DOMENICA XXIV dopo PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ier XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob.
[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Oratio
Orémus.
Excita, quǽsumus, Dómine, tuórum fidélium voluntátes: ut, divíni óperis fructum propénsius exsequéntes; pietátis tuæ remédia maióra percípiant.
[Eccita, o Signore, Te ne preghiamo, la volontà dei tuoi fedeli: affinché dedicandosi con maggiore ardore a far fruttare l’opera divina, partécipino maggiormente dei rimedi della tua misericordia.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col 1: 9-14
“Fratres: Non cessámus pro vobis orántes et postulántes, ut impleámini agnitióne voluntátis Dei, in omni sapiéntia et intelléctu spiritáli: ut ambulétis digne Deo per ómnia placéntes: in omni ópere bono fructificántes, et crescéntes in scientia Dei: in omni virtúte confortáti secúndum poténtiam claritátis eius in omni patiéntia, et longanimitáte cum gáudio, grátias agentes Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem eius, remissiónem peccatórum”.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Omelie, vol. IV, Omelia XXV – Torino, 1899]

Non cessiamo dal pregare per voi, e chiedere che siate ripieni del conoscimento della volontà di Dio, in ogni sapienza e intelligenza spirituale, affine di camminare in modo degno di Dio, in ogni beneplacito, fruttificando in ogni opera buona crescendo nel conoscimento di Lui, fortificati di grande vigoria, secondo la sua gloriosa potenza, ad ogni patimento e longanimità, rendendo grazie a Dio Padre, che ci mise a parte della sorte dei santi nella luce; il quale ci strappò dalla potestà delle tenebre e ci ha tramutati nel regno del Figliuolo suo dilettissimo, in cui abbiamo la redenzione per il sangue di Lui, la remissione dei peccati„ (Ai Colossesi, I, 9-13).

