IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (1)
- — Ortodossia
[Lettera pastorale scritta il 23 luglio 1963; «Rivista Diocesana Genovese», 1963, pp. 192-245.]. Introduzione e Parte Prima:
Ideali santi -A-
Cari confratelli, se le folate di vento non si seguissero incessantemente, potremmo benissimo dispensarci dal riprendere in mano la penna sul tema della Ortodossia. Ma non è così. Lo stesso nostro Santo Padre Paolo VI nel discorso dell’incoronazione ha ritenuto di dover accennare ad «errori» anche nell’interno della Chiesa. [L’ “Illuminato” antipapa, il marrano Montini, sedicente Paolo VI, sapeva bene quel che stava succedendo nella Chiesa essendo lui il principale agente di satana che doveva, mediante la sua fasulla elezione, minare dalle fondamenta la Chiesa di Cristo – sed non prævalebunt! –ndr. -]: «Noi riprenderemo con somma riverenza l’opera dei nostri predecessori: difenderemo la santa Chiesa dagli errori di dottrina e di costume, che dentro e fuori dei suoi confini ne minacciano la integrità e ne velano la bellezza…» («L’Osservatore Romano», 1-2 luglio 1963) [che spudorate menzogne –ndr. ]. Quella augusta parola l’abbiamo ascoltata con riconoscenza a Dio, perché non potevamo avere più alto incoraggiamento a perseguire il nostro dovere di «vigilanza» sulla integrità della fede e della dottrina Cattolica nella Chiesa genovese. [Questo era il tributo che il Santo Padre Gregorio XVII era tenuto/costretto a versare ai suoi carcerieri che oltretutto gli “aggiustavano” i testi per renderlo loro complice … ma il Santo Padre riesce sempre a conservare intatta la dottrina cattolica, beffando i censori … -ndr. ]. Le folate di vento ci sono. Tra i motivi per cui ci sono, dobbiamo sottolinearne uno, che più di tutti ci lascia in ansia per il giusto indirizzo del nostro clero. Scorrendo pubblicazioni anche periodiche, italiane ed estere, siamo rimasti dolorosamente colpiti dal fatto che certuni, pur non essendo Padri del concilio [il falso concilio, quello del ribaltone dottrinale! –ndr.]] anche se ecclesiastici, si sono attribuiti prerogative che solo i Padri del concilio godono, dimenticando il rispetto dovuto alla libertà della augusta assemblea e facendo oggetto non solo di ardita discussione, ma di discutibile se non erronea proposizione, materie sulle quali possono pronunziarsi solamente il romano Pontefice o il concilio. – Non solo; molti, ecclesiastici o laici, hanno creduto di poter frivolamente trattare il concilio, i suoi personaggi e gli stessi papi che si sono succeduti, con l’allegra disinvoltura, con cui talvolta il giornalismo tratta argomenti diversi da un concilio e pertanto non segnati come un concilio da divini parametri. Abbiamo letto proposizioni sapientes hæresim, erronee, spregiudicate sia per la verità, sia per i fatti dogmatici. Abbiamo avvertito acri ventate di ribellione intellettuale e morale, forse più incauta o superficiale che malvagia, dalla quale scongiuriamo ogni giorno Iddio di preservare la nostra Chiesa genovese. Chi è attento e preparato, purché libero da faziosi entusiasmi o da intenti non chiari, comprende agevolmente che un errore o un indirizzo morale non diventano veri e legittimi per il solo fatto che molti li dicano tali, approfittando del momento in cui i Pastori, veri e soli responsabili, o sono impegnati nel concilio o debbono attendere con somma solerzia ad assicurarsi la preparazione necessaria alle discussioni conciliari. I grandi transatlantici quando passano fanno sobbalzare tutte le imbarcazioni minori che si ritrovano ad essi troppo vicine. Nessuna meraviglia che lo stesso effetto possa provenire dal fatto più grande del nostro secolo. Tocca a noi dar sulla voce e mettere in guardia. – Tuttavia noi non scriviamo solo per difendere. Scriviamo anche e soprattutto per aiutare la maturazione di questi santi fermenti che le circostanze hanno additato o sottolineato, non solo come conseguenza, ma come contenuