DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE (2020)

 (Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Questa Domenica negli anni in cui la Pasqua cade il 24, o il 25 Aprile si anticipa al Sabato (rispettiv. 19, 20 Nov.) con tutti i privilegi della Domenica occorrente, cioè Gioria, Credo, Prefazii della Trinità e Ite Missa est per lasciar luogo rispettivamente nei giorni 20, 21 Novembre alla Domenica ultima dopo Pentecoste. Il tempo dopo Pentecoste è simbolo del lungo pellegrinaggio della Chiesa verso il cielo; le ultime Domeniche ne descrivono profeticamente le ultime tappe. In quest’epoca si leggono nel Breviario gli scritti dei grandi e dei piccoli profeti, che annunziano quello che accadrà alla fine del mondo. Quando i Caldei ebbero condotti gli Ebrei in cattività a Babilonia, Geremia percorse le rovine di Gerusalemme, ripetendo le sue Lamentazioni « Guarda, Signore, poiché è caduta nella desolazione la città che una volta’ era piena di ricchezza, la padrona delle nazioni è assisa nella tristezza. Essa amaramente piange durante la notte e le sue lagrime scorrono sulle sue gote » (3° Responsorio, 1a Dom. Nov.; Antit. del Magnificat, 2a Dom.). E profetizzò il doppio avvento del Messia che restaurerà tutte le cose. « Il Signore ha riscattato il suo popolo e lo ha liberato; e verranno ed esulteranno sul monte Sion e si rallegreranno dei beni del Signore» (1° Responsorio, lunedì 2a settimana). Fra i prigionieri condotti a Babilonia si trovava un sacerdote detto Ezechiele. Egli aveva annunziato la cattività che stava per ricadere su Israele: « Ora la fine è su di te e manderò contro di te il mio furore; e ti giudicherò secondo la tua vita e non avrò pietà » (1a Lezione, Mercoledì, 1a settimana). E nell’esilio egli profetizzò: « Le nostre iniquità e i nostri peccati sono sopra di noi; come dunque possiamo vivere? Ma il Signore ha detto: Non voglio la morte dell’empio, ma che egli si tolga dalla cattiva strada e viva. – Distoglietevi dalle vostre male vie e non morrete » (3a lezione, Lunedì 2a settimana). Dio mostrò al profeta in una visione, il futuro su di un’alta montagna e gli indicò il culto perfetto che Egli attendeva dal suo popolo quando lo condurrebbe verso i colli eterni di Sionne (7a lezione Venerdì 2a settimana). Daniele, che era pure tra i prigionieri di Babilonia, spiegò il sogno di Nabucodonosor, dicendo che la piccola pietra che, dopo aver fatto cadere la statua d’oro, d’argento, di ferro e di argilla, diventò una grande montagna, è figura di Cristo, il regno del quale, consumerà tutti gli altri regni e sussisterà eternamente (Lunedì 3° settimana). – Le guarigioni e le risurrezioni corporali, compiute dal Signore, sono la figura della nostra liberazione e della nostra risurrezione futura: Da tutte le parti ricondurrò i prigionieri » dice Geremia nell’Introito «Tu hai fatto cessare la cattività di Giacobbe» aggiunge il Versetto dell’Introito «Signore, tu ci hai liberato da coloro che ci odiavano » continua il Graduale. « Dal fondo dell’esilio le nazioni hanno infatti gridato verso il Signore, supplicandolo di ascoltare la loro preghiera » spiegano l’Alleluia e l’Offertorio e, come in Dio vi è un’abbondante redenzione, egli riscatterà il suo popolo da tutte le sue iniquità » (stesso Salmo, vers. 7 e 8). Preghiamo dunque con fiducia, poiché se Gesù risuscitò la figlia di Giairo e guarì l’emorroissa, ciò fu fatto secondo la parola del Signore: « Tutto quello che domanderete, lo riceverete ».

Quale terrore quando il giudice verrà ad esaminare rigorosamente ognuno! dice la Sequenza dei Defunti. La tromba squillerà fra le tombe e convocherà tutti gli uomini davanti al Cristo. La morte e la natura resteranno interdette quando la creatura risorgerà per rispondere al giudizio divino. Allorché l’eterno Giudice siederà sul suo seggio, tutto quello che è nascosto sarà palesato e nulla resterà impunito. Giusto Giudice, nella tua clemenza accordami grazia e perdono prima del giorno del rendiconto». Nelle ultime parole dell’Epistola odierna, l’Apostolo allude al libro di vita ove sono scritti i nomi dei Cristiani che la loro condotta esemplare rende degni della vita eterna.

Gesù resuscita la figlia di Giairo con la stessa facilità con la quale noi svegliamo una persona che dorme. Così la sua divin virtù resusciterà i nostri corpi l’ultimo giorno.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Jer XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.

[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio

Orémus.
Absólve, quǽsumus, Dómine, tuórum delícta populórum: ut a peccatórum néxibus, quæ pro nostra fraglitáte contráximus, tua benignitáte liberémur.

[Perdona, o Signore, Te ne preghiamo, i delitti del tuo popolo: affinché dai vincoli del peccato, contratti per lo nostra fragilità, siamo liberati per la tua misericordia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses.
Phil III: 17-21; IV: 1-3

Fratres: Imitatóres mei estóte, et observáte eos, qui ita ámbulant, sicut habétis formam nostram. Multi enim ámbulant, quos sæpe dicébam vobis – nunc autem et flens dico – inimícos Crucis Christi: quorum finis intéritus: quorum Deus venter est: et glória in confusióne ipsórum, qui terréna sápiunt. Nostra autem conversátio in cœlis est: unde etiam Salvatórem exspectámus, Dóminum nostrum Jesum Christum, qui reformábit corpus humilitátis nostræ, configurátum córpori claritátis suæ, secúndum operatiónem, qua étiam possit subjícere sibi ómnia. Itaque, fratres mei caríssimi et desideratíssimi, gáudium meum et coróna mea: sic state in Dómino, caríssimi. Evódiam rogo et Sýntychen déprecor idípsum sápere in Dómino. Etiam rogo et te, germáne compar, ádjuva illas, quæ mecum laboravérunt in Evangélio cum Cleménte et céteris adjutóribus meis, quorum nómina sunt in libro vitæ.

(“Fratelli: Siate miei imitatori, e ponete mente a coloro che si diportano secondo il modello che avete in noi. Poiché ci sono molti dei quali spesse volte vi ho parlato; e adesso vene parlo con lacrime, i quali si diportano da nemici della croce di Cristo: la loro fine è la perdizione; il loro Dio è il ventre: si vantano in ciò che forma la loro confusione, e non han gusto che per le cose terrene. Noi, invece, siamo cittadini del cielo, da dove pure aspettiamo, come Salvatore, il nostro Signor Gesù Cristo, il quale trasformerà il nostro miserabile corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso; per quella potenza che ha di poter anche assoggettare a sé ogni cosa. Pertanto, miei fratelli carissimi e desideratissimi, mio gaudio e mia corona, continuate a star così fermi nel Signore, o amatissimi. Prego Evodia ed esorto Sintiche ad avere gli stessi sentimenti nel Signore. E prego anche te, fedel compagno, di venir loro in aiuto: esse hanno combattuto con me per il Vangelo, insieme con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita”.).

OMELIA I

LA MORTIFICAZIONE CRISTIANA

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

S. Paolo, prima di chiudere la lettera ai Pilippesi, li esorta a conseguire la perfezione cristiana. Per raggiungere questo ideale, cerchino di imitare lui e quelli che vivono seguendo il suo esempio; e non badino a quei Cristiani che tengono una condotta affatto contraria alla mortificazione, che ci è predicata dalla croce di Gesù Cristo. Non si dimentichino, che la fine di costoro è la morte eterna. Noi dobbiamo tenere tutt’altro contegno. Centro dei nostri pensieri e dei nostri affetti è il cielo: là dev’essere la nostra vita. Di là aspettiamo Gesù Cristo, che verrà a renderci perfettamente beati, trasformando il nostro vile corpo sul modello del suo corpo glorioso. – Stiamo, dunque, uniti fortemente a Dio. Raccomanda poi la concordia tra Evodia e Sintiche, e prega un suo collaboratore d’aiutarle a questo scopo. – La mortificazione, che ci è predicata dalla croce di Cristo:

1°) è propria dei Cristiani che voglion praticar la virtù,

2°) Non esser nemici della croce,

3°) Non scambiare l’esilio con la patria.

1.

Fratelli: Siate miei imitatori e ponete mente a coloro che si diportano secondo il modello che avete in noi.

Questo invito di S. Paolo era molto importante per i Filippesi, perché non mancavano esempi di cattivi Cristiani, i quali facevano loro Dio il ventre, e si vantavano in ciò che formava la loro confusione, col condurre una vita sontuosa e lussuriosa. L’avvertimento vale anche per tutti noi. Ci sono tanti Cristiani, che al solo pensiero di condurre una vita mortificata, come era quella di S. Paolo e dei suoi seguaci, si spaventano. Non è più comoda la vita di coloro, che mangiano e bevono lautamente, e si godono tutti i piaceri? Sarà una vita più comoda; ma poco cristiana. Niente è più discorde dalla vita cristiana che consumare il tempo nei banchetti, o nel dolce far nulla, e godersi i piaceri. – Gesù Cristo da coloro che vogliono essere suoi seguaci chiede qualche cosa di diverso. A chi vuol portare il suo nome, ed essere suo discepolo chiede la mortificazione. E S. Paolo ci dice molto chiaramente di che mortificazione si tratta : « Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne coi vizi e con le concupiscenze » (Gal. V, 24). Non è questa la mortificazione che, in alcune circostanze e per certi motivi, ammette anche il mondo: mortificare gli eccessi della gola quando potrebbero essere nocivi: ma finché non sono nocivi, passino: mortificare la sensualità quando ne va di mezzo la salute; reprimere l’ira e soffocare i sentimenti di vendetta, quando ci possono portare ad azioni che incorrono nel codice, ecc. La mortifìcazione cristiana è assai più estesa e parte da motivi ben più nobili. Il Cristiano deve percorre la via delle virtù: la mortificazione gli serve per togliere gli ostacoli, che cercano di impedirgli questo cammino, come insegna Gesù Cristo: «Se il tuo occhio destro ti scandalizza, devi cavartelo e gettarlo lontano da te; è molto meglio che perisca un solo tuo membro, piuttosto che venga buttato nella Gehenna l’intero tuo corpo. E se la tua mano destra ti scandalizza, tagliala e gettala via; è meglio per te perdere un solo membro che esser buttato nella Gehenna con tutto il tuo corpo» (Matt. V, 29-30). – Base delle virtù è l’umiltà. Ma la pratica dell’umiltà non è altro che la mortificazione dell’amor proprio, della suscettibilità, della boria ecc. Chi vuol esser generoso verso i poveri deve mortificare la brama delle ricchezze. Chi vuol essere casto deve mortificare i propri occhi, le proprie orecchie, la propria carne. Non si può esser pazienti, senza reprimere i moti d’ira, di sdegno, di ribellione, che ci assalgono per un’ingiuria ricevuta, una contrarietà, una disgrazia. Non si può perdonare ai nemici senza combattere lo spirito di risentimento e di vendetta. Non si può lavorar seriamente al servizio di Dio, senza vincere l’accidia. Le passioni cercano di aver il dominio sulla volontà; il seguace di Gesù Cristo mortifica le passioni per poter sottometterle alla volontà. Chi non sa domare un focoso puledro sarà da lui sbattuto a terra, calpestato, trascinato. Trattandosi delle pretese della nostra corrotta natura, o calpestarle o lasciarsi da esse calpestare. Non potremo mai essere virtuosi senza calpestare i vizi opposti alle virtù. Perciò è assolutamente necessaria al Cristiano la mortificazione, con la quale « s’indice la guerra ai vizi, s’aumenta il progresso d’ogni virtù » (S. Leone M. Serm. 40, 2).

2.

Di quei cattivi Cristiani che conducevano una vita larga, la quale era di scandalo agli altri, dice S. Paolo che si diportano da nemici della croce di Cristo: « poiché se amassero la croce, procurerebbero di condurre una vita crocifissa » (S. Giov. Crisost. In Epist. ad Philipp. Hom, 13, 1). – Gesù Cristo per espiare i nostri peccati mortifica la propria volontà. « Padre mio, — dice incominciando la passione — se è possibile, passi da me questo calice! Tuttavia, non come voglio Io, ma come vuoi Tu» (Matth. XXVI, 39). Fa il sacrificio del suo onore. Tutto sopporta: contraddizioni, ingiurie, calunnie. Il suo corpo è assoggettato alle veglie, ai digiuni, alle fatiche continue dell’apostolato, alle privazioni. Egli può dire: « Le volpi hanno delle tane, e gli uccelli dell’aria hanno dei nidi, ma il Figliuolo dell’uomo non ha dove posare il capo » (Matth. VIII, 20). Alla fine è percosso, ferito, trafitto sopra una croce, Da quel momento la croce è il simbolo dell’espiazione, delle privazioni, del sacrificio, delle rinunce. Ora, chi non sa imporsi un limite nel mangiare e nel bere; chi non sa moderare la sua gola, chi non sa allontanare i suoi sensi da ciò che potrebbe essere materia di peccato, è necessariamente nemico della croce. Chi non sa reggere i moti dell’animo, dominandolo nei turbamenti, negli impeti dell’ira, nella brama di sovrastare agli altri, nella tristezza pel bene altrui, nella contentezza per l’altrui male, è necessariamente nemico della croce. Chi non sa sottoporre la propria volontà alla volontà di Dio, è nemico della croce. – I santi compresero molto bene l’importanza di questa crocifissione corporale e spirituale. Chi fugge dalla croce, fugge la via della salute. Ed essi che ci tenevano tanto alla eterna salute propria e a quella del prossimo, si stimavano felici di poter imitare Gesù Cristo nelle opere di mortificazione interna ed esterna; di poter, per mezzo della mortificazione, raffinarsi nella virtù, espiare le proprie colpe e quelle di tanti infelici, che si dimenticano di essere seguaci di Gesù Cristo. – La vita dei gaudenti anziché far loro invidia, era motivo di grande pena. L’apostolo, parlando di costoro, dice: ve ne parlo con lacrime. La croce di Cristo è loro offerta come mezzo di salvezza, ed essi la rigettano. Che diremmo di uno che, caduto in un burrone, rifiuta di attaccarsi alla corda che gli viene calata; che, travolto dalle onde, respinge la mano che tenta di afferrarlo; investito dalle fiamme, si divincola dalle braccia che l’hanno raccolto per portarlo in salvo? La carne con le sue concupiscenze, il nostro interno con tutte le sue debolezze ci investono, ci travolgono, ci portano alla morte spirituale: la croce delle mortificazioni può liberarcene, e noi la respingiamo. «Si accettano volentieri croci d’oro e d’argento; ma le altre ordinariamente si disprezzano», diceva Santa Maria Maddalena Postel (Mons. Arsenio Maria Legoux. Vita di S. Maria Maddalena Postel. Tradotta dal francese. Roma 1925).  La croce della mortificazione è una delle più disprezzate. Le anime buone hanno ben ragione di piangere, come S. Paolo, sullo stato di coloro che pospongono la croce ai godimenti.

3.