La lettera ai fedeli di Colossi, città dell’Asia minore, nella Frigia, dalla quale sono tolti questi cinque versetti, fu scritta da S. Paolo in Roma, nel 63 o 64 dell’era nostra, durante il tempo della sua prima prigionia. Quella Chiesa non era stata fondata da lui, ma dal suo discepolo Epafra, che fu anche il portatore della lettera stessa. Questa ha due parti distintissime, la prima è dogmatica, morale la seconda. S. Paolo in carcere, forse da Epafra stesso aveva inteso come i fedeli di quella Chiesa correvano grave pericolo d’essere ingannati da certi maestri d’errore, che dovevano essere gnostici o, al solito, ebraizzanti. Quelli, mescolando insieme gli insegnamenti della fede con le teorie filosofiche, ond’erano imbevuti, erravano intorno alla persona di Cristo e introducevano non so qual nuovo e strano culto degli angeli: questi poi si attenevano ancora ad alcune pratiche legali, che non potevano comporsi colla fede cristiana. La lettera è una delle più brevi, ma ripiena di altissimi sensi. – I pochi versetti che avete uditi, e che formano la prefazione della lettera, ve ne sarete accorti voi stessi, udendoli, si presentano involuti, oscuri e assai difficili a spiegarsi, perché le verità vi sono condensate a forza, le une serrate alle altre, in una forma di dire al tutto ebraica e che alle nostre orecchie torna assai dura. Ad ogni modo, invocando l’aiuto di Dio e chiedendo tutta la vostra attenzione, mi accingo a darvene il commentario. – S. Paolo comincia la lettera, scritta anche a nome di Timoteo, con i saluti, che sono presso a poco quelli delle altre lettere: poi ringrazia Dio per la fede e per la carità dei Colossesi, secondo il Vangelo ricevuto da Epafra, che gli portò novelle di loro; e, continuando, scrive: “Noi non cessiamo di pregare per voi — “Non cessamus prò vobis orantes. „ È cosa degna di considerazione questa, che parecchie volte S. Paolo, nelle sue lettere, assicura i fedeli che prega per loro. Non vi è cosa maggiormente inculcata nei Libri santi, quanto la preghiera: essa è voluta dalla fede, è richiesta dalla natura stessa, è un bisogno del nostro cuore, è il respiro, come fu ben detto, dell’anima nostra. Se siamo lieti, se siamo afflitti, se speriamo, se temiamo, la preghiera, per chi ammette Dio, è una necessità. Noi possiamo pregare per noi stessi e possiamo pregare anche per gli altri: la preghiera per noi stessi è sì naturale, che non può creare difficoltà di sorta; ma la preghiera per gli altri può sembrare strana e quasi temeraria. Come! dirà taluno, siamo sì poveri, sì miserabili, pieni di tante colpe, che a stento possiamo presentarci a Dio e pregarlo per noi stessi, e oseremo poi pregare per altri e farci intercessori dei nostri fratelli? Questa non è cosa che ripugna e che sa di superbia? Ci basti pregare per noi. No, o carissimi; preghiamo, sì, per noi; ma preghiamo anche per gli altri, che non vi è ombra di superbia, ed è cosa gratissima a Dio. La preghiera, se bene sì guarda, è un atto di umiltà per eccellenza, perché chi prega si riconosce bisognoso e si mette ai piedi di Dio; onde la preghiera, se è vera preghiera, sia fatta per sé, sia fatta per altri, è sempre un esercizio di umiltà. Sarebbe superbia se, chi prega per altri, si considerasse degno di pregare e mettesse innanzi a Dio i meriti propri, quasi titoli, per essere esaudito. La preghiera poi, fatta pei fratelli nostri, quali ch’essi siano, è gratissima a Dio, essa è figlia di quella carità che tanto ci è raccomandata nel Vangelo e che fa nostri i bisogni altrui, e ci muove a soccorrerli, ricorrendo a Lui, che tutto può. La preghiera è figlia dell’umiltà, e la preghiera per gli altri è figlia della carità. Ecco un padre, che ha parecchi figli, i quali tutti hanno bisogno di lui. Uno di questi figli, dopo aver implorato l’aiuto del padre per sé, l’implora anche per il fratello suo, che non fa, o fors’anche rifiuta di farlo. Non è e gli vero che quel buon padre deve sentirsi commosso udendo un figlio che intercede per un altro figlio? Non è egli vero che quest’atto di amore fraterno deve tornare accettevole al padre e renderlo più inchinevole al perdono verso il figlio ingrato e dimentico dei suoi doveri? Ah! credetelo, o dilettissimi, la preghiera, che noi innalziamo a Dio per i fratelli nostri, ha un’efficacia specialissima, perché si innalza a Lui quasi avvolta nel profumo della carità scambievole e ispirata a quella forma di preghiera ch’Egli stesso ci ha insegnata, dicendo: “Padre nostro, che siete nei cieli … Preghiamo adunque e sempre, e per noi e per tutti. S. Paolo pregava per i Colossesi, e a quale intento? Forse perché diventassero ricchi? Fossero potenti e salissero in grande onore e fama? Perché fossero ricolmi di prosperità materiali? Queste cose le domandano e le desiderano gli uomini del mondo, ma non potevano nemmeno passare per la mente dell’Apostolo delle genti. Uditelo: “Preghiamo per voi affinché siate ripieni del conoscimento della volontà di Dio. „ Ecco la prima cosa che S. Paolo prega da Dio per i suoi Colossesi. In che sta riposta, o cari, la virtù ed il sommo della virtù, che è la santità? Evidentemente nel fare ciò che vuole Iddio: chi in ogni cosa e conforme alla volontà di Dio, questi ha toccato la cima d’ogni santità. Ma per essere in ogni cosa conformi alla volontà di Dio, bisogna conoscerla questa volontà di Dio. E in qual modo, per qual via Dio ce la fa conoscere? Per doppia via: l’una è la via della ragione, via assai imperfetta, lunga, incerta, e per la quale a pochissimi è dato camminare; l’altra è la via della fede, perfetta, breve, sicura, a tutti facilissima ed eguale. Ed è senza dubbio di questo conoscimento della volontà di Dio che parla S. Paolo e prega che siano non solo forniti, ma ripieni i fedeli di Colossi, e ripieni per guisa, che sappiano non solo le verità da Dio manifestate, ma anche il modo di adempirle: “In ogni sapienza e intelligenza spirituale (La sapienza riguarda la sola cognizione teorica, i principi, l’intelligenza, la pratica applicazione dei medesimi. La parola Spirituale indica la natura delle verità conosciute, o fors’anche l’origine, che viene dallo Spirito Santo.). „ – Carissimi! Dio non manca di farci conoscere queste verità: Dio è pronto a versarle con ogni pienezza nelle anime nostre; ma