UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA-APOSTATA DI TORNO: “PASCENDI” (3)

Pascendi Dominici gregis (3)

 In questa parte dell’Enciclica, il Santo Padre continua a sviscerare gli errori dei modernisti, questa volta sottolineando il metodo operativo degli storici, dei critici della storia, degli apologeti, metodo nel quale è onnipresente la filosofia immanentista, con le teorie evoluzioniste, vitaliste ed agnostiche, “... metodo e dottrine infarciti di errori, atti non ad edificare, ma a distruggere; non a far dei cattolici, ma a trascinare i cattolici nella eresia, anzi alla distruzione totale d’ogni religione!”, come si legge nella lettera. L’analisi è lucida e stringente e non lascia spazio a farfugliamenti difensivi vani, ad ermeneutiche da “azzeccagarbugli” e ventriloqui vari in talare rossa o nera o bianca, perché sarebbero pura menzogna. Quel che più interessa oggi, è che chiunque abbia ancora un granello di sale “nella zucca” può constatare come queste immondezze teologiche, storiche, filosofiche, etc. siano di gran moda e siano tutte “cavalli di battaglia” della nuova falsa chiesa dell’uomo, quella edificata scaltramente dagli infiltrati della quinta colonna massonica, che detengono oggi nelle loro mani ciò che resta della Chiesa Cattolica apparente! Da queste osservazioni magisteriali contenute nella Pascendi, tutti possono capire con facilità, senza bisogno di altro aggiungere, da che parte è oggi la vera Chiesa, quella fondata da Gesù Cristo il Messia, contro il Quale combattono gli avversari di sempre, atei, pagani, ebrei, infedeli, scismatici, ai quali si aggiungono gli avversari più subdoli attuali, gli gnostici di sempre, i massoni delle più disparate obbedienze [ma l’unica obbedienza è al baphomet-lucifero!], gli eretico-scismatici sedevacantisti, gli altrettanto eretici fallibilisti gallicani, i marrani infiltrati come “cavallo di Troia” nel Tempio santo di Dio, l’abominio della desolazione del “novus ordo”, istallato sugli altari delle chiese un tempo cattoliche, oggi appannaggio e pietre verminose della “sinagoga di satana”. Questo “abominio della desolazione” odierno ha un nome: è il modernismo postconciliare, mostro eruttante tutte le eresie possibili ed immaginabili …, non ultima la cancellazione dal Catechismo Cattolico di sempre, del più immondo peccato che grida vendetta al cospetto Dio: “il peccato impuro contro natura!” Orrore! orrore! … Ma la vendetta, per chi non si pente e non fa penitenza, arriverà … certa, terribile e … sarà eterna. Che Dio, con l’ausilio della Santa Vergine e dell’Arcangelo Michele alla guida degli Angeli giustizieri, ci liberi! Ma leggiamo con calma ed intelletto:

“Ma ormai, dopo aver osservato nei seguaci del modernismo il filosofo, il credente, il teologo, resta che osserviamo parimente lo storico, il critico, l’apologista. Taluni dei modernisti, che si dànno a scrivere storia, paiono oltremodo solleciti di non passar per filosofi; che anzi professano di essere affatto ignari di filosofia. È ciò un tratto di finissima astuzia: affinché nessuno creda che essi siano infetti di pregiudizi filosofici e non sieno perciò, come dicono, affatto obbiettivi. Ma il vero è, che la loro storia o critica non parla che con la lingua della filosofia; e le conseguenze che traggono, vengono di giusto raziocinio dai loro principî filosofici. Il che, a chi bene riflette, si fa subito manifesto. I primi tre canoni di questi tali storici o critici sono quegli stessi principî, che sopra riportammo dai filosofi: cioè l’agnosticismo, il teorema della trasfigurazione delle cose per la fede, e l’altro che Ci parve poter chiamare dello sfiguramento. Osserviamo le conseguenze che da ciascuno di questi si traggono. Dall’agnosticismo si ha che la storia, non meno che la scienza, si occupa solo dei fenomeni. Dunque, tanto Dio quanto un intervento qualsiasi divino nelle cose umane deve rimandarsi alla fede come di esclusiva sua pertinenza. Per lo che se trattasi di cosa in cui s’incontri un duplice elemento, divino ed umano come Cristo, la Chiesa, i Sacramenti e simili, dovrà dividersi e sceverarsi in modo che ciò che è umano si dia alla storia, ciò che è divino alla fede. Quindi quella distinzione comune fra i modernisti, fra un Cristo storico ed un Cristo della fede, una Chiesa della storia ed una Chiesa della fede, fra Sacramenti della storia e Sacramenti della fede e via dicendo. Dipoi questo stesso elemento umano, che vediamolo storico prendersi per sé quale essa si porge nei monumenti, deve ritenersi sollevato dalla fede per trasfigurazione al di là delle condizioni storiche. Conviene perciò separarne di nuovo tutte le aggiunte fattevi: cosi, trattandosi di Gesù Cristo, tutto quello che passa la condizione dell’uomo sia naturale, quale si dà dalla psicologia, sia risultante dal luogo e dal tempo in che visse. Di più, per terzo principio filosofico, pur quelle cose che non escono dalla cerchia della storia, le vagliano quasi e ne escludono, rimandandolo parimenti alla fede, tutto ciò che, secondo quanto dicono, non entra nella logica dei fatti o non era adatto alle persone. Di tal modo, vogliono che Cristo non abbia dette le cose che non sembrano essere alla portata del volgo. Quindi dalla storia reale di Lui cancellano e rimettono alla fede tutte le allegorie che incontransi nei suoi discorsi. Si vuol forse sapere con quali regole si compia questa cernita? Con quella del carattere dell’uomo, della condizione che ebbe nella società, della educazione, delle circostanze di ciascun fatto: a dir breve con una norma, se bene intendiamo, che si risolve per ultimo in mero soggettivismo. Si studiano cioé di prendere essi e quasi rivestire la persona di Gesù Cristo; ed a Lui ascrivono senza più quanto in simili circostanze avrebbero fatto essi stessi. Così dunque, per conchiudere, a priori, come suol dirsi, e coi principî di una filosofia, che essi ammettono ma ci asseriscono d’ignorare, nella storia che chiamano reale affermano Cristo non essere Dio né aver fatto nulla di divino; come uomo poi aver Lui fatto e detto quel tanto, che essi, riferendosi al tempo in cui Egli visse, Gli consentono di aver operato e parlato. Come poi la storia riceve dalla filosofia le sue conclusioni, così la critica le ha a sua volta dalla storia. Essendoché il critico seguendo gli indizi dati dallo storico, di tutti i documenti ne fa due parti. Tutto ciò che rimane, dopo il triplice taglio or ora descritto, lo assegna alla storia reale; il restante lo confina alla storia della fede, ossia alla storia interna. Giacché queste due storie distinguono diligentemente i modernisti; e, ciò che e ben da notarsi, alla storia della fede contrappongono la storia reale in quanto è reale. Perciò, come già si è detto, un doppio Cristo; l’uno reale, l’altro che veramente non mai esisté ma appartiene alla fede; l’uno che visse in determinato luogo e tempo, l’altro che solo s’incontra nelle pie meditazioni della fede; tale, per mo’ d’esempio, è il Cristo descrittoci nell’Evangelio giovanneo, il qual Vangelo, affermano, non è che una meditazione. Ma qui non si arresta il dominio della filosofia nella storia. Fatta, come dicemmo, la divisione dei documenti in due parti, si presenta di nuovo il filosofo col suo principio dell’immanenza vitale, e prescrive che tutto quanto è nella storia della Chiesa debba spiegarsi per vitale emanazione. E poiché la causa o condizione di qualsiasi emanazione vitale deve ripetersi da un bisogno, si avrà che ogni avvenimento si dovrà concepire dopo il bisogno, e dovrà storicamente ritenersi posteriore a questo. Che fa allora lo storico? Datosi a studiar di nuovo i documenti, tanto nei Libri sacri quanto ricevuti altronde, va tessendo un catalogo dei singoli bisogni che man mano si presentarono nella Chiesa sia per riguardo al dogma, sia per riguardo al culto od altre materie: e quel catalogo trasmette poscia al critico. E questi mette indi mano ai documenti destinati alla storia della fede e li distribuisce in guisa di età in età, che rispondano al datogli elenco; rammentando sempre il precetto che il fatto è preceduto dal bisogno e la narrazione dal fatto. Potrà ben darsi talora che talune parti della Sacra Scrittura, come le Epistole, siano esse stesse il fatto creato dal bisogno. Checché sia però, deve aversi per regola che l’età di un documento qualsiasi non può determinarsi se non dall’età in cui ciascun bisogno si è manifestato nella Chiesa. – Di più è da distinguere fra l’inizio di un fatto e la sua esplicazione; poiché ciò che può nascere in un giorno, non cresce se non col tempo. E questa è la ragione perché il critico debba nuovamente spartire in due i documenti già disposti per età, sceverando quelli che riguardano le origini di un fatto da quelli che appartengono al suo svolgimento, e questi eziandio ordini secondo il succedersi dei tempi. – Ciò fatto, entra di nuovo in scena il filosofo, ed impone allo storico di compiere i suoi studi a seconda dei precetti e delle leggi dell’evoluzione. E lo storico torna a scrutare i documenti, ricerca sottilmente le circostanze e condizioni nelle quali, col succedersi dei tempi, la Chiesa si è trovata, i bisogni così interni che esterni che l’hanno spinta a progresso, gli ostacoli che incontrò: a dir breve, tutto ciò che giovi a determinare il modo onde furono mantenute le leggi della evoluzione. Compiuto un tal lavoro, egli finalmente tesse nelle sue linee principali la storia dello sviluppo dei fatti. – Segue il critico, che a questo tema storico adatta il restante dei documenti. Si dà mano a stendere la narrazione: la storia è compiuta. Or qui chiediamo, a chi dovrà attribuirsi una simile storia? allo storico forse od al critico? Per fermo né all’uno all’altro, sì bene al filosofo. Tutto il lavoro di essa è un lavoro di apriorismo, e di apriorismo riboccante di eresie. Fanno certamente pietà questi uomini, dei quali l’Apostolo ripeterebbe: “Svanirono nei pensamenti… imperocché vantandosi di essere sapienti, son divenuti stolti” (Rom., I, 21, 22); ma muovono in pari tempo a sdegno, quando poi accusano la Chiesa di manipolare i documenti in guisa da farli servire ai propri vantaggi. Addebitano cioè alla Chiesa ciò che dalla propria coscienza sentono apertamente rimproverarsi. Dall’avere così disgregati i documenti e seminatili lungo le età, segue naturalmente che i Libri sacri non possano di fatto attribuirsi agli autori, dei quali portano il nome. E questo è il motivo perché i modernisti non esitano punto nell’affermare che quei libri, e specialmente il Pentateuco ed i tre primi Vangeli, da una breve narrazione primitiva, son venuti man mano crescendo per aggiunte o interpolazioni, sia a maniera di interpretazioni o teologiche o allegoriche, sia a modo di transizioni che unissero fra sé le parti. A dir più breve e più chiaro vogliono che debba ammettersi la evoluzione vitale dei Libri sacri, nata dalla evoluzione della fede e ad essa corrispondente. Aggiungono di più, che le tracce di cotale evoluzione sono tanto manifeste, da potersene quasi scrivere una storia. La scrivono anzi questa storia, e con tanta sicurezza che si sarebbe tentati a creder aver essi visto coi propri occhi i singoli scrittori che di secolo in secolo stesero la mano all’ampliazione delle sante Scritture. A conferma di che, chiamano in aiuto la critica che dicono testuale; e si adoprano di persuadere che questo o quel fatto, questo o quel discorso non si trovi al suo posto e recano altre ragioni del medesimo stampo. Direbbesi per verità che si sieno prestabiliti certi quasi-tipi di narrazioni o parlate, che servano di criterio certissimo per giudicare ciò che stia al suo posto e ciò che sia fuor di luogo. Con siffatto metodo stimi chi può come costoro debbano essere capaci di giudicare. Eppure, chi li ascolti ad oracolare dei loro studi sulle Scritture, pei quali han potuto scoprirvi si gran numero di incongruenze, è spinto a credere che nessun uomo prima di loro abbia sfogliato quei libri, né che li abbia ricercati per ogni verso una quasi infinita schiera di Dottori, per ingegno, per scienza, per santità di vita più di loro. I quali Dottori sapientissimi, tanto fu lungi che trovassero nulla da riprendere nei Libri santi, che anzi quanto più ringraziavano Iddio, che si fosse così degnato di parlare con gli uomini. Ma purtroppo i Dottori nostri non attesero allo studio delle Scritture con quei mezzi, onde son forniti i modernisti! Cioè non ebbero a maestra e condottiera una filosofia che trae principio dalla negazione di Dio, né fecero a se stessi norma di giudicare. Crediamo adunque che sia ormai posto in luce il metodo storico dei modernisti. Precede il filosofo; segue lo storico; tengon dietro per ordine la critica interna e la testuale. E poiché la prima causa questo ha di proprio che comunica la sua virtù alle seconde, è evidente che siffatta critica non è una critica qualsiasi, ma una critica agnostica, immanentista, evoluzionista; e perciò chi la professa o ne fa uso, professa gli errori in essa racchiusi e si pone in contraddizione colla Dottrina Cattolica. Per la quale cosa non può finirsi di stupire come una critica di tal genere possa oggidì aver tanta voga presso cattolici. Di ciò può assegnarsi una doppia causa: la prima è l’alleanza onde gli storici ed i critici di questa specie sono legati fra loro senza riguardi a diversità di nazioni o di credenze; la seconda è l’audacia indicibile, con cui ogni stranezza che uno di loro proferisca, dagli altri è levata al cielo e decantata qual progresso della scienza; con cui, se taluno voglia da se stesso verificare il nuovo ritrovato, serratisi insieme lo assalgono, se talun lo neghi lo trattano da ignorante, se lo accolga e lo difenda lo ricoprono di encomî. Così non pochi restano ingannati che forse, se meglio vedessero le cose, ne sarebbero inorriditi. Da questo prepotente imporsi dei fuorviati, da questo incauto assentimento di animi leggeri nasce poi un quasi corrompimento di atmosfera che tutto penetra e diffonde per tutto il contagio. – Ma passiamo all’apologista. Costui, nei modernisti, dipende ancor esso doppiamente dal filosofo. Prima indirettamente, pigliando per sua materia la storia scritta, come vedemmo, dietro le norme del filosofo: poi direttamente accettando dal filosofo i principî e i giudizî. Quindi quel comune precetto della scuola del modernismo che la nuova apologia debba dirimere le controversie religiose per via di ricerche storiche e psicologiche. Ond’è che gli apologisti dan capo al loro lavoro coll’ammonire i razionalisti che essi difendono la Religione non coi Libri sacri né con le storie volgarmente usate nella Chiesa e scritte alla vecchia moda; ma con la storia reale composta a seconda dei moderni precetti e con metodo moderno. E ciò dicono, non quasi argomentando ad hominem, ma perché difatti credono che solo in tale storia si trovi la verità. Non si curano poi, nello scrivere, di insistere sulla propria sincerità: sono essi già noti presso i razionalisti, sono già lodati siccome militanti sotto una stessa bandiera; della quale lode, che ad un Cattolico dovrebbe fare ribrezzo, essi si compiacciono o se ne fanno scudo contro le riprensioni della Chiesa. Ma vediamo in pratica come uno di costoro compia la sua apologia. Il fine che si propone è di condurre l’uomo che ancora non crede a provare in sé quella esperienza della Cattolica Religione che, secondo i modernisti, è base della fede. Due vie perciò gli si aprono, l’una oggettiva, l’altra soggettiva. La prima muove dall’agnosticismo; e tende a dimostrare come nella religione e specialmente nella cattolica vi sia tale virtù vitale, da costringere ogni savio psicologo e storico ad ammettere che nella storia di essa si nasconda alcun che di incognito. A tale scopo fa d’uopo provare che la Religione Cattolica qual è al presente, è la stessissima che Gesù Cristo fondò, ossia il progressivo sviluppo del germe recato da Gesù Cristo. Pertanto dovrà dapprima determinarsi quale esso sia questo germe. Pretendono di esprimerlo con la seguente formula: Cristo annunciò la venuta del regno di Dio, il quale regno dovrebbe aver fra breve il suo compimento, ed Egli ne sarebbe il Messia, cioè l’esecutore stabilito da Dio e l’ordinatore. Dopo ciò converrà dimostrare come questo germe, sempre immanente nella Religione Cattolica, di mano in mano e di pari passo con la storia, siasi sviluppato e sia venuto adattandosi alle successive circostanze, da queste vitalmente assimilandosi quanto gli si affacesse di forme dottrinali, culturali, ecclesiastiche; superando nel tempo stesso gli ostacoli, sbaragliando i nemici, e sopravvivendo ad ogni sorta di contraddizioni o di lotte. Dopo che tutto questo, cioè gl’impedimenti, i nemici, le persecuzioni, i combattimenti, come pure la vitalità e fecondità della Chiesa, siansi mostrati tali che, quantunque nella storia della stessa Chiesa si scorgano serbate le leggi della evoluzione, pure queste non bastano a pienamente spiegarla: l’incognito sarà dl fronte e si presenterà da sé stesso. Fin qui i modernisti. I quali, però, in tutto questo discorrere, non pongon mente a una cosa; e cioè, che quella determinazione del germe primitivo è tutto frutto dell’apriorismo del filosofo agnostico ed evoluzionista, e che il germe stesso è così gratuitamente da loro definito pel buon giuoco della loro causa. Mentre però i nuovi apologisti, cogli argomenti arrecati, si studiano di affermare e persuadere la Religione Cattolica, non han riguardo a concedere che in essa molte cose sono che spiacciono. Che anzi, con una mal velata voluttà, van ripetendo pubblicamente che anche in materia dogmatica ritrovano errori e contraddizioni; benché soggiungano, che tali errori e contraddizioni non solo meritano scusa, ma, ciò che è più strano, sono da legittimarsi e giustificarsi. Così pure, secondo essi, nelle sacre Scritture corrono moltissimi sbagli in materia scientifica e storica. Ma, dicono, non sono quelli, libri di scienza o di storia, sì bene di religione e di morale, ove la scienza e la storia sono involucri con cui si coprono le esperienze religiose e morali per meglio propagarsi nel pubblico; il quale pubblico non intendendo altrimenti, una scienza od una storia più perfetta sarebbe gli stata non di vantaggio ma di nocumento. Del resto, aggiungono, i Libri sacri, perché di lor natura religiosi, sono essenzialmente viventi: or la vita ha pur essa la sua verità e la sua logica; diversa certamente dalla verità e logica razionale, anzi di tutt’altro ordine, verità cioè di comparazione e proporzione sia coll’ambiente in cui si vive, sia col fine per cui si vive. Finalmente a tanto estremo essi giungono ad affermare, senza attenuazione di sorta, che tutto ciò che si spiega con la vita è vero e legittimo. – Noi, Venerabili Fratelli, pei quali la verità è una ed unica, e che riteniamo i sacri Libri come quelli che “scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno per autore Iddio” (Conc. Vat., De Rev. c. 2), affermiamo ciò essere il medesimo che attribuire a Dio la menzogna di utilità o officiosa; e con le parole di Sant’Agostino protestiamo che: “Ammessa una volta in così altissima autorità qualche bugia officiosa, nessuna particella di quei libri resterà che, sembrando ad alcuno ardua per costume o incredibile per la fede, con la stessa perniciosissima regola, non si riferisca a consiglio o vantaggio dell’autore menzognero” (Epist. 28). Dal che seguirà quel che lo stesso santo Dottore aggiunge: “In esse – cioè nelle Scritture – ciascuno crederà quel che vuole, quel che non vuole non crederà“. Ma i modernisti apologeti non si dàn pensiero di tanto. Concedono di più trovarsi talora nei Libri santi dei ragionamenti, per sostenere una qualche dottrina, che non si appoggiano a verun ragionevole fondamento, come son quelli che si basano sulle profezie. Vero è che anche questi menan per buoni come artifizî di predicazione legittimati dalla vita. Che più? Concedono, anzi sostengono, che Gesù Cristo stesso errò manifestamente nell’assegnare il tempo della venuta del regno di Dio: ma ciò, secondo essi, non può fare meraviglia, perché Egli ancora era sottoposto alle leggi della vita! Che sarà dopo ciò dei dogmi della Chiesa? Riboccano pur questi di aperte contraddizioni; ma, oltreché sono ammesse dalla logica della vita, non si oppongono alla verità simbolica; giacché si tratta in essi dell’infinito, che ha infiniti rispetti. A far breve, talmente approvano e difendono siffatte teorie, che non si peritano di dichiarare non potersi rendere all’infinito omaggio più nobile, come affermando di esso cose contraddittorie! Ed ammessa così la contraddizione, quale assurdo non si ammetterà? Oltre agli argomenti oggettivi, il non credente può essere disposto alla fede anche con soggettivi. In questo caso gli apologeti modernisti si rifanno sulla dottrina della immanenza. Si adoprano cioè a convincer l’uomo, che in lui stesso e negli intimi recessi della sua natura e della sua vita si cela il desiderio e il bisogno di una religione, né di una religione qualsiasi, ma tale quale è appunto la cattolica; giacché questa, dicono, è postulata onninamente dal perfetto sviluppo della vita. E qui di bel nuovo siam costretti a lamentarCi gravemente che non mancano Cattolici i quali, benché rigettino la dottrina dell’immanenza come dottrina, pure se ne giovano per l’apologetica; e ciò fanno con sì poca cautela, da sembrare ammettere nella natura umana non pure una capacità od una convenienza per l’ordine soprannaturale, ciò che gli apologisti cattolici, con le debite restrizioni, dimostrarono sempre, ma una stretta e vera esigenza. A dir più giusto però, questa esigenza della Religione Cattolica è sostenuta dai modernisti più moderati. Quelli fra costoro che potremmo chiamare integralisti, pretendono che si debba indicare all’uomo, che ancor non crede, latente in lui lo stesso germe che fu nella coscienza di Cristo e da Cristo trasmesso agli uomini. Ed eccovi, o Venerabili Fratelli, descritto per sommi capi il metodo apologetico dei modernisti, in tutto conforme alle loro dottrine: metodo e dottrine infarciti di errori, atti non ad edificare, ma a distruggere; non a far dei cattolici, ma a trascinare i cattolici nella eresia, anzi alla distruzione totale d’ogni religione! – Restano per ultimo a dir poche cose del modernista in quanto la pretende a riformatore. Già le cose esposte finora ci provano abbondantemente da quale smania di innovazione siano rôsi codesti uomini. E tale smania ha per oggetto quanto vi è nel cattolicismo. Vogliono riformata la filosofia specialmente nei Seminarî: sì che relegata la filosofia scolastica alla storia della filosofia in combutta cogli altri sistemi passati di uso, si insegni ai giovani la filosofia moderna, unica, vera e rispondente ai nostri tempi. A riformare la teologia, vogliono che quella, che diciamo teologia razionale, abbia per fondamento la moderna filosofia. Chiedono inoltre che la teologia positiva si basi principalmente sulla storia dei dogmi. Anche la storia chiedono che si scriva e si insegni con metodi loro e precetti nuovi. Dicono che i dogmi e la loro evoluzione debbano accordarsi con la scienza e la storia. Per il Catechismo esigono che nei libri catechistici si inseriscano solo quei dogmi, che sieno stati riformati e che sieno a portata dell’intelligenza del volgo. Circa il culto, gridano che si debbano diminuire le devozioni esterne e proibire che si aumentino. Benché a dir vero, altri più favorevoli al simbolismo, si mostrino in questa parte più indulgenti. Strepitano a gran voce perché il regime ecclesiastico debba essere rinnovato per ogni verso, ma specialmente pel disciplinare e il dogmatico. Perciò pretendono che dentro e fuori si debba accordare con la coscienza moderna, che tutta è volta a democrazia; perché dicono doversi nel governo dar la sua parte al clero inferiore e perfino al laicato, e decentrare, Ci si passi la parola, l’autorità troppo riunita e ristretta nel centro. Le Congregazioni romane si devono svecchiare: e, in capo a tutte, quella del Santo Officio e dell’Indice. [il marrano G.B. Montini, l’antipapa sedicente Paolo, non solo svecchiò, ma eliminò totalmente il Santo Officio e l’Indice! -ndr. –], deve cambiarsi l’atteggiamento dell’autorità ecclesiastica nelle questioni politiche e sociali, talché si tenga essa estranea dai civili ordinamenti, ma pur vi si acconci per penetrarli del suo spirito. In fatto di morale, danno voga al principio degli americanisti, che le virtù attive debbano anteporsi alle passive, e di quelle promuovere l’esercizio, con prevalenza su queste. Chiedono che il clero ritorni all’antica umiltà e povertà; ma lo vogliono di mente e di opere consenziente coi precetti del modernismo. Finalmente non mancano coloro che, obbedendo volentierissimo ai cenni dei loro maestri protestanti, desiderano soppresso nel sacerdozio lo stesso sacro celibato. Che si lascia dunque d’intatto nella Chiesa, che non si debba da costoro e secondo i lor principî riformare?” [Il modernista “novus ordo” vuole eliminare completamente pure il ricordo della Chiesa Cattolica per farla “evaporare” nell’ecumenico “noachismo talmudico”, falsa religione del nuovo ordine mondiale imposto dagli illuminati! – ndr. -]

[Continua …]

[N.B.: i grassetti sono redazionali]

 

DOMENICA XXIII dopo PENTECOSTE – VI quæ superfuit Post Epiphaniam

 

DOMENICA XXIII

Dominica VI quæ superfuit Post Epiphaniam

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Jer XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.
[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio
Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, semper rationabília meditántes, quæ tibi sunt plácita, et dictis exsequámur et factis.
[Concedici, o Dio onnipotente, Te ne preghiamo: che meditando sempre cose ragionevoli, compiamo ciò che a Te piace e con le parole e con i fatti.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses
1 Thess 1: 2-10
Fratres: Grátias ágimus Deo semper pro ómnibus vobis, memóriam vestri faciéntes in oratiónibus nostris sine intermissióne, mémores óperis fídei vestræ, et labóris, et caritátis, et sustinéntiæ spei Dómini nostri Jesu Christi, ante Deum et Patrem nostrum: sciéntes, fratres, dilécti a Deo. electiónem vestram: quia Evangélium nostrum non fuit ad vos in sermóne tantum, sed et in virtúte, et in Spíritu Sancto, et in plenitúdine multa, sicut scitis quales fuérimus in vobis propter vos. Et vos imitatóres nostri facti estis, et Dómini, excipiéntes verbum in tribulatióne multa, cum gáudio Spíritus Sancti: ita ut facti sitis forma ómnibus credéntibus in Macedónia et in Achája. A vobis enim diffamátus est sermo Dómini, non solum in Macedónia et in Achája, sed et in omni loco fides vestra, quæ est ad Deum, profécta est, ita ut non sit nobis necésse quidquam loqui. Ipsi enim de nobis annúntiant, qualem intróitum habuérimus ad vos: et quómodo convérsi estis ad Deum a simulácris, servíre Deo vivo et vero, et exspectáre Fílium ejus de coelis quem suscitávit ex mórtuis Jesum, qui erípuit nos ab ira ventúra.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli: Omelie, vol IV, Omelia XXIII – Torino, 1899 ]

“Noi rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, facendo incessantemente memoria di voi nelle nostre preghiere. Ricordando la vostra fede operosa e la vostra fede travagliata e la costante speranza nel Signor nostro Gesù Cristo, al cospetto di Dio, Padre nostro, sapendo, o fratelli a Dio cari, la vostra elezione. Poiché il nostro Evangelo presso di voi non consistette soltanto in parole, ma anche in potenza ed in Spirito Santo, ed ogni pienezza, come avete veduto quali fummo tra voi per voi. E voi diventaste imitatori nostri e del Signore, ricevendo la predicazione fra grandi tribolazioni, con gaudio dello Spirito Santo. Tantoché siete stati di esempio a tutti i credenti nella Macedonia e nell’Acaia. Perché non solo la parola del Signore è passata a voi nella Macedonia e nell’Acaia, ma anche la fede che avete in Dio si è divulgata in ogni luogo, sicché non è bisogno di parlarne. Perché essi stessi raccontano di noi quale fosse la nostra entrata tra voi, e come dagli idoli vi convertiste a Dio, per servire al Dio vivo e vero, e per aspettare dal cielo il Figlio di lui (cui suscitò dai morti) Gesù, il quale ci salverà dall’ira ventura „ (I ai Tessalonicesi, I, 2-10).