Noi siamo cittadini del cielo. Quaggiù non siamo in casa nostra, siamo esiliati in una valle di lacrime. Il godimento pieno che renderà pago il nostro cuore e felice tutto il nostro essere l’avremo in cielo. Non dobbiam dimenticarci che quaggiù non è il luogo dei godimenti, ma il luogo in cui si meritano i godimenti. Chi si dimentica di questo, non pensa a contrastare e a combattere le tendenze della corrotta natura, e alla fine si accorgerà di aver operato da stolto. Quelli che odiano la mortificazione in questa vita, non faranno mai passaggio dall’esilio alla patria celeste: la loro fine è la perdizione. «Ogni cosa ha il suo tempo stabilito» (Eccles. III, 1). Per i Cristiani il tempo dell’esilio terreno è il tempo stabilito per la propria santificazione, che non si acquista senza una mortificazione continua. Quindi, come osserva S. Agostino, « la nostra occupazione in questa vita è questa: dar morte con lo spirito alle azioni della carne, che dobbiamo affliggere, indebolire, frenare, mortificare» (Serm. 156, 2). Vi è «tempo di guerra e tempo di pace» (Eccles. III, 8). Il tempo del nostro esilio terreno è tempo di guerra continua contro la concupiscenza. Guerra che S. Bernardo chiama « una specie di martirio… più mite di quello in cui vengono tagliate le membra, quanto all’orrore; ma più molesto quanto alla durata » (In Cant. Serm. 30, 11). È una durata che ha termine; è una durata brevissima, se la paragoniamo alla durata della vita celeste; ma la nostra condizione, fin che la vita dura rimane la medesima: una lotta molesta contro le nostre cattive inclinazioni. – Mortificare il proprio corpo, non vuol dire renderlo infelice; tutt’altro. Vuol dire impedirgli la sorte destinata ai corpi dei gaudenti, i quali «fioriscono nel secolo, disseccano nel giudizio, e, dissecati, sono gettati nel fuoco eterno» (S. Agostino. En. in Ps. LIII, 3.). S. Paolo, dopo tanto lavoro per la gloria di Dio e la salvezza delle anime dichiara: «Affliggo il mio corpo e lo riduco in servitù, perché non avvenga che dopo aver predicato agli altri, io stesso sia reprobo» (I Cor. IX, 27). – Mortificare il proprio corpo vuol dire prepararlo a essere circonfuso di splendore e di gloria quando verrà il nostro Signor Gesù Cristo, il quale trasformerà il nostro miserabile corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso. Questo però avverrà quando l’esilio terreno sarà finito per noi e per tutti i viventi. Finché siamo quaggiù, nostra cura dev’essere questa, di crocifiggere la carne con le sue concupiscenze. Quando gli Ebrei, nell’Egitto, crebbero di numero e di forza, Faraone ne ebbe paura. «Ecco — dice ai suoi — che il popolo dei figli d’Israele è numeroso e più forte di noi. Venite, opprimiamolo con saggezza, affinché non si moltiplichi più». E quando Mosè e Aronne, in nome del Signore, gli chiesero che lasciasse libero il popolo ebreo, risponde: «E quanto si moltiplicherà se date loro qualche sollievo dai lavori?» E dispone di non lasciare, agli Ebrei neppur un momento di respiro (Es. I, 9-10, V, 5 e segg.). È quello che dobbiamo far noi in questa vita: mortificare con saggezza le azioni della carne, perché non prendano il sopravvento; mortificarle sempre appena si manifestano, non lasciando loro un momento di respiro.

 Graduale

Ps XLIII: 8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.

[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]


In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula. Allelúja, allelúja.

[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno..]

Alleluja

Allelúia, allelúia

Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt IX: XVIII, 18-26
In illo témpore: Loquénte Jesu ad turbas, ecce, princeps unus accéssit et adorábat eum, dicens: Dómine, fília mea modo defúncta est: sed veni, impóne manum tuam super eam, et vivet. Et surgens Jesus sequebátur eum et discípuli ejus. Et ecce múlier, quæ sánguinis fluxum patiebátur duódecim annis, accéssit retro et tétigit fímbriam vestiménti ejus. Dicébat enim intra se: Si tetígero tantum vestiméntum ejus, salva ero. At Jesus convérsus et videns eam, dixit: Confíde, fília, fides tua te salvam fecit. Et salva facta est múlier ex illa hora. Et cum venísset Jesus in domum príncipis, et vidísset tibícines et turbam tumultuántem, dicebat: Recédite: non est enim mórtua puélla, sed dormit. Et deridébant eum. Et cum ejécta esset turba, intrávit et ténuit manum ejus. Et surréxit puélla. Et éxiit fama hæc in univérsam terram illam.

“In quel tempo, mentre Gesù parlava alle turbe, ecco che uno de’ principali se gli accostò, e lo adorava, dicendo: Signore, or ora la mia figliuola è morta; ma vieni, imponi la tua mano sopra di essa, e vivrà. E Gesù alzatosi, gli andò dietro co’ suoi discepoli. Quand’ecco una donna, la quale da dodici anni pativa una perdita di sangue, se gli accostò per di dietro, e toccò il lembo della sua veste. Imperocché diceva dentro di sé: Soltanto che io tocchi la sua veste, sarò guarita. Ma Gesù rivoltosi e miratala, le disse: Sta di buon animo, o figlia; la tua fede ti ha salvata. E da quel punto la donna fu liberata. Ed essendo Gesù arrivato alla casa di quel principale, e avendo veduto i trombetti e una turba di gente, che faceva molto strepito, diceva: Ritiratevi; perché la fanciulla non è morta, ma dorme. Ed essi si burlavano di lui. Quando poi fu messa fuori la gente, egli entrò, e la prese per una mano. E la fanciulla si alzò. E se ne di volgo la fama per tutto quel paese”

OMELIA II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra l’impurità.

Mulier quæ sanguinis fluxum patiebatar duodecim annis, accessit retro, et tetigit fimbriam vestimenti eius.

Degno era veramente di compassione lo stato di questa donna, fratelli miei, poiché già da anni dodici era essa da pericolosa malattia afflitta. Ma quanto fu grande ed efficace la sua confidenza per ottenere ciò che domandava! Persuasa del potere di quest’uomo-Dio sopra le malattie del corpo, non credette ella che fosse necessario d’indirizzare a Lui, come agli altri, la sua preghiera; o che Egli imponesse le mani su di essa , come quel capo della Sinagoga (di cui si parla nello stesso Vangelo) lo pregava di fare sulla sua figliuola che poco prima era morta. Purché ella possa attraversare la folla da cui Gesù Cristo è attorniato e toccar solamente il lembo delle sue vestimenta, ella crede che sarà guarita. Quindi prova ella quel che possa presso di un Dio sommamente benefico una viva ed umile confidenza. Essa riceve la guarigione della sua malattia e merita per la sua fede gli elogi di Gesù Cristo medesimo. Donna, abbi confidenza; la tua fede ti ha risanata: Confide, fides tua le salvam fecit. – La malattia di questa donna, che la caricava di confusione a cagion dell’impurità legale che portava seco, ce ne rappresenta, fratelli miei, una molto più ignominiosa che infetta un gran numero d’anime nel seno di una religione che non soffre impurità alcuna. Voi comprendete senza dubbio questo soggetto che io non oso quasi spiegarvi; poiché egli è un peccato che il grande Apostolo ci proibisce di nominare; eh! piacesse a Dio che non fossi obbligato di parlarne, poiché non si può farlo senza tema di offendere le orecchie caste, ed imbrattare l’immaginazione col racconto di cose, cui non si dovrebbe giammai pensare. Io serberei volentieri il silenzio sopra una materia sì critica, se il mio ministero non mi obbligasse a destarvi orrore di un mostro che fa tante stragi, di un male i cui progressi sono sì estesi e che precipita un sì gran numero d’anime nell’inferno. – Facciamo dunque tutti i nostri sforzi per rimediare ad una malattia così contagiosa com’è il vizio dell’impurità. Per riuscirvi, bisogna farvene conoscere la cagione e temere gli effetti: da un canto voi vedrete quanto è facile il cadervi; e dall’altro quanto è funesto l’esservi involto. Quali sono le cagioni del peccato d’impurità; primo punto. Quali ne sono gli effetti; secondo punto. Egli è facile commetterlo; bisogna dunque usare molta precauzione per non cadervi: egli è un gran male averlo commesso; bisogna usare dei rimedi necessari per guarirsene. Questo è il frutto che mi propongo di farvi raccogliere da questa istruzione. Domandiamo a Dio che purifichi le nostre labbra, come fece altre volte quelle di un profeta, affinché nulla ci sfugga che offender possa il pudore e la santità del nostro ministero.

I. Punto. L’impurità è un peccato sì detestabile e sì indegno d’un Cristiano che non possiamo non istupirci al vedere uomini che lo trattano di bagattella, di debolezza degna di perdono, e che sotto questo falso pretesto si abbandonano ciecamente a questa infame passione. Se fossero pagani, idolatri che tenessero un simil linguaggio, ciò recherebbe meno sorpresa; ma che uomini i quali fanno professione d’una religione così pura e così santa riguardino il peccato d’impurità come una cosa indifferente, un passatempo o al più al più una fragilità scusabile, si è ciò che non si può comprendere. Come dunque? Non sanno essi forse o non debbono sapere che lo stesso Dio, lo stesso legislatore che loro proibisce la bestemmia, l’omicidio, l’ingiustizia, proibisce loro altresì l’impurità? Quelli sono peccati perché azioni vietate dalla legge di Dio. Dio non ha forse ancora espressamente vietato all’uomo di commettere qualunque impurità con questo precetto del decalogo. Non mæchabris, voi non farete alcun’azione contraria alla purità! E certamente, se la lussuria non fosse un peccato grave di sua natura, l’Apostolo s. Paolo escluderebbe forse dal regno del cielo i fornicatori, gl’impudici, come gli ubbriaconi, gli avari e altri peccatori di questa specie? Sappiate dunque, fratelli miei, diceva quel grande Apostolo; che ogni fornicatore, ogni impudico non avrà parte alcuna nel regno di Dio: Omnis fornicator aut immundus non habet hæreditatem in regno Dei (Eph. V). Ma siccome io parlo a Cristiani istrutti e persuasi della loro Religione, non mi fermo di più a provar loro che l’impurità è una trasgressione della legge del Signore; per preservarli dalla sua contagione, io mi rivolgo solamente a scoprir loro le velenose sorgenti da cui questo vizio prende la sua origine e come s’introduce nell’anima. Tre principali ne osservo, cioè il difetto di vigilanza sopra se stesso e sopra i suoi sentimenti, la facilità di esporsi all’occasione e l’ozio. – Dico primieramente il difetto di vigilanza sopra se stesso; formati naturalmente sensibili, portati per conseguenza verso gli oggetti che commuovono ed allettano, i nostri sensi sono come i canali per dove essi s’insinuano e fanno impressione sulla nostr’anima. Sono, secondo l’espressione dello Spirito Santo, le finestre per le quali la morte entra nelle nostre case: chiunque per conseguenza non veglia continuamente sopra i suoi sensi, chiunque dà loro una piena libertà di trattenersi indifferentemente in ciò che può soddisfarli, deve aspettarsi di risentire i colpi mortali dei piaceri che gli sono vietati, e di vedere il forte armato comandargli da padrone ed assoggettarlo alla più vergognosa schiavitù. Ed in vero, fratelli miei, donde è venuta la caduta dei grandi personaggi di cui le sacre storie ci fanno la triste descrizione se non da difetto di vigilanza sopra se stessi, da una troppa grande libertà che diedero ai loro sensi? Dina figliuola di Giacobbe ebbe la curiosità di vedere le donne di Sichem, ma quanto pagò caro un sì imprudente passo! Ella fu rapita per forza e divenne la triste vittima della passione d’uno straniero. Qual fu la cagione della caduta di Davide, quell’uomo secondo il cuore di Dio, quel re sì perfetto? uno sguardo che gettò sopra Betsabea moglie di Uria; invece di volger altrove i suoi occhi da quell’oggetto, egli s’invaghì della bellezza di lei, e cedendo all’impeto di sua passione, si rendette adultero e omicida. Ma senza cercare esempi stranieri, quanti non ne fornisce la quotidiana esperienza forse in un gran numero di coloro che mi ascoltano? L’infame peccato d’impurità fa alla bella prima orrore da se stesso ad un’anima pura ed innocente: essa lo riguarda come un mostro, come uno scoglio fatale alla salute: niuno s’immerge ad un tratto in disordini che la Religione e la ragione egualmente condannano: sinché uno sta in guardia e veglia sopra i suoi sensi, è invincibile agli assalti del nemico. Ma l’avidità di vedere senza precauzione tutto ciò che si presenta, di ascoltare tutto ciò che si dice, addomestica insensibilmente l’anima con quel demonio famigliare, che, per avere un libero accesso presso di essa, la tenta con le attrattive degli oggetti che le presenta: uno sguardo di compiacenza, una canzone udita con piacere, una parola poco onesta profferita lasciano nell’anima impressioni di cui ella ha molta pena a disfarsi; si occupa di un’idea che l’ha rapita, e sebbene il corpo non sia ancora imbrattato, l’anima ha di già ricevuto il colpo della morte dal consenso che ha dato ad un malvagio pensiero, dal reo desiderio che ha concepito; e bentosto dai pensieri e dai desideri si viene alle azioni e si cade nei più grandi misfatti. – Tali sono i funesti effetti che produce l’impurità, allorché si permette ai sensi di andar vagando sopra oggetti d’ogni sorta; in tal guisa il veleno fatale della libidine s’insinua in un’anima e ne indebolisce affatto le forze. Ne abbiamo una trista, ma molto sensibile immagine in ciò che avvenne al tempo di Gerosolima allorché i Romani la stringevano d’assedio; un tizzone acceso che un soldato nemico gettò contro quel tempio, vi cagionò un sì grande incendio che fu impossibile estinguerlo: quel ricco e superbo edificio, l’opera di tutti i re, il più bel monumento che si fosse innalzato alla gloria di Dio, fu consumato e ridotto in cenere. Così una scintilla di fuoco impuro che s’impadronisce delle facoltà dell’uomo, vi cagiona il più strano disordine che immaginare si possa: Ecce quantus ignis quam magnam sylvam incendit (Jac. III). Quell’anima, che era il tempio di Dio, ornata della grazia e dei doni dello Spirito Santo, perde tutta la sua bellezza e diventa la schiava del demonio. Che sciagura! Confessatelo, fratelli miei, con altrettanto dolore che confusione, non riconoscete voi qui la cagione delle vostre cadute? Se voi entrate in una esatta discussione del malvagio uso che avete fatto dei vostri sensi, quali rimproveri non avrete a farvi su questo soggetto? Quanti riguardi fermati sopra oggetti che non eravi in alcun modo permesso di desiderare? Il che ha bastato per rendervi colpevole avanti a Dio, poiché questi sguardi sono stati volontari: mentre chiunque, dice Gesù Cristo, getta gli occhi sopra una donna con malvagi desideri, ha di già commesso l’adulterio nel suo cuore. I vostri occhi non hanno forse anche servito, per così dire, di messaggeri al vostro cuore impuro per manifestare i vostri sentimenti all’idolo di vostra passione? Non è forse ancora per la lettura di qualche malvagio libro che il veleno è entrato nella vostr’anima? Mentre se i libri in cui regna lo spirito d’irreligione indeboliscono la fede in coloro che li leggono, si può dire che niente è di maggior pregiudizio all’innocenza dei costumi che quei libercoli infami, in cui la licenza e lo sregolamento si mostrano alla scoperta. Quante canzoni disoneste, quante parole equivoche non si odono mai tutt’i giorni nelle profane compagnie? Quei discorsi osceni, quei racconti tanto più pericolosi quanto che il veleno vi è più sensibilmente e destramente insinuato, formano oggidì il diletto delle conversazioni: coloro che li fanno sono i meglio accolti nelle compagnie; ognuno si compiace nell’ascoltarli e ben presto impara a parlare come essi, perché ognuno crede poter fare come gli altri. Ah quanto sarebbe a desiderare per una parte de’ miei uditori che non avessero giammai intesi certi discorsi, che lor hanno insegnato ciò che avrebbero dovuto sempre ignorare! I loro costumi sarebbero più puri, la loro condotta più regolata, la loro vita più felice. Il gusto che produce pur troppo sovente l’intemperanza e l’ubbriachezza, serve anche d’incentivo all’impurità. Effettivamente una carne nutrita con delicatezza diventa ribella allo spirito e lo strascina seco nel peccato; l’uso smoderato dei liquori potenti non può accrescere il calor naturale senza recar pregiudizio all’anima; la ragione ne è perturbata, ed in questo stato, incapace di mettere un freno alle passioni, è forse da stupire che ne seguiti i traviamenti? Ed è forse per questa ragione che il grande Apostolo, indirizzando la parola ai primi Cristiani, proibiva loro espressamente gli eccessi: Nolite inebriari vino, in quo est luxuria (Eph.5). Nulla vi dirò io qui, fratelli miei, di quei peccati che si commettono col senso del tatto, che sono le azioni peccaminose vietate dal sesto comandamento: la santità del luogo di cui siamo non mi permette di entrare in una narrazione che offenderebbe le orecchie caste. Ma sotto il nome di queste azioni peccaminose io debbo dirvi che bisogna comprendere certe libertà reciproche le quali non hanno per principio che un amor profano e per fine che un oggetto carnale. Libertà che si trattano da scherzi, da giuochi, da passatempo, da segni d’amicizia, ma che sono veri peccati mortali, i quali divengono più gravi secondo la qualità delle persone, le circostanze del luogo e le conseguenze che seco portano; circostanze di cui dovete accusarvi nel tribunale della penitenza, voi principalmente che siete impegnati nel matrimonio, mentre questo stato è per molti un’occasione di peccato e di perdizione, allorché non sanno contenersi nei limiti della castità coniugale. – La seconda cagione dell’impurità sono le occasioni a cui ci esponiamo. Se l’occasione del peccato è un allettamento per commetterlo, ciò accade particolarmente nel genere di peccato di cui parliamo. Infatti, se questo peccato s’insinua per mezzo dei sensi nel tempo eziandio che gli oggetti sono lontani, che sarà poi quando le circostanze contribuiscano a ravvicinarli? Quindi l’occasione è sempre stata lo scoglio più fatale alla castità. Chi avrebbe Creduto che Salomone, il più savio degli uomini, quel re sì pieno dello Spirito di Dio, che aveva fatte grandi cose per la sua gloria, si fosse dimenticato di se stesso sino ad immergersi nei disordini di questo peccato vergognoso, ed in appresso nelle tenebre dell’idolatria? Or quale ne fu la cagione? Il commercio che ebbe con donne idolatre, che depravarono il suo cuore e gli fecero incensare i loro idoli, dopo essersi rendute esse medesime le vittime della sua passione. Donde vengono tante dissolutezze nella gioventù, tante infedeltà nel matrimonio, se non dai commerci illeciti che si sono mantenuti con persone che non si dovevan mirare o tenere in casa, dalle case sospette che si sono frequentate, dalle visite che si sono rendute o ricevute, dai regali che si sono fatti o accettati, dalle lettere che si sono scritte; mentre tutto questo è compreso sotto il nome di occasioni di peccato, perché tutte queste cose portano al peccato e sono, come dice s. Girolamo, gl’indizi d’una castità moribonda: Morituræ castitatis indicia. Io chiamo ancora occasioni del peccato impuro quelle unioni, quelle veglie, che si fanno in certe case le quali servono di ritiro al libertinaggio, ove Dio è più offeso in una sola notte che non è glorificato da tutte le anime sante che sono sopra la terra, ove la purità è macchiata da mille discorsi indecenti che vi si tengono, dagli oggetti che vi si veggono, e dove i pericoli ed i lacci sono tanto più fatali alla virtù, quanto che le tenebre e la segretezza danno maggior baldanza per commettere il male. – Chiamo occasioni di peccato quei divertimenti, quegli spettacoli in cui le passioni sono rappresentate coi loro più valevoli ad ammollire il cuore; quei balli, quelle danze ove la castità fa ordinariamente naufragio per gli sguardi lascivi che si gettano sopra oggetti pericolosi, o per lo meno per li malvagi desideri, per li pensieri disonesti che vi si formano, e che si fan nascere nel cuore degli altri. Non è forse qui dove le persone di diverso sesso cercano di piacere, di amare e di farsi amare? Non è forse qui dove le passioni, eccitate dai ragionamenti, dalle danze, dal suono degli strumenti, si sfogano senza ritegno e s’immergono negli ultimi eccessi? Oso affermare che è moralmente impossibile alla persona più virtuosa di uscire da quelle combriccole cosi innocente come vi è entrata, e non voglio alcun’altra prova di quel che dico fuor la testimonianza che rendere ne possono quegli e quelle che vi si sono ritrovati. Che diremo noi degli abiti immodesti, degli abbellimenti studiati, di cui le persone del minor sesso si adornano per darsi in spettacolo al mondo, per piacere a coloro che le veggono? Esse sono doppiamente colpevoli, e nell’intenzione che hanno, e nel fine che pur troppo ottengono. – Finalmente io chiamo occasion di peccato quelle conferenze ancora che sembrano innocenti tra persone che hanno di mira il matrimonio; conferenze peccaminose, ove, sotto pretesto di conoscersi, di farsi amare, si oltrepassano i limiti dell’onestà e della modestia: possono vedersi, ma si deve farlo onestamente, raramente ed alla presenza di un padre, di una madre, che debbono vegliare sulla lor condotta. Quando essi fuggono la loro compagnia, quando si cercano le tenebre, quando si veggono tra essi ad ore indebite, non si separano d’ordinario senza peccato. Ma oimè! questa morale non piace a molti, e sovente i padri e le madri favoreggiano pur troppo il libertinaggio dei loro figliuoli; sotto pretesto di far loro trovare un collocamento, danno ad essi la libertà di andare ove loro piace, la notte come il giorno, di frequentare chi loro torna a grado. Conviene poi stupirsi se vi sono tanti disordini nella gioventù, se il libertinaggio e l’impurità fanno tanto progresso nel mondo, poiché si trovano tante occasioni che inducono a questo peccato, cui l’uomo è già così propenso di sua natura, e mentre al difetto di vigilanza sopra se stesso si aggiunge la temeraria facilità di esporsi alle occasioni di commetterlo? – L’ozio gli dà ancora un nuovo impulso. Infatti, se l’ozio, al dire della Scrittura, è l’origine dei vizi, lo è parimente dell’impurità. Simile a quelle acque le quali non avendo alcun corso si corrompono e spargono lontano la contagione di cui sono infette, l’anima che marcisce nell’ozio, esposta in questo stato allo avvelenato soffio dello spirito impuro, vede oscurare tutta la sua bellezza, e perisce finalmente bevendo un veleno che la lusinga: simile ancora ad una piazza senza difesa, che rimane presa al primo assalto che le si dà, il cuore snervato dall’ozio lascia allo spirito tentatore un adito facile; e poco prevenuto contro le astuzie del nemico, diventa ben tosto schiavo. Ne chiamo in testimonio l’esperienza di quelle persone disoccupate, la cui vita si passa in non far nulla; a quanti malvagi pensieri non è la mente loro soggetta? Quanti movimenti sregolati non si sollevano nel loro cuore? Egli è una casa vuota ove il demonio d’impurità trova ben presto da alloggiare. In qual tempo, fratelli miei, siete voi più sovente tentati dallo spirito maligno? In qual tempo avete voi più sovente ceduto alle sue tentazioni? Confessate essere stato in quei giorni in cui, non essendo occupati né dal lavoro né da opere di pietà, vi siete renduti per la vostra inazione accessibili a tutti i colpi del vostro nemico. Confessiamo dunque, fratelli miei, che, sebbene violenta sia l’inclinazione dell’uomo per i piaceri carnali, sebbene potente sia il demonio per trascinarlo al male, l’uomo non sarebbe giammai vinto, se si tenesse in guardia, se vegliasse sopra i suoi sentimenti, se fuggisse l’occasione e l’ozio, che sono le sorgenti fatali dell’impurità. Ma il difetto di vigilanza e di occupazione, la temerità nella condotta, ecco le cagioni ordinarie di questo vizio abbominevole; questo è ciò che lo rende sì comune nel mondo che non àvvene alcuno, dice s. Gregorio, che perda più gli uomini. Questo peccato è una delle cause del piccolo numero degli eletti; perché è certo, secondo l’Apostolo, che niuno di coloro che vi sono soggetti entrerà mai nel regno dei cieli: or un’infinità di persone si lascia signoreggiare da questa passione; i giovani ed i vecchi, i ricchi ed i poveri, coloro che sono liberi e coloro che sono legati in matrimonio; questo peccato è ancora tanto più pernicioso alla salute, quanto che non soffre parvità di materia, come molti altri; tutto vi è mortale, da che vi si dà un intero consenso; benché non fosse che ad un solo pensiero contrario alla purità, non si richiede di più per esser dannato; a più forte ragione bisogna dir ciò dei desideri, delle parole, delle azioni: qual precauzione non si deve dunque prendere per preservarsene? Per indurvi a prendere queste precauzioni, vediamo i tristi effetti di questo peccato.