Egli vuole che pur noi facciamo dal canto nostro il necessario per riceverle; Egli le offre, ma bisogna pigliarle, e così vuole perché rispetta la nostra libertà e intende che rimanga a noi il merito di acquistarle. E come possiamo giungere al conoscimento della volontà di Dio? Ascoltando la sua parola, il suo insegnamento là dove si porge, nel tempio, leggendo i libri divini e udendo quelli che li spiegano. Scorre un ampio fiume e lambisce con le sue acque fertili campi, coperti di ricche messi: il sole con i suoi cocenti raggi dissecca quelle messi e minaccia di rendere vani i sudori del contadino. Di chi la colpa? L’acqua abbonda, le messi la domandano; perché, o contadino, sulla riva del fiume non apri un canale e non fai scorrere sul tuo campo l’acqua fecondatrice? Se le messi falliscono, ne sarà in colpa la tua inerzia. Le acque della verità scorrono copiose nella casa di Dio: qui si fa conoscere la volontà di Lui: perché qui non accorrete a bere di queste acque, e farle scorrere sui campi delle vostre anime? Perché qui non accorrete per conoscere la volontà di Dio e ad essa conformare la vostra vita? Oh! venite, venite, e qui sarete ripieni del conoscimento della volontà di Dio, in ogni sapienza e intelligenza spirituale. Ma che gioverebbe aver la mente inondata di luce e conoscere la volontà di Dio e poi non adempirla? Nulla: anzi, questo conoscimento, se non è accompagnato dalle opere, ci renderebbe inescusabili e più colpevoli. Perciò S. Paolo, dopo aver pregato ai Colossesi il conoscimento pieno della verità, prosegue e dice: “Affinché camminiate in modo degno di Dio, „ cioè pensiate, parliate e operiate come si conviene a chi serve a Dio. – Chi serve ad un gran personaggio, ad un monarca, se ha mente e cuore, è compreso degli obblighi  che gli impone il suo ufficio; sente la necessità di far onore alla grandezza del suo signore, e con ogni studio si guarda dal far cosa che lo mostri  immeritevole della fiducia onde l’onora. E noi serviamo non un grande, un personaggio insigne, un monarca, ma il Monarca dei monarchi; con quanta cura adunque dobbiamo onorare la dignità del nostro servizio, tener alto il glorioso ufficio che abbiamo! Servi di Dio, dirò di più, figli adottivi di Dio, camminiamo, ossia viviamo in modo che sia degno di Lui e di noi : Ut ambuletis digne Deo. Allorché un figlio di re si disonora con una condotta indegna, i popoli, segnandolo a dito, esclamano: Vergogna! Egli dimentica la sua dignità, getta nel fango l’onore del padre! — Che debbono dire di noi, cristiani, allorché trasciniamo nella polvere la dignità di figli di Dio? Se camminerete come si conviene a chi serve a Dio, “camminerete in ogni beneplacito — per omnia bene placentes, „ farete cioè tutto ciò che piacerà a Dio, battendo la via della sua legge. E quale sarà il vostro guadagno? Eccolo: “fruttificherete in ogni cosa buona — In omni opere bono fructificantes. „ Non vi sfugga una osservazione, che è utile ricordare. L’Apostolo, nelle sue lettere, tratto tratto si eleva alla contemplazione di altissime verità teoriche, e assorto in quella luce sfolgorante, che lo rapisce e lo inebria, parrebbe quasi dover dimenticare le cose pratiche e comuni: non è vero. In un istante, da quelle altezze divine scende sempre alle cose pratiche della vita, e le inculca come conseguenze di quelle. E qui ne avete una prova: egli, dopo aver parlato di conoscimento della volontà di Dio, di sapienza, di intelligenza spirituale, ricorda che dobbiamo fruttificare in ogni buona opera, „ cioè mostrare nelle opere tutte quelle sì eccelse cose, che domanda a Dio per i fedeli di Colossi. Intendete, o cari? Tutta la scienza e sapienza delle cose celesti sarebbe un nulla, quando non ci conduce a fare le opere buone. Se queste ci fan difetto, tutto il resto non val nulla, è un po’ di frasche, un’apparenza di virtù, è una luce fosforica, che brilla un istante e poi tosto si dilegua, è un bronzo che tintinnisce. Badiamo adunque che la nostra fede, la nostra cognizione delle cose di Dio si traduca nelle opere, in tutte le opere buone: In omni opere bono fructificantes. Una vita cristiana, ricca di opere sante, accrescerà la vostra scienza delle cose divine, continua l’Apostolo: Crescentes in scientia Dei. – Sembra una ripetizione di ciò che ha detto poc’anzi, ma non lo è: questa sentenza racchiude una verità profonda, che è prezzo dell’opera toccare. Datemi un uomo, un cristiano, che conosca i suoi doveri e li adempia: nell’adempimento costante e fedele de’ suoi doveri acquisterà non solo l’abito delle virtù cristiane, ma sentirà crescere in sé l’amore, la stima e il conoscimento pratico delle stesse: a mano a mano che in esse perdurerà, andrà pure crescendo nell’intima persuasione della loro bontà ed eccellenza. Accade al cristiano virtuoso quel che avviene all’artista valente. Come questo col lungo esercizio dell’arte sua si va perfezionando in essa e sempre più amandola, per forma che non gli è possibile abbandonarla; così quello nella via della virtù: più la pratica e più la conosce bella e degna d’essere amata, e più amandola, più la conosce, e giunge a tal punto, che gli torna quasi impossibile cessare di praticarla. Questo ci spiega il fatto frequente, che ci incontra di vedere in alcuni buoni e semplici cristiani, che senza studio alcuno della religione, che nel loro stato e al loro ingegno non è possibile, hanno una certezza somma, incrollabile della sua bontà, e sarebbero pronti a dare per essa la vita. Dove attinsero tanta certezza della religione? Non vi è che questa risposta: Nella pratica della stessa, nell’esercizio della virtù, ch’essa impone. — Se il difetto delle opere cristiane a poco a poco vela l’occhio della fede, e la spegne, la pratica delle medesime la rischiara e la rinsalda mirabilmente. E perché abbiamo visto uomini dottissimi nelle scienze sacre finire con l’apostasia, e poveri figli del popolo, povere fanciulle uscite dal volgo, entrare in religione, valicare i mari, evangelizzare i pagani e morire per la fede. Le opere sante avvalorano la loro scienza delle cose celesti: Crescentes in scientia Dei. Segue il terzo oggetto della preghiera del nostro Apostolo, che è la perseveranza nel bene, la quale, più che dalle nostre sì deboli forze, dobbiamo aspettare dalla