CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: DICEMBRE

DICEMBRE è il mese che la Chiesa dedica alla Immacolata Concezione ed alla Natività di N. S. Gesù-Cristo

Si dà nella Chiesa latina, il nome di Avvento al tempo destinato dalla Chiesa a preparare i fedeli alla celebrazione della festa di Natale, anniversario della Nascita di Gesù Cristo. Il mistero di questo grande giorno meritava senza dubbio l’onore d’un preludio di preghiera e di penitenza: cosicché sarebbe impossibile stabilire in maniera certa la prima istituzione di questo tempo di preparazione, che ha ricevuto solo più tardi il nome di Avvento. L’Avvento deve essere considerato sotto due diversi punti di vista: come un tempo di preparazione propriamente detta alla Nascita del Salvatore, mediante gli esercizi della penitenza, o come un corpo d’Uffici Ecclesiastici organizzato con lo stesso fine. – Nella prima venuta, dice San Bernardo nel quinto sermone sull’Avvento, egli viene nella carne e nell’infermità; nella seconda viene in spirito e in potenza; nella terza, viene in gloria e in maestà; e la seconda Venuta è il mezzo attraverso il quale si passa dalla prima alla terza ».

… dichiariamo, affermiamo e definiamo rivelata da Dio la dottrina che sostiene che la beatissima Vergine Maria fu preservata, per particolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, immune da ogni macchia di peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento, e ciò deve pertanto essere oggetto di fede certo ed immutabile per tutti i fedeli [“INEFFABILIS DEUS” di S. S. Pio IX]

 « Lungi da ciò – ci dice il Venerabile Beda nel suo commento a san Luca – bisogna che alziamo la voce di mezzo alla folla, come quella donna del Vangelo che raffigura la Chiesa cattolica, e diciamo al Salvatore: Beato il seno che ti ha portato e le mammelle che ti hanno allattato! ». Prerogativa incomunicabile, infatti, e che stabilisce per sempre Maria Madre di Dio e Madre del genere umano. Ma non è detto con ciò che dobbiamo dimenticare la risposta che il Salvatore diede alla donna di cui parla san Luca: Più beati ancora – egli dice – quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica! (Lc. II, 28). – […] « Con questa sentenza – continua il Venerabile Beda – Cristo dichiara beata non più soltanto colei che ebbe il favore di generare corporalmente il Verbo di Dio, ma anche tutti coloro che si impegneranno a concepire spiritualmente quello stesso Verbo mediante l’obbedienza della fede, e che, praticando le opere buone, lo genereranno nel proprio cuore e in quello dei fratelli, e ve lo nutriranno con cura materna. Se dunque la Madre di Dio è chiamata giustamente beata perché è stata il ministro dell’Incarnazione del Verbo nel tempo, quanto più è beata per essere rimasta sempre nel suo amore! ». [Dom Gueranger]

FESTE DI DICEMBRE

1 Dicembre Primo venerdì

2 Dicembre S. Bibianæ Virginis et Martyris    Semiduplex –    

                          Primo Sabato

3 Dicembre Dominica I Adventus    Semiduplex 1st class *I*

4 Dicembre S. Petri Chrysologi Epíscopi Confess. et Ecclesiæ Doc. – Duplex

5 Dicembre S. Sabbæ Abbatis    Simplex

6 Dicembre S. Nicolai Epíscopi et Confessoris    Duplex

7 Dicembre S. Ambrósii Epíscopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

8 Dicembre In Conceptione Immaculata Beatæ Mariæ Virginis    Duplex I. cl.

9 Dicembre De II die Infra Octavam Concept. Immac. Beatæ Mariæ Virginis    Feria major

10 Dicembre Dominica II Adventus    Semiduplex 2nd class

11 Dicembre S. Damasi Papæ et Confessoris    Duplex

12 Dicembre De V die Infra Octavam Concept. Immac. Beatæ Mariæ Virginis    Feria major

13 Dicembre S. Luciæ Virginis et Martyris    Duplex

14 Dicembre De VII die Infra Octavam Concept. Immac. Beatæ Mariæ Virginis    Feria major

15 Dicembre In Octava Concept. Immac. Beatæ Mariæ Virginis    Duplex majus

16 Dicembre S. Eusebii Epíscopi et Martyris    Semiduplex

17 Dicembre Dominica III Adventus   Semiduplex 2nd class – inizio ‘O’ degli inni solenni (dicembre 17-23 dicembre)

20 Dicembre Feria IV Quattuor Temporum Adventus    Feria privilegiata

21 Dicembre S. Thomæ Apostoli    Duplex II. classis

22 Dicembre Feria VI Quattuor Temporum Adventus    Feria privilegiata

23 Dicembre Sabbato Quattuor Temporum Adventus    Feria privilegiata

24 Dicembre In Vigilia Nativitatis Domini    Duplex I. classis *L1*

25 Dicembre In Nativitate Domini    Duplex I. clasis *L1*

26 Dicembre S. Stephani Protomartyris    Duplex II. classis *L1*

27 Dicembre S. Joannis Apostoli et Evangelistæ    Duplex II. classis *L1*

28 Dicembre Ss. Innocentium    Duplex II. classis *L1*

29 Dicembre Die quinta post Nativitatem    Feria privilegiata *L1*

30 Dicembre Die sexta post Nativitatem    Feria privilegiata *L1*

31 Dicembre Dominica Infra Octavam Nativitatis    Semiduplex Dominica minor

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (16) – GNOSI E BUDDISMO -4-

GNOSI: TEOLOGIA di Satana (16)

“omnes dii gentium dæmonia”

GNOSI E BUDDISMO -4-

Sul nostro studio sulla gnosi ed il buddhismo, abbiamo dimostrato come il buddhismo non era altro che gnosi manichea diffusa in Asia, che il vero Buddha non era altri che lo stesso Mani, e che la dottrina buddhista non è che lo sviluppo dell’insegnamento di Mani al quale si sono mescolati, nel corso dei secoli, molteplici leggende popolari che non hanno naturalmente sfigurato l’essenziale della dottrina. – Per questo abbiamo mostrato come le più antiche pitture murali dei più antichi monasteri buddhisti in rovina dell’Asia centrale, siano dipinti manichei, che i più antichi  manoscritti scoperti in questi stessi monasteri siano trattati manichei, ricopiati dai monaci buddhisti nel corso del VII ed VIII secolo della nostra era. Queste scoperte erano già state conosciute in Occidente, negli anni 1920-1930, ma sono rimaste ignorate perché “sistematicamente” occultate dagli storici dell’Asia. In effetti, tali scoperte li inducevano e rigettare tutte le ricostruzioni cronologiche arbitrarie del XIX secolo ed a riconoscere la cattiva fede di questi storici che non avevano esitato a fabbricare la storia con delle leggende ed a giocherellare senza pudore con i secoli. – Noi abbiamo ugualmente dimostrato che l’insegnamento di Mani ed i riti dei monaci buddhisti sono l’esatta riproduzione dei rituali manichei scoperti in questi stessi monasteri. Noi non abbiamo inventato queste dimostrazioni: esse sono state sostenute da osservatori perspicaci e non sensibili alle mode intellettuali dei loro tempi. Abbiamo citato questo padre Giorgi, che nel XVIII secolo ha dimostrato che il buddhismo non era altro che una deformazione del Cristianesimo dovuta all’azione perversa dei manichei: egli era infatti ben informato dai missionari insediati nel Tibet. Uno di essi, un portoghese, il p. Antonio D’Andrade, residente a Tsaoarang, nel 1624 aveva notato la formula magica con la quale i tibetani pregavano il loro Buddha: « Om mani padmé hum », che i monaci traducevano così: « Mio Dio, salvaci ». Ma questo “dio salvatore”, esso lo chiamano sempre, ed ancora oggi: MANI. Questa formula è scritta sulle loro grandi banderuole che fluttuano al vento, sulle loro campane e sui loro scranni da preghiera. – Risaliamo a qualche secolo addietro. Nel 1246, San Luigi inviò presso il gran Khan di Tartaria un religioso domenicano, il fr. Guglielmo de Rubrek. Questi intraprende diverse grandi controversie con un monaco cinese, che egli chiama un tuyan, cioè un taoista (il Tao è la gnosi della Cina). Egli tratta della molteplicità degli dei, della natura e della causa del male, etc. ed oppone ai cinesi la vera dottrina cristiana e mostra che conosce molto bene la dottrina di coloro che chiama idolatri, adoratori dei loro buoni auspici. Egli precisa nella sua “Relazione: « Tutti in effetti professano questa eresia dei Manichei, secondo i quali la metà delle cose è cattiva, e l’altra metà buona, e che vi sono almeno due principi; quanto alla anime, essi pensano che esse passino da un corpo all’altro ». il traduttore, A. T’serstevens, aggiunge in nota: “Beninteso, il cinese non è manicheo ma è buddhista” e le sue prime proposizioni si collegano a questa religione. Rubruk, che abbiamo visto visitare dei templi buddhisti, non sembra avere alcuna idea del buddhismo. Occorrerà attendere Marco Polo per averne le prime nozioni”. Il “beninteso” è ammirevole. T’serstevens si crede un teologo e filosofo più abile del religioso domenicano e manifesta a suo riguardo un disprezzo che dimostra la sua ignoranza della vera natura gnostica del buddhismo. – Su tale argomento, pensiamo sia utile ricordare questa definizione del buddhismo dovuto ad un erudito dell’ultimo secolo, Philarètes Chasles (professore al Collegio di Francia, uno dei “padri” della letteratura contemporanea): « Questi dogmi buddhisti si avvicinano in modo strano ai simboli e ai dogmi cristiani. Vi si ritrova, sotto diversa forme, il frutto del male e del bene, che non è più una mela, bensì un fico;  Eva soccombente alla tentazione, il serpente tentatore, la vergine che dà il seno al Redentore – tutto ciò che il credo cristiano contiene di fondamentale, o di simbolico e misterioso … L’idea dell’incarnazione divina in un essere umano ne costituisce il fondamento stesso e l’essenza. Il buddhismo va oltre, esso la moltiplica come in altri tempi gli gnostici e stabilisce la possibilità per l’uomo di diventare “Dio” e di riunirsi alla sostanza eterna. L’ortodossia cristiana accetterebbe la maggior parte dei precetti inculcati dalla morale buddhista (?). Si crede, scorrendo i loro trattati ascetici, di leggere Gerson o il mistico Taler … »  Ecco una buona definizione del buddhismo: “un Cristianesimo sfigurato dalla gnosi”. – A queste dimostrazioni che ci sembrano definitive, non ci si può opporre che le cronologie stabilite da storici dell’Asia, cronologie false, completamente da rigettare. Così come è impossibile basarsi sulle dichiarazione degli stessi buddhisti. Il valore delle tradizioni indiane è praticamente nullo in questo ambito. James Fergusson scrive al proposito: « Chiunque abbia viaggiato in India sa di quali insegnamenti può avere, anche da parte dei migliori e più intelligenti brahmani, sulla data dei templi in cui hanno servito essi ed i loro ancestri dopo la loro edificazione. Mille o due mila anni è la datazione fornita per dei templi che noi sappiamo perfettamente non avere che due o tre secoli di esistenza. – Applichiamo questo principio ai manoscritti buddhisti. I più antichi attualmente conosciuti non vanno oltre il Medio-Evo, e precisiamo pure: il basso Medio-Evo, XIII e XIV secolo! Se si risale più indietro, si trovano solo i manoscritti manichei  dei quali abbiamo trattato. Il poema sanscrito più antico sulla vita di Buddha intitolato il « Buddha-charita » è attestato per la prima volta in India nel 673 dopo Cristo. Il « Laita Vistara » è conosciuto da una versione cinese del VI secolo della nostra era e non prima. – In una lettera a W. S. Lilly, il cardinale Newman aveva già protestato energicamente contro le fantasie degli storici indianisti: « Per provare l’autenticità e la datazione dei nostri Vangeli, noi abbiamo una massa di manoscritti di diverse date e famiglie differenti, una moltitudine di testimonianze e di citazioni, sia dei Padri, sia di altri autori; poi, onde soddisfare alle esigenze della nostra critica, si deve avere coincidenza perfetta tra i testi dei diversi manoscritti. Se in tutti i manoscritti scoperti non si ritrova un passaggio, esso è condannato … perché allora non chiedere tali garanzie prima di ammettere come vera la storia di Buddha? » – Ci si può stupire in effetti, dell’estrema facilità con la quale gli indianisti abbiano accettato tutte le leggende buddhiste, senza il minimo spirito critico, nell’epoca in cui l’esegesi modernista arzigogolava con acrimonia contro le pretese contraddizioni dei manoscritti del Nuovo Testamento. Le leggende di Buddha, come quelle delle recite musulmane sulle vita di Maometto, hanno beneficiato di una indulgenza inammissibile e colpevole da parte di scrittori, per altro molto severi a riguardo delle fonti manoscritte del Cristianesimo. Ci sono due pesi e due misure evidentemente che lasciano perplessi sulla buona fede e sulla serietà di questi autori. – Vediamo le cose più da vicino:

.1°) Il “Dialogo di Milanda” ci è noto da una versione cinese del VI secolo della nostra era. Esso racconta la conversione di un re indiano, Milanda, operata da un monaco buddhista. Saltando a piè pari svariati secoli, alcuni storici hanno preteso di identificare Milanda con il re greco Menandro, vussuto nel I secolo a. C., identificazione da molti contestata. Ma noi possediamo una vita di Menandro, scritta da Plutarco nel secondo secolo della nostra era, nella quale non c’è accenno alcuno alla questione di buddha e del buddhismo. –

.2°) Esiste una moneta di Kanischka rappresentante Boddo, in piedi, con la mano destra alzata nel gesto di un maestro che insegna ai suoi discepoli e che porta un manipolo al braccio sinistro, il manipolo del sacerdote cristiano. Si è preteso che il re Kanischka fosse vissuto nel primo secolo della nostra era, senza precisare che vi furono diversi re con questo nome che hanno regnato durante i primi secoli del Cristianesimo.

3°) La leggenda di Açoka (il “re pio”, cioè colui che dà generosamente per la costruzione dei monasteri) è contenuta nel “Mahavansa”, la cui redazione non risale oltre il V secolo della nostra era. James Prinzep, un erudito inglese, ha decifrato diverse inscrizioni sopra alcune rocce, nelle quali Açoska, « l’amico degli dei e delle leggi » enumera i popoli che egli ha convertito al buddhismo. Tra questi cita dei re di Yavanas (vale a dire dei Greci), chiamati Ptolémeo, Antioco, Antiochus, etc. Frettolosamente si è voluto identificare questi re con i discendenti dei generali di Alessandro e, danzando sui secoli, si è preteso che Açoka abbia regnato nel III secolo a. Cristo. Lo si è pure chiamato “l’imperatore delle Indie” con un anacronismo nient’affatto giustificato; la città d Taxila, della quale sarebbe stato re, era in realtà una piccola città del Gandhara. – Ora, è certo che il buddhismo non sia mai penetrato né in Babilonia, né in Siria, né in Egitto, ove non si è mai trovata la benché minima traccia che possa testimoniare anche di un transito momentaneo di questa religione; la stele di Açoka precisa anche il nome di una città, Alessandria, che si è voluto identificare come la capitale dell’Egitto. Tutto questo è pura impostura! Noi sappiamo oggi che piccoli regni greci si sono perpetuati nelle montagne dell’Asia centrale, in Bactriana e Sogdiana, fino alla conquista maomettana, cioè fino al VII secolo della nostra era. I loro re portavano dei nomi greci. In quest’epoca esistevano pure piccole città greche che portavano il nome di Alessandria, in particolare nel Caucaso. Come la stele di Açoka enumera, al fianco dei re greci, dei re di Huns, vediamo bene che essa designa con ciò i capi di questi piccoli stati dell’Asia centrale. – Ma se si vuole ben esaminare attentamente la storia del buddhismo alla luce delle datazioni rettificate, si comprende chiaramente che essa corrisponde perfettamente all’espansione del manicheismo nell’Asia. Mani ha insegnato in India ed in Asia nel III secolo della nostra era. I monasteri manicheo-buddisti si sono diffusi in queste regioni nel corso del V e VI secolo. È in quest’epoca che apparvero pure le leggende di Milanda, di Açoka, dello stesso Buddha. Esse sono tradotte in cinese verso la fine del VI  secolo, seguendo la “via della seta”. Nel VIII e X secolo si ritrovano i manoscritti manichei tra le rovine di questi monasteri, ricopiati dai monaci buddhisti dell’epoca. È tutto chiaro e semplice, c’è una successione naturale e logica dei fatti che prendono posto in un mosaico storico allora ben conosciuto. – Infine conviene precisare che questa storia falsificata del buddhismo, che ha finito per imporsi dappertutto, non è il risultato di un gioco innocente, o di ricerche superficiali fatte da dilettanti incompetenti, ma tutto è stato abilmente manipolato con l’intenzione appena camuffata di demolire la fede nelle anime cristiane. Vediamo il caso, nel secolo scorso del più grande indianista, Eugène Burnouf. Nella sua “Introduzione alla storia del buddhismo”, apparso nel 1844, egli insinuava: « Ci sono poche credenze che si fondano su di un piccolo numero di dogmi ed impongono al senso comune meno sacrifici, io parlo qui in particolare del buddhismo che mi sembra essere il più antico, il buddhismo umano e, se oso chiamarlo così, è perché è quasi tutto interamente compendiato in regole molto semplici di morale …” . Nel dire che il buddhismo fosse la religione primitiva dell’umanità che si trova alla radice di tutte le religioni, Barnouf insinuava che il buddhismo avrebbe potuto agire sul Cristianesimo con l’intermediazione degli Esseni che avrebbero trasmesso a Gesù-Cristo la tradizione monastica. Tutto questo ovviamente senza la benché minima prova … C’era di conseguenza una cascata di contro-verità suggerite, lasciate alla libera interpretazione dei suoi discepoli. I suoi uditori entusiasti gli chiedevano di dimostrare “che il padre zoroastriano e l’India buddhica avessero in diversi punti preceduto ed spirato il Vangelo”. « Concludete dunque » essi dicevano, stimolandolo a fornire ai pensatori « il punto di partenza per lo slancio verso un mondo nuovo ». Ma più abile e più prudente, Burnouf si accontentava di sorridere … – Davanti a questi insegnamenti sì conturbanti, i cattolici sprofondavano in una timidezza patologica. Un certo abate Deschamps osò manifestare una “rispettosa riserva” nei riguardi di Prinzep e di Barnouf. Si contentò di notare, per la prima volta, certe analogie tra la leggenda di Çakiamouni e gli apocrifi cristiani, evidenti in particolare nel “Lalista vistar”. – Sulle devastazioni religiose che questa presentazione del buddhismo ha potuto provocare tra anime sincere, noi abbiamo la testimonianza di un critico letterario, Ferdinand Brunetière, che all’inizio del secolo scorso ha confessato, nelle sue “Difficoltà a credere” come egli fosse stato trattenuto per quindici anni sul cammino dell’adesione alla fede cristiana. Egli è stato, tra molti altri, vittima di una monumentale impostura! È la medesima impostura che è stata propinata agli sbigottiti fedeli, dagli gnostici, coscienti o meno, che hanno stilato i documenti del falso concilio, o meglio il conciliabolo Vaticano II [solo per inciso ricordiamo che la bolla “Exsecrabilis” di Pio II ha condannato anzitempo tutti gli organizzatori, i fautori e gli aderenti ad un concilio, o ai suoi documenti fasulli, che ribaltavano Sentenze Pontificie precedenti, con la terribile scomunica “ipso facto”, “latæ sententiæ”!], quando hanno “sdoganato” con assoluzione piena le false religioni orientali, tutte infarcite, come constatato, di manicheismo gnostico, o per meglio dire di pensiero gnostico addobbato con kimono, turbante, codino ed occhi a mandorla, in pratica: satanismo puro! In uno dei documenti più sbandierati dalla setta modernista [Nostra Ætate, sess. VII] si può infatti leggere con raccapriccio: « … così nell’induismo scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia; essi cercano la liberazione dalle angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza. Nel Buddhismo, secondo le varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole, e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di raggiungere lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema, sia per mezzo dei propri sforzi, sia con l’aiuto venuto dall’alto [che in realtà viene solo dal basso –ndr. -]. Ugualmente anche le altre religioni che si trovano nel mondo intero si sforzano di superare, in vari modi, l’inquietudine del cuore umano proponendo delle vie, cioè dottrine, dei precetti di vita e dei riti sacri. … la chiesa cattolica [quella falsa – ndr. -] nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni … ». Questa è una dichiarazione chiarissima di accettazione delle dottrine gnostiche orientali, ed una confessione che la nuova dottrina del falso concilio è in realtà la medesima in “salsa vaticana”: il Manicheismo gnostico! Ergo: concilio falso, Papa falso [i massoni gnostici Roncalli e Montini], dottrina falsa, chiesa falsa!!! … più chiaro di così !?! … c’è bisogno forse che Lucifero parli al tg1?

[Fine]

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (15) – GNOSI E BUDDISMO -3-

GNOSI: TEOLOGIA di Satana (15)

“omnes dii gentium dæmonia”

GNOSI E BUDDISMO –3-

Un mondo seduto all’ombra della morte

Per tutto l’esposto che precede vediamo bene che l’Asia ha ricevuto la sua ispirazione religiosa del Cristianesimo, un Cristianesimo però sfigurato dalla gnosi manichea. René Grousset, per esempio, nel suo “Bilancio della Storia” ha ben ragione di mostrare le numerose e suggestive interferenze tra l’arte religiosa dell’India e quella del nostro Medio-Evo cristiano. Egli ci trascrive le parole attribuite al Buddha che sembrano ispirate dai Vangeli: « Fare un po’ di bene vale più che compiere delle opere difficili. – Se si vogliono comprendere i frutti dell’elemosine, non si mangerebbe il proprio ultimo boccone di cibo senza averne donato. – L’uomo perfetto non è niente se non diffonde benefici sulle creature, se non consola gli abbandonati. – La mia dottrina è una dottrina di misericordia, ecco perché i felici del mondo la trovano difficile. – C’è un sacrificio più felice del latte, dell’olio, del miele: è l’elemosina. – Invece di immolare gli animali, lasciateli andare … ». Ma non possiamo seguire René Grousset quando ci spiega che queste parole sono un “progresso evangelico” e che esse segnano una posizione di attesa, un presagio della carità cristiana. Se possiamo affermare che il Buddha, l’illuminato non era altri che Mani, è evidente che il suo insegnamento è in parte ispirato ai Vangeli. L’appello di Gesù-Cristo è stato inteso fino in fondo alla Cina. Si legge nella “Storia universale” di Cantu che Confucio stesso disse ad un ministro dell’imperatore della Cina: « Io ho saputo che nei paesi dell’Occidente nascerà un uomo santo senza esercitare alcuna carica di governo, che farà discorsi senza parlare, attirerà una fiducia universale, senza operare sconvolgimenti, produrrà un oceano di azioni. Nessuno può dire il suo nome, ma io ho sentito dire che egli sarà il vero santo ». Conformemente a questa credenza e sessantacinque anni dopo la nascita di Cristo, l’imperatore Ming-Ti, colpito dalle parole di Confucio, inviò due grandi del suo regno in Occidente, con l’ordine di non tornare finché non avessero trovato il “Santo” che il cielo aveva fatto conoscere, e finché non avessero appreso la legge che insegnava. Malauguratamente, gli inviati, affranti dai pericoli e dalle fatiche del viaggio, si fermarono in India, si istruirono nella religione buddhista  e riportarono la statua del suo fondatore, sotto il nome di Fa. Fu così che il buddhismo venne introdotto in Cina. Così dunque, e se si può accordare una parte di verità a questa legenda, l’insegnamento di Buddha si è sostituito a quello di Gesù-Cristo in tutta l’Asia. Ora il Buddha insegnava una gnosi dualista e panteista. Un missionario dell’ultimo secolo, il padre Leboucq, riassume così l’insegnamento orale di Confucio.

1° Dio è l’essere degli esseri, il principio universale, il tronco di tutto ciò che esiste. È la “grande anima” dell’universo, e presiede all’armonia del mondo.

2° l’anima umana e le sue facoltà intellettuali sono una derivazione della grande anima, dell’anima universale.

