomettanismo la via, che, secondo l’osservazione giustissima di Leibnizio, è nato dall’arianesimo. Imperciocché dalla bestemmia di Ario, che Gesù Cristo non era Dio, avendo concluso Maometto (an. 626) che il figlio di Maria avea fallata la divina missione, si disse da Dio incaricato esso stesso per compierla, e si diede per un altro messia e pel maggiore dei profeti. Rimonta perciò ad Ario e suoi consorti nell’empietà il tristo vanto di avere nel maomettanismo, di cui gettarono il seme, partorita la più sporca, la più stupida, la più assurda, la più crudele di tutte le eresie. Comprese Maometto che una dottrina che lusinga la carne non può mancare di essere accolta con favore dalle passioni, principalmente se è sostenuta dalla spada. Perciò questo solenne impostore, colla spada in una mano e col codice della voluttà nell’altra, minacciando la morte e dando la impurità per morale in questa vita ed un luogo di prostituzione per paradiso nell’altra, si trasse dietro molti popoli dell’Asia, che le dottrine profondamente lascive, de’ manichei avevano sì bene iniziati per una religione voluttuosa; e riuscì facilmente a stabilire e propagare una setta che è stata il flagello e l’obbrobrio dell’umanità. – Nemmeno gl’imperatori cristiani d’Oriente, andarono affatto immuni dal contagio maomettano, e senza dichiararsi apertamente per Maometto adottarono non poche delle sue funeste dottrine. In fatti Leone isaurico imperatore (an. 715) fece coi maomettani a gara per distruggere in tutto l’impero il culto de’ santi, le immagini sacre e i cattolici che le veneravano; detto perciò iconomaco ed iconoclasta, ossia distruttore delle sacre immagini, e riguardato come padre legittimo dell’eresia dello stesso nome, che modernamente i calvinisti hanno rinnovata. – Ma un secolo dopo (anno 821) Michele Balbo, imperatore esso pure d’Oriente, fece dimenticare gli scandali con cui Leone avea macchiato la santità dell’impero, dando degli scandali ancora maggiori, insegnando, dall’alto del trono vana la dottrina delle pene eterne, fanatici i profeti, favolosi i demonj. Giuda il traditore essersi salvato; e per farsi più facilmente perdonare dalle passioni tante bestemmie, camminando sulle tracce di Maometto, insegnò ancora la fornicazione essere un atto indifferente. – Il secolo decimo fu un secolo d’ignoranza e di tenebre. Il sapere ristretto fra cherici e fra monaci, fra loro ancora contava pochi seguaci. Ma, come avverte il Bellarmino, la previdenza divina dispose che non nascessero allora novelle eresie; e nella barbarie de’ tempi il deposito della fede rimase puro ed intatto nel mondo cristiano. Gli scandali però di cui l’impero greco fu per più secoli il teatro avevano rallentato da un pezzo i legami della chiesa di oriente con quella d’occidente; e il clero greco, non meno che gl’imperatori, smanioso di sottrarsi da ogni censura, da ogni freno del sommo Pontefice, consumò nel secolo undecimo (an. 1048) quello scisma sciagurato di cui Fozio avea gettato le fondamenta nel nono, e che quattro secoli di tirannia musulmana, che dal 1452 gravitano su questo popolo infelice, par che non abbiano fatto espiare abbastanza. – Mentre questi errori accadevano in Oriente, in Occidente erano, come si è già notato, scorsi quasi tre secoli senza novelle eresie, e fu riservato a Berengario (an. 1058) il turbare questa .pace della Chiesa. Insegnò egli da prima che nell’Eucaristia non vi è il vero corpo e sangue di Gesù Cristo, ciò che poi hanno insegnato i calvinisti più tardi: che nell’Eucaristia col corpo del Signore rimane la sostanza del pane, dottrina rinnovata quindi dai luterani; infine, che il Battesimo non si deve amministrare che agli adulti, errore disotterrato quindi dagli anabattisti; e così quest’infelice eresiarca gettò le fondamenta del protestantismo moderno. Ma altri duci ancora più funesti e più audaci fornirono armi al protestantismo, e ne apersero e ne facilitaron la via. I principali furono i valdesi che, uniti agli albigesi, insegnarono: la sola Scrittura sacra avere autorità in materia di fede, e quello solo doversi ammettere delle dottrine dei Padri e delle decisioni dei concilj che è alla Scrittura conforme; come se la Chiesa cattolica abbia mai insegnato o preteso d’insegnare cosa contraria alla Scrittura! I sacramenti essere solamente due; il Battesimo e la Cena; l’Eucaristia doversi anche ai laici amministrare sotto ambe le specie, ed essi pure poterla consacrare. Le indulgenze essere inefficaci: i sacrifici, per le anime dei defunti, inutili; le dedicazioni delle chiese, le memorie dei santi, le feste, i digiuni, le cerimonie sacre, ritrovati del diavolo: di più dissero lo stato religioso un cadavere; i voti di castità un incentivo al vizio; ai preti doversi dar moglie; al sommo Pontefice non doversi alcuna obbedienza. Questi medesimi errori Giovanni Wicleffo li rinnovò in Inghilterra; Giovanni Uss e Girolamo di Praga in Boemia ed in gran parte della Germania; Ruisol in Olanda: aggiungendovi di più, l’anima morire col corpo, ed il Cristianesimo intero essere una follia. Ma i Fraticelli in Italia e Riccardo in Francia li condirono colla solita salsa del libertinaggio, agli eretici sì gradita, usando delle donne in comune dopo la cena e l’invocazione dell’almo spirito. Se non che Riccardo, aggiungendo alla bestemmia il delirio, si disse il Figlio di Dio per nome Adamo: d’onde gli Adamiti, che, a somiglianza di Adamo innocente, andavan nudi; e che, vantandosi figli di Dio, vivevan da bruti; salvo che, pria di servirsi di una donna, ne chiedevano ad Adamo licenza. Delirj, adunque, turpitudini, infamie, empietà di ogni genere: ecco le sole scoperte che in quindici secoli ha fatte, ecco le sole dottrine che ha insegnate 1’eresia, ed ecco a che è stata buona la ragione umana quando si è separata dall’autorità della Chiesa e dall’insegnamento della vera fede!