potenza divina. ” Fortificati di grande vigoria, così san Paolo, secondo la gloriosa sua potenza, ad ogni patimento e longanimità con allegrezza. „ È sempre la preghiera che S. Paolo continua a fare per i Colossesi. Noi, io e Timoteo, così S. Paolo, non cessiamo dal pregare Dio, affinché, dopo aver dato il conoscimento pieno della verità, la pratica delle virtù ed opere degne di cristiani, dia la forza di soffrire tutto ciò che è inevitabile nel camminare per la dritta via: In omni patientia, notate bene questa parola: “Ad ogni patimento”; dobbiamo essere disposti a vivere cristianamente, ad esercitare la virtù a costo, non di questo o di quel dolore o patimento, che a noi piace, ma ad “ogni patimento — in omni patientia, „ senza eccezione di luogo, di tempo e di circostanze. E come dobbiamo essere disposti a patire, o benedetto Apostolo? Longanimitate, cioè con una pazienza instancabile, dolce, mite, che ricusa di vendicarsi, anche quando facilmente lo potrebbe fare. E basta? Non ancora: “Con allegrezza — Cum gaudio. „ S. Paolo ci vuole pronti a patire con pazienza, con longanimità non solo, ma con allegrezza. Patire con gioia! Quale altezza di perfezione! Il mondo non aveva mai udito fino allora sì strano e divino insegnamento. Esso aveva udito alcuni filosofi insegnare che l’uomo virtuoso deve saper patire per la virtù con animo forte: che deve disprezzare il dolore e quelli che lo cagionano: aveva udito quella superba dottrina degli stoici, che la virtù è premio a se stessa, e aveva potuto comprendere che la forza di soffrire si deve attingere nell’orgoglio, nelle proprie forze; il mondo aveva visto Regolo, Socrate ed altri affrontare con animo generoso i dolori e la morte per non venir meno al dovere: ma a nessuno di quei grandi passò per la mente che si potesse patire e morire per la verità e per la virtù con allegrezza, con gaudio, come qui proclama il nostro Paolo. E pure a questo giunse l’insegnamento evangelico, e si videro a mille a mille, uomini e donne d’ogni classe e d’ogni età, patire acerbissimi dolori e morte crudelissima con la fronte serena, con l’inno del ringraziamento e della gioia sulla lingua e nel cuore. – Il periodo cominciato dall’Apostolo continua sempre, accumulando incisi sopra incisi, e in ciascuno racchiudendo sempre qualche nuovo e alto concetto: “Rendendo grazie a Dio Padre, che ci ha messi a parte della sorte dei santi nella luce. „ Oltre di pregare per voi, o Colossesi, ringraziamo anche Dio Padre, e in Lui e con Lui, Principio senza principio del Figlio e dello Spirito Santo, l’augusta Trinità, perché e voi e noi si è degnato chiamare a parte dell’eredità dei santi, cioè dei chiamati alla fede, e perciò anche alla santità, nella luce, che è il Vangelo; questo il senso delle parole dell’Apostolo. Qual è, o cari, il massimo dei benefizi fattoci da Dio? Senza dubbio quello di chiamarci al conoscimento della fede e alla dignità di figli ed eredi della vita eterna. Vedete quanti milioni di fratelli nostri giacciono ancora in mezzo alle tenebre degli errori! Che merito avevamo noi d’essere preferiti a loro? Nessuno. Eppure noi siamo chiamati nel regno della luce, che è la Chiesa: noi abbiamo la fede, e con la fede tutti i mezzi per camminare sulla dritta via del cielo. E di questo incomparabile beneficio della fede quante volte porgiamo a Dio i nostri ringraziaménti? Ditelo voi, o cari: forse appena  alcuna volta fra l’anno! Quale ingratitudine! “Il quale (Dio Padre) ci ha strappati dalla podestà delle tenebre, e ci ha tramutati nel regno del Figliuolo suo dilettissimo. „ – S. Paolo attribuisce la nostra liberazione a Dio Padre, inquantoché egli ha dato il Figliuolo suo per noi; del resto voi non potete ignorare che se l’opera della nostra salvezza è attribuita egualmente alle tre divine Persone, che con un atto di eterno amore e di misericordia lo vollero, essa fu compiuta unicamente dalla seconda Persona nell’umanità assunta, nella quale pagò ogni nostro debito. Ci strappò dalla podestà delle tenebre: in quella parola “strappò„ “eripuit”, voi vedete lo sforzo fatto da Gesù per noi, sforzo che gli costò la vita sulla croce. Indubbiamente poteva toglierci di mano al nemico con un atto semplicissimo della sua volontà; ma allora ne sarebbe apparsa la potenza di Dio, non si sarebbero egualmente manifestate la bontà e la giustizia di Lui; doveché con la sua morte la sapienza, la bontà, la potenza e la giustizia di Dio confondono in un solo tutti i loro raggi. Nei Libri santi come la luce significa la verità, la fede, Dio stesso, così le tenebre indicano l’errore, l’infedeltà, il principio del male, il demonio. Dio Padre adunque ci strappò dalle mani del nemico suo e nostro, il demonio, e mercé della fede ci trasportò dalle tenebre nel regno della luce del dilettissimo suo Figliuolo, cioè nel regno della sua Chiesa. “Nel quale (Figliuolo suo) abbiamo la redenzione pel sangue suo, in remissione dai peccati. „ Si può dire che in questi due versetti S. Paolo ha compendiato tutto il mistero della nostra salvezza; parla del Padre divino e del Figliuolo, della liberazione dal potere tirannico del demonio, della Chiesa e della redenzione nostra ottenuta con la morte di Gesù Cristo. Noi, pel peccato, eravamo condannati alla morte eterna: Gesù, volendo salvare i diritti eterni della giustizia, si offre a ricevere sopra della sua stessa persona la pena che doveva cadere sopra di noi: noi dovevamo essere soggetti alla morte eterna: Gesù mette se stesso al luogo nostro, muore per noi, e noi siamo sciolti da ogni debito, appropriandoci per la fede e per i sacramenti i meriti suoi: così si opera la redenzione nostra, così si compie la remissione dei nostri peccati. Carissimi! Seguendo l’Apostolo e facendo nostri i suoi sensi e le sue parole, leviamo gli occhi, la mente e il cuore al cielo, e ringraziamo Dio Padre d’averci dato il Figliuolo suo. d’averci strappati dalle mani del principe delle tenebre, d’averci collocati nel grembo della sua Chiesa, d’aver lavato i nostri peccati nel sangue suo, e preghiamolo che di tanto beneficio elargito misericordiosamente a noi, faccia partecipe tanti fratelli nostri sepolti ancora nelle tenebre dell’errore e nelle ombre della morte. A Lui sia onore e gloria ora e sempre e in tutti i secoli. Così sia.