3° La morte è una separazione, una decomposizione delle due sostanze che l’essere degli esseri ha unito nell’uomo. La sostanza materiale ricade nella massa degli esseri fisici. La sostanza spirituale risale al grande essere e si riunisce a lui. » –

Si ritrovano le medesime formule panteiste negli scritti di Lao-Tseu, ed è il Taoismo. Il Tao, cioè la “via”, è una sorta di potenza impersonale, indefinibile, indifferente e vuota, che si è diffusa dappertutto ed è considerata come “il principio immanente dell’universale spontaneità”, ci dice Marcel Granet nel suo libro sul “Pensiero cinese”. L’uomo deve unirsi a questa potenza per possedere il sapere ed il potere e godere di una lunga vita. Egli vi perverrà immergendosi nella natura, fuggendo i contrasti sociali, allontanandosi dalle sterili agitazioni del mondo, evitando ogni attaccamento agli esseri ed alle cose, soprattutto ricorrendo all’estasi che gli procura un « saggio esercizio, e che solo può conservargli intatto l’essenza della vita. » Questa estasi gli appare come « una luce diffusa che è quella dell’alba, la visione di una indipendenza solitaria ». « Egli entra in ciò che non è né vivere né morire », lasciando cadere corpo e membra, bandendo vista ed udito, separandosi da ogni apparenza corporea ed eliminando ogni scienza », « egli si unisce a ciò che penetra tutto e dà continuità all’universo ». Egli così aderisce al Tao: si tratta quindi dell’unione mistica con un infinito immanente. Si riconosce in questa dottrina sia la gnosi dei primi secoli, sia lo yoga ed il nirvana dei buddhisti.  – Un dottore buddhista, Bodhidarma aveva per dieci anni insegnato in Cina verso l’anno 535 della nostra era. Nel 1050 comparve in Cina, sotto la firma di un monaco buddhista, il « Fondamento della religione » che sviluppava il pensiero corrente nel buddhismo cinese, che Buddha, Lao-Tse e Confucio non hanno predicato che un’unica e medesima dottrina. Si posero allora nei templi buddhisi le statue di Confucio e di Lao-Tse ai lati di quelle di Buddha, Lao-Tse alla sua sinistra, che è il posto d’onore in Cina, e Confucio alla sua destra. Poi il buddhismo cinese penetrò in Tibet dove divenne lamaismo; si diffuse poi in Mongolia, poi nel nord della Cina, in Corea, e da qui in Giappone. Grazie a Shinto, si trasformò e si adattò all’affermazione del mondo. Shinto è come il Lutero del buddhismo. Egli nega l’utilità delle opere per ottenere la salvezza, rigetta i pellegrinaggi, la penitenza, il digiuno, il celibato dei sacerdoti, dei monaci e delle suore. I missionari gesuiti che penetrarono in Giappone verso la metà del XVI secolo, sottolinearono immediatamente la parentela spirituale dello Shintoismo con l’eresia luterana. – Questa invasione della gnosi buddhista fu una catastrofe per l’Asia. Il ciclo delle trasmigrazioni – nascere, soffrire, rinascere per soffrire eternamente e piombare nel nulla – fu come una “tunica di Nesso” imposta al mondo asiatico. René Grousset ha ragione nel mostrarne il carattere suicida. Esso giunge alla sparizione della personalità in una totale vacuità, nell’evanescenza del nirvana. La pratica dello Yoga, il “giogo”, implica una fusione con il principio supremo, con l’anima cosmica. È un ascetismo spersonalizzante, che provoca una quantità di abusi sociali, e le pratiche più assurde della magia! – La metempsicosi non ha nulla a che vedere con un Dio caritatevole e salvatore. È piuttosto uno strumento di terrore; essa fa pesare su milioni di esseri la spaventosa fatalità con cui ottenebrerà il mondo asiatico. Nel corso della reincarnazione la salvezza non è che apparente, perché al termine non c’è più nulla, non l’uomo, non l’amore, solo un oceano immenso e senza rive. Il riassorbimento finale nel gran-tutto-pleroma, nel nirvana, che ne è la traduzione in sanscrito, è il trionfo del niente sull’essere: pertanto non vale la pena cominciare il gioco del mondo e dell’uomo se poi ci si deve annientare ancora e ricominciare incessantemente nello stesso senso in circolo. Sarebbe stato inutile fare l’essere per poi ricondurlo al non-essere. Non c’è che il demonio ad interessarsi di questo! La penetrazione gnostica in Asia, sotto la sola forma buddhista, non ha incontrato una resistenza energica e sostenuta da parte di spiriti sensati. Talvolta tuttavia si notano reazioni intelligenti e piene di buon senso contro questa depersonalizzazione degli individui. Il pio letterato confuciano, Fou-Yi, aveva in orrore il buddhismo. Nel 626 della nostra era, rimetteva all’imperatore Li-Yuan una memoria in cui enumerava le sue proteste: « La dottrina buddhista è piena di stravaganze ed assurdità. La fedeltà dei soggetti al suo principe e la pietà filiale sono dei doveri che questa setta non riconosce. I suoi discepoli passano la loro vita nell’ozio, senza darsi alcuna pena. Se essi portano un abito diverso dal nostro, fanno sì che i semplici corrano dietro ad una felicità chimerica ed ispirano loro il disprezzo per le nostre leggi e le sagge istruzioni degli anziani. Questa setta, aggiunge, conta oggi più di centomila bonzi e tanti bonzi vivono nel celibato. Sarebbe nell’interesse dello stato obbligarli a maritarsi … attualmente queste persone sono a carico della società, e per il loro oziare, vivono a sue spese. Rendendoli membri di questa stessa società, li si farebbe concorrere al bene generale e cesserebbero di togliere allo Stato delle braccia che potrebbero servire alla sua difesa. » Ecco una diatriba severa ed in parte giustificata. Se si elimina la preoccupazione politica che anima Fou-Yi, si comprende che i rimproveri fondamentali che indirizza ai buddhisti sono identici ai rimproveri che faranno, in Occidente, alcuni secoli dopo, gli inquisitori agli Albigesi. In effetti, gli Albigesi erano gli eredi dei manichei in Occidente, come i buddisti in Oriente. Si rimprovera loro il rifiuto del giuramento alle autorità, il rifiuto della vita e della procreazione, il desiderio di evadere dal mondo per raggiungere il “pleroma”. Dai due lati, princîpi identici hanno provocato attitudini simili nei confronti della vita e dei princîpi similari, differenziati solo dalle circostanze e dalle contingenze proprie a ciascuno dei due mondi. – Infine è interessante studiare la ripresa del contatto tra l’Occidente cristiano e l’Oriente buddhista, nel XVI secolo all’arrivo dei missionari cattolici in Asia. Questo incontro provocò reazioni importanti. Dapprima un grande stupore alla vista di pratiche religiose che sembravano ricopiate sulla liturgia cristiana. In seguito una evangelizzazione difficile ed audace quando questi missionari, soprattutto i Gesuiti, ebbero compreso la perversione intrinseca delle dottrine. – San Francesco Saverio attendeva a Singapore un battello per evangelizzare il Giappone. Egli aveva battezzato un giapponese chiamato Henjiro con il nome di Paolo.  Questi gli spiegò che nel suo paese si praticava già la religione cristiana. C’erano dei monaci celibatari che vivevano in conventi, digiunavano frequentemente e pregavano di notte. Parlavano tra di loro una lingua sconosciuta dal popolo, credevano in un Dio unico, obbedivano ad un abate e conducevano una vita edificante. Essi insegnavano l’inferno, il purgatorio, il cielo e veneravano numerosi santi pregandoli di intervenire per Dio unico ed Onnipotente, come fanno i cristiani. Francesco Saverio scrive: « Secondo la comunicazione che mi ha fatto Paolo, la Cina, il Giappone, la Tartaria obbediscono ad una legge religiosa comune che si insegna in una città chiamata Chynopinquo. Paolo, con comprendendo la lingua nella quale è redatta questa legge religiosa: è, egli dice, una lingua che, come da noi il latino, si usa per la composizione dei libri sacri. Egli non ha saputo darmi altre delucidazioni sul contenuto di questi libri ». Si trattava del buddhismo, e questa lingua era il sanscrito! Francesco Saverio ne concluse che questi paesi senza dubbio erano stati evangelizzati in un passato lontano e si chiese se la fede dei giapponesi non fosse una sorta di Cristianesimo alterato da tradizioni pagane. Su consiglio di Hanjiro, egli denominò Dio con il nome conosciuto in Giappone, di “Dainitschi”, che vuol dire: Creatore di tutte le cose. I bonzi soddisfatti, dichiararono che il Dio dei “Barbari del sud” non era altri che il loro Dio e che il Cristianesimo era una setta buddhista!!!  « Tra voi e noi, dicevano a Saverio, non c’è che differenza di linguaggio; la nostra fede è a stessa ». Essi accolsero questo fratello “straniero” nel modo più amabile. Lo invitarono nei loro conventi e gli fecero dei solenni ricevimenti. Alcuni bonzi passarono al Cristianesimo e si fecero battezzare da Saverio. Pericolosa illusione! Le somiglianze del culto e della liturgia nascondevano l’« opposizione fondamentale che esisterà sempre tra la vera fede cristiana e la sua contraffazione satanica, la gnosi panteista ».  È quanto aveva ben compreso un altro gesuita, il padre de Nobili (1577-1650), che, nel secolo seguente, si sforzò di riconquistare i brahmani delle Indie al Cristianesimo. Per fare questo, si presentò egli stesso come brahmano, adottando il loro costume ed i loro modi di vivere, studiando i loro libri e decifrando il sanscrito. Il padre de Nobili, religioso romano formato dalla Scolastica più tradizionale, ci racconta come sia entrato in contatto con i primi brahmani che vennero a rendergli visita e ci riferisce del dialogo ammirevole che intraprese con essi. La sua prima conquista « … fu un uomo distinto per la sua nobiltà ed i suoi talenti, già promosso al grado di “guru” (sacerdote indù): io disputai con lui per una ventina di giorni, quattro o cinque ore al giorno ». – Il padre de Nobili illustra ai suoi superori romani le diverse tappe del suo dialogo: « Il primo giorno la conversazione ruotò su due punti: la moltitudine degli dei e la creazione. Io convinsi facilmente il mio dottore dell’unità di Dio con gli argomenti riguardanti la perfezione e l’indipendenza assoluta della natura divina. Quanto alla creazione la cosa fu più penosa. I sapienti di questo paese, partendo dal principio che niente si fa dal niente, ammettono tre cose eterne: padi, paju, passam (in sanscrito: pali, pasu e pasâm). Pali è Dio, paju è la materia dalla quale Dio produce le anime, passam è la materia con la quale forma i corpi. Io gli opposi gli argomenti ordinari della filosofia per provare che se paju non era creato, questa sarebbe Dio; poi mostrai che se padi non poteva creare o estrarre dal nulla, non era Onnipotente e di conseguenza non era Dio, poiché la sua azione, simile a quella delle cause seconde, si limitava a modificare le forme. Io sviluppai questo argomento con applicazioni e comparazione ed egli sembrò convinto. Il secondo giorno, parlammo della trasmigrazione delle anime. Egli si appoggiava fortemente sulla varietà delle condizioni dell’uomo che non potrebbero spiegarsi, egli diceva, se non ammettendo i meriti ed i demeriti anteriori alla vita presente. Egli diceva, con i platonici, che l’anima non è la forma del corpo, ma che si trova chiusa come l’uccello in una gabbia o il pulcino nel guscio dell’uovo. Io risposi: 1° che il corpo e l’anima costituiscono un composto che è l’uomo, che vive, si modifica, opera in maniera che le sue azioni non sono né del solo corpo né della sola anima, mentre l’uccello e la gabbia non hanno tra loro alcun rapporto naturale (quando un uomo abita in una casa, forse che la casa cresce con lui?); 2°) che avendo il peccato una infinita malizia, la differenza delle condizioni e le miserie passeggere della vita, non possono essere di per sé l’espiazione del peccato, 3°) che le differenze tra gli uomini, ricchi o poveri, brahmi o parias, gioiose o tristi, felici o infelici, provengono dalle cause secondarie delle quali Dio non è obbligato a sospendere l’azione, perché Egli vuole mostrarci con ciò quanto disprezzabili siano le grandezze, le ricchezze e le gioie di questo mondo in confronto a quelle che Egli ci ha riservato nell’altro e che possiamo meritare per il buon uso dei beni e con la pazienza nei mali. – Aggiunsi poi che in ogni società ben regolata c’è bisogno di una subordinazione; se tutti fossero re, sarebbero dei re fantasma, senza sudditi, dei generali senza soldati. Nel corpo umano, se tutte le membra fossero la testa, che mostro sarebbe! Infine conclusi con un argomento “ad hominem”: voi dite che Brahma estrae il primo uomo dalla sua testa, il primo rajah dalle sue spalle, il primo paria dai suoi piedi, etc., ora il primo uomo, il primo rajah, il primo paria, non possono avere alcun merito o demerito anteriore alla loro prima produzione, dunque … etc., ometto tutte le altre discussioni troppo lunghe e noiose. Dopo venti giorni di dispute, il guru si dichiarò vinto, si fece pienamente istruire nelle verità della religione, ricevette il Battesimo e prese nome di Alberto. Questa prima conversione ne produsse molte altre … ». Questo dialogo è molto interessante. Quando l’intelligenza umana non è legata al reale mediante il buon senso, quando non è più o non ancora perfezionata e consolidata dalla rivelazione cristiana, pende, come per naturale deficienza, ma che possiamo definire satanica, verso il panteismo. In effetti quando si tratta di capire il senso ultimo della natura, del mondo, delle cose che ci circondano e del nostro posto all’interno del mondo, il nostro spirito non ha molte soluzioni di ricambio al di fuori della verità. È questo che fa che tutte le eresie abbiano il loro punto comune nella gnosi panteista. –  Il padre de Nobili non ebbe meraviglia nel ritrovare nelle Indie nella bocca del brahmano, tutti gli errori che i suoi studi di scolastica gli avevano insegnato nel confutare gli eretici d’Occidente: l’idea di un dio demiurgo e fabbricatore, che estrae le forme dell’essere da una materia preesistente: è la tesi dei moderni evoluzionisti; l’idea di un’anima divina imprigionata in un carapace, la gabbia dell’uccello e il guscio d’uovo del pulcino: è ciò che ancora oggi insegnano i nostri esoteristi che si dichiarano cristiani; l’idea che la nascita è l’espiazione di una colpa anteriore nel mondo divino, è la base della credenza della trasmigrazione delle anime. Il padre de Nobili ha ritrovato in India la filosofia di Platone. Lo dice lui stesso. Ma se avesse saputo che Mani citava tra le fonti del suo insegnamento Platone ed Ermete Trismegisto e che era “egli” il vero Buddha, non sarebbe stato meravigliato di ritrovare Platone attraverso la dottrina buddhista. – Infine il padre de Nobili, nel corso delle sue ricerche sulle origini della religione indù, ha notato il vago ricordo di una rivelazione cristiana affondata sotto le elucubrazioni dei brahmani: « Una cosa che mi aiuta molto a fare delle conversioni, egli scrive, è la conoscenza che ho dei loro libri più segreti. Io ritrovo il constatare che si possedeva anticamente in questi paesi, quattro leggi o vedas, che tre di queste leggi sono quelle che i brahmani insegnano ancora oggi, e che la quarta era una legge tutta spirituale, in virtù della quale si poteva ottenere la salvezza dell’anima. Ora, egli aggiungeva, questa quarta legge è confusa in parte con le tre prime, ma la gran parte si è perduta interamente, e mai si è trovato un uomo così saggio e santo per ritrovarla. Essi assicurano di più, ed è parallelamente scritto negli stessi libri, che nessuna delle tre leggi che restano può dare la salvezza  e da ciò qualcuno conclude che non c’è salvezza da attendersi, e di conseguenza, che non c’è vita futura.»

Il boomerang dall’Oriente: la gnosi di “andata e ritorno”:

La Franco-massoneria, abbiamo detto già altra volta, è la « congregazione militante della gnosi ». Essa rivendica come suo grande ancestre, Mani, ed ha conservato i simboli manichei. I “fratelli” si chiamano tra loro «i figli della vedova ». L’acacia è un altro simbolo massonico; esso gioca un ruolo importante nella vita di Mani e di Buddha. L’abate Augustin Barruel ha sviluppato questo punto nelle sue “Memorie per servire alla storia del Giacobinismo”. Si sta tentando ora di riattualizzare la gnosi nel nostro mondo occidentale riportando gli insegnamenti religiosi dell’Asia. È quel che abbiamo chiamato « l’Induismo occidentalizzato ».  Con istinto molto sicuro, i franco-massoni hanno riconosciuto nel corso dei loro studi sul buddhismo, nel bramanismo e nelle tesi del pensiero orientale, i loro princîpi. Quale buona occasione per servirsene sotto gli abiti di forme esotiche e bizzarre in modo da renderla più venerabile! – Dopo l’inizio dell’ultimo secolo le mode orientali hanno invaso l’Occidente. Segniamo le tappe di questa nuova conquista che ha consentito un gran ritorno della gnosi universale. Essa è lanciata all’inizio del XIX secolo dai franco-massoni “illuminati” che si convertirono al Cattolicesimo , … essi dicevano, ma in effetti erano adepti della gnosi orientale. Essi sono alla radice del Romanticismo francese, come mostreremo in un successivo capitolo su “la gnosi ed il Romanticismo”. Goerres, un antico giacobino francese, si convertì alla nuova fede. D’accordo con la scienza, egli dice, i Germani diverranno i brahmani ed i salvatori dell’Europa. Goerres cerca in tutti i popoli dell’antichità le tracce di una rivelazione primitiva e la ritrova in Asia. Egli pubblica nel 1809 una “Storia dei miti del mondo asiatico”, ed annuncia la nascita di una religione germanica, miscuglio di scienze moderne, Cattolicesimo e protestantesimo. Il suo amico Arnim, scrive a Clemente Brentano, l’autore reale delle visioni di Anne Marie Emmerich: “ È un miracolo che Goerres, venuto da tanto lontano, si sia rapidamente convertito!” Ma si trattava in realtà di una conversione ad un germanesimo indo-europeo. Si percepiscono già in lui i primi elementi di ciò che sarà più tardi il nazismo. Guerre è impregnato di platonismo e di panteismo, segue Jacob Boehme, Novalis e frédéric Schlegel che sognano di fondare una religione universale comprendete e completante tutte le altre. – Un altro seminatore di idee orientali in Francia, fu il barone di Eckstein, un giudeo svedese convertito al Cattolicesimo … ma occorre vedere, anche qui, a quale cattolicesimo! Egli aveva ricevuto una formazione occultista presso il duca Pierre d’Oldenbourg, fratello dell’antica regina di Svezia, che gli insegnò la cabala, la negromanzia e l’arte di evocare gli spiriti. Poi aderì ai gruppi degli Illuminati di Weishaupt, ancora molto attivi, anche dopo lo smacco della rivoluzione francese, poi ai giovani terroristi del “Tugendbund”. Cominciava poi ad insegnare in Francia. Per questo, ad imitazione del suo amico Goerres che aveva fondato in Germania un giornale, il “Katholik”, fonda anche in Francia il “Catholique”. “Questa collezione, scriveva nel 1827 il “Globe”, giornale liberale, è come un canale aperto dalla Germania alla Francia. Esso puo’ darci delle idee, delle vedute, delle domande, dei materiali dei quali, con lo spirito che ci è proprio, sapremo approfittarne. La Germania è una miniera che non conosciamo abbastanza, e dalla quale non prendiamo abbastanza. Essa racchiude dei tesori di erudizione e di scienza che noi dobbiamo provare ad esplorare”. Il suo amico Goerres, esclama con ammirazione: « È dunque il più autentico spirito tedesco che si trova trapiantato in Francia. Il “Catholique” è uscito dalle scuole germaniche, ha compiuto i suoi studi presso i maestri tedeschi, ha assimilato le loro caratteristiche ed è con la loro mentalità che tratta gli oggetti di cui si occupa.  Ci si stupisce che una testa così completamente organizzata alla tedesca, sia riuscita così perfettamente a pensare in tedesco ed esprimersi in francese ». Eckstein si è vantato di essere unito a Frédéric Schlegel da una comunanza dottrinale: “la sua amicizia mi è stata accordata fin dalla giovinezza, egli precisa, ed egli non si è mai lamentato che io abbia saccheggiato le sue opere!” – Ora quale è questo pensiero tedesco che il barone di Eckstein trascrive in francese? È nientemeno che … il buddhismo. Lo si chiamava infatti il barone sanscrito. Egli parlava di Buddha continuamente nei saloni del sobborgo di Saint-Germain, dimostrava con prolissità che ci sono due buddha. Spiegava pure come il dogma della Trinità si trovi già nella Trimourti indiana. Cita il Ramayana, il Mahabaratin, le Uprekat, la vacca Sabala ed il re Wiswamitra. Si finì col chiamarlo il barone-buddha. Nel suo insegnamento si trovano delle formule di sincretismo religioso, del neoplatonismo, ma tutto mescolato in salsa buddhista. Impiega delle metafore riprese dai canti dei Veda. Con i suoi amici Goerres, Arnim, Frédéric Schlegel, costituisce la “Banda indo-cristiana”. Siamo qui all’inizio del Romanticismo. È quindi del tutto naturale che i grandi scrittori di questa scuola, siano impregnati di buddhismo: Lamennais, Lamartine, V. Hugo, etc., come vedremo nel lavoro sul Romanticismo. In Germania Fichte, Hegel, Schelling insegnano in “panteismo indiano”. Emerson e Carlyle includono il culto degli eroi nel senso dei buddhisti e degli adoratori di Vischnu. Hartman adora l’incoscio. I suoi due libri sulla “Coscienza religiosa dell’umanità”, e la “religione dello spirito” richiamano il Mahayana. Nietzche crede al superuomo, cioè a Buddha. Tutto l’inizio del suo “Zarathoustra” sembra ispirato dalle Pitakas. Richard Wagner è convertito al buddhismo dalla lettura del conte Gobineau, come visto in altri studi. Gli orientali, ci dice Gobineau, sono incuriositi soprattutto da Spinoza ed Hegel. “Vengono compresi senza difficoltà, diceva un filosofo persiano: questi due spiriti sono spiriti asiatici e le loro teorie combaciano in ogni punto con le dottrine conosciute e professate nel paese del sole”. – Shopenauer ha mostrato la filiazione della filosofia kantiana e del pensiero asiatico. Egli stesso copia alla filosofia di Buddha la dottrina del voler vivere, la morale dell’ascetismo e della pietà: « Se volessi vedere, egli scrive, nella mia filosofia la misura della Verità, dovrei mettere il buddhismo al di sopra di tutte le religioni. In ogni caso io mi riduco a constatare un accordo così profondo tra la mia dottrina, la filosofia ed una religione che sulla terra, ha la maggioranza per essa, poiché essa conta più adepti ». Egli si indigna nel vedere che i missionari europei vogliono convertire i brahmani. « La nostra religione, egli dice, non  attecchisce né attecchirà nell’India. La saggezza umana non si lascerà allontanare dal suo corso da un’avventura giunta dalla Galilea. No, ma la saggezza indiana refluirà ancora sull’Europa e trasformerà da cima a fondo il nostro sapere ed il nostro pensiero » (Il mondo come volontà). Ecco una “profezia” che si realizza oggi sotto i nostri occhi! – La moda del Bergsonnismo è stata pure un ritorno alle metafisiche orientali. Con il suo divenire assoluto, con il suo slancio vitale, con il suo intuizionismo, con il disprezzo della ragione, con il suo mobilismo permanente, il bergsonnismo ci sembra un’attitudine spirituale degna di quella di uno yoghi indiano. Quando Rabindranath Tagore venne in Francia e quando gli si parlò della filosofia bergsonniana, egli rispose con sufficienza, che da tanto tempo l’India era passata per li là! In effetti, all’epoca di Carlo Magno, un pensatore buddhista, Çankara aveva già insegnato il monismo spiritualista e panteista a Maissora, sotto il nome di Vedanta. Bergson stesso ha riconosciuto questa ispirazione buddhista della sua filosofia. – Le dottrine dei teosofi sono penetrate in Russia, importate dalla Germania e dalla Svezia. Caterina II aveva reagito severamente contro questa invasione di Illuminismo. Ma Alessandro I, amico della folle M.me de Krüdner, lanciò la moda mistica nella società intellettuale di San Pietroburgo. Il suo ministro, Speransky, raccomandava al suo amico Zar: « la contemplazione mistica fissando un punto, piuttosto che l’ombelico » … già il mondo dello Yoga! Tolstoi è un profeta d’Asia. Egli vuole rinnovare la faccia della terra, instaurare quaggiù il regno di Dio « la pace tra gli uomini ». Con il suo pessimismo e con la sua indifferenza verso ogni progresso, con la sua dottrina di rinuncia, negatrice della personalità, con la sua carità senza Dio, questo strano cristiano somiglia molto a Buddha. La Russia, egli dice, deve giocare il ruolo di mediatore tra l’Occidente e l’Oriente. – Protestanti, teosofi, occultisti, devoti di Annie Besant, sostengono le imprese della penetrazione dell’Asia in Occidente. Si è potuto vedere sui muri di New York e delle grandi città americane degli enormi manifesti rappresentanti Gandhi accovacciato come un Buddha sul globo terrestre portando un epigrafe « the greast man in the world ». – Più di recente Romain Rolland ha lanciato in Francia la moda di Gandhi, ne ha voluto fare il “santo”, il “Messia” della sua religione induista. Egli ce lo presenta come un nuovo “S. Francesco d’Assisi”, una madre come “una Santa Elisabetta”. Egli vede in lui l’uomo che ha inaugurato nella politica umana il più potente movimento da due mila anni, e lo compara a Cristo stesso. Gandhi si dichiara ammiratore di Tolstoi, di Ruskin. La sua formazione intellettuale è tutta occidentale. Le sue idee sono impregnate di esoterismo occultista dell’Occidente. – In Italia ovviamente la moda è stata seguita, indottrinati dal celebre film sul soggetto e dalla letteratura da “stazioni ferroviarie” e chioschi volanti. – Alla base di questa invasione buddhista o induista, bisogna mettere in causa le vecchie eresie gnostiche; dei falsi profeti indù, dei teosofi, tra i quali pure noti falsi-chierici di alto bordo [leggi Woitiła], dei professori di storia religiosa, certi filosofi tedeschi, tutti formati in seno alle logge massoniche, hanno rinnovato l’interesse per le loro elucubrazioni rivestite da un bell’abito esotico, ricamato con i miti dell’India e della Cina, con accenti pieni di mistero e di poesia. Essi hanno rinnovato la potenza di seduzione dei loro errori, trasducendo gli antichi testi “sacri” dell’Asia nel loro linguaggio. Ma la riuscita della loro impresa non ha potuto essere così totale essendo il pensiero orientale già pieno di questa gnosi primitiva germinata in Asia, seminata dai Manichei attraverso la via della seta. Così è stata preparata pure ad Assisi la sceneggiata “ecumenica” del teosofo orientalista Woitiła, che ha incontrato cordialmente bonzi e brahmani, togliendo dall’altare della chiesa Madonna e Crocifisso, e ponendo un bel Buddha sghignazzante con addome cirrotico al loro posto in bella vista! … abominio della desolazione!!! Usquequo, usquequo Domine! –  Come dice Chesterton: « C’è in Asia un grande demonio che tenta di fondere tutto nello stesso crogiuolo e che si presenta immerso in un immenso stagno ». Il nostro Occidente è oggi questo crogiuolo. La conquista è iniziata: noi pratichiamo lo yoga, lo Zen, la meditazione dell’ombelico. Ben presto la « new age » ci farà vibrare all’unisono con i falsi profeti dell’Asia e questo sarà il più grande trionfo della gnosi eterna e satanica.

[Continua]

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (14) – GNOSI E BUDDISMO -2-

GNOSI: TEOLOGIA di Satana (14)

“omnes dii gentium dæmonia”

GNOSI E BUDDISMO

Sulla strada della seta.