II. Punto. Per darvi, fratelli miei, qualche idea dei funesti effetti che trascina seco il peccato di cui ragioniamo, io potrei alla bella prima rappresentarvi i terribili castighi con cui Dio l’ha punito anche in questa vita. Sin dal principio del mondo tutta la terra non fu inondata da un diluvio universale se non per estinguere i fuochi impuri, che la concupiscenza aveva accesi nel cuore degli uomini. Cinque grandi città furono ridotte in cenere dal fuoco del cielo, perché esse erano tutte imbrattate dalle infami libidini dei loro abitanti. Più lungi voi vedete ventiquattromila Istraeliti trucidati d’ordine di Dio per essersi abbandonati ai disordini di questa infame passione; io passo sotto silenzio molti altri esempi, di cui fanno menzione i libri santi. Aggiungerei soltanto in confermazione della verità che questo peccato vergognoso è diametralmente opposto agli interessi più essenziali dell’uomo. Non si richiede molto tempo per provare ciò, una fatale esperienza ce lo fa pur troppo vedere; l’obbrobrio, la confusione, l’infamia sono la porzione dei voluttuosi; benché distinti siano essi d’altra parte nel mondo, tosto che sono notati con questa macchia, divengono l’oggetto del dispregio non solo delle persone dabbene, ma dei libertini ancora, i quali sebbene soggetti a questo vizio, non lasciano però di biasimarlo negli altri. La riputazione meglio stabilita non può sostenersi contro un’accusa formata in questo articolo. – Che dirò della perdita dei beni, dalla sanità, della vita medesima, che questo peccato strascina seco? Mentre di che non è capace un uomo soggetto a questa passione? Fa d’uopo consumarsi in folli spese per contentarla ed avere accesso presso dell’idolo cui ha prodigalizzato le sue adorazioni a spese della coscienza, a spese della fedeltà che deve ad una consorte? Egli risparmia su tutto il restante per sacrificar tutto alla sua inclinazione; la famiglia mancherà di tutto e sarà anche sovente la trista vittima dei furori di lui. Fa d’uopo esporre la santità a veglie che lo indeboliscono, a malattie vergognose che accorciano i suoi giorni, la sua vita a pericoli che la minacciano, ed a mille altri mali che passo sotto silenzio. Nulla v’è che non soffra e cui non si esponga per soddisfare una passione ostinata, che lo abbrucia, che lo fa miseramente ed inutilmente languire; sovente egli e frustato nella sua aspettazione, non ha per ricompensa delle sue ricerche che delle infedeltà che lo sconcertano; teme sempre di essere soppiantato da un rivale: se arriva a soddisfare la sua passione, quel preteso piacere non è seguito che da pungenti affanni, da amarezze, da rimorsi di coscienza, da tormenti. Vi dirò di più che questa passione produce le disunioni, i divorzi che sono lo scandalo della religione, le gelosie, gli odi, i duelli, gli omicidi e nulla vi dico, di cui non siensi veduti e non si veggano ancora dei tristi esempi nella città e nelle campagne, nelle provincie e nei regni: ella porta dappertutto la discordia, il disordine e la desolazione. Ma io mi fermo a farvi conoscere i mali infiniti che essa particolarmente cagiona nell’anima di colui che ne è signoreggiato; questi mali sono l’accecamento dello spirito, la durezza del cuore, che lo conducono all’impenitenza finale e alla riprovazione eterna. È proprio del peccato di accecare colui che lo commette, perché esso estingue i lumi della ragione e della fede: infatti in un uomo ragionevole lo spirito deve dominare sulla carne; ma nel voluttuoso si è la carne che domina sullo spirito, che gli comanda, che lo assoggetta al suo impero. Questo spirito, involto nella materia, non vede più quel che fa; egli perde, per cosi dire, l’attività, che è suo attributo essenziale, perché è divenuto affatto terrestre ed animale; noi ci rendiamo ordinariamente simili a quel che amiamo, dice s. Agostino. Quindi in quanti mancamenti egli non cade? A quali traviamenti non è egli esposto? Più non opera che come le bestie, anzi ancora peggio di esse, perché servesi del poco di lume che gli resta per far cose che le bestie medesime non fanno: Comparatus est iumentis insipientibus et simìlis factus est illis (Ps. XLVIII). Convien egli stupirsi se l’anima sensuale perde i lumi della fede? L’uomo animale non può concepire le cose di Dio, dice l’Apostolo: Animalis homo non percipit ea quae sunt spirìtus Dei (1 Cor.2). La legge insegna a quest’anima che essa è creata ad immagine di Dio, che è riscattata col prezzo del suo sangue, che è divenuta per mezzo del battesimo il tempio dello Spirito Santo: qual motivi capaci di ritenere il disonesto! Ma egli non fa attenzione alcuna a tutto questo; egli perde dì vista titoli onde è onorato: di figliuolo di Dio si rende vile schiavo del demonio, prostituisce le sue membra che sono incorporate con quelle di Gesù Cristo; profana vergognosamente il tempio augusto ove lo Spirito Santo ha fatta la sua dimora, per farne una cloaca di iniquità. Quale indegnità! Quale accecamento! L’impudico porta sì lungi il suo accecamento che vorrebbe far credere il suo peccato una cosa indifferente ed anche permessa; egli mette tutto in opera per persuaderlo agli altri, a fine di fare più facilmente soccombere alla sua passione le vittime che vuol sacrificare: si può egli diventare più stupido? E non bisogna forse aver perduto ogni coscienza di doveri e di religione? L’uomo schiavo di questo peccato non ha dunque più sentimento della religione che professa, perché la passione che l’acceca ricopre la sua anima di tenebre che estinguono in lui il lume della fede. Non è forse ancora di questa avvelenata sorgente che si sono veduti nascere gli errori che hanno desolata la Chiesa? Essa è che ha prodotti e produce tuttavia i deisti, gli atei, che non hanno lo spirito guasto in materia di credenza se non perché il loro cuore è dalla lussuria corrotto. Non rigettano essi la religione se non perché ella molesta ed incomoda le loro passioni?Perché mai vediamo noi al giorno d’oggi tanti libertini ragionare, disputare sulle verità del Cristianesimo, combatterle e contraddirle, trattare i nostri santi misteri, gli articoli di nostra fede da favole, da racconti fatti a piacere per intimorire gli spiriti deboli? Se noi risaliamo all’origine dei loro pretesi dubbi, delle loro indiscrete critiche, noi la troveremo in un cuor guasto, il quale vorrebbe che non vi fosse religione alcuna, alcun sacramento, alcuna parola di Dio, alcun Dio vendicatore de’ misfatti, a fine di abbandonarvisi con maggior libertà. Vediamo noi forse che coloro i quali sono schiavi della impurità siano persone ben regolate, assidue all’orazione e alla frequenza de’ sacramenti? No, senza dubbio; se danno qualche segno esteriore di religione si è per salvare le apparenze, per conservarsi una riputazione che loro è necessaria nel mondo, per avere un impiego, per arrivare ad uno stabilimento. Ma se noi li conoscessimo a fondo, vedremmo che il loro spirito è così lontano dalla verità, come il loro cuore dall’innocenza, e che il demonio impuro, da cui sono posseduti, li acceca e li perverte. Non bisogna punto stupirsi se cadono nella durezza di cuore, che è come una conseguenza necessaria dell’accecamento dello spirito. Che cosa è un peccatore ostinato? È un uomo, dice s. Bernardo, che non è tocco dalla compunzione, né intenerito dalla pietà, né attirato dalle promesse, né intimorito dalle minacce: che è insensibile alle correzioni, indocile alle ammonizioni; è un uomo cui l’orazione, la parola di Dio, i Sacramenti e tutti i mezzi di salute che la Religione fornisce, sono inutili. Tale è lo stato deplorabile di un peccatore immerso nel pantano degli osceni piaceri. Questo peccatore non è mosso né dalla bellezza delle ricompense che Dio promette alle anime caste, né dal rigore de’ castighi che riserba agli impudichi. Il fuoco dell’inferno, che sarà il supplizio particolare del voluttuoso, benché terribile gli si rappresenti, non oppone che un riparo insufficiente agl’impeti della passione che lo trasporta. Le altre verità della religione non fanno impression maggiore su di lui. Così la parola di Dio, sebbene potente sia essa stata e lo sia ancora per convertire i peccatori, nulla serve spesso ad un impudico. Egli l’ascolta senza essere colpito né convertito; egli è sordo a tutte le correzioni che gli si fanno; non vuole ascoltare né gli avvisi d’un pastore né le salutevoli ammonizioni che amici caritatevoli gli faranno per trarlo dai suoi disordini; basta solo parlargliene per incorrere la sua disgrazia; si è una piaga che non vuole si tocchi o di cui non si può intraprendere la guarigione che con circospezioni difficili a praticare. Che cosa sarà dunque capace di ricondurre l’impuro al suo dovere? L’orazione? Ma egli punto non prega, o se prega, è sempre lo stesso: perché? Perché non prega con desiderio sincero di essere esaudito; durante l’orazione egli è occupato dell’oggetto che l’ha sedotto; come Agostino peccatore, egli chiede a Dio di spezzare legami che non vuol rompere e che non si romperanno senza di lui. I sacramenti, che sono i gran mezzi di salute che Gesù Cristo ci ha lasciati, non avranno essi forse la virtù di guarirlo? Si, senza dubbio, se vi si accostasse con sante disposizioni; ma l’impudico si allontana dai sacramenti, perché non vuol raffrenare una tirannica propensione; o se egli vi si accosta, invece di trovare la vita in quelle sorgenti di grazie, vi ritrova un fatal veleno che accresce il suo male per la profanazione che ne fa, e questo per due ragioni, che vi prego di ben osservare: si è che ordinariamente l’impudico che s’accosta ai sacramenti, e massime a quello della Penitenza, o non dichiara il suo peccato o non ha un fermo proponimento di correggersi. No, fratelli miei, non evvi alcun peccato che altri sia più tentato di celare nel tribunale della Penitenza e che si celi effettivamente più spesso del peccato d’impurità, perché porta un carattere d’infamia che non si osa manifestare. Ne chiama in testimonio la vostra esperienza: voi che gemete ancora su tante confessioni sacrileghe, qual è la cagione dei vostri rammarichi, se non una trista vergogna che per l’addietro vi fece celare qualcheduno di quei peccati che sono l’obbrobrio della religione e la perdizione del colpevole? Un’altra ragione che rende le confessioni dell’impudico nulle e sacrileghe si è che, supponendo in lui coraggio bastante per dichiarare il peccato, non ha poi un fermo proponimento di correggersi. Io trovo la prova di questa verità nelle frequenti sue ricadute. Infatti non v’è peccato alcuno il cui abito sia sì difficile a correggere. Un voluttuoso non cerca forse incessantemente l’occasione di soddisfare la sua passione? Non contento di averle sacrificata una infelice vittima che egli ha guadagnata con le sue sollecitazioni, fa nuovi tentativi; e se la conquista gli sfugge, trova ben il mezzo di farne delle altre. Se non può riuscire ne’ suoi disegni, egli non è meno colpevole per i cattivi desideri cui il suo cuore s’abbandona. – Quelle persone che per avere un’assoluzione han rotto per qualche tempo i loro malvagi commerci, annoiate d’una separazione che le fa languire, palesano subito il vizio della loro risoluzione, rinnovando ben tosto la catena fatale che le rendeva schiave l’una dell’altra. Ah! quanto è mai raro, trovare peccatori di questa sorte che si convertano sinceramente, sia a cagion della malvagia inclinazione che li predomina ed a cui hanno molta pena a resistere, sia a motivo dei violenti assalti che il nemico della salute dà a coloro che gli hanno aperto l’ingresso del loro cuore. Il che Gesù Cristo ci fa conoscere nel Vangelo quando dice che lo spirito immondo non abbandona un’anima che signoreggia a modo suo, che ha disegno di ritornarvi e di regnarvi allora con un impeto più assoluto, perché tosto che vi è rientrato, lo stato del peccatore diventa peggior di prima; Fiunt novissima hominis ilius peiora prioribus, cioè la sua conversione diventa più difficile per le frequenti ricadute cui il suo abito la espone: queste ricadute lo conducono all’ostinazione, l’ostinazione all’impenitenza, e l’impenitenza alla riprovazione. Ecco fratelli miei, ciò che ha fatto sempre riguardare questo peccato come un grande ostacolo alla salute; ecco ciò che deve destarne in voi un sommo orrore, indurvi a fare tutti i vostri sforzi per non soccombervi e ad usare tutti i rimedi più efficaci per guarirne, se vi siete soggetti. Mentre a Dio non piaccia ch’io pretenda rimandare i peccatori di questo carattere senza speranza di guarigione e di salute! Ma bisogna per questo metter in pratica i mezzi che sono per proporvi terminando questo discorso.

Pratiche. Per guarir un male, bisogna andar alla sorgente; il peccato d’impurità viene ordinariamente da un difetto di violenza sopra se stesso, dalle occasioni cui uno si espone e dall’ozio. Bisogna dunque vegliare sopra i vostri sensi, fuggir le occasioni ed occuparvi. Vegliate sopra i vostri occhi per allontanarli dagli oggetti capaci di fare malvage impressioni sopra i vostri cuori: Averte oculos meos ne videant vanitatem. Se i vostri occhi sono colpiti dalle ingannatrici lusinghe di una caduca bellezza, per disgustarvene pensate allo stato orribile cui sarà essa dalla morte ridotta, quando diverrà il pascolo dei vermi: questo pensiero vi preserverà dal veleno della libidine. Non leggete giammai libri capaci di darvi la minima idea contraria alla virtù della purità; se voi ne avete qualcheduno, gettatelo al più presto nel fuoco. Non date giammai orecchio alle canzoni profane, ai discorsi lascivi; guardatevi ancora di più dal proferire nei vostri discorsi parola che offenda la modestia, siate esatti su questo punto sino allo scrupolo: fuggite sopra tutto le occasioni pericolose alla castità, mentre se voi mancate di prudenza a questo riguardo, ogni altra precauzione sarà inutile. Occupatevi altresì secondo il vostro stato; ed il demonio, confuso di vedersi forzato sino nell’ultimo trinceramento, non mancherà di abbandonare una piazza che da tutte le parti gli oppone una egual resistenza. Accostatevi sovente ai sacramenti, abbiate ricorso all’orazione, che è un mezzo eccellente per ottenere la continenza; è quello di cui servivasi il grande Apostolo per respingere lo stimolo di satanasso che lo agitava: Ter Dominum rogavi. Mortificate le vostre passioni con l’astinenza e non siate del numero di coloro di cui parla la Scrittura, che facendo del loro ventre un Dio, alimentano con la loro dissolutezza il fuoco impuro che li divora; resistete fortemente al primo pensiero del male con qualche elevazione del vostro cuore a Dio; ditegli con un sentimento di dolore di vedervi esposti a tante occasioni di dispiacergli: Allontanate dalla mia mente, o mio Dio, questo malvagio pensiero. Abbracciate in spirito la croce di Gesù Cristo, tenetevi ad essa attaccati sino che la calma succeda alla tempesta; ogni qualvolta il nemico della salute si sforzerà di farvi cadere nelle sue reti, munitevi del pensiero e della rimembranza del vostro ultimo fine. Come! vorrò io, direte voi allora, per un piacere d’un momento, bruciare durante tutta l’eternità? Se il ritratto dell’ inferno che vi formerete nella vostra immaginazione non è spaventevole abbastanza per allontanare la tentazione, provate a toccar un momento il fuoco di quaggiù e domandate a voi medesimi, come faceva un santo solitario in simili tentazioni: Come potrò io soffrire un fuoco eterno, che sarà il supplizio del mio peccato, io che non posso soffrire un momento un fuoco dipinto? No, no, non voglio comprare ad un sì gran prezzo una soddisfazione passeggera di cui non avrò che una trista rimembranza. Piuttosto morire che imbrattar l’anima mia della minima macchia. Perseverate in questa risoluzione, poiché voi sarete molto risarciti del sacrificio dei piaceri che farete sulla terra dai torrenti di delizie di cui sarete inondati nel cielo. Così sia.

Credo… 

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta

Pro nostræ servitútis augménto sacrifícium tibi, Dómine, laudis offérimus: ut, quod imméritis contulísti, propítius exsequáris.

[Ad incremento del nostro servizio, Ti offriamo, o Signore, questo sacrificio di lode: affinché, ciò che conferisti a noi immeritevoli, Ti degni, propizio, di condurlo a perfezione.]

Comunione spirituale

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.

[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, omnípotens Deus: ut, quos divína tríbuis participatióne gaudére, humánis non sinas subjacére perículis.

(Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché a coloro ai quali concedi di godere di una divina partecipazione, non permetta di soggiacere agli umani pericoli.)

Preghiere leonine

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

Ordinario della Messa

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

In quest’epoca le letture dell’Officiatura sono spesso tolte dal Libro dei Maccabei. Giuda Maccabeo, avendo udito quanto potenti fossero i Romani e come avessero sottomesso dei paesi assai lontani ed obbligato tanti re a pagar loro un tributo annuale, e d’altra parte sapendo che essi solevano acconsentire a quanto veniva loro chiesto e che avevano stretto amicizia con tutti coloro che con essi si erano alleati, mandò a Roma alcuni messi per fare amicizia ed alleanza con loro. Il Senato romano accolse favorevolmente la loro domanda e rinnovò più tardi questo trattato di pace con Gionata, e poi con Simeone che succedettero a Giuda Maccabeo, loro fratello. Ma ben presto la guerra civile sconvolse questo piccolo regno, poiché dei fratelli si disputarono tra di loro la corona. Uno di questi credette fare una mossa abile chiamando i Romani in aiuto; essi vennero infatti e nel 63 Pompeo prese Gerusalemme. Roma non soleva mai rendere quello che le sue armi avevano conquistato e la Palestina divenne quindi e restò una provincia romana. Il Senato nominò Erode re degli Ebrei ed egli, per compiacere costoro, fece ingrandire il Tempio di Gerusalemme e fu in questo terzo tempio che il Redentore fece più tardi il suo ingresso trionfale. Da quel momento il popolo di Dio dovette pagare un tributo all’imperatore romano ed è a ciò che allude il Vangelo di oggi. Questo episodio avvenne in uno degli ultimi giorni della vita di Gesù. Con una risposta piena di sapienza divina, il Maestro confuse i suoi nemici, che erano più che mai accaniti per perderlo. L’obbligo di pagare un tributo a Cesare era tanto più odioso agli Ebrei in quanto contrastava allo spirito di dominio universale che Israele era convinto di aver ricevuto con la promessa. Quelli che dicevano che si doveva pagarlo, avevano contro di loro l’opinione pubblica, quelli che dicevano che non si dovesse farlo incorrevano nell’ira dell’autorità romana imperante e degli Ebrei che erano a questa favorevoli e che si chiamavano erodiani. I farisei pensavano dunque che forzare Gesù a rispondere a questo dilemma voleva sicuramente dire perderlo, sia davanti al popolo, sia davanti ai Romani, e che tanto dagli uni come dagli altri avrebbero potuto farlo arrestare. Per essere sicuri di riuscirvi gli mandarono una deputazione di Giudei che appartenevano ai due partiti, « alcuni dei loro discepoli con degli erodiani », dice S. Matteo. Questi uomini, per ottenere una risposta, cominciarono col dire a Gesù che sapevano come egli dicesse sempre la verità e non fosse accettatore di persone; poi gli tesero un tranello: « È permesso o no pagare il tributo a Cesare?». Gesù, conoscendo la loro malizia, disse loro: « Ipocriti, perché mi tentate?» Poi, sfuggendo loro destramente, domandò che gli mostrassero la moneta del tributo, per forzarli, come sempre faceva in queste circostanze, a rispondere essi stessi alla loro domanda. Infatti, quando gli Ebrei gli ebbero presentato un danaro che serviva per pagare il tributo: « Di chi è questa effigie e questa iscrizione? » chiese loro. «Di Cesare», risposero quelli. Bisognava infatti per pagare il tributo, cambiare prima la moneta nazionale in quella che portava l’effigie dell’imperatore romano. Con questo scambio gli Ebrei venivano ad ammettere di essere sotto la dominazione di Cesare, poiché una moneta non ha valore in un paese se non porta l’effigie del suo sovrano. Acquistando dunque quel denaro con l’impronta di Cesare, riconoscevano essere egli il signore del loro paese, al quale essi avevano l’intenzione di pagare il tributo. « Rendete dunque a Cesare — disse loro Gesù — quello che è di Cesare ». Ma allora il Maestro, diventando ad un tratto il giudice dei suoi interlocutori interdetti, aggiunse: « Rendete a Dio quello Che è di Dio ». Ciò vuol dire: che appartenendo l’anima umana a Dio, che l’ha fatta a propria immagine, tutte le facoltà di quest’anima devono far ritorno a Lui, pagando il tributo di adorazione e di obbedienza. « Noi siamo la moneta di Dio, coniata con la sua effigie, dice S. Agostino. E Dio esige il suo denaro, come Cesare il proprio » (In JOANN.). « Diamo a Cesare la moneta che porta l’impronta sua, aggiunge S. Girolamo,, poiché non possiamo fare diversamente, ma diamoci anche spontaneamente, volontariamente e liberamente a Dio, poiché l’anima nostra porta l’immagine sfolgorante di Dio e non quella più o meno maestosa di un imperatore ». (In MATT.). – «Questa immagine, che è l’anima nostra, dice ancora Bossuet, passerà un giorno di nuovo per le mani c davanti agli occhi di Gesù Cristo. Egli dirà ancora una volta guardandoci: Di chi è quest’immagine e quest’iscrizione? E l’anima risponderà: Di Dio. È per Lui ch’eravamo stati fatti: dovevamo portare l’immagine di Dio, che il Battesimo aveva riparato, poiché questo è il suo effetto e il suo carattere. Ma che cosa è diventata questa immagine divina che dovevamo portare? Essa doveva essere nella tua ragione, o anima cristiana! e tu l’hai annegata nell’ebbrezza; tu l’hai sommersa nell’amore dei piaceri; tu l’hai data in mano all’ambizione; l’hai resa prigioniera dell’oro, il che è un’idolatria; l’hai sacrificata al tuo ventre, di cui hai fatto un dio; ne hai fatto un idolo della vanagloria; invece di lodare e benedire Iddio notte e giorno, essa si è lodata e ammirata da sé. In verità, in verità, dirà il Signore, non vi conosco; voi non siete opera mia, non vedo più in voi quello che vi ho messo. Avete voluto fare a modo vostro, siete l’opera del piacere e dell’ambizione; siete l’opera del diavolo di cui avete seguito le opere, di cui, imitandolo, vi siete fatto un padre. Andate con lui, che vi conosce e di cui avete seguito le suggestioni; andate al fuoco eterno che per lui è stato preparato. O giusto giudice! dove sarò io allora? mi riconoscerò io stesso, dopo che il mio Creatore non mi avrà riconosciuto? » (Medit. sur l’Èvangile, 39e jour) In questo modo dobbiamo interpretare il Vangelo, in questa Domenica, che è una delle ultime dell’anno ecclesiastico e che segna per la Chiesa gli ultimi tempi del mondo. Infatti, a due riprese, l’Epistola parla dell’Avvento di Gesù, che è vicino. S. Paolo prega Dio che ha cominciato il bene nelle anime di compierlo fino al giorno del Cristo Gesù », poiché è da Lui che viene la perseveranza finale. E l’Apostolo invoca appunto questa grazia: che « la nostra carità abbondi vieppiù in cognizione e discernimento, affinché siamo puri e senza rimproveri nel giorno di Gesù Cristo » (Epistola). In questo terribile momento, infatti se il Signore tiene conto delle nostre iniquità, chi potrà sussistere davanti a Lui? (Introito). « Ma il Signore è il sostegno e il protettore di coloro che sperano in Lui » (Alleluia), poiché « la misericordia si trova nel Dio d’Israele» (Intr., Segret.). E noi risentiremo gli effetti di questa misericordia se saremo noi stessi misericordiosi verso il prossimo.« Come bello è soave è per i fratelli essere uniti! » dice il Graduale. E dobbiamo esserlo soprattutto nella preghiera, all’ora del pericolo,poiché se gridiamo verso il Signore, Egli ci esaudirà » (Com.). E la preghiera eminentemente sociale e fraterna, alla quale Dio è più specialmente propizio, è la pregherà della Chiesa, sua sposa,che Egli ascolta ed esaudisce come fece il re Assuero, allorché, come ricorda l’Offertorio, la sua sposa Ester si rivolse a Lui per salvare dalla morte il popolo di Dio (v. 19a Domenica dopo Pentecoste).