GNOSI: LA TEOLOGIA DI sATANA (49) – LA VERA E LA FALSA FEDE -IV-

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (16)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (16)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

Delle virtù.

SEZIONE 2°. –  Delle virtù morali.

D. 541. Che cos’è la virtù morale?

R. La virtù morale è una virtù di cui sono l’oggetto immediato gli atti onesti conformi alla ragione.

D. 542. Di quante specie può essere l’atto della virtù morale secondo il fine cui è diretto?

R. L’atto della virtù morale, secondo il fine cui è diretto, può essere o naturale, per es. quando uno digiuni per evitare che il mangiare sia di nocumento alla salute, o soprannaturale, per es. quando uno digiuni per ottenere da Dio la remissione dei suoi peccati, o per « castigare il suo corpo e ridurlo in servitù » (Paolo: I a ad Cor., IX, 27; S. Tom, la 2æ, q. 63, a. 4.).

D. 543. Quante e quali sono le principali virtù morali?

R. Le principali virtù morali sono quattro: la prudenza, la giustizia, la fortezza, la temperanza, chiamate anche virtù cardinali (Sap, VIII, 7; S. Agost. : In Epist. Joannis, ad Porthos, VIII, I ; S. Tom, l a 2ae, q. 61, a. 9).

D. 544. Perché tali virtù vengono chiamate cardinali?

R. Tali virtù vengono chiamate cardinali, perché  sono come il cardine e il fondamento dell’intero edificio morale, e le altre virtù morali ad esse si riducono –

(Così alla giustizia si riducono le virtù di religione, di pietà, di osservanza, di obbedienza, di riconoscenza, di veracità, di liberalità, di amicizia….; alla fortezza, le virtù di magnanimità, di pazienza, di perseveranza….; alla temperanza, le virtù di astinenza, di onestà, di sobrietà, di castità, di virginità, di continenza, di mansuetudine, di modestia, di umiltà….; quest’ultima è una virtù fondamentale, in quanto rimuove la superbia, inizio di ogni peccato.).

D. 545. Qual è la funzione delle singole virtù cardinali?

R. La Prudenza ci fa in ogni circostanza rettamente giudicare, sotto la visuale della vita eterna, quali cose dobbiamo volere e quali fuggire;

la Giustizia ci fa rendere a ciascuno quel che gli spetta;

la Fortezza ci fa tali che nessuna difficoltà o persecuzione ci possa distogliere dal seguire il bene;

la Temperanza ci fa reprimere le cattive cupidigie ed usare dei beni sensibili esclusivamente secondo la retta ragione.

SEZIONE 3A. — Dei doni dello Spirito Santo.

D. 456. Nella giustificazione, assieme alla remissione dei peccati e alle virtù teologiche, che cosa viene ancora infuso nell’uomo?

R. Nella giustificazione, assieme alla remissione dei peccati e alle virtù teologiche, vengono contemporaneamente infusi nell’uomo i doni dello Spirito Santo.

D. 547. In qual numero sono i doni dello Spirito Santo?

R. I doni dello Spirito Santo sono in numero di sette: la saggezza, l’intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà, il timor di Dio (Is., XI, 2, 3; S. Ambr.: De mysteriis, 42; De Sacramentis, III, 8.)

D. 548. A quale scopo tali doni vengono infusi?

R. Tali doni vengono infusi nell’uomo allo scopo di renderlo più facile e pronto ad accogliere e a seguire quella mozione dello Spirito Santo che in molti e svariati modi gli è d’impulso a compiere il bene e ad evitare il male (Leone XIII: Encicl. Divinum illud munas, 9 maggio 1897; S. Tom., l a 2æ, q. 68, a. 3; S. Pietro Canisio: De donis et fructibus Spiritus Sancti, III, 8.)

D. 549. Qual è la funzione in noi dei doni dello Spirito Santo?

R. La Saggezza ci aiuta perché ci dilettiamo nella contemplazione delle cose divine, e secondo le divine ragioni giudichiamo sia delle divine che delle umane cose; l’Intelletto ci aiuta a meglio penetrare, fin dove è consentito ai mortali, i misteri della fede nella loro stessa credibilità; il Consiglio ci aiuta a guardarci dalle insidie del demonio e del mondo, e a conoscere nei momenti di dubbio quanto può essere più espediente alla gloria di Dio e alla salute nostra e del prossimo; la Fortezza, con la sua singolare virtù, ci aiuta a tenerci saldi nel vincere le tentazioni e nel superare gli altri ostacoli spirituali; la Scienza ci aiuta a discernere quel che dobbiamo credere da quello che non dobbiamo credere, come pure a dirigerci in tutto quanto concerne la vita spirituale; la Pietà ci aiuta a rendere il debito culto e il debito ossequio sia a Dio, sia ai Santi, sia agli uomini che nei nostri riguardi tengono il luogo di Dio, come pure, e sempre per amor di Dio, soccorrere infelici (S. Tom, 2a 2æ, q. 101, a. 3); il Timor di Dio ci aiuta ad astenerci dal peccato, concependo per l’offesa fatta a Dio un timore che promana dalla reverenza filiale verso la divina Maestà (S. Tom, 2a 2æ, q. 7, a. 1).

SEZIONE 4A. — Delle beatitudini evangeliche, e dei frutti dello Spirito Santo.

D. 550. Quali sono gli effetti delle virtù teologiche e dei doni dello Spirito Santo?

R. Gli effetti delle virtù teologiche e dei doni dello Spirito Santo sono le beatitudini evangeliche e i frutti dello Spirito Santo.

D. 551. Quali sono le beatitudini evangeliche?

R. Le beatitudini evangeliche sono quelle che Cristo medesimo ebbe a proporre nel suo sermone della montagna, vale a dire :

1° beati i poveri di spirito, poiché di essi è il regno dei cieli;

2° beati i miti, poiché saranno essi a possedere la terra;

3° beati coloro che piangono, poiché saranno consolati;

4° beati coloro che han fame e sete della giustizia poiché saranno saziati;

5° beati i misericordiosi, poiché saranno essi a conseguire misericordia;

6° beati i mondi di cuore, poiché saranno essi a veder Dio;

7° beati i pacifici, poiché saranno essi ad esser chiamati figli di Dio;

8° beati coloro che patiscono persecuzione per la giustizia, poiché di essi è il regno dei cieli (Matt. V, 3-10; Luca, V I , 20-22.).

D. 552. Perché Gesù Cristo chiama beati coloro che hanno tali disposizioni d’animo?

R. Gesù Cristo chiama beati coloro che hanno tali disposizioni d’animo, perché per via di queste, sin dalla vita presente, conseguono e gustano come una specie di saggio della felicità futura (Leone X III, 1. c.; S. Tom, la 2æ, q. 69, a. 1).

D. 553. Quali sono quei poveri di spirito che vengon detti beati?

R. Quei poveri di spirito che vengon detti beati, sono coloro che nell’intimo del loro animo sono distaccati dai beni esteriori, soprattutto dalle ricchezze, dagli onori; non solo, ma ne dimostrano lo spontaneo disprezzo ogni qualvolta lo possano; quando li posseggano, se ne valgono con moderazione e rettitudine; quando ne siano privi, non ne vanno in caccia affannosa; quando li perdano, ne sopportano la perdita, con animo sottomesso alla divina volontà.

D. 554. Chi sono i miti?

R. I miti, ossia mansueti, sono coloro che col prossimo usano dolcezza, tollerando con pazienza le sue molestie, senza la minima lagnanza o vendetta.

D. 555. Chi sono coloro che piangono, pur rimanendo tuttavia beati?

R. Coloro che piangono, pur rimanendo tuttavia beati, sono coloro che per nulla cercano i piaceri del mondo, sopportano con gioia inspirata dalla sottomissione alla volontà di Dio i dolori della vita presente, fanno penitenza dei peccati commessi e sinceramente piangono i mali di questo mondo, gli scandali e i pericoli cui va esposta la salvezza delle anime.

D. 556. Chi sono coloro che hanno fame e sete della giustizia?

R. Coloro che hanno fame e sete della giustizia sono coloro che ogni giorno si studiano con le loro opere di far progressi nella giustizia e nella carità.

D. 557. Chi sono i misericordiosi?

R. I misericordiosi sono coloro che per amore di Dio fanno parte dei loro averi al prossimo e si studiano di allontanare da esso le miserie sia spirituali che corporali.

D. 558. Chi sono i mondi di cuore?

R. I mondi di cuore sono coloro che non solo fuggono il peccato mortale, specie, poi, il peccato d’impurità, ma per quanto possono, si astengono anche dal peccato veniale.

D. 559. Chi sono i pacifici?

R. I pacifici sono coloro che non solo si mantengono in pace col prossimo, ma si adoperano anche perché regni la pace fra i loro simili.

D. 560. Chi sono coloro che patiscono persecuzione per la giustizia?

R. Coloro che patiscono persecuzione per la giustizia, sono coloro che per amore di Gesù Cristo pazientemente sopportano le derisioni, le calunnie e le persecuzioni.

D. 561. Quanti sono, e quali, i frutti dello Spirito Santo?

R. I frutti della Spirito Santo, quali li enumera l’Apostolo, sono dodici: la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la longanimità, la mansuetudine, la fede, la modestia, la continenza, la castità (S. Paolo: ad Galat., V, , ; S Tom. I, IIæ, q. 70, a- 1, 3).

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (17)

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (47) – LA VERA E LA FALSA FEDE -II.-

LA VERA E LA FALSA FEDE –II.

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

§ III. – La ragione umana abbandonata a sé sola incontra più facilmente l’errore che la verità. I filosofi antichi non conobbero che pochissime verità: e queste non le scoprirono, non le inventarono colla loro ragione, ma, attintele dalle tradizioni generali, non fecero che oscurarle con molti errori. Si dimostra ciò colla storia delle orribili stravaganze con cui alterarono la prima e somma verità dell’ esistenza di un Dio e quella dell’immortalità dell’anima. 1 filosofi, fanciulli ignoranti in confronto anche de’ più rozzi Cristiani, che, istruiti alla scuola della fede, sono sapientissimi nelle cose divine. Infatti che accade egli mai ove l’uomo, lasciata la luce celeste, che mai non manca a chi con umiltà la implora, non prende per guida, nella ricerca del vero, che la luce terrena? S. Tommaso lo da detto: il terzo disordine, o l’effetto il più ordinario e il più comune delle investigazioni della privata ragione, si è che in unione di una qualche verità dell’ordine morale ed invisibile che si giunga a scoprire per questa via si adottano per lo più molti errori, e che spesso per questo mezzo si trovano più errori che verità: lnvestigationi rationis humana plerumque falsitas admiscetur. Mirate gli antichi filosofi: giunsero ben essi, è vero, a conoscere molte verità col solo lume della ragione. Ma primieramente queste verità sono state scarsissime e rare. Leggendo i loro libri, vi sembra viaggiare pei deserti dell’Arabia, nei quali bisogna camminare più giorni pria d’incontrare un sol vegetabile, un sol fiore, un sol filo d’erba che vi richiami alla mente l’idea della natura animata; ed altro non vedesi che un cielo sempre ardente al di sopra di un pelago di sterili e volubili arene. E chi può mai leggere senza una noja immensa, per esempio, i tre libri di Cicerone, dei fini, i cinque delle Quistioni tusculane? Che fecondità di parole, ma che sterilità di cose! Che copia di erudizione, ma che mancanza di certezza! Che eleganza di stile, ma che scarsezza di verità! Non siamo estranei alle fastidiose letture: abbiamo divorati, nel corso de’ nostri studi, non pochi volumi in foglio, la cui vista scoraggia gli animi più fermi: pure confessiamo che nessuna lettura ci è stata più tediosa e più pesante di quella degl’indicati trattati; e senza l’eleganza del linguaggio con cui sono scritti (tristo e misero compenso a chi cerca le idee), ci sarebbe stato impossibile il venirne a capo.In secondo luogo, queste medesime verità, già sì scarse e sì rare, alcuni, dice Tertulliano, le conobbero per un puro caso; come un naviglio sorpreso di notte dalla tempesta, abbandonandosi in balia del mare e dei venti, nella stessa oscurità e nello stesso scompiglio degli elementi, giunge alcuna volta per caso ad afferrare un porto; o come chi si trova in una stanza oscura, a forza di girarvi intorno a tentone, per un caso felice pure trova alcuna volta la parte da uscirne: Plane non negabimus aliquancto phìlosophos juxta nostra sensisse; non numquam enim et in procella, confusis vestigiis cœli et freti, aliquis porltìs ostenditur; non nunquam et in tenebris adilus quidam et exilus deprehenduntur cæca felicitate (De anima 2). Altri poi trovarono certe verità perché suggerite loro dal senso intimo di cui Dio si è degnato di dotare l’anima umana, e dal senso comune della natura divenuto pubblico in tutti gli uomini: Sed et natura pleraque suggeruntur, quasi de publico sensu, quo animam Deus donare dignatus est (ibid). Cioè a dire che la pagana filosofia non ha fatto che prendere le verità universalmente conosciute (perché leggi della natura morale appropriarsele e spacciarle enfaticamente come suoi ritrovati: Philosophia leges natura opiniones suas fecit (ibid). Lo stesso afferma S. Agostino: le belle e vere cose, dice egli, che i filosofi han detto intorno al culto di Dio. non le hanno altrimenti inventate; ma come l’oro e l’argento si cava dalle miniere, così queste verità le hanno essi ricavate dalle miniere delle tradizioni e de’ sentimenti universali, che la provvidenza divina ha sparso dappertutto: Apud philosophos, de Deo colendo, multa vera inreniuntur: tamquam aurum et argentum quod non ipsi instituerunt, sed de quibusdam quasi metallis divima providentiæ, qua ubique infusa est, eruerunt (De doctr. Christi, cap. 30). E Cristiano Drutmaro aggiunge: Tutte le parti della greca filosofia si trovano nella sacra Scrittura; e tutti i più belli pensieri nella stessa Scrittura erano stati esposti pria che i sofisti del secolo pensassero a farne il vanto della loro eloquenza. I filosofi non hanno nulla del proprio. Il poco di vero che han detto lo hanno ricevuto dalla liberalità di Dio: Omnes partes philosophiæ græcorum etiam in divina Scriptura inveniuntur. Et omnes modi locutionum ante fuerunt in Scriptum quam ad sophistas seculares pervenirent. Qui si quid habuerunt, Dei dono habuerunt (in Matth. II). Un Dio supremo, creatore e regolatore dell’universo; un’anima che nell’uomo sopravviva al corpo per ricevere l’eterna pena o il guiderdone eterno che in vita si ha meritato; una legge morale che ha Dio stesso per Autore, che obbliga tutti gli uomini e la cui violazione ed osservanza costituisce il peccato o la virtù; queste ed altre simili verità, più o meno deturpate dalle favole, erano conosciute ed ammesse in tutto il mondo Pria che Platone avesse cominciato a disputarne in Atene, e Tullio in Roma. Poste adunque queste idee primitive ed universali che S. Paolo chiama « rivelazione divina, Deus enim illis manifestavit (Rom. 1), » fu facile ai filosofi, come aggiunge lo stesso Apostolo, dalla considerazione del mondo visibile elevarsi a conoscere qualcuno degli attributi del Dio invisibile: lnvisibilia Dei per ea qua facta sunt intellecta conspiciuntur (ibid.). E perciò S. Tommaso, le cui espressioni sono sì precise e sì esatte, nel famoso passo che di sopra abbiamo riportato (§ 2), delle stesse verità accessibili alla ragione umana non dice che i filosofi colla ragione le han trovate, ma che, essendo di già note, le han dimostrate colla ragione: Philosophi de Deo multa DEMONSTRATIVE probaverunt, ducti naturalis lumine rationis. Lo stesso S. Tommaso poi intorno alle verità conosciute da’ filosofi, fa una osservazione che per moltissimi è passata inosservata, cioè a dire che c’inganniamo col credere che i filosofi, ammettendo un Dio, ne abbiano avuto l’idea che noi ne abbiam ricevuta dalla fede di un Essere cioè adorno di tutte le perfezioni e del quale non si può pensar nulla di più perfetto: Non omnibus, etiam concedentibus Deum esse, notum est quod Deus sit id quo majus cogitari non possit (Contr. gentil, lib. I , cap. 2). Lo stesso può dirsi delle opinioni dei filosofi sull’anima. Quei moltissimi fra loro che ne han riconosciuta l’esistenza e la durata, sono stati lontanissimi dal crederne la spiritualità e l’immortalità come noi la crediamo. L’immortalità dell’anima, per quelli che l’ammettevano, era solo la sola permanenza dopo la soluzione del corpo: Permanere animos putamus (Cic); ma non avevano alcuna idea o molto oscura ed erronea intorno al suo stato di perfetta felicità, se è ammessa alla visione ed al consorzio di Dio e di profonda miseria eterna, se ne è separata. E sopra i premj e le ricompense della vita futura, non ostante le favole che le deturpano, si trovano idee più giuste e più vere presso i poeti che presso i filosofi; perché i primi hanno consultato più la tradizione universale, i secondi più han seguita la privata loro ragione. Che se per tutto ciò non vi è alcuna verità dell’ordine morale di cui si possa dire che, essendo ignota affatto nel mondo, il tal filosofo l’abbia scoperta: non vi è al contrario alcuna assurdità o errore di cui, come dice lo stesso Cicerone, non si possa indicare un qualche filosofo che ne è stato inventoree maestro: Nihil est tam absurdum quod non dicatur ab aliqua philosophorum. Per un passo che fanno i filosofi nel sentiero del vero, si veggon fare mille cadute nell’errore, e simili a’ cagnolini, che si addestrano a camminare su due piedi e che nel più bello del piacer che vi fanno di vedersi ritti all’umana, ritornano al naturale, ricadendo con le zampe e col muso verso la terra: i filosofi, mentre si fanno ammirare in atto di professare alcune verità, si veggono subito riprendere la direzione erronea, propria della ragione abbandonata a sé sola, e ricadere in miserabili errori.Sicché S. Paolo poté benissimo compendiare tutta la storia della filosofia de’ gentili in queste due gravi e sentenziose parole: « i Greci, cercando sapienza, stoltezza rinvennero: Græci sapientiam quærunt, et stulti facti sunt. ». Non vi è nulla di più vera di questa decisione di S. Paolo poiché, ad eccezione di poche verità tradizionali e comuni che non hanno aspettato i filosofi per essere conosciute, tutta la filosofia gentile intorno a Dio, all’anima, ai doveri, alla vita futura, non è che stoltezza, come se questo ne fosse il luogo, ci sarebbe facilissimo il dimostrarlo. Per dirne però alcuna cosa capace di farci sempre meglio sentire il pregio altissimo dell’insegnamento divino in faccia alle miserie dell’insegnamento umano non ci rincresca di osservare qui il tremendo quadro che nelle opinioni dei filosofi gentili intorno a Dio ci ha lasciato Cicerone filosofo gentile esso stesso, e i cui libri filosofici sono come la somma e il manuale di Tutta la gentile filosofia. Ora i tre grandi libri che Tullio consacra alla trattazione di sì grave argomento possono considerarsi come un monumento compassionevole della impotenza della ragione abbandonata a sé sola per giungere alla rivelazione di Dio, per giungere alla verità senza miscela di errore, e della necessità della rivelazione di Dio per conoscere veramente Dio. – Né già aspetta Cicerone che la forza de’ principj ed il calor della disputa lo strascini ad attaccare la presunzione della ragione umana, che crede di bastar sempre ed in tutto a sé stessa; ma dal bel principio della discussione solennemente dichiara che la questione che imprende a trattare è essa sola un argomento senza replica, per provare che il principio della filosofia pagana è l’ignoranza, ed il risultato più sicuro ne è l’errore e il dubbio; poiché dice: « Fra le moltissime questioni che la filosofia ha agitate sovente senza terminarle giammai, una delle più difficili a definirsi e delle più oscure ad intendersi si è appunto la questione della natura degli dei; poiché tante sono intorno ad essa e sì varie e sì ripugnanti fra loro le opinioni degli uomini più dotti che questa sola prova è più che bastevole a farsi conchiudere che il principio di ogni filosofia è la stoltezza: Cum multæ res in philosophia nequaquam satis explicatæ sunt, tum per difficilis et perobscura quæstio est de natura deorum; de qua tam variai sunt doctissimorum hominum tamque discrepantes sententiæ ut magno argumento esse debeat, causam idest principium philosophiæ esse inscientiam (De nat. deor., lib. 1). » Così, oh cosa veramente singolare e strana! l’introduzione ad una disputa filosofica, da un filosofo intrapresa, in un’assemblea di filosofi è un pubblico e solenne anatema contro la filosofia. Fa quindi Tullio, in persona dell’interlocutore Vellejo, un osservazione importante, cioè, che se vi è una certa concordia fra la maggior parte de’ filosofi nell’affermare che vi è un Dio, ciò accade perché, nell’ammettere questa sentenza, si è consultata la tradizione e il sentimento della natura, che insegna che un Dio esiste: ma che quando si è voluto ragionare sulla sua natura, la