Il buddhismo è nato nel III secolo della nostra era nei reami greco-sciti e parti della Bactriana, nel nord dell’India. San Tommaso Apostolo aveva evangelizzato questa regione, Mani vi ha insegnato la sua dottrina gnostica e da questo III secolo il buddhismo si diffonde in tutta l’Asia centrale lungo le due strade della seta che collegano questa regione alla Cina, l’una circondante il nord del deserto centrale e del deserto del Gobi, l’altra che si snoda lungo la parte meridionale della catena dell’Himalaya ed il Tibet. – Ciò che occorre rimarcare innanzitutto è che nelle città di accesso da cui si dipartono queste due strade, sorgono monasteri costruiti in questa epoca. Lo stile, gli ornamenti, i bassorilievi, le pitture di questi edifici sono state ritrovate nel XI secolo tra le rovine. Si rileva l’impronta di un’arte iraniana, che ha subito l’influenza greca e romana. Gli artisti sono venuti dalla Siria, il Buddha vi conserva i caratteri dell’arte di Gandhara. – A Miran, nel sud del Lobnor, un antico santuario buddhista ci ha conservato degli affreschi degni di Pompei. Abbiamo la sorpresa di scoprirvi un Buddha accompagnato dai suoi monaci, personaggi imberbi con un copricapo frigio, geni alati, quadrighe. Il nome del pittore è Tita. Lo stile è romano e siriaco: « Bisogna concluderne – dice Victor Goluobov, che il pittore sia un artista formato in qualche laboratorio di Antiochia o di Bactriana? » – Gli apostoli del buddhismo che penetrano in Cina sono dei Parti o ancora degli indo-Sciti, di cultura iraniana e greca, venuti dall’Afganistan. La prima comunità buddhista installata a Lao-Yang (Ho-nan-fou), la capitale dell’impero cinese, è stata fondato da un Parto. Scoperte ancora più sensazionali vengono ancora a mostrare, in un gran numero di monasteri buddhisti dell’Asia centrale le prove della loro origine manichea. – A. Von le Coq, all’inizio del novecento, ha percorso la strada della seta a nord del deserto, nella regione del Tourfan. Questo paese era occupato nel VII ed VIII secolo da un popolo misto di elementi sciti, iraniani, turchi, gli Uiguri. La loro capitale Chotcho, oggi chiamata Kao-Tchang, o Karakhoja, fu visitata da Albert Von le Coq che passava da sorpresa in sorpresa. Egli trovò un’alta piramide a tre piani, comprendente sei nicchie che riparavano dei Buddha dipinti e dorati. Uno di essi giaceva più lontano, privo di testa. Von le Coq vi notò gli stessi caratteri trovati sui monumenti di Gandhara. Più distante, verso il centro della città, c’è una immensa costruzione  composta da tre sale rettangolari circondate da una serie di ambienti più piccoli a volte. Sul muro della parete settentrionale, dopo aver abbattuto un moro più recente, apparve un affresco maestoso. Un gran sacerdote in piedi, rivestito da ornamenti sacerdotali, circondato da un clero tutto vestito di bianco. Ogni personaggio porta il suo nome scritto sul petto, in caratteri uiguri, ma i nomi sono iraniani. Il più grande è Mani, il profeta supremo. « Nell’edificio a cupola della parte sud, facemmo una terribile scoperta –scrive Von le Coq, gli stessi personaggi, nei loro bianchi vestiti, al naturale, non più in piedi, in un bell’ordine processoniale, ma coricati, ammassati in un impressionante disordine, in una caterva di un centinaio di corpi mummificati: tutta la comunità di monaci buddhisti là sorpresi da una morte violenta, un massacro generalizzato abbattutosi su di essi. Von le Coq attribuisce questo massacro alle persecuzioni religiose provocate dalle autorità cinesi. – Infine, fuori dalle muraglia della città, una piccola chiesa nestoriana contenente le vestigia di pitture murali bizantine raffiguranti un sacerdote ed altri personaggi portanti dei rami. All’interno della città tutti gli scritti buddhisti ridotti in brandelli potevano raccogliersi con la pala. In questa regione si trovò un altro santuario contenente una biblioteca di manoscritti manichei irrimediabilmente danneggiati dalle acque fangose di un sistema di irrigazione, ed all’entrata di questa biblioteca il cadavere di un monaco buddhista assassinato, restato avvolto nella sua bianca veste macchiata di sangue. Von le Coq  dichiarava alla fine della sua vita che questa era la scoperta più sensazionale che egli aveva fatto nel corso della sua carriera di ricercatore. – Continuiamo questa esplorazione, essa ci riserverà ancora delle straordinarie sorprese. Lungo la via meridionale della seta si trova la città cinese di Touen-Houang, nel Kan-Sou. È la città dei “mille buddha”. Essa contiene un monastero buddista ben conservato con delle sale dipinte e scolpite nella roccia. In una di esse, due ricercatori, sir. Aurel Stein e M. Pelliot, francese, si fecero aprire un armadio murato nel quale trovarono migliaia di manoscritti antichi che il buon monaco era incapace di decifrare. Essi riuscirono a comprarne diversi importanti gruppi. Quale sorpresa! In mezzo ai manoscritti buddhisti essi trovarono un gran numero di manoscritti manichei. Innanzitutto un Catechismo della religione del “Buddha di luce, Mani”, tradotto dall’iranico in cinese nel 731 su ordine imperiale. Vi si apprende che il Buddha di luce, Mani, è nato nell’ottavo giorno di una seconda linea nel reame di Sou-Lin, che designa presso i cinesi l’Asia occidentale, dunque la Siria o la Babilonia, secondo la traduzione di Pelliot. Un altro frammento dello stesso catechismo, chiamato frammento Stein, è riprodotto in una delle compilazioni cinesi del XVIII secolo in cui il Buddha è chiamato Mani. Poi essi decifrarono dei manoscritti in pehlvi, in sogdiano, in turco antico, in uiguro e in cinese, nei quali si predicava la “religione della luce, dei due principi e dei tre movimenti.” Si è trovato una raccolta di inni e di preghiere con le loro notazioni musicali – “ciò che richiama i manichei, al dire di Sant’Agostino, è che essi amano molto la musica” -, un formulario di Confessione ricostruito frammento per frammento grazie alle scoperte di  M. Radloff, identico a quello che si pratica presso i buddhisti; una regola della comunità che ci fa conoscere quali sono le condizioni a cui deve adempiere colui che vuole entrare nell’ordine, come deve essere il tempio, etc.; un frammento di vangelo apocrifo; un altro frammento della vita di Buddha; un “libro santo incompleto di una religione della Persia” pubblicato a Perkin e trovato anche a Touen-Houang [è un trattato manicheo datante il 900 circa]; raccolte di pezzi cinesi ispirati alle diverse opere di Mani stesso che, seduto in mezzo ai suoi fedeli, è reputato rispondere alle domande che gli pone il suo discepolo preferito Addo, o Addas. – Messo in presenza di una scoperta così prodigiosa di manoscritti manichei in gran numero in diversi monasteri buddhisti dell’Asia centrale, gli storici non hanno compreso che l’insegnamento di questi manoscritti era identico a quello del buddhismo, che il Buddha del quale seguivano le lezioni, era Mani stesso, perché bisogna comprendere che mai i discepoli del Buddha-Mani si sono chiamati manichei. È il termine che fu loro dato dagli storici greci  latini. Essi erano soltanto i “figli della luce”, i discepoli del Buddha, l’illuminato. Questi storici, ingannati dalla certezza che avevano di un buddhismo anteriore al Cristianesimo, hanno tentato di collegare questi documenti manichei alla religione del Buddha con l’idea di una ricopiatura.  I manichei, essi dicevano, hanno praticato un sincretismo sistematico. Altri dicono che il buddhismo sembra essere stato coevo del manicheismo presso gli uiguri. Henri-Charles Puech, nel suo libro sui manichei, ci dice che essi tentavano un avvicinamento al fine di applicare a Mani testi buddhisti, supposti anteriori. Egli precisa che, nel “catechismo cinese”, detto frammento Stein, di cui abbiamo parlato, si fondono taoismo, buddhismo e manicheismo. In effetti questo catechismo cinese ha, come precursori di Mani, Buddha e Lao-Tseu. Nel frammento di Tourfan si è trovata la successione degli ancestri di Mani e di Buddha: “Lista dei profeti dell’umanità: Sem, Shem, Enosh, Nicoteo, Henoch, Gesù”. “L’apostolo di luce, che viene cinque volte nel suo tempo, si riveste della chiesa di carne d’umanità e diviene capo in seno alla “chiesa di giustizia”. Egli è l’emanazione di Nous-Luce, padre di tutti gli apostoli”. È già l’idea gnostica dei grandi iniziati. – “Mescolanza, sincretismo, coesistenza”? Ancora bisognerebbe spiegare il perché di questo incontro tra questi due sistemi religiosi, il perché dell’identità dei personaggi: monaci buddhisti o manichei? Buddha o Mani? Chi ha copiato dall’altro? Quando noi leggiamo ad esempio i riferimenti fatti al Cristianesimo nella biografia del Buddha, noi siamo portati a pensare che l’uno abbia preceduto l’altro. Se vogliamo pure esaminare le cose più da vicino, vediamo che il buddhismo ha operato una cernita nei suoi “assorbimenti” e ci accorgiamo che ha rigettato dal Cristianesimo gli stessi elementi già rigettati dagli gnostici manichei: il culto della croce, la nozione del Sacrificio, i sacramenti, etc. … e che gli elementi che gli sono pervenuti, sono stati copiati dai vangeli apocrifi gnostici … – In conclusione, sembra che il buddhismo dell’Asia centrale non sia venuto dall’India, ma dalla Persia e dai regni Sciti, ciò che lascia pensare che il buddhismo sia penetrato tardivamente nell’India e che non vi si sia tenuto se non provvisoriamente, perché si scontrava con l’ostilità dichiarata dei brahmani. Ma vi torneremo.

Da Mani a Buddha.

Mani aveva delle nozioni estese in pittura e scultura grazie alle quali aveva acquisito grande celebrità in Asia. Egli percorse l’Indostan ed il Turkestan. Un giorno, avendo scoperto nel deserto una montagna che comunicava mediante una vasta caverna con una pianura deliziosa e che non aveva altre uscite, si risolse segretamente a vivervi per un anno. Egli annunziò allora ai suoi discepoli che stava per risalire in cielo dal quale sarebbe ridisceso dopo un anno per portar loro gli ordini di Dio, che avrebbe loro portato vicino alla caverna di cui indicava la posizione. Vi si ritirò dunque e visse solo per un anno, occupato interamente a dipingere ed incidere figure straordinarie su una tavola chiamata ertankimany. Al tempo convenuto, riapparve nei paraggi della caverna aspettando i suoi discepoli. Mostrò loro le tavole che aveva riunito in un volume e dichiarò loro che questo grande libro proveniva dal cielo. Tutto il Turkestan abbracciò la sua “religione della luce”. Le comunità manichee si diffusero nei regni dell’Asia centrale sotto la protezione dei Parti e degli Sciti. Esse stabilirono delle “chiese-monastero”, sotto la direzione dei successori di Mani, i Buddha, i  Saravan, gli Imam, capi supremi della chiesa. Lo stesso Mani, dopo la sua gnostica “crocifissione”, è risalito fino alla “colonna di luce”, poi alla luna e al sole per giungere nel “paese del riposo e della gioia”, il “Nirvana”, “l’eterno regno di luce” che è la sua patria ritrovata. Egli è il sigillo dei profeti, l’apostolo dell’ultima generazione. Tutte queste espressioni si ritrovano nei manoscritti scoperti a Tourfan. – Nel corso dei suoi studi sul manicheismo, Henri-Charles Puech si è avvicinato poco a poco a queste stesse conclusioni. Egli aveva ben notato che, ad esempio, il tempio buddista di Bezelik, situato presso Tourfan, era incontestabilmente manicheo. Egli avrebbe potuto affermare lo stesso per tutti gli altri templi dell’Asia centrale. – Nel corso dei suoi studi sulle liturgie manichee, Puech ha egualmente notato progressivamente i loro rapporti con i riti buddhisti. Egli li ha collegati all’insegnamento di Mani. In effetti noi sappiamo che gli gnostici, e dunque i manichei, insegnano che il cosmo è animato da un principio universale, l’anima del mondo o “luce divina”; che questa anima luminosa percorre l’insieme degli esseri che costituiscono il mondo e dà la vita alle piante, agli animali, ad ogni essere vivente contiene, chiuso in esso, una scintilla luminosa dell’anima universale [panteismo gnostico]. Ciascuno di essi è dunque sensibile al dolore ed al piacere. Cuocere un frutto, tagliare un legume, sradicare un albero, sgozzare un animale, sono dei veri omicidi. L’agricoltura e l’allevamento degli animali sono attività criminali [sembra di riascoltare le stesse paranoie allucinanti dei vegani, gnostici-manichei … senza esserne ravvisati!]. Ugualmente il matrimonio e la procreazione sono condannate, perché costringono a rinchiudere queste particelle luminose, le parti migliori della “divinità universale”, nei corpi che le tengono prigioniere. Questa idea stravagante, ma logica nella sua assurdità è, con la reincarnazione, comune agli gnostici, ai manichei ed ai buddhisti, loro successori ed eredi. – A partire da questo si può comprendere l’attitudine del monaco buddhista, accovacciato a terra, con la sua ciotola di cibo in mano. – Gli “eletti”, i “puri”, i “catari”, prendono il loro pasto in comune, una volta al giorno. Prima di mangiare, si ritirano in disparte e rivolgono agli alimenti questa preghiera: “ non sono io che vi ho raccolto, che vi ho mondato, non vi ho impastato, non vi ho cotto. Così io sono innocente di tutti i mali che avete sofferto.” Si mettono in piedi o seduti con la ciotola del cibo, vaso sacro, in mano. Poi secondo un cerimoniale ben regolato, cominciano a mangiare. Essi pretendono che durante la digestione, l’anima divina racchiusa nella materia si liberi e vada dal loro stomaco per risalire in cielo e riunirsi alla sua “sorgente”. In tal modo, credono di liberare dalle tenebre della materia il “dio-luce” prigioniero. La loro masticazione è un altro atto sacro. Poi accordano il perdono ai caritatevoli catecumeni che hanno loro preparato la pietanza. La elemosina alimentare è in effetti una sacra offerta. – Henri-Charles Puech ha ugualmente comparato il manuale di confessione dei monaci buddhisti ai manoscritti scoperti nell’Asia centrale. Egli ha così concluso che questi erano calcati sullo stesso modello. Gli “eletti” manichei facevano confessione dei loro peccati davanti ai confratelli riuniti ogni lunedì. I monaci buddhisti lo fanno ogni quindici giorni, secondo lo stesso formulario, con la recita del Pâtimokka. Infatti i peccati dei monaci si riportano tutti al rifiuto della luce e della conoscenza (della gnosi!). – Infine la posizione accovacciata dei monaci si spiega con il desiderio di prendere la posizione fetale nel seno materno. Si tratta di raccogliersi in se stessi per preparasi al ritorno nella terra originale, nell’utero primitivo dal quale sono usciti tutti gli esseri, in modo da accelerare la morte che libererà l’anima luminosa chiusa nella materia del corpo. – Noi comprendiamo bene così che i principali riti della liturgia buddhista non hanno senso intellegibile se non ci si riferisce all’insegnamento di Mani. [Il religioso romano, p. Giorgi, amico del Papa Benedetto XIV, pubblicò nel 1762 una “enorme compilazione” sotto il titolo di “alfabeto tibetano”. Egli era in corrispondenza con i religiosi cappuccini in missione nel Tibet. Grazie agli insegnamenti dei suoi confratelli, egli descrive il buddhismo come una contraffazione del Cristianesimo dovuto all’azione perversa dei manichei. Il p. De Lubac, lo gnostico della “nuovelle thèologie” – del quale ci siamo occupati in un numero precedente – che cita quest’opera aggiunge:  “Una idea fissa che falsa il suo esposto. L’opera non è letta e la conoscenza del buddhismo non ha sofferto per niente di questo insuccesso”. Questa idea fissa, come la chiamava il noto fanta-teologo gnostico del concilio para-gnostico “Vaticano II”, era pertanto pura VERITA’, come è stato dimostrato inconfutabilmente dalle ricerche recenti. È ancora una volta verificato che è cosa non buona che un autore proponga una spiegazione nuova ed inattesa, seppur veritiera, quando le idee alla moda, seppur truffaldine, si trovano in contraddizione con quest’ultima!].

Il buddismo tibetano

Secondo furto al Cristianesimo. Il padre Huc, nel corso del suo viaggio in Tartaria, in Tibet e Cina, non è stato affatto sorpreso di incontrare nel culto dei Lama, il pastorale, la mitra, la dalmatica, la cappa, il flagellum, la benedizione data stendendo la mano sulla testa dei fedeli, un servizio a due cori con sermone, salmodia, litanie, genuflessioni, il culto delle reliquie, l’uso dell’acqua benedetta, degli esorcismi, il rosario, la campanella, le campane, l’incensiere, gli altari decorati con i fiori, delle immagini, ad esempio una donna portante una corona sulla testa ed un bambino nelle braccia, che schiaccia con il piede un dragone. Egli ha riconosciuto ugualmente una descrizione figurata di un vero purgatorio, ove i demoni tormentano i defunti nei cerchi, che ricordano l’inferno di Dante (ancora un’altra fonte per Dante: dopo Ibn Arabi, il buddhismo!), le processioni all’interno ed all’esterno dei templi. I monaci iniziano con un apprendistato, poi ricevono un’ordinazione; essi fanno voto di obbedienza, di castità e povertà, praticano la confessione, si rasano la testa e vivono nei monasteri sotto la direzione dei superiori. Esistono pure dei conventi femminili. Alla testa della chiesa si trova un “papa”, il Dalai Lama, assistito dai cardinali, i Tchoutouktous. – Il padre Huc ci spiega che questi adattamenti sono venuti direttamente dalla Chiesa Romana, in seguito alle relazioni che si sono avute nel XIII secolo tra l’impero Mogol ed i Cristiani di Occidente. L’autore di queste copie sarebbe questo Tsong-Khapa, che fu forse pure il vero fondatore del lamaismo. – La somiglianza tra i riti Cristiani e buddhisti è stata segnalata in questa epoca, il XIII secolo, da Jean de Ruysbroeck che visitò gli stati del Gran Kahn. Egli stabilì nettamente la differenza tra i Saraceni, i nestoriani e gli idolatri, cioè i buddhisti. Entrando in un tempio buddhista degli Uiguri, esclamò: “ Quando entrai nel loro tempio mi sembrò di  vedere dei preti veri!”

Il culto di Krishna

Terza copia del Cristianesimo: il culto di Krishna. Il buddismo è penetrato fortemente dell’India nel corso del Medio-Evo. Ora, Buddha condannava le caste, proclamava l’uguaglianza tra gli uomini, accoglieva ugualmente il principe e il paria.: « il brahmano, o discepolo, è nato da una donna, così come il tchandala, l’ultimo degli umani, a cui chiude la porta della salvezza ». – I brahmani si opposero inizialmente al buddhismo che invadeva il culto sensuale e gioioso di Vischnù, già molto diffuso e lo resero ancor più popolare identificando il “dio” con gli eroi famosi delle grandi guerre, Krischna. Nel Rig-Veda, Krischna signifia “nero”, e designa i demoni, nemici di Indra (lo Zeus indiano). Poi Krischna fu rappresentato come l’eroe delle grandi guerre per simbolizzare di nuovo e rendere popolare la religione dei brahmani minacciata dall’invasione del buddhismo. Con questa strategia i brahmani tentarono di guadagnare alla loro causa la casta dei Kshatiyas, i guerrieri ed i re. Più tardi per ricondurre ad essi i buddhisti, misero Buddha nel Panthéon buddhista come un ultimo avatar di Vischnù. – Poi essi inviarono i loro “saggi” in Occidente a studiare la dottrina cristiana, come annota il Mahâbharata. Questa conoscenza del Cristianesimo dovette loro fornire nuovi concetti religiosi che sembrarono loro buoni per arginare i progressi del buddhismo e del Cristianesimo. Utilizzando la rassomiglianza dei nomi Krischna e Cristo, composero la Baghvad-Gita. Questo mito di Krischna prese sviluppo nel corso del Medio-Evo, poi nel XIII secolo fino al XVIII della nostra era. I Purânas sono i libri religiosi che descrivono le cerimonie ed i riti delle feste destinate a celebrare la nascita di Krischna. Vi si mostra Krischna nascente, portato sul seno di sua madre, in una capanna di pastori, circondato dai pastori, poi il viaggio di Nanda e del suo sposo Mathura per pagare il tributo, la presenza dei buoi ed altri animali domestici nella capanna della nascita, la guarigione della gobba, Koubja che aveva sparso profumo sul capo di Krischna; poi si aggiunge qualche episodio ispirato alla fuga di Bethlem, al massacro degli innocenti, ai miracoli dell’infanzia, una tentazione, una trasfigurazione. – I brahmani, introducendo questo culto di Krischna, hanno popolarizzato la teoria delle reincarnazioni divine. Krischna è il dio supremo che si incarna di tempo in tempo « ogni volta che la religione degenera e l’empietà trionfa ». Dopo il suo insegnamento, perisce di morte violenta, abbandonato dai suoi. – Egli pone al di sopra della scienza a dell’ascetismo, la « bhakti », l’amore. Ma il suo insegnamento è falsato da un senso panteista dalla Bhagavad-Gita. Gesù Cristo aveva detto: « Io sono la via, la verità e le vita ». Krischna traduce: « Io sono la vita di tutti gli esseri (dunque l’anima universale del mondo), il supporto del mondo, la sua via, il suo rifugio ». – Gesù Cristo aveva detto: « Io sono l’alfa e l’omega ». Krischna traduce: Io sono l’inizio, il centro e la fine delle cose, l’immortalità e la morte » (formula panteista). Gesù Cristo aveva detto: « Io so da dove vengo e dove vado. Ma voi non sapete né da dove vengo, né dove vado ». Krischna traduce: « Io sono passato per le nascite (metempsicosi), tu anche. Io le conosco tutte, tu non le conosci affatto » – Krischna insegna il rispetto delle caste e il finale assorbirsi nella divinità! Si vede dunque che i brahmani, nel rigettare il buddhismo, ne avevano conservato però l’essenziale: il panteismo e la reincarnazione, il dissolvimento finale nel nulla, il Nirvana. – Già gli specialisti dell’India avevano avvicinato nell’ultimo secolo i monumenti dell’India all’iconografia cristiana. Essi avevano constatato le numerose copie fatte dall’India all’Occidente cristiano. Il grande indianista Albrecht Weber aveva notato nella sua “Storia della letteratura sanscrita”: « il culto di Krischna come dio si è completato sotto un’influenza cristiana. Angelo de Gubernatis, indianista italiano, anch’egli così scriveva: « Nella mitologia brahmanica c’è una delle più belle trasformazioni della divinità alla quale ha contribuito la conoscenza del Cristo giunta fino all’India e che pareva, come già a Weber, aver fornito a Krischna, con una parte di dottrina, diversi episodi della sua vita » (Enciclopedia indiana). Lo si vede chiaramente, i veri sapienti vanno a cercare l’imitazione in India. È l’India che ha copiato il Vangelo e non il contrario! Krischna è una invenzione moderna dovuta alla preoccupazione che i brahmani hanno avuto di recuperare Buddha e Gesù-Cristo per restare i padroni delle basse caste, attirate dall’insegnamento dei missionari. – Infine si è recentemente preteso che gli Indù conoscessero la Trinità. Ora questa concezione è tardiva  presso i brahmani; essa risale solamente ai  Purânas, scritti nel corso del Medio-Evo, ed « imitazione del dogma cristiano sfigurato » come dice molto esattamente Angelo De Gubernatis. Essi hanno ammesso Vishnù e Civa in un gruppo supremo ove hanno introdotto il loro Bramha. Essi insegnarono ai loro discepoli che questi tre nomi non designano che delle forme o maniera d’essere della divinità. Essi hanno impiegato la parola Trimurti, « tripla forma », ma questo è un vocabolo recente, moderno, destinato a dare una colorazione di sapienza ed occidentale al loro insegnamento.