 Graduale Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti. [
Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]
V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula. [In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno.]

Alleluja
Allelúia, allelúia.
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúia.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia  sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XXIV:15-35
“In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Cum vidéritis abominatiónem desolatiónis, quæ dicta est a Daniéle Prophéta, stantem in loco sancto: qui legit, intélligat: tunc qui in Iudǽa sunt, fúgiant ad montes: et qui in tecto, non descéndat tóllere áliquid de domo sua: et qui in agro, non revertátur tóllere túnicam suam. Væ autem prægnántibus et nutriéntibus in illis diébus. Oráte autem, ut non fiat fuga vestra in híeme vel sábbato.
Erit enim tunc tribulátio magna, qualis non fuit ab inítio mundi usque modo, neque fiet. Et nisi breviáti fuíssent dies illi, non fíeret salva omnis caro: sed propter eléctos breviabúntur dies illi. Tunc si quis vobis díxerit: Ecce, hic est Christus, aut illic: nolíte crédere. Surgent enim pseudochrísti et pseudoprophétæ, et dabunt signa magna et prodígia, ita ut in errórem inducántur – si fíeri potest – étiam elécti. Ecce, prædíxi vobis. Si ergo díxerint vobis: Ecce, in desérto est, nolíte exíre: ecce, in penetrálibus, nolíte crédere. Sicut enim fulgur exit ab Oriénte et paret usque in Occidéntem: ita erit et advéntus Fílii hóminis. Ubicúmque fúerit corpus, illic congregabúntur et áquilæ. Statim autem post tribulatiónem diérum illórum sol obscurábitur, et luna non dabit lumen suum, et stellæ cadent de cælo, et virtútes cœlórum commovebúntur: et tunc parébit signum Fílii hóminis in cœlo: et tunc plangent omnes tribus terræ: et vidébunt Fílium hóminis veniéntem in núbibus cæli cum virtúte multa et maiestáte. Et mittet Angelos suos cum tuba et voce magna: et congregábunt eléctos eius a quátuor ventis, a summis cœlórum usque ad términos eórum. Ab árbore autem fici díscite parábolam: Cum iam ramus eius tener fúerit et fólia nata, scitis, quia prope est æstas: ita et vos cum vidéritis hæc ómnia, scitóte, quia prope est in iánuis. Amen, dico vobis, quia non præteríbit generátio hæc, donec ómnia hæc fiant. Cœlum et terra transíbunt, verba autem mea non præteríbunt.” [In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Quando vedrete l’abominazione della desolazione, predetta dal profeta Daniele, posta nel luogo santo: chi legge comprenda, allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano ai monti, e chi si trova sulla terrazza non scenda per prendere qualcosa in casa sua, e chi sta al campo non torni a pigliare la sua veste. Guai poi alle donne gravide e a quelle che in quei giorni allattano. Pregate che non abbiate a fuggire d’inverno, o in giorno di sabato, poiché allora sarà grande la tribolazione, quale non fu dal principio del mondo sino ad oggi, né sarà mai. E se quei giorni non fossero accorciati, nessun uomo si salverebbe, ma quei giorni saranno accorciati in grazia degli eletti. Allora, se alcuno vi dirà: Ecco qui o ecco là il Cristo: non credete. Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti: e faranno grandi miracoli e prodigi, da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l’ho predetto. Se quindi vi diranno: Ecco è nel deserto, non uscite; ecco è nella parte più riposta della casa, non credete. Infatti, come il lampo parte da Oriente e brilla fino ad Occidente: così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Dovunque sarà il corpo, lí si aduneranno gli avvoltoi. Ma subito dopo quei giorni di tribolazione si oscurerà il sole, e la luna non darà più la sua luce, e le stelle cadranno dal cielo, e le potestà dei cieli saranno sconvolte. Allora apparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo: piangeranno tutte le tribù della terra e vedranno il Figlio dell’uomo scendere sulle nubi del cielo con grande potestà e maestà. Egli manderà i suoi Angeli con la tromba e con voce magna a radunare i suoi eletti dai quattro venti, da un’estremità all’altra dei cieli. Imparate questa similitudine dall’albero del fico: quando il suo ramo intenerisce e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina: così, quando vedrete tutte queste cose sappiate che Egli è alle porte. In verità vi dico, non passerà questa generazione che non siano adempiute tutte queste cose. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole no.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XXIV, 15-35)

Giudìzio Finale.

Il giudizio universale, che ci dipinge con i più tetri colori l’odierno Vangelo, vien predetto da Gesù Cristo e stabilito alla fine del mondo, affinché la sentenza, da Lui pronunziata in segreto nel giudizio particolare all’istante della morte, sia palese agli angeli ed agli uomini al cospetto di tutto il mondo. Vuole in quel terribile giorno, che giorno dai profeti si appella d’ira, di tribolazione, d’angustia, di calamità, di misericordia, di tenebre, di caligine, e di vendetta; vuole, dissi, che la sua giustizia sia pubblicamente riconosciuta dai buoni, e dai malvagi, vuole che il corpo partecipi dei beni e de mali dell’anima, abbia la sua ricompensa o il suo castigo, vuole in fine al presente con questo minacciato giudizio finale atterrire i malvagi, confortare i buoni e per gli uni e per gli altri giustificare la sua provvidenza. Son questi i punti che scelgo a materia e partizione della presente Omelia: e senza più trattenervi in lungo preambolo dico: Giudizio universale di Dio terrore degli empi, giudizio universale di Dio, conforto dei giusti, giudizio universale di Dio giustificazione di sua provvidenza. L’importante argomento tutta si merita la vostra attenzione.

1 –  Giudizio universale di Dio terrore degli empi. – Lo so che quanto l’empietà è più inoltrata tanto meno crede e tanto meno teme le divine minacce. Ma che pro il credere, che pro  il non credere, che pro il non temere, se appunto per questo si rinnoverà in essi la luttuosa catastrofe avvenuta ai loro simili nei tempi di Noè? Dai palchi dell’Arca che egli andava fabbricando, io son d’avviso che più d’una volta alzasse la voce e, “verrà un giorno, dicesse ai curiosi spettatori, verrà un formidabile giorno, in cui aperte le cateratte del cielo cadranno le acque a vendicar le vostre colpe, a spegnere le fiamme impure della corrotta vostra generazione, acque micidiali, acque che tutte allagheranno orribilmente la terra, e voi, cercando invano sui più alti monti scampo e salvezza, sarete tutti sommersi nell’onde sterminatrici d’un universale diluvio. Aveva un bel gridare il buon patriarca, a quella minacciosa predizione, a quel funestissimo annunzio niun si commosse, e ben lontani dal crederlo, fu preso in derisione il salutevole avviso: né pur ai fatti s’arrese quella cieca gente, e vide colla massima indifferenza arrivar le tigri, i leoni, gli elefanti, ingombrar l’aria e la terra bestie d’ogni pelo, uccelli d’ogni piuma e tutti ricoverarsi in seno all’Arca. – Cristiani ascoltanti, “sìcut in dìebus Noe, ita erit adventus filii hominis” (Matt. XXIV, 37). Verrà un giorno somigliante al tempo di Noè, in cui il figliuol dell’uomo Cristo Gesù in aria di tremenda  Maestà, preceduto dal segno trionfale della sua Croce, seduto sopra luminosa nube, in contegno di Giudice inesorabile, discenderà dal Cielo, giorno estremo di tutti i giorni, in cui pioverà fuoco dal cielo e tutta ridurrà in cenere la faccia della terra, giorno in cui la maggior parte degli uomini sarà sommersa in un diluvio d’eterno fuoco. “Sicut in diebus Noe, ita erit adventus filii hominis”. Or chi mi ascolta? Il mondo, il gran mondo nè pur vi pensa, o come di cosa lontana né si risente, né si commuove, e l’empio giunto al profondo dell’empietà non crede, non teme e se la passa con un disprezzo. “Impius, cum in profundum venerit peccatorum, contemnit (Prov. XVIII, 3). Ma questo non temere, direi ai miscredenti, se mi ascoltassero, questo disprezzare è appunto il colmo della vostra cecità e il contrassegno più certo che sopra di voi cadrà quel fulmine che non temete. Non temettero gli antidiluviani il minacciato universale eccidio e vi restarono sommersi. Ma che dissi, non temete? Affettate dì non temere, e quanto più ostentate trepidezza e bravura, tanto più scoprite il vostro spavento. Un ente di ragione, una cosa seconda voi non esistente e che non esisterà giammai, non deve formare il soggetto dei vostri pensieri, nè dei vostri discorsi, né dei vostri scherni, ma voi studiando ragioni a non credere, cercando motivi a non temere, ma voi impugnando in voce, in iscritto le verità rivelate, e spogliando gli inconcussi  argomenti che le convalidano con un disprezzo autorevole, date a conoscere che in far tutto ciò avete dell’interesse, che riguardate la religione come nemica, e come tale la fate scopo delle vostre saette e delle vostre irrisioni: segni evidentissimi che vi spaventa e che la temete appunto per questo che non volete temerla. – Temete pure e non aspettate a temere in faccia alla morte. Tanti increduli pari a voi, e di voi più intrepidi in vita, han fatto impallidire la Filosofia del secolo , e al punto estremo chi s’è ricreduto, chi s’è stretto al Crocifisso, chi ha chiamato i sacerdoti prima vilipesi, chi ha invocato i soccorsi della religione prima perseguitata. Né crediate che questi infelici fossero in vita senza spavento. La gioventù, la sanità, i piaceri, le passioni sopivano i reclami della sinderesi che più vivamente si facevano sentire al primo mal di capo, alla prima febbre, alla prima disgrazia. – Disingannatevi dunque, o spiriti di questo secolo che vantate fortezza, che con tutti gli sforzi dell’intelletto e della volontà non riuscirete giammai a far tacere i latrati della rea vostra coscienza che a vostro dispetto parla, vi punge, vi condanna e vi minaccia un giudizio appena morti, un giudizio nella consumazione dei secoli.

II. Voi sì che siete comprese da timore, ma da timor salutare, o anime giuste, in pensare quale sarà la vostra sorte in quel gran giorno, se colle pecorelle innocenti, o coi capri lascivi, se alla destra cogli eletti, o alla sinistra coi reprobi. Confortatevi però, il temer Dio ed i rigori della sua giustizia è proprio dei santi. Tremava per l’orrore un S. Girolamo al rammentare il finale giudizio, e gli pareva sentirsi rimbombare all’orecchio le squillo dell’angelica tromba, che sveglierà tutti i morti e li chiamerà ad esser giudicati nella gran valle. Tremava un S. Cipriano gran santo anche senza il martirio, e guai a me, diceva piangendo, quando dovrò comparire al giudizio! Temete ancor voi anime buone, che il vostro timore si deve cangiare in conforto. Chi salvò Noè colla sua famiglia? Il timore del creduto divino castigo: per questo esso, i figli suoi e le rispettive consorti si mantennero giusti e a Dio fedeli, e in seno all’arca benedissero Dio che li salvò. – Cristiani timorati, voi al presente siete derisi dal mondo, la vita devota che menate è riputata stoltezza, in quel giorno si cangerà linguaggio; e noi, diranno i vostri derisori, noi fummo gli stolti, noi gli insensati, “nos insensati vitam illorum æstimabamus insaniam(Sap. V, 4-5) , ci pareva loro condotta zotica, disonorata, “et finem illorum sine honore; ed eccoli ora nel numero dei figliuoli di Dio, “ecce quomodo computati sunt inter filios Dei”. Voi vedove desolate, voi pupilli oppressi, voi poveri abbandonati, ridotti nelle più strette angustie da prepotenti, da liti ingiuste, da usurarie estorsioni, voi spogliati dei vostri averi, voi defraudati de’ vostri sudori, starete in quella valle in luogo di sicurezza, stabunt justi in magna constantia adversus eos qui se angustiaverunt et abstulerunt labores eorum” (V. 1), e i vostri oppressori tremeranno in alzare a voi lo sguardo, inorriditi, confusi e disperati per l’imminente perdita di loro eterna salute, videntes turbabunlur timore horribili … in subitatione insperatæ salutis(v. 2).