ragione di questi stessi filosofi, unanimi nell’ammettere Dio, si è trovata sì debole, e le loro opinioni sì contradittorie e sì stravaganti che non si possono solamente riferire senza sentirsi muovere la bile e sconcertarsi lo stomaco.Poiché, avendo negato tutto e tutto combattuto, non è certamente colpa de’ filosofi, se tuttavia rimane nel mondo alcun vestigio di religione, di pietà e di virtù, mentre dal canto loro han fatto di tutto per distruggerle coll’avere insegnato che gli dei non si danno alcun pensiero delle cose umane: Plerique qui, quod maxime vero simile est, et quo OMNES, DUCE NATURA, vehimur, deos esse dixerunt, tanta sunt in varietate et dissensione constituti ut eorum molestum sit enumerare sententias. Sunt qui omnino nullam habere censent humanarum rerum procurationem deos; quorum si vera sententia est, quæ potest esse pietas, quæ sanctitas quæ religio? E poi continua così: « Udite, o amici, non già portenti e miracoli di filosofi che ragionano, ma stravaganze di febbricitanti che delirano: Audite portento et non disserentium philosophorum, sed somniantium. La stupidità de’ platonici ha del prodigioso. Per essi Dio è e deve essere di figura rotonda: perché questa figura è la più bella, e Dio deve avere la figura più bella e più perfetta. Or che mi potrà rispondere Platone se lo asserisco che Dio è di figura piramidale o conica, , perché a me queste figure sembrano più perfette e più belle? Per Talete, Dio è quell’intelligenza che coll’acqua ha raffazzonato ogni cosa: e mentre vuole che Dio sia incorporeo, lo unisce all’acqua come ad un corpo, per poter con esso operare. Anassimandro opina che gli dei a diverso intervalli nascono, e muojono siccome gli nomini. Anassimene stabilisce che l’aria é Dio: ch’esso è stato generato ed ha avuto principio, e non pertanto è immenso e non avrà mai fine. Crotoniate ha fatto altrettanti dei del sole, della luna e delle anime umane. Pitagora dice che Dio è una grand’anima infusa e mista nell’intera natura corporea: e che da quest’anima una, come parti divelte dal loro tutto, hanno origine le anime nostre, sicché questo povero Dio è costretto a vedersi fare a brani tutti i momenti. Senofane sostiene che Dio è un composto di una intelligenza e di tutto ciò che è infinito nella natura. Parmenide ha sognato un non so che di poetico che chiama Stefano (parola greca che vuol dire corona); questo Stefano per esso è l’orbita adorna di luce e di calore che cinge l’universo, e quest’orbita è Dio. Empedocle dice che gli dei sono quattro, e sono i quattro elementi primi onde si forman le cose. In quanto a Protagora, lo metto fuori di questione; perché coll’aver detto che non sa di certo se vi è o no Iddio, né quale ne sia la natura, dà abbastanza a conoscere che non ammette alcuna divinità. Lo stesso farò di Democrito, il quale negando che siavi nulla di eterno (poiché per esso ogni cosa è a cangiamento soggetta), toglie in modo Dio dall’universo che non ve ne lascia traccia veruna (ibid.). – Indicate cosi le principali stravaganze dei filosofi intorno a Dio, Tullio passa a farne notare l’incostanza e la leggerezza onde gli stessi filosofi sulla stessa questione hanno in diversi tempi insegnate opinioni diverse; poiché dice: « Se io volessi provare l’incostanza di Platone nell’opinare, non la finirei giammai. Nel Timeo stesso e nello stesso libro delle Leggi, ora dice che Dio è innominabile, e che non si deve tentar di indagare che cosa sia; ora, che Dio si può benissimo nominare e decidere che cosa è, giacché decide che l’universo tutto, il cielo e la terra, gli astri e le anime umane sono Dio. In quanto a me, altro non trovo di evidente, in queste contrarie evidenze, che l’errore e l’assurdità. Egualmente incostante e varia è la evidenza di Senofonte: poiché ora sostiene che non si deve rintracciare di Dio la forma, ora che il sole, la cui forma si conosce, e l’anima dell’uomo è Dio: ora dice che Dio è un solo, ora che sono molti gli dei. Nessuno però, nel cambiare spesso d’opinione intorno a Dio, ha sorpassato Aristotele; tante sono le diverse sentenze contradittorie fra loro che ammassa nei suoi libri, dandole tutte per certe. Per esso ora la divinità è una intelligenza incorporea, ora il suo Dio è il mondo: ora, oltre l’intelligenza-Dio ed il Dio-mondo; vi è un altro Dio che presiede all’intelligenza ed al mondo; ora Iddio altro non è che il fuoco celeste, più non ricordandosi che il cielo è una parte del mondo e che del mondo aveva di già fatto un solo Dio. Senocrate, condiscepolo di Aristotele, senza essere nel suo opinare più fermo, è però nelle sue stravaganze più ridicolo. Fu già per lui certissimo che otto soli sono gli dei: cinque ne sommano i cinque conosciuti pianeti, il sesto lo formano le stelle fisse, che altro non sono che le membra di questo sesto, uno e semplice Dio; il settimo Dio è il sole, e la luna la costituisce per ottavo. Ma Eraclito, allievo della stessa scuola di Platone, alla seria commedia di Senocrate aggiunge favole ridicole da fanciullo. Per esso ora Dio è il mondo, ora l’intelligenza, ora i pianeti: e mentre fa corporeo Iddio, gli nega ogni senso; e mentre lo fa una intelligenza, gli dà una mutabile figura; e ricordandosi nello stesso libro di aver lasciato indietro la terra e il cielo, anche del cielo e della terra fa due altri dei. » – Parrebbe che, in materia di leggerezza e di stravaganza sopra questo argomento, non fossevi dove arrivare più oltre di quello cui sono giunti i citati filosofi. Eppure Teofrasto è andato ancora al di là e si è renduto affatto intollerabile. Ora attribuisce ad una intelligenza il principato e l’essere di Dio, ora dal cielo, ora ai segni del zodiaco, ora alle stelle fisse. Zenone solamente gli può stare vicino, quel Zenone vostro (parla agli stoici) che