Il dono della perseveranza nel bene ci viene da Dio. San Paolodomanda a Dio di accordarlo ai Filippesi, che gli sono semprestati uniti nelle sue sofferenze e nelle sue fatiche apostoliche eche egli ama, come Cristo Gesù stesso li ama. La loro caritàdunque cresca continuamente, affinché il giorno dell’avvento diGesù, colmi di buone opere, rendano gloria a Dio.

«Se noi siamo attaccati ai beni che dipendono da Cesare, dice S. Ilario, non possiamo lamentarci dell’obbligo di rendere a Cesare quello che è di Cesare; ma dobbiamo anche rendere a Dio quello che gli appartiene in proprio, cioè consacrargli il nostro corpo, l’anima nostra, la nostra volontà» (Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps. CXXIX: 3-4

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Ps CXXIX: 1-2

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: O Signore, esaudisci la mia supplica.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Oratio

Orémus.

Deus, refúgium nostrum et virtus: adésto piis Ecclésiæ tuæ précibus, auctor ipse pietátis, et præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.

[Dio, nostro rifugio e nostra forza, ascolta favorevolmente le umili preghiere della tua Chiesa, Tu che sei l’autore stesso di ogni pietà, e fa che quanto con fede domandiamo, lo conseguiamo nella realtà.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses

Phil I: 6-11

“Fratres: Confídimus in Dómino Jesu, quia, qui cœpit in vobis opus bonum, perfíciet usque in diem Christi Jesu. Sicut est mihi justum hoc sentíre pro ómnibus vobis: eo quod hábeam vos in corde, et in vínculis meis, etin defensióne, et confirmatióne Evangélii, sócios gáudii mei omnes vos esse. Testis enim mihi est Deus, quómodo cúpiam omnes vos in viscéribus Jesu Christi. Et hoc oro, ut cáritas vestra magis ac magis abúndet in sciéntia et in omni sensu: ut probétis potióra, ut sitis sincéri et sine offénsa in diem Christi, repléti fructu justítiæ per Jesum Christum, in glóriam et laudem Dei”.

(“Fratelli: Abbiam fiducia nel Signore Gesù, che colui il quale ha cominciato in voi l’opera buona la condurrà a termine fino al giorno di Cristo Gesù. Ed è ben giusto ch’io nutra questi sentimenti per voi tutti; poiché io vi porto in cuore, partecipi come siete del mio gaudio, e nelle mie catene, e nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Mi è, infatti, testimonio Dio come ami voi tutti nelle viscere di Gesù Cristo. E questa è la mia preghiera: che il vostro amore vada crescendo di più in più in cognizione e in ogni discernimento, si da distinguere il meglio, affinché siate puri e incensurati per il giorno di Cristo, ripieni di frutti di giustizia, mediante Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”).

OMELIA I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

LA PROPAGAZIONE DELLA FEDE

I Filippesi, fin dai primi giorni della loro conversione coadiuvarono S. Paolo a propagare il Vangelo, mettendolo in grado, con i loro aiuti, di poter diffonderlo con maggiore facilità. Ora l’Apostolo mostra la sua riconoscenza, ringraziando Dio, e pregandolo di concedere il dono della perseveranza in questa cooperazione, e soprattutto il dono della propria santificazione ai cari Filippesi, sempre fedelmente a lui uniti nelle sofferenze, e nei lavori dell’apostolato. Egli prega che la loro carità progredisca continuamente, e che pervengano tutti alla piena conoscenza della verità e al pieno discernimento di ciò che devono fare; così che al giorno del giudizio vengano trovati irreprensibili, ricolmi di buone opere che ridondino a gloria di Dio. Noi posiamo imitare lo zelo dimostrato dai Filippesi nella propagazione del Vangelo, favorendo l’Opera della Propagazione delle fede.

1. E’ un’opera buona,

2. Voluta, dal nostro dovere e dal nostro interesse.

3. Si favorisce con opere e con preghiere.

1.

S. Paolo chiama opera buona lo zelo dimostrato dai Filippesi nella causa della propagazione del Vangelo. Nessuno vorrà mettere in dubbio questa affermazione. È un’opera buona che deve stare a cuore anche ai fedeli dei nostri giorni. – Gesù Cristo ha comandato ai discepoli, che andassero a portare il suo Vangelo in tutte le parti della terra, facendolo pervenire a ogni creatura, nessuna esclusa. I discepoli si misero all’opera; ma non poterono compierla, e non la compirono neppure i loro successori. Ancora due terzi degli uomini sono ignari del Vangelo. L’opera della Chiesa prosegue ancora, e proseguirà sempre, finché il Vangelo non sia pervenuto a ogni creatura. È un’opera voluta da Dio; è l’opera di Dio; è la missione ufficiale da lui affidata alla sua Chiesa. Gesù Cristo è il Buon Pastore. Il suo gregge dev’essere formato di tutte le nazioni della terra. Ma non tutti sono entrati nel suo ovile, non tutti provano la dolcezza di chi si trova sotto la sua guida e ascolta la sua voce. «Ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche quelle bisogna che io conduca; e daranno ascolto alla mia voce, e si farà un solo ovile e un solo pastore » (Giov. X, 16). L’opera della Propagazione della Fede procura appunto l’adempimento di questo voto di Gesù Cristo. Va dovunque in cerca di pecorelle da condurre all’ovile dell’unico pastore, ove saranno guidati dalla sua voce, e saziati dall’abbondanza delle sue grazie. – Gesù Cristo è la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo; ma gli infedeli questa luce non l’hanno ancora ricevuta. Essi vanno brancolando tutt’ora nelle tenebre dell’errore. Per le anime degli infedeli, come per le anime nostre, Gesù Cristo ha versato il suo sangue. Quelle anime sono proprietà sua, ma intanto sono escluse dal suo regno. Esse sono create per la felicità eterna, ma sono fuori della via che ve li conduce. Dio, nella sua sapienza e potenza, potrebbe certamente estendere in un lampo il suo regno a tutti gli uomini; ma Egli nei suoi imperscrutabili disegni ha stabilito, che il suo regno venga propagato gradatamente, tra contrasti, per mezzo degli uomini. – Per mezzo della predicazione degli uomini si accoglie la fede. Per mezzo degli uomini si amministra il Battesimo che introduce nella Chiesa. Per mezzo degli uomini, nel sacramento della Penitenza, si vien dichiarati sciolti dalla colpa. In una parola, la salvezza delle anime si procura per mezzo del ministero degli uomini. Si può dare opera più commendevole, di quella che aiuta gli operai del Signore a salvare le anime? No! «Nulla è paragonabile all’anima, neppure il mondo intero. Perciò, se tu distribuissi ai poveri ricchezze immense, non faresti tanto, quanto colui che converte un’anima sola» (S. Giov. Cris. In Ep. 1 ad Cor. Hom. 3, 5).

2.

S. Paolo assicura ai Filippesi: io vi porto nel cuore, partecipi come siete del mio gaudio. Quasi invidiamo la sorte dei Filippesi, che avevano parte al gaudio e ai meriti dell’Apostolo nella propagazione del Vangelo. Partecipare al gaudio e ai meriti di quanti lavorano per la propagazione e il consolidamento della Fede dev’essere premura di tutti quelli che conoscono il proprio dovere e il proprio vantaggio.Noi ci rivolgiamo frequentemente a Dio con la invocazione «Venga il tuo regno». Questa invocazione importa certamente, da parte nostra, l’impegno di far quanto ci è possibile, perché la domanda sia esaudita. Se noi, potendo fare qualche cosa per l’avvento e la dilatazione di questo regno, rimaniamo inerti, siamo dei burloni. Per noi varrebbe l’osservazione che, a proposito della fede senza le opere, fa San Giacomo: «Se un fratello e una sorella sono ignudi e mancanti del pane quotidiano, e uno di voi dica loro : — Andate in pace, riscaldatevi, e satollatevi —, senza dar loro il necessario alla vita a che giova cotesto?» (II, 15-16). – A ogni passo del Vangelo ci è inculcata la carità del prossimo. Nessun dubbio che l’obbligo della carità non devi limitarsi al corpo. Si deve, anzi, dare la preferenza a ciò, che, perduto, non si può più riacquistare, a ciò che, acquistato, porta con sè beni incalcolabili. Nessun bene è certamente paragonabile all’anima. Ce l’assicura Gesù Cristo stesso: «Che darà l’uomo in cambio dell’anima sua?» (Matt, XVI, 26). Aiutando i missionari avremo ottima occasione di compiere il nostro dovere della carità verso il prossimo in ciò che maggiormente gli è necessario, nel salvar l’anima. Il Salvatore, dando istruzioni ai discepoli sulla loro missione di predicatori del Vangelo, aggiunge: «Chiunque avrà dato da bere un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi più piccoli, solo a titolo di discepolo: in verità vi dico non perderà la sua ricompensa» (Matt. X, 42). Chi non dovrebbe essere invogliato dalla grandezza di un premio tale? Ricevere il premio dell’apostolo che si porta a propagare il Vangelo tra gli infedeli? «Invero, quando egli predica, e tu cerchi di coadiuvarlo e favorirlo, le sue corone sono anche le tue (S. Giov. Crisost. In Epist. ad Philipp. Hom. 1, 2). I Santi, pregavano essi, e chiedevano le preghiere anche degli altri. Noi non abbiam sicuramente minor bisogno di preghiera che. i santi. Favorendo lo sviluppo delle missioni, impegniamo la preghiera di animi riconoscenti. I novelli convertiti, pregheranno per i loro benefattori, per quanti hanno cooperato alla loro conversione, quando gusteranno la felicità d’essere entrati nel grembo della Chiesa cattolica: pregheranno per i loro benefattori, quando andranno a godere la vita eterna. Le preghiere ardenti dei neofiti devono avere molto efficacia, se S. Paolo domanda continuamente preghiere a quelli che ha convertito alla fede.

3.

I Filippesi coadiuvarono l’Apostolo nella difesa e nel consolidamento del Vangelo, condividendo con lui travagli e sofferenze. Perciò dice loro ehe sono partecipi, e nelle… catene, e nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Per interessarsi praticamente delle missioni occorrono sacrificio e preghiera. Gesù Cristo, ai discepoli che devono predicar la fede, dice senza ambagi: «Ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi… E sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (Matth. X, 16 … 22). E i discepoli partirono indifesi come pecore, furono perseguitati, messi a morte. E il sacrificio conquistava le anime. L’Apostolo fa notare ai Filippesi che la sua prigionia a Roma, con tutte le relative conseguenze, contribuiva a far conoscere maggiormente il Vangelo (Fil. I, 12-13). I successori degli Apostoli e dei primi discepoli che continuano a conquistare il mondo a Gesù Cristo, non camminano per altra via che quella dei sacrifici. Abbandonano patria, ricchezze, parenti, amici, forse uno splendido avvenire; si portano indifesi, tra popoli barbari con la previsione di ogni privazione e di grandi difficoltà, non osservati dal gran mondo, anzi, considerati come disillusi, spiriti poveri. Essi non si scoraggiano: il crocifisso, che fu loro consegnato alla partenza, ricorda in che modo fu compiuta la redenzione del genere umano. – Anche noi dobbiamo sottoporci a qualche sacrificio, a qualche privazione. Quando Mons. Comboni, già vescovo, riparte da Verona per l’Africa con missionari e catechisti, è accompagnato alla stazione dal vecchio padre. Il figlio chiede la benedizione al padre, e il padre al figlio, Vescovo. E nell’abbracciarlo esclama: « Mio Dio, non ho che un figlio, e a Voi lo dono di cuore; ma se ne avessi anche molti, tutti li consacrerei a Voi per la vostra gloria e per la salvezza delle anime da Voi redente ». E il Vescovo a sua volta: «Mio Dio, lascio mio padre, forse per non vederlo più… ma ne lascerei cento, se potessi averne tanti, per servir voi mio Padre Celeste, e fare la vostra volontà». E salì in treno e pianse (M. Grancelli — Mons. Daniele Comboni – Verona 1823). Davanti a queste eroiche rinunce che cosa sono le piccole rinunce che noi dovremmo fare per soccorrere i missionari? Essi si privano di tutto, sarà troppo per noi privarci di qualche divertimento, di qualche spesa superflua per concorrere alla salvezza delle anime? Quanti danari in lusso, in divertimenti, in baldorie, che potrebbero essere spesi in aiuto degli Apostoli! Dopo tanti secoli par fatto per i nostri giorni il lamento di S. Leone Magno : «Mi vergogno a dirlo, ma non si può tacere: si spende più per i demoni che per gli Apostoli» (Serm. 84, 1). I vecchi missionari sono concordi nell’insegnare ai novelli operai del campo evangelico, che i pagani vengono alla fede più per la preghiera che per la predicazione. La cosa, del resto, è molto spiegabile. Chi piega i cuori è Dio. Egli si serve dell’opera del missionario, che dissoda, pianta, irriga, ma i frutti non si hanno senza il concorso della sua grazia. All’elemosina, alle piccole privazioni, alle rinunce che ci rendono possibile l’aiuto materiale, aggiungiamo la preghiera. Non potrai sopportare il digiuno, non potrai dormire per terra, non potrai ritirarti nella solitudine; potrai, però, sempre pregare. Se non si potesse pregar da tutti, il Signore non avrebbe imposto a tutti l’obbligo di pregare. E quel Signore che ha fatto obbligo di pregare ha anche detto: «pregate il padrone della messe che mandi operai nella sua vigna» (Matt. IX, 38). Preghiera necessaria, perché comandata da Dio, preghiera urgente perché « molta è la messe di Cristo e gli operai sono pochi e con difficoltà si trova chi aiuti » (S. Ambr. Epist. 4, 7, ad Fel.). Che un giorno non ci assalga il rimorso di aver lasciate perire delle anime, che potevano essere salvate con il nostro concorso! Ci conforti, invece, all’avvicinarsi dell’ultima ora, la voce dei pagani convertiti che ci ricorderanno: La tua elemosina e la tua preghiera ci hanno sottratti al regno di satana, ci hanno introdotti nella casa del Signore; ci hanno procurato un bene immenso. Il Signore ti sarà benigno: chi fa bene, bene aspetti.

Graduale

  Ps CXXXII: 1-2

Ecce, quam bonum et quam jucúndum, habitáre fratres in unum!

[Oh, come è bello, com’è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme!]

V. Sicut unguéntum in cápite, quod descéndit in barbam, barbam Aaron.

[È come l’unguento versato sul capo, che scende alla barba, la barba di Aronne. ]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXIII: 11

Qui timent Dóminum sperent in eo: adjútor et protéctor eórum est. Allelúja.

[Quelli che temono il Signore sperino in Lui: Egli è loro protettore e loro rifugio. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt XXII: 15-21

In illo témpore: Abeúntes pharisæi consílium iniérunt, ut cáperent Jesum in sermóne. Et mittunt ei discípulos suos cum Herodiánis, dicéntes: Magíster, scimus, quia verax es et viam Dei in veritáte doces, et non est tibi cura de áliquo: non enim réspicis persónam hóminum: dic ergo nobis, quid tibi vidétur, licet censum dare Caesari, an non? Cógnita autem Jesus nequítia eórum, ait: Quid me tentátis, hypócritæ? Osténdite mihi numísma census. At illi obtulérunt ei denárium. Et ait illis Jesus: Cujus est imágo hæc et superscríptio? Dicunt ei: Caesaris. Tunc ait illis: Réddite ergo, quæ sunt Caesaris, Caesari; et, quæ sunt Dei, Deo.