In ordine di tempo questa lettera di san Paolo ai fedeli di Tessalonica, oggi dì Salonikì, una delle capitali della Macedonia, è la prima delle quattordici lettere che di lui abbiamo. L’Apostolo, vi aveva in breve tempo fondata ma Chiesa numerosa e fiorente (Atti Ap. XVII), composta specialmente di Gentili; poi costretto a partire di là per le persecuzioni degli Ebrei, era andato a Berea, poi ad Atene e finalmente a Corinto. Da Corinto aveva mandato Timoteo a Tessalonica, ed avute da lui ottime novelle di quella Chiesa, scrisse questa prima lettera, l’anno 53 o forse 54 dell’èra nostra. Essa è quasi tutta morale, e le sentenze riportate, che formano il primo capo, sono uno sfogo affettuoso del suo cuore paterno, e contengono una lode grandissima della fede di quei suoi figliuoli. Ed ora alla spiegazione. Questa prima lettera ai Tessalonicesi, come parecchie altre di S. Paolo, è scritta a nome suo e di alcuni altri, suoi compagni e cooperatori nelle fatiche dell’apostolato. I suoi compagni e cooperatori qui nominati sono Silvano o Sila, e Timoteo, e perciò non vi deve far meraviglia se l’Apostolo parla in comune e, secondo il suo costume, comincia dagli auguri e dai rallegramenti, dicendo: “Noi rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi …” Tutto ciò che gli uomini fanno di bene, in qualunque ordine di cose, è sempre fatto con l’aiuto di Dio, senza del quale essi non possono far nulla: è dunque giusto che del bene che l’Apostolo vedeva nei suoi Tessalonicesi, ne rendesse grazie a Dio, il quale ne era la causa prima e principale. Ben è vero che questo bene era proprio dei Tessalonicesi, ma la vera carità ci fa considerare il bene altrui come nostro; il perché come del bene nostro, così del bene che vediamo in altrui, dobbiamo ringraziare Iddio, la carità rendendo comune ogni cosa. La ragione, e più assai lo spirito di fede, ci portano in tutte le cose e in tutti gli avvenimenti ad elevarci al di sopra della terra, a fissare gli occhi della mente in Lui, che è il supremo Reggitore e fonte d’ogni bene e ringraziarlo dei doni, dei quali ci è largo ad ogni istante: ecco perché S. Paolo apre la sua lettera con quelle parole: “Noi rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi. Non fa eccezione per alcuno, non mette restrizioni di tempo: “Per tutti e sempre. „ – E non solo S. Paolo con i suoi colleghi porge vivi rendimenti di grazie a Dio per i suoi figli spirituali, ma protesta di fare “incessantemente memoria di essi nelle sue preghiere. „ La carità vuole che procuriamo il bene per noi possibile ai nostri fratelli, giacché una carità inoperosa non si può nemmeno concepire. Ma tu dici: Io non posso far nulla di bene ai miei fratelli; sono povero, sono ignorante, i miei fratelli sono lontani, sono moltissimi, non li conosco nemmeno di nome: qual bene volete ch’io possa fare ad essi?  Grandissimo ed ogni giorno. — In qual maniera? — Facilissima. Non puoi tu pregare il buon Dio, il Padre celeste per essi? — Sì. — Ebbene, pregalo adunque per te, per i fratelli tuoi, per tutti, siano credenti o non credenti, siano buoni o malvagi, e tu hai procurato loro quel maggior bene, che per te sia possibile: tu hai imitato l’Apostolo, che nelle sue preghiere si rammentava sempre dei suoi cari neofiti di Tessalonica. La preghiera fatta a vicenda ci stringe tutti nei dolci vincoli della carità, ci affratella e sale a Dio più accettevole, è l’aiuto scambievole più facile e più efficace che possiamo prestarci quaggiù sulla terra. S. Paolo, mentre ringrazia Dio e lo prega per i Tessalonicesi, rammenta eziandio le ragioni, che a lui li facevano cari. Quali ragioni? Anzitutto la loro fede operosa: Operis fidei veitræ. Fondamento della vita cristiana, lo dissi più volte, è la fede, il conoscimento cioè di Dio e delle verità rivelate per lui, che teniamo con la più irremovibile certezza. Ma che vale il conoscimento della verità senza le opere della verità? Ciò che vale il fondamento senza la fabbrica, il seme senza il frutto, il disegno senza l’edificio. La fede si compie nelle opere, e per questo S. Paolo, facendo l’elogio dei Tessalonicesi, scrive che ricordava bene la loro fede operosa, cioè la loro condotta conforme alla fede. Dilettissimi! Noi, per divina bontà, abbiamo la fede dei Tessalonicesi: ma con essa abbiamo anche le loro opere? Se Paolo comparisse in mezzo a noi e fosse testimonio della nostra condotta quotidiana, potrebbe dire di noi: « Vedo la vostra fede operosa? „ Io non lo so! E la risposta la lascio alle vostre coscienze. Ciò che so e vedo è che molti cristiani vivono come se non fossero cristiani, a talché se si trovassero in mezzo a pagani difficilmente si potrebbero da loro distinguere quanto alla condotta morale. Sono cristiani perché battezzati e perché essi stessi si professano cristiani; ma le loro opere ohimè! non sono da cristiani. Quale contraddizione! quale vergogna per il nome cristiano! quale argomento di bestemmia contro la nostra santa Religione! Dirsi cristiani e vivere quasi da pagani! “La fede, scrive altrove l’Apostolo, è la prima, poi la speranza, e poi la carità, e maggiore di tutte, quasi corona delle altre, è la carità : „ sono quelle tre virtù, che avendo per oggetto Dio, si dicono anche teologali, e senza di esse è impossibile salvarci. Qui pure san Paolo le ricorda, invertendo lievemente l’ordine; infatti dice: ” Rammentando l’operosa vostra fede e la carità travagliata e la costante speranza: Laboris charitatis et sustìnentìæ spei. Penso che S. Paolo chiami travagliata la carità e costante la speranza dei Tessalonicesi, perché dovevano aver sofferte molte molestie e gravi tribolazioni per la fede, ancorché noi non ne conosciamo i particolari; ma in quei principi della Chiesa ed in quei tempi le prove più dure e le persecuzioni più crudeli erano pressoché quotidiane; da una parte gli Ebrei, sempre nemicissimi dei cristiani, dall’altra i Gentili, armati della legge e forti delle tradizioni pagane, non davano tregua ai seguaci del Vangelo, vessandoli ed opprimendoli in mille guise. Essi non potevano attingere la forza necessaria per resistere a sì fieri cimenti che nella fede, nella speranza e nella carità, i tre vincoli che ci legano a Dio e che ci fanno forti della sua fortezza. Noi pure, o cari, siamo ogni giorno sottoposti alle prove della vita cristiana: non saranno sì dure come quelle dei primi cristiani, no: ma sono prove spesso penose, lunghe, e sotto le quali non pochi dei fratelli nostri soccombono. Vogliamo agevolare e assicurare la vittoria? Con la fede leviamo a Dio la nostra mente, con la speranza e con la carità leviamo a Lui le nostre aspirazioni e il nostro cuore, a Lui teniamoci saldamente uniti, e la vittoria non potrà fallire. Ho visto assai volte una navicella con salda fune raccomandata ad una massiccia colonna di pietra ergentesi sulla riva: i venti qua e là furiosamente la trabalzavano, e ad ogni istante pareva la dovessero sommergere o sfasciare; ma a poco a poco la procella cessava, le onde si calmavano e la navicella appariva intatta, ferma ai piedi della colonna, e quasi riposante sulle acque. Ecco un’immagine dell’anima nostra, allorché con la triplice fune della fede, della speranza e della carità sta fortemente unita a Dio. Finché con questa triplice fune stiamo uniti a Dio, non temete, il naufragio è impossibile. Rammentando io, anzi, vedendo io, così l’Apostolo, queste prove, queste opere della vostra fede, della vostra carità, della vostra speranza, ne traggo argomento sicuro, che siete stati veramente eletti da Dio, che avete la sua grazia e siete cari a Lui: Scientes, fratres dilecti a Deo, electionem vestram. Allorché noi vediamo un albero sostenere il furore del vento, diciamo: le sue radici sono ben salde e profonde, e gagliardo il suo tronco: similmente l’Apostolo, vedendo la fermezza nella fede dei suoi Tessalonicesi, e rimirando le opere della loro carità, ne arguisce la certezza della loro elezione e l’abbondanza della grazia divina nei loro cuori, perché dall’abbondanza e dalla bontà dei frutti si conosce l’albero. L’Apostolo prosegue, svolgendo più ampiamente questo pensiero, e dice: “Poiché il nostro Evangelo presso di voi non consistette soltanto in parole, ma sì ancora in potenza e in Spirito Santo, ed in ogni pienezza, come vedeste quali fummo in mezzo a voi per voi. „ Bene a ragione, così suona il linguaggio dell’Apostolo, bene a ragione voi rimanete saldi all’insegnamento ch’io vi ho dato, perché le prove ch’io vi diedi della sua verità e divina origine non si riducevano a parole: voi le vedeste nei miracoli, che Iddio a sua confermazione operò e nella diffusione mirabile dei doni dello Spirito Santo, che fu sì piena e sovrabbondante: prove queste che Iddio si compiacque operare per mio mezzo fra voi e a vostro beneficio. L’uomo, dice sapientemente S. Tommaso, non crederebbe le verità della fede se non vedesse che è dover suo il crederle. Se così non fosse, parliamo degli adulti, che si convertono alla fede, la loro fede non sarebbe ragionevole. Chi è fuori della Chiesa non può entrare nella Chiesa che seguendo la ragione, la quale gliene mostra la divina origine, onde i Padri dissero che la ragione è il pedagogo, che guida alla fede. Non occorre qui avvertire che la grazia divina opera internamente prevenendo ed accompagnando i nostri passi. Ora come l’uomo può conoscere essere dover suo il credere le verità insegnate dalla fede? Forse perché con la sua ragione le conosce vere in se stesse, come le altre verità d’ordine naturale? No; perché queste verità, fossero anche tutte di ordine naturale, non tutti gli uomini son capaci di intenderle; una gran parte poi di esse sono sopranaturali, e superano al tutto le forze della nostra ragione. In qual modo adunque possiamo noi conoscere il dovere che ci stringe di ammetterle? Un uomo si presenta a voi: egli vi insegna una dottrina che non comprendete, vi assicura che è vera: voi lo conoscete quell’uomo: è egli onesto, pieno di sapienza, né vi è possibile nemmeno sospettare che possa o voglia ingannarvi. Sul campo di battaglia ad un generale si presenta un ordine, si comanda un movimento, del quale non vede la ragione, che anzi gli pare contrario alla ragione. Il generale guarda l’ordine scritto, riconosce la firma del suo duce superiore; non esita un istante: ubbidisce. Voi, accogliendo quella dottrina, che non comprendete: il generale ubbidendo a quel comando inesplicabile, operate forse contro ragione? No; anzi, operate secondo la ragione, perché è la ragione, la qual vuole che l’uomo si rimetta al giudizio di chi conosce essere meritevole di piena fiducia. Voi non comprendete la cosa in sé, ma la comprendete con la mente di chi sapete che la comprende. È il caso nostro, era il caso dei Tessalonicesi. Essi per fermo non potevano comprendere tutte le verità che S. Paolo insegnava loro; ma vedevano quest’uomo tutto amore della verità, disinteressato: lo vedevano predicare una dottrina, che non gli fruttava nessun vantaggio materiale, che gli imponeva sacrifici d’ogni maniera e lo metteva a pericolo della vita stessa; l’udivano affermare aver egli stesso veduto Cristo risorto; lo vedevano operare miracoli splendidi, indubitati, sotto i loro occhi, in conferma di ciò che insegnava; lo vedevano adorno d’ogni virtù: come dubitare della dottrina che annunziava? Era dunque ragionevole credere a tutto ciò che insegnava, com’è ragionevole che noi pure crediamo, appoggiati alle stesse prove che n’ebbero i primi cristiani, e che non variano per mutar di tempi, anzi acquistano col tempo maggior forza ed evidenza. – S. Paolo continua l’elogio dei Tessalonicesi e le sue congratulazioni, dicendo: “Voi foste imitatori nostri e del Signore, accogliendo la predicazione, fra grandi travagli, con gaudio nello Spirito Santo. „ Voi, o Tessalonicesi, imitaste me ed i miei compagni e cooperatori nel ministero apostolico; che dico : Imitaste noi! Dirò meglio, imitaste il Signor nostro Gesù Cristo. In che cosa? ” Accogliendo la verità per noi predicata ed accogliendola in mezzo a molti e grandi travagli. „ Qui si fa manifesto che i buoni Tessalonicesi avevano dovuto soffrire assai: In multa tribulatione, per la fede che avevano accolto. Ma da veri discepoli di S. Paolo e di Gesù Cristo, in mezzo ai contrasti ed ai travagli sofferti per la fede, “Erano anche ripieni di gioia — Cum gaudio Spiritus Sancti. „ Quale esempio di fede e di fortezza d’animo ci danno questi primi cristiani! vessati, tribolati, perseguitati dalle male lingue e peggio, non venivano meno, e lungi dal lagnarsi e darsi per vinti, si rallegravano. Questo è proprio, grida il Crisostomo, di coloro che son fatti superiori alla natura, e per poco non sentono i dolori, fatti simili a Gesù Cristo che, percosso, coperto di sputi, confitto alla croce, godeva; soffriva nel corpo, ma godeva nello spirito. Non è proprio dei dolori apportare gioia, ma la gioia deriva dal patire per Cristo e dal pensiero che attraverso al fuoco delle tribolazioni si passa, mercé la grazia divina, al riposo eterno. Questa vostra condotta, prosegue S. Paolo, tessendo sempre le lodi dei Tessalonicesi, è tale, “che siete stati d’esempio a tutti i credenti nella Macedonia e nell’Acaia. „ Voi, o Tessalonicesi, imitando noi, come noi imitiamo Cristo, sulla gran via della croce, avete l’onore e la gloria d’essere modelli a tutti i credenti della Macedonia non solo, ma di tutta la Grecia. Lode più magnifica di questa non poteva farsi a quella cristianità. Come ciascun cristiano deve vivere in guisa da presentare nella propria condotta un modello da potersi imitare dai suoi fratelli, così ogni famiglia, ogni parrocchia. Carissimi! Ciascuno di noi è tale? Son tali le nostre famiglie e la nostra parrocchia? O non abbiamo per avventura da arrossire? A ciascuno di noi la risposta. Era sì luminoso l’esempio dei Tessalonicesi in Macedonia e in tutta la Grecia, che S. Paolo francamente soggiunge: “Non solo la parola del Signore è proceduta da voi nella Macedonia e nell’Acaia, ma anche la fede, che avete in Dio, si è divulgata in ogni luogo, sicché non ci è mestieri parlarne. „ Le quali parole significano che la fama della predicazione evangelica fatta da Paolo ai Tessalonicesi, per opera di questi, ebbe un’eco profonda in tutte le regioni vicine di Macedonia e d’Acaia o Grecia, e si sparse largamente per ogni dove; e non solo la fama della loro conversione risuonò in tutti i paesi finitimi, ma la loro fede, provata dalla santità della vita, si propagò per guisa, che l’Apostolo non aveva bisogno di farla conoscere. I Tessalonicesi, con la franca professione della fede e con la vita virtuosa, con la quale manifestavano ed onoravano la fede stessa, in certo modo avevano esercitato nei paesi vicini il ministero apostolico, in guisa che Paolo non aveva quasi più necessità di predicare. Essi, i Tessalonicesi, avevano narrato a tutti la venuta dell’Apostolo fra loro, e come avevano lasciato il culto degli idoli e si erano dati al servizio del Dio vivo e vero; il Dio vivo e vero qui è detto per opposizione agli dei od idoli, che non erano né vivi, né veri, ma creazioni dell’ignoranza e della impostura. Ancora una volta ci si fa conoscere la grande efficacia dell’esempio: esso è una predicazione eloquentissima per guisa, che in qualche modo sembrava pareggiare la predicazione stessa dell’Apostolo e gli faceva dire: “A me ornai non occorre parlare. „ Dove si conosce la vostra conversione e la vostra fede è quasi inutile la mia parola. Per opera vostra, o Tessalonicesi, i paesi vicini hanno potuto apprendere, che è dovere volgere le spalle agli idoli e servire al vero Dio; non solo questo hanno potuto apprendere, continua l’Apostolo, ma che per noi “si aspetta dal cielo il Figlio di Dio, Gesù, che fu risuscitato. „ È stile di S. Paolo condensare in un periodo le verità più importanti, perfino negli auguri e nei ringraziamenti, e qui ne dà un saggio. Con la conversione dal gentil esimo a Dio egli unisce il termine ultimo di tutte le cose, che è la venuta di Cristo giudice e il giudizio finale, che tutti ci aspetta. È questa una delle verità capitali della nostra fede, che se fosse più spesso richiamata alla nostra mente, scuoterebbe la nostra pigrizia, ci riempirebbe d’un santo timore e ci renderebbe più solleciti nell’adempimento dei nostri doveri. L’uomo che sovente pensa al conto strettissimo che dovrà rendere a Dio di tutta la sua vita, ed alla sentenza irrevocabile che le terrà dietro, non può non sentirsi fortemente eccitato a vivere cristianamente. In alto le menti ed i cuori, sembra gridarci l’Apostolo … in alto! Ricordate che delle opere vostre, delle vostre parole, dei vostri pensieri ed affetti risponderete in un giorno solenne a quel Gesù, che vi ho predicato, che è venuto per salvarci dal peccato, e per conseguenza per salvarci dalla pena che accompagna il peccato, che è l’ira sua e l’eterna condanna.

Graduale
Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.
V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in sæcula.  [Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano. V. In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno.]

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
Matt XIII: 31-35
In illo témpore: Dixit Jesus turbis parábolam hanc: Símile est regnum coelórum grano sinápis, quod accípiens homo seminávit in agro suo: quod mínimum quidem est ómnibus semínibus: cum autem créverit, majus est ómnibus oléribus, et fit arbor, ita ut vólucres coeli véniant et hábitent in ramis ejus. Aliam parábolam locútus est eis: Símile est regnum cœlórum ferménto, quod accéptum múlier abscóndit in farínæ satis tribus, donec fermentátum est totum. Hæc ómnia locútus est Jesus in parábolis ad turbas: et sine parábolis non loquebátur eis: ut implerétur quod dictum erat per Prophétam dicéntem: Apériam in parábolis os meum, eructábo abscóndita a constitutióne mundi. [In quel tempo: Gesù disse alle turbe questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un grano di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo: e questo grano è la più piccola di tutte le sementi, ma, cresciuta che sia, è più grande di tutti gli erbaggi e diventa un albero: così che gli uccelli dell’aria vanno e si riposano sui suoi rami. E disse loro un’altra parabola: Il regno dei cieli è simile a un po’ di lievito, che una donna mescola a tre staia di farina, così che tutto sia fermentato. Gesù disse tutte queste parabole alle turbe: e mai parlava loro se non in parabole: affinché si adempisse il detto del Profeta: aprirò la mia bocca in parabole, manifesterò cose nascoste dalla fondazione del mondo.]

OMELIA II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]

La Santa Chiesa.

Il regno dei cieli è simile ad un grano di senapa, che sebbene fra i semi ordinari, pure seminato in buon terreno, massime nella fertile regione della Palestina, spunta in germoglio, cresce in albero, si estende in rami sì robusti e frondosi, che volano ad abitarvi gli uccelli dell’aria. “Simile est regnun cœlorum grano sinapis … quod minimum est omnibus seminibus”, con quel che segue nell’odierno Vangelo. Or perché mai al grano più piccolo viene paragonato il regno dei cieli? E che va inteso per regno dei cieli? “Regnum cœlorum”, risponde il magno Gregorio, “præsentis temporis Ecclesia dicitur (Hom. 11 in Evang.), regno dei cieli, si chiama la Chiesa  da Gesù Cristo fondata nel tempo presente, e che durerà fino alla consumazione dei secoli: e si paragona ad un piccolo granello di senapa cresciuto in una gran pianta, per significare l’umile principio, e poscia l’ingrandimento della medesima Chiesa. L’umile principio della Chiesa nascente fa vedere la mano di Dio, che la fondò: l’esaltamento della Chiesa in ogni tempo fa conoscere la mano di Dio, che la difese. Due riflessioni, signori amatissimi, su cui penso intrattenere la vostra pietà. Si tratta di un argomento in cui vedremo le divine qualità che caratterizzano la Chiesa nostra madre per vera sposa di Gesù Cristo, da Lui fondata, da Lui difesa: argomento interessante, che tutto deve richiamare l’attenzione dei veri suoi figliuoli.