dopo di essersi vantato  che era proprio de’ filosofi suoi pari l’avere una opinione determinata e certa intorno a Dio è però più degli altri ancora fluttuante ed incerto. Ora l’aria è il suo Dio; ora è una certa ragione che circonda, e investe e penetra tutta la natura; ora gli astri tona dei. ara persino gli anni stessi e le stagioni; e dopa avere ammesso tanti dei, interpretando la teogonia di Esiodo, finisce col dire che non vi è idea innata, né si ha percezione alcuna chiara e distinta intorno a Dio. Cleante anch’esse ora fa del mondo il Dio vero, ora fa di Dio l’intelligenza e l’anima della natura, ed ora dice che il fuoco, che chiama etere, è infallibilmente il Dio vero. E spingendo ancora più innanzi il delirio, ora finge una certa forma o immagine di divinità separata da ogni altra cosa; ora stabilisce che solo negli astri, ora che solo nella ragione bisogna cercare e riconoscere la divinità (ibid.). – E qui Tullio non sa contenersi dal prorompere in questo tristissimo epifonema: «Così quel Dio che diciam di conoscere evidentemente colla nostra mente, e di cui pretendiamo che nella chiara percezione dell’anima esista l’idea come nel proprio vestigio, in fatti poi non sappiamo decidere né se vi sia, né chi mai sia: una nuvola densissima lo nasconde al nostro sguardo: Ita fit ut Deus iste, quem mente noscimus atque in animi notione tamquam in vestigio volumus reponere, nusquam prorsus appareat (ibid.). » Dopo avere quindi esposte le empietà di Perseo, scolaro di Zenone, per cui Dio altro non è che un vocabolo che la riconoscenza pubblica ha attribuito agli autori delle utili invenzioni ed alle invenzioni medesime; dopo di avere ampiamente annoverata la ignobile turba di nomi sconosciuti e chimerici che  immaginò Crisippo, l’interprete più maligno delle stoiche stravaganze, Tullio conchiude così, come l’avea cominciato, il quadro spaventevole degli errori e delle insanie de’ filosofi, intorno a Dio: « Io vi ho messo sotto degli occhi non dirò i giudizj de’ filosofi, che sì fatte cose un tal nome non meritano, ma i sogni d’immaginazioni in delirio, ma i delirj di uomini mentecatti; ed in verità che le stesse favole de’ poeti, che tanto male han fatto ai costumi colla loro artificiosa dolcezza, non sono certamente né più sconce, né più assurde di queste filosofiche dottrine: Exposui non philosophorum judicia, sed delirantia somnia; nec enim multo absurdiora sunt ea quæ, poetarum vocibus fusa, ipso suavitate nocuerunt (ibid.). » L’opinione poi dello stesso Tullio intorno a Dio, che in questa importantissima disputa esso manifesta sotto il personaggio di Cotta, si è quello dell’antico filosofo Simonide, cioè che gli sembra che, se ci è Iddio, e qual sia la sua natura, è una cosa quanto più vi si pensa, tanto più oscura ed incerta: Rogas me quid aut qualis sit Deus? Auctore atar Simonide, qui, quanto, inquit, diutius considero, tanto mini res videtur obscurior (ibid.). Protesta però di volere sempre difendere in pubblico la superstizione introdotta in Roma, salvo il diritto di ridersene in privato: Opiniones quas a majoribus accepimus de diis immortalibus, sacra, cærimonias religionesque defendam Jurarem per Jovem, nisi ineptum videretur. Cioè a dire che il sentimento di Cicerone, intorno a ciò che vi è di più grave, si era che bisogna rispettare e mantenere in pubblico la religione del popolo, perché al popolo è necessaria una qualunque religione, e pensare poi come si vuole in privato. La religione di Cicerone era adunque una specie d’indifferentismo politico, quale lo vediamo professato ai dì nostri da molti, non so se io dica più empj o più imbecilli, che non essendo uomini di alcuna scienza e di alcuna coscienza, si danno il titolo di uomini di stato, indifferentismo che il romano oratore restringeva a quest’orribile massima: che bisogna pensare da filosofo ed operar da politico, cioè adire: nulla credere e mostrar di creder tutto: Sentiendum philosophiæ, vivendum politice. L’insufficienza però, la debolezza, la miseria della ragione privata nell’acquisto del vero è un principio sì profondamente scolpito nell’animo di Cicerone che nol perde giammai di vista, e da esso incomincia sempre le sue filosofiche discussioni. Pertanto, come ha fatto nella disputa sulla natura di Dio, così trattando dell’anima, entra in argomento col rammentare i risultati infelici della filosofia anche in questa materia, ed osserva che i filosofi non sono meno discordi e meno contradittorj fra loro nel fissare il destino e la natura dell’anima di quello che lo sono stati nel decidere alcuna cosa di Dio; poiché dice: credono alcuni che la morte altro non sia che la partenza dell’anima dal corpo; altri, che partenza non vi è di sorta alcuna, che anima e corpo finiscono al tempo stesso, che nulla dell’uomo sopravvive alla morte. Quelli poi che la morte attribuiscono alla partenza dell’anima, sono ancor essi fra loro discordi.Poiché vi è chi pensa che l’anima uscita dal corpo poco dopo si dilegua nel nulla; altri, che sopravviva lungo tempo;ed altri, che mai non muore. Più grande è poi la disparità delle opinioni dei filosofi intorno alla natura ed alla sede dell’anima. Per alcuni l’anima non è altro che il cuore.Per Empedocle non è il cuore, ma il sangue che intorno al cuore s’aggira. Costoro affermano che una parte del cervello è quella che esercita le funzioni dell’anima. Quelli negano assolutamente che l’anima sia cuore o cervello; ma fra loro stessi, alcuni nel cerebro, come in propria sede, la collocano,altri nel cuore. A Zenone stoico parve che l’anima non fosse altro che fuoco. Ad Aristosseno poi, che era allo stesso tempo filosofo e musico, la sua ragione dimostrò che l’anima non è altro che un certo movimento permanente nelle fibre del cuore, simile a quello che si osserva