( “In quel tempo, i Farisei ritiratisi, tennero consiglio per coglierlo in parole. E mandano da lui i loro discepoli con degli Erodiani, i quali dissero: Maestro, noi sappiamo che tu sei verace, e insegni la via di Dio secondo la verità, senza badare a chicchessia; imperocché non guardi in faccia gli uomini. Spiegaci adunque il tuo parere: È egli lecito, o no, di pagare il tributo a Cesare? Ma Gesù conoscendo la loro malizia, disse: Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo. Ed essi gli presentarono un danaro. E Gesù disse loro: Di chi è questa immagine e questa iscrizione? Gli risposero: Di Cesare. Allora egli disse loro: Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”).

OMELIA II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la restituzione.

Reddite quæ sunt Caesaris Cæsari, et quæ sunt Dei Deo.

Ammiriamo, fratelli miei, la risposta piena di saviezza che Gesù Cristo fa nell’odierno vangelo alla domanda dei Farisei sull’obbligo di pagar il tributo a Cesare: Questa nazione perfida ed in credula aveva tentato più volte di sorprendere Gesù Cristo nei suoi discorsi e nelle sue azioni, affine di trovarvi motivi di condannarlo; ma l’eterna sapienza li aveva sempre confusi. Fanno essi tuttavia in quest’oggi un nuovo tentativo, e gli propongono una questione tanto più fraudolenta, quanto che in qualunque modo egli la decida, deve cadere nulle insidie. Se risponde che si deve pagare il tributo a Cesare, egli si dichiara nemico della nazione giudaica, che si pretendeva esente. Se Gesù Cristo risponde che non si deve pagare questo tributo, egli va contro gl’interessi dell’imperatore e si fa credere un sedizioso. Che farà dunque egli in sì delicata congiuntura? Senza dichiararsi contro il popolo, insegna loro quel che devesi ai principi della terra. Perché tentarmi, ipocriti, loro disse? Recate una moneta e ditemi di chi è la figura e l’iscrizione? Di Cesare, risposero essi. Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare, ed a Dio quel che è di Dio: Reddite ergo quæ sunt Cæsaris Cæsari, et quae sunt Dei Deo. Io mi servo quest’oggi dei termini della domanda e della risposta che Gesù Cristo fece ai Giudei, per proporvi e decidere una questione sulla quale assaissimo importa che voi siate istruiti. A chi appartiene quella roba, quel danaro che possedete? Cuìus est imago hæc? Se li avete acquistati con legittimo titolo, se è retaggio dei vostri antenati o fruttodello vostre fatiche, con conservate quel che la provvidenza vi ha dato; ma se questi, beni son frutto di rapino, se vi riconoscete qualche cosa che non sia vostra, se avete cagionato qualche danno ad altri, rendete a Cesare ciò che odi Cesare, restituite quella roba mal acquistata, risarcite quel danno che avete recato: Reddite, etc. Di già, fratelli miei, voi comprendete su di che voglio ragionarvi; sull’obbligo di restituire, obbligo dei più importanti, obbligo di una vasta estensione, che nulladimeno è molto male osservato: obbligo importante, voi lo vedrete per i motivi che v’inducono a compirlo; obbligo d’una vasta estensione a cagion del gran numero d’ingiustizie che si commettono nel mondo; obbligo molto male osservato, voi lo vedrete per le regole che seguir si debbono per adempierlo. Per rinchiudere in poche parole tutto il mio disegno: quanto è grande l’obbligo di restituire? Primo punto. Quanti sono incaricati di quest’obbligo? Secondo punto. Come dobbiamo adempierlo? Terzo punto.

I. Punto. La restituzione è un atto di giustizia con cui si rimette il prossimo in possesso di una cosa che gli è stata tolta, o col quale si ripara il danno che gli è stato cagionato. Basta essere rischiarato dal lume della ragione per essere convinto dell’obbligo di restituire la roba altrui, e di riparare il torto che gli è stato fatto. Che c’insegna infatti questa retta ragione? Che non bisogna fare ad altri quel che non vorremmo fosse fatto a noi. Or noi non vorremmo che altri s’impadronisse ingiustamente dei nostri beni, che ci portasse danno in quello che ci appartiene; noi ci lamentiamo quando altri ci fa qualche torto; quei medesimi che ne fanno agli altri sono i primi a condannare coloro che non sono gli autori. Si è dunque con altrettanto d’equità che di sapienza che Dio ha fatto un comandamento espresso di non rubare: Non furtum facies. Poiché dall’osservanza di questo comandamento dipende il buon ordine delle vita, e perché, se fosse permesso d’impadronirsi indifferentemente dell’altrui, nulla sarebbe in sicuro, tutto l’universo sarebbe nel disordine; ciascuno, secondo le naturale avidità che ha sì per la roba, spoglierebbe arditamente il suo vicino di quel che avesse legittimamente acquistato o per successione dei suoi antenati o con un penoso lavoro; i più poltroni ed i più arditi sarebbero i più felici. Or se v’è un comandamento che ci proibisce d’impadronirsi dell’altrui, àvvene per conseguenza uno che ci prescrive di restituirlo, o per meglio dire, la medesima legge che ci proibisce il furto, ci comanda di ripararlo con la restituzione; mentre non restituire allorché abbiamo rubato si è fare torto al prossimo, si è continuare l’azione vietata dal comandamento: Non furtum facies. V’è dunque obbligo di restituire quando abbiamo dell’ altrui o quando abbiamo fatto qualche ingiustizia: obbligo fondato sul diritto naturale e sulla necessità della nostra eterna salute, che ne dipende: obbligo dei più indispensabili e che non soffre scusa di sorta. – Ella è una verità incontrastabile della nostra santa religione che non si può andar salvo senz’aver ottenuto il perdono del suo peccato, perché nulla d’imbrattato può entrare nel cielo. Or il peccato non vien rimesso, dice s. Agostino, se non restituisce quel che si è rubato: Non remiltitur peccatum, nisi restituatur ablatum. Il cielo non è pei ladri, dice l’Apostolo s. Paolo; chiunque è carico dell’altrui non entrerà giammai in quel felice soggiorno se non l’abbia restituito. Qualunque bene faceste voi d’altronde, qualunque virtù praticaste; se avete qualche restituzione a fare, cui manchiate per colpa vostra, tutte le vostre buone opere, tutte le vostre virtù a nulla vi serviranno. Passate pure la maggior parte di vostra vita nell’orazione, castigate il vostro corpo con le mortificazioni più austere, fate limosine abbondanti, soffrite anche il martirio come i difensori della fede; se voi morite senza aver soddisfatto a qualche restituzione di cui siete incaricati, le fiamme eterne dell’inferno saranno la vostra porzione. E perché mai? Perché avete mancato ad un punto essenziale che Dio domandava da voi, che era di adempiere a riguardo del prossimo i doveri della giustizia, doveri sì stretti che nulla può dispensacene. I Sacramenti medesimi, qualunque virtù abbiano per santificare e salvare gli uomini, non saranno giammai per voi strumenti di salute sinché non avrete soddisfatto all’obbligo di restituire. Voi potete ottenere il perdono dei vostri peccati in virtù del potere che i sacerdoti han ricevuto di assolvere i peccatori; ma il potere di questi sacerdoti non si estende a liberarvi dai doveri di giustizia a riguardo del prossimo. Quando essi vi rimettono i vostri peccati lo fanno a condizione che ripariate quelle ingiustizie: qualunque contrizione ne abbiate voi concepita ella non è accetta a Dio, se non se in quanto rinchiude il proponimento di soddisfare al prossimo, se voi gli avete fatto qualche danno. Intendete voi questo linguaggio, ingiusti usurpatori dell’altrui? Si è il linguaggio del vangelo di Gesù Cristo. Se voi nol credete, rinuncia alla religione; egli è inutile che vi accostate ai sacramenti, che frequentiate i santi misteri, che vi frammischiate tra i Cristiani e che facciate professione di esserlo, perché il Cristianesimo non soffre veruna ingiustizia, il paganesimo stesso le condanna. Ma se voi credete ciò che la religione v’insegna su questo articolo, voi siete insensati a perdere la vostr’anima, che vale più che tutti i beni del mondo, per beni che non porterete con voi; siete ciechi a perdere una felicità eterna e a precipitarvi in un abisso di miserie, per non voler rilasciare un danaro, un bene che non vi appartiene. Or perdere la vostr’anima o perdere quel bene; o restituire o esser condannato. Or non è forse meglio esser povero e miserabile per qualche tempo, e felice durante l’eternità, che rendersi eternamente infelice per aver posseduto qualche tempo dei beni di cui non resterà che una trista rimembranza? Perdete dunque piuttosto tutto il vostro danaro, dice s. Agostino, che perdere la vostr’anima: Perde pecuniam, ne perdas animam. Tale è la conseguenza, fratelli miei, che voi dovete tirare dai principi che abbiamo ora stabiliti. Io non dubito che voi non siate interamente interamente convinti di quest’obbligo; ma si tratta di ridurlo in pratica. Condanniamo il furto negli altri e sovente siamo colpevoli noi stessi d’ingiustizie cui non pensiamo a rimediare. Siamo eloquenti a provar l’obbligo di riparar il torto che ci è stato fatto; ma non siamo più fedeli a compiere questo dovere e riguardo degli altri. Quanti pochi vi ha che facciansi giustizia su questo punto! Si ode parlare di furti, di rapine, di ladronecci: non vi lamentate voi medesimi tutti i giorni dei danni che vi si fanno? Ma si ode forse parlar di restituzione? Ne chiamo in testimonio coloro tra voi cui è stato recato pregiudizio. Ne avete voi molti che vi abbiano soddisfatto su questo punto? Donde vien dunque, fratelli miei, che si fanno poche restituzioni? S’ignora forse l’obbligo di farle? No senza dubbio: ma una perversa avidità per li beni del mondo sembra dare dei diritti su quello che uno non possiede; si vogliono ricchezze, e per questo non sa egli metter limiti a’ suoi desideri, ed usa tutti i mezzi possibili di accumularne; sieno poi giusti o ingiusti questi mezzi, poco importa, purché si venga destramente a capo dei propri disegni e si risparmi la vergogna di esser tenuto per ladro, purché si schivino i castighi con cui la giustizia degli uomini punisce questo peccato, non si bada più che tanto a rendersi colpevole avanti a Dio; e dacché una volta taluno si è impadronito dell’altrui e l’ha per qualche tempo posseduto, lo riguarda come suo proprio; il reo attacco che ha per esso fa che non possa risolversi a rilasciarlo, trova delle difficoltà per restituirlo, si accieca, si fa una falsa coscienza o soffoca i rimorsi che prova su questo soggetto; sopra vani pretesti egli si dispensa dal restituire; or è un possesso che egli riguarda come un giusto titolo, or un bisogno che ha di quei beni per aiutare la famiglia che teme impoverisca, talora il disonore onde si ricoprirebbe confessandosi colpevole d’ingiustizia colla riparazione che ne farebbe; finalmente l’impossibilità in cui crede essere di adempier quest’obbligo. Tali sono, fratelli miei, i sotterfugi dell’ingiustizia, le vane scuse che si allegano per esentarsi dalla restituzione, all’ombra delle quali si crede taluno in sicurezza della salute; ma pretesti e scuse frivole che non prevarranno giammai alla stretta legge della restituzione. – Non nego che il possesso dell’altrui e l’impossibilità possano dispensare dalla restituzione. Ma qual possesso? Egli dee essere un possesso di buona fede, ed ancora dee avere il tempo prescritto dalle leggi: un possesso di malvagia fede, per quanto lungo possa essere, non sarà giammai un titolo per ritenere l’altrui. Similmente un’impossibilità assoluta sospende la restituzione sinché essa dura, e non già quando cessi, e si venga in istato di risarcire il danno che siasi recato. Ma nella maggior parte di coloro che non restituiscono l’impossibilità che allegano a farlo è un’impossibilità chimerica, la quale non sussiste che nella fantasia. Io ho bisogno, dice taluno, di quella roba per vivere, non posso restituirla senza privarmi del necessario, diverrò povero, rovinerò la mia famiglia. Ma quegli cui voi avete tolta quella roba non ne ha forse egual bisogno di voi? È forse giusto che ne sia privo egli piuttosto che voi, che vi conserviate in una condizione agiata a sue spese? se la condizione cui siete innalzati è il frutto delle vostre ingiustizie, fa d’uopo abbandonarla; se non lo è, convien risparmiare e diminuir le spese per restituire quel che non v’appartiene. Voi temete, mi dite, d’impoverire e di rovinar la vostra famiglia; ma avete voi diritto di vivere a vostro agio e di nutrire la vostra famiglia con ciò che non è vostro? Amate voi meglio esser ricchi in questo mondo e lasciar ricchi eredi, per esser infelici nell’altro, che viver poveri e non lasciare pingui eredità ai vostri figliuoli, per salvar l’anima vostra? In mezzo alle fiamme dell’inferno, ove alla vostra morte sarete condannati, sareste voi molto consolati dalla rimembranza dei beni che avrete posseduto sulla terra, e dei ricchi eredi che profitteranno delle vostre ingiustizie, rimembranza di cui non vi resterà che la pena e i castighi? Che v’impedisce di fare le debite restituzioni e conservare il vostro onore, usando dei mezzi che la prudenza v’ispirerà per render al prossimo quel che gli appartiene? Se non potete far subito la restituzione intera, procurate almeno e con i risparmi’ e con il lavoro di soddisfare poco a poco; prendete una via d’accomodamento, se si può, purché la frode e la violenza non v’abbiano alcuna parte, perché la cessione in tal caso accordata, non essendo libera, non vi sgraverebbe punto dall’obbligo che avete. Vediamo ora chi sono gli obbligati a restituire.

II. Punto. Io non prenderò qui, fratelli miei, a fare un racconto esatto di tutte le ingiustizie che si commettono nel mondo; necessari sarebbero più discorsi per farle conoscere. Quel che può dirsi in generale si è che l’ingiustizia regna quasi in tutte le condizioni della vita. Non è solamente nelle foreste e sulle strade che abitano gli uomini rapaci: se ne trovano quasi in tutte le società del mondo; ve ne sono nelle campagne, nelle città; si commettono del furti nei luoghi pubblici e nelle case dei privati; l’ingiustizia e l’adulterio, come diceva altre volte un profeta, si sono sparsi come un diluvio sulla superficie della terra: Furtum et adulterium inundaverunt (Osea IV). Per convincervene con una descrizione tal quale i limiti d’un discorso me la permettono, bisogna distinguere coi teologi tre principi donde nasce l’obbligo di restituire. Siamo obbligati a restituire: o a cagione dell’altrui che possediamo, o a motivo dell’ingiusta usurpazione che ne abbiamo fatta, o per lo danno che abbiamo cagionato.