[Continua …]

 

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (13) – GNOSI E BUDDISMO -1-

 

“… omnes dii gentium dæmonia”

GNOSI E BUDDISMO -1-

[rielaborato da: É. Couvert “La gnose universelle“-Chirè en Montreuil, 1993)

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Alle sorgenti del Buddismo

La storia religiosa dell’Asia centrale e dell’India, si presenta ai nostri sguardi occidentali come doppiamente limitata. In effetti le popolazioni di questi paesi sono senza storia, senza cronologia, senza annali se non qualche cronaca di famiglie principesche in India, più o meno leggendarie. I popoli dell’India hanno vissuto ai margini della nostra civiltà occidentale, ed è pertanto ben difficile collocare rispetto a noi i loro monumenti, i loro scritti, le loro leggende. – La tentazione naturale degli archeologi e degli storici fu di creare, tutta nuova, una cronologia e dei quadri storici per inserirvi le loro scoperte e tentare di confrontarle con la storia del nostro Occidente. Ciò facendo furono spesso condotti a modificare di sovente i loro giudizi e le loro osservazioni sui reperti che avevano potuto raccogliere per farli quadrare con le loro supposte cronologie, e quando la cosa appariva di difficile realizzazione, ebbero difficoltà enormi per rivedere i loro quadri. Ora le scoperte archeologiche e paleografiche più recenti, quelle dell’inizio del secolo pen’ultimo scorso, avrebbero dovuto provocare una rimessa in causa delle precedenti ricostruzioni in parte arbitrarie e improbabili, ma gli storici continuarono a far riferimento ai loro predecessori, salvo marcare dei dubbi e dei punti interrogativi qui e là. Nelle pagine seguenti non pretendiamo certo di rivelare documenti nuovi, né fatti incerti o indiscutibili, ma ci contenteremo di raccogliere, in un nuovo ordine, una gran quantità di recenti scoperte, già ben conosciute ameno dagli specialisti dell’Asia. Ci sforzeremo di rigettare le cronologie infondate ricevute dai manuali classici per far riapparire aspetti nuovi ed inattesi ai quali gli sguardi non erano più abituati, ed allora vedremo disegnarsi, sotto i nostri occhi, un quadro inedito delle origini del buddhismo. – Una seconda difficoltà deve essere eliminata. Poiché l’Asia centrale ci sembra misteriosa, lontana e sconosciuta, certi “indianizzanti” hanno voluto farne la culla di tutte le civiltà, il punto di partenza di ogni forma religiosa diffusasi poi nel mondo intero. È questo il senso ed il contenuto di tutta una letteratura indianizzante che ingombra attualmente gli scaffali delle librerie. – L’esame dei fatti mostra con evidenza che tutto questo è assolutamente falso! L’Asia centrale e l’India sono state civilizzate dall’Occidente; questo movimento colonizzatore è partito dall’Ovest e si è diffuso nel corso dei secoli in tutta l’Asia. – Prima delle spedizioni di Alessandro, i Persiani di Dario avevano invaso e colonizzato la valle dei Sind ove avevano stabilito una satrapia del Grande Re. È evidente che i monumenti dell’India ricordano quelli di Babilonia e della Persia. Dopo i Persiani, Greci di Alessandro stabilirono nel Pendjab dei reami greci, e durante vari secoli questi Greci sviluppano in tutta l’Asia centrale una civiltà ellenica, quella dei regnii di Bactriano e di Sogdiano che hanno lasciato nei manoscritti indù il ricordo dei Yavanas, e nei monumenti indiani l’impronta dell’influenza greca e romana. Il conte Goblet d’Alviella ha dimostrato questa opera civilizzatrice nel suo trattato: « Ciò che l’India deve alla Grecia »; in ciò si trova l’essenziale della sua civilizzazione, e cioè scultura, pittura, fino alla letteratura e fin’anche l’arte drammatica. – A partire dall’era cristiana, l’invasione degli Sciti e dei Parti, i “Palavas” dei manoscritti dell’India, provocò uno stravolgimento delle influenze occidentali. Questi Parti e Sciti sono venuti dal sud della Russia; essi hanno conquistato i regni dell’India, ma ne hanno conservato e rispettato la civilizzazione. Essi l’hanno diffusa in Asia centrale; poi nel secondo o terzo secolo della nostra era, essi hanno costituito un ponte tra l’India ed i Paesi nuovamente convertiti al Cristianesimo. Vedremo infatti che questi regnii sciti sono all’origine dell’espansione del Buddhismo attraverso l’Asia. Assistiamo quindi ad un movimento civilizzatore venuto dall’Occidente che si diffonde gradualmente in tutta l’Asia. In effetti se verifichiamo nel corso dei secoli dei movimenti migratori e delle popolazioni venuti dall’Asia del nord in direzione del sud e dell’Europa, constatiamo ugualmente che questi popoli, emigrando appunto, hanno saccheggiato e distrutto tutto al loro passaggio e che, una volta stabilitisi e fissati sul territorio, hanno subito le influenze civilizzatrici di origine occidentali: greca, latina e quindi cristiana. E questo è fondamentale per comprendere l’origine e l’espansione del Buddismo. – Pretendere che il Buddhismo sia all’origine delle religioni dell’Asia centrale, è costruire un’ipotesi sul nulla. Se i Persiani, i Greci e gli Sciti hanno occupato  durante i secoli il nord-ovest dell’Indostan, se le comunità cristiane si sono stabilite nelle Indie e nell’Asia centrale, l’Europa al contrario non ha mai subito invasione indiana, né conosciuto una “chiesa” buddhista. I monumenti dell’India testimoniano una influenza persiana e greca; al contrario nessun monumento dell’Asia minore o dell’Egitto ricorda lo stile degli indù. Non troviamo alcuna menzione di un culto “buddhico” in tutta la letteratura antica latina o greca od orientale prima del secondo secolo della nostra era, in epoca cioè in cui i contatti tra questi paesi erano numerosi. La prima menzione di un Bottha al quale gli indù rendono culto divino, si trova nelle “Stromate” di Clemente di Alessandria, la cui redazione risale probabilmente alla fine del secondo secolo della nostra era, non prima. Affermare l’esistenza di un Buddha che sarebbe vissuto nel V o VI secolo avanti Cristo, è costruire un castello in aria. Non esiste la pur minima prova di una tale asserzione, che si presenta evidentemente falsa. Max Muller, nel suo libro sull’India, scrive: « In tutta la mia vita ho cercato di capire come il Buddhismo avesse potuto agire sul Cristianesimo; queste prove non le ho mai trovate ». – Il culto di “Buddha” apparve per la prima volta nel regno scita di Battriano, nella provincia del Gandhara, situato nella valle del Pehawar, regione che fa attualmente parte del Pakistan. L’arte buddhista del Grandhara si è sviluppata nel corso dei primi secoli dell’era Cristiana sotto i sovrani Kushan, discendenti appunto degli Sciti. – Il primo “Buddha” si presenta sotto forma di un maestro che insegna ai suoi discepoli. Egli è in piedi, con la mano destra alzata (come il falso Gesù della c. d. “divina misericordia”, Culto gnostico dell’eretica F. Kowalska e del marrano-teosofo Woitiła, entrambi pseudo-canonizzati dalla “sinagoga di satana”). Il suo volto è classico: naso e sopracciglia diritte, capelli ricci. È un filosofo, vestito con una toga che procede circondato dai suoi discepoli. Quando la sua testa è circondato da un’aureola ha l’aspetto di un Apollo greco. In questi primi monumenti buddhisti, il clima ha cancellato tutti i dipinti murali, restano solo sculture ricavate dagli scisti grigi della regione. Questa si chiama scuole del Gandhara: è un’arte essenzialmente greca o romana. Il “Buddha” non vi si presenta secondo le forme obese, da addome cirrotico, contorte e terrificanti che troveremo nei templi dell’India. – I tentativi di datazione di queste sculture sono ben deludenti. secondo gli “specialisti” esse risalirebbero tra il III secolo a. C. ed il VI secolo dell’era Cristiana. Tentiamo però di restringere il ventaglio temporale – Emile Male, celebre storico dell’arte religiosa di Occidente, ha dimostrato che le più antiche basiliche cristiane in Gallia, erano concepite da artigiani cristiani, essi stessi ispirati dai monumenti cristiani di Siria, sia in ciò che concerne l’architettura, che per quanto attiene  alla scultura ed ai motivi decorativi. Egli ha così confrontato i bassorilievi di Gandhara con i sarcofagi cristiani delle catacombe e specialmente quelle delle “officine” di Arles en Provence. Si sono costatate delle parentele nell’ispirazione molto prossime, praticamente quasi identiche. Dall’una e dall’altra parte Gesù-Cristo e il “Buddha” sono presentati da personaggi vestiti all’antica, allineati parallelamente in nicchie separate da colonnette mediante tronchi di arbusti sormontati da fogliame. Essi stanno in piedi, mano destra in alto, circondati dai loro discepoli che sembrano, con i loro gesti, dare il loro assenso all’insegnamento del maestro. Emile Male ne ha concluso che per le due chiese hanno lavorato gli stessi artisti, e che i loro laboratori di scultura erano situati ad Antiochia, in Siria. Si è pure trovato su di un basso rilievo di Gandhara, rappresentante la nascita del Buddha, una immagine innegabile del Buon Pastore, scolpito sul pannello di un capitello corintio. Sulla base di una statua di “Buddha” trovata a Hashagar, si è trovata una data, l’anno 274 di un’era sconosciuta. Se si tratta dell’era di Gondofare, siamo nel 214 dopo Cristo; se si tratta dell’era di Çakias, cioè degli Sciti (Çakia è il loro nome in sanscrito), nel 352 dopo Cristo. Siamo dunque tra la fine del III secolo o all’inizio del IV secolo della nostra era! Ora noi sappiamo che l’Apostolo Tommaso è venuto in India durante il regno indiano di Gondofaro nel corso del primo secolo dopo Cristo. Suo nipote Abdagare gli successe intorno agli anni 70 dopo Cristo. Questi re “indo-sciti” e “parti” hanno dunque ricevuto il Cristianesimo molto presto, ed una ispirazione iconografica comune alle due religioni è molto verosimile, corroborata com’è pure dalle date che abbiamo potuto precisare. Il culto del “Buddha” è apparso per la prima volta nel terzo secolo della nostra era e non prima! – Affermare, come hanno fatto diversi storici, che questo culto del “Buddha” sia stato preceduto da una lunga epoca in cui il Buddhismo viveva in letargo, come “in sonno”, è affermare ciò che si dovrebbe essenzialmente provare, ma che mai è stato provato da nessuno. Si è riportato ad un passato lontano e storicamente non controllabile, un culto simbolico del Buddha, rappresentato dalla venerazione dell’impronta dei suoi piedi, della ruota, dell’albero o di qualche carattere sanscrito, senza vedere che queste superstizioni popolari non potevano precedere il culto del “Santo”, ma completare, dopo tanto tempo, un culto ed una liturgia già consolidata e florida. – Viaggiatori e missionari Cristiani hanno notato nel corso dei secoli i numerosi elementi presi “in prestito” [cioè copiati e fatti propri] dalle comunità buddhiste al Cristianesimo. Essi hanno dato delle spiegazioni che  sembrano plausibili e sono probabilmente vere, almeno in parte. Gli uni hanno fatto valere le giustapposizioni in Asia centrale delle comunità nestoriane e dei monasteri buddisti che potevano spiegare queste “copie”. Altri hanno invocato l’influenza dei missionari cristiani nel Medio-Evo e nel XVI secolo. Tutto questo è possibile, ma è fantasioso, non sicuro né provato! – Tuttavia le scoperte archeologiche e paleografiche della fine del penultimo secolo e dell’inizio del successivo ci mostrano una influenza ben più considerevole e probabilmente decisiva sulla formazione stessa del buddhismo. Si tratta dei Manichei. – In luogo di “inventare” un “Buddha” mitico, vissuto secoli prima dell’era cristiana, gli storici avrebbero dovuto osservare i “Buddha” veri che sono esistiti, e che noi conosciamo perché da se stessi si sono attribuiti il titolo di “Buddha”, che vuol dire “illuminato”. È quanto resta ora da dimostrare e provare!

Il Buddha di luce: MANI

Il Manicheismo si è presentata come una « Religione della luce », « una chiesa della giustizia ». La loro “chiesa” è la comunità degli « eletti », dei “giusti” dei “veridici”. Essa comprende pure degli « Uditori », coloro che apprendono la verità, dei catecumeni dunque. In ginocchio davanti agli eletti, i dignitari che godono della iniziazione completa, per ricevere l’imposizione delle mani in segno di perdono dei loro peccati. [anche i finti vescovi della setta vaticana del “novus ordo”, ricevono una pseudo-consacrazione, dal 18 giugno del 1968, da una formula invalida che li rende «eletti» secondo lo spirito manicheo: … Et nunc effunde super hunc electum eam virtutem …” effondi su questo eletto …] – Il fondatore di questa chiesa è un certo Scythianos (lo sciziano), che viveva, si dice, ai tempi degli Apostoli. Egli avrebbe predicato una gnosi cristiana in Palestina. Il suo discepolo Terebinto, redigerà quattro libri contenenti il suo insegnamento; i “Misteri”, i “Capitoli”, il “Vangelo” e il “tesoro”. Dopo la morte dei suo maestro, Terebinto si recò a Babilonia, dichiarando di chiamarsi « Buddha », di essere nato da una vergine ed essere stato nutrito dagli angeli sulle montagne. – Ma il “vero” maestro che ha dato il nome a questa chiesa gnostica, è Mani (216-277), che i Latini ed i Greci hanno chiamato Manicheo. Piuttosto che un pensatore ed un fondatore di religione, egli fu piuttosto un notevole organizzatore e costruttore di chiese e di comunità che si diffusero in tutto l’Oriente, fino all’Asia centrale. Il suo insegnamento è semplicemente la “gnosi” di Marcione e di Basilide. Non è affatto originale, ma insiste soltanto su: 1) – una accentuazione particolare del doppio principio del mondo, l’esistenza di un “dio buono” e di un “dio cattivo” in conflitto eterno, e 2) – sulla reincarnazione delle anime. – Egli si diede il nome di « Mani », che in sanscrito significa « gemma, pietra preziosa ». In un inno manicheo, il « canto della perla », estratto dagli atti di Tommaso, è salutato con il titolo di « figlio del re ». In questo inno ci si racconta che il “creatore” ha posto nel corpo di Adamo una “perla” preziosa che, passando da corpo a corpo, ha dato nascita a Gesù nel seno di Maria. Egli stesso, Mani, si dice figlio di una vedova, quindi concepito dallo Spirito Santo (i franco-massoni, che sono gli autentici eredi dei Manichei, si chiamano ancora oggi tra loro, i “figli della vedova”, anche se ne danno una diversa motivazione, presunta biblica !?!). Anch’egli è dunque uscito dalla “perla”, questa pietra preziosa di cui ha preso il nome. Stabilitosi a Babilonia, come il suo maestro Terebinto, egli spiega ai suoi discepoli: « Dopo che la chiesa della carne è stata elevata sulle alture, allora è stato inaugurato il mio apostolato sul quale mi avete interrogato. Dopo di ciò è stato inviato il Paraclito, lo Spirito di verità, che è venuto a voi in questa ultima generazione, conformemente a ciò che aveva detto Gesù: “Nell’ora in cui partirò, vi invierò il Paraclito, e quando il Paraclito sarà venuto, istruirà il mondo e vi parlerà della giustizia”. Poi egli racconta che durante il regno del re Ardashir, re sassanide che regnò nel secolo terzo della nostra era sulla Persia, « il Paraclito vivente è disceso verso di lui, si è intrattenuto con lui e gli ha rivelato i misteri nascosti ». Dopo averli enumerati egli conclude: « Così mi è stato rivelato dal Paraclito tutto ciò che è accaduto e tutto ciò che accadrà, tutto ciò che l’occhio vede, tutto ciò che l’orecchio ascolta, tutto ciò che l’intelligenza comprende. Da lui ho appreso a conoscere tutto (è la gnosi!), con lui ho visto il tutto (è il panteismo!), io sono divenuto con lui un solo corpo ed un solo spirito ». si tratta dunque di una totale identificazione con lo Spirito divino. Il manicheismo è certamente, come tutta la gnosi, una eresia che si è sviluppata sul tronco cristiano come un tumore parassita. In effetti, Mani si dice discepolo di Gesù. Le sue lettere iniziano con la formula: “Manicheus apostolus Jesu Cristi”. Egli ha composto degli inni in onore di Gesù. I suoi discepoli ne hanno composti altri in suo onore: preghiere a Mani, inni in onore del suo martirio, salmi per la festa di Bêma, in onore della sua morte, etc. … All’inizio dei suoi “Kephalaia” (o Capitoli): « L’illuminato (il Buddha) dice ai suoi discepoli: alla fine degli anni del re Ardashit, io sono partito per predicare. Io mi sono recato su un vascello nei paesi dell’Indiani, ho predicato loro la speranza della vita, ed ho scelto là una buona élite. L’anno in cui morì il re Ardashir ed in cui divenne re il figlio Shapûr, egli mi fece venire e mi sono recato su di un vascello dai paesi degli Indiani nel paese dei Persiani, e dal paese dei Persiani vengo nel paese di Babilonia … ». Nell’introduzione al suo libro “Kephalaia”, Mani insiste sui suoi tre precursori: Gesù, Zarades (probabilmente Zoroastro) e Buddha. Questi sono, egli dice, i suoi tre fratelli, interpreti della medesima saggezza. « Tutti gli apostoli, miei fratelli che sono venuti prima di me, non hanno scritto la loro saggezza, come l’ho scritta io. Essi non l’hanno rappresentata con dei dipinti come l’ho rappresentata io. La mia religione, fin dai suoi inizi, oltrepassa le religioni precedenti. » Si noti la progressione di questa confessione: Gesù non si distingue da Zaradès, né da Buddha; tuttavia egli viene sempre nominato per primo, di modo che gli altri sembrano essere suoi discepoli. Essi non hanno dato un insegnamento originale, distinto dal suo, ma sottolinea bene l’identità dei loro insegnamenti. Questi sono i “maestri” della chiesa gnostica che egli non ha fondato, ma che ha tuttavia diffuso in tutta l’Asia. Non si trovano nel suo insegnamento caratteri particolari che potrebbero derivare da un buddhismo insegnato precedentemente a lui, come ci appare oggi nei libri sanscriti. « Nell’insegnamento originale di Mani – scrive Burkitt – non vedo alcuna traccia sicura che ci faccia riconoscere il buddhismo, come elemento costitutivo. Buddha è menzionato da Mani con rispetto, così come menziona Platone ed Ermete-Trismegisto ». Egli è dunque un anello di congiunzione in una catena di maestri gnostici successivi. Alfaric afferma che Mani non ha conosciuto il Buddha, ma solo la gnosi del suo tempo. – Quando la Chiesa cristiana, greca o nestoriana, accettava il ritorno dei manichei convertiti, imponeva loro una formula di abiura  con la quale essi rigettavano l’insegnamento di Scythianos, di Zaradès, di Buoddha e di Mani. Questi quattro personaggi erano dunque considerati come i capi successivi di una stessa religione. Appariva evidente che il Bouddha di cui parla Mani non è altri che il suo predecessore Terebinto. La terza omelia dei Manichei ci racconta la “passione” di Mani. È una scopiazzatura sistematica della Passione di Cristo e delle recite dei martiri cristiani. Si ignora la data della sua morte. Egli viene arrestato dal re sassanide, gettato in prigione dove morì per consunzione dopo qualche tempo. Poi c’è, naturalmente l’“ascensione”: Mani rigetta il suo corpo e sale con la rapidità di una freccia o di una luce fino alla sfera lunare da dove veglierà sulla sua chiesa. Come per la morte di Gesù, si produssero fenomeni soprannaturali: oscurità del cielo, terremoti, voci imponenti che si fecero ascoltare, sconvolgimento negli uomini che cadono faccia a terra. Le voci della sua morte si diffondono nella città, i discepoli si riuniscono alla porta della prigione e fanno lamenti. Tre sante donne vergini si recano a baciare il volto del morto e fuggono per paura del re.  – Non si tratta questa volta di una crocifissione, benché il termine sia citato: “crocifissione” o dârgirdêh. Ma bisogna ben comprendere il senso di questo termine presso gli gnostici. La croce, per gli gnostici, è lo “stauros”, il limite che occorre superare per abbandonare il proprio corpo di polvere per risalire al pleroma, o il gran tutto divino.  – Il primo successore di Mani, è Mar Sîsîn che i greci hanno chiamato sisinnios. Altre omelie ci raccontano la sua consacrazione da Mani imprigionato, il suo martirio, la sua “crocifissione”. Anch’egli è chiamato “il Bouddha”, l’illuminato, ed il suo nome fu collegato a quello degli altri primi discepoli di Mani, nella celebrazione del Bêma, che è l’anniversario della sua morte: questi sono Thomas (probabilmente l’autore del Vangelo gnostico, detto di Tommaso), Addas o Addo, in latino Adimante ed Hermas. Secondo Faustus di Milène, “dopo il beato padre Manicheo, Adimante è il solo al quale ci si deve attaccare, ed è Sant’Agostino che segnala un’opera di quest’ultimo contro il quale compone un trattato. Ricordiamo che tutti i successori di Mani si sono nominati “Buddha”, cioè l’“illuminato”. – Questo lungo sviluppo sulla vita di Mani, il Buddha, è destinato a far apparire nella recita del Buddha, come lo conosciamo oggi, tutte le vestigia considerevoli, le riprese quasi testuali dei testi manichei o cristiani ai quali si aggiungono, nel corso dei secoli, leggende numerose per sfigurare la primaria sorgente. Tentiamo di ristabilire l’essenziale. – Il Buddha si chiama pure “Çakia-mouni”. Il monaco della casta di Çakia, dunque degli Sciti, il maestro venuto dall’Occidente per insegnare ai popoli del’India. Egli esce dalla linea reale, come Mani che si proclama “figlio del re”; egli è concepito dalla madre Mâyâ Dêvî: la moglie del re Couddhoudana, che ha appreso in sogno che concepirà il suo figlio senza il concorso del suo sposo. Egli è dunque figlio di una vergine. Sua madre partorisce appoggiata su un’acacia (pianta introdotta nella saga e nelle favole massoniche) i cui rami si abbassano per ricoprirlo, episodio che si ritrova nei vangeli apocrifi. Egli esce dall’anca destra di sua madre “bello, brillante, puro come una gemma (Mani) posto su una fine stoffa di Benares”. Alla sua nascita, una stella sorge ad ovest. Tutti questi fatti sono ricopiati dal vangelo dell’infanzia e dal vangelo di Giacomo che sono di origine gnostica. Notiamo che il titolo di Mani è applicato più volte nelle invocazioni che gli vengono indirizzate dai monaci buddhisti. – Un vegliardo rinomato per la sua saggezza, il ricco Asita, viene, come Simeone, a salutare il bambino e predice il suo elevato destino versando lacrime perché non vivrà lungamente per esserne testimone. Buddha riceve le rivelazione della sua missione sotto il famoso “ficus religiosa”, la ficaia che riveste un ruolo sì importante nei Vangeli. Poi Buddha digiuna per quarantanove giorni. Egli subisce la tentazione di Mâra, il maligno, che gli propone l’impero del mondo, poi lo invita ad entrare nel Nirvana. Il Buddha resiste e mette in fuga le legioni del principe delle tenebre. Subisce una trasfigurazione in cui il suo corpo risplende di luce. Molte sue recite sono incontestabilmente ricopiate dai Vangeli, ad esempio quella del figliuol prodigo, il cieco-nato, la donna di casta inferiore incontrata alla fontana. Poi egli fa un’entrata trionfale nella città natale, Kapilavastou, della quale predice la prossima distruzione. I suoi discepoli si radunano insieme a lui. Un traditore, Devadatta, si infiltra nel suo gruppo. Al momento della sua morte il sole si oscura, una meteora cade, scoppia un fulmine, il sole trema ed un vento di terrore passa sulla terra.  – Ecco una recita che “pone problemi”, come suol dirsi: come attribuire le scene più importanti della vita di Buddha ad un personaggio che sarebbe vissuto diversi secoli prima dell’era cristiana? La cosa è talmente inverosimile che sembra proprio impossibile ed assurda. Ricordiamo ancora che tale ipotesi è costruita sul vuoto e non poggia su alcuna prova. Ma un esame più attento selle rovine insabbiate dell’Asia centrale ci fa assistere alla lenta trasformazione delle comunità manichee in monasteri buddhisti.

[Continua]

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA-APOSTATA DI TORNO: “PASCENDI” (4)

Il Santo Padre, in questa ultima parte dell’Enciclica, conclude l’analisi del modernismo, la cui dottrina è definita, in modo irrevocabile ed irreformabile, la “sintesi di tutte le eresie”. Ancora si accenna all’Agnosticismo, al Simbolismo, al Panteismo ed all’immanenza divina. Gli uomini che ad esso aderiscono, lo fanno, secondo il giudizio del Sommo Pontefice, per due motivi essenziali: la superbia e l’ignoranza! Tra  gli ostacoli a queste perniciose eresie, “tre sono i principali che più sentono i modernisti opposti ai loro conati: il metodo scolastico di ragionare, l’autorità dei Padri con la Tradizione, il Magistero Ecclesiastico. Ancora alcuni inganni e strategie, come quella basilare di rendere le cattedre loro affidate delle “cattedre di pestilenza” specie in seno ai seminari, onde formare un clero già “bacato” dal verme del modernismo. A questo punto il Pontefice rompe gli indugi e impartisce una serie di disposizioni atte ad arginare e ad eliminare ogni contaminazione gnostica veicolata dal modernismo; severe sono le disposizioni ed i richiami soprattutto per i Vescovi, invitati perentoriamente a vegliare sulle vocazioni sacerdotali, sulle persone alle quali affidare incarichi, sulle pubblicazioni da esaminare, da autorizzare o da vietare. – Se la diagnosi è stata giusta e la terapia appropriata, c’è da lamentare che però si sia agito troppo tardi. Il cancro gnostico-modernista è stato arginato, è indubbio, ma la gravità del male e le sue metastasi erano talmente radicate, diremmo terminali, da generare ben presto recidive di sintomi ad infausta evoluzione e prognosi. E purtroppo così è stato: il cancro, il tumore, il bubbone gnostico-modernista, dopo un’ulteriore infruttuosa “chemioterapia” attuata da S. S. Pio XII con documenti denuncianti e condannanti [pensiamo ad esempio alla Humani Generis], è  scoppiato con il conciliabolo Vaticano c.d. secondo, generando una gangrena devastante, una cachessia mortale nelle istituzioni ecclesiastiche e nella Chiesa Cattolica tutta, ridotta “apparentemente” ad una larva, una conchiglia, un carapace immondo! Sottolineiamo però: “apparente”, perché intanto il Capo della Chiesa, cioè Gesù-Cristo, aveva già provveduto ad “eclissare” la “vera” Chiesa, esiliandone il Capo visibile, il Santo Padre, in modo da perpetuare la sequela dei suoi Vicari, la sua Sposa illibata, il suo Corpo Mistico come da promessa evangelica: … non prævalebunt … , tanto da sbugiardare le conventicole congiunte a sradicare la “vigna del Signore”, “ … Astitérunt reges terræ, et príncipes convenérunt in unum advérsus Dóminum, et advérsus Christum ejus… [Ps. II], ed in barba a tutti i vili traditori che si sono uniti al “signore dell’universo”, al baphomet-lucifero che, abominio della desolazione, si fa adorare sugli altari dei templi un tempo cristiani. [… di ciò parla anche l’Apostolo dicendo che «l’uomo d’iniquità è l’oppositore che s’innalza contro tutto ciò che si dice Dio e si adora; tanto da osare di assidersi nel tempio di Dio, spacciandosi per Dio» (2Thess. 2,4)…- Homilía sancti Hierónymi Presbýteri in Liber 4 Comment. in cap. XXIV Matthæi]; il modernismo gnostico, erede della “gnosi primordiale”, l’eterno cancro che ha sempre parassitato il Cristianesimo fin dalle origini [… si pensi a Simon Mago, ai Manichei etc. etc.] è attualmente condensato, nell’ultimo suo assalto per distruggere la Chiesa Cattolica – si fieri potest – nella setta masson-vaticana postconciliare del “novus ordo”, edificio maldestramente restaurato della sinagoga di satana. – Un’ultima osservazione di Papa Sarto:  ” … dopo ciò, Venerabili Fratelli, qual meraviglia se i Cattolici, strenui difensori della Chiesa, son fatti segno dai modernisti di somma malevolenza e di livore? … “. Oggi ovviamente, inutile dirlo, questo aspetto è ancor più marcato! – L’Enciclica termina qui, ma viene completata dal decreto “Lamentabili”, in cui il Santo Officio, autorizzato da San Pio X enumera, riprovandole e condannandole, 65 proposizioni eretico-moderniste, e dall’Atto della Sede Apostolica “Sacrorum Antistitum“, nel quale si faceva, …  correggo: SI FA, obbligo a tutti i chierici e a tutti coloro che collaborano alle attività ecclesiastiche, di aderire al Giuramento Antimodernista [“giustamente” rimosso dal super-modernista Montini, l’antipapa sedicente Paolo VI, perché per lui ed adepti, era insopportabile!], del quale ci occuperemo, a Dio piacendo, nelle settimane prossime. Intanto meditiamo attentamente questa “coda” di Pascendi.