I . La difficoltà dell’opera, la debolezza dei mezzi fan conoscere quanto umile, quanto abbietto, secondo le umane vedute, fosse il principio della Chiesa nascente, e quanto la mano di Dio vi risplendé. – Viene Gesù Cristo al mondo, e si propone ed annunzia un disegno il più strano, il più inaudito. In tutta la terra regna l’idolatria. Le passioni più vergognose, i vizi più abominevoli sono autorizzati dal culto superstizioso di falsi dèi, infetti anch’essi, e celebri per ogni sorta d’iniquità. Gesù Cristo altamente dichiara esser venuto a rovesciar ogni idolo, ed atterrar ogni tempio a loro consacrato: esser venuto a confondere la scienza dei filosofi, la superbia dei grandi, gli errori di tutti: esser venuto ad abolire le superstizioni, a togliere i vizi, a riformare i costumi, ed a piegar tutti i popoli ad una nuova credenza, e riunirli sotto una medesima legge. In formar questo disegno non ignora nulla esservi di più difficile, che il cambiamento di religione, e allora più quando una religione radicata da secoli, una religione comoda, confacente alla corrotta natura che, lungi dall’opporsi, autorizza e consacra le più vili passioni, e le più sfrenate dissolutezze. Tutto sa, tutto prevede, e a vista di tanti ostacoli non si arresta dal concepito disegno. – Conviene dire: o essere impossibile la riuscita, o Colui che la si promette, abbia in mano dei mezzi straordinari, possenti, da sperarne felice successo. Appunto, i mezzi sono in sua mano; ma oh quanto diversi da quel che l’umana sapienza avrebbe creduto adoperare! I mezzi più disadatti, più contrari all’intento furono gli scelti da Gesù Cristo. Nato Egli in un angolo della Giudea in una capanna da povera Madre, reputato figlio di un fabbro, dimorante fino ai trenta anni in una vile bottega, esce dalla sua vita nascosta per cominciar la grand’opera della riforma del mondo. Chiama in aiuto all’ardua impresa dodici plebei senza credito, senza scienza, dodici poveri pescatori, e loro fa intendere che nel seguirlo non cesseranno di esser poveri; che anzi, se vogliono essere suoi discepoli, dovranno rinunziare perfino la speranza di ogni bene terreno. Lungi dall’allietarli con qualche umana promessa, si spiega loro chiaramente, che altro non potranno aspettarsi che persecuzioni, catene, tormenti e morte. Sono ben dolci e lusinghiere siffatte promesse! E pure si uniscono a Lui questi uomini, e fedelmente lo seguono fino alla morte. – Muore Gesù, e con la morte dell’autore doveva naturalmente perire un’opera cominciata da sì pochi anni, sì poco avanzata, e sostenuta sì poco. Muore Gesù, e di qual morte? Muore come un seduttore, come uno scellerato, ed è sepolto. – Chi non direbbe che il suo gran progetto è insieme con Lui seppellito. Così all’umana vista doveva comparire, così si lusingava la perfida Sinagoga; ma no, il grano della senapa sepolto sotterra spunterà fra poco, e crescerà in pianta perfetta. I dodici pescatori rivestiti di una virtù che viene dall’alto e di una forza invincibile, alzano la voce nelle piazze di Gerosolima, nelle contrade della Giudea e della Samaria, si spargono in tutte le parti dell’universo, predicano Gesù Cristo crocefisso e risorto, confermano coi miracoli la verità del suo risorgimento, la divinità di sua Persona, la purità di sua dottrina ed ecco la faccia della terra tutta cangiata. La luce del Vangelo ha aperto gli occhi alle nazioni sedenti in tenebre ed ombre di morte. La pagana superstizione fugge come la notte allo spuntar del sole, gl’idoli sono infranti, i templi sono distrutti, i vizi sbanditi, i costumi riformati, la Cristiana Religione riconosciuta la vera, il suo Fondatore adorato, la sua Croce esaltata, e dal luogo dei supplizi passata ad ornare la corona e la fronte dei re e degl’imperatori. “A locis suppliciorum ad frontes imperatorum” (S. Agost.  In Ps. XXXVI, ver. 2). – Or io domando, chi ha cambiato l’umano intelletto, chi l’ha fatto piegare a credere dogmi inauditi, dogmi che sembrano rivoltare l’umana ragione? Chi ha cambiato il cuor dell’uomo corrotto dalle più sozze passioni, e gli ha fatto abbracciare una Religione sì severa, che esige la più grande purezza di opere, di affetti e di pensieri? Che proibisce uno sguardo men puro, un desiderio men retto? La mano di Dio, che nella elezione degli Apostoli ha impiegati i mezzi più deboli, più inetti, ma resi idonei e forti nella possente sua grazia a propagare e stabilir la sua fede, e a suggellarne la testimonianza col proprio sangue: la mano di Dio, che per tal mezzi ha voluto stampare in fronte alla sua Chiesa i più luminosi caratteri della verità. Ed ecco la pianta della Chiesa, nata da sì picciolo seme, che ha estesi i suoi rami dall’uno all’altro confine del conosciuto mondo. Ed oh su questi rami, quanti dal gentilesimo, quanti dall’ebraismo sono volati! Quanti eroi della fede vi han posta loro dimora, quanti fiori di martiri hanno abbellita pianta sì degna, quanti fiori di vergini l’hanno adornata, quanti frutti di santi dottori, di confessori, di pontefici l’hanno arricchita! – È vero che questa pianta dalle persecuzioni dei tiranni, dall’odio dei pagani, dal furore degli eretici, come da tanti turbini è stata in ogni tempo agitata e sconvolta; ma quel Dio che la piantò, quel Dio a cui ubbidiscono il mare e i venti e le procelle, ha sempre stesa la sua mano a difenderla, per modo che le porte di averno mai prevalessero ad atterrarla; anzi, geloso dell’onor della sua Sposa, scaricò in tutti i tempi con esemplare vendetta i colpi tremendi della sua destra sopra chiunque ardì di farle oltraggio. Aprite le storie, saggi ascoltanti, e vedrete l’esaltazione della Chiesa nella depressione dei suoi nemici, nemici i più potenti del secolo, gli imperatori idolatri. Ed è ben giusto a gloria della nostra madre rammentare i castighi di chi l’oltraggiò. – Nerone (Tacit. Sveton. Eutrop.), il cui solo nome presenta un’idea della più mostruosa crudeltà, il primo e forse il pessimo fra i persecutori della fede di Cristo, venuto in odio al senato, al popolo romano, al mondo tutto, cercato a morte, fugge travestito, e per non cader nelle mani di quei che l’inseguono, da se stesso si uccide. Non poteva trovare miglior carnefice. Domiziano (Sveton. Philostr.) anch’esso da tutti odiato per la sua barbarie, più non si soffre sul trono, e vien ucciso. Ne esulta il senato romano, e fa gettar a terra le sue statue, e cancellare dovunque ogni sua memoria: il suo cadavere si lascia in man dei becchini, che lo sotterrano con contumelie a foggia d’infame gladiatore. Ascrive Massimino (Victor. Iul. Capitolin. et alii) ai cristiani la cagione dei fulmini, dei terremoti e di tutte le disavventure dell’impero, e ne fa strage; e strage fanno di lui e di suo figlio i suoi soldati. Le loro teste son poste sulla punta di un’asta, i loro corpi gettati alle fiere. Si accende d’ira Decio (Sextus Aurelius) ed infierisce contro la religione cristiana in vederla tanto più dilatata, quanto più oppressa; e in una battaglia contro i Goti spinge il cavallo in una palude, vi resta sommerso, e più non se ne trova il cadavere. Valeriano (Costant. Magnus in orat. ad s. cœtum c. 24) quanto zelatore dei culto dei falsi dèi, tanto nemico di quello di Cristo, dopo tre anni di fiera persecuzione, vinto in guerra, cade in potere di Sàpore re dei Persiani, che per avvilirlo all’estremo si serve della sua schiena ogni volta che monta a cavallo. – Sparse Aureliano (Voscus et Eusebius in Chron. Costant. ut supra) a torrenti il sangue dei fedeli; e del suo sangue si videro sparse le strade, trucidato dai suoi familiari. Chiuso da stretto assedio nella città di Marsiglia l’empio e sanguinolento Massimiano Erculeo (ibid.), disperato si sospende ad un laccio. Sotto l’impero del crudelissimo Diocleziano (Victor apud Baonium) in un sol mese si miete la vita di sette mila martiri, ed egli in vedere per tanta strage aumentarsi vie più il numero dei cristiani, divorato da diabolico livore, ha in odio la vita e se la toglie con potente veleno. Che diremo finalmente dell’apostata Giuliano? (Theodoretus lib. 4 hist. c. 25) Quest’empio restauratore del Paganesimo, protettore degli Ebrei da lui animati a riedificare Gerusalemme per render vana la profezia di Gesù Cristo, dopo lunga tirannia si protesta voler distruggere dai fondamenti la Chiesa santa di Dio; ma nella guerra contro i Persiani, dalla prima saetta scoccata a colpo incerto, vien trafitto nel petto e nel polmone, e preso un pugno del proprio sangue, gettandolo verso il cielo, confessa esser vinto da Cristo, che per insulto chiamava il Galileo, “Galilee, vicisti”. – Vani furono dunque gli sforzi delle potestà d’ogni secolo contro l’opera del Signore. Perirono e periranno i nemici della Religione e della Chiesa, come fumo in faccia al vento: Essa non perirà giammai. Della sua stabilità tien solenne promessa dall’infallibile verità del divino suo Capo. La Religione Cristiana porta in volto caratteri così sensibili e luminosi della protezione dell’Altissimo, che bisogna esser ciechi per non conoscerli. Se questo edificio fosse stato fabbricato sull’arena, in forza cioè d’umane opinioni e raggiri, come avrebbe potuto tenersi saldo all’impeto furibondo di tanti turbini, che da ogni lato l’hanno spinto con la maggior violenza di cui è capace l’odio, il furore, la nequizia, la prepotente empietà! Se la Religione, disse già sensatamente Gamaliele, dottor della legge, ai capi dell’ebraismo radunati in concilio, se la Religione che predicano questi scalzi pescatori, è opera d’uomini e fanatismo di mente alterata, svanirà fra pochi dì da sé stessa. Se ella è opera di Dio, i vostri ostacoli per impedirla non serviranno che a promuoverla. Così avvenne, e così avverrà sino alla consumazione dei secoli. Le opinioni degl’increduli, i sofismi degli atei, dei deisti, dei sedicenti filosofi, saranno in ogni tempo come i flutti d’un mare spumoso che si rompono a piè di scoglio saldissimo; saranno come le acque del diluvio portanti in alto l’arca di Noè; saranno come venti e tempeste, che possono bensì agitare la navicella di Pietro, ma non hanno forza di sommergerla. Dorme talora, e par che dorma Gesù; e l’empietà per qualche tempo minaccia naufragio, ma poi si sveglia, e ad un suo cenno tacciono i venti, svanisce la procella, ed il protetto naviglio galleggia sull’umiliato mare. E un prodigio di tal natura, manifesto, stupendo non l’han veduto gli occhi nostri? Rammentiamolo così di volo, fedeli amatissimi, a gloria di Dio e della sua Chiesa. Spogliata questa del temporale suo regno, fatto prigioniero il suo Gerarca, minacciata di guai sempre nuovi e sempre peggiori, oltre ogni umana speranza, l’abbiamo veduta deporre le vesti di lutto, e rivestirsi degli abiti di giocondità e di letizia. Motivi per noi, uditori miei, di stima, di attaccamento, di fedeltà, d’ubbidienza alla nostra Madre, la Chiesa santa, di cui siam figli, Chiesa ora militante, soggetta a guerra, ma sempre vincitrice, e poi trionfante nel regno eterno nel divino suo sposo [… ed anche dopo questa apostasia massiva della setta vaticana postconciliare, la rivedremo ancora splendida brillare nei secoli in eterno, Amen! – ndr. ].

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps 129:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta
Hæc nos oblátio, Deus, mundet, quǽsumus, et rénovet, gubérnet et prótegat. [Questa nostra oblazione, chiediamo, o Dio, ci purifichi e rinnovi, ci governi e protegga.]

Communio
Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis. [In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio
Orémus.
Cœléstibus, Dómine, pasti delíciis: quǽsumus; ut semper éadem, per quæ veráciter vívimus, appétimus.
[O Signore, nutriti del cibo celeste, concedici che aneliamo sempre a ciò con cui veramente viviamo.]

Ite, Missa est.
R. Deo gratias.

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: EQUILIBRIO DELLA PERSONALITA’ (2)

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO:

EQILIBRIO DELLA PERSONALITÀ (2)

[Lettera pastorale scritta per la Pasqua del 1964; «Rivista Diocesana Genovese», 1964; pp. 252-268.]

V. – Vogliate ora considerare la seguente proposizione:

«La cultura, emanazione della persona umana, è parallela al Cristianesimo».

Siamo nuovamente ai paralleli e nello stesso senso. Nessun dubbio che la cultura sia una emanazione della persona umana, accumulata tra i tempi diversi e le persone diverse, come ricerca, invenzione, approfondimento, ricchezza della umana esperienza esteriore ed interiore, intuizione di cose maggiori, approfondimento d’ogni argomento presentabile all’intelletto umano o vibratile nella sua emotiva percezione. Nessun dubbio e la massima stima. Ma quello che conta è il fatto che un effetto della persona non può essere superiore alla persona stessa e, se questa è soggetta alla legge di Dio e all’unico fine, lo sarà anche quella; talché ove c’è una necessaria e naturale convergenza non ci sono più parallele. Queste non si incontrano mai. La proposizione è una rinnovata edizione di altra già considerata e mira allo stesso scopo, staccare il contegno umano dalla piena dipendenza da Dio e dall’ordine soprannaturale, il mondo dal Cristianesimo e lasciare «più aria» a tutti. Ottima cosa avere «più aria», purché sia nei limiti della legge di Dio. Lo stesso pensiero umano, analogico soltanto in quel che concerne la parola di Dio, ha una funzione preparatoria di ben altra cognizione e di ben superiore gloria. Voler una storia che se ne possa andare per proprio conto, anche senza parola di Dio, è voler che un cieco vada a zonzo per una landa sconosciuta. La cultura ha i suoi metodi ed ha i suoi momenti, nessuno glielo nega, ma è anche legata a tutte le debolezze e deficienze umane, all’effimero ed al transitorio, e di questo deve tenere pur conto. Del resto il tenerne conto non le ruba alcuna libertà seria ed oggettiva. Le porta via solamente il carattere polemico contro ciò che è vincolante nella fede e nella Parola di Dio. La cultura ha un immenso margine e non ha alcun bisogno di proclamarsi o indipendente o paritaria alle cose divine; ma l’intelletto umano deve essere obbediente a Dio non meno della volontà. Aver bisogno di proclamarsi paritaria all’ordine divino, od anche solo parallela, sarebbe un accettare l’inammissibile principio delle due verità e che l’intelletto umano si è talmente ristretto da non poter far più altro che giocare sulla irriverenza alle cose divine. Ma a tutto il discorso sulla cultura parallela al Cristianesimo, sta sotto un’altra grave e rovinosa affermazione: “la indipendenza della natura rispetto all’ordine soprannaturale”. Ora qui la questione è grossa e può riassumersi così. L’ordine naturale non può esigere quello soprannaturale e ciò per definizione. Però, posto che Dio abbia fatta la elevazione all’ordine soprannaturale, tutte le cose naturali non trovano il loro collocamento giusto se non nella finalità di quello. Posto che il Verbo si sia fatto carne, ogni cosa è soggetta a Lui in cielo, in terra e negli inferni. Parlare quindi di zone extraterritoriali è semplicemente negare il chiaro significato della incarnazione del Verbo e sue conseguenze. Noi crediamo che il discorso sulla cultura potrebbe portarci molto lontano, ma non è l’impegno nostro di questo momento. A noi importa solo affermare che la cultura non costituisce la zona nella quale l’uomo possa aggiudicarsi una libertà di peccato e di disperazione, che altrove non riuscirebbe in alcun modo a giustificare. Ci importa non meno affermare, come logica conseguenza delle cose dette, che la cultura, ove non rispetti le stesse leggi supreme, alle quali l’uomo è tenuto, si vendica contro di lui stesso regalandogli miti insussistenti, spingendolo a follie nefaste (ricordiamo l’ultima guerra mondiale e taluni suoi momenti), immergendolo infine nella tristezza e nella disperazione. Occorre non fare della persona un mito che prenda il posto di altri miti: rimanga quello che è; i miti hanno sempre portato alle esasperazioni ed al dolore.

VI. Ecco un’altra proposizione da esaminare con attenzione:

«La autonomia della persona genera l’autonomia della filosofia».

Anzitutto la filosofia resta la scienza della vera e suprema realtà e per questo non è possibile considerarla come alterabile a piacimento. Essa è la scienza dei più alti principi che dimostra attraverso la evidenza, in quanto parte dal sensibile, ed attraverso le supreme ragioni, in quanto agisce deduttivamente. Ma è non meno delle scienze esatte ancorate alla realtà. Essa è quello che è tutte le cose, qualunque possano essere le esercitazioni della personale fantasia, restano quello che sono. La autonomia della filosofia ha un senso come lo può avere la autonomia della geografia o della matematica. Finché autonomia significa che il suo procedimento non ha da dipendere dal procedimento matematico etc. la cosa ha un senso, ma quando significasse la cessazione di ogni remora all’intelletto umano perderebbe ogni senso. Naturalmente una autonomia di tale genere sarebbe figlia della fantasia liberamente creatrice di sogni più o meno validi, ma certo non allineati sulla linea della realtà e verità. L’argomento quindi in se stesso appare di dubbio valore. Ma le cose peggiorano se veniamo alla persona umana. È questa che con la sua intelligenza filosofa e pertanto va alla ricerca delle supreme verità. Ma questa a proposito della verità non è affatto autonoma; deve prendere ed affermare quello che è. Non può alterare pertanto la serie dei numeri, non più di quanto possa alterare la affermazione relativa ai principi. Già si è dimostrato che la persona umana restando tale, siccome l’ha munificamente fatta Dio, è subordinata ed ha limiti. Un limite invalicabile è la verità obbiettiva. La originalità potrà esplicarla nel modo ed anche nel metodo, ma non circa quello che è indissolubilmente legato alla realtà. La originalità è meglio invocarla per la letteratura che non per la filosofia. Abituati a modificare la disposizione della materia e ad asservirne le forze, noi subiamo il fascino di poter asservire anche la verità; ma il carattere assolutamente effimero delle cose umane, per l’uomo stesso che si attarda a filosofare, lo avverte che la presunzione è al tutto illusoria. Abituati da quattro secoli a fare della verità un riflesso sempre più soggettivo noi crediamo di avere acquisito un diritto per prescrizione ed il metodo idealistico ha creduto di poterlo baldanzosamente proclamare. Ma in questo campo di cose non si danno acquisizioni per prescrizione. Pertanto l’aspetto della cultura moderna in quanto si considera indipendente da canoni ad essa antecedenti ed ancorati alla verità obbiettiva è solamente uno scherzo di cattivo gusto che l’uomo fa a se stesso. – Si noti la contraddizione profonda che la cultura porta oggi con sé: da una parte la certezza delle sue investigazioni scientifiche e delle sue applicazioni tecniche, dall’altra la più allegra libertà su ogni affermazione che non sia legata ad una formula di sperimentazione scientifica. Essa cammina su due strade, il che non va a vantaggio della sua serietà e del suo fecondo durare. – Abituati al protestantico libero esame, noi lo vogliamo spesso applicare nella più assoluta libertà di indagine e di conclusione, come se davanti a noi non ci stesse Dio. La vera lotta fatta al Magistero Ecclesiastico ed al campo in cui più si esercita il suo intervento, la Divina Tradizione, si trova in questo autentico e genuino influsso protestantico. Ma non è questione di cultura, è solo questione di orgoglio. – La cultura passa per tutte le strade, raccoglie tutte le umane espressioni, ma viene pure il momento in cui deve coi suoi geni fare una cernita per dare rilievo a quello che merita e lasciare in ombra quello che è nozione, episodi entrambi fantastici, senza alcuna luce di veri eterni principi. La cultura non è solamente un carro di raccolta di tutto quello che si produce: essa raggiunge se stessa quando seleziona, quando compara con riferimenti certi ed eterni, quando fa maturare l’uomo nel suo intimo e soprattutto nella sua finezza di apprendere, di pensare e di riesprimere. La funzione di «maturazione» è insita alla cultura non meno di quanto le sia insita quella di «coltivazione»; essa non è tale quando corrompe e deteriora cose sane e vitali, le quali hanno necessità di restare nell’uomo per un ideale nel tempo e per un riferimento valevole nella eternità. Finalmente non dimentichiamo che come non esistono due vicende umane separate e parallele, quella moralmente umana e quella soprannaturale, non esistono due verità e la relativa onesta capacità di scegliere. Ciò posto si ha come conseguenza immediata e rigorosa che la verità soprannaturale, anche se nell’uomo ha bisogno di conoscenze previe, resta dominante e riferimento inevitabile della verità puramente naturale. Non si capisce pertanto e non si capirà mai perché si debba portare la cultura cristiana verso la cultura umana, mentre la verità, la logica e la esigenza stanno esattamente nel contrario. – Concludendo: la autonomia della filosofia non ha senso se questa autonomia la si proclama di fronte alla obbiettiva verità, recata dalla obbiettiva evidenza. Ha senso solamente se la si ripete a proposito delle altre scienze umane, del cui metodo potrà casualmente servirsi, ma alle quali deve proporre il metodo suo proprio, eccezione fatta per i dati storici i quali sono e restano quello che sono. Talvolta la autonomia della filosofia può intendersi come un tentativo di originalità, più audace e più facilmente inventiva, più vivace nel dare sviluppo alla filosofia stessa. E questo un significato che può anche accettarsi a patto di salvare quanto detto sopra. In ogni caso la ricerca di originalità deve restare pudica e sempre riguardosa verso quello che è acquisito e certo e tale da doversi ritenere illuminato dalla luce della obbiettiva sicurezza. Nessuno vuol negare che anche i tentativi arditi permettono talvolta di squarciare le nubi ed arrivare a contemplare tratti di cielo altrimenti non visibili, ma allora noi siamo nella autonomia di esperimento che può, a talune condizioni, rientrare benissimo nella metodologia delle ipotesi di lavoro. Il tutto evitando lo spettro, che aduggia sinistramente, di proposizioni o di concezioni assai più soggettive che reali. E in questo senso che il campo di ricerca, non solamente e pedantemente erudita, resta immenso e lascia a molti uomini di mietere glorie le quali sono ben più stimabili dei fiori caduchi. Per l’uomo la autonomia vera è di fronte a se stesso: che non diventi servo di quello che ha fatto , delle sue abitudini e delle sue passioni, dei suoi errori e dei suoi fatti, del pallido riflesso che l’opinione altrui, laudativa e plaudente, può riverberargli sopra in modo passeggero. La autonomia è bene intenderla dai propri sogni, dalle proprie chimere, non dalle obbiettive ragioni e dalla obbiettiva verità. La persona umana è certamente una cosa grande, ma non è tanto grande da prendere il posto di Dio, principio supremo della verità, del bene, della bellezza, dell’essere. – E certo che la teologia non si è occupata di taluni settori aperti alla filosofia umana ed alla cultura. È certo ed è giusto. Ma questo non significa affatto che ove non entrano chiari limiti di fede si possa fare quello che si vuole. Infatti i limiti obbiettivi della verità evidente o giustamente dedotta continuano a contare, anche se in taluni settori non li raggiunge la teologia e il dettame di fede. I limiti sono limiti, da qualunque parte vengano. Il soggettivismo autonomo iniettato nella filosofia e nella cultura ha questo tragico effetto: di sottrarre l’uomo al suo cielo, ossia alle cose che veramente gli convengono per una eterna, perfetta sapienza e renderlo succube di un altro cielo fittizio o nefasto dal quale prima o poi ritrarrà eccitamenti insani, pretese impossibili e, finalmente, tristezza, odio, guerra e morte. – Il soggettivismo finisce coll’essere una negazione della trascendenza. Negata la trascendenza che cosa resta all’uomo, quando non ha più nulla cui appoggiarsi e rimane l’unico appoggio di se stesso, tanto debole, spesso ammalato e costretto ad una parabola di decadenza della età? Infatti la negazione della trascendenza in parole povere si riduce a questo ed a questo volevamo arrivare, perché si intendesse come una falsa interpretazione della persona e personalità umana porta più lontano di quel che si creda e in una direzione assai diversa da quella che poteva forse opinarsi nei facili entusiasmi. – La filosofia moderna ha da scegliere tra l’uomo e Dio, tra la trascendenza e la immanenza, ma non ha affatto da scegliere tra la verità e la propria distruzione. Che essa accetti una luce da qualunque parte le venga non è affatto indecoroso e se questa luce le può giungere dalla superiore certezza della fede è meglio per essa. La fede ha un oggetto che è distinto da quello della filosofia, ma la distinzione non impedisce il reciproco aiuto e, tanto meno, la sicura norma perché la filosofia umana sia orientata nel modo più confacente e meno dannoso agli uomini. Essi hanno bisogno di luce, di sicurezza, hanno bisogno di orizzonti eterni più di quanto non abbiano bisogno del pane. Non distruggiamo tutto questo in nome di una sciocca vanità di indipendenza, quando tutte le cose – e lo vediamo bene – ci lasciano liberi, ci possono servire, ma anche ci condizionano. – In conclusione: autonomia sia, mai però di fronte alla verità

VII. Ecco una proposizione che frequentemente ricorre:

«La personalità va istruita e non educata e guidata: ha in sé di che guidarsi». –

Questa proposizione è semplicemente falsa per più motivi. È falsa perché suppone non esista né i l dogma del peccato originale, né le conseguenze dello stesso. E falsa perché è contraddetta dalla esperienza di una continua umana debolezza, bisognosa di aiuto, di sostegno e di conforto da ogni parte. È falsa perché non tiene conto delle stato ciclico in cui si svolge la vita umana. Parte da zero e tramonta, ha bisogno di dipendere dai sensi e attraverso questi riesce a muovere il proprio intelletto; ha la radice della sua autonomia nella forza di volontà e questa l’acquista, non se la trova naturalmente irrobustita in modo pieno e perfetto. – Eppure la proposizione è comoda per due motivi: per riversare sopra se stessi tutti i motivi della superbia e pertanto della rivolta contro ogni limite ed ogni autorità; e per disimpegnarsi dai compiti della educazione e dall’impegno di cominciare a fare quello che si insegna agli altri. – E per tale motivo che questa teoria trova pronti assertori. Essa comincia ad eliminare ogni autorità naturale e deve logicamente finire col ritenere solo una propria mandataria: l’autorità civile. E la conflagrazione dell’orgoglio. Le autorità intermedie ricevono in un modo o nell’altro il loro valore dalla autorità divina ed appare chiaro subito il collegamento tra la irreligiosità e cotesto modo di pensare e di orientare la vita umana. – Si ritorna sempre allo stesso bivio. Gli uomini, di fronte alle proprie responsabilità ed ai propri inevitabili rimorsi, si sentono sempre più piccoli, più bimbi, più bisognosi di appoggio ed è per questo che la proposizione sopraddetta può essere riguardata come la peggiore mala azione, perpetrabile ai loro danni. Ma fa parte del sistema, quello che abbiamo denunciato subito fin dalla critica alla prima proposizione. Se non si assume là e subito in quella sede una posizione netta, diventa necessario arrivare alla miseria di questo abbandono, per il quale i giovani, pur apparentemente circondati di tanti sussidi, in realtà crescono senza umano calore come i figli di nessuno. – La proposizione cerca di salvarsi con una speciosa ragione: aspettiamo che essi scelgano! A parte le considerazioni di carattere generale già fatte e che potrebbero aggiungersi, la proposizione non tiene conto di un fatto naturale. Si formano prima le abitudini, che non il raziocinio, gli istinti sono anteriori alle stesse abitudini, quando il raziocinio è sufficientemente irrobustito per scegliere, già quasi tutto è costruito. L’intervento occorre durante la costruzione, ed è per questo che non sarà mai sufficiente la istruzione senza la vera e propria educazione. La educazione ha il merito di condurre quando manca ancora il conducente. E tutto qui. Le demolizioni che si fanno della famiglia, della autorità, dei genitori, dei superiori, della funzione del giusto timore, etc. … sono le demolizioni del futuro uomo, il quale potrà gloriarsi di essere autonomo e non sarà più capace di esserlo. Ci sarebbe stato facile trattare qui di nuovi rapporti tra personalità ed arte. Ma non lo abbiamo fatto perché l’argomento poteva uscire dal campo nostro pastorale. Ma ci sentiamo in obbligo avvertire che le stesse regole valgono anche per quel campo e che non sarebbe sincero con Dio creare qua e là zone extraterritoriali, nelle quali, con la scusa che l’uomo sia un po’ più uomo (e sarebbe scusa inane), in verità si faccia il tentativo di ridurre il comando e la sovranità di Dio. Ci sono tuttavia alcuni aspetti che dobbiamo chiarire prima di terminare questa nostra lettera.