nel canto e nelle corde da cui risulta l’armonia. Per Senocrate l’anima non è che un numero. L’immaginazione di Platone non si contentò di ammettere un’anima sola, ma ne foggiò tre ben diverse; la ragione che collocò nel corpo, l’ira nel petto, e la cupidità sotto ai precordj. Ma ove la liberalità di Platone ci ha regalate tre anime, l’avarizia di Dicearco non ce ne lascia nemmeno una sola: la sua ragione avendogli rivelato che l’anima è una parola vuota di senso, e che l’uomo non è che materia che la natura ha organizzata in modo che sussista e senta. Aristotele deduce l’anima da un quinto elemento da lui riconosciuto in natura, e chiama l’anima entelechia, quasi fosse un movimento continuato e perenne. Democrito dice che l’anima è formata, come il mondo, di leggerissimi atomi che il caso nel corpo umano ha insieme riuniti. Or, dopo di avere indicate queste diverse opinioni sì stolide e sì stravaganti che i filosofi si erano colla loro ragione fabbricate intorno all’anima, Tullio esclama: di queste diverse opinioni, presentate tutte siccome vere, quale però sia fra tutte la vera, solo un qualche dio può saperlo: Harum sententiarum quæ vera sit, deus aliquis viderit (Quæst. tusc).Quale spettacolo di umiliazione e di dolore adunque perla povera ragione umana, il vedere uomini che il mondo ha stimato sì grandi, e in cui la ragione era certamente elevata e possente, divenuti sì piccoli allorché colla sola loro ragione han voluto rintracciare la prima e la più importante di tutte le verità, l’esistenza e la natura di Dio; e non sapere, sopra un argomento sì grave, che balbettar da fanciullio delirare da matti! Questo quadro basta solo a giustificare l’argomentazione di S. Tommaso, che di sopra abbiamo recata, intorno alla imbecillità ed all’impotenza della ragione ad elevarsi alla pura e semplice cognizione di Dio.Al contrario, da questo spettacolo sì tristo e sì doloroso volgiamo lo sguardo ad uno spettacolo il più stupendo per chi sa considerarlo, ed insieme per noi il più giocondo e il più lieto: lo spettacolo cioè dalle nazioni cristiane, presso le quali quelle stesse verità che i filosofi antichi o non conobbero affatto, o le conobbero confusamente e miste alla scoria di turpissimi errori, si trovano chiare, pure e precise fino sulla bocca del povero artigianello, del rozzo bifolco, della donnicciola ignorante e persino del fanciullo che appena balbetta, sulle cui labbra innocenti hanno una dolcezza ed una grazia che incanta per la stessa debolezza della lingua che intoppa ad ogni tratto nel ripeterle e che non articola che per metà le parole: Ipso offensantis lingua fragmine dulciores, come direbbe Minuzio Felice. Che bella cosa. si è il sentire ai fanciulli recitare il Credo, questo meraviglioso compendio di tutte le verità, questo tesoro di sapienza celeste, magnifica professione di fede dettata dagli Apostoli, ispirata da Dio: Le labbra dei sapienti d’Atene e di Roma quando mai si udirono articolare parole tanto sublimi e importanti quanto quelle che articolano le labbra del fanciullo cristiano che recita il Credo? Ah! caso con ciò solo è più illuminato del più grande degli antichi filosofi in materia di  religione. Fra i gentili gli stessi filosofi, gli stessi oratori più insigni non facevano  che balbettare; fra noi Cristiani, secondo la bella espressione dei Libri Santi, gli stessi fanciulli sono eloquenti e filosofi: linguas infantium facti esse disertas. Grande Dio! Che direbbero essi mai adunque Socrate e Platone, Zenone ed Aristotele, Arcesilla e Cicerone e tutti i pagani filosofi dell’antichità, se risorgessero dalle loro ceneri he direbbero al vedere la verità che essi dissero collocata al di sopra dei cieli, a ascosa nella profondità della terra, divenuta fra i Cristiani si comune e si popolare? Che direbbero essi, che sì lunghi anni spesero invano, e tanti durarono stenti e fatiche per giungere ad assicurarsi di due o tre morali verità senza esservi potuto riuscire, al vedere non solo queste verità medesime, intorno alle quali si lambiccarono invano il cervello, ma ancora le più sublimi dottrine intorno a Dio e all’uomo, i più giocondi ed ineffabili misteri del Salvatore degli uomini, le leggi più elevate e più perfette, conosciute, professate e credute dall’età la più tenera, dagli uomini più incolti e più rozzi? Che direbbero essi mai al vedere il bambinello cristiano avere idee più giuste, più precise, più elevate intorno a Dio, all’anima, ai doveri, alla vita futura, di quello che mai non ebbero tutti i filosofi, tutte le scuole filosofiche di Atene e di Roma insieme riunite? Che sorpresa per loro! che meraviglia! che incanto. O come invidierebbero la nostra sorte! o come esalterebbero l’eccesso della degnazione di Dio a nostro riguardo nell’aver messo così a disposizione di tutti i tesori della sua sapienza, di cui essi contanti viaggi e tanti stenti non ottennero nemmeno un obolo, a causa, dice S. Paolo, della loro vanità e del loro orgoglio! Oh bel vanto dell’insegnamento della fede! L’inquisizione umana presso i gentili ha fatto divenire gli uomini, fanciulli, i filosofi, idioti; i saggi, ignoranti; gl’inquisitori della verità, il trastullo miserando di tutti gli errori. Ma la rivelazione divina presso i Cristiani ha fatto al contrario divenire gli stessi fanciulli veri uomini; gl’ignoranti, veri filosofi; i rozzi, veri sapienti; e coloro che per la loro età, per la loro rozzezza o per la loro condizione, sembra che sieno da una dura necessità condannati ad essere il trastullo dell’errore, divenuti possessori e maestri di verità. Oh miseria dell’uomo che non ha che l’uomo per maestro: Oh felicità del Cristiano che per maestro ha avuto lo stesso Dio!

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (48) – LA VERA E LA FALSA FEDE – III. –