Pascendi Dominici gregis (4)

In tutta questa esposizione della dottrina dei modernisti vi saremo sembrati, o Venerabili Fratelli, prolissi forse oltre il dovere. Ma è stato ciò necessario, sì per non sentirCi accusare, come suole, di ignorare le loro cose, e sì perché si veda che, quando parlasi di modernismo, non parlasi di vaghe dottrine non unite da alcun nesso, ma di un unico corpo e ben compatto, ove chi una cosa ammetta uopo è che accetti tutto il rimanente. Perciò abbiam voluto altresì far uso di una forma quasi didattica, né abbiamo ricusato il barbaro linguaggio onde i modernisti fanno uso. Ora, se quasi di un solo sguardo abbracciamo l’intero sistema, niuno si stupirà ove Noi lo definiamo, affermando esser esso la sintesi di tutte le eresie. Certo, se taluno si fosse proposto di concentrare quasi il succo ed il sangue di quanti errori circa la fede furono sinora asseriti, non avrebbe mai potuto riuscire a far meglio di quel che han fatto i modernisti. Questi anzi tanto più oltre si spinsero che, come già osservammo, non pure il Cattolicesimo ma ogni qualsiasi religione hanno distrutta. Così si spiegano i plausi dei razionalisti: perciò coloro, che fra i razionalisti parlano più franco ed aperto, si rallegrano di non avere alleati più efficaci dei modernisti. E per fermo, rifacciamoci alquanto, o Venerabili Fratelli, a quella esizialissima dottrina dell’agnosticismo. Con essa, dalla parte dell’intelletto, è chiusa all’uomo ogni via per arrivare a Dio, mentre si pretende di aprirla più acconcia per parte di un certo sentimento e dell’azione. Ma chi non iscorge quanto vanamente ciò si affermi? Il sentimento risponde sempre all’azione di un oggetto, che sia proposto dall’intelletto o dal senso. Togliete di mezzo l’intelletto; l’uomo, già portato a seguire il senso, lo seguirà con più impeto. Di più, le fantasie, quali che esse siano, di un sentimento religioso non possono vincere il senso comune: ora questo insegna che ogni perturbazione od occupazione dell’animo non è di aiuto ma d’impedimento alla ricerca del vero; del vero, diciamo, quale è in se; giacché quell’altro vero soggettivo, frutto del sentimento interno e dell’azione, se è acconcio per giocare di parole, poco interessa l’uomo a cui soprattutto importa di conoscere se siavi o no fuori di lui un Dio, nelle cui mani una volta dovrà cadere. Ricorrono, a vero dire, i modernisti per aiuto all’esperienza. Ma che può aggiungere questa al sentimento? Nulla: solo potrà renderlo più intenso: dalla quale intensità sia proporzionatamente resa più ferma la persuasione della verità dell’oggetto. Ma queste due cose non faranno si che il sentimento lasci di essere sentimento, né ne cangiano la natura sempre soggetta ad inganno, se l’intelletto non lo scorga; anzi la confermano e la rinforzano, giacché il sentimento quanto è più intenso tanto a miglior diritto è sentimento. Trattandosi poi qui di sentimento religioso e di esperienza in esso contenuta, sapete bene, o Venerabili Fratelli, di quanta prudenza sia mestieri in siffatta materia e di quanta scienza che regoli la stessa prudenza. Lo sapete dalla pratica delle anime, di talune, in specialità, in cui domina il sentimento: lo sapete dalla consuetudine dei trattati di ascetica; i quali, quantunque disprezzati da costoro, contengono più solidità di dottrina e più sagacia di osservazione che non ne vantino i modernisti. A Noi per fermo sembra cosa da stolto o almeno da persona al sommo imprudente, ritener per vere, senza esame di sorta, queste intime esperienze quali dai modernisti si spacciano. Perché allora, lo diciamo qui di passata, perché, se queste esperienze hanno si grande forza e certezza, non l’avrà uguale quella esperienza che molte migliaia di cattolici affermano di avere, che i modernisti cioè battono un cammino sbagliato? Sola questa esperienza sarebbe falsa e ingannevole? La massima parte degli uomini ritiene fermamente e sempre riterrà che col solo sentimento e colla sola esperienza senza guida e lume dell’intelletto, mai non si potrà giungere alla conoscenza di Dio. Dunque resta di nuovo o l’ateismo o l’irreligione assoluta. Né i modernisti hanno nulla a sperar di meglio dalla loro dottrina del simbolismo. Imperciocché se tutti gli elementi che dicono intellettuali non sono che puri simboli di Dio, perché non sarà un simbolo il nome stesso di Dio o di personalità divina? E se è cosi, si potrà bene dubitare della stessa divina personalità, ed avremo aperta la via al panteismo. E qua similmente, cioè al puro panteismo, mena l’altra dottrina dell’immanenza divina. Giacché domandiamo: siffatta immanenza distingue o no Iddio dall’uomo? Se lo distingue, in che differisce adunque cotal dottrina dalla cattolica? o perché mai rigetta quella della esterna rivelazione? Se poi non lo distingue, eccoci di bel nuovo col panteismo. Ma difatto l’immanenza dei modernisti vuole ed ammette che ogni fenomeno di coscienza nasca dall’uomo in quanto uomo. Dunque di legittima conseguenza inferiamo che Dio e l’uomo sono la stessa cosa; e perciò il panteismo. Finalmente pari è la conseguenza che si trae dalla loro decantata distinzione fra la scienza e la fede. L’oggetto della scienza lo pongono essi nella realtà del conoscibile; quello della fede nella realtà dell’inconoscibile. Orbene l’inconoscibile è tale per la totale mancanza di proporzione fra l’oggetto e la mente. Ma questa mancanza di proporzione, secondo gli stessi modernisti, non potrà mai esser tolta. Dunque l’inconoscibile resterà sempre inconoscibile tanto pel credente quanto pel filosofo. Dunque se si avrà una religione, questa sarà della realtà dell’inconoscibile. La quale realtà perché poi non possa essere l’anima universale del mondo, come l’ammettono taluni razionalisti, noi nol vediamo. Ma basti sin qui per conoscere per quante vie la dottrina del modernismo conduca all’ateismo e alla distruzione di ogni religione. L’errore dei protestanti dié il primo passo in questo sentiero; il secondo è del modernismo: a breve distanza dovrà seguire l’ateismo. – A più intimamente conoscere il modernismo e a trovare più acconci rimedi a sì grave malore, gioverà ora, o Venerabili Fratelli, ricercare alquanto le cause, onde esso è nato ed è venuto crescendo. Non ha dubbio che la prima causa ed immediata sta nell’aberrazione dell’intelletto. Quali cause remote due Noi ne riconosciamo:la curiosità e la superbia. La curiosità, se non saggiamente frenata, basta di per sé sola a spiegare ogni fatta di errori. Per lo che il Nostro Predecessore Gregorio XVI a buon diritto scriveva (Lett. Enc. “Singulari Nos”, 25 giugno 1834): “È grandemente da piangere nel vedere fin dove si profondino i deliramenti dell’umana ragione, quando taluno corra dietro alle novità, e, contro l’avviso dell’Apostolo, si adoperi di saper più che saper non convenga, e confidando troppo in se stesso, pensi dover cercare la verità fuori della Chiesa cattolica, in cui, senza imbratto di pur lievissimo errore, essa si trova“. Ma ad accecare l’animo e trascinarlo nell’errore assai più di forza ha in sé la superbia: la quale, trovandosi nella dottrina del modernismo quasi in un suo domicilio, da essa trae alimento per ogni verso e riveste tutte le forme. Per la superbia infatti costoro presumono audacemente di se stessi e si ritengono e si spacciano come norma di tutti. Per la superbia si gloriano vanissimamente quasi essi soli possiedano la sapienza, e dicono gonfi e pettoruti: “Noi non siamo come il rimanente degli uomini“; e per non essere di fatto posti a paro degli altri, abbracciano e sognano ogni sorta di novità, le più assurde. Per la superbia ricusano ogni soggezione, e pretendono che l’autorità debba comporsi colla libertà. – Per la superbia, dimentichi di se stessi, pensano solo a riformare gli altri, né rispettano in ciò qualsivoglia grado fino alla potestà suprema. No, per giungere al modernismo, non vi è sentiero più breve e spedito della superbia. Se un laico cattolico, se un sacerdote dimentichi il precetto della vita cristiana che c’impone di rinnegare noi stessi se vogliamo seguire Gesù Cristo, né sradichi dal suo cuore la mala pianta della superbia; sì costui è dispostissimo quanto mai a professare gli errori del modernismo! Per lo che, o Venerabili Fratelli, sia questo il primo vostro dovere di resistenza a questi uomini superbi, occuparli negli uffici più umili ed oscuri, affinché siano tanto più depressi quanto più essi s’inalberano, e, posti in basso, abbiano minor campo di nuocere. Inoltre, sia da voi stessi, sia per mezzo dei rettori dei Seminari, cercate con somma diligenza di conoscere i giovani che aspirano ad entrare nel clero; e se alcuno ne troviate di carattere superbo, con ogni risolutezza respingetelo dal sacerdozio. Si fosse cosi operato sempre, colla vigilanza e fortezza che faceva di mestieri! Che se dalle cause morali veniamo a quelle che spettano all’intelletto, la prima da notarsi è l’ignoranza. I modernisti, quanti essi sono, che vogliono apparire e farla da dottori nella Chiesa, esaltando a grandi voci la filosofia moderna e schernendo la scolastica, se hanno abbracciata la prima ingannati dai suoi orpelli, ne devono saper grado alla totale ignoranza in che erano della seconda, e dal mancare perciò di mezzo per riconoscere la confusione delle idee e ribattere i sofismi. Dal connubio poi della falsa filosofia colla fede è sorto il loro sistema, riboccante di tanti e si enormi errori. Alla propagazione del quale portassero almeno un minor zelo ed ardore di quel che fanno! Tanta invece è la loro alacrità, cosi indefesso il lavoro, che da strazio il vedere consumate tante forze a danno della Chiesa, le quali, rettamente usate, le sarebbero di vantaggio grandissimo. A trarre poi in inganno gli animi una doppia tattica essi usano: prima si sbarazzano degli ostacoli, poi cercano con somma cura i mezzi che loro giovino, ed instancabili e pazientissimi li mettono in opera. Degli ostacoli, tre sono i principali che più sentono opposti ai loro conati: il metodo scolastico di ragionare, l’autorità dei Padri con la tradizione, il magistero ecclesiastico. Contro tutto questo la loro lotta è accanita. Deridono perciò continuamente e disprezzano la filosofia e la teologia scolastica. Sia che ciò facciano per ignoranza, sia che il facciano per timore o meglio per l’una cosa insieme e per l’altra; certo si è che la smania di novità va sempre in essi congiunta coll’odio della Scolastica; né vi ha indizio più manifesto che taluno cominci a volgere al modernismo, che quando incominci ad aborrire la Scolastica. Ricordino i modernisti e quanti li favoriscono la condanna che Pio IX inflisse alla proposizione che diceva (Sillabo, Prop. 12): “Il metodo ed i principî, con cui gli antichi Dottori scolastici trattarono la teologia, più non si confanno ai bisogni dei nostri tempi ed ai progressi della scienza“. Sono poi astutissimi nello stravolgere la natura e l’efficacia della Tradizione, alfin di privarla di ogni peso e di ogni autorità. Ma starà sempre per i cattolici l’autorità del secondo Sinodo Niceno, il quale condannò “coloro che osano… secondo gli scellerati eretici, disprezzare le ecclesiastiche tradizioni ed escogitare qualsiasi novità o architettare con malizia ed astuzia di abbattere checché sia delle legittime tradizioni della Chiesa cattolica“. Starà sempre la professione del quarto Sinodo Costantinopolitano: “Noi dunque professiamo di serbare e custodire le regole, che tanto dai santi famosissimi Apostoli, quanto dagli uni versali e locali Concili degli ortodossi o anche da qualunque deiloquo Padre e Maestro della Chiesa, furono date alla santa cattolica ed apostolica Chiesa“. Per lo che i Romani Pontefici Pio IV e Pio IX nella professione di fede vollero aggiunto anche questo: “Io ammetto fermissimamente ed abbraccio le apostoliche ed ecclesiastiche tradizioni, e tutte le altre osservanze e costituzioni della medesima Chiesa“. Né altrimenti che della Tradizione giudicano i modernisti dei santissimi Padri della Chiesa. Con estrema temerità li spacciano, come degnissimi bensì di ogni venerazione, ma ignorantissimi di critica e di storia, scusabili solo pei tempi in che vissero. Si studiano infine e si sforzano di attenuare e svilire l’autorità dello stesso Magistero ecclesiastico, sia pervertendo ne sacrilegamente l’origine, la natura, i diritti, sia ricantando liberamente contro di essa le calunnie dei nemici. Del gregge dei modernisti sembra detto ciò che con tanto dolore scriveva il Predecessore Nostro (Motu proprio “Ut mysticam“, 14 marzo 1891): “Per rendere spregiata ed odiosa la mistica Sposa di Cristo, che è la luce vera, i figli delle tenebre furon soliti di opprimerla pubblicamente di una pazza calunnia, e, stravolto il significato e la forza delle cose e delle parole, chiamarla amica di oscurità, mentitrice d’ignoranza, nemica della luce e del progresso delle scienze“. Dopo ciò, Venerabili Fratelli, qual meraviglia se i cattolici, strenui difensori della Chiesa, son fatti segno dai modernisti di somma malevolenza e di livore? Non vi è specie d’ingiurie con cui non li lacerino: l’accusa più usuale è quella di chiamarli ignoranti ed ostinati. Che se la dottrina e l’efficacia di chi li confuta dà loro timore, ne incidono i nervi colla congiura del silenzio. E questa maniera di fare a riguardo dei cattolici è tanto più odiosa perché nel medesimo tempo e senza modo né misura, con continue lodi esaltano chi sta dalla loro; i libri di costoro riboccanti di novità accolgono ed ammirano con grandi applausi; quanto più alcuno si mostra audace nel distruggere l’antico, nel rigettare la tradizione e il magistero ecclesiastico, tanto più gli dàn vanto di sapiente; e per ultimo, ciò che fa inorridire ogni anima retta, se qualcuno sia con dannato dalla Chiesa non solo pubblicamente e profusamente lo encomiano, ma quasi lo venerano come martire della verità. Da tutto questo strepito di lodi e d’improperi colpiti e turbati gli animi giovanili, da una parte per non passare per ignoranti, dall’altra per parere sapienti spinti internamente dalla curiosità e dalla superbia, si dànno per vinti e passano al modernismo. Ma qui già siamo agli artifici con che i modernisti spacciano la loro merce. Che non tentano essi mai per moltiplicare gli adepti? Nei Seminari e nelle Università cercano di ottenere cattedre da mutare insensibilmente in cattedre di pestilenza. Inculcano le loro dottrine, benché forse velatamente, predicando nelle chiese; le annunciano più aperte nei congressi: le introducono e le magnificano nei sociali istituti. Col nome proprio o di altri pubblicano libri, giornali, periodici. Uno stesso e solo scrittore fa uso talora di molti nomi, perché gli incauti siano tratti in inganno dalla simulata moltitudine degli autori. Insomma coll’azione, colla parola, colla stampa tutto tentano, da sembrar quasi colti da frenesia. E tutto ciò con qual esito? Piangiamo pur troppo gran numero di giovani di speranze egregie e che ottimi servigi renderebbero alla Chiesa, usciti fuori dal retto cammino. Piangiamo moltissimi, che, sebbene non giunti tant’oltre, pure, respirata un’aria corrotta, sogliono pensare, parlare, scrivere più liberamente che non si convenga a cattolici. Si contano costoro fra i laici, si contano fra i sacerdoti; e chi lo crederebbe? si contano altresì nelle stesse famiglie dei Religiosi. Trattano la Scrittura secondo le leggi dei modernisti. Scrivono storia e sotto specie di dir tutta la verità, tutto ciò che sembri gettare ombra sulla Chiesa lo pongono diligentissimamente in luce con voluttà mal repressa. Le pie tradizioni popolari, seguendo un certo apriorismo, cercano a tutta possa di cancellare. Ostentano disprezzo per sacre Reliquie raccomandate dalla loro vetustà. Insomma li punge la vana bramosia che il mondo parli di loro; il che si persuadono che non sarà, se dicono soltanto quello che sempre e da tutti fu detto. Intanto si dànno forse a credere di prestare ossequio a Dio ed alla Chiesa; ma in realtà gravissimamente li offendono, non tanto per quel che fanno, quanto per l’intenzione con cui operano e per l’aiuto che prestano utilissimo agli ardimenti dei modernisti. A questo torrente di gravissimi errori, che di celato e alla scoperta va guadagnando, si adoperò con detti e con fatti di opporsi fortemente Leone XIII Predecessore Nostro di felice ricordanza, specialmente a riguardo delle sante Scritture. Ma i modernisti, lo vedemmo, non si lasciano spaventare facilmente: affettando il maggior rispetto ed una somma umiltà, stravolsero a loro senso le parole del Pontefice, e gli atti di Lui li fecero passare come diretti ad altri. Cosi il male è venuto pigliando forza ogni giorno più. – Abbiamo dunque deciso, o Venerabili Fratelli, di non tergiversare più oltre e di por mano a misure più energiche. Preghiamo perciò e scongiuriamo voi che, in negozio di tanto rilievo, non Ci lasciate minimamente desiderare la vostra vigilanza e diligenza e fortezza. E quel che chiediamo ed aspettiamo da voi, lo chiediamo altresì e lo aspettiamo dagli altri pastori delle anime, dagli educatori e maestri del giovine clero, e specialmente dai Superiori generali degli Ordini religiosi.

I

La prima cosa adunque, per ciò che spetta agli studi, vogliamo e decisamente ordiniamo che a fondamento degli studi sacri si ponga la filosofia scolastica. Bene inteso che, “se dai Dottori scolastici furono agitate questioni troppo sottili o fu alcun che trattato con poca considerazione; se fu detta cosa che mal si affaccia con dottrine accertate dei secoli seguenti, ovvero in qualsivoglia modo non ammissibile; non è nostra intenzione che tutto ciò debba servir d’esempio da imitare anche ai di nostri” (Leone XIII, Enc. “Æterni Patris“). Ciò che conta anzi tutto è che la filosofia scolastica, che Noi ordiniamo di seguire, si debba precipuamente intendere quella di San Tommaso di Aquino: intorno alla quale tutto ciò che il Nostro Predecessore stabilì, intendiamo che rimanga in pieno vigore, e se è bisogno, lo rinnoviamo e confermiamo e severamente ordiniamo che sia da tutti osservato. Se nei Seminari si sia ciò trascurato, toccherà ai Vescovi insistere ed esigere che in avvenire si osservi. Lo stesso comandiamo ai Superiori degli Ordini religiosi. Ammoniamo poi quelli che insegnano, di ben persuadersi, che il discostarsi dall’Aquinate, specialmente in cose metafisiche, non avviene senza grave danno. Posto così il fondamento della filosofia, si innalzi con somma diligenza l’edificio teologico. Venerabili Fratelli, promovete con ogni industria possibile lo studio della teologia, talché i chierici, uscendo dai Seminari, ne portino seco un’alta stima ed un grande amore e l’abbiano sempre carissimo. Imperocché “nella grande e molteplice copia di discipline che si porgono alla mente cupida di verità, a tutti è noto che alla sacra Teologia appartiene talmente il primo luogo, che fu antico detto dei sapienti essere dovere delle altre scienze ed arti di servirla e prestarle mano siccome ancelle” (Leone XIII, Lett. Ap. “In magna“, 10 dicembre 1889). Aggiungiamo qui, sembrarCi altresì degni di lode coloro, che, salvo il rispetto alla Tradizione, ai Padri, al Magistero ecclesiastico, con saggio criterio e con norme cattoliche (ciò che non sempre da tutti si osserva) cercano di illustrare la teologia positiva, attingendo lume dalla storia di vero nome. Certamente che alla teologia positiva deve ora darsi più larga parte che pel passato: ciò nondimeno deve farsi in guisa, che nulla ne venga a perdere la teologia scolastica, e si disapprovino quali fautori del modernismo coloro che tanto innalzino la teologia positiva da sembrar quasi spregiare la Scolastica. – In quanto alle discipline profane basti richiamare quel che il Nostro Predecessore disse con molta sapienza (Allocuz. 7 marzo 1580): “Adoperatevi strenuamente nello studio delle cose naturali: nel qual genere gl’ingegnosi ritrovati e gli utili ardimenti dei nostri tempi, come di ragione sono ammirati dai presenti, cosi dai posteri avranno perpetua lode ed encomio“. Questo però senza danno degli studi sacri: il che ammoniva lo stesso Nostro Predecessore con queste altre gravissime parole (Loc. cit.): “La causa di siffatti errori, chi la ricerchi diligentemente, sta principalmente in ciò che di questi nostri tempi, quanto più fervono gli studi delle scienze naturali, tanto più son venute meno le discipline più severe e più alte: alcune di queste infatti sono quasi poste in dimenticanza; alcune sono trattate stancamente e con leggerezza, e, ciò che è indegno, perduto lo splendore della primitiva dignità, sono deturpate da prave sentenze e da enormi errori“. Con questa legge ordiniamo che si regolino nei Seminari gli studi delle scienze naturali.

II

A questi ordinamenti tanto Nostri che del Nostro Antecessore fa mestieri volgere l’attenzione ognora che si tratti di scegliere i moderatori e maestri così dei Seminari come delle Università cattoliche. Chiunque in alcun modo sia infetto di modernismo, senza riguardi di sorta si tenga lontano dall’ufficio cosi di reggere e cosi d’insegnare: se già si trovi con tale incarico, ne sia rimosso. Parimente si faccia con chiunque o in segreto o apertamente favorisce il modernismo, sia lodando modernisti, sia attenuando la loro colpa, sia criticando la Scolastica, i Padri, il Magistero ecclesiastico, sia ricusando obbedienza alla potestà ecclesiastica, da qualunque persona essa si eserciti; e similmente con chi in materia storica, archeologica e biblica si mostri amante di novità; e finalmente, con quelli altresì che non si curano degli studi sacri o paiono a questi anteporre i profani. In questa parte, o Venerabili Fratelli, e specialmente nella scelta dei maestri, non sarà mai eccessiva la vostra attenzione e fermezza; essendoché sull’esempio dei maestri si formano per lo più i discepoli. Poggiati adunque sul dovere di coscienza, procedete in questa materia con prudenza sì ma con fortezza. Con non minore vigilanza e severità dovrete esaminare e scegliere chi debba essere ammesso al sacerdozio. Lungi, lungi dal clero l’amore di novità: Dio non vede di buon occhio gli animi superbi e contumaci! A niuno in avvenire si conceda la laurea dì teologia o di diritto canonico, che non abbia prima compito per intero il corso stabilito di filosofia scolastica. Se tale laurea ciò non ostante venisse concessa, sia nulla. Le ordinazioni che la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari emanò nell’anno 1896 pei chierici d’Italia dell’uno e dell’altro clero circa il frequentare le Università, stabiliamo che d’ora innanzi rimangano estese a tutte le nazioni. I chierici e sacerdoti iscritti ad un Istituto o ad una Università cattolica non potranno seguire nelle Università civili quei corsi, di cui vi siano cattedre negli Istituti cattolici ai quali essi appartengono. Se in alcun luogo si è ciò permesso per il passato, ordiniamo che più non si conceda nell’avvenire. I Vescovi che formano il Consiglio direttivo di siffatti cattolici Istituti o cattoliche Università veglino con ogni cura perché questi Nostri comandi vi si osservino costantemente.

III

È parimente officio dei Vescovi impedire che gli scritti infetti di modernismo o ad esso favorevoli si leggano se sono già pubblicati, o, se non sono, proibire che si pubblichino. Qualsivoglia libro o giornale o periodico di tal genere non si dovrà mai permettere o agli alunni dei Seminari o agli uditori delle Università cattoliche: il danno che ne proverrebbe non sarebbe minore di quello delle letture immorali; sarebbe anzi peggiore, perché ne andrebbe viziata la radice stessa del vivere cristiano. Né altrimenti si dovrà giudicare degli scritti di taluni cattolici, uomini del resto di non malvagie intenzioni, ma che digiuni di studi teologici e imbevuti di filosofia moderna, cercano di accordare questa con la fede e di farla servire, come essi dicono, ai vantaggi della fede stessa. Il nome e la buona fama degli autori fa si che tali libri sieno letti senza verun timore e sono quindi più pericolosi per trarre a poco a poco al modernismo. – Per dar poi, o Venerabili Fratelli, disposizioni più generali in sì grave materia, se nelle vostre diocesi corrono libri perniciosi, adoperatevi con fortezza a sbandirli, facendo anche uso di solenni condanne. Benché questa Sede Apostolica ponga ogni opera nel togliere di mezzo siffatti scritti, tanto oggimai ne è cresciuto il numero, che a condannarli tutti non bastano le forze. Quindi accade che la medicina giunga talora troppo tardi, quando cioè pel troppo attendere il male ha già preso piede. Vogliamo adunque che i Vescovi, deposto ogni timore, messa da parte la prudenza della carne, disprezzando il gridio dei malvagi, soavemente, sì, ma con costanza, adempiano ciascuno le sue parti; memori di quanto prescriveva Leone XIII nella Costituzione Apostolica “Officiorum“: “Gli Ordinari, anche come Delegati della Sede Apostolica, si adoperino di proscrivere e di togliere dalle mani dei fedeli i libri o altri scritti nocivi stampati o diffusi nelle proprie diocesi“. Con queste parole si concede, è vero, un diritto: ma s’impone in pari tempo un dovere. Né stimi veruno di avere adempiuto cotal dovere, se deferisca a Noi l’uno o l’altro libro mentre altri moltissimi si lasciano divulgare e diffondere. Né in ciò vi deve rattenere il sapere che l’autore di qualche libro abbia altrove ottenuto l’Irnprimatur; sì perché tal concessione può essere simulata, sì perché può essere stata fatta per trascuratezza o per troppa benignità e per troppa fiducia nel l’autore, il quale ultimo caso può talora avverarsi negli Ordini religiosi. Aggiungasi che, come non ogni cibo si confà a tutti egual mente, cosi un libro che in un luogo sarà indifferente, in un altro, per le circostanze, può tornare nocivo. Se pertanto il Vescovo, udito il parere di persone prudenti, stimerà di dover condannare nella sua diocesi anche qualcuno di siffatti libri, gliene diamo ampia facoltà, anzi glielo rechiamo a dovere. Intendiamo bensì che si serbino in tal fatto i riguardi convenienti, bastando forse che la proibizione si restringa talora soltanto al clero; ma eziandio in tal caso sarà obbligo dei librai cattolici di non porre in vendita i libri condannati dal Vescovo. E poiché Ci cade il discorso, vigilino i Vescovi che i librai per bramosia di lucro non spaccino merce malsana: il certo è che nei cataloghi di taluni di costoro si annunziano di frequente e con lode non piccola i libri dei modernisti. Se essi ricusano di obbedire, non dubitino i Vescovi di privarli del titolo di librai cattolici; similmente e con più ragione, se avranno quello di vescovili; che se avessero titolo di pontifici, si deferiscano alla Sede Apostolica. A tutti finalmente ricordiamo l’articolo XXVI della mentovata Costituzione Apostolica “Officiorum“: “Tutti coloro che abbiano ottenuta facoltà apostolica di leggere e ritenere libri proibiti, non sono perciò autorizzati a leggere libri o giornali proscritti dagli Ordinari locali, se pure nell’indulto apostolico non sia data espressa facoltà di leggere e ritenere libri condannati da chicchessia“.