La necessità della grazia

La personalità umana non la si completa agli effetti soprannaturali, agli effetti della perfezione e della resa, senza la grazia attuale. Essa presuppone di per sé, anche se talvolta è perduta, la grazia santificante. Ma il nostro discorso è volto anzitutto alla grazia attuale, perché così postula l’argomento in oggetto. La grazia attuale è erogazione di energia soprannaturale, che eleva l’atto umano, lo proporziona al fine eterno e gli infonde una forza ed una luce superna. Senza di essa la persona umana non può fare qualcosa di completo e può fare nulla che abbia valore e merito soprannaturale. Abbiamo già avuto occasione di dire questo, considerando la prima proposizione presentata all’esame. La necessità della grazia è dimostrata da due elementi.

a) La legge della proporzione. Se ogni atto libero dell’uomo deve servire al fine eterno cui soprannaturalmente è chiamato, deve avere valore, dignità e figura adeguati a quello. Deve in sostanza essere «elevato» per raggiungere la giusta proporzione. Nell’ordine divino tutto è perfettamente proporzionato e non si danno cause inferiori agli effetti. Per questa legge di proporzione ogni atto deve essere mosso, elevato ed aiutato dalla grazia divina. Si apre un mondo nuovo nel quale veramente vive l’uomo e nel quale si ritrova la ragione della sua verità e della sua umiltà.

b) Il fatto della umana debolezza. Ci sarebbe stata comunque, ma il peccato originale l’ha aumentata e tutti i supervenienti peccati concorrono ad aumentarla. Essa è un fatto e tutti lo conoscono a sufficienza. Certe cose si possono dire contando sul fatto che gli uomini non vedono l’interno degli altri uomini, ma non sarebbe neppure possibile tentare di dirle qualora tutti vedessero tutto. Gli istinti, i sentimenti, le abitudini sono pesi ai quali solo si oppone veramente la grazia. I cedimenti, le tentazioni, il loro persistere, il loro sfruttamento dei momenti peggiori, le condizioni fisiche: tutto apporta qualcosa al contingente della umana debolezza. La illusione che qualcosa sfugga crea l’altra illusione di pensare se stessi come capaci di concludere nel campo della perfezione! Le conseguenze diventano ovvie.

– La grazia è data a tutti, ma aumenta con la orazione e i Sacramenti. Entrambi obbligano alla vera umiltà interiore. Per questo aspetto, oltre quanto si è già detto sopra, bisogna che la personalità costruisca se stessa con l’umiltà. Dio resiste ai superbi!

– L’ordine della grazia, per averlo veramente, impone se ne accetti il «sistema». Che è questo? Gesù ha legato tutto: la grazia alla Chiesa, la Chiesa alla Gerarchia, la Gerarchia ai Sacramenti. Non si può fare una selezione, accettare il Corpo Mistico e non il rimanente. – Occorre accettare tutto, senza riserve. I tentativi per ridurre qualche parte di questo insieme vanno a danno della grazia, e dell’insieme nel quale essa è divinamente racchiusa.

– Non è possibile una personalità seria che non abbia conoscenza e coscienza dei propri limiti e delle proprie necessità. Al di là di questo limite non c’è la personalità, ma la presunzione, che è una personalità contraffatta e deformata.

L’armonia della persona.

L’armonia della personalità è data dalle idee giuste, dalla umiltà, dalle virtù armonicamente fuse, dalla presenza di una soprannaturale intenzione, dallo sfruttamento perfetto dei mezzi della grazia, dai suoi frutti nella stessa vita di relazione. – Dei primi si è già parlato, resta da dire qualcosa di questi ultimi. La personalità cristiana ha un quadro sereno di rapporti coi superiori. Questi ci sono in tutti gli ordini e servono alla fermezza stessa della personalità, non al suo disfacimento. Tutti i superiori legittimi lo sono o in forza della istituzione divina o in forza di un ordine che Dio vuole nelle cose anche quando questo ordine lascia nelle mani dell’uomo. Si direbbe che da questo punto si misura il primo vero elemento di consistenza di una personalità cristianamente equilibrata. La stessa presenta un quadro di mitezza, di comprensione, di forza e di ragionevole indipendenza nei confronti degli altri. Parliamo di «altri» che non siano superiori e parliamo di quella indipendenza che non provoca e si asside orgogliosa, ma che ha sufficiente distacco dalle cose terrene per non esserne mai dominata o indettata oltre il giusto. In verità la simpatia che può sprizzare dalla personalità in modo più avvincente la troviamo qui. – La personalità cristiana equilibrata presenta un quadro di vera indipendenza rispetto ai beni meramente terreni. Qui tocca il suo aspetto e la sua dignità più profonda, qui ha le movenze di un’inimitabile arte, qui custodisce il segreto di una forza e di una costanza che la può rendere dominatrice, qui si impone anche silenziosamente in un irradiamento soprannaturale senza ombre e senza ristagni. Le personalità serie e cristiane sono svariatissime, perché potenziano le doti più svariate, ma ricevono dalla luce di Dio e la rifrangono. Con le ostentazioni, le acrimonie, gli orgogli inariditi, le disobbedienze, le vendette, gli egoismi non si costruiscono personalità, ma degli idoli deformi che possono avere qualche adoratore, e che sono condannati a non avere ad un certo momento altro adoratore che se stesso nella più arida delle solitudini. – Cari confratelli, vogliate meditare molto quello che vi abbiamo scritto, perché il veleno si insinua e potrebbe rovinare tutti i frutti della educazione che voi impartite. Noi ci siamo volutamente astenuti dal parlare di teorie e di nomi. Non abbiamo alcuna volontà di colpire, ma solo quella di salvare. Però una parola era necessario dirla e, se sarà necessario, ritorneremo sull’argomento. Pensate bene che tutta l’età moderna, serva della macchina, tenta di rifarsi una dignità, spesso perduta, con le proposizioni di cui ha fatto suo oggetto questa nostra lettera. Che il Signore vi aiuti sempre a capire tutto e bene.      [Fine]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: EQUILIBRIO DELLA PERSONALITA’ (1)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO:

EQILIBRIO DELLA PERSONALITÀ (1)

[Lettera pastorale scritta per la Pasqua del 1964; «Rivista Diocesana Genovese», 1964; pp. 252-268.]

V – Ortodossia

Nel nostro ormai annuale incontro per lettera una considerazione generale ci si impone e ci colpisce: la tendenza a dar valore più alle cose della terra che a quelle del cielo. Voi sapete benissimo che deve accadere il contrario e che se non accade il contrario noi non siamo con Gesù Cristo. Purtroppo, invece, accade. Infatti tutti i timori per la dottrina cattolica di fronte alla scienza o alle vicende umane provengono in realtà dal fatto che si dà a questa piccola esperienza degli uomini e alla loro parola – la scienza è anche parola – un valore maggiore ed una fiducia maggiore di quella che si dà alle cose ed alle parole di Dio. La sociologia sfasata di taluni anche cattolici e perfino sacerdoti dipende dal fatto che la situazione terrestre è per loro assai più importante della situazione celeste. Così nella dottrina si è arrivati, sottilissimamente, a dare più importanza alla personalità umana che non alla legge ed all’ordine ai quali essa deve essere moralmente sottoposta. Il materialismo moderno tende a distruggere il valore della persona umana, soprattutto nel campo sociologico. Ma la verità è che gli errori non si combattono con altri errori e alle esagerazioni non si contrappongono

altre esagerazioni. Le sfasature circa la persona umana sono l’oggetto della nostra presente lettera. Noi non facciamo nomi, noi non prendiamo di mira nessuno, noi vogliamo solo correggere alcune esagerazioni sottili circa questo ultimo punto; lo sentiamo entrare in discorsi di perfetta buona fede ed è proprio questo che ci impressiona, perché è gran cosa quando l’uomo in errore ha coscienza di errare, ma è sommo pericolo quando l’uomo onesto, che è convinto di fare il bene, in realtà sta nell’errore e là radica persino il suo zelo. Noi esamineremo serenamente una serie di proposizioni che ritornano nei detti, negli scritti e nei fatti, affinché tutti possano tempestivamente aprire gli occhi e capire quali gravi conseguenze possono dipendere da impostazioni erronee od imprecise su questo punto. Prima che taluno possa credere il contrario, professiamo la nostra fede nella dottrina cattolica sulla persona umana; ci sentiamo al seguito di san Tomaso d’Aquino in tutto e quelli che hanno memoria buona dei nostri umili scritti sanno che siamo sempre stati difensori della umana personalità e restiamo senza tentennamenti. Solo che la persona alla quale crediamo e per la salvezza della quale Cristo si è fatto uomo, non è «parallela» all’ordine divino, non è autonoma rispetto alla legge, non è supremo criterio di ogni fatto giuridico e morale. Il discorso sta qui e solamente qui.

  1. Esame della proposizione seguente: «La personalità umana è il punto di riferimento di tutto». – Questa proposizione, se è relativa soltanto, potrebbe essere vera. Ma generalmente non è usata così. Noi la esaminiamo nel senso deleterio.

1) Cominciamo dalle idee chiare. La persona umana è il soggetto distinto (autonomo) che sussiste in una natura intelligente. L’autonomia è la caratteristica della persona; infatti questa «sua distinzione» da qualunque altro essere la circoscrive e la definisce nella sua identità. La autonomia diventa concreta solo se la si concepisce in un «soggetto», tanto che la persona è di fatto un soggetto distintamente sussistente in concreto. Noi siamo delle persone. Abbiamo una natura intellettuale, siamo soggetti sussistenti in essa, usiamo il possessivo «mio», abbiamo la coscienza di una autonomia nel nostro essere e nel nostro operare e, raziocinando, da questa autonomia noi deduciamo quanto costituisce il diritto, le proprietà, la nostra libertà. Ed è pertanto che il discorso ci riguarda e non è affatto estraneo alla nostra vita. Noi stiamo parlando di noi e la «persona» è ciascuno di noi. – La personalità è il valore morale della persona, la sua più assicurata distinzione, la sua più perfetta efficienza. Non si tratta pertanto, allorché si parla di persona e personalità, di due cose diverse; in fondo si parla della stessa cosa, ma il secondo termine accentua un aspetto. Data questa spiegazione non è necessario ci sentiamo di qui innanzi costretti a spiegare sempre perché si usi l’uno o l’altro termine. La questione che ora abbiamo in oggetto è la seguente: se la persona sia criterio assoluto per giudicare di tutto. Osserviamo bene come stanno le cose. – La persona è creata da Dio. Pertanto, come dipende nella creazione da Dio, dipende dalla divina conservazione tanto nel suo essere che nel suo operare. Non è causa prima di se stessa. Dunque è astretta alla legge divina intesa nel senso più universale e, siccome fa parte della legge divina l’«ordine» nel quale essa vive, è limitata naturalmente da questo «ordine» che fa parte della legge di Dio. È  cosa stranissima che si confonda «autonomia» con assenza di «limiti». E un errore, per di più, grave. Dunque la persona si riferisce a Dio; non è criterio «ultimo» di alcuna cosa, è subordinata moralmente ad una legge anche se ha la libertà di contravvenire alla legge. La persona sarà dunque solamente criterio «relativo» e «subordinato», mai assoluto. Ci rimane a vedere in che senso ed entro quali limiti la personalità è un criterio relativo e subordinato ai principi sommi or elencati. Anzitutto è «criterio» quello che serve per giudicare. Ora il concetto di persona serve per giudicare nel modo seguente. È criterio subordinato, non primo, ed è subordinato alla legge e a un ordine intero stabilito da Dio. E poi, ovviamente, «principio e criterio», sempre subordinatamente agli altri veri principi nelle cose di cui la persona è origine. La «persona» è origine della libertà, della proprietà ugualmente personali, del «diritto» a cui essa dona vita. Non oltre e subordinatamente. È ovvio che non è necessario e non è morale ammainare ogni bandiera davanti al concetto di persona. Si tenga pur conto che la «persona», come principio del diritto di associazione, è anche un criterio maggiore in materia sociale, ma là v i trova tanti diritti quanti doveri.

2) Veniamo ora a parlare della «personalità». Abbiamo già detto del valore lessicale del termine, ma non è male precisare ulteriormente. La personalità è la persona vista piuttosto sotto l’aspetto morale. Che significa questo? Se teniamo conto del linguaggio comunemente corrente, la parola «personalità» indica la persona, in quanto ha doti morali che la dignificano o meno, in quanto rifulge o meno di doti caratteristiche, che la distinguono tra gli altri, in quanto ha un particolare esercizio della sua libertà ed in quanto ha più o meno un alone di decoro e dignità. Tutti questi elementi sono sempre intesi, in qualche modo, quando si parla di personalità. E ovvio che il termine personalità rappresenta un passaggio da concetto metafisico di persona a quello di esso più concreto ed umano. A questo punto bisogna subito uscire da un facile equivoco. Non si distaccherà mai il concetto di persona o personalità da quello di «autonomia e distinzione». Sarà sempre vero che camminando verso il comune e il «trito» ci si allontana dalla personalità, ma sarebbe un errore il credere che la distinzione possa valere a rovescio escludendo di sottostare alla legge di Dio. Dunque non personalità comunque, ma personalità solo nella legge e cioè nella morale. – Ciò chiarito ed affermato, che cosa costruisce la personalità? Non il peccato, non la deformazione, ma la legge. Che cosa propriamente nella legge? La legge impone la verità, la volontà, la forza su cui regge la volontà, e infine la volontà di Dio. Proprio per questo la “Legge” impone la umiltà, espressione concreta della verità, e perché è legge e non un qualsiasi ordine impone il fine e la sua rettitudine. Ora è chiaro il motivo per il quale costanza e coerenza, nobiltà ed elevatezza, ricchezza di azione e di pensiero costruiscono serenamente la vera personalità umana. – Poniamoci un’altra domanda: Gesù non ha parlato di personalità? Il termine non lo ha mai usato e questo dovrebbe essere un certo segno per coloro che del termine amano abusare. Tuttavia ha detto quando avviene che l’uomo è «rilevato», ossia «distinto». Questo suo discorrere può essere ritenuto il vero equivalente del discorso sulla «personalità». Quando, per Gesù, l’uomo è rilevato e distinto? Ecco: quando è perfetto come il Padre, quando agisce perché lo veda il Padre, e non gli altri, quando sa dare l’anima sua per le pecorelle, quando è nel Regno ed è in grado di entrarvi. Quando è veramente in tale situazione e pertanto beato? Quando è col cuore distaccato dai beni terreni, mite, puro di cuore, desideroso della giustizia, capace di sopportare il male, anzi di restituire bene per male, di perdonare, di essere umanamente perseguitato per amore di Lui, di Cristo,… quando sa non servire a mammona,… quando restituisce tutti i suoi talenti maggiorati dagli interessi acquisiti… È  veramente interessante afferrare il bandolo del discorso sulla personalità in Gesù Cristo, ed è necessario afferrare quel bandolo per non tradire veramente tutto. Il discorso potrebbe indefinitamente continuare e qui ci si imporrebbe di citare tutto il Vangelo, autentico Vangelo. Una buona volta! Ma qui si divaricano anche nettamente e severamente le vie. Vediamolo subito. La prima via, quella vera, è quella in cui la personalità si riferisce al Crocifisso, perché il Cristo vince ogni orgoglio, dà ogni amore, ogni perdono, prende la Croce e segue Lui, il Signore. Questa è mite e forte, chiara, limpida, costante e coerente, votata ad un servizio e fuori d’ogni esaltazione. – La seconda è quella d’una sistematica adorazione, esaltazione di se stesso, d’una distinzione orgogliosa ad ogni costo, di una sostituzione di sé a Dio per la pretesa di ridurre molte altre cose al criterio proprio invece che a quello di Dio! Si smussino gli angoli quanto si vuole, si dolcifichino i termini fino al contorcimento, non ha importanza. Questo è il vero altro concetto di personalità, quello la cui perfidia sottilmente entra e che nulla ha a che vedere con Gesù Cristo.  – Il discorso ci brucia sulle labbra, cari confratelli, e vi assicuriamo che se non fosse il senso della misura, anche nelle lettere, esso durerebbe ancora a lungo! Nessuno di noi può adottare un modo di pensare che regala al mondo degli orgogliosi inutili per tutto e generalmente dannosi. – Ma dopo aver visto i pericolosi equivoci insediati nell’uso di parole dalla innocente apparenza e nell’uso di modi di dire dal sapore correntissimo, non sarà superfluo il richiamo a considerare bene tutto questo, a misurare ed a sostituire al linguaggio coniato dall’umana stravaganza il linguaggio evangelico coniato invece dalla divina e sempiterna saggezza. Anche i modi di parlare hanno la loro importanza, specialmente in un’epoca in cui si aiuta la superficialità, coniando termini coi quali si possono coniugare tutte le idee e tutti i fatti, senza fatica, a valorizzazione della ignoranza e a profitto della confusione.

Ecco un’altra proposizione in esame: «Nella personalità umana c’è quanto occorre a realizzare il piane divino». – Questa proposizione presa come suona è semplicemente pelagiana. Cominciamo allora dal dire le forme nelle quali potrebbe essere intesa con buona pace della ortodossia. Non ne vediamo che una, e cioè quella in cui si sottintenda al testo il termine «potenzialmente», sicché la proposizione suonasse così: «… c’è potenzialmente quanto occorre al piano divino». Appresso ci spiegheremo meglio. – In verità esiste nella natura umana una potenza obbedienziale, e perché la proposizione diventi ortodossa bisogna intendere proprio e solo quella – per la quale si possono ricevere da Dio capacità superiori o alla natura o all’attuale stato. Ma salvo il caso in cui questa potenza obbedienzale non sia realmente assunta da Dio è impossibile che la persona umana attui con le sole sue forze il piano divino. Si osservino bene le seguenti proposizioni, che non sono una nostra opinione, ma sono soltanto proposizioni della dottrina cattolica infallibilmente certa. – « L’Uomo, dopo il peccato originale, non è in grado di osservare a lungo sostanzialmente tutta la legge, senza la grazia» (Cfr. Concilio di Cartagine, DS. 227); – «l’uomo giusto ornato della grazia santificante non può senza speciale privilegio evitare lungamente tutti i peccati veniali» (Cfr. Concilio di Cartagine, DS. 228-230): – «l’uomo non può da se stesso prepararsi senza grazia all’inizio della fede ed alla giustificazione» (Cfr. Concilio di Orange DS. 371 segg.). – «La perseveranza finale è legata ad uno speciale aiuto di Dio». – Queste proposizioni sono ben note a chi ha studiato teologia e si trovano in qualunque testo approvato della medesima. Ora, chiediamo: come è possibile dire che nella persona umana c’è quanto occorre a costruire un ordine divino, quando neppure c’è quanto occorre, evidentemente, a costruire un ordine umano? Infatti come è pensabile tra uomini liberi un ordine completo, senza perfezione morale? E proprio di questa è stato rivelato agli uomini che non vi è possibilità senza l’intervento della grazia di Dio. – L’argomento è chiaro e chiuso, ma ha conseguenze di somma importanza e lo vedremo. Il pelagianesimo non è morto e talvolta ritorna sotto speciose apparenze. In fondo si tratta di valutare o meno tutto l’ordine soprannaturale di Dio e di afferrare che per l’ordine umano, senza l’ordine soprannaturale, non resta che la «nemesi» così bene capita dalla acutissima intelligenza greca. Per il resto lasciamo le conseguenze che in questo argomento, tanto per l’errore come per la verità, si hanno in tutti i campi.

III. Ecco una proposizione, che viene sottilmente presentata o che è presupposto taciuto di molte affermazioni:

«La personalità umana ha tali risorse da costituire qualcosa di parallelo all’ordine soprannaturale». –

Questa proposizione è grave. Cominciamo a parlare del «parallelo». La parallela è relativa ad un’altra, della quale tiene la direzione e con la quale, proiettata all’infinito, non s’incontra mai. Lasciamo andare il «quantum» in questa affermazione entra nel discorso solamente come metafora. La sostanza di questo «parallelo» sta nell’affermare la sufficienza e la possibile autonomia di un ordine umano basato sulla persona e sta nella negazione di una dipendenza di necessità. Essa in qualche modo rende Cristo estraneo al mistero del mondo. – Cominciamo dall’ultimo. Affermare che un ordine umano può essere completo — e parliamo dello stato di natura decaduta – senza la elevazione soprannaturale è affievolire la necessità della Redenzione e della simultanea elevazione all’ordine soprannaturale. Queste diventerebbero sotto un aspetto solo un prezioso aggeggio. La incarnazione del Verbo sarebbe uno stupendo e divino pleonasmo, rispetto alla storia dell’umanità. Affermare che un ordine umano è per sé sufficiente è arrivare alla stessa ingloriosa conclusione, perché si tratta di affermazione equivalente. Perché mai tanto dramma, tanta preparazione biblica, tanto sconcerto, per qualcosa di supererogatorio? Anche qui, vi pare poco? Ci si può dire che noi prendiamo le parole in senso stretto. Ma non è forse quello che si deve fare, quando si intende «ragionare?» – Il concetto di un ordine «personale», che sia parallelo e pertanto sullo stesso piano di quello soprannaturale, è idea che distrugge tanto il soprannaturale quanto la necessità di esso. E la tenebra che cala su tutto. Vorremmo che l’aspetto negativo di questa terribile proposizione vi fosse ben chiaro e che tale chiarezza impedisse per sempre la introduzione di essa anche in dosi omeopatiche e dalla apparente innocenza. – Finalmente non possiamo chiudere la considerazione della tesi sopra enunciata senza rendervi avvertiti che facilmente la proposizione viene estesa a campi apparentemente neutri. Essi sono la educazione, l’arte, la cultura. State attenti: non c’è educazione senza uomo. Tutte queste cose seguono la sorte dell’uomo e della persona umana. Se la medesima è subordinata, siccome abbiamo dimostrato, ed è limitata dalla legge divina, se è insufficiente a comporre un ordine anche solamente umano perfetto, nessuna di queste cose saranno superiori all’uomo. Pensarle come realtà a sé stanti che se ne passeggino per la storia umana è fuori della realtà. Legate all’uomo, sono come lo è lui, subordinate e limitate, e come lui hanno necessità della redenzione. Il tentativo del nuovo illuminismo, di creare aree di indipendenza dal Salvatore, si dimostra così, come è in realtà, al tutto falso.