1°. Siamo obbligati alla restituzione a cagion dell’altrui che possediamo, sia che lo possediamo con mala fede sia che lo possediamo con buona fede. Il possessore di buona fede, cioè colui che possiede l’altrui roba credendo essere sua propria, è obbligato alla restituzione quando riconosce che quella non gli appartiene, che il suo possesso non ha durato il tempo prescritto dalle leggi per esser legittimo o non ha perduto quella roba durante la sua buona fede. Voi avete comprata una cosa rubata da uno che ne credete il padrone, e venendo a riconoscerne il padrone legittimo, siete obbligati a restituirgliela: voi avete ricevuto dai vostri padri beni che riconoscete mal acquistati; bisogna restituirli a chi appartengono, o se non potete scoprire il padrone, potete impiegarli secondo la sua presunta intenzione. Ora vi ha forse di quelli che vogliono spogliarsi di quello che hanno acquistato con buona fede, quando riconoscono che appartiene ad un altro? Perché, dicono essi, mi priverò io di una cosa che non ho acquistato con ingiustizia? Tocca a coloro che han fatto l’ingiuria a ripararla, io non ne ho fatto ad alcuno, poiché era in buona fede. No, voi non avete fatta alcun’ingiustizia nell’acquisto, ma tosto che riconoscete che la roba appartiene ad un altro fate un’ingiustizia ritenendola; siete obbligati di restituirla. Oimè! quanti vediamo noi al giorno d’oggi innalzati ad un’alta fortuna, di cui si potrebbe trovare l’origine nell’ingiustizia e nella malvagia fede di coloro che hanno lasciati loro quei beni; principalmente quando sono fortune assai rapide. Perciocché egli è ben difficile, dice lo Spirito Santo, arricchirsi in poco tempo e conservare la innocenza. Qui festinat ditari non erit innocens (Prov. XXVIII) . Non si diventa ordinariamente ricco in poco tempo che per avere o usurpato destramente l’altrui o esatto da una professione diritti che non erano dovuti; per avere esercitati certi impieghi nei quali si è trovato il segreto di fare guadagni eccessivi; per avere profittato della miseria altrui, come fanno certi uomini avidi, che ammassando tutte le derrate di un paese, vi cagionano orribili carestie e con questo obbligano gli altri a comperarle da essi a prezzi esorbitanti; il che è espressamente vietato dallo Spirito Santo, che minaccia della sua maledizione questa razza d’uomini: Qui abscondit frumenta, maledictus (Prov. XI). Io rimando dunque al tribunale della coscienza questi pretesi possessori di buona fede di certi beni, che sono stati da essi o dai loro padri accumulati in poco tempo, per esaminare avanti a Dio se le loro ricchezze fossero per avventura spoglie altrui, i frutti dell’usura, la sostanza della vedova, del povero e del pupillo; e se non vi riconoscono un possesso legittimo, li rendano, li restituiscano, altrimenti niuna salute per essi. – Veniamo ai possessori di malvagia fede, cioè a coloro che ritengono l’altrui con piena cognizione e contro la testimonianza della propria coscienza. Quanti che si ostinano su di questo! Sanno pur essi che la roba che posseggono non appartiene loro, e non possono risolversi a restituirla; bisogna che il padrone legittimo faccia dei passi e s’affanni, che li chiami avanti ai tribunali; bisogna che, suo malgrado, susciti una lite, che faccia dei viaggi, delle spese per ritirar il suo dalle mani d’un possessore ingiusto e farsi pagare da un malvagio debitore. Imperciocché quanti ve ne ha di questa sorta i quali non pensano in niuno modo a soddisfare un creditore se non venga loro domandato, e non siano obbligati per le vie del rigore! Quanti ricchi che mantengonsi in lusso alle spese d’un mercante, che vivono sul credito di coloro che somministrano loro gli alimenti, e non possono averne per pagamento che rifiuti, o al più al più delle promesse, le quali non si effettuano che più tardi che si può; mentre d’altra parte essi a nulla perdonano di ciò che può appagare la sensualità e la vanità! Quanti che procurano di nascondere una parte dei loro debiti, che non hanno difficoltà, quando possono, di frustrare dei loro diritti coloro cui sono legittimamente dovuti, perché altri non s’accorga della loro ingiustizia! Ah! fratèlli miei, investigate ben bene su di ciò il fondo del vostro cuore ed esaminate se avete sempre pagato esattamente quel che dovevate, se non avete ingannato, occultato, usati rigiri per godere di ciò che non vi appartiene. Qual è l’uomo irreprensibile su questo punto? Quis est hic, et laudabimus eum (Eccli. XXXI)? Non si ascolta che troppo spesso la voce della cupidigia più tosto che quella della giustizia, ed è ciò che cagiona tanta malvagia fede tra gli uomini, che rende l’ingiustizia sì comune, e sì rara la restituzione non solamente dei possessori dell’altrui, ma ancora degl’ingiusti usurpatori: il che si chiama furto o latrocinio. Sotto il nome di furto olatrocinio non bisogna solamente comprendere quelle azioni ingiuste con cui taluno si impadronisce dell’altrui, come fanno i ladri; ma convien intendere ogni sorta d’ingiustizia che fassi al prossimo, tutti i mezzi che si adoprano, tutti gli artifici, tutte le astuzie, tutte le frodi che s’impiegano per appropriarsi l’altrui. Or quante ingiustizie non si fanno nel mondo, nelle campagne, nelle città, nelle case! Ingiustizie nelle campagne, dove si veggono uomini d’una avidità insaziabile che non possono contentarsi nei limiti dei loro poderi, che li ingrandiscono, sia innovandosi su i loro vicini, sia trasportando i termini che li separano al di là del loro punto fisso. I più destri usano dell’ inganno, i più forti della violenza per ottenere un fondo che eccita la loro avidità e che desiderano unire al loro a qualunque siasi prezzo. Voi ne vedete altri che hanno il segreto di fare abbondanti raccolte senz’avere né seminato né lavorato; che nutrono i loro animali sui fondi altrui: non vi lamentate voi sovente del danno che vi si fa in questi differenti casi?Ma ve l’hanno forse risarcito? – Ingiustizie nelle campagne e nelle città tra le persone di commercio, che ingannano vendendo con falsi pesi, con false misure, o cattive merci od oltre al prezzo ragionevole; che comprano a vil prezzo, o a cagione dell’ignoranza d’ un venditore odel bisogno che egli ha di vendere. Quanti monopoli! Quante società in cui uno carica gli altri di tutta la perdita, riservando per sé tutto il profitto! Quante usure, facendo pagar più caro perché si vende a credito! Quante ingiustizie nei contratti per le falsità che vi s’inseriscono, sia nelle date, sia con altre clausole pregiudiziali ad una parte interessata! Tali sono quelli in cui, per toglierle ogni mezzo di ritirare un fondo venduto, si esprime con una somma più considerabile di quella con cui è stato comprato, e che nulladimeno si prende quando l’altro vuole usare dei suoi diritti. – Ingiustizie nei tribunali, dove si vedono litiganti suscitare, senza fondamento, delle liti per ottenere con il favore d’una giudiziale sentenza ciò che loro non è dovuto.- E Come questo? Perché essi sanno inventare raggiri e cavillazioni che i loro competitori non hanno prevedute; perché sono molto potenti in danaro ed in credito per opprimere quelli che non possono loro opporre che una debole resistenza. Così accade sovente che un povero Nabot perde l’eredità de’ suoi padri, invidiatagli dal ricco Acab, a cui è obbligato di cederla, o per una sentenza ingiusta o per un accomodamento irragionevole, che la parte più debole accetta senza esitare, per mettersi al coperto dalle vessazioni ancora più funeste. Sentenze ingiuste, accomodamenti forzati, di cui l’usurpatore si fa un titolo legittimo, ma che non lo giustificano avanti a Dio, il quale conosce l’iniquità del suo procedere. – Si è ancora avanti ai tribunali della giustizia che si vedono comparire falsi testimoni, i quali guadagnati col danaro o ritenuti dal timore tradiscono la verità, affermano la menzogna e portano all’innocente i colpi più funesti. Si è avanti a questi tribunali che sostenere si vedono cause inique, in cui sono state impegnate le parti mal a proposito: dove le buone ragioni soccombono sotto il peso delle raccomandazioni, o pure sono ritardate da una molteplicità di scritture, di nuove istanze, che s’inventano per arricchirsi a costo d’una parte che soffre, che si opprime di spese o a cui si fanno pagare diritti che non sono dovuti, e che so io? E che non direi ancora, se il tempo me lo permettesse? – Ingiustizia nelle case dei privati, dove si vedono i padri di famiglia consumare in bagordi ed in giuochi beni di cui essi non hanno che l’amministrazione; altri che obbligano con violenza le mogli a ceder le loro pretensioni; si veggono delle mogli che dissipano in folli spese beni che loro non appartengono, dei figliuoli che rubano ai padri e alle madri, che prendono nella comune eredità tutto ciò che credono poter servire a contentare la loro vanità, a somministrare ai loro piaceri. Qui io veggo padroni che non pagano i salari dei loro servitori, che li fanno soffrire con ingiuste dilazioni, che ritengono o in tutto o in parte lo stipendio agli operai, peccato enorme che grida vendetta al cielo contro coloro che sene rendono colpevoli: Ecce merces operariorum clamat, et clamor eorum in aures Domini introivit (Jac. V). Là scorgo servi che rubano ai loro padroni sotto pretesto che non sono sufficientemente pagati; operai che non lavorano fedelmente o per difetto del tempo che dovrebbero impiegar nel lavoro, o per la cattiva qualità della materia che v’impiegano, o pure che mettono troppo tempo a fare quel che potrebbe esser fatto più presto, o finalmente che inducono a fare spese inutili coloro che li impiegano al lavoro. – Possiamo dunque dire con tutta verità, fratelli miei, che vi sono ben molti colpevoli d’ingiustizia ed obbligati alla restituzione per li furti e latrocini che si commettono nei diversi stati delta vita. Ma vi è un terzo titolo di restituzione: il danno che si reca al prossimo. – Si può cagionar danno al prossimo direttamente o indirettamente, cioè per sé stesso o per mezzo altrui; per sé stesso, distruggendo il bene che egli ha, o impedendogli ingiustamente d’ acquistare quel che non ha. Gli si cagiona del danno per mezzo d’altrui quando s’induce qualcheduno a fargliene, e allorché non s’impedisce quando vi è obbligo. Non fa bisogno, fratelli miei, né il tempo lo permette, di far conoscere le diverse ingiustizie che si commettono cagionando del danno al prossimo nei suoi beni. Coloro che sono colpevoli in questo punto lo conoscono abbastanza da sé. Io parlo solamente di quella che regna nella comunità, nella distribuzione delle imposizioni edei pubblici carichi. Coloro che vi si sono preposti per farle caricano gli uni più che gli altri, senza consultare le proporzioni dei beni. Quante trame per far cadere i voti di un impiego onoroso sopra alcuni oincapaci di sostenerlo oche non sono ancora obbligati di accettarlo! Quindi il torto fatto alla comunità o a coloro che sono incaricati di si fatti impieghi ordinariamente pregiudiziali; quindi l’obbligo di restituire; ma chi pensa a farle? Si porta ancora del danno al prossimo impedendogli per vie ingiuste di acquistare un bene che non aveva e che poteva lecitamente procurarsi, attraversando con frode e con violenza un disegno che gli era favorevole. – Voi allontanate una persona ben intenzionata a riguardo di un’altra dal farle del bene, diffamandola appresso di essa servendovi di qualche mezzo ingannevole o violento per impedire la buona volontà del benefattore; con le vostre maldicenze e calunnie voi impedite a quel giovane o a quella figliuola di trovar un partito, a quel servo una condizione, a quell’operaio un posto: voi diffamate quel mercante nel suo negozio con le false accuse che contro di lui intentate. Siete obbligati di rifarli dei danni: ma chi vi pensa? Diventiamo finalmente colpevoli d’ingiustizia ed obbligati alla restituzione quando cooperiamo all’altrui danno. Or gli uni vi cooperano in una maniera positiva, gli altri in una maniera negativa. I primi sono coloro che raccomandano, che consigliano, che consentono, che favoreggiano le ingiustizie o approvando o dando asilo a quelli che le commettono. Gli altri sono coloro che non le impediscono, che non le manifestano, allorché sono a ciò per dovere obbligati. Nella prima classe io comprendo i padri e la madri, i padroni e le padrone, tutti coloro che hanno qualche autorità, e che se ne servono per cagionare del danno al prossimo col mezzo di quelli che loro sono soggetti, sono obbligati a ripararlo, come se fossero la causa principale: di modo che se non possono restituire quelli che hanno loro ubbidito, sono essi tenuti a riferirli del danno. – Or quanti vi sono padri e madri, padroni, superiori, che inducono i loro figliuoli, i loro servi, i loro inferiori a rubare ciò che non oserebbero togliere per essi, o per lo meno, che, vedendoli recare del danno, non si servono della loro autorità per impedirlo! Quanti si trovano altresì cattivi consiglieri che sollecitano gli altri a nuocere al prossimo, l’inducono a liti inique, insegnano a questi le misure che possono prendere per riuscire in un’ingiusta intrapresa, indicano a quelli il luogo per cui uno deve passare, gli strumenti di cui può servirsi per un furto che esso medita! Quanti che, con le adulazioni e lodi che danno a coloro che han fatto malvage azioni, di bel nuovo ve li inducono! Quanti che coi rimproveri che fanno al nemico di un altro della sua debolezza e timidità, lo portano a vendicarsi, a cagionargli del danno! Si pensa forse a risarcire i danni che sono la conseguenza dei cattivi consigli? No senza dubbio , si lascia quest’obbligo a coloro che li hanno eseguiti, e si dimentica d’esser gravati del peso medesimo. – Lo stesso si deve dire di coloro che danno asilo ai ladri, che custodiscono o comprano le cose rubate, come accade sovente, dai figliuoli di famiglia e dai servi, i quali non prenderebbero sì facilmente, se non trovassero chi il riceve in casa loro o per comprare quello che fan preso o per loro somministrare l’occasione di spendere. Invano, per scusarsi, diranno che se non avessero comprato essi, altri l’avrebbero fatto, oppure che quei figliuoli avrebbero fatte altrove le medesime spese. Non si può giustificare una malvagia azione con l’altrui esempio. Cessiamo forse d’ esser omicidi, perché senza di noi un altro avrebbe commesso quel delitto? No senza dubbio! Vedete la conseguenza nel suo principio. Rinchiudiamo ancora nell’obbligo di restituire coloro che partecipano all’altrui ingiustizia o dando soccorso o profittando dei latrocini. Finalmente quelli che sono incaricati per dovere d’invigilare alla conservazione degli altrui beni, hanno obbligo di restituire, se, vedendo che si reca del danno, non dicono cosa alcuna, non si oppongono, o non manifestano i danneggiatori quando li conoscono; tali sono coloro che coprono impieghi, uffizi che li obbligano alla conservazione delle cose degli altri, o che ricevono stipendi per questo motivo. Ma oimè! fratelli miei, quanti ve ne ha che adempiono il loro dovere? Quanti al contrario ricevono doppia ricompensa, e da coloro cui si fa un danno che dovrebbero impedire, e da quelli che lo fanno, per non opporvisi! Non ho io avuto ragione, fratelli miei, di dire e le ingiustizie sono molto comuni nel mondo? Che non è solamente sulle strade e nelle foreste che si commette il furto , ma che questo peccato regna in quasi tutti gli stati della vita? Contuttociò quanto è comune l’ingiustizia, altrettanto rara è la restituzione. Bisogna forse stupirsi se il numero dei reprobi è così grande, poiché non si può entrare nel cielo con l’altrui, e moltissimi non possono risolversi a lasciarlo quando lo posseggono? Non siate, fratelli miei, di questo numero infelice; se riconoscete nei vostri beni qualche cosa che non vi appartenga, rendetela al più presto; se avete recato qualche danno, risarcitelo senza differire: perdete tutto quel che avete nel mondo, e conservate un’anima che è costata il sangue d’un Dio; rinunciate ai beni transitori per acquistare gli eterni beni del cielo. Abbiam veduto l’obbligo di restituire, vediamone le regole ed il modo di farlo.

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Esth XIV: 12; 13

Recordáre mei, Dómine, omni potentátui dóminans: et da sermónem rectum in os meum, ut pláceant verba mea in conspéctu príncipis. [Ricòrdati di me, o Signore, Tu che dòmini ogni potestà: e metti sulle mie labbra un linguaggio retto, affinché le mie parole siano gradite al cospetto del príncipe.]

Secreta

Da, miséricors Deus: ut hæc salutáris oblátio et a própriis nos reátibus indesinénter expédiat, et ab ómnibus tueátur advérsis.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XVI: 6

Ego clamávi, quóniam exaudísti me, Deus: inclína aurem tuam et exáudi verba mea.

[Ho gridato verso di Te, a ché Tu mi esaudisca, o Dio: porgi il tuo orecchio ed esaudisci le mie parole. ]

Postcommunio

Orémus.

Súmpsimus, Dómine, sacri dona mystérii, humíliter deprecántes: ut, quæ in tui commemoratiónem nos fácere præcepísti, in nostræ profíciant infirmitátis auxílium.

[Ricevuti, o Signore, i doni di questo sacro mistero, umilmente Ti supplichiamo: affinché ciò che comandasti di compiere in memoria di Te, torni di aiuto alla nostra debolezza.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (134)

LO SCUDO DELLA FEDE (134)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccuno Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (1)

FIRENZE DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA – 1861

A’ MIEI FRATELLI ITALIANI.