IV

Ma non basta impedire la lettura o la vendita dei libri cattivi; fa d’uopo impedirne altresì la stampa. Quindi i Vescovi non concedano la facoltà di stampa se non con la massima severità. E poiché è grande il numero delle pubblicazioni, che, a seconda della Costituzione “Officiorum“, esigono l’autorizzazione dell’Ordinario, in talune diocesi si sogliono determinare in numero conveniente censori di officio per l’esame degli scritti. Somma lode noi diamo a siffatta istituzione di censura; e non solo esortiamo, ma ordiniamo che si estenda a tutte le diocesi. In tutte adunque le Curie episcopali si stabiliscano Censori per la revisione degli scritti da pubblicarsi; si scelgano questi dall’uno e dall’altro clero, uomini di età, di scienza e di prudenza e che nel giudicare sappiano tenere il giusto mezzo. Spetterà ad essi l’esame di tutto quello che, secondo gli articoli XLI e XLII della detta Costituzione, ha bisogno di permesso per essere pubblicato. Il Censore darà per iscritto la sua sentenza. Se sarà favorevole, il Vescovo concederà la facoltà di stampa con la parola Imprimatur, la quale però sarà preceduta dal Nihil obstat e dal nome del Censore. Anche nella Curia romana non altrimenti che nelle altre, si stabiliranno censori di ufficio. L’elezione dei medesimi, dopo interpellato il Cardinale Vicario e coll’annuenza ed approvazione dello stesso Sommo Pontefice, spetterà al Maestro del sacro Palazzo Apostolico. A questo pure toccherà determinare per ogni singolo scritto il Censore che lo esamini. La facoltà di stampa sarà concessa dallo stesso Maestro ed insieme dal Cardinale Vicario o dal suo Vicegerente, premesso però, come sopra si disse, il Nulla osta col nome del Censore. Solo in circo stanze straordinarie e rarissimamente si potrà, a prudente arbitrio del Vescovo, omettere la menzione del Censore. Agli autori non si farà mai conoscere il nome del Censore, prima che questi abbia dato giudizio favorevole: affinché il Censore stesso non abbia a patir molestia o mentre esamina lo scritto o in caso che ne disapprovi la stampa. Mai non si sceglieranno Censori dagli Ordini religiosi, senza prima averne secretamente il parere del Superiore provinciale, o, se si tratta di Roma, del Generale: questi poi dovranno secondo coscienza attestare dei costumi, della scienza e della integrità della dottrina dell’eligendo. Ammoniamo i Superiori religiosi del gravissimo dovere che essi hanno di mai non permettere che alcun che si pubblici dai loro sudditi senza la previa facoltà loro e dell’Ordinario diocesano. Per ultimo affermiamo e dichiariamo che il titolo di Censore, di cui taluno sia insignito, non ha verun valore né mai si potrà arrecare come argomento per dar credito alle private opinioni del medesimo. Detto ciò generalmente, nominatamente ordiniamo una osservanza più diligente di quanto si prescrive nell’articolo XLII della citata Costituzione “Officiorum“, cioè: “È vietato ai sacerdoti secolari, senza previo permesso dell’Ordinario, prendere la direzione di giornali o di periodici“. Del quale permesso, dopo ammonitone, sarà privato chiunque ne facesse mal uso. Circa quei sacerdoti, che hanno titoli di corrispondenti o collaboratori, poiché avviene non raramente che pubblichino, nei giornali o periodici, scritti infetti di modernismo, vedano i Vescovi che ciò non avvenga; e se avvenisse, ammoniscano e diano proibizione di scrivere. Lo stesso con ogni autorità ammoniamo che facciano i Superiori degli Ordini religiosi: i quali se si mostrassero in ciò trascurati, provvedano i Vescovi, con autorità delegata dal Sommo Pontefice. I giornali e periodici pubblicati dai cattolici abbiano, per quanto sia possibile, un Censore determinato. Sara obbligo di questo leggere opportunamente i singoli fogli o fascicoli, dopo già pubblicati: se cosa alcuna troverà di pericoloso, ordinerà che sia corretto quanto prima. Lo stesso diritto avrà il Vescovo, anche in caso che il Censore non abbia reclamato.

V

Ricordammo già sopra i congressi e i pubblici convegni come quelli nei quali i modernisti si adoprano di propalare e propagare le loro opinioni. I Vescovi non permetteranno più in avvenire, se non in casi rarissimi, i congressi di sacerdoti. Se avverrà che li permettano, lo faranno solo a questa condizione: che non vi si trattino cose di pertinenza dei Vescovi o della Sede Apostolica, non vi si facciano proposte o postulati che implichino usurpazione della sacra potestà, non vi si faccia affatto menzione di quanto sa di modernismo, di presbiterianismo, di laicismo. A tali convegni, che dovranno solo permettersi volta per volta e per iscritto o in tempo opportuno, non potrà intervenire sacerdote alcuno di altra diocesi, se non porti commendatizie del proprio Vescovo. A tutti i sacerdoti poi non passi mai di mente ciò che Leone XIII raccomandava con parole gravissime (Lett. Enc. “Nobilissima Gallorum“, 10 febbraio 1884): “Sia intangibile presso i sacerdoti l’autorità dei propri Vescovi; si persuadano che il ministero sacerdotale, se non si eserciti sotto la direzione del Vescovo, non sarà né santo, né molto utile, né rispettabile“.

VI

Ma che gioveranno, o Venerabili Fratelli, i Nostri comandi e le Nostre prescrizioni, se non si osservino a dovere e con fermezza? Perché questo si ottenga, Ci è parso espediente estendere a tutte le diocesi ciò che i Vescovi dell’Umbria (Atti del Congr. dei Vescovi dell’Umbria, nov. 1849, tit. II, art. 6), molti anni or sono, con savissimo consiglio stabilirono per le loro: “Ad estirpare – così essi – gli errori già diffusi e ad impedire che più oltre si diffondano o che esistano tuttavia maestri di empietà, pei quali si perpetuino i perniciosi effetti originati da tale diffusione, il sacro Congresso, seguendo gli esempi di San Carlo Borromeo, stabilisce che in ogni diocesi si istituisca un Consiglio di uomini commendevoli dei due cleri, a cui spetti il vigilare se e con quali arti i nuovi errori si dilatino o si propaghino, e farne avvertito il Vescovo perché di concorde avviso prenda rimedi con cui il male si estingua fin dal principio e non si spanda di vantaggio a rovina delle anime, e, ciò che è peggio, si afforzi e cresca“. Stabiliamo adunque che un siffatto Consiglio, che si chiamerà di vigilanza, si istituisca quanto prima in tutte le diocesi. I membri di esso si sceglieranno colle stesse norme già prescritte pei Censori dei libri. Ogni due mesi, in un giorno determinato, si raccoglierà in presenza del Vescovo: le cose trattate o stabilite saranno sottoposte a legge di secreto. I doveri degli appartenenti al Consiglio saranno i seguenti: Scrutino con attenzione gl’indizi di modernismo tanto nei libri che nell’insegnamento; con prudenza, prontezza ed efficacia stabiliscano quanto è d’uopo per la incolumità del clero e della gioventù. Combattano le novità di parole, e rammentino gli ammonimenti di Leone XIII (S. C. AA. EE. SS., 27 gennaio 1901): “Non si potrebbe approvare nelle pubblicazioni cattoliche un linguaggio che ispirandosi a malsana novità sembrasse deridere la pietà dei fedeli ed accennasse a nuovi orientamenti della vita cristiana, a nuove direzioni della Chiesa, a nuove ispirazioni dell’anima moderna, a nuova vocazione del clero, a nuova civiltà cristiana“. Tutto questo non si sopporti così nei libri come dalle cattedre. Non trascurino i libri nei quali si tratti o delle pie tradizioni di ciascun luogo o delle sacre Reliquie. Non per mettano che tali questioni si agitino nei giornali o in periodici destinati a fomentare la pietà, né con espressioni che sappiano di ludibrio o di disprezzo né con affermazioni risolute specialmente, come il più delle volte accade, quando ciò che si afferma o non passa i termini della probabilità o si basa su pregiudicate opinioni. Circa le sacre Reliquie si abbiano queste norme. Se i Ve scovi i quali sono soli giudici in questa materia, conoscano con certezza che una reliquia sia falsa, la toglieranno senz’altro dal culto dei fedeli… Se le autentiche di una Reliquia qualsiasi, o pei civili rivolgimenti o in altra guisa siensi smarrite, non si esponga alla pubblica venerazione, se prima il Vescovo non ne abbia fatta ricognizione. L’argomento di prescrizione o di fondata presunzione allora solo avrà valore quando il culto sia commendevole per antichità: il che risponde al decreto emanato nel 1896 dalla Congregazione delle Indulgenze e sacre Reliquie, in questi termini: “Le Reliquie antiche sono da conservarsi nella venerazione che finora ebbero, se pure in casi particolari non si abbiano argomenti certi che sono false o supposte“. Nel portar poi giudizio delle pie tradizioni si tenga sempre presente, che la Chiesa in questa materia

fa uso di tanta prudenza, da non permettere che tali tradizioni si raccontino nei libri, se non con grandi cautele e premessa la dichiarazione prescritta da Urbano VIII: il che pure adempiuto, non perciò ammette la verità del fatto, ma solo non proibisce che si creda, ove a farlo non manchino argomenti umani. Così appunto la sacra Congregazione dei Riti dichiarava fin da trent’anni addietro (Decreto 2 maggio 1877): “Siffatte apparizioni o rivelazioni non furono né approvate né condannate dalla Sede Apostolica, ma solo passate come da piamente credersi con sola fede umana, conforme alla tradizione di cui godono, confermata pure da idonei testimoni e documenti“. Niun timore può ammettere chi a questa regola si tenga. Imperocché il culto di qualsivoglia apparizione, in quanto riguarda il fatto stesso e dicesi relativo, ha sempre implicita la condizione della verità del fatto: in quanto poi è assoluto, si fonda sempre nella verità, giacché si dirige alle persone stesse dei santi che si onorano. Lo stesso vale delle Reliquie. Commettiamo infine al Consiglio di vigilanza, di tener d’occhio assiduamente e diligentemente gl’istituti sociali come pure gli scritti di questioni sociali affinché nulla vi si celi di modernismo, ma ottemperino alle prescrizioni dei Romani Pontefici.

VII

Le cose fin qui stabilite affinché non vadano in dimenticanza, vogliamo ed ordiniamo che i Vescovi di ciascuna diocesi, trascorso un anno dalla pubblicazione delle presenti Lettere, e poscia ogni triennio, con diligente e giurata esposizione riferiscano alla Sede Apostolica intorno a quanto si prescrive in esse, e sulle dottrine che corrono in mezzo al clero e soprattutto nei Seminari ed altri istituti cattolici, non eccettuati quelli che pur sono esenti dall’autorità dell’Ordinario. Lo stesso imponiamo ai Superiori generali degli Ordini religiosi a riguardo dei loro dipendenti. Queste cose, o Venerabili Fratelli, abbiam creduto di scrivervi per salute di ogni credente. I nemici della Chiesa certamente ne abuseranno per ribadire la vecchia accusa, per cui siamo fatti passare come avversi alla scienza ed al progresso della civiltà. A tali accuse, che trovano smentita in ogni pagina della storia della Chiesa, alfine di opporre alcun che di nuovo, è Nostro consiglio di accordare ogni favore e protezione ad un nuovo Istituto, da cui, coll’aiuto di quanti fra i cattolici sono più insigni per fama di sapienza, ogni fatta di scienza e di erudizione, sotto la guida ed il magistero della cattolica verità, sia promossa. Assecondi Iddio i Nostri disegni e Ci prestino aiuto quanti di vero amore amano la Chiesa di Gesù Cristo. Ma di ciò in altra opportunità. A Voi intanto, o Venerabili Fratelli, nella cui opera e zelo sommamente confidiamo, imploriamo di tutto cuore la pienezza dei lumi Celesti, affinché in tanto periglio delle anime per gli errori che da ogni banda s’infiltrano, scorgiate quel che far vi convenga; e con ogni ardore e fortezza lo eseguiate. Vi assista colla Sua virtù Gesù Cristo autore e consumatore della nostra fede; vi assista coll’intercessione e coll’aiuto la Vergine Immacolata profligatrice di tutte le eresie. – E Noi, come pegno della Nostra carità e delle divine consolazioni fra tante contrarietà, impartiamo con ogni affetto a voi, al vostro clero ed ai vostri fedeli l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 8 settembre 1907, nell’anno V del Nostro Pontificato.

 

[Continua con il decreto “Lamentabili” …]

DOMENICA XXIV dopo PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ier XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob.
[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Oratio
Orémus.
Excita, quǽsumus, Dómine, tuórum fidélium voluntátes: ut, divíni óperis fructum propénsius exsequéntes; pietátis tuæ remédia maióra percípiant.
[Eccita, o Signore, Te ne preghiamo, la volontà dei tuoi fedeli: affinché dedicandosi con maggiore ardore a far fruttare l’opera divina, partécipino maggiormente dei rimedi della tua misericordia.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col 1: 9-14
“Fratres: Non cessámus pro vobis orántes et postulántes, ut impleámini agnitióne voluntátis Dei, in omni sapiéntia et intelléctu spiritáli: ut ambulétis digne Deo per ómnia placéntes: in omni ópere bono fructificántes, et crescéntes in scientia Dei: in omni virtúte confortáti secúndum poténtiam claritátis eius in omni patiéntia, et longanimitáte cum gáudio, grátias agentes Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem eius, remissiónem peccatórum”.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Omelie, vol. IV, Omelia XXV – Torino, 1899]

Non cessiamo dal pregare per voi, e chiedere che siate ripieni del conoscimento della volontà di Dio, in ogni sapienza e intelligenza spirituale, affine di camminare in modo degno di Dio, in ogni beneplacito, fruttificando in ogni opera buona crescendo nel conoscimento di Lui, fortificati di grande vigoria, secondo la sua gloriosa potenza, ad ogni patimento e longanimità, rendendo grazie a Dio Padre, che ci mise a parte della sorte dei santi nella luce; il quale ci strappò dalla potestà delle tenebre e ci ha tramutati nel regno del Figliuolo suo dilettissimo, in cui abbiamo la redenzione per il sangue di Lui, la remissione dei peccati„ (Ai Colossesi, I, 9-13).

La lettera ai fedeli di Colossi, città dell’Asia minore, nella Frigia, dalla quale sono tolti questi cinque versetti, fu scritta da S. Paolo in Roma, nel 63 o 64 dell’era nostra, durante il tempo della sua prima prigionia. Quella Chiesa non era stata fondata da lui, ma dal suo discepolo Epafra, che fu anche il portatore della lettera stessa. Questa ha due parti distintissime, la prima è dogmatica, morale la seconda. S. Paolo in carcere, forse da Epafra stesso aveva inteso come i fedeli di quella Chiesa correvano grave pericolo d’essere ingannati da certi maestri d’errore, che dovevano essere gnostici o, al solito, ebraizzanti. Quelli, mescolando insieme gli insegnamenti della fede con le teorie filosofiche, ond’erano imbevuti, erravano intorno alla persona di Cristo e introducevano non so qual nuovo e strano culto degli angeli: questi poi si attenevano ancora ad alcune pratiche legali, che non potevano comporsi colla fede cristiana. La lettera è una delle più brevi, ma ripiena di altissimi sensi. – I pochi versetti che avete uditi, e che formano la prefazione della lettera, ve ne sarete accorti voi stessi, udendoli, si presentano involuti, oscuri e assai difficili a spiegarsi, perché le verità vi sono condensate a forza, le une serrate alle altre, in una forma di dire al tutto ebraica e che alle nostre orecchie torna assai dura. Ad ogni modo, invocando l’aiuto di Dio e chiedendo tutta la vostra attenzione, mi accingo a darvene il commentario. – S. Paolo comincia la lettera, scritta anche a nome di Timoteo, con i saluti, che sono presso a poco quelli delle altre lettere: poi ringrazia Dio per la fede e per la carità dei Colossesi, secondo il Vangelo ricevuto da Epafra, che gli portò novelle di loro; e, continuando, scrive: “Noi non cessiamo di pregare per voi — “Non cessamus prò vobis orantes. „ È cosa degna di considerazione questa, che parecchie volte S. Paolo, nelle sue lettere, assicura i fedeli che prega per loro. Non vi è cosa maggiormente inculcata nei Libri santi, quanto la preghiera: essa è voluta dalla fede, è richiesta dalla natura stessa, è un bisogno del nostro cuore, è il respiro, come fu ben detto, dell’anima nostra. Se siamo lieti, se siamo afflitti, se speriamo, se temiamo, la preghiera, per chi ammette Dio, è una necessità. Noi possiamo pregare per noi stessi e possiamo pregare anche per gli altri: la preghiera per noi stessi è sì naturale, che non può creare difficoltà di sorta; ma la preghiera per gli altri può sembrare strana e quasi temeraria. Come! dirà taluno, siamo sì poveri, sì miserabili, pieni di tante colpe, che a stento possiamo presentarci a Dio e pregarlo per noi stessi, e oseremo poi pregare per altri e farci intercessori dei nostri fratelli? Questa non è cosa che ripugna e che sa di superbia? Ci basti pregare per noi. No, o carissimi; preghiamo, sì, per noi; ma preghiamo anche per gli altri, che non vi è ombra di superbia, ed è cosa gratissima a Dio. La preghiera, se bene sì guarda, è un atto di umiltà per eccellenza, perché chi prega si riconosce bisognoso e si mette ai piedi di Dio; onde la preghiera, se è vera preghiera, sia fatta per sé, sia fatta per altri, è sempre un esercizio di umiltà. Sarebbe superbia se, chi prega per altri, si considerasse degno di pregare e mettesse innanzi a Dio i meriti propri, quasi titoli, per essere esaudito. La preghiera poi, fatta pei fratelli nostri, quali ch’essi siano, è gratissima a Dio, essa è figlia di quella carità che tanto ci è raccomandata nel Vangelo e che fa nostri i bisogni altrui, e ci muove a soccorrerli, ricorrendo a Lui, che tutto può. La preghiera è figlia dell’umiltà, e la preghiera per gli altri è figlia della carità. Ecco un padre, che ha parecchi figli, i quali tutti hanno bisogno di lui. Uno di questi figli, dopo aver implorato l’aiuto del padre per sé, l’implora anche per il fratello suo, che non fa, o fors’anche rifiuta di farlo. Non è e gli vero che quel buon padre deve sentirsi commosso udendo un figlio che intercede per un altro figlio? Non è egli vero che quest’atto di amore fraterno deve tornare accettevole al padre e renderlo più inchinevole al perdono verso il figlio ingrato e dimentico dei suoi doveri? Ah! credetelo, o dilettissimi, la preghiera, che noi innalziamo a Dio per i fratelli nostri, ha un’efficacia specialissima, perché si innalza a Lui quasi avvolta nel profumo della carità scambievole e ispirata a quella forma di preghiera ch’Egli stesso ci ha insegnata, dicendo: “Padre nostro, che siete nei cieli … Preghiamo adunque e sempre, e per noi e per tutti. S. Paolo pregava per i Colossesi, e a quale intento? Forse perché diventassero ricchi? Fossero potenti e salissero in grande onore e fama? Perché fossero ricolmi di prosperità materiali? Queste cose le domandano e le desiderano gli uomini del mondo, ma non potevano nemmeno passare per la mente dell’Apostolo delle genti. Uditelo: “Preghiamo per voi affinché siate ripieni del conoscimento della volontà di Dio. „ Ecco la prima cosa che S. Paolo prega da Dio per i suoi Colossesi. In che sta riposta, o cari, la virtù ed il sommo della virtù, che è la santità? Evidentemente nel fare ciò che vuole Iddio: chi in ogni cosa e conforme alla volontà di Dio, questi ha toccato la cima d’ogni santità. Ma per essere in ogni cosa conformi alla volontà di Dio, bisogna conoscerla questa volontà di Dio. E in qual modo, per qual via Dio ce la fa conoscere? Per doppia via: l’una è la via della ragione, via assai imperfetta, lunga, incerta, e per la quale a pochissimi è dato camminare; l’altra è la via della fede, perfetta, breve, sicura, a tutti facilissima ed eguale. Ed è senza dubbio di questo conoscimento della volontà di Dio che parla S. Paolo e prega che siano non solo forniti, ma ripieni i fedeli di Colossi, e ripieni per guisa, che sappiano non solo le verità da Dio manifestate, ma anche il modo di adempirle: “In ogni sapienza e intelligenza spirituale (La sapienza riguarda la sola cognizione teorica, i principi, l’intelligenza, la pratica applicazione dei medesimi. La parola Spirituale indica la natura delle verità conosciute, o fors’anche l’origine, che viene dallo Spirito Santo.). „ – Carissimi! Dio non manca di farci conoscere queste verità: Dio è pronto a versarle con ogni pienezza nelle anime nostre; ma Egli vuole che pur noi facciamo dal canto nostro il necessario per riceverle; Egli le offre, ma bisogna pigliarle, e così vuole perché rispetta la nostra libertà e intende che rimanga a noi il merito di acquistarle. E come possiamo giungere al conoscimento della volontà di Dio? Ascoltando la sua parola, il suo insegnamento là dove si porge, nel tempio, leggendo i libri divini e udendo quelli che li spiegano. Scorre un ampio fiume e lambisce con le sue acque fertili campi, coperti di ricche messi: il sole con i suoi cocenti raggi dissecca quelle messi e minaccia di rendere vani i sudori del contadino. Di chi la colpa? L’acqua abbonda, le messi la domandano; perché, o contadino, sulla riva del fiume non apri un canale e non fai scorrere sul tuo campo l’acqua fecondatrice? Se le messi falliscono, ne sarà in colpa la tua inerzia. Le acque della verità scorrono copiose nella casa di Dio: qui si fa conoscere la volontà di Lui: perché qui non accorrete a bere di queste acque, e farle scorrere sui campi delle vostre anime? Perché qui non accorrete per conoscere la volontà di Dio e ad essa conformare la vostra vita? Oh! venite, venite, e qui sarete ripieni del conoscimento della volontà di Dio, in ogni sapienza e intelligenza spirituale. Ma che gioverebbe aver la mente inondata di luce e conoscere la volontà di Dio e poi non adempirla? Nulla: anzi, questo conoscimento, se non è accompagnato dalle opere, ci renderebbe inescusabili e più colpevoli. Perciò S. Paolo, dopo aver pregato ai Colossesi il conoscimento pieno della verità, prosegue e dice: “Affinché camminiate in modo degno di Dio, „ cioè pensiate, parliate e operiate come si conviene a chi serve a Dio. – Chi serve ad un gran personaggio, ad un monarca, se ha mente e cuore, è compreso degli obblighi  che gli impone il suo ufficio; sente la necessità di far onore alla grandezza del suo signore, e con ogni studio si guarda dal far cosa che lo mostri  immeritevole della fiducia onde l’onora. E noi serviamo non un grande, un personaggio insigne, un monarca, ma il Monarca dei monarchi; con quanta cura adunque dobbiamo onorare la dignità del nostro servizio, tener alto il glorioso ufficio che abbiamo! Servi di Dio, dirò di più, figli adottivi di Dio, camminiamo, ossia viviamo in modo che sia degno di Lui e di noi : Ut ambuletis digne Deo. Allorché un figlio di re si disonora con una condotta indegna, i popoli, segnandolo a dito, esclamano: Vergogna! Egli dimentica la sua dignità, getta nel fango l’onore del padre! — Che debbono dire di noi, cristiani, allorché trasciniamo nella polvere la dignità di figli di Dio? Se camminerete come si conviene a chi serve a Dio, “camminerete in ogni beneplacito — per omnia bene placentes, „ farete cioè tutto ciò che piacerà a Dio, battendo la via della sua legge. E quale sarà il vostro guadagno? Eccolo: “fruttificherete in ogni cosa buona — In omni opere bono fructificantes. „ Non vi sfugga una osservazione, che è utile ricordare. L’Apostolo, nelle sue lettere, tratto tratto si eleva alla contemplazione di altissime verità teoriche, e assorto in quella luce sfolgorante, che lo rapisce e lo inebria, parrebbe quasi dover dimenticare le cose pratiche e comuni: non è vero. In un istante, da quelle altezze divine scende sempre alle cose pratiche della vita, e le inculca come conseguenze di quelle. E qui ne avete una prova: egli, dopo aver parlato di conoscimento della volontà di Dio, di sapienza, di intelligenza spirituale, ricorda che dobbiamo fruttificare in ogni buona opera, „ cioè mostrare nelle opere tutte quelle sì eccelse cose, che domanda a Dio per i fedeli di Colossi. Intendete, o cari? Tutta la scienza e sapienza delle cose celesti sarebbe un nulla, quando non ci conduce a fare le opere buone. Se queste ci fan difetto, tutto il resto non val nulla, è un po’ di frasche, un’apparenza di virtù, è una luce fosforica, che brilla un istante e poi tosto si dilegua, è un bronzo che tintinnisce. Badiamo adunque che la nostra fede, la nostra cognizione delle cose di Dio si traduca nelle opere, in tutte le opere buone: In omni opere bono fructificantes. Una vita cristiana, ricca di opere sante, accrescerà la vostra scienza delle cose divine, continua l’Apostolo: Crescentes in scientia Dei. – Sembra una ripetizione di ciò che ha detto poc’anzi, ma non lo è: questa sentenza racchiude una verità profonda, che è prezzo dell’opera toccare. Datemi un uomo, un cristiano, che conosca i suoi doveri e li adempia: nell’adempimento costante e fedele de’ suoi doveri acquisterà non solo l’abito delle virtù cristiane, ma sentirà crescere in sé l’amore, la stima e il conoscimento pratico delle stesse: a mano a mano che in esse perdurerà, andrà pure crescendo nell’intima persuasione della loro bontà ed eccellenza. Accade al cristiano virtuoso quel che avviene all’artista valente. Come questo col lungo esercizio dell’arte sua si va perfezionando in essa e sempre più amandola, per forma che non gli è possibile abbandonarla; così quello nella via della virtù: più la pratica e più la conosce bella e degna d’essere amata, e più amandola, più la conosce, e giunge a tal punto, che gli torna quasi impossibile cessare di praticarla. Questo ci spiega il fatto frequente, che ci incontra di vedere in alcuni buoni e semplici cristiani, che senza studio alcuno della religione, che nel loro stato e al loro ingegno non è possibile, hanno una certezza somma, incrollabile della sua bontà, e sarebbero pronti a dare per essa la vita. Dove attinsero tanta certezza della religione? Non vi è che questa risposta: Nella pratica della stessa, nell’esercizio della virtù, ch’essa impone. — Se il difetto delle opere cristiane a poco a poco vela l’occhio della fede, e la spegne, la pratica delle medesime la rischiara e la rinsalda mirabilmente. E perché abbiamo visto uomini dottissimi nelle scienze sacre finire con l’apostasia, e poveri figli del popolo, povere fanciulle uscite dal volgo, entrare in religione, valicare i mari, evangelizzare i pagani e morire per la fede. Le opere sante avvalorano la loro scienza delle cose celesti: Crescentes in scientia Dei. Segue il terzo oggetto della preghiera del nostro Apostolo, che è la perseveranza nel bene, la quale, più che dalle nostre sì deboli forze, dobbiamo aspettare dalla potenza divina. ” Fortificati di grande vigoria, così san Paolo, secondo la gloriosa sua potenza, ad ogni patimento e longanimità con allegrezza. „ È sempre la preghiera che S. Paolo continua a fare per i Colossesi. Noi, io e Timoteo, così S. Paolo, non cessiamo dal pregare Dio, affinché, dopo aver dato il conoscimento pieno della verità, la pratica delle virtù ed opere degne di cristiani, dia la forza di soffrire tutto ciò che è inevitabile nel camminare per la dritta via: In omni patientia, notate bene questa parola: “Ad ogni patimento”; dobbiamo essere disposti a vivere cristianamente, ad esercitare la virtù a costo, non di questo o di quel dolore o patimento, che a noi piace, ma ad “ogni patimento — in omni patientia, „ senza eccezione di luogo, di tempo e di circostanze. E come dobbiamo essere disposti a patire, o benedetto Apostolo? Longanimitate, cioè con una pazienza instancabile, dolce, mite, che ricusa di vendicarsi, anche quando facilmente lo potrebbe fare. E basta? Non ancora: “Con allegrezza — Cum gaudio. „ S. Paolo ci vuole pronti a patire con pazienza, con longanimità non solo, ma con allegrezza. Patire con gioia! Quale altezza di perfezione! Il mondo non aveva mai udito fino allora sì strano e divino insegnamento. Esso aveva udito alcuni filosofi insegnare che l’uomo virtuoso deve saper patire per la virtù con animo forte: che deve disprezzare il dolore e quelli che lo cagionano: aveva udito quella superba dottrina degli stoici, che la virtù è premio a se stessa, e aveva potuto comprendere che la forza di soffrire si deve attingere nell’orgoglio, nelle proprie forze; il mondo aveva visto Regolo, Socrate ed altri affrontare con animo generoso i dolori e la morte per non venir meno al dovere: ma a nessuno di quei grandi passò per la mente che si potesse patire e morire per la verità e per la virtù con allegrezza, con gaudio, come qui proclama il nostro Paolo. E pure a questo giunse l’insegnamento evangelico, e si videro a mille a mille, uomini e donne d’ogni classe e d’ogni età, patire acerbissimi dolori e morte crudelissima con la fronte serena, con l’inno del ringraziamento e della gioia sulla lingua e nel cuore. – Il periodo cominciato dall’Apostolo continua sempre, accumulando incisi sopra incisi, e in ciascuno racchiudendo sempre qualche nuovo e alto concetto: “Rendendo grazie a Dio Padre, che ci ha messi a parte della sorte dei santi nella luce. „ Oltre di pregare per voi, o Colossesi, ringraziamo anche Dio Padre, e in Lui e con Lui, Principio senza principio del Figlio e dello Spirito Santo, l’augusta Trinità, perché e voi e noi si è degnato chiamare a parte dell’eredità dei santi, cioè dei chiamati alla fede, e perciò anche alla santità, nella luce, che è il Vangelo; questo il senso delle parole dell’Apostolo. Qual è, o cari, il massimo dei benefizi fattoci da Dio? Senza dubbio quello di chiamarci al conoscimento della fede e alla dignità di figli ed eredi della vita eterna. Vedete quanti milioni di fratelli nostri giacciono ancora in mezzo alle tenebre degli errori! Che merito avevamo noi d’essere preferiti a loro? Nessuno. Eppure noi siamo chiamati nel regno della luce, che è la Chiesa: noi abbiamo la fede, e con la fede tutti i mezzi per camminare sulla dritta via del cielo. E di questo incomparabile beneficio della fede quante volte porgiamo a Dio i nostri ringraziaménti? Ditelo voi, o cari: forse appena  alcuna volta fra l’anno! Quale ingratitudine! “Il quale (Dio Padre) ci ha strappati dalla podestà delle tenebre, e ci ha tramutati nel regno del Figliuolo suo dilettissimo. „ – S. Paolo attribuisce la nostra liberazione a Dio Padre, inquantoché egli ha dato il Figliuolo suo per noi; del resto voi non potete ignorare che se l’opera della nostra salvezza è attribuita egualmente alle tre divine Persone, che con un atto di eterno amore e di misericordia lo vollero, essa fu compiuta unicamente dalla seconda Persona nell’umanità assunta, nella quale pagò ogni nostro debito. Ci strappò dalla podestà delle tenebre: in quella parola “strappò„ “eripuit”, voi vedete lo sforzo fatto da Gesù per noi, sforzo che gli costò la vita sulla croce. Indubbiamente poteva toglierci di mano al nemico con un atto semplicissimo della sua volontà; ma allora ne sarebbe apparsa la potenza di Dio, non si sarebbero egualmente manifestate la bontà e la giustizia di Lui; doveché con la sua morte la sapienza, la bontà, la potenza e la giustizia di Dio confondono in un solo tutti i loro raggi. Nei Libri santi come la luce significa la verità, la fede, Dio stesso, così le tenebre indicano l’errore, l’infedeltà, il principio del male, il demonio. Dio Padre adunque ci strappò dalle mani del nemico suo e nostro, il demonio, e mercé della fede ci trasportò dalle tenebre nel regno della luce del dilettissimo suo Figliuolo, cioè nel regno della sua Chiesa. “Nel quale (Figliuolo suo) abbiamo la redenzione pel sangue suo, in remissione dai peccati. „ Si può dire che in questi due versetti S. Paolo ha compendiato tutto il mistero della nostra salvezza; parla del Padre divino e del Figliuolo, della liberazione dal potere tirannico del demonio, della Chiesa e della redenzione nostra ottenuta con la morte di Gesù Cristo. Noi, pel peccato, eravamo condannati alla morte eterna: Gesù, volendo salvare i diritti eterni della giustizia, si offre a ricevere sopra della sua stessa persona la pena che doveva cadere sopra di noi: noi dovevamo essere soggetti alla morte eterna: Gesù mette se stesso al luogo nostro, muore per noi, e noi siamo sciolti da ogni debito, appropriandoci per la fede e per i sacramenti i meriti suoi: così si opera la redenzione nostra, così si compie la remissione dei nostri peccati. Carissimi! Seguendo l’Apostolo e facendo nostri i suoi sensi e le sue parole, leviamo gli occhi, la mente e il cuore al cielo, e ringraziamo Dio Padre d’averci dato il Figliuolo suo. d’averci strappati dalle mani del principe delle tenebre, d’averci collocati nel grembo della sua Chiesa, d’aver lavato i nostri peccati nel sangue suo, e preghiamolo che di tanto beneficio elargito misericordiosamente a noi, faccia partecipe tanti fratelli nostri sepolti ancora nelle tenebre dell’errore e nelle ombre della morte. A Lui sia onore e gloria ora e sempre e in tutti i secoli. Così sia.