IV. Vogliate considerare questa equivoca proposizione:

«La personalità conferisce alla coscienza il carattere di dettame supremo, valutativo di ogni altra realtà».

Questa proposizione può essere presa con un certo sforzo in senso giusto. Lo vedremo subito. Ma può essere presa in senso al tutto falso e lo vedremo appresso. Di qui l’equivoco. Nulla è pericoloso come quello che, a seconda dei casi, può enunciarsi con verità e può enunciarsi con sottaciuta falsità. Vediamo dunque come stanno le cose. Il termine sul quale occorre puntare tutta la attenzione è il termine di «coscienza». Essa infatti appare qui come una identificazione della personalità giudicante senza appello. La coscienza morale – è quella di cui si parla – altro non è se non la intelligenza personale in quanto giudica della moralità o meno di una propria azione in concreto. E intanto chiaro che la coscienza è una dote ed uno strumento della persona. È altrettanto chiaro che, per la sua stessa funzione di giudicare della moralità, è subordinata e non svincolata dalla legge. Volerla dunque ridurre ad una sorta di coscienza di sé astratta e presuntuosa è mettersi fuori della realtà obiettiva. La coscienza può benissimo trasformarsi in un esagerato giudizio di sé e pertanto in un presuntuoso dettame per chi sa che cosa, ma in tal caso non è più la coscienza; è un’altra cosa e porta il nome di uno dei sette peccati capitali. – Della coscienza morale autentica questo è importante: che è il nostro immediato dettame di azione nel comportamento concreto. E immediato e cioè l’ultimo a decidere se fare o non fare, se fare bene o fare male. Ma è l’ultimo non in ordine di dignità, sebbene in ordine di vicinanza: non ne abbiamo altro dentro di noi, perché per dire diverso bisognerebbe pensare ad interventi illuminativi divini, che non appartengono al vivere ordinario. Sia ben chiaro che cosa significa «ultimo dettame e regola immediata»: significa che è l’ultimo tribunale d’appello dentro di noi, ma non significa affatto né che sia indipendente, né che non debba attenersi a qualcosa che sia fuori di essa e fuori di noi. Il punto è delicatissimo e veniamo subito al suo nucleo. – A quali condizioni la coscienza personale è la «regola prossima della moralità?». Nessuno creda che lo sia così facilmente, per le ragioni già sopra dette. Lo è infatti soltanto quando l’intelligenza ha assolto queste condizioni: giudica delle cose che sono nel suo abituale ordine sufficientemente chiare, o meglio che sono a livello della sua levatura; ha cercato di procacciarsi con tutti i mezzi onestamente disponibili le nozioni atte per giudicare bene, secondo la importanza e la complessità delle questioni; ha la prudenza di ponderare e di saper dubitare, naturalmente senza scivolare alla coscienza scrupolosa ed ossessionata. – Se esiste il termine di «coscienza» esiste pure quello di coscienza «informata e no», «certa e dubbia», «vera e falsa», «lassa e severa»: tutti questi termini sono ammonitori per chi volesse usare in modo presuntuoso o avventato del dettame di coscienza. Vorremmo piuttosto annotare che è la umiltà quella che permette la migliore informazione di coscienza, perché dubita, chiede consiglio, studia, accetta il responso delle persone sagge, cerca anzi il loro intervento e non è mai tronfia di infallibilità e di sussiego, senza prudenza e senza temperanza. – Si è sentito parlare facilmente degli obbiettori di coscienza e teoricamente possono esistere, però, quando l’obbiettore di coscienza è uno contro milioni, fa temere di appartenere piuttosto ai presuntuosi che agli obbiettori. Ecco i termini in fondo semplici della questione. E facile dire «la mia coscienza mi dice»; ma non è facile far sì che la coscienza dica in quella forma per cui merita ed ha la pace di Dio!

[Continua …]

 

INFALLIBILITA’ DEL PAPA

Infallibilità del Papa.

[G. Bertetti: Il Sacerdote predicatore. – S.E.I. ed. Torino, 1919]

  1. In che consiste l’infallibilità pontificia, 2. Come si dimostra. — 3. Il nostro dovere.

1. – IN CHE CONSISTE L’INFALLIBILITÀ PONTIFICIA. — Infallibilità non vuol dire impeccabilità; .. l’impeccabilità fu propria di Gesù Cristo per natura, fu propria di Maria Santissima per grazia,… non è propria né del Papa, né di qualsiasi altro mortale… tutti possiamo mancare nell’osservanza della legge santa di Dio, e tutti più o meno manchiamo, compreso il Papa che deve riconoscersi anche lui peccatore e confessarsi anche lui some qualsiasi altro fedele! … – Infallibilità pontifìcia non vuol dire che il Papa sia immune da errore in qualsiasi argomento o materia;… anche lui si può sbagliare, come qualsiasi altro, scrivendo o ragionando d’arti profane, e in tal cosa la sua opinione è discutibile come quella di qualsiasi altro- Infallibilità pontificia non vuol dire nemmeno che il Papa sia esente da errore, quando tratta d’argomenti religiosi in qualità di persona privata nelle familiari conversazioni; … e nemmeno quando ne tratta come semplice predicatore, catechista, confessore. – Infallibilità pontificia vuol dire « che il Romano Pontefice, quando parla ex Cathedra, cioè quando adempiendo l’ufficio di Pastore e di Dottore di tutt’i Cristiani, in virtù della suprema sua apostolica autorità definisce una dottrina intorno alla fede o ai costumi, da tenersi da tutta la Chiesa, mercé dell’assistenza divina a lui promessa nella persona del Beato Pietro, è dotato di quella infallibilità, della quale il divin Redentore volle che fosse fornita la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede, o ai costumi; e che però cotali definizioni del Romano Pontefice per sé sole, e non già pel consenso della Chiesa, sono irreformabili » (Conc. Vat., Sess. IV. c. 4)

2. – COME SI DIMOSTRA. — La Chiesa di Gesù Cristo è « la casa di Dio, la colonna e l’appoggio della verità» ( la Tim., III, 15);… stabilita da Dio nella verità mercé l’assistenza dello Spirito Santo promessole da Gesù Cristo, la Chiesa stabilisce a sua volta i fedeli nella verità, senz’ombra d’errore e d’incertezza… Ma questa casa di Dio, questa colonna e quest’appoggio ha il fondamento in Gesù Cristo e in Pietro: « E io dico a te, che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non avranno forza contro di lei; e a te io darò le chiavi del regno dei cieli; e qualunque cosa avrai legato sopra la terra sarà legata anche nei cieli: e qualunque cosa avrai sciolta sopra la terra sarà sciolta anche nei cieli » (MATTH., XVI, 18, 19)… Con queste parole il Redentore comunicava a Pietro e ai suoi successori non solo la sua suprema autorità e per così dire la sua stessa personalità, ma anche l’infallibilità nell’esercizio delle somme chiavi… Quel che Pietro avrebbe legato e sciolto sarebbe pure nello stesso tempo legato e sciolto in Cielo;… perché Pietro sarebbe sempre stato in perfetta corrispondenza col Cielo nelle cose che riguardano la costituzione stessa della Chiesa – Lo promise esplicitamente Gesù con quelle parole a Pietro: « Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga mai meno » ( Luc., 22, 37):… quella fede per cui Gesù Cristo l’aveva detto beato e l’aveva costituito pietra fondamentale della Chiesa… Una tale preghiera, fatta da Gesù Cristo, non a vantaggio personale di Pietro, ma di tutta quanta la Chiesa, fu certamente esaudita dal Padre;… poiché Gesù, Sacerdote eterno «nei giorni della sua carne, avendo offerto preghiere e suppliche, con forti grida e lagrime, a colui che poteva salvarlo dalla morte, fu esaudito per la sua riverenza » (Hebr., VII, 7).

3. – IL NOSTRO DOVERE. — Gesù, comandando a Pietro di pascere i suoi agnelli e le sue pecorelle (JOAN., XXI, 15-17), comanda pure a noi di credere con fermissimo assenso alla suprema autorità dottrinale della Chiesa… L’infallibilità del Papa è ora il segno di riconoscimento del “vero” Cattolico, come in altri tempi fu la consustanzialità del Verbo, la maternità divina di Maria, la giustificazione… Chi osasse anche soltanto dubitarne sia per noi eretico ed infedele… Vada tutto l’omaggio della nostra mente e del nostro cuore a Dio, infallibile per natura, e al Papa, infallibile per grazia;… fin quando staremo col Papa, staremo nella Chiesa, staremo con Gesù Cristo… Lontani dal Papa, saremo pure lontani dalla Chiesa, lontani da Gesù Cristo, lontani dalla via che conduce a salute. Siamo docili alla parola del Papa non solo quando ci parla come Maestro infallibile della Chiesa, ma anche quando ci parla piuttosto come Padre;… ricordandoci la legge del Signore,… avvisandoci dei pericoli, … esortandoci al bene,… invitandoci a partecipare ai gaudi o ai dolori della Chiesa … Chi si contenta d’obbedire al Papa nelle cose di fede, riservandosi la più ampia libertà di consenso in tutto il resto, si condannerebbe da se stesso;… poiché è di fede che si può andare all’inferno non solo per peccati commessi contro la fede, ma anche per peccati commessi contro l’umiltà e l’obbedienza… È forse un leggero peccato di superbia pretender di saperne più del Papa?… È forse un peccato leggero d’obbedienza il disprezzare la parola del Papa e collegarsi con i suoi nemici?… Son forse infallibili nostro padre e nostra madre?… Che direste di quel figlio che rispettasse i suoi genitori come certi cattolici rispettano il Papa? … -— « Chi ascolta voi, ascolta me, e chi disprezza voi, disprezza me; e chi disprezza me, disprezza Quello che m’ha mandato » ( Luc., X, 16)… queste parole, dette da Gesù ai settantadue discepoli aggiunti al Collegio Apostolico, queste parole non dovranno forse applicarsi con molto maggior rigore ai nostri doveri di sudditanza verso il Principe degli Apostoli, il Capo visibile della Chiesa, il Vicario di Gesù Cristo!

CONVERSANDO CON UN “FIGLIO DELLA VEDOVA”

CONVERSANDO CON UN “FIGLIO DELLA VEDOVA”

[Da: F. Bellegrandi: “Nichita Roncalli, controvita di un papa”  pag. 61- 62]

… Il conte Sella stava riordinando alcune carte sul basso tavolino davanti a sé. Il tramonto irrompeva dal Monte Mario a indorare gli scaffali di noce gremiti di antichi volumi dalle costolature di pergamena, e i raggi rossastri del sole, filtrando tra le tende appena mosse dalla brezza serale, animavano i ritratti degli antenati che guardavano severi, dalle pareti, quel loro erudito discendente, seduto in una poltrona, davanti a me. Poi, il conte, alzando il viso e fissandomi con le sue iridi grigie, prese a parlare: “… Nel settembre del 1958, all’incirca sette, otto giorni prima del Conclave, mi trovavo ne santuario di Oropa, a uno dei consueti pranzi del gruppo di Attilio Botto, industriale biellse che amava riunire intorno a sé competenti di vari rami, per discutere su diversi problemi. Quel giorno era invitato un personaggio che conoscevo come un’altà autorità massonica in contatto con il Vaticano. Costui mi disse, riaccompagnandomi a casa in automobile, che “… il prossimo Papa non sarebbe stato Siri, come si mormorava in alcuni circoli romani, perché era un Cardinale troppo autoritario. Sarebbe stato eletto un papa di conciliazione. È già stato scelto il patriarca di Venezia Roncalli”. Replicai sorpreso: “scelto da chi? – “Dai nostri massoni rappresentati nel Conclave”, mi rispose serenamente il mio cortese accompagnatore. Al che mi venne detto: “Ci sono massoni nel Conclave?” “Certo! … – mi sentii rispondere – “la Chiesa è in nostre mani”. Incalzai interdetto: “Allora chi è che comanda nella Chiesa?” Dopo un breve silenzio, la voce del mio accompagnatore scandì precisa: “Nessuno può dire dove sono i vertici. I vertici sono occulti”. – Il conte Sella il giorno dopo trascrisse in un documento ufficiale che oggi è conservato nella cassaforte di un notaio, il nome ed il cognome di quel personaggio e la sua stupefacente dichiarazione completa dell’anno, del mese, del giorno e dell’ora. Che di lì a pochi giorni si rivelò assolutamente esatta! …

[cfr. L’incredibile storia/exsurgatdeus.org].

N.B. Il libro di F. Bellegrandi narra l’episodio qui riportato. Per il resto il libro racconta la vita del massone 33° Roncalli, considerandolo erroneamente ed ereticamente Papa della Chiesa Cattolica, il che è assolutamente contrario a tutte le definizioni magisteriali e canoniche, … proprio in base all’episodio riferito, … quindi eresia palese!

GREORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: “la comunità”.

LA COMUNITÀ

[«Renovatio», IV (1969), fasc. 2, pp. 189-190.]

 La Chiesa è una comunità. Non ci può essere dubbio. Ma è una comunità speciale, caratterizzata dalle sue quattro note: unità, santità, cattolicità, apostolicità. Chi negasse queste note, parzialmente o totalmente, sarebbe, senza discussione alcuna, nella eresia. – Le quattro note esprimono di per sé (come è direttamente affermato nei documenti ecclesiastici) la visibilità e il carattere gerarchico, definito nei suoi gradi e nelle sue attribuzioni. E difficile o più raro che qualcuno neghi esplicitamente le quattro note della Chiesa. Più spesso si comincia da un’altra parte. Si comincia cioè dalla «comunità», interpretata, più o meno sussurrando, ad un certo modo. Ma dove si vuole arrivare? Ecco. Lo sappiamo da una serie di pubblicazioni. – Si vuol affermare che la Chiesa è peccatrice e che in tutta questa faccenda c’entra lo Spirito Santo; che la Chiesa non ha un corpo visibile (ripresa di un concetto nettamente gnostico); che non ha una struttura istituzionale visibile e storica; che non esiste una unità dell’ordine divino ed umano nel Cristo in quanto egli non ha avuto un corpo reale dalla Vergine madre (ritorna la vecchia idea gnostica). Si tratta insomma di abolire la Chiesa. – Naturalmente non sempre da tutti, subito e chiaramente, si dicono queste cose. Si va cauti. Si dice di ridurre il diritto canonico, magari ad una serie di semplici fervorini, di trovare una gestione più semplice e popolare dell’autorità, di restringere la potestà del Romano Pontefice. Tutto questo è solo la copertura di un disegno più ampio. Ma lo strumento, più facilmente utile al sopraddetto disegno, è rappresentato dalla confusione e dalla mitizzazione del concetto di «comunità». Anche perché di questa si può fare un esperimento pratico, prima ancora di enunciarne la teoria e gli scopi ultimi, riuscendo ad ingaggiare persino quelli che, davanti agli scopi ultimi, distruttivi, si troverebbero in imbarazzo gravissimo di coscienza. – Lo strumento «comunità», inteso come sopra, funziona in questo modo. Si comincia col voler assemblee; poi, se non si incontrano reazioni, si inizia a dare a delle assemblee, comunque convocate e composte, una funzione a scopo purificatore (si dice, ma non è vero) di critica e giudizio su tutto quello che fa la Chiesa. Se il gioco riesce, si tenta di trasferire ogni potere dalla Chiesa gerarchica a questa comunità di base, ossia ad un regime semplicemente assembleare. Se questo stile (dimenticando tutto il Vangelo e la sua carità) attecchisse, il gioco sarebbe fatto. Dio non permetterà, oltre un certo limite. – Lo scopo di questo breve scritto è quello di avvertire come cose, a prima vista poco preoccupanti, siano in realtà nella scia, consapevolmente od inconsapevolmente, di finalità più grandi, più lontane e più oscure. Il pericolo più grave si ha quando la manifestazione del male non è netta ed affulgente, ma, stemperando colori e luci, diventa coperta e non eccita la difesa. I piani strategici di distruzione sono nella mente di pochi generali d’esercito. I fantaccini hanno questa caratteristica: di non conoscere in genere i piani strategici, ma di eseguirli. Forse inconsapevoli di agire in direzioni errate. – La parola «comunità» esprime per sé qualcosa di venerabile, se bene intesa. Essa può rifrangersi in tante iniziative particolari, le quali non indeboliscono la struttura ecclesiale, anzi la corroborano. Il pericolo è quando della sua onestà qualcuno si serve per nascondere altro. – II taglio deve essere netto. Gesù Cristo e la Sua Chiesa, così come Lui l’ha voluta, non si possono separare. Insieme si accettano, insieme si respingono.

GRAZIA

9

GRAZIA

[G. Bertetti: I Tesori di San Tommaso d’Aquino; S.E.I. Ed. Torino, 1922]

1. Necessità della grazia. – 2. Suoi effetti. — 3. Grazie gratis date [Contra Gent., 3, q. 147-154]

1. Necessità della grazia. — Le creature razionali, secondo la convenienza della loro natura, pervengono a una più alta partecipazione del fine che non le altre creature. Essendo di natura intellettuale, possono con la loro operazione attingere la verità intelligibile: il che non è dato alle altre creature prive d’intelligenza. Oltre l’intelletto e la ragione, per cui si può discernere e investigare la verità, furono anche date all’uomo le forze sensitive, interne ed esterne, in aiuto all’investigazione della verità. Gli fu anche dato l’uso della parola, affinché possa per mezzo di essa manifestare a d altri i suoi pensieri, e così ne risulti un vicendevole aiuto nella conoscenza della verità e in tutte le altre cose necessarie alla vita. Ma poi oltre ancora, l’ultimo fine dell’uomo è costituito in una conoscenza tale della verità da eccedere le sue facoltà naturali: cioè nella visione della stessa prima verità in se stessa. Se dunque l’uomo è ordinato a un fine che sorpassa le sue forze naturali, ha bisogno d’un aiuto soprannaturale da Dio per poter raggiungere un tal fine; ne ha bisogno per non poter esser allontanato dai molti impedimenti che vi si frappongono: impedimenti nella debolezza della ragione che facilmente è tratta in errore e disviata dal retto cammino, impedimenti nelle passioni e nelle affezioni che ci trascinano alle cose sensibili e inferiori, impedimenti anche nell’infermità del corpo che ci disturba nell’esercizio degli atti virtuosi. Questo aiuto divino rispetta però la libertà dell’uomo e non gli reca alcuna coazione a fare il bene. Dio provvede a tutte le cose secondo il loro modo: provvede dunque all’uomo e a ogni creatura ragionevole secondo il modo loro proprio d’agire volontariamente e d’essere padroni dei loro atti. Essendoci dato il divino aiuto allo scopo precipuo di farci raggiungere il nostro fine, e tendendo noi al fine per mezzo della volontà, Dio non esclude da noi l’atto della volontà, anzi ce lo forma precipuamente (Philipp., 2, 13). All’ultimo fine perveniamo con atti di virtù, e premio della virtù ci si propone appunto la felicità: ora nella virtù è essenziale da parte nostra la libera scelta, che non soffre alcuna violenza e coazione. L’aiuto divino ci è dato non per i nostri meriti (come sostenevano i Pelagiani), quasi dipendesse da noi il principio della nostra giustificazione, e da Dio ne dipendesse il compimento. L’effetto del divin aiuto è superiore alla facoltà della natura, e non è proporzionato agli atti che l’uomo produce secondo la facoltà naturale. Quella conoscenza soprannaturale del fine, che precede necessariamente il modo della volontà, non può venirci altronde che da Dio: a ciò non basterebbe la nostra ragione naturale. Di qui si spiegano quelle parole: « Non per le opere di giustizia fatte da noi, ma per sua misericordia ci fece salvi, mediante la lavanda di rigenerazione e di rinnovellamento dello Spirito Santo» (Tit., III, 5); «non è dunque di chi vuole né di chi corre, ma di Dio che fa misericordia » (Rom., IX, 16). A volere e a operare il bene noi abbiamo bisogno d’esser prevenuti col divino aiuto; noi siamo gli ultimi operatori, Dio è il primo movente; Dio è il duce, noi siamo ì soldati. Si dà gratis ciò che si dà a qualcuno senza un merito precedente: gratis dunque si dà all’uomo l’aiuto divino che previene ogni merito umano. Di qui il nome di grazia con cui è chiamato: «se per grazia, dunque non per le opere, altrimenti la grazia non è più grazia » (Rom., 11, 6). Ma non solo perché vien concessa gratuitamente si dice grazia: si dice grazia anche perché mediante essa, come una speciale prerogativa, l’uomo si rende grato a Dio, che con amore speciale ci aiuta a conseguire un bene superiore alla nostra natura, ossia il perfetto godimento non d’un bene creato, ma di se stesso. – Perché l’uomo possa, in modo quasi connaturale, facile e dilettevole, fare il bene e farlo bene, gli occorrono oltre le potenze naturali alcune perfezioni e abiti di virtù. Dio che a tutti provvede secondo la lor natura, ci dà la sua grazia come una forma o una perfezione per il conseguimento del nostro ultimo fine. Perciò la grazia di Dio si designa come una luce nella Scrittura: « Eravate tenebre una volta, ora siete luce nel Signore » (Ephes., V, 8). Luce, cioè principio del vedere, è quella perfezione che ci promuove alla visione di Dio, nostro ultimo fine. È un errore dunque il dire che la grazia di Dio non pone nulla nell’uomo, come nulla si pone in chi si dice d’aver la grazia del re, ma solo nel re che gli accorda i suoi favori. Tal errore deriva dal non badare alla differenza fra l’amor divino e l’amor umano: l’amor divino è cagione del bene che Dio ama in noi; non sempre l’amor umano.

2. – Effetti della grazia. — La grazia che ci rende grati a Dio è in noi effetto del divino amore. Effetto proprio del divino amore è il farci amar Dio: poiché chi ama, ha come scopo principale del suo amore il farsi amare dalla persona amata. — Il fine ultimo a cui l’uomo è condotto con l’aiuto della grazia divina è la visione di Dio per essenza, visione propria dello stesso Dio: e così questo bene finale è comunicato da Dio all’uomo. – Non può dunque l’uomo esser condotto a questo fine, se non si unisca a Dio per la conformità della volontà, il che è effetto proprio dell’amore, essendo proprio degli amici il volere e il non volere le stesse cose, e il goderne e il dolersene. Per la grazia dunque che ci fa grati a Dio noi siamo diretti al fine comunicatoci da Dio e perciò diveniamo amanti di Dio. — Alla perfezione d’un’opera si richiede costanza e prontezza d’azione, e ciò s’ottiene principalmente con l’amore che ci fa apparir leggiere le cose difficili e gravi. Dovendo la grazia rendere perfette le nostre operazioni, è necessario che per essa si costituisca in noi l’amore di Dio. Con l’amor di Dio la grazia ci dà pure la fede. — Il moto per cui tendiamo all’ultimo fine con la grazia è volontario, non violento. Ora, il moto Volontario può esserci solo verso una cosa conosciuta: conosciuto dunque da noi dev’essere il fine cui tendiamo volontariamente. Ma non potendo noi aver questa conoscenza secondo l’aperta visione nello stato di mortali, quaggiù l’abbiamo per fede. — Il modo di conoscere la verità segue il modo della natura di chi conosce; ma per il raggiungimento dell’ultimo fine s’aggiunge sopra la natura dell’uomo una perfezione, cioè la grazia: è dunque necessario che sopra la cognizione naturale dell’uomo s’aggiunga in lui qualche cognizione che oltrepassi la ragione naturale. Quest’è la cognizione della fede, ch’è di quelle cose che non si vedono con la ragione naturale. In ogni amante sorge il desiderio d’unirsi per quanto è possibile con l’amato: di qui si spiega il gran piacere che si prova a vivere insieme con gli amici. Se dunque con la grazia l’uomo è fatto amante di Dio, sorge necessariamente in Lui il desiderio d’unirsi, per quanto è possibile, a Dio. La fede poi, causata dalla grazia, ci dichiara possibile questa unione dell’uomo con Dio secondo il perfetto godimento, in cui consiste la beatitudine. Dunque dall’amor di Dio deriva nell’uomo il desiderio di goder Dio; ma il desiderio d’una cosa molesterebbe l’anima del desiderante, se non ci fosse la speranza di conseguir l’oggetto desiderato: fu dunque conveniente che negli uomini, in cui l’amor di Dio e la fede son prodotti dalla grazia, fosse anche prodotta la speranza d’acquistar la futura beatitudine. – Oltre a ciò, nelle cose ordinate alla consecuzione di qualche fine desiderato, quando spuntano le difficoltà, si trova un sollievo nella speranza. Or bene, quante difficoltà spuntano sul cammino per cui ci dirigiamo verso la beatitudine, verso il fine di tutti i nostri desideri! A spianarci queste difficoltà la grazia ci dà la speranza: «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, il quale per sua misericordia grande ci ha rigenerati a una viva speranza, con la risurrezione di Gesù da morte: a un’eredità incorruttibile e incontaminata e immarcescibile, riservata nei cieli » ( la PETR., 1, 3, 4); « siamo stati fatti salvi dalla speranza » (Rom., VIII, 24).