III. Seguite ad ascoltarmi, o anime giuste, ed ammirate la divina Provvidenza che nel giustificare sé stessa vi porge nuovi conforti. Un giudizio particolare al fin dei nostri giorni deciderà di nostra eterna sorte. Così c’insegna la Fede. Dunque qual necessità d’un giudizio universale alla fine del mondo? Per molte ragioni, risponde l’Angelico S. Tommaso: basti indicarne una sola al nostro proposito. La divina Provvidenza viene sovente incolpata, e sulle lingue cristiane s’ascoltano talvolta certe tronche parole, certe mal misurate esclamazioni che s’accostano alla vera bestemmia. “O Signore, dice taluno, dov’è la vostra Provvidenza? L’empio è esaltato come i cedri del Libano, e l’uomo dabbene è depresso come il fango delle piazze; trionfano i malvagi, gemono i buoni. Sfoggia da grande il ladro civile, l’uomo onesto è quasi sempre povero. Par che convenga esser iniquo per esser fortunato. Santa fede! Divina Provvidenza! Ohimè ch’ io vacillo. Così si parla di quell’altissima Provvidenza, di cui s’ignorano le tracce ammirabili. E vero che la Provvidenza stessa anche su questa terra le tante volte giustifica sé medesima e fa vedere che la prosperità dei malvagi è come polvere in faccia al vento, che il peccato non fa fortuna, che le Giezabelle non vanno sempre in gala, che gli Acabbi non sempre godono l’altrui, che i Nabbucchi non sono sempre adorati, che gli Epuloni non siedono sempre a convito; ma è vero altresì che la Provvidenza medesima, vuole al cospetto dell’universo far a tutti conoscere la somma equità e l’inscrutabile sapienza, con cui ha governato l’umane cose; ha perciò stabilito un giorno d’universale sindacato, un giorno di giustificazione per sé, di premio per i buoni, di castigo per i malvagi.Non vi meravigliate più dunque, o fedeli, veder talvolta oppresso il giusto, prosperato il miscredente: poiché dopo il breve corso di questa vita, alla fine di tutti i giorni si vedrà che il sommo Iddio con provvido e sapiente consiglio ha permessa la persecuzione de’ tiranni per conoscere la pazienza de’ Martiri. Si vedrà ch’Egli ha provato i suoi eletti, come l’oro nel fuoco per renderli più puri per virtù, più ricchi per merito: che per l’opposto ha permesso l’esaltazione degli empi, per temporanea mercede di qualche naturale virtù, riservati al giorno delle vendette come vittime coronate di fiori, destinate alla scure.E per finire là onde cominciai, non abbiamo l’esempio assai luminoso nella persona del Patriàrca Noè e in quella de’ scioperati spettatori della sua Arca? Veniva? Veniva; riflette S. Agostino, deriso Noè come uomo di buona pasta. Chi lo tacciava di semplice, chi d’illuso, perché sull’idea d’un futuro andava con tanto zelo fabbricando quella macchina che non vedeva mai fine; ed egli sopportando in pace le derìsioni, le beffe attendeva infaticabile al suo lavoro e all’adempimento del divino comando: quegli in ozio, in conviti, in amori; Noè in travaglio, in pazienza , in sudori; quegli intenti a goder del presente; Noè applicato a provvedere al futuro. Intanto chi l’indovinò? Chi colse nel punto? Uno sguardo su quell’acque mortifere che tutta hanno allagata la terra, sulle quali galleggiano i gonfi cadaveri dei derisori del buon Patriarca.Un altro sguardo a Noè, egli salvo fra un mondo perduto benedice Iddio che lo salvò, benedice il sudore che sparse, la fatica che sostenne, la pazienza che praticò. Uditori miei cari, applicate la facile immagine. Quel che avvenne nei giorni di Noè, avverrà nel dì finale quando a giudicare la terra discenderà dal cielo l’Uomo-Dio Cristo Gesù “Sicut in diebus Noe, ita erit adventus Filii hominis”. Staranno i giusti nella gran valle in luogo di sicurezza, come da un’arca di salute vedranno il naufragio dei miseri loro persecutori, “Stabunt iusti in magna constantia adversus eos, qui se angustiaverunt”. Vedranno gli empi con occhio livido l’altrui fortuna e inutilmente si rideranno sulla propria sciagura.Peccator videbit et irascetur, denti bus suis fremet et tabescet ( Ps. III, 10). Giudicate or voi da qual parte sarà meglio trovasi in quel giorno, se con Noè e con i giusti , o con gl’increduli e coi perversi.

 Credo

Offertorium
Orémus
Ps 129:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine. ,[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta
Propítius esto, Dómine, supplicatiónibus nostris: et, pópuli tui oblatiónibus precibúsque suscéptis, ómnium nostrum ad te corda convérte; ut, a terrenis cupiditátibus liberáti, ad cœléstia desidéria transeámus. [Sii propizio, o Signore, alle nostre súppliche e, ricevute le offerte e le preghiere del tuo popolo, converti a Te i cuori di noi tutti, affinché, liberati dalle brame terrene, ci rivolgiamo ai desiderii celesti.]

Communio
Marc 11:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.
[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato]

Postcommunio
Orémus.
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine: ut per hæc sacraménta quæ súmpsimus, quidquid in nostra mente vitiósum est, ipsorum medicatiónis dono curétur.
[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore: che quanto di vizioso è nell’ànima nostra sia curato dalla virtú medicinale di questi sacramenti che abbiamo assunto.]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO : L’ELEZIONE DEL ROMANO PONTEFICE

L’ELEZIONE DEL ROMANO PONTEFICE

[«Renovatio», VII (1972), fasc. 2, pp. 155-156.]