 Graduale Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti. [
Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]
V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula. [In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno.]

Alleluja
Allelúia, allelúia.
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúia.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia  sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XXIV:15-35
“In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Cum vidéritis abominatiónem desolatiónis, quæ dicta est a Daniéle Prophéta, stantem in loco sancto: qui legit, intélligat: tunc qui in Iudǽa sunt, fúgiant ad montes: et qui in tecto, non descéndat tóllere áliquid de domo sua: et qui in agro, non revertátur tóllere túnicam suam. Væ autem prægnántibus et nutriéntibus in illis diébus. Oráte autem, ut non fiat fuga vestra in híeme vel sábbato.
Erit enim tunc tribulátio magna, qualis non fuit ab inítio mundi usque modo, neque fiet. Et nisi breviáti fuíssent dies illi, non fíeret salva omnis caro: sed propter eléctos breviabúntur dies illi. Tunc si quis vobis díxerit: Ecce, hic est Christus, aut illic: nolíte crédere. Surgent enim pseudochrísti et pseudoprophétæ, et dabunt signa magna et prodígia, ita ut in errórem inducántur – si fíeri potest – étiam elécti. Ecce, prædíxi vobis. Si ergo díxerint vobis: Ecce, in desérto est, nolíte exíre: ecce, in penetrálibus, nolíte crédere. Sicut enim fulgur exit ab Oriénte et paret usque in Occidéntem: ita erit et advéntus Fílii hóminis. Ubicúmque fúerit corpus, illic congregabúntur et áquilæ. Statim autem post tribulatiónem diérum illórum sol obscurábitur, et luna non dabit lumen suum, et stellæ cadent de cælo, et virtútes cœlórum commovebúntur: et tunc parébit signum Fílii hóminis in cœlo: et tunc plangent omnes tribus terræ: et vidébunt Fílium hóminis veniéntem in núbibus cæli cum virtúte multa et maiestáte. Et mittet Angelos suos cum tuba et voce magna: et congregábunt eléctos eius a quátuor ventis, a summis cœlórum usque ad términos eórum. Ab árbore autem fici díscite parábolam: Cum iam ramus eius tener fúerit et fólia nata, scitis, quia prope est æstas: ita et vos cum vidéritis hæc ómnia, scitóte, quia prope est in iánuis. Amen, dico vobis, quia non præteríbit generátio hæc, donec ómnia hæc fiant. Cœlum et terra transíbunt, verba autem mea non præteríbunt.” [In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Quando vedrete l’abominazione della desolazione, predetta dal profeta Daniele, posta nel luogo santo: chi legge comprenda, allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano ai monti, e chi si trova sulla terrazza non scenda per prendere qualcosa in casa sua, e chi sta al campo non torni a pigliare la sua veste. Guai poi alle donne gravide e a quelle che in quei giorni allattano. Pregate che non abbiate a fuggire d’inverno, o in giorno di sabato, poiché allora sarà grande la tribolazione, quale non fu dal principio del mondo sino ad oggi, né sarà mai. E se quei giorni non fossero accorciati, nessun uomo si salverebbe, ma quei giorni saranno accorciati in grazia degli eletti. Allora, se alcuno vi dirà: Ecco qui o ecco là il Cristo: non credete. Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti: e faranno grandi miracoli e prodigi, da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l’ho predetto. Se quindi vi diranno: Ecco è nel deserto, non uscite; ecco è nella parte più riposta della casa, non credete. Infatti, come il lampo parte da Oriente e brilla fino ad Occidente: così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Dovunque sarà il corpo, lí si aduneranno gli avvoltoi. Ma subito dopo quei giorni di tribolazione si oscurerà il sole, e la luna non darà più la sua luce, e le stelle cadranno dal cielo, e le potestà dei cieli saranno sconvolte. Allora apparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo: piangeranno tutte le tribù della terra e vedranno il Figlio dell’uomo scendere sulle nubi del cielo con grande potestà e maestà. Egli manderà i suoi Angeli con la tromba e con voce magna a radunare i suoi eletti dai quattro venti, da un’estremità all’altra dei cieli. Imparate questa similitudine dall’albero del fico: quando il suo ramo intenerisce e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina: così, quando vedrete tutte queste cose sappiate che Egli è alle porte. In verità vi dico, non passerà questa generazione che non siano adempiute tutte queste cose. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole no.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XXIV, 15-35)

Giudìzio Finale.

Il giudizio universale, che ci dipinge con i più tetri colori l’odierno Vangelo, vien predetto da Gesù Cristo e stabilito alla fine del mondo, affinché la sentenza, da Lui pronunziata in segreto nel giudizio particolare all’istante della morte, sia palese agli angeli ed agli uomini al cospetto di tutto il mondo. Vuole in quel terribile giorno, che giorno dai profeti si appella d’ira, di tribolazione, d’angustia, di calamità, di misericordia, di tenebre, di caligine, e di vendetta; vuole, dissi, che la sua giustizia sia pubblicamente riconosciuta dai buoni, e dai malvagi, vuole che il corpo partecipi dei beni e de mali dell’anima, abbia la sua ricompensa o il suo castigo, vuole in fine al presente con questo minacciato giudizio finale atterrire i malvagi, confortare i buoni e per gli uni e per gli altri giustificare la sua provvidenza. Son questi i punti che scelgo a materia e partizione della presente Omelia: e senza più trattenervi in lungo preambolo dico: Giudizio universale di Dio terrore degli empi, giudizio universale di Dio, conforto dei giusti, giudizio universale di Dio giustificazione di sua provvidenza. L’importante argomento tutta si merita la vostra attenzione.

1 –  Giudizio universale di Dio terrore degli empi. – Lo so che quanto l’empietà è più inoltrata tanto meno crede e tanto meno teme le divine minacce. Ma che pro il credere, che pro  il non credere, che pro il non temere, se appunto per questo si rinnoverà in essi la luttuosa catastrofe avvenuta ai loro simili nei tempi di Noè? Dai palchi dell’Arca che egli andava fabbricando, io son d’avviso che più d’una volta alzasse la voce e, “verrà un giorno, dicesse ai curiosi spettatori, verrà un formidabile giorno, in cui aperte le cateratte del cielo cadranno le acque a vendicar le vostre colpe, a spegnere le fiamme impure della corrotta vostra generazione, acque micidiali, acque che tutte allagheranno orribilmente la terra, e voi, cercando invano sui più alti monti scampo e salvezza, sarete tutti sommersi nell’onde sterminatrici d’un universale diluvio. Aveva un bel gridare il buon patriarca, a quella minacciosa predizione, a quel funestissimo annunzio niun si commosse, e ben lontani dal crederlo, fu preso in derisione il salutevole avviso: né pur ai fatti s’arrese quella cieca gente, e vide colla massima indifferenza arrivar le tigri, i leoni, gli elefanti, ingombrar l’aria e la terra bestie d’ogni pelo, uccelli d’ogni piuma e tutti ricoverarsi in seno all’Arca. – Cristiani ascoltanti, “sìcut in dìebus Noe, ita erit adventus filii hominis” (Matt. XXIV, 37). Verrà un giorno somigliante al tempo di Noè, in cui il figliuol dell’uomo Cristo Gesù in aria di tremenda  Maestà, preceduto dal segno trionfale della sua Croce, seduto sopra luminosa nube, in contegno di Giudice inesorabile, discenderà dal Cielo, giorno estremo di tutti i giorni, in cui pioverà fuoco dal cielo e tutta ridurrà in cenere la faccia della terra, giorno in cui la maggior parte degli uomini sarà sommersa in un diluvio d’eterno fuoco. “Sicut in diebus Noe, ita erit adventus filii hominis”. Or chi mi ascolta? Il mondo, il gran mondo nè pur vi pensa, o come di cosa lontana né si risente, né si commuove, e l’empio giunto al profondo dell’empietà non crede, non teme e se la passa con un disprezzo. “Impius, cum in profundum venerit peccatorum, contemnit (Prov. XVIII, 3). Ma questo non temere, direi ai miscredenti, se mi ascoltassero, questo disprezzare è appunto il colmo della vostra cecità e il contrassegno più certo che sopra di voi cadrà quel fulmine che non temete. Non temettero gli antidiluviani il minacciato universale eccidio e vi restarono sommersi. Ma che dissi, non temete? Affettate dì non temere, e quanto più ostentate trepidezza e bravura, tanto più scoprite il vostro spavento. Un ente di ragione, una cosa seconda voi non esistente e che non esisterà giammai, non deve formare il soggetto dei vostri pensieri, nè dei vostri discorsi, né dei vostri scherni, ma voi studiando ragioni a non credere, cercando motivi a non temere, ma voi impugnando in voce, in iscritto le verità rivelate, e spogliando gli inconcussi  argomenti che le convalidano con un disprezzo autorevole, date a conoscere che in far tutto ciò avete dell’interesse, che riguardate la religione come nemica, e come tale la fate scopo delle vostre saette e delle vostre irrisioni: segni evidentissimi che vi spaventa e che la temete appunto per questo che non volete temerla. – Temete pure e non aspettate a temere in faccia alla morte. Tanti increduli pari a voi, e di voi più intrepidi in vita, han fatto impallidire la Filosofia del secolo , e al punto estremo chi s’è ricreduto, chi s’è stretto al Crocifisso, chi ha chiamato i sacerdoti prima vilipesi, chi ha invocato i soccorsi della religione prima perseguitata. Né crediate che questi infelici fossero in vita senza spavento. La gioventù, la sanità, i piaceri, le passioni sopivano i reclami della sinderesi che più vivamente si facevano sentire al primo mal di capo, alla prima febbre, alla prima disgrazia. – Disingannatevi dunque, o spiriti di questo secolo che vantate fortezza, che con tutti gli sforzi dell’intelletto e della volontà non riuscirete giammai a far tacere i latrati della rea vostra coscienza che a vostro dispetto parla, vi punge, vi condanna e vi minaccia un giudizio appena morti, un giudizio nella consumazione dei secoli.

II. Voi sì che siete comprese da timore, ma da timor salutare, o anime giuste, in pensare quale sarà la vostra sorte in quel gran giorno, se colle pecorelle innocenti, o coi capri lascivi, se alla destra cogli eletti, o alla sinistra coi reprobi. Confortatevi però, il temer Dio ed i rigori della sua giustizia è proprio dei santi. Tremava per l’orrore un S. Girolamo al rammentare il finale giudizio, e gli pareva sentirsi rimbombare all’orecchio le squillo dell’angelica tromba, che sveglierà tutti i morti e li chiamerà ad esser giudicati nella gran valle. Tremava un S. Cipriano gran santo anche senza il martirio, e guai a me, diceva piangendo, quando dovrò comparire al giudizio! Temete ancor voi anime buone, che il vostro timore si deve cangiare in conforto. Chi salvò Noè colla sua famiglia? Il timore del creduto divino castigo: per questo esso, i figli suoi e le rispettive consorti si mantennero giusti e a Dio fedeli, e in seno all’arca benedissero Dio che li salvò. – Cristiani timorati, voi al presente siete derisi dal mondo, la vita devota che menate è riputata stoltezza, in quel giorno si cangerà linguaggio; e noi, diranno i vostri derisori, noi fummo gli stolti, noi gli insensati, “nos insensati vitam illorum æstimabamus insaniam(Sap. V, 4-5) , ci pareva loro condotta zotica, disonorata, “et finem illorum sine honore; ed eccoli ora nel numero dei figliuoli di Dio, “ecce quomodo computati sunt inter filios Dei”. Voi vedove desolate, voi pupilli oppressi, voi poveri abbandonati, ridotti nelle più strette angustie da prepotenti, da liti ingiuste, da usurarie estorsioni, voi spogliati dei vostri averi, voi defraudati de’ vostri sudori, starete in quella valle in luogo di sicurezza, stabunt justi in magna constantia adversus eos qui se angustiaverunt et abstulerunt labores eorum” (V. 1), e i vostri oppressori tremeranno in alzare a voi lo sguardo, inorriditi, confusi e disperati per l’imminente perdita di loro eterna salute, videntes turbabunlur timore horribili … in subitatione insperatæ salutis(v. 2).

III. Seguite ad ascoltarmi, o anime giuste, ed ammirate la divina Provvidenza che nel giustificare sé stessa vi porge nuovi conforti. Un giudizio particolare al fin dei nostri giorni deciderà di nostra eterna sorte. Così c’insegna la Fede. Dunque qual necessità d’un giudizio universale alla fine del mondo? Per molte ragioni, risponde l’Angelico S. Tommaso: basti indicarne una sola al nostro proposito. La divina Provvidenza viene sovente incolpata, e sulle lingue cristiane s’ascoltano talvolta certe tronche parole, certe mal misurate esclamazioni che s’accostano alla vera bestemmia. “O Signore, dice taluno, dov’è la vostra Provvidenza? L’empio è esaltato come i cedri del Libano, e l’uomo dabbene è depresso come il fango delle piazze; trionfano i malvagi, gemono i buoni. Sfoggia da grande il ladro civile, l’uomo onesto è quasi sempre povero. Par che convenga esser iniquo per esser fortunato. Santa fede! Divina Provvidenza! Ohimè ch’ io vacillo. Così si parla di quell’altissima Provvidenza, di cui s’ignorano le tracce ammirabili. E vero che la Provvidenza stessa anche su questa terra le tante volte giustifica sé medesima e fa vedere che la prosperità dei malvagi è come polvere in faccia al vento, che il peccato non fa fortuna, che le Giezabelle non vanno sempre in gala, che gli Acabbi non sempre godono l’altrui, che i Nabbucchi non sono sempre adorati, che gli Epuloni non siedono sempre a convito; ma è vero altresì che la Provvidenza medesima, vuole al cospetto dell’universo far a tutti conoscere la somma equità e l’inscrutabile sapienza, con cui ha governato l’umane cose; ha perciò stabilito un giorno d’universale sindacato, un giorno di giustificazione per sé, di premio per i buoni, di castigo per i malvagi.Non vi meravigliate più dunque, o fedeli, veder talvolta oppresso il giusto, prosperato il miscredente: poiché dopo il breve corso di questa vita, alla fine di tutti i giorni si vedrà che il sommo Iddio con provvido e sapiente consiglio ha permessa la persecuzione de’ tiranni per conoscere la pazienza de’ Martiri. Si vedrà ch’Egli ha provato i suoi eletti, come l’oro nel fuoco per renderli più puri per virtù, più ricchi per merito: che per l’opposto ha permesso l’esaltazione degli empi, per temporanea mercede di qualche naturale virtù, riservati al giorno delle vendette come vittime coronate di fiori, destinate alla scure.E per finire là onde cominciai, non abbiamo l’esempio assai luminoso nella persona del Patriàrca Noè e in quella de’ scioperati spettatori della sua Arca? Veniva? Veniva; riflette S. Agostino, deriso Noè come uomo di buona pasta. Chi lo tacciava di semplice, chi d’illuso, perché sull’idea d’un futuro andava con tanto zelo fabbricando quella macchina che non vedeva mai fine; ed egli sopportando in pace le derìsioni, le beffe attendeva infaticabile al suo lavoro e all’adempimento del divino comando: quegli in ozio, in conviti, in amori; Noè in travaglio, in pazienza , in sudori; quegli intenti a goder del presente; Noè applicato a provvedere al futuro. Intanto chi l’indovinò? Chi colse nel punto? Uno sguardo su quell’acque mortifere che tutta hanno allagata la terra, sulle quali galleggiano i gonfi cadaveri dei derisori del buon Patriarca.Un altro sguardo a Noè, egli salvo fra un mondo perduto benedice Iddio che lo salvò, benedice il sudore che sparse, la fatica che sostenne, la pazienza che praticò. Uditori miei cari, applicate la facile immagine. Quel che avvenne nei giorni di Noè, avverrà nel dì finale quando a giudicare la terra discenderà dal cielo l’Uomo-Dio Cristo Gesù “Sicut in diebus Noe, ita erit adventus Filii hominis”. Staranno i giusti nella gran valle in luogo di sicurezza, come da un’arca di salute vedranno il naufragio dei miseri loro persecutori, “Stabunt iusti in magna constantia adversus eos, qui se angustiaverunt”. Vedranno gli empi con occhio livido l’altrui fortuna e inutilmente si rideranno sulla propria sciagura.Peccator videbit et irascetur, denti bus suis fremet et tabescet ( Ps. III, 10). Giudicate or voi da qual parte sarà meglio trovasi in quel giorno, se con Noè e con i giusti , o con gl’increduli e coi perversi.

 Credo

Offertorium
Orémus
Ps 129:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine. ,[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta
Propítius esto, Dómine, supplicatiónibus nostris: et, pópuli tui oblatiónibus precibúsque suscéptis, ómnium nostrum ad te corda convérte; ut, a terrenis cupiditátibus liberáti, ad cœléstia desidéria transeámus. [Sii propizio, o Signore, alle nostre súppliche e, ricevute le offerte e le preghiere del tuo popolo, converti a Te i cuori di noi tutti, affinché, liberati dalle brame terrene, ci rivolgiamo ai desiderii celesti.]

Communio
Marc 11:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.
[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato]

Postcommunio
Orémus.
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine: ut per hæc sacraménta quæ súmpsimus, quidquid in nostra mente vitiósum est, ipsorum medicatiónis dono curétur.
[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore: che quanto di vizioso è nell’ànima nostra sia curato dalla virtú medicinale di questi sacramenti che abbiamo assunto.]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO : L’ELEZIONE DEL ROMANO PONTEFICE

L’ELEZIONE DEL ROMANO PONTEFICE

[«Renovatio», VII (1972), fasc. 2, pp. 155-156.]