3. – Grazie gratis date. — Son certi effetti di grazia ordinati all’istruzione e alla confermazione della fede, e l’Apostolo li enumera dicendo: « All’uno è dato per mezzo dello Spirito il linguaggio della sapienza, all’altro il linguaggio della scienza secondo il medesimo Spirito, a un altro la fede per il medesimo Spirito, a un altro il dono delle guarigioni per il medesimo Spirito, a un altro l’operazione dei prodigi, a un altro la profezia, a un altro la discrezione degli spiriti, a un altro ogni genere di lingue, a un altro l’interpretazione delle lingue ( la Cor.,. XII, 8-10). – Da Dio solo, che perfettamente comprende se stesso e che naturalmente vede la sua essenza, ci possono arrivare le cose di fede. Or bene, nella manifestazione delle cose di fede, come in tutte le opere divine, c’è un ordine. Alcuni ricevono immediatamente la verità di Dio, altri da questi, e così per ordine fino agli ultimi. Le cose invisibili, la cui visione forma i beati, e che sono oggetto di fede, vengono anzitutto rivelate con aperta visione da Dio agli Angeli beati; poi per mezzo degli Angeli ad alcuni uomini, non già con aperta visione, m a con una certezza che deriva dalla divina rivelazione. Questa rivelazione delle cose invisibili fatta da Dio appartiene alla sapienza, la quale consiste appunto nel conoscere le cose di Dio (Sap., VII, 27-28; Eccli., XV, 5). Ma poiché «le cose invisibili di Dio, si vedono dopo averle intese per mezzo delle cose fatte » (Rom., 1, 20), con la divina grazia non solo ci si rivelano le divine cose, ma anche alcune delle create: il che appartiene alla scienza (Sap., VII, 17; 2 ° Paralip., 1, 12). – Quei che ricevono la rivelazione da Dio devono, secondo l’ordine stabilito da Dio, istruir altri; e ciò non potendosi fare senza il linguaggio, fu necessario che loro si desse anche l a grazia, del parlare, secondo che richiede l’utilità delle persone da istruire ( ISA., 50, 4; Luc., XXI, 15). E perciò, quando per mezzo di pochi doveva predicarsi la virtù della fede fra diverse genti, furono alcuni ammaestrati da Dio a parlar diverse lingue (Act., II, 4 ). – L’insegnamento, se non è di cose per sé evidenti, ha bisogno di conferma per essere accolto; ma le cose di fede non sono per sé manifeste all’umana ragione; di qui la necessità d’una conferma per le parole di quei che predicano la fede. Non potendosi aver tal conferma per mezzo di qualche principio della ragione con modo dimostrativo, perché le cose di fede sorpassano la ragione, ci fu bisogno di alcuni indizi che chiaramente dimostrassero come da Dio erano derivate le parole dei predicatori, i quali operavano intanto cose che Dio solo poteva compiere, come la guarigione degli infermi e altre siffatte meraviglie (MATTH., X, 8; MARC., XVI, 20). Un’altra conferma si ha quando i predicatori di verità risultano aver detto il vero circa le cose occulte che possono poi manifestarsi: allora si crede anche quando dicono cose che sfuggono all’esperimento degli uomini. Necessario fu quindi il donò della profezia, per cui gli uomini possono conoscere e indicare ad altri, per rivelazione di Dio, le cose future e occulte ( la Cor., 24, 25). Quelli che ricevettero la rivelazione immediatamente da Dio, non solo la narrarono agli uomini contemporanei, ma la scrissero per l’istruzione dei posteri; dovettero pertanto esserci anche di quelli che ne interpretassero gli scritti: il che s’ha dalla grazia di Dio, come dalla grazia di Dio s’ha la rivelazione (Gen., XL, 8). – Vengono infine quei che credono fedelmente alle cose rivelate e interpretate: e questo s’ha col dono della fede. Ma poiché gli spiriti maligni fanno qualcosa di simile a ciò ch’è di conferma alla fede, tanto nei prodigi quanto nella rivelazione del futuro, è necessario che gli uomini, per non essere ingannati dalla menzogna, sappiano discernere spirito da spirito ( la JOAN., IV, 1). – In tutti gli effetti accennati della grazia occorre considerare una differenza. Benché a tutti competa il nome di grazia, perché gratuitamente e senza alcun merito anteriore si conferiscono, tuttavia il solo effetto dell’amore si merita il nome di grazia in quanto ci rende grati a Dio (Prov., VIII, 17). Perciò la fede, la speranza, e gli altri effetti ordinati alla fede, possono trovarsi anche nei peccatori, che non sono grati a Dio; invece il solo amore è dono dei giusti, perché « chi rimane nella carità, rimane in Dio, e Dio è con lui» (la JOAN. , IV, 16). – C’è ancora un’altra differenza da considerare negli effetti della grazia. Alcuni d’essi son necessari per tutta la vita dell’uomo, come il credere, lo sperare, l’amare e ubbidire ai comandi di Dio, perché non potrebbe aversi altrimenti la salvezza: e a questi effetti si richiedono in noi alcune perfezioni secondo cui possiamo operare a suo tempo. Altri effetti son necessari, non più per tutta la vita, ma in determinati tempi e luoghi, come il far miracoli, predire il futuro, e simili: e a questi effetti non si danno perfezioni abituali, ma si fanno da Dio alcune impressioni che cessano col cessar dell’atto. Si ripetono le medesime impressioni, quando sarà opportuno il ripetere l’atto: così i profeti, in qualsiasi rivelazione, sono illustrati da un nuovo lume; così in qualsiasi operazione di miracoli s i richiede una nuova efficacia della virtù divina.

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (16), capp. XXVIII-XXIX

CAPITOLO XXVIII.

GLORIA DEL BUON LADRONE.

La gloria dei santi proporzionata alla loro carità. — Tutte le virtù definite per mezzo della carità .— Dottrina di S. Agostino.— Eroismo della carità di S. Disma.— Grandezza della sua giuria.— Cinque privilegi di S. Disma.— Primo privilegio: copia fedele di Gesù Crocifisso.— Rassomiglianza esteriore — Parole di S. Bernardino da Siena. — Rassomiglianza interiore. — Parole del medesimo santo.— Secondo privilegio: avvocato del Figlio di Dio.— Nobile causa da difendere. — Sublime difesa che ne fa S. Disma. — Coraggio dell’avvocato. — Riconoscenza del cliente divino.— Terzo privilegio: unico predicatore della divinità di Gesù Cristo.

Paolo ha detto questa bella e profonda parola: La carità è il vincolo della perfezione: vinculum perfectionis. Dio è la perfezione stessa; e Dio è carità, aggiunge Giovanni, Deus charitas est. La carità che unisce l’uomo a Dio, è dunque per l’uomo il vincolo della perfezione. Più quel legame è stretto, più grande è la perfezione. Quindi in primo luogo avviene che sulla terra il merito delle virtù deriva dalla carità, e su di essa valutasi. S. Agostino giunge a definire tutte le virtù per mezzo della carità che le informa : « Se la virtù ci conduce all’acquisto dell’eterna beatitudine, io sostengo, dice il sommo Dottore, che la virtù altro non è che il sommo amor di Dio. Le differenti virtù non sono che le differenti applicazioni della carità, ed io non esito a definirle nel seguente modo. La fede è l’amore che crede: la speranza è l’amore che attende; la pazienza è l’amore che sopporta; la prudenza è l’amore che giudica con discernimento; la giustizia è l’amore che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto; la fortezza è l’amor coraggioso per operare; la temperanza è l’amore che del tutto si riserva per l’oggetto amato » De Morib. Eccl. cath., c. xv, n. 25; et Enarrat. 2 in ps. 31 et passim]. – In secondo luogo ne consegue che in cielo la carità dei santi è la misura della loro gloria essenziale. Ora quella del Buon Ladrone si elevò, come vedemmo, fino all’eroismo. Egli fu dunque eroicamente credente, eroicamente paziente, prudente, giusto, forte, e temperante. Aggiungiamo che la sua carità si manifestò in mezzo a circostanze affatto eccezionali, e queste a lui valsero nel cielo cinque prerogative o privilegi che alcun santo non ebbe comuni con lui. Fra gli abitanti innumerevoli della celeste Gerusalemme san Disma godrà per tutta la eternità, e godrà egli solo della gloria di essere stato: 1. la fedele copia di Gesù Crocifisso: 2. l’avvocato del Figlio di Dio: 3. l’unico predicatore della sua divinità: 4. il compagno di tutti i dolori della Santissima Vergine: 5. la figura di tutti gli eletti.

1.° S. Disma fu la copia fedele di Gesù Crocifisso. Chi non andrebbe superbo di somigliare alla più bella di tutte quante le umane creature? Rassomigliare ad un Angelo, qual gloria! Ma rassomigliare ad un Dio, qual incomparabile prerogativa! E questa è quella del Buon Ladrone. Una simile proposizione vi sorprende, e forse vi scandalizza. Qual rassomiglianza, direte voi, può esservi tra il Giusto per essenza, ed uno scellerato coperto di delitti fino a quel punto? Fra l’anima di Gesù più candida della neve, e l’anima di un ladro più nera delle tenebre che coprivano in quel momento il Calvario? – Rassicuratevi, poiché Disma non è più Disma. Siccome il fuoco purifica l’oro, e gli dà uno splendore che abbaglia; come l’acqua del battesimo purifica l’anima del bambino, e di una bellezza ammirabile la riveste; cosi la grazia ha purificata 1’anima di questo ladrone, e ne ha fatto per Dio e per gli Angeli un oggetto di compiacenza infinita. – V’è di più. La rassomiglianza particolare consiste in ciò, che di tutte le membra del corpo mistico di Gesù Cristo, Disma è il solo che abbia corporalmente sofferto il supplizio della croce in compagnia del divino nostro Capo. [S. Bernardin., Cerm. LI, fer. vi, Post. Dom. Oliv. p. 332, edit. in fol. Paris, 1635.] Or chi più di un crocifisso rassomiglia ad un crocifisso? Né per il tempo, né pel luogo, né pel modo, la esterna rassomiglianza lascia nulla a desiderare. – Rimane ora la rassomiglianza interna. Senza dubbio Disma soffriva per espiare i suoi delitti, e Nostro Signore per espiare quelli di tutto il mondo. Ma dopo la sua conversione, il Buon Ladrone era divenuto un membro vivente di Gesù Cristo: e quindi i suoi dolori e la sua morte, sofferte con rassegnazione, facevano di lui un redentore personale, che moriva pel suo proprio riscatto, simile, almeno in parte, al Redentore universale che moriva pel riscatto di tutto il genere umano [S. Bernardin., ubi supra]. – Vi è anche di più. Divenendo membro di Nostro Signore, Disma il diveniva della comunione dei santi. Come s. Paolo, egli poteva dire in tutta verità: « Io dò nella mia carne compimento a quello che rimane dei patimenti di Cristo a prò del corpo di lui ch’è la Chiesa » [Colos., I, 24]. – Se dunque, secondo lo stesso Apostolo, i cristiani battezzati portano in se medesimi la rassomiglianza di Nostro Signore; quanto non apparisce più viva siffatta rassomiglianza nel Buon Ladrone battezzato nel suo sangue, e prima di ogni altro battezzato al fianco del Redentore in persona?

2.° S. Disma fu l’avvocato del Figlio di Dio. Il giorno, in cui il Re del cielo e della terra fu condannato a morire come un malfattore, Gerusalemme aveva forse più di un milione di persone, fra coloro che abitavano la città, e gli stranieri accorsi da tutte le parti del mondo per assistere alle feste della Pasqua. Relativamente al divino Condannato, quell’immensa popolazione si divideva in due campi; il campo dei nemici di Gesù di Nazareth, ed il campo dei suoi seguaci. – Gesù, legato, schiaffeggiato, coperto di sputi, è trascinato per le vie della città, da Caifa a Pilato, da Pilato ad Erode, da Erode a Pilato. Nel campo dei suoi nemici, accuse e grida incessanti di provocazione a condanna. Nel campo dei suoi amici, assoluto silenzio. Pilato lo mostra al popolo coperto di piaghe, coronato di spine. Nel campo nemico grida universali di morte; e silenzio assoluto nel campo degli amici. Gesù monta al Calvario; carico del grave peso della croce, ed in uno stato da muover a pietà le rupi: e sempre i medesimi schiamazzi d’imprecazione nel campo avverso, e nel devoto a lui lo stesso silenzio. Egli è crocifisso, e bestemmie, accuse, scherni ed ingiurie dal canto dei suoi avversari si succedono senza posa, e son ripetute dagli echi di queicontorni; e fra suoi devoti, non v’ha un solo che alzi la voce per difenderlo. Eppure qual più nobile e più giusta causa! Ahi se loro fosse dato di accorrere, quanti milioni di Angioli scenderebber dal cielo, veloci come il lampo, raggianti siccome il sole, e verrebbero a confondere i suoi nemici, a far manifesta la sua divinità, la sua onnipotenza, ed il suo infinito amore per gli uomini, cagione volontaria delle sue umiliazioni, de’ suoi dolori, e della sua morte! Ma che? Iddio non accorderà ad alcuna creatura del ciclo e della terra l’onore di perorare pel suo divino Figliuolo? Sì, Egli l’accorderà, e la ragione umana sarà per tutti i secoli impotente a misurare la grandezza di un siffatto favore. In mezzo al costernato silenzio di tutti gli amici di Gesù, e alle grida sanguinarie dei suoi efferati nemici, si alza una voce, una sola, per difendere il Giusto, ed è la voce di Disma. La sua difesa è sublime per eloquenza e coraggio. L’intrepido avvocato sfida il furore di tutto un popolo di carnefici, padroni della sua vita, e tutto dice con una parola: « Gesù è innocente: Hic autem nihil mali gessit. » – Torniamo col pensiero alle circostanze del tempo e del luogo, in cui quella difesa venne fatta: alla posizione dell’avvocato che la pronunzia; e figuriamoci, non più la gloria di essere stato scelto, tra tutti gli Angeli del cielo e tutti gli abitanti della terra, per un siffatto ministero; ma la riconoscenza del Salvatore morente, e morente in quel supplizio, abbandonato dai suoi più fedeli amici, per il solo difensore della sua innocenza, il solo consolatore delle sue mortali angosce. Ci piace di avere una debole idea dell’una e dell’altra? Supponiamo un re, strappato dal suo trono, spogliato della sua porpora, tradotto innanzi ai tribunali, come un malfattore volgare, del quale tutti i grandi uffiziali, tutti i cortigiani e i vassalli, ricolmi dei suoi benefizi, si son da lui allontanati all’ora del pericolo. Tradito dagli uni, negato dagli altri, abbandonato da tutti, ingiustamente condannato a morire su di un patibolo, questo re sventurato gira lo sguardo intorno a sé, cercando invano qualcuno che lo difenda e lo consoli. Tutto ad un tratto uno dei suoi più umili sudditi, lungo tempo ribelle, quando il suo re era nella prosperità, gli domanda pubblicamente perdono, prende la difesa della sua causa, proclama la sua innocenza, e fa tremare i suoi carnefici. – Se questo re tornasse al possesso del trono, o andasse a regnare altrove, può ognuno immaginare qual sarebbe la riconoscenza per il suo coraggioso avvocato, e di quali titoli di onore lo colmerebbe, e di quale e quanta efficacia sarebbero presso quel monarca le sue raccomandazioni ed i suoi minimi desideri. Come tutto il regno, compresi i più eminenti personaggi, lo riguarderebbero con ammirazione, come lo inchinerebbero tutti e nel vederlo passare direbbero: ecco il difensore del re! Quante suppliche gli sarebbero presentate, e come ne sarebbe da tutti ambita la protezione! Duplicate, triplicate la forza dei sentimenti e dei pensieri, che una tale supposizione ispira, ed avrete appena una debole idea della gratitudine di Nostro Signore nel regno della sua gloria, e del potere di Disma sul cuore di Lui. – « Datemi, dice il Crisostomo, mille servi fedeli al loro padrone, quando egli è nel pieno godimento della sua potenza e della sua gloria; ed un servo che, al tempo della sventura, dell’afflizione e dell’esilio non lo abbandona, intanto che i mille fuggono e da lui si allontanano Forseché al ritorno della fortuna, quei primi saranno così ben riguardati come il secondo? No certamente. Patriarchi, Profeti, Apostoli, Evangelisti, Martiri, voi avete creduto al Signore, voi vi siete legati a lui, perche lo avete veduto nello splendore della sua gloria, nella stupenda opera dei suoi miracoli; ma il Buon Ladrone non lo ha veduto che nell’ignominia, e gli è rimasto fedele » De Cœco nato. Ubi supra.].

3.° S. Disma fu il solo predicatore della divinità di Gesù Crocifisso. La difesa del Buun Ladrone ha due parti: nella prima il coraggioso avvocato proclama la innocenza del suo cliente: Gesù non ha fatto alcun male: hic autem nihil mali fecit. Nella seconda proclama la sua divinità: Ricordati di me quando sarai nel tuo regno: memento mei cum venerìs in regnum tuum! E di qual regno parlava Disma? Certamente non era di un regno di questo mondo, dappoiché Nostro Signore moriva povero e nudo senz’alcun apparenza di terrena signoria; ma del regno dell’altro mondo, cioè del cielo, ove Gesù morendo entrerebbe, e del quale 1’illustre apologista riconosce e dichiara appartenergli la proprietà. Ora, a chi appartiene la piena proprietà del regno dei cieli se non a Dio, ed a Dio solo? Ecco quel che afferma il fortunato Disma, e fuori di lui, nessun osa affermare, E non è questo un glorioso privilegio? Se occorreva del coraggio per proclamare 1’innocenza del Salvatore, ne bisognava mille volte più per proclamare la sua divinità. Dire che Gesù era innocente, era questo un irritare i giudei; ma affermare ch’Egli era Dio, era lo stesso che provocare i sarcasmi e gli oltraggi più sanguinosi. « Insensato! andava a dire crollando il capo quella plebaglia delirante, qual ricordo può serbare di te, qual regno può darti questo malfattore, che noi abbiamo come te crocifisso, e ch’è per morire con te? Tu Io proclami Dio, ed egli è qualche cosa meno di un uomo. » – Disma non si scuote perciò, e a dispetto della Sinagoga, e di tutto un popolo bestemmiatore, eroicamente persiste nella sua domanda. Sarà egli questo un privilegio da nulla? Se la fede non avesse illuminata l’anima di questo glorioso evangelista di una luce soprannaturale, pensate voi che avrebbe potuto riconoscere un Dio sotto l’apparenza di un condannato all’estremo supplizio ? Pensate voi che avrebbe riposte tutte le sue speranze in un uomo che appariva qual reo in atto di espiare sul patibolo i suoi delitti, e non già il desiderato di tutte le genti, sì magnificamente predetto? E questa fede eccezionale, sì ferma, sì viva, sì chiara, in un tal momento e in un tal luogo, in mezzo a sì strano concorso di circostanze, avrete voi il coraggio di riguardarla come una grazia ordinaria? Quanto a me, io con i santi Padri l’ho in conto di uno dei più gloriosi privilegi del fortunatissimo Disma. « E nel vero, mai forse il Signore ha trovato in Israele e nel mondo intero una fede sì grande.1 » [S. Aug. Serm. XLIV, De Tempor.].

CAPITOLO XXIX.

GLORIA DEL BUON LADRONE.

( Continuazione.)

Quarto privilegio del Buon Ladrone: compagno di tutti i dolori della Santissima Vergine.— Natura di questo privilegio.— Notevoli parole di S. Bernardino da Siena, del B. Simone di Cascia e del P. Orilia. — Quinto privilegio: figura di tutti gli eletti. — Grandezza di questo privilegio . — Testimonianze del Crisostomo, di S. Tommaso, di S. Bernardo, di Arnaldo di Chartres.

4.° S. Disma fu il compagno di tutti i dolori della Santissima Vergine. Noi abbiamo veduto quanto viva fosse la riconoscenza di Nostro Signore pel suo coraggioso avvocato. Ma non meno viva si fu quella di Maria per il compagno di tutti i suoi dolori. Certamente la S. Vergine ebbe per consolatore S. Giovanni, e le pietose donne, ma le une e l’altro si tenevano in silenzio; ed in tutto il tragitto della via dolorosa, e durante la lunga agonia del suo divino Figliuolo, Maria, immersa nel dolore, non sente che una sola parola di conforto, e quella parola viene dalla bocca del Buon Ladrone: Gesù è innocente, Gesù è Dio, Gesù è il desiderato delle nazioni e il Salvatore del mondo. – Oh! come quella parola inaspettata e coraggiosa dové inondare di gioia l’anima dell’augusta Madre. A suo Figlio, abbandonato da tutti, quella parola rivela un amico, non solamente fedele come S. Giovanni, ma intrepido come nessun altro. A lei stessa procurava quella un consolatore al di sopra di tutti gli altri, poiché proclamava egli avanti al cielo e alla terra, due verità, la cui manifestazione era l’oggetto di tutti i di lei voti: la innocenza del Figlio, e la sua divinità. – S. Bernardino da Siena non esita a credere che l’amoroso Disma non si limitasse a ciò. « Non vi ha, dice egli, nessun inconveniente a credere che il Buon Ladrone, avendo sopravvissuto a Nostro Signore, e vedendo l’immenso dolore della sua divina Madre, a Lei rivolgesse delle parole piene di filiale tenerezza. Divenendo cristiano, esso era divenuto fratello di Gesù Cristo, ed aveva quindi ragione di riconoscere Maria per sua vera madre. » In quest’ordine di rapporti san Disma fu veramente il compagno privilegiato dei dolori della santa Vergine. Nel suo Figlio Maria amava il suo Dio, e nel suo Dio Ella amava il suo Figlio. Da questi due amori, elevati alla più alta potenza, nasceva nel cuore della divina Madre, allo spettacolo della croce, un dolore che nulla aveva di analogo con nessun altro dolore. Ora Disma solo risentiva un siffatto dolore, per quanto un cuor d’uomo può esserne capace; poiché, in Gesù Crocifisso, egli vedeva, come Maria, un Uomo Dio, che moriva per la salute del mondo. A lui solo fra tutte le creature, vivente della vita presente, fu accordato il privilegio di essere associato con tanta pienezza alle ambasce della divina Madre. – Egli è pur vero che allato di Maria erano s. Giovanni e la Maddalena, che dividevano i suoi dolori; « Ma, dice s. Bernardino da Siena, in Gesù essi piangevano un buon Maestro: nella sua morte, essi piangevano la morte di un uomo superiore ad ogni altro uomo, e non la morte di un Uomo-Dio, che moriva per tutto il genere umano. Solo, con Maria, Disma piangeva in Gesù un Uomo-Dio, e le sue consolazioni furono le sole capaci di lenire i dolori dell’ augusta Madre » – Un tal privilegio sembrava tanto glorioso all’Angelo da Siena, che vi ritorna sopra con piacere. Paragonando gli Apostoli al Buon Ladrone, egli dice in altro luogo. « Passati avendo tre anni alla scuola di Gesù, essi sempre avevano inteso la dottrina di Gesù, ed ovunque erano stati presenti ai suoi miracoli. Poc’anzi avevano ricevuto dalle sue stesse mani il suo sacratissimo Corpo in cibo, e fuggendo rinnegavano il loro Maestro. Solo, con Maria silenziosa a piè della croce, il Buon Ladrone credeva dal fondo del suo cuore, e di una fede irremovibile, che Gesù era il Figlio di Dio. » – Il beato Simone da Cascia esprime lo stesso concetto: « Solo, dice egli, il Buon Ladrone confessa con le sue parole colui che Maria confessa col suo silenzio. Nei suoi atrocissimi dolori, fu egli il compagno della Beata Vergine, dividendone la fede ed il cordoglio » [« Latro solus cum tacente Virgine confitetur, et in his mœroribus tam horrendis socius fuit Virginis in fide atque dolore. » Lib. XIII, c. III], e il P. Orilia dice di più, che in quel funestissimo tempo della passione di Cristo, la fede in petto a tutti, toltane Maria, se non cadde, crollò! -Il Vangelo stesso non ci mostra forse gli Apostoli, il giorno dopo Pasqua, in preda all’incertezza sulla risurrezione del loro Maestro, e per conseguenza sulla sua divinità e l’infallibilità delle sue promesse! Non trattano essi di sogni e visioni i racconti delle pie donne, che loro annunziano la sua risurrezione? E Nostro Signore medesimo non rimprovera ad essi la loro incredulità? Per convincerli non è egli costretto più volte a discendere ad infinite compiacenze, fino a lasciarsi toccare ed a prender cibo insieme con essi? [S. Marc., XVI, 11, S. Luc., XXIV, 21 etc., etc. – Impertanto, a giudizio dei Santi dei quali allegammo i testi, due sole persone sul Calvario ebbero nella divinità del Salvatore una fede completa e ferma, Maria e Disma. Se dunque noi fossimo stati a piè della Croce avremmo potuto consolare l’augusta Madre, tenendole questo linguaggio: « O Madre dei dolori, consolatevi! … non siete sola a piangere la morte di vostro Figlio, come la morte di un Dio. V’ha qui alcuno che ne prova un dolore, se non eguale, almeno simile al vostro; ed è questo Ladrone crocifisso alla destra di Gesù. Illuminato dal lume della fede, egli sa che il vostro Figlio è veramente Dio, e veramente uomo, Dio ed uomo ad un tempo; e come tale lo confessa e lo piange. » Ove mai trovar nella storia un santo privilegiato in tal modo? V’era in Gerusalemme un gran numero di discepoli prediletti dal Salvatore, e neppur uno di essi si fa distinguere per una fede così perfetta, così salda come quella del Buon Ladrone. A lui solo è pertanto riserbato l’insigne favore di comprendere in tutta la loro estensione, e, per quanto l’ umana debolezza il comportava, dividere i dolori ineffabili di Maria. Tale si è il punto onde forza è muovere per formarsi un giusto concetto della gloria di cui gode nel cielo.