 Molti, troppi, hanno parlato a proposito e, soprattutto, a sproposito della futura elezione del Romano Pontefice, ossia della legge che ordina il Conclave. E evidente che si è cercato di fare una pressione, assolutamente impropria, per far accettare criteri nuovi e discutibilissimi nell’elezione papale. La questione è di estrema gravità e pertanto la nostra rivista ritiene di doverne parlare. Chiunque voglia porre il problema di una riforma del Conclave deve aver presente che questa compete solo alla autorità suprema nella Chiesa e che pertanto gli eventuali interlocutori, quando propongono riforme, debbono tener conto di questo principio. – Vediamo l’aspetto teologico di fondo. Il Concilio Vaticano nel canone, che segue il capitolo secondo della bolla Pastor Æternus, così recita: «Si quis ergo dixerit non esse ex ipsius Christi Domini institutione seu jure divino ut beatus Petrus in primatu super universam Ecclesiam habeat perpetuos successores, aut Romanum Pontificem non esse beati Petri in eodem primatu successorem, anathema sit» (D. S. 3058). Il che significa che al vescovo di Roma spetta la successione di Pietro. Se la successione tocca al Vescovo di Roma, e non ad un altro, ciò significa il legame assoluto tra l’episcopato romano e la successione petrina. Se ne deve inferire logicamente e necessariamente che il Papa è tale perché è Vescovo di Roma. Questo vincolo causale tra l’episcopato romano e la successione petrina diventa più chiaro se si legge tutto il capitolo secondo della citata costituzione (D. S. 3057); diventa chiarissimo se si attende a tutta la Tradizione e specialmente alla tradizione primitiva, quella che risente con immediatezza e certezza delle disposizioni prese dal Principe degli Apostoli. Infatti Clemente (secolo primo) interviene fortemente nella Chiesa di Corinto con una lunghissima e solenne lettera, mentre è ancor vivo e geograficamente più vicino l’apostolo Giovanni, in nome della Chiesa romana. E evidente che egli ritiene desumere dalla sua sede episcopale il potere di occuparsi della lontana Chiesa di Corinto, sulla quale poteva intervenire unicamente come Pastore Universale, trovandosi Corinto ben fuori della dizione romana. Lo stesso modo di esprimersi di Clemente hanno i due grandi testimoni della primissima età, Ignazio d’Antiochia ed Ireneo, nei testi notissimi. – Ciò premesso, non si capisce come teologicamente si possa sostenere una separabilità del Primato nella Chiesa dalla Sede Vescovile romana o negare con fondamento che la Sede Romana sia essa il titolo giuridico della successione a Pietro. – Messo in chiaro l’aspetto teologico fondamentale, non è affatto ozioso considerare la logica che Cristo ha messo nella sua Chiesa. Vi è un Primate, vi sono Vescovi successori degli Apostoli che sono tali per Diritto Divino nel quadro della cattolicità del collegio e del diritto del Primate. Cellule costitutive della Chiesa sono le singole chiese locali, guidate da un successore degli Apostoli. Tutti i fedeli fanno parte della Chiesa, ma la ragione immediata della sua unità e cattolicità sta nelle chiese particolari sotto Pietro. L’errore che si fa da molti, e lo si è visto bene nelle recenti e non sempre ortodosse diatribe sulla «Lex fundamentalis», è proprio quello di assimilare la divina costituzione della Chiesa ad una qualunque costituzione degli Stati. L a prima è assolutamente unica ed è inimitabile, come altre cose nel seno della Chiesa. Appare chiaro quindi perché Cristo abbia affidato il primato a Pietro e perché questi lo abbia esercitato e lasciato ai suoi successori, come Vescovo di una designata cellula della Chiesa, la diocesi di Roma. – Ciò posto, nessuna idea di costituzione democratica o federalistica può affiorare quando si pone teologicamente e giuridicamente la questione della elezione del Romano Pontefice. E la Chiesa romana che deve eleggere il suo Vescovo. – Non si può trascurare l’aspetto pratico della questione, aspetto che per sua natura appartiene alla storia. – La “legge del Conclave”, alla quale si arrivò con Nicolò II nel 1059, chiuse, con la riserva del diritto di elezione ai soli Cardinali, un travaglio, talvolta umiliante, di mille anni. Si noti che i Cardinali, come tali, appartengono alla Chiesa romana e solo ad essa, in qualità di suoi Vescovi suburbicari, di suoi preti, di suoi diaconi. La ragione teologica, nella necessaria ed inevitabile riforma di Nicolò II, era perfettamente rispettata. La “legge del Conclave” poggia su due cardini: l’esclusivo diritto del Sacro Collegio e la “clausura”. Questa seconda non fu posta subito: venne in seguito per obbedire a situazioni evidenti ed a necessità gravi. I due cardini si sostengono a vicenda. E ovvio che l’elezione affidata a un corpo elettorale troppo ampio sarebbe, umanamente parlando, più difficile e più influenzabile e perciò con minor garanzia di ragionevolezza e di rispondenza ai supremi interessi della Chiesa. Soltanto con un corpo di uomini, accuratamente scelti, è possibile che nell’elezione prevalga, quanto può nelle cose umane, il criterio del vero bene. La Clausura del Conclave è ancor più necessaria; coi mezzi moderni, con le tecniche moderne, senza clausura assoluta non sarebbe possibile sottrarre un’elezione alla pressione di poteri esterni. Oggi le superpotenze (e le potenze minori) hanno troppo interesse ad avere dalla loro parte, per condiscendenza o per debolezza, la più alta Autorità morale del mondo. E farebbero tutto quello che sanno benissimo fare. Le pressioni per rovesciare la sostanza della legge del Conclave potrebbero essere guidate dalla volontà di ottenere proprio questo risultato.

(Quest’ultima precisazione del Santo Padre in esilio, quanto mai opportuna, è stata vissuta sulla propria pelle proprio durante il Conclave della sua elezione, il 26 ottobre del 1958, Conclave in cui non è stata da tutti [leggi Tisserant] osservata la clausura, e nel quale i poteri mondiali, utilizzando i massoni della quinta colonna [leggi Roncalli, Lienart, Bea & C.] hanno determinato l’elezione di un falso pontefice, molle burattino nelle loro mani, per demolire la Chiesa Cattolica e trasformarla in una “conventicola” gnostica simil-massonica che perdura tuttora nella setta vaticana del “novus ordo”, e durerà probabilmente fino a quando non interverrà l’Autorità Massima della Chiesa Cattolica, il suo Capo divino, cioè Gesù Cristo il Messia, Figlio di Dio! – Nell’augurarci che questo avvenga quanto prima, prepariamoci con preghiera perseverante chiedendo misericordia per noi, “pusillus grex”, e per i traditori usurpanti! – ndr. -).

[n.b.: Grassetti e colore sono redazionali]