Italiani Fratelli! una grande insidia vi è tesa! Già da parecchi anni una moltitudine di scaltri emissarii del Protestantismo vanno di continuo aggirandosi intorno a voi per cogliervi nei loro lacci. Italiani Fratelli! non si tratta di meno che di strappare dai vostri cuori la Santa Cristiana Fede, di stirpare dalla nostra deliziosa Italia la sua gloria più bella, il suo più magnifico e prezioso tesoro, la Cattolica Religione, e a lei sostituire le sinagoghe dei loro errori. Italiani Fratelli! non solo i nostri più avveduti, ma persino alcuni dei loro correligionari di retto cuore e sincero, non lasciano di seriamente avvertirci che il loro scopo primario è tutt’altro che l’aumento della falsa lor religione; che questa non è che un pretesto, un mezzo di cui voglion servirsi per acquistar partitanti tra noi, e quindi aver modo di attaccar brighe co’ nostri,… sotto pretesto di protezione, finché arrivino a farsi nostri duri padroni, a dominar da dispotici il nostro ameno paese! – Infatti, il vedere che tanto tra noi si affaticano, e spendono tanto per acquistar de’ proseliti: che tanta carità ostentano pei nostri poveri, mentre nei loro paesi sono indifferentissimi, e non pochi chi tutto increduli in fatto di religione, ed hanno pei loro poveri un cuore di tigre: il vedere che arruolano per proseliti, e con tanto dispendio, ogni sorta di ribaldaglia, increduli, discoli, oziosi. falliti, le donnacce di mondo, gli avanzi di galera e simili, nulla loro importando che diventino buoni cristiani, né tampoco onestuomini, ma solo contentandosi di far gente; il veder finalmente la smania grande che hanno…. certuni di fermare il piede sulla nostra terra, le brutte mene che a tale oggetto non cessano di adoperare, il grande impegno di proteggere ad ogni costo questi loro emissarii; ci induce necessariamente e credere che qui gatta ci cova, che non senza fondamento sono i nostri sospetti. – Essendo poi questi garbati propagatori di Protestantismo ben consapevoli che non è dalla parte loro la verità, per ottenere l’iniquo intento evitano scaltramente le dimissioni colle persone illuminate e capaci di turar loro la bocca, e presentano agli altri la loro corretta Bibbia allettandoli pur col denaro a prenderla e leggerla: inondino in pari tempo ogni luogo con un diluvio di libercolacci, che posson dirsi compendii dell’errore, dell’impudenza, della malignità e della menzogna; né cessano di spargere per ogni dove, e far gridare ai loro complici ogni sorta di vituperii contro il Vicario di Gesù-Cristo ed il Clero cattolico, onde alienare per tal modo i semplici e i deboli dalla Cattolica Fede. Quanto essi spacciano a voce e in iscritto fu già le mille volte dai Cattolici vittoriosamente confidato: ma tutti ciò non conoscono, e molti essendo incapaci di discernere il vero dal falso, restano colti nelle tramate insidie. Affine pertanto di turar la bocca a questi emissarii e illuminare gli incauti, ho composto la presente Operetta, la quale sarà nelle mani di questi un’arma potente contro le dicerie ed imposture di quelli. Imperocché nella sua prima parte discusse restano quelle materie di dogma e disciplina della Cattolica Chiesa, le quali singolarmente sono da essi prese di mira, e giudicata è la nostra e la loro credenza con la sola autorità della Bibbia, a cui con  tanto sussiego sempre si appettano, e dei primari autori, i protestanti antichi e moderni, compresi i loro medesimi Fondatori. La seconda parte presenta un genuino prospetto del Cattolicismo e del Protestantesimo: chi sia il Papa: presso di chi sia la vera santa Scrittura: chi ne siano i corruttori: chi gli ingannatori de’ popoli: qual delle due sia la Chiesa bottega: qual sia la vera Chiesa di Gesù-Cristo, e quale quella dell’Anticristo, con altre cose di sommo rilievo. – Avrei potuto addurre in prova della nostra causa e a condanna del Protestantismo molte altre sentenze e della Santa Scrittura e di stimatissimi autori protestanti: ma per non rendere questa Operetta troppo voluminosa, ho dovuto ristringermi (non senza mio dispiacere) a citarne quelle soltanto che bastar potevano abbondantemente al mio scopo. – Dispiacerà forse a taluno in questa Operetta la lunghezza dei periodi o degli argomenti come poco conveniente al metodo dialogico; ma spero sapranno perdonarmi, quando avvertiranno: 1.” Che, sebbene qui si proceda a forma di dialogo, non è rigorosamente parlando vero dialogo, ma piuttosto controversia, dibattimento, in cui ciascuna delle parti è in diritto di esaurire le proprie ragioni senza esserne interrotta, come praticar si vede nel sistema giudiziario e parlamentare: 2.” Che far non potevo diversamente senza grave danno della verità, perché attenendomi alla brevità dialogica, dopo aver recata in ciascun luogo una o al più due sentenze della Santa Scrittura, o dei protestanti, avrei dovuto (come ognun vede) omettere assolutamente tutte le altre, le quali, non riguardando che la medesima cosa e sotto il medesimo aspetto, non mi restava più luogo a citarle. – Del resto, qualunque sia il merito di questa Operetta, sono certo almeno che riunite vi sono tali e tante incontrastabili prove della verità della Cattolica Fede e della falsità del Protestantismo, che molto giovar potranno non solo a confermare in quella i vacillanti Cattolici, ma a renderne ancora convinti que’ moltissimi protestanti che con puro cuore e retta intenzione vanno in traccia della verità.

PRIMA PARTE.

L’Appello del Protestantismo alla Bibbia contro la Cattolica Chiesa.

DISCUSSIONE I.

L’ indefettibilità della Cristiana Chiesa.

.- 1. Protestantismo. OSanta Bibbia! Io sono il Protestantismo, vostro fedele seguace, poiché fo professione di non riconoscere altra Norma, altro Maestro che voi. A voi dunque mi appello contro li errori, contro le inique sentenze del Papismo, detto con altro nome, Cattolicismo e Chiesa Romano-Cattolica, il quale mi condanna come setta eretica, etc. etc. perché riprovo i suoi diabolici errori! Sì li riprovo e detesto; e primieramente riprovo in ogni modo e detesto che egli si dica l’antica vera Chiesa di Gesù-Cristo: essendo fuor d’ogni dubbio che questa, sino dal tempo della Passione del Redentore, perdé la fede e cessò quindi di esistere, né tornò a vivere che colla mia Santa Riforma.1 Onde « sotto il Papato il Cielo era chiuso, né mai uomo alcuno vi si è salvato; imperocché chiunque approva la religione dei Papisti è necessariamente e per sempre perduto nell’altra vita. » Lutero, Op. ediz. Vulch. T. X, p. 2541).

Bibbia. È scritto: « Stava vicino alla croce di Gesù la sua » Madre e la sorella di sua Madre. Maria di Cleofa, e Maria Maddalena. E avendo Gesù veduto la Madre, e il discepolo da lui amato, etc… Dopo di ciò Giuseppe d’Arimatea (discepolo di Gesù …. ) pregò Pilato per prendere il Corpo di Gesù…. Venne anche Nicodemo ‘quegli che la prima volta andò da Gesù di notte)! portando di una mistura di mirra e di aloe quasi cento libbre etc. » (Giov. XIX, v. 25, 26, 38, 39) E Gesù…. spirò…. E tutti i conoscenti di Gesù stavano alla lontana, come anche le donne che lo avevan seguito dalla Galilea, osservando tali cose. » « Partì dunque Pietro e quell’altro discepolo, e andarono al monumento. » (Luc. XXIII 46, 49). Hai bene inteso? Dir non potrai certamente che tutte queste persone avessero perduta la fede nel tempo della Passione, e che non formassero in quell’epoca la più eletta parte della Chiesa Cristiana; né dir potrai che perduta l’avessero gli altri credenti; poiché di essi non si fa parola.

Protestantismo. È scritto: « E allora disse loro Gesù (agli Apòstoli): tutti voi patirete scandalo per me in questa notte…. Gesù gli disse (a Pietro): in verità ti dico che in questa notte,prima che il gallo canti, mi negherai tre volte…. Ma (Pietro) negò dinanzi a tutti…. Egli negò di nuovo, etc. »« Apparve (Gesù) agli undici mentre erano a mensa, e rinfacciò ad essi la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano. prestato fede a quelli che l’avevan veduto risuscitato (Marc. XVI14).Tutti questi non avevan forse perduta la fede?

Bibbia. No certamente, perché per la loro fede, e singolarmente per quella di Pietro, già pregato aveva il Redentore, le cui preghiere restar non potevano senza effetto. « Cosi parlò Gesù: e alzati gli occhi al cielo, disse: Padre, è giunto il tempo, glorifica il tuo Figliuolo…. Per essi io prego…. Padre santo, custodisci nel nome tuo quelli che a me hai consegnati, affinché siano una sola cosa con noi. » (Giov. XVII. 1, 9, 11) Disse di più il Signore: Simone, Simone…. Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno. » (Luc. XXII 31, 32). – È scritto ancora: « E allora i suoi discepoli abbandonatolo, tutti fuggirono…. Pietro però lo seguitò da lungi sino dentro il cortile del Sommo Sacerdote. » (Marc. XIV50) « Ma egli (Pietro) negò, dicendo, etc… E il Signore voltatosi mirò Pietro, e Pietro si ricordò della parola dettagli dal Signore: Prima che il gallo canti mi negherai tre volte. E Pietro usci fuori e pianse amaramente » (Luc. XXII, 57, 61, 62) – Da tutto questo è chiaro che lo scandalo patito dagli Apostoli sia la loro fuga, come anche la triplice negazione di Pietro non furono in modo alcuno un effetto di mancanza di fede, ma solo timore, di umana fragilità. Gli riprese poi tutti d’incredulità ma unicamente per rapporto alla sua risurrezione; per la qual cosa non può dirsi che peccato avessero contro la fede, poiché tale articolo non lo avevano ancor conosciuto, siccome è scritto: « Allora pertanto entrò anche l’altro discepolo, che era arrivato il primo al monumento, e vide e credette: imperocché non avevano per anco compreso dalla Scrittura com’Egli doveva risuscitare  da morte » (Giov. XX, 8, 9) Quindi gli riprese non perché non avessero creduto in lui, ma bensì a quelli che lo avevan veduto risuscitato. Finalmente supposto ancora che tutti questi avessero perduta la fede, non ne seguirebbe per questo che perita fosse tutta la Chiesa: poiché essi né erano tutta la Chiesa, né tampoco la maggior parte di essa.

2. Protestantismo. Se non perì la Chiesa in quel tempo certo almeno che ella perì assolutamente nel secolo secondo (Priestley), oppure nel terzo, (Gibbon) oppure nel quarto, (Blondel presso Moore) oppure nel quinto, (Gibbon, D’Aubigne) oppure nel sesto, (Ospiniano) oppure nel settimo (Newman, Palmer) oppure nell’ottavo ( Pastor Claudio verso Bossuet), oppure nel nono (Newman, Palmer).

Bibbia: Questi tuoi tanti oppure, oppure sono una prova più forte per convincerti di turpe contradizione, e di mala fede, il peggio si è che in ciò tu sostieni una grande eresia, contraddicendo al Divin Redentore, il quale ha solennemente promesso chela sua Chiesa non sarebbe mai venuta a mancare. Ecco le sue parole …« E io dico a te che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei » (Matt. XVI, 18); « Ecco che io sono con voi per tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli » (Matt. XXVIII, 20) E S. Paolo dice : «  Chiesa di Dio vivo (è) colonna e sostegno della verità. » ( I Tim. III, 15; Ps. XLVII; Isa. IX, 7; LXI, 1,8; Mich. IV 7; Luc. I, 13; IV, 18)

3. Prot. È scritto: « Quando verrà il Figliuolo dell’ uomo, credete voi che troverà fede sopra la terra? » (Luc. XVIII, 8). « Non vi lasciate sì presto smuovere…. quasi imminente sia il dì del Signore …  imperocché (ciò non sarà) se prima non sia/seguita la ribellione, e non sia manifestato l’uomo del peccato (II Tess. II, 12). Qui è chiaramente predetto, che verso la fine del mondo perirà totalmente la Chiesa. Onde ben vedete che quella divina promessa ha sicuramente le sue buone eccezioni.

Bibbia. Parlando del medesimo tempo, dice ancora il Redentore che « Falsi Cristi e falsi profeti faranno miracoli grandi e grandi prodigi, da far che sieno ingannati, se fosse possibile, anche gli stessi eletti. Ma saranno accorciati que’ giorni in grazia degli eletti. » (Matt. XXIV, 22, 24). Oltre a ciò, riguardo al medesimo tempo, sta scritto: Vidi un Angelo che…. gridò ad alta voce ai quattro Angeli, ai quali fu data commissione di far del male alla terra e al mare, dicendo: Non fate male alla terra e al mare, né alle piante sino a tanto che abbiamo segnati nella fronte i servi del nostro Dio. E udii il numero dei segnati, cento quaranta quattro mila segnati di tutte le tribù dei figliuoli d’Israele…. Dopo di questo vidi una turba grande, che nessuno poteva numerare di tutte le genti e tribù, etc. » (Apoc. VII, 2 e segg.) Dunque neppure allora sì perderà la fede, non perirà la Chiesa; giacché un’immensa moltitudine si manterrà costantemente fedele. Pertanto il primo testo da te citato non deve intendersi che tutti perderanno la fede, ma che molti non avranno una fede viva pel raffreddamento della carità; ed il secondo, che la ribellione sarà di molti, non già di tutti. Ciò dichiara lo stesso Divin Redentore, dicendo: « Sorgeranno molti falsi profeti e sedurranno molta gente…. E poiché sarà abbondata l’iniquità, raffredderassi la carità di molti » (Matt. XXIV, 11, 12).

4. Prot. Stringenti sono le vostre ragioni, nè vi è da opporsi, imperocché: «Avendo Gesù-Cristo detto a S. Pietro, ed io dico a te che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa;facilmente si vede che Cristo con queste parole promette alla sua Chiesa la forza di non perire. » (Rosenmuller) « Il senso pertanto di queste parole di Gesù-Cristo è che niuna forza nemica, anche potentissima e massima, mai potrà rovesciare, o distruggere la sua Chiesa. (Kuinoel) « Se da noi s’immagina che tutti i Pastori della Chiesa abbiano potuto errare ed ingannare tutti i fedeli; come si potrebbe difendere la parola di Gesù Cristo, il quale ha promesso a’ suoi Apostoli, ed in persona diessi ai lor successori, di esser sempre con loro? Promessa che in tal caso non sarebbe verìdica: poiché gli Apostoli viver non potevano sì lungo tempo (sino alla consumazione de’ secoli), se in esse non  fossero alati compresi i successori dei medesimi Apostoli. » (Dr. Bull angl.). « Secondo il sentimento dei Padri, non vi ha dubbio che insieme ai segni ci vengano poste innanzi eziandio le cose stesse, ma in una guisa tatto oltre natura, o soprumana. Coloro che aderiscono ai protestanti (ed è questa l’opinione mia), come fuori d’intelletto pel furore di disputare, pure conoscono troppo bene gli insegnamenti dell’antica Chiesa, e come in oggi continui la Chiesa Cattolica. Se non che fanno le viste di non intender nulla, per aver agio di ordire a loro posta e mettere in ordine le fila di qualche cosa per coloro che si addanno e si acconciano più facilmente co’ sensi del corpo che con quelli dell’anima. » (Grozio). Concludo confessando che « Nel Papato vi hanno verità di salute. anzi tutte le verità di salute che abbiamo ereditate: poiché egli è nel Papato che noi troveremo le vere Scritture, il vero Battesimo, il vero Sacramento dell’altare, le vere chiavi che rimettono  i peccati, la vera predicazione, il vero catechismo, che contiene l’orazione Domenicale, gli articoli della fede, ed aggiungo, il vero Cristianesimo » (Lutero, Op. Germ.) Ecco quanto vi confesso di credere, né perciò punto mi contradico sostenendo le mie prime asserzioni.