5.° S. Disma fu la figura di tutti gli eletti Nel Venerdì Santo sì è veduta sempre la immagine anticipata del finale Giudizio. Tre croci s’innalzano sulla cima dei Calvario. Alla destra è 1’umanità penitente, che è per salire al cielo. Alla sinistra l’umanità impenitente che cade neill’inferno. Nel mezzo è l’Uomo-Dio, Giudice supremo de’vivi e dei morti, che dall’alto della croce, divenuta il trono della sua potenza, determina i destini eterni dei figli di Adamo. Come il cattivo ladrone rappresenta tutti i reprobi, il Buon Ladrone rappresenta tutti gli eletti. Chi può farsi un’idea di una simile gloria? Glorioso è l’ambasciatore che rappresenta un potente monarca; ma mille volte più glorioso quei che ne rappresentasse delle migliaia più grandi di tutti i re della terra. Tali sono i Santi che regnano in cielo. Per un privilegio unico, S. Disma sulla croce li rappresenta tutti. In lui, od in lui solo in questo solenne momento luminosamente risplende l’imperscrutabile misericordia, che sceglie fra i figli dell’uomo quelli che vuol sollevare alla visione beatifica. A lui solo, a lui il primo, è rivolta la parola che consacra tutti gli eletti: Oggi sarai con me nel Paradiso. – Gli Apostoli l’udiranno; migliaia di Santi e di martiri la udiranno nel corso dei secoli: nel giorno del giudizio tutti i predestinati l’udiranno; ma Disma l’ha udita il primo. Durante la vita loro gli altri Santi, per grandi che siano, non udiranno questa parola che nel segreto della loro coscienza, né sempre così precisa da rassicurarli completamente: Disma al contrario la sente con le sue proprie orecchie, e mentre è ancor tra i viventi; e gli è detta in presenza di migliaia di testimoni che al pari di lui la sentono, e di tutti gli Angeli del Cielo che pur essi l’ascoltano. Essa è talmente positiva e chiara, che non lascia dubbio né timore alcuno nel fortunato che n’è favorito. Ammirabile prerogativa che Nostro Signore, sì pietoso, sì buono, non accordò mai ad alcuno dei suoi prediletti! La madre dei figli di Zebedeo era sua parente, ed era per età maggiore di lui. Piena di confidenza nel suo divino congiunto e nella predilezione del Salvatore per i suoi due figli, Giacomo e Giovanni, viene a chiedere per quelli i primi seggi nel regno di Dio. – Invece di rispondere come fece al Buon Ladrone, egli disse a’ suoi cugini: « Potete voi bere il calice che berrò io? Gli risposero: possiamo. » Pare che allora Nostro Signore avrebbe dovuto soggiungere: ebbene, voi sarete con me nel Paradiso; ma no: Egli disse loro: « Sì che leverete il calice mio: ma per quel che è di sedere alla mia destra o alla sinistra non tocca a me il concedervelo, ma sarà per quelli ai quali è stato preparato dal Padre rnio: non est meum dare vobis, sed quibus paratum est a Patre meo.» – Quindi è che a nessuno del mondo, né a s. Giovanni suo prediletto discepolo, né a s. Pietro, che era un altro Lui stesso nel governo della Chiesa, né ai Profeti, né ai Patriarchi Nostro Signore aveva detto: Oggi sarete con me nel Paradiso. Pel nostro santo, e per lui solo era riserbato questo incomparabile privilegio. «Qual mistero è mai questo? domanda il Crisostomo. Perché mai un ladrone è il primo a ricevere la promessa del Paradiso? Perché mai un assassino diviene prima di tutti cittadino del cielo? Eccone la ragione. II primo uomo fu un ladro; reo di aver rubato il frutto dell’albero vietato, fu espulso dal paradiso. Il pentito del Calvario è pur esso un ladro. Per aver preso il frutto dell’albero della croce, esso pel primo è introdotto nel Paradiso. Dal legno ebbe principio il peccato, e dal legno incomincia la salvezza. – « Iddio lo volle per insegnare agli uomini tutti, che se, sull’esempio del buon Ladrone, essi adorano Gesù Crocifisso come loro Signore e loro Dio, riceveranno i medesimi onori. Ei lo volle, affinché vedendolo dalla Croce perdonare tutti i peccati del ladrone, credessero che Egli, Redentore Universale, ha cancellato la sentenza di condanna di tutto il genere umano. Ei lo volle affine di convincerne che, se nella persona del primo Adamo pose in bando dal Paradiso come una spina l’umanità colpevole, nella persona del Ladrone penitente ve l’ha richiamata come una rosa. – « Quindi è che, promettendogli il cielo per quel medesimo giorno, ci fa di lui ad un tempo la figura ed il precursore di tutti quelli che, in virtù dei meriti della redenzione, debbono entrare nella Reggia della celeste Gerusalemme.» – Dai privilegi di s. Disma, noi possiamo argomentare qual ne sia la gloria, della quale ei gode nel Cielo. – « La grazia, dice s. Tommaso, è il principio della gloria. » [« Gratia nihil aliud est quam quædam inchoatio gloriæ in nubis. [8, 3, p. 84, art. 3, ad 3]. – Più la grazia concessa all’uomo viatore è grande, sublime, straordinaria, e più la gloria di cui gode nel cielo è splendente, e più elevato il seggio che occupa in quello. [« Secundum multitudinem gratiæ, magnitudine gloriæ exaltatus. » S. Bern., Ser. de S. Benedict.]. – Partendo da questo principio, e riandando col pensiero l’incomprensibile immensità della grazia, della quale fu privilegiato il Buon Ladrone, concludiamo che la sua gloria è ugualmente incomprensibile. E di lui particolarmente bisogna dire con san Paolo, né occhio vide, né orecchio udì, né entrò in cuor dell’uomo nulla mai di paragonabile alla felicità, alla beatitudine, alla gloria, alla potenza, che ora sono, e saranno per tutti i secoli, privilegio del prediletto del Signore. Siccome negl’infallibili consigli della Provvidenza, i mezzi sono sempre proporzionati al fine, i santi Dottori non dubitano di asserire che il Buon Ladrone occupa uno dei più eccelsi troni della celeste Gerusalemme. « Quando dal pressoio della croce (dice s. Bernardino da Siena) ov’era schiacciato dal peso del dolore, il buon Gesù faceva scendere a rivi il vino soave dell’amor suo, che doveva inebriare il mondo intero, non fu pago di darne un qualche sorso al Buon Ladrone; ma l’anima di quel fortunato, intimamente unita al cuore di Gesù, dovette essere come sommersa nell’amore. Quindi io non dubito che il difensor coraggioso di Nostro Signore non brilli tra i più eminenti principi della Corte del Re divino. » [ut supra]. –  Altri non esita a chiamarlo l’Arcangelo del Paradiso, il figlio primogenito di Gesù Crocifisso, il martire e l’apostolo per eccellenza, il predicatore dell’Universo. « Se Paolo, soggiunge egli, parla come un Cherubino, Disma ama come un Serafino.  » [Vid. Cor. a Lap., In luc. . XXIII, 42]. Infine l’amico di s. Bernardo, il dotto e pio Arnaldo di Chartres, gli dà nel cielo il seggio stesso che lasciò vuoto Lucifero. [« Ibi latro collocatur, unde Lucifer corruit. * De sept. verb.].  – E perché non sarebbe vero tutto ciò? Qual’altro ne sarebbe più degno? Da una parte sappiamo che al seguito di Lucifero precipitarono dal cielo molti angeli di tutte le gerarchie, e che i loro seggi, rimasti vuoti, debbono essere occupati dai Santi. Vi saranno dunque dei santi fra i Serafini e i Cherubini, come fra gli altri cori Angelici. Dall’altra parte, il buon Ladrone rappresentava tutta la umanità rigenerata. Egli fu più coraggioso di tutti gli Apostoli, il fido compagno di tutti i dolori di Nostro Signore e della Santissima Vergine, il primo a cui fu promesso il cielo. La sua fede, la sua speranza, la sua carità si elevarono ad un eroismo incomparabile. E perché dunque il primo canonizzato di tutti i Santi non occuperebbe il luogo del primo prevaricatore? Comunque sia, non potremo mai abbastanza ammirare la potenza del pentimento, e l’inestimabile bontà del nostro Dio. In un batter d’occhio sollevare un’anima coperta di delitti al grado delle più pure e più sublimi intelligenze; o penitenza, quanto è grande la tua virtù! E considerando ciò che tu hai potuto fare, s. Pier Damiano ha ben ragione di esclamare: « Qual prodigio! Una paglia destinata al fuoco, divenire un cedro del Paradiso: un tizzone d’inferno, divenire un degli astri più luminosi del firmamento celeste! » [Stipula Tartari, cedrus est Paradisi; torris inferni, factas est splendidum sidus cœli. » Serm. de S. Bonif.]. Ed il pentimento dipende da noi!

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA-APOSTATA DI TORNO: “PASCENDI” (2)

Pascendi (2)

Dopo aver esaminato il modernismo dal canto filosofico, il Santo Padre  Pio X, passa ad esaminare il modernismo che coinvolge il credente, e propinato a livello teologico, teologia che esclude Scolastica e Tomismo. Sua Santità è particolarmente meticoloso nel sottolineare tutti gli inganni e le astuzie del modernismo nel confondere termini e concetti spesso totalmente ribaltati nei loro significati. Tali inganni in realtà erano già stati condannati dalla Chiesa, ed infatti Papa Sarto cita con sapienza Encicliche e Costituzioni apostoliche, ad iniziare da Gregorio IX, passando per il Concilio di Trento, da Pio VI a Pio IX [ il “Syllabus”], fino alla “Dei Filius” del Concilio Vaticano. Ma osservando bene, in realtà il modernismo non era altro che un nuovo vestito indossato dalla teologia di satana, la “gnosi”, il solito cancro maligno che ha afflitto la Chiesa Cattolica fin dalla sua costituzione. Si ritrovano infatti i soliti intrugli del panteismo, dell’immanentismo, dell’evoluzionismo, etc. etc. … La gnosi, come i nostri pochi lettori ben sanno, è come uno “satiro” che, nel periodo di carnevale cambia continuamente costume e maschera, lasciando però intravedere i suoi elementi caratterizzanti come la coda, gli arti zoccoluti, le corna, la lingua biforcuta, i canini sporgenti, la barba caprina. Ad un esame superficiale il satiro sembra avere un aspetto affascinante ed argomenti interessanti, ma man mano che si mostra, che parla, si agita, il cerone comincia a sciogliersi, la maschera a scomporsi, e compare la barba caprina, i canini affilati, e dal cappello mosso da una leggera brezza spuntano le immancabili corna! È la sempre medesima “solfa”, lo sterco ripugnante, che ci viene proposto da Simon mago, dalla scuola neoplatonica alessandrina, dalla cabala spuria, dalle apparentemente strambe filosofie del rinascimento del paganesimo, a Cartesio, all’illuminismo, da Kant ad Hegel, da Marx all’esistenzialismo, da Freud a Darwin ed oggi, in ambito teologico, da personaggi vari, a cominciare dai giansenisti per finire ai supermodernisti postconciliari come l’azzeccagarbugli “ermeneutico” Ratzinger col suo ventriloquo, il sig. Bergoglio. Leggiamo con calma questa parte di Enciclica e cerchiamo di farla nostra onde comprendere ed evitare le insidie ed i lacci del modernismo, la strada ampia che, a detta del divino Maestro, ci condurrà inevitabilmente ed indubbiamente al fuoco eterno! E se lo dice Lui …

II

 E fin qua, o Venerabili Fratelli, del modernista considerato come filosofo. Or, se facendoci oltre a considerarlo nella sua qualità di credente, vogliam conoscere in che modo, nel modernismo, il credente si differenzi dal filosofo, convien osservare che quantunque il filosofo riconosca per oggetto della fede la realtà divina, pure questa realtà non altrove l’incontra che nell’animo del credente, come oggetto di sentimento e di affermazione: che esista poi essa o no in sé medesima fuori di quel sentimento e di quell’affermazione, a lui punto non cale. Per contrario il credente ha come certo ed indubitato che la realtà divina esiste di fatto in se stessa, né punto dipende da chi crede. Che se poi cerchiamo, qual fondamento abbia cotale asserzione del credente, i modernisti rispondono: l’esperienza individuale. Ma nel dir ciò, se costoro si dilungano dai razionalisti, cadono nell’opinione dei protestante dei pseudomistici. Così infatti essi discorrono. Nel sentimento religioso, si deve riconoscere quasi una certa intuizione del cuore; la quale mette l’uomo in contatto immediato colla realtà stessa di Dio, e tale gl’infonde una persuasione dell’esistenza di Lui e della Sua azione sì dentro, sì fuori dell’uomo, da sorpassar di gran lunga ogni convincimento scientifico. Asseriscono pertanto una vera esperienza, e tale da vincere qualsivoglia esperienza razionale; la quale se da taluno, come dai razionalisti, e negata, ciò dicono intervenire perché non vogliono porsi costoro nelle morali condizioni, che son richieste per ottenerla. Or questa esperienza, poi che l’abbia alcuno conseguita, è quella che lo costituisce propriamente e veramente credente. Quanto siamo qui lontani dagli insegnamenti cattolici! Simili vaneggiamenti li abbiamo già uditi condannare dal Concilio Vaticano. Vedremo più oltre come, con siffatte teorie, congiunte agli altri errori già mentovati, si spalanchi la via all’ateismo. Qui giova subito notare che, posta questa dottrina dell’esperienza unitamente all’altra del simbolismo, ogni religione, sia pure quella degl’idolatri, deve ritenersi siccome vera. Perché infatti non sarà possibile che tali esperienze s’incontrino in ogni religione? E che si siano di fatto incontrate non pochi lo pretendono. E con qual diritto modernisti negheranno la verità ad una esperienza affermata da un islamita? con qual diritto rivendicheranno esperienze vere pei soli cattolici? Ed infatti i modernisti non negano, concedono anzi, altri velatamente altri apertissimamente, che tutte le religioni son vere. E che non possano sentire altrimenti, è cosa manifesta. Imperocché per qual capo, secondo i loro placiti, potrebbe mai ad una religione, qual che si voglia, attribuirsi la falsità? Senza dubbio per uno di questi due: o per la falsità del sentimento religioso, o per la falsità della formola pronunziata dalla mente. Ora il sentimento religioso, benché possa essere più o meno perfetto, è sempre uno: la formola poi intellettuale, perché sia vera, basta che risponda al sentimento religioso ed al credente, checché ne sia della forza d’ingegno in costui. Tutt’al più, nel conflitto fra diverse religioni, i modernisti potranno sostenere che la cattolica ha più di verità perché più vivente, e merita con più ragione il titolo di cristiana, perché risponde più pienamente alle origini del Cristianesimo. Che dalle premesse date scaturiscano siffatte conseguenze, non può per fermo sembrare assurdo. Assurdissimo è invece che cattolici e sacerdoti, i quali, come preferiamo credere, aborrono da tali enormità, si portino in fatto quasi le ammettessero. Giacché tali sono le lodi che tributano ai maestri di siffatti errori, tali gli onori che rendono loro pubblicamente, da dar agevolmente a supporre che essi non onorano già le persone, forse non prive di un qualche merito, ma piuttosto gli errori che quelle professano apertamente e cercano a tutt’uomo propagare. – Ma, oltre al detto, questa dottrina dell’esperienza è per un altro verso contrarissima alla cattolica verità. Imperocché viene essa estesa ed applicata alla tradizione quale finora fu intesa dalla Chiesa, e la distrugge. Ed infatti dai modernisti è la tradizione così concepita che sia una comunicazione dell’esperienza originale fatta agli altri, mercé la predicazione, per mezzo della formula intellettuale. A questa formola perciò, oltre al valore rappresentativo, attribuiscono una tal quale efficacia di suggestione, che si esplica tanto in colui che crede, per risvegliare il sentimento religioso a caso intorpidito e rinnovar l’esperienza già avuta una volta, quanto in coloro che ancor non credono, per suscitare in essi la prima volta il sentimento religioso e produrvi l’esperienza. Di questa guisa l’esperienza religiosa si viene a propagare fra i popoli; né solo nei presenti per via della predicazione, ma anche fra i venturi sì per mezzo dei libri e sì per la trasmissione orale dagli uni agli altri. Avviene poi che una simile comunicazione dell’esperienza si abbarbichi talora e viva, talora isterilisca subito e muoia. Il vivere è pei modernisti prova di verità; giacché verità e vita sono per essi una medesima cosa. Dal che è dato inferir di nuovo, che tutte le religioni, quante mai ne esistono, sono egualmente vere, poiché se nol fossero non vivrebbero. E tutto questo si spaccia per dare un concetto più elevato e più ampio della religione! Condotte fin qui le cose, o Venerabili Fratelli, abbiamo abbastanza in mano per conoscere qual ordine stabiliscano i modernisti fra la fede e la scienza; con qual nome di scienza intendono essi ancor la storia. E in primo luogo si deve tenere che l’oggetto dell’una è affatto estraneo all’oggetto dell’altra e da questo separato. Imperocché la fede si occupa unicamente di cosa, che la scienza professa essere a sé inconoscibile. Quindi diverso il campo ad entrambe assegnato: la scienza è tutta nella realtà dei fenomeni, ove non entra affatto la fede: questa al contrario si occupa della realtà divina che alla scienza è del tutto sconosciuta. Dal che si viene a conchiudere che tra la fede e la scienza non vi può essere mai dissidio: giacché, se ciascuna tiene il suo campo, non potranno mai incontrarsi, né perciò contraddirsi. Che se a ciò si opponga, nel mondo visibile esservi cose che pure appartengono alla fede, come la vita umana di Cristo; i modernisti rispondono negando. – Perché quantunque tali cose sieno nel novero dei fenomeni, pure, in quanto sono vissute dalla fede e, nel modo già indicato, sono state da essa trasfigurate e sfigurate, furono tolte dal mondo sensibile e trasferite ad essere materia del divino. Quindi, qualora più oltre si ricercasse se Cristo abbia fatto veri miracoli e vere profezie, severamente sia risorto ed asceso al Cielo; la scienza agnostica lo negherà, la fede lo affermerà; né perciò vi sarà lotta fra le due. Imperocché lo negherà il filosofo qual filosofo parlando a filosofie considerando unicamente Cristo nella sua realtà storica; l’affermerà il credente come credente parlando a credenti e considerando la vita di Cristo quale è vissuta dalla fede e nella fede. – S’ingannerebbe però a partito chi, date queste teorie, si credesse autorizzato a credere, essere la fede e la scienza indipendenti l’una dall’altra. Si, della scienza ciò è fuori di dubbio; ma è ben altro della fede; la quale, non per uno ma per tre capi, deve andar soggetta alla scienza. Imperocché da riflettersi in primo luogo che in ogni fatto religioso, toltane la realtà divina e l’esperienza che di essa ha chi crede, tutto il rimanente ed in specialità le formole religiose, non escono dal campo dei fenomeni: e cadono quindi sotto il dominio della scienza. Esca pure il credente dal mondo, se gli vien fatto; finché però resterà nel mondo, non potrà mai sottrarsi, lo voglia o no, alle leggi, all’osservazione, ai giudizi della scienza e della storia. Di più, benché sia detto che Dio è oggetto della sola fede, ciò nondimeno deve solo intendersi della realtà divina, non già della idea di Dio. L’idea di Dio è pur essa sottoposta alla scienza; la quale, mentre spazia nell’ordine logico, si solleva fino all’assoluto ed all’ideale. È dunque diritto della filosofia o della scienza sindacare l’idea di Dio, dirigerla nella sua evoluzione, correggerla qualora vi si immischi qualche elemento estraneo: quindi il ripetere che fanno i modernisti che l’evoluzione religiosa deve essere coordinata colla evoluzione morale ed intellettuale; ossia, come insegna uno dei loro maestri, deve essere subordinata. Per ultimo è pur da osservare che l’uomo non soffre in sé dualismo: per la qual cosa il credente prova in se stesso un intimo bisogno di armonizzare siffattamente la fede colla scienza che non si opponga al concetto generale che scientificamente si ha dell’universo. Così dunque si evince essere la scienza affatto libera dalla libera fede; la fede invece, tuttoché si decanti estranea alla scienza, essere a questa sottoposta. Le quali cose tutte, Venerabili Fratelli, sono diametralmente contrarie a ciò che insegnava il Nostro Antecessore Pio IX: “Essere dovere della filosofia, in materia di religione, non dominare ma servire, non prescrivere ciò che si debba credere, ma abbracciarlo con ragionevole ossequio, né scrutar l’altezza dei misteri di Dio, ma piamente ed umilmente venerarla” (Breve al Vescovo di Breslavia, 15 giugno 1857). I modernisti invertono del tutto le parti. Ond’è che ad essi può applicarsi ciò che l’altro Nostro Predecessore Gregorio IX scriveva di taluni teologi del suo tempo: “Alcuni fra voi, gonfi come otri dello spirito di vanità, si sforzano con novità profana di valicare i termini segnati dai Padri; piegando alla dottrina filosofica dei razionali l’intelligenza delle pagine Celesti, non per profitto degli uditori ma per far pompa di scienza… Questi sedotti da dottrine diverse e peregrine, tramutano in coda il capo e costringono la regina a servire all’ancella” (Lettera ai maestri di Teologia di Parigi, 7 luglio 1223). Il che parrà più manifesto dalla condotta stessa dei modernisti, interamente conforme a quel che insegnano. Negli scritti e nei discorsi sembrano essi non rare volte sostenere ora una dottrina ora un’altra, talché si è facilmente indotti a giudicarli vaghi ed incerti. Ma tutto ciò è fatto avvisatamente; per l’opinione cioè che sostengono della mutua separazione della fede e della scienza. Quindi avviene che nei loro libri si incontrano cose che ben direbbe un cattolico; ma, al voltar della pagina, si trovano altre che si stimerebbero dettate da un razionalista. Di qui, scrivendo storia, non fanno pur menzione della divinità di Cristo; predicando invece nelle chiese, l’affermano con risolutezza. Di qui parimente, nella storia non fanno nessun conto né di Padri né di Concilî; ma se catechizzano il popolo, li citano con rispetto. Di qui, distinguono l’esegesi teologica e pastorale dall’esegesi scientifica e storica. Similmente dal principio che la scienza non ha dipendenza alcuna dalla fede, quando trattano di filosofia, di storia, di critica, non avendo orrore di premere le orme di Lutero (Prop. 29, condannata da Leone X, Bolla. “Exsurge Domine“, 15 maggio 1520: “Ci si è aperta la strada per isnervare l’autorità dei Concilî e contraddire liberamente alle loro deliberazioni, e giudicare i lor decreti e confessare arditamente