 Molti, troppi, hanno parlato a proposito e, soprattutto, a sproposito della futura elezione del Romano Pontefice, ossia della legge che ordina il Conclave. E evidente che si è cercato di fare una pressione, assolutamente impropria, per far accettare criteri nuovi e discutibilissimi nell’elezione papale. La questione è di estrema gravità e pertanto la nostra rivista ritiene di doverne parlare. Chiunque voglia porre il problema di una riforma del Conclave deve aver presente che questa compete solo alla autorità suprema nella Chiesa e che pertanto gli eventuali interlocutori, quando propongono riforme, debbono tener conto di questo principio. – Vediamo l’aspetto teologico di fondo. Il Concilio Vaticano nel canone, che segue il capitolo secondo della bolla Pastor Æternus, così recita: «Si quis ergo dixerit non esse ex ipsius Christi Domini institutione seu jure divino ut beatus Petrus in primatu super universam Ecclesiam habeat perpetuos successores, aut Romanum Pontificem non esse beati Petri in eodem primatu successorem, anathema sit» (D. S. 3058). Il che significa che al vescovo di Roma spetta la successione di Pietro. Se la successione tocca al Vescovo di Roma, e non ad un altro, ciò significa il legame assoluto tra l’episcopato romano e la successione petrina. Se ne deve inferire logicamente e necessariamente che il Papa è tale perché è Vescovo di Roma. Questo vincolo causale tra l’episcopato romano e la successione petrina diventa più chiaro se si legge tutto il capitolo secondo della citata costituzione (D. S. 3057); diventa chiarissimo se si attende a tutta la Tradizione e specialmente alla tradizione primitiva, quella che risente con immediatezza e certezza delle disposizioni prese dal Principe degli Apostoli. Infatti Clemente (secolo primo) interviene fortemente nella Chiesa di Corinto con una lunghissima e solenne lettera, mentre è ancor vivo e geograficamente più vicino l’apostolo Giovanni, in nome della Chiesa romana. E evidente che egli ritiene desumere dalla sua sede episcopale il potere di occuparsi della lontana Chiesa di Corinto, sulla quale poteva intervenire unicamente come Pastore Universale, trovandosi Corinto ben fuori della dizione romana. Lo stesso modo di esprimersi di Clemente hanno i due grandi testimoni della primissima età, Ignazio d’Antiochia ed Ireneo, nei testi notissimi. – Ciò premesso, non si capisce come teologicamente si possa sostenere una separabilità del Primato nella Chiesa dalla Sede Vescovile romana o negare con fondamento che la Sede Romana sia essa il titolo giuridico della successione a Pietro. – Messo in chiaro l’aspetto teologico fondamentale, non è affatto ozioso considerare la logica che Cristo ha messo nella sua Chiesa. Vi è un Primate, vi sono Vescovi successori degli Apostoli che sono tali per Diritto Divino nel quadro della cattolicità del collegio e del diritto del Primate. Cellule costitutive della Chiesa sono le singole chiese locali, guidate da un successore degli Apostoli. Tutti i fedeli fanno parte della Chiesa, ma la ragione immediata della sua unità e cattolicità sta nelle chiese particolari sotto Pietro. L’errore che si fa da molti, e lo si è visto bene nelle recenti e non sempre ortodosse diatribe sulla «Lex fundamentalis», è proprio quello di assimilare la divina costituzione della Chiesa ad una qualunque costituzione degli Stati. L a prima è assolutamente unica ed è inimitabile, come altre cose nel seno della Chiesa. Appare chiaro quindi perché Cristo abbia affidato il primato a Pietro e perché questi lo abbia esercitato e lasciato ai suoi successori, come Vescovo di una designata cellula della Chiesa, la diocesi di Roma. – Ciò posto, nessuna idea di costituzione democratica o federalistica può affiorare quando si pone teologicamente e giuridicamente la questione della elezione del Romano Pontefice. E la Chiesa romana che deve eleggere il suo Vescovo. – Non si può trascurare l’aspetto pratico della questione, aspetto che per sua natura appartiene alla storia. – La “legge del Conclave”, alla quale si arrivò con Nicolò II nel 1059, chiuse, con la riserva del diritto di elezione ai soli Cardinali, un travaglio, talvolta umiliante, di mille anni. Si noti che i Cardinali, come tali, appartengono alla Chiesa romana e solo ad essa, in qualità di suoi Vescovi suburbicari, di suoi preti, di suoi diaconi. La ragione teologica, nella necessaria ed inevitabile riforma di Nicolò II, era perfettamente rispettata. La “legge del Conclave” poggia su due cardini: l’esclusivo diritto del Sacro Collegio e la “clausura”. Questa seconda non fu posta subito: venne in seguito per obbedire a situazioni evidenti ed a necessità gravi. I due cardini si sostengono a vicenda. E ovvio che l’elezione affidata a un corpo elettorale troppo ampio sarebbe, umanamente parlando, più difficile e più influenzabile e perciò con minor garanzia di ragionevolezza e di rispondenza ai supremi interessi della Chiesa. Soltanto con un corpo di uomini, accuratamente scelti, è possibile che nell’elezione prevalga, quanto può nelle cose umane, il criterio del vero bene. La Clausura del Conclave è ancor più necessaria; coi mezzi moderni, con le tecniche moderne, senza clausura assoluta non sarebbe possibile sottrarre un’elezione alla pressione di poteri esterni. Oggi le superpotenze (e le potenze minori) hanno troppo interesse ad avere dalla loro parte, per condiscendenza o per debolezza, la più alta Autorità morale del mondo. E farebbero tutto quello che sanno benissimo fare. Le pressioni per rovesciare la sostanza della legge del Conclave potrebbero essere guidate dalla volontà di ottenere proprio questo risultato.

(Quest’ultima precisazione del Santo Padre in esilio, quanto mai opportuna, è stata vissuta sulla propria pelle proprio durante il Conclave della sua elezione, il 26 ottobre del 1958, Conclave in cui non è stata da tutti [leggi Tisserant] osservata la clausura, e nel quale i poteri mondiali, utilizzando i massoni della quinta colonna [leggi Roncalli, Lienart, Bea & C.] hanno determinato l’elezione di un falso pontefice, molle burattino nelle loro mani, per demolire la Chiesa Cattolica e trasformarla in una “conventicola” gnostica simil-massonica che perdura tuttora nella setta vaticana del “novus ordo”, e durerà probabilmente fino a quando non interverrà l’Autorità Massima della Chiesa Cattolica, il suo Capo divino, cioè Gesù Cristo il Messia, Figlio di Dio! – Nell’augurarci che questo avvenga quanto prima, prepariamoci con preghiera perseverante chiedendo misericordia per noi, “pusillus grex”, e per i traditori usurpanti! – ndr. -).

[n.b.: Grassetti e colore sono redazionali]

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (17), cap. XXX

CAPITOLO XXX.

RELIQUIE DEL BUON LADRONE (1)

 (1) [Noi intendiamo per reliquie del Buon Ladrone la croce sulla quale spirò: poiché in quanto al suo corpo, crediamo che non ne sia restato nulla sulla terra, portando avviso con molti dotti personaggi che s. Disma fu tra il numero dei risuscitati del Calvario. Rainaldo, Corn. a Lapid. etc.]

Gli strumenti del supplizio sotterrati insieme coi condannati.— Testimonianze de1 Giudei. — Sforzi de’ Giudei e dei Pagani per nascondere le croci del Calvario. — Condotta della Provvidenza. — Sant’Elena a Gerusalemme. — Del Calvario. — La tradizione. — Curiosa lettera dell’imperatore Leone al Re dei Saraceni. — Giudei costretti a manifestare il segreto dei loro correligionari. — Passo di Gretsevo. — Scoperta delle croci. — Portate a Costantinopoli con altre reliquie. — Testimonianza degli Storici Niceforo, Zonara, Suida, Cedrene. —Una buona porzione della croce del Buon Ladrone lasciata nell’isola di Cipro. — Testimonianza del dotto Luca Tudense e di Felice Faber testimoni oculari. — Particelle della croce del Buon Ladrone in Roma, a Bologna ed altrove. — Autorità dei Bollandisti, di Masini, del P. Rainaldo, e di Orilia.

Nostro Signore e i due ladroni furono spiccati dalla croce subito dopo la loro morte e sepolti precipitosamente, pel sopraggiungere del Sabato, che incominciava al tramonto del sole. Tale era la legge dei Giudei. Un dei loro autori, Filone, la spiega in questi termini: « La legge, dice egli, non permette agli omicidi di pagar colla moneta ciò che pagar debbono colla morte o con l’esilio, ma esige rigorosamente che il sangue sia espiato col sangue, e che la vita dell’omicida sia data per la vita della vittima. Se tale non fosse la disposizione della legge, gli assassini si farebbero un gioco dell’ omicidio e di tutti gli altri delitti „ Contro rei di tal sorta di misfatti, il legislatore avrebbe decretato mille supplizi, se lo avesse potuto : ma non potendolo, esso ordinò, come supplemento di pena, che fossero crocifissi. – « Cionondimeno, Mosè il più mansueto degli uomini, diede prova della sua clemenza a riguardo dei rei. Che il sole, diss’egli, non tramonti su quelli che son sospesi al patibolo : ma sieno essi staccati di là e sepolti prima che scenda all’occaso. E nel fatto, due cose erano necessarie. Bisognava elevar dalla terra coloro che avevano con i loro delitti imbrattato ogni parte della creazione, per rendere testimoni del loro supplizio il sole, e col sole il firmamento, l’aria e la terra. Dipoi, occorreva prontamente seppellirli, affinché non contaminassero nulla di quel che è visibile. »  – In conseguenza, ed a motivo della prossimità del gran Sabato, il corpo del Buon Ladrone, subito dopo il crurifragium fu distaccato dalla croce e frettolosamente sepolto sulla montagna stessa del Calvario. Né solo il suo corpo fu seppellito; presso gli Ebrei era in uso di seppellire presso il corpo de’ giustiziati anche gli strumenti ch’avevano servito a dar loro la morte. – « Era proibito, dicono gli Antichi Rabbini, di deporre i cadaveri dei condannati nelle sepolture comuni. Essi dovevano esser sepolti a parte. Ed egualmente a parte si dovevano sotterrare gli strumenti del loro supplizio, cioè, le croci, i chiodi, le mannaie, le pietre, secondo il genere della morte che avevano subito. Ed è perciò ch’era vietato di crocifiggere ad un albero; ma era d’uopo che l’albero fosse segato, e dei suoi rami si formasse la croce, affinché fosse mobile lo strumento del supplizio, e potesse seppellirsi pur esso » [Apud Baron., an. 34, n. 134]. Nella medesima fossa i Giudei gettarono le tre croci dei condannati, le quali rimasero sotterrate per 300 anni, fino cioè alla scoperta che ne fu fatta da S. Elena imperatrice, madre di Costantino. La operazione presentò assai difficoltà. Primieramente, i Pagani, in odio al Cristianesimo, avevano fatto di tutto per far dimenticare il luogo della crocifissione e la fossa profonda nella quale si erano seppellite le croci del Salvatore e dei due ladroni. Per disposizione dei persecutori, erasi portata sul Calvario una gran quantità di terra per fare una piattaforma molto elevata sul vertice della montagna: fu questa cinta da un muro, ornato di emblemi pagani, quindi selciata, e vi si edificò un tempio dedicato a Venere, presso il quale sorgeva una statua di Giove. – I Cristiani pertanto che andavano a pregar sul Calvario, erano creduti adoratori degl’idoli; ed il timore di passare per idolatri li tratteneva dal frequentare quel luogo sacro, che in conseguenza a poco a poco fu abbandonato del tutto; e i Pagani speravano di far anche dimenticare il gran fatto che ivi era avvenuto. Ma, senza saperlo, secondavano le mire della Provvidenza. Era necessario che le croci del Calvario rimanessero nascoste fino alla pace della Chiesa, Se fossero state scoperte durante il predominio del Paganesimo ed il tempo delle persecuzioni, sarebbero state certamente profanate o distrutte. – La venerabile Imperatrice non si arrestò innanzi alla difficoltà materiale. Un gran numero di soldati e di operai ebbero incarico di demolire il tempio dell’impura Dea, e di rovesciare la statua del principe dei demoni, non che di sgombrare dei rottami e della terra la sacra montagna. L’opera fu eseguita con ammirabile attività, e ben tosto si venne a scoprire la cima naturale del sacro monte. Rimaneva a trovarsi il luogo ove le croci fossero sotterrate. Si raccolse la tradizione dalla bocca dei Cristiani e dei Giudei. Sul principio essa non diede alcuna indicazione precisa. Essendosi tuttavia nell’incertezza, 1’Imperatrice fu avvertita esservi alcuni Ebrei che perfettamente conoscevano il sito ov’eran le croci, ma che ricusavano palesarlo. Ascoltiamo l’imperatore Leone che scriveva ad Omar re dei Saraceni, quanto ora avvenuto in quella circostanza. Noi riportiamo la sua lettera per intero, perché poco nota, e perché aggiunge interessanti particolarità, a quelle che noi dobbiamo a S. Paolino, a S. Ambrogio, e ad altri scrittori ecclesiastici sul grande avvenimento della scoperta della vera croce. – « Io mi accingo a rispondere, dice il principe, alle domande che m’indirizzate su Gesù Cristo. Egli fu crocifisso con due ladroni, l’uno a destra, l’altro a sinistra, e morì in quel medesimo giorno. Alla sua morte tremò la terra e si oscurò il sole. I principi de’ Giudei ch’eran presenti, furono colpiti da grande spavento, e vidersi in grave imbarazzo a motivo delle croci. Per cancellare la memoria di quanto era avvenuto, seppellirono essi quelle croci di tal maniera che niuno potesse sapere ove fossero, tranne uno solo fra essi. Durante la sua vita, il depositario del segreto non lo confidò ad alcuno. All’avvicinarsi della morte, egli lo trasmise ad uno dei suoi parenti, dicendogli: Se mai si venisse a riparlare della croce, tu saprai ov’essa è, e glie ne indicò il luogo preciso. – « Quando Gesù Cristo volle pubblicamente confondere i Giudei fece apparire la Croce a Costantino imperatore dei Romani, non ancora cristiano. Andando egli alla guerra, alzò gli occhi al cielo, e vide nell’aria due colonue, che si traversavano a guisa di croce e su quelle una luminosa leggenda scritta in greco, la quale diceva: Poiché tu hai chiesto a Dio di conoscere la vera fede, fatti un vessillo sul modello di questa croce, e portalo alla testa del tuo esercito. L’imperatore obbedì, attaccò il nemico, e per virtù della santa Croce, riportò una compiuta vittoria. « Nel ritorno egli mandò Elena, sua madre, con un corpo di truppe fino a Gerusalemme, per domandare agli Ebrei che fosse avvenuto della Croce del Signore. – E ricusando essi di rispondere, ella ne fa’ porre parecchi alla tortura. Alla fine essi indicarono all’Imperatrice colui che era il depositario del segreto, ed ella bentosto Io fece ricercare, e negando egli di saperlo, lo fece calare in un pozzo senza fargli somministrare alcun cibo. Dopo qualche giorno, sentendosi venir meno la vita, consentì ad indicare il luogo ov’erano le tre croci. « Si cominciò a scavare, e bentosto si sentì venir fuori dalla fossa un soave profumo che assicurava la scoperta delle croci, già da tre secoli sepolte colà. Trattele fuori, non sapendo l’Imperatrice qual fosse la Croce del Signore, fece appressare ad un morto la prima che le si presentò, ed al contatto di quella il morto non diede segno di vita. Lo stesso avvenne della seconda; ma non appena la terza ebbe toccato quel cadavere, si levò esso in piedi in tutto il vigor della vita. Elena feece immediatamente edificare una Chiesa sul sepolcro di Nostro Signore Gesù Cristo, vi depose una parte del santo Legno, e fe’portare il resto a suo figlio.» [Epist. Leon, imperat, ad Umarum Reg. Saracen. in Bibl. PP, t. III; et apud Gsetzer, De Cruce, t. II, p. 75, edit. in 4.]. La storia ha conservato il nome del giudeo che manifestò il segreto dei suoi correligionari. Egli chiama vasi Giuda, e convertito al Cristianesimo, prese il nome di Ciriaco, divenne Vescovo, e poi morì martire sotto Giuliano l’apostata. La sua festa è segnata al primo di Maggio nel martirologio di Beda, ed il racconto della sua conversione si legge nella storia di Gregorio di Tours, ed in altri molti scrittori riportati testualmente da Gretzer. Quel dotto religioso poi aggiunge: « Non vogliasi avere in conto di favola cotesto racconto, non solamente per l’autorevole testimonianza di Gregorio di Tours, ma altresì per l’autorità molto maggiore dell’Officio Ecclesiastico dell’Invenzione della Santa Croce. In detto Officio leggesi, parola per parola, tutta la storia di questo Giuda, ed essa ogni anno è recitata dal Clero » —  La guarigione istantanea di un infermo presso il santo Sepolcro, e soprattutto la risurrezione del morto, avevano fatto con certezza conoscere la Croce del Salvatore. Incontestabili prove altresì fecero certamente distinguere la croce del Buon Ladrone, poiché l’Oriente e l’Occidente conservano con molta cura e piamente onorano le preziose reliquie dello strumento del supplizio, sul quale morì santificato l’evangelista del Calvario. Sostenere il contrario, e sostenerlo senza gravi autorità, sarebbe un’ingiuria gratuita alla fede dei secoli cristiani. Il silenzio di taluni autori non è che un argomento negativo, il cui valore svanisce dinanzi alla positiva testimonianza di altri rispettabili autori, e soprattutto innanzi al consentimento delle passate generazioni. – Or ecco quello che noi sappiamo. S. Elena profittò del suo soggiorno a Gerusalemme per raccogliere con ogni possibile diligenza tutti gli oggetti santificati dal contatto del Salvatore, o testimonianze della sua morte, o monumenti delle antiche tradizioni bibliche. Questi ultimi, salvati da distruzione dalla stessa Provvidenza, sussistevano, siccome i fossili nelle viscere della terra, in prova dei grandi avvenimenti narrati da Mosè. Tali erano fra gli altri la statua di sale, nella quale fu tramutata la moglie di Loth; le ossa enormi dei giganti i cui misfatti avevano provocato il diluvio; finalmente il venerando oggetto di cui parliamo, e che fu il solo che portò seco s. Elena. Quanto agli altri è facile immaginare con quale religiosa sollecitudine fossero essi conservati dalia filiale pietà dei Cristiani della Palestina. – La pia Imperatrice portò seco, non solamente una gran parte della Croce di Nostro Signore, i chiodi, il titolo scritto in più lingue, e gl’istrumenti tutti della sua morte, ma ancora la croce del Buon Ladrone, e quella pur del cattivo. Se la prima era un monumento di misericordia, la seconda era un monumento di giustizia. Se l’una doveva ispirare il pentimento e la fiducia nel perdono, l’altra era propria a colpire di un terror salutare. Di più senza essere offerte l’una e 1′ altra alla venerazione dei secoli, ambedue rendevano testimonianza del più grande avvenimento della storia. – Ma lasciamo parlare gli antichi e i moderni. « La imperatrice, dicono gli storici greci, Niceforo, Suida, Cedreno, Zonaro, riunì le croci dei due ladroni con molti altri oggetti, raccolti in Terra Santa, e li trasportò a Costantinopoli. Vi erano fra gli altri, il vaso dei profumi coi quali fu imbalsamato il Signore, i dodici canestri, e le sette sporte che avevano contenuto i pani miracolosamente moltiplicati, con qualche pezzo di quei medesimi pani, di più l’ascia della quale si era servito Noti nella costruzione dell’Arca e molti altri oggetti che avevano il marchio della loro autenticità. « Costantino accolse queste ammirande reliquie con una gioia ed una pietà degne della sua fede. Sulla piazza di Costantinopoli, che portava il suo nome, fece egli innalzare per riceverle un magnifico monumento, che si componeva di quattro solide arcate mirabilmente scolpite, che formavano come quattro portici intorno ad una grande colonna di porfido. Nello zoccolo della colonna l’imperatore con le sue mani depose una ricca cassetta, che conteneva le sante reliquie, e fu da lui suggellala col suggello dell’impero. Vero ed inestimabile tesoro della città imperiale, questo monumento ancora sussiste intatto e venerato. » Quanto alla croce dei Buon Ladrone, una immemorabile tradizione dice, che s. Elena, tornando da Gerusalemme la donò quasi interamente agli abitanti dell’isola di Cipro. Egli è un fatto che da secoli si conservò, e per avventura conservasi ancora, in un Convento in mezzo alle montagne prossime a Nicosia (oggi Lefkosia) capitale dell’isola, la croce del Buon Ladrone. Essa è collocata dietro l’altare maggiore, ove sta, per quanto dicesi, miracolosamente sospesa. Benché imporporata del sangue di un Santo illustre, si aggiunge che, a renderla più venerabile, s. Elena vi fece incastrare un pezzo della Croce del Salvatore: quindi il numeroso concorso degli abitanti dell’isola all’antico Monastero, ed i miracoli d’ogni specie, pubblici e privati, ottenuti in quel luogo. Tal’è la testimonianza di molti autori commendevoli per il loro sapere, e dei quali parecchi furono testimoni oculari di ciò che raccontano. Ciò che rimase della croce del Buon Ladrone fu portato a Costantinopoli, e relativamente a questa preziosa reliquia, avvenne ciò che avviene ancora rispetto a tutte le altre, e pur anco alla Croce di Nostro Signore. Una parte fu conservata nella città imperiale, intanto che delle particelle più o mono importanti andarono ad arricchire diverse Chiese dell’Oriente e dell’Occidente. Così nella Basilica Costantiniana di Santa Croce in Gerusalemme, Roma possiede un pezzo notabile della Croce del Buon Ladrone. Esso è collocato sull’altare della cappella delle reliquie, ed è rinchiuso in un reliquiario di cristallo. – Bologna ancora nella sua bella Chiesa dei santi Vitale ed Agrigola, conserva una non piccola parte della croce di s. Disma. La venerazione di che la dotta città fa mostra per l’illustre compagno del Salvatore, è pur comune ad altre Chiese, e noi il vedremo nel seguente Capitolo.

21 NOVEMBRE 2017 – Presentazione della VERGINE

 

PRESENTAZIONE DI MARIA SS. AL TEMPIO

[J.-J. Gaume. Catechismo di perseveranza; vol. IV, Torino, 1884]

— Figli di Maria, abbandoniamo adesso la sua cuna; eccola che ancora giovine, e assai giovine, si avanza verso il tempio di Gerusalemme, ove la chiama la voce di Dio. Corriamo dietro ai suoi passi, e celebriamo la festa della sua Presentazione. La Presentazione è una festa instituita dalla Chiesa per consacrare la memoria d’un atto solenne che fece Maria tuttora bambina. Una tradizione costante, la cui origine risale ai primi giorni del Cristianesimo, c’insegna che all’età di tre anni Maria si presentò al tempio di Gerusalemme e si consacrò interamente al Signore. – Dotata della pienezza delle sue facoltà ella fece a Dio voto di verginità, e rialzò Ella la prima quel sacro stendardo che in seguito ha radunato legioni di vergini. Era costume presso i Giudei di consacrare i fanciulli al servizio del Tempio, e di farli allevare all’ombra tutelare del santo edilìzio. Maria avendo saputo che i suoi genitori, fedeli a questa sacra costumanza, avevano promesso al Signore, nel domandargli un figlio, di dedicarglielo, prevenne il loro voto, e in età di tre anni, in quell’età in cui i fanciulli hanno maggior bisogno dell’appoggio degli autori dei loro giorni, volle da per se stessa consacrarsi a Dio e fu la prima a pregarli di recarsi ad adempiere la loro promessa. «Anna, dice san Gregorio di Nissa, non esitò un momento a cedere al desiderio di lei, la condusse al tempio e l’offrì al Signore ». – Ma vediamo in qual modo Anna e Gioacchino fecero a Dio il sacrificio di quanto di più caro avevano al mondo. Partirono essi da Nazaret per Gerusalemme, portando a vicenda sulle braccia la loro figlia diletta, troppo tenera ancora per poter sopportare le fatiche d’un viaggio di trenta leghe. Erano accompagnati da un piccolo numero di parenti; « ma gli Angioli, dice san Gregorio di Nicomedia, servivano loro di corteggio e accompagnavano invisibili la tenera e pura Vergine che andava ad offrirsi sull’altare del Signore». Allorché la santa brigata fu giunta al tempio, la docile bambina si voltò ai suoi genitori, baciò loro le mani, ne chiese la benedizione, e senza punto esitare varcò i gradini del santuario e corse ad offrirsi al Gran-Sacerdote. Quanto fu bello, quanto fu solenne il momento in cui la divina Bambina mise il piede nell’atrio sacro! – Dio stesso celebrò quel giorno memorabile in cui vide entrare nel tempio la casta sua sposa, perché non mai erasi offerta a lui una sì pura e sì santa creatura. E quando Maria ebbe consacrato a Dio e la propria anima e il proprio corpo senza riserva ed irrevocabilmente, con quale amore dovette ella esclamare: Il mio diletto appartiene a me ed io appartengo a lui. Deh! esultiamo noi pure a spettacolo si bello, e riempiasi di gioia il nostro cuore nel contemplare il ritratto che ne ha lasciato di quest’amabile fanciulla sant’Epifanio nato in Palestina. «Maria, egli dice, fu specchio di senno e di modestia; parca nel favellare, vogliosa d’apprendere, affabile e con tutti rispettosa. Di poco superava la mezzana statura; ed ebbe colore leggermente vermiglio, capelli biondi, occhi vivi, pupille celesti, ciglia arcuate e traenti al nero; naso allungato, rosee le labbra, ovale il volto, mani e dita piuttosto lunghe. Semplicissima nel suo abbigliamento, usava le stoffe ed i veli nel loro naturale colore. Schietta nei modi, soave ed umile nei colloqui, essa, a dir breve, spirava e nell’esteriore e nelle doti dell’animo una grazia tutta divina ». – Chi narrerà la vita angelica di Maria nel tempio? « Quella santa Bambina, dice san Gerolamo, così regolava il suo tempo; dal mattino fino alla terza ora del giorno Ella stava in orazione; dalla terza alla nona lavorava: poi tornava a pregare fino all’ora della refezione. Poneva tutto il suo zelo nell’essere la prima alle sante veglie, la più esatta ad osservare la legge, la più umile, la più perfetta in virtù tra tutte le sue compagne. Non mai si lasciò trasportare ad un sol moto d’impazienza e tutte le sue parole erano sì piene di dolcezza che era facile ravvisarvi lo spirito di Dio ».

Origine di questa festa. — L’azione che Maria aveva compiuta presentandosi al tempio era troppo importante e troppo istruttiva, perché la Chiesa cattolica dovesse trascurare di consacrarla con una festa solenne. Fu primo l’Oriente a celebrare la Presentazione, come scorgesi dalle costituzioni di Emanuele Comneno nel 1143. Nel 1374, dopo le crociate, questa festa passò in Occidente sotto il regno di Carlo V, re di Francia; ed ecco in quali termini quel religioso monarca ne scrisse ai dottori ed agli alunni del collegio di Navarra, a Parigi. « Ho inteso dal cancelliere di Cipro che la Presentazione della Vergine al tempio, mentre non aveva Ella ancora che tre anni, si celebra con molta solennità in Oriente il 21 di novembre. Essendo questo medesimo cancelliere ambasciatore del re di Cipro e di Gerusalemme a Roma,intertenne il Pontefice sopra tal festa religiosamente osservata dai Greci, e gliene presentò l’uffìzio. Il Papa lo esaminò da se stesso, e lo fece poi esaminare dai cardinali e dai teologi, quindi approvò e permise la celebrazione di detta festa che solennizzò egli stesso in mezzo all’affollato concorso di popolo. Essendosi lo stesso cancelliere recato in Francia e avendomi presentato quell’uffizio, io ne ho fatto celebrare la festa nella santa-cappella in presenza di molti prelati e altri signori, e il nunzio pontificio vi ha recitato un eloquentissimo sermone ». – Tale è il modo con cui la festa della Presentazione passò dall’Oriente all’Occidente, e in particolar modo in Francia, dove fu osservata per ordine del pio monarca di cui abbiamo testé riferito le parole. I successori di Gregorio IX, a cui dall’ambasciatore di Cipro era stato sottoposto l’uffizio della Presentazione, arricchirono di numerose indulgenze questa festa nobilissima, che così trovò luogo fra le solennità della Chiesa .