tutto ciò che ci sembra vero, sia approvato o condannato da qualunque Concilio“), fanno pompa di un certo disprezzo delle dottrine cattoliche, dei santi Padri, dei sinodi ecumenici, del magistero ecclesiastico: e se vengono di ciò ripresi, gridano alla manomissione della libertà. Da ultimo, posto l’aforisma che la fede deve soggettarsi alla scienza, criticano di continuo e all’aperto la Chiesa, perché con somma ostinatezza rifiuta di sottoporre ed accomodare i suoi dogmi alle opinioni della filosofia: ed essi, da parte loro, messa fra i ciarpami la vecchia teologia, si adoperano di porne in voga una nuova, tutta ligia ai deliramenti dei filosofi. Con che, Venerabili Fratelli, Ci si dà finalmente il passo per osservare i modernisti sull’arena teologica. Difficile compito: ma con poco potremo trarCi d’impaccio. IL fine da ottenere è la conciliazione della fede colla scienza, restando però sempre incolume il primato della scienza sulla fede. In questo affare il teologo modernista si giova degli stessissimi principî che vedemmo usati dalla filosofia, adattandoli al credente; ciò sono i principî dell’immanenza e del simbolismo. Ed ecco con quanta speditezza compie egli il suo lavoro. Ha detto il filosofo: “Il principio della fede è immanente“; il credente ha soggiunto: “Questo principio è Dio“; il teologo dunque conclude: “Dio è immanente nell’uomo“. Di qui l’essere dell’immanenza teologica. Parimente: il filosofo ha ritenuto come certo che le “rappresentazioni dell’oggetto della fede sono semplicemente simboliche“; il credente ha affermato che “l’oggetto della fede è Dio in se stesso“; il teologo adunque pronunzia: “Le rappresentazioni della realtà divina sono simboliche“. Di qui il simbolismo teologico. Errori per verità enormi; i quali quanto sieno perniciosi, si vedrà luminosamente nell’osservarne le conseguenze. Infatti, per dir subito del simbolismo, i simboli essendo tali in relazione all’oggetto, ed in relazione al credente non essendo che istrumenti, fa mestieri innanzi tutto, così insegnano i modernisti, che il credente non si attacchi troppo alla formola, ma se ne giovi solo allo scopo di unirsi all’assoluta verità, di cui la formola rivela insieme e nasconde, si sforza cioè di esprimere ma senza mai riuscirvi. Vogliono in secondo luogo che il credente usi di tali formole tanto quanto gli sono utili, poiché sono date per giovamento e non per averne intralcio; salvo, s’intende, il rispetto che, per riguardi sociali, si deve alle formole giudicate acconce dal pubblico magistero ad esprimere la coscienza comune, finché però lo stesso magistero non stabilisca altrimenti. Quanto poi all’immanenza, non è agevole determinare ciò che per essa intendano i modernisti; giacché diverse sono fra essi le opinioni. Altri la pongono in ciò, che Dio operante sia intimamente presente nell’uomo, più che non sia l’uomo a sé stesso; il che, sanamente inteso, non può riprendersi. Altri pretendono che l’azione divina sia una coll’azione della natura, come di causa prima con quella di causa seconda; e ciò distruggerebbe l’ordine soprannaturale. Altri per ultimo la spiegano in modo da dar sospetto di un senso panteistico; il che, a dir vero, è più coerente col rimanente delle loro dottrine. A questo postulato dell’immanenza un altro poi se ne aggiunge, che si può intitolare dalla permanenza divina: e l’una dall’altra si fa differire quasi a quel modo stesso, che l’esperienza privata differisce dall’esperienza trasmessa per tradizione. Un esempio illustrerà il concetto: e sia l’esempio della Chiesa e dei Sacramenti. La Chiesa, dicono, e i Sacramenti non si devon credere come istituiti da Cristo stesso. Vieta ciò l’agnosticismo, che in Cristo non riconosce nulla più che un uomo, la cui coscienza religiosa, come quella di ogni altro uomo, si è formata a poco a poco; lo vieta la legge dell’immanenza, che non ammette, per dirlo con una loro parola, esterne applicazioni; lo vieta pure la legge dell’evoluzione, che per lo svolgersi dei germi richiede tempo ed una certa serie di circostanze; lo vieta finalmente la storia, che mostra tale di fatto essere stato il corso delle cose. Però è da tenersi che Chiesa e Sacramenti furono istituiti mediatamente da Cristo. Ma in qual modo? eccolo. Le coscienze tutte cristiane, essi dicono, furono virtualmente inchiuse nella coscienza di Gesù Cristo, come la pianta nel seme. Or poiché i germi vivono la vita del seme, così deve affermarsi che tutti i cristiani vivono la vita di Cristo. Ma la vita di Cristo, secondo la fede, è divina; dunque anche quella dei cristiani. Se pertanto questa vita, nel corso dei secoli, diede origine alla Chiesa e ai Sacramenti, con ogni diritto si potrà dire che tale origine è da Cristo ed è divina. Nello stesso modo provano esser divine le Scritture e divini i dogmi. E con ciò la teologia moderna può dirsi compiuta. Esigua cosa a dir vero, ma più che abbondante per chi professa doversi sempre ed in tutto rispettare le conclusioni della scienza. L’applicazione poi di queste teorie agli altri punti che verremo esponendo potrà ognuno farla di per sé stesso. Abbiam parlato finora della origine e della natura della fede. Ma molti essendo i germi di questa, e principali fra essi la Chiesa, il dogma, il culto, i Libri sacri, di questi eziandio è da conoscere ciò che insegnano i modernisti. E per farci dal dogma, l’origine e la natura di esso quale sia, si è già indicato più sopra. Nasce il dogma dal bisogno che prova il credente di lavorare sul suo pensiero religioso, sì da rendere la sua e l’altrui coscienza sempre più chiara. Tale lavorio consiste tutto nell’indagare ed esporre la formola primitiva, non già in se stessa e razionalmente, ma rispetto alle circostanze o, come più astrusamente dicono, vitalmente. Di qui si ha che intorno alla medesima si vadano formando delle formole secondarie, che poi sintetizzate e riunite in un’unica costruzione dottrinale, quando questa sia suggellata dal pubblico magistero come rispondente alla coscienza comune, si chiamerà dogma. Dal dogma son da distinguersi accuratamente le speculazioni teologiche; le quali però, benché non vivano della vita del dogma, pur tuttavia non sono inutili sì per armonizzare la religione colla scienza e togliere fra loro ogni contrasto, sì per lumeggiare esternamente e difendere la religione stessa; e chi sa che forse non giovino altresì per preparar la materia di un dogma futuro. Del culto poi non vi sarebbe gran che da dire, se sotto questo nome non venissero eziandio i Sacramenti, intorno ai quali sono gravissimi gli errori dei modernisti. IL culto vogliono che risulti da un doppio bisogno; giacché, torniamo ad osservarlo, nel loro sistema tutto va attribuito ad intimi bisogni. L’uno è quello di dare alla religione alcunché di sensibile; l’altro è il bisogno di propagarla, il che non potrebbe avvenire senza una qualche forma sensibile e senza atti santificanti, che diconsi Sacramenti. Quanto poi ai Sacramenti, essi pei modernisti si riducono a meri simboli o segni, non però privi di efficacia; efficacia che essi cercano di spiegare coll’esempio di certe cotali parole che volgarmente diconsi aver fatto fortuna, per avere acquistata la forza di diffondere talune idee potenti e che colpiscono grandemente gli animi. Come quelle parole sono ordinate alle dette idee, così i Sacramenti al sentimento religioso: nulla di vantaggio. Parlerebbero certamente più chiaro ove affermassero che i Sacramenti sono istituiti unicamente per nutrir la fede. Ma ciò è condannato dal Concilio di Trento (Sess. VII, de Sacramentis in genere, can. 5): “Se alcuno dirà che questi Sacramenti sono istituiti solo per nutrir la fede, sia anatema“. Della natura ancora e dell’origine dei Libri sacri già si è toccato. Secondo il pensare dei modernisti, si può ben definirli una raccolta di esperienze: non di quelle, che comunemente si hanno da ognuno, ma delle straordinarie e più insigni che siensi avute in una qualche religione. E così essi appunto insegnano a riguardo dei nostri libri del Vecchio e del Nuovo Testamento. A lor comodo però, notano assai scaltramente che, sebbene l’esperienza sia del presente, può tuttavolta prender materia dal passato ed eziandio dal futuro, in quanto che il credente o per la memoria rivive il passato a maniera del presente, o vive già per anticipazione l’avvenire. Ciò giova a dar modo di computare fra i Libri santi anche gli storici e gli apocalittici. Così adunque in questi libri parla bensì Iddio per mezzo del credente; ma, come vuole la teologia modernistica, solo per immanenza e permanenza vitale. Vorrà sapersi, in che consista dopo ciò l’ispirazione? Rispondono che non si distingue, se non forse per una certa maggiore veemenza, dal bisogno che sente il credente di manifestare a voce e per scritto la propria fede. È alcun che di simile a quello che si avvera nella ispirazione poetica; per cui un cotale diceva: È Dio in noi, da Lui agitati noi c’infiammiamo. È questo appunto il modo onde Dio deve dirsi origine della ispirazione dei Libri sacri. Affermano inoltre i modernisti che nulla vi è in questi libri che non sia ispirato. – Nel che potrebbe taluno crederli più ortodossi di certi altri moderni che restringono alquanto la ispirazione, come, a mo’ di esempio, nelle così dette citazioni tacite. Ma queste non sono che lustre e parole. Imperciocché se, secondo l’agnosticismo, riteniamo la Bibbia come un lavoro umano fatto da uomini per servigio di uomini, salvo pure al teologo di chiamarla divina per immanenza, come mai l’ispirazione potrebbe in essa restringersi? Sì, i modernisti affermano un’ispirazione totale: ma, nel senso cattolico, non ne ammettono in fatto veruna. – Più larga materia ci offre ciò che la scuola dei modernisti fantastica a riguardo della Chiesa. È qui da presupporre che la Chiesa secondo essi è frutto di due bisogni: uno nel credente, specie se abbia avuta qualche esperienza originale e singolare, di comunicare ad altri la propria fede; l’altro nella collettività, dopo che la fede si è fatta comune a molti, di aggrupparsi in società e di conservare, accrescere e propagare il bene comune. Che cosa è dunque la Chiesa? un parto della coscienza collettiva, ossia collettività di coscienze individuali; le quali, in forza della permanenza vitale, pendono tutte da un primo credente, cioè pei cattolici da Cristo. Ora ogni società ha bisogno di un’autorità che la regga: il cui compito sia dirigere gli associati al fine comune, e conservare saggiamente gli elementi di coesione, i quali in una società religiosa sono la dottrina ed il culto. – Perciò nella Chiesa cattolica una triplice autorità: disciplinare, dogmatica, culturale. La natura poi di questa autorità dovrà desumersi dalla sua origine; e dalla natura si dovranno a loro volta dedurre i diritti e i doveri. Fu errore volgare dell’età passata che l’autorità sia venuta alla Chiesa dal di fuori, cioè immediatamente da Dio: e perciò era giustamente ritenuta autocratica. Ma queste sono teorie oggimai passate di moda. Come la Chiesa è emanata dalla collettività delle coscienze, cosi l’autorità emana vitalmente dalla stessa Chiesa. Pertanto l’autorità del pari che la Chiesa nasce dalla coscienza religiosa, e perciò alla medesima resta soggetta: e se venga meno a siffatta soggezione, si volge in tirannide. Nei tempi che corrono il sentimento di libertà è giunto al suo pieno sviluppo. Nello stato civile la pubblica coscienza ha voluto un regime popolare. Ma la coscienza dell’uomo, come la vita, è una sola. Se dunque l’autorità della Chiesa non vuol suscitare e mantenere una guerra intestina nelle coscienze umane, uopo è che si pieghi anch’essa a forme democratiche; tanto più che, a negarvisi, lo sfacelo sarebbe imminente. È da pazzo il credere che possa aversi un regresso nel sentimento di libertà quale domina al presente. Stretto e rinchiuso con violenza strariperà più potente, distruggendo insieme la religione e la Chiesa. Fin qui il ragionare dei modernisti: e la conseguenza è, che sono tutti intesi a trovar modi per conciliare l’autorità della Chiesa colla libertà dei credenti. Se non che non solamente fra le sue stesse pareti trova la Chiesa con chi doversi comporre amichevolmente, ma eziandio fuori. Non è sola essa ad occupare il mondo: l’occupano insieme altre società, colle quali non può aver uso e commercio. Convien dunque determinare quali sieno i diritti e i doveri della Chiesa verso le società civili; e ben s’intende che tale determinazione deve esser desunta dalla natura della Chiesa stessa, quale i modernisti l’hanno descritta. Le regole perciò da usarsi son quelle stesse che sopra si adoperarono per la scienza e la fede. Ivi parlavasi di oggetti, qui di fini. Come adunque, per ragione dell’oggetto, si dissero la fede e la scienza vicendevolmente estranee, così lo Stato e la Chiesa sono l’uno all’altra estranei pel fine a cui tendono, temporale per lo Stato, spirituale per la Chiesa. Fu d’altre età il sottomettere il temporale allo spirituale; il parlarsi di questioni miste, nelle quali la Chiesa interveniva quasi signora e regina, perché la Chiesa si stimava istituita immediatamente da Dio, come autore dell’ordine soprannaturale. Ma la filosofia e la storia non più ammettono cotali credenze. Adunque lo Stato deve separarsi dalla Chiesa e per egual ragione il cattolico dal cittadino. Di qui è, che il cattolico, perché insieme cittadino, ha diritto e dovere, non curandosi dell’autorità della Chiesa, dei suoi desiderî, consigli e comandi, sprezzate altresì le sue riprensioni, di far quello che giudicherà espediente al bene della patria. Voler imporre al cittadino una linea di condotta sotto qualsiasi pretesto è un vero abuso di potere ecclesiastico da respingersi con ogni sforzo. Le teorie, o Venerabili Fratelli, onde promanano tutti questi errori, son quelle appunto che il Nostro Predecessore Pio VI già condannò solennemente nella Costituzione Apostolica “Auctorem Fidei” (Prop. 2). “La proposizione che stabilisce che la potestà è stata da Dio data alla Chiesa, perché fosse comunicata ai Pastori, che sono ministri di lei per la salute delle anime; così intesa, che la potestà del ministero e regime ecclesiastico si derivi nei Pastori dalla Comunità dei fedeli: eretica“. Prop. 3. “Inoltre quella che stabilisce il Romano Pontefice esser capo ministeriale; così spiegata che il Romano Pontefice, non da Cristo nella persona del Beato Pietro, ma dalla Chiesa abbia avuta la potestà del ministero, di cui come successore di Pietro, vero Vicario di Cristo e capo di tutta la Chiesa, gode nella Chiesa universa: eretica“). – Ma non basta alla scuola dei modernisti che lo Stato sia separato dalla Chiesa. Come la fede, quanto agli elementi fenomenici, deve sottostare alla scienza, così nelle cose temporali la Chiesa ha da soggettarsi allo Stato. Questo forse non l’asseriscono essi peranco apertamente; ma per forza di raziocinio sono costretti ad ammetterlo. Imperocché, concesso che lo Stato abbia assoluta padronanza in tutto ciò che è temporale, se avvenga che il credente, non pago della religione dello spirito, esca in atti esteriori, quali per mo’ di esempio, l’amministrarsi o il ricevere dei Sacramenti, bisognerà che questi cadano sotto il dominio dello Stato. E che sarà dopo ciò dell’autorità ecclesiastica? Siccome questa non si spiegasse non per atti esterni, sarà in tutto e per tutto assoggettata al potere civile. È questa ineluttabile conseguenza che trascina molti fra i protestanti liberali a sbarazzarsi di ogni culto esterno, anzi d’ogni esterna società religiosa, i quali invece si adoprano di porre in voga una religione che chiamano individuale. Che se i modernisti, a luce di sole, non si spingono ancora tant’oltre, insistono intanto perché la Chiesa si pieghi spontaneamente ove essi la voglion trarre e si acconci alle forme civili. Tutto ciò per l’autorità disciplinare. Più gravi assai e perniciose sono le loro affermazioni a riguardo dell’autorità dottrinale e dogmatica. Circa il magistero ecclesiastico così essi la pensano: la società religiosa non può veramente essere una senza unità di coscienza nei suoi membri e senza unita di formola. Ma questa duplice unità richiede, per così dire, una mente comune, a cui spetti trovare e determinare la formola, che meglio risponda alla coscienza comune: alla qual mente fa d’uopo inoltre attribuire un’autorità bastevole, perché possa imporre alla comunanza la formola stabilita. Or nell’unione è quasi fusione della mente designatrice della formola e dell’autorità che la impone, ritrovano i modernisti il concetto del magistero ecclesiastico. Poiché dunque in fin dei conti il magistero non nasce che dalle coscienze individuali ed a bene delle stesse coscienze ha imposto un pubblico ufficio; ne consegue di necessità che debba dipendere dalle medesime coscienze e debba quindi avviarsi a forme democratiche. IL proibire pertanto alle coscienze degli individui che facciano pubblicamente sentire i loro bisogni; non soffrire chela critica spinga il dogma verso necessarie evoluzioni, non è già uso di potestà, data per pubblico bene, ma abuso. Similmentene l’uso stesso della potestà fa di mestieri serbare modo e misura. Sa di tirannide condannare un libro all’insaputa dell’autore, senza ammettere spiegazioni di sorta né discussione. Adunque qui pure è da ricercarsi una via di mezzo che salvi insieme i diritti dell’autorità e della libertà. Nel frattempo il cattolico si regolerà in guisa che non lasci pubblicamente di protestarsi rispettosissimo dell’autorità, continuando però sempre ad operare a suo talento. In generale vogliono ammonita la Chiesa che, poiché il fine della potestà ecclesiastica è tutto spirituale, disdice ogni esterno apparato di magnificenza con che essa si circonda agli occhi delle moltitudini. Nel che non riflettono che se la religione è essenzialmente spirituale non c tuttavia ristretta al solo spirito; e che l’onore tributato all’autorità ridonda su Gesù Cristo che ne fu istitutore. – Per compiere tutta questa materia della fede e dei diversi suoi germi, rimane da ultimo, Venerabili Fratelli, che ascoltiamo le teorie dei modernisti circa lo sviluppo dei medesimi. e lor principio generale che in una religione vivente tutto debba essere mutevole e mutarsi di fatto. Di qui fanno passo a quella che è delle principali fra le loro dottrine, vogliam dire all’evoluzione. Dogma dunque, Chiesa, culto, Libri sacri, anzi la fede stessa, se non devon esser cose morte, fa mestieri che sottostiano alle leggi dell’evoluzione. Siffatto principio non si udrà con istupore da chi rammenti quanto i modernisti son venuti affermando intorno a ciascuno di questi oggetti. Posta pertanto la legge dell’evoluzione, i modernisti stessi ci descrivono in qual maniera l’evoluzione si effettui. E cominciamo dalla fede. La forma primitiva, essi dicono, della fede fu rudimentaria e comune indistintamente a tutti gli uomini; giacché nasceva dalla natura e dalla vita umana. Il progresso si ebbe per sviluppo vitale; che è quanto dire non per aggiunta di nuove forme apportate dal di fuori, ma per una crescente penetrazione nella coscienza del sentimento religioso. Doppio indi fu il modo di progredire nella fede: prima negativamente, col depurarsi da ogni elemento estraneo, come ad esempio dal sentimento di famiglia o di nazionalità; quindi positivamente, mercè il perfezionarsi intellettuale e morale dell’uomo, per cui l’idea divina si ampliò ed illustrò e il sentimento religioso divenne più squisito. Del progresso della fede non altre cause assegnar si possono che quelle stesse onde già si spiegò la sua origine. Alle quali però fa d’uopo aggiungere quei genii religiosi, che noi chiamiamo profeti e dei quali Cristo fu il sommo; sì perché nella vita o nelle parole ebbero un certo che di misterioso, che la fede attribuiva alla divinità, e sì perché toccaron loro esperienze nuove ed originali in piena armonia coi bisogni del loro tempo. Il progresso del dogma nasce principalmente dal bisogno di superare gli ostacoli della fede, di vincere gli avversari, di ribattere le difficoltà, senza dire dello sforzo continuo di viemeglio penetrare gli arcani della fede. Così, per tacer di altri esempi, è avvenuto di Cristo; in cui, quel più o meno divino, che la fede in esso ammetteva, si venne gradatamente amplificando in modo, che finalmente fu ritenuto per Dio. Lo stimolo precipuo di evoluzione del culto sarà il bisogno di adattarsi agli usi ed alle tradizioni dei popoli; come altresì di usufruire della virtù che certi atti hanno ricevuto dall’usanza. La Chiesa finalmente trova la sua ragione di evolversi nel bisogno di accomodarsi alle condizioni storiche e di accordarsi colle forme di civil governo pubblicamente adottate. Così i modernisti di ciascun capo in particolare. E qui, innanzi di farCi oltre, bramiamo che ben si avverta di nuovo a questa loro dottrina dei bisogni; giacché essa, oltreché di quanto finora abbiam visto, è quasi base e fondamento di quel vantato metodo che chiamano storico. Or, restando tuttavia nella teoria della evoluzione, vuole di più osservarsi che quantunque i bisogni servano di stimolo per la evoluzione, essa nondimeno, regolata unicamente da siffatti stimoli, valicherebbe facilmente i termini della tradizione, e strappata così dal primitivo principio vitale, meglio che a progresso menerebbe a rovina. Quindi studiando più a fondo il pensiero dei modernisti, deve dirsi che l’evoluzione è come il risultato di due forze che si combattono, delle quali una è progressiva, l’altra conservatrice. La forza conservatrice sta nella Chiesa e consiste nella tradizione. L’esercizio di lei è proprio dell’autorità religiosa; e ciò, sia per diritto, giacché sta nella natura di qualsiasi autorità il tenersi fermo il più possibile alla tradizione; sia per fatto, perché sollevata al disopra delle contingenze della vita, poco o nulla sente gli stimoli che spingono a progresso. Per contrario la forza che, rispondendo ai bisogni, trascina a progredire, cova e lavora nelle coscienze individuali, in quelle soprattutto che sono, come dicono, più a contatto della vita. Osservate qui di passaggio, o Venerabili Fratelli, lo spuntar fuori di quella dottrina rovinosissima che introduce il laicato nella Chiesa come fattore di progresso. Da una specie di compromesso fra le due forze di conservazione e di progressione, fra l’autorità cioè e le coscienze individuali, nascono le trasformazioni e i progressi. Le coscienze individuali, o talune di esse, fan pressione sulla coscienza collettiva; e questa a sua volta sull’autorità, e la costringe a capitolare ed a restare ai patti. Ciò ammesso, ben si comprendono le meraviglie che fanno i modernisti, se avvenga che siano biasimati o puniti. Ciò che loro sia scrive a colpa, essi l’hanno per sacrosanto dovere. Niuno meglio di essi conosce i bisogni delle coscienze perché si trovano con queste a più stretto contatto che non si trovi la potestà ecclesiastica. Incarnano quasi in sé quei bisogni tutti: e quindi il dovere per loro di parlare apertamente e di scrivere. Li biasimi pure l’autorità, la coscienza del dovere li sostiene, e sanno per intima esperienza di non meritare riprensioni ma encomii. Pur troppo essi sanno che i progressi non si hanno senza combattimenti, né combattimenti senza vittime: e bene, saranno essi le vittime, come già i profeti e Cristo. Né perché siano trattati male, odiano l’autorità: concedono che ella adempia il suo dovere. Solo rimpiangono di non essere ascoltati, perché in tal guisa il progredire degli animi si ritarda: ma verrà senza meno il tempo di rompere gl’indugi, giacché le leggi dell’evoluzione si possono raffrenare, ma non possono affatto spezzarsi. E così continuano il lor cammino, continuano benché ripresi e condannati, celando un’incredibile audacia col velo di un’apparente umiltà. Piegano fintamente il capo: ma la mano e la mente proseguono con più ardimento il loro lavoro. E così essi operano scientemente e volentemente; sì perché è loro regola che l’autorità debba essere spinta, non rovesciata; si perché hanno bisogno di non uscire dalla cerchia della Chiesa per poter cangiare a poco a poco la coscienza collettiva; il che quando dicono, non si accorgono di confessare che la coscienza collettiva dissente da loro, e che quindi con nessun diritto essi si danno interpreti della medesima. Per detto adunque e per fatto dei modernisti nulla, o Venerabili Fratelli, vi deve essere di stabile, nulla di immutabile nella Chiesa. Nella qual sentenza non mancarono ad essi dei precursori, quelli cioè dei quali il Nostro Predecessore Pio IX già scriveva: “Questi nemici della divina rivelazione, che estollono con altissime lodi l’umano progresso, vorrebbero, con temerario e sacrilego ardimento, introdurlo nella cattolica religione, quasi che la stessa religione fosse opera non di Dio ma degli uomini o un qualche ritrovato filosofico che con mezzi umani possa essere perfezionato” (Enc. “Qui pluribus“, 9 nov. 1846). Circa la rivelazione specialmente e circa il dogma, la dottrina dei modernisti non ha filo di novità; ma è quella stessa che nel Sillabo di Pio IX ritroviamo condannata, così espressa: “La divina rivelazione è imperfetta e perciò soggetta a continuo ed indefinito progresso, che risponda a quello dell’umana ragione” (Sillabo, Prop. V); più solennemente poi la troviamo riprovata dal Concilio Vaticano in questi termini: “Né la dottrina della fede, che Dio rivelò, è proposta agli umani ingegni da perfezionare come un ritrovato filosofico, ma come un deposito consegnato alla Sposa di Cristo, da custodirsi fedelmente e da dichiararsi infallibilmente. Quindi dei sacri dogmi altresì deve sempre ritenersi quel senso che una volta dichiarò la Santa Madre Chiesa, né mai deve allontanarsi da quel senso sotto pretesto e nome di più alta intelligenza” (Const. Dei Filius, cap. IV). Col che senza dubbio l’esplicazione nelle nostre cognizioni, anche circa la fede, tanto è lungi che venga impedita, che anzi ne è aiutata e promossa. Laonde lo stesso Concilio prosegue dicendo: “Cresca dunque e molto e con slancio progredisca l’intelligenza, la scienza, la sapienza così dei singoli come di tutti, così di un sol uomo come di tutta la Chiesa coll’avanzare delle età e dei secoli; ma solo nel suo genere, cioè nello stesso dogma, nello stesso senso e nella stessa sentenza” (Loc. cit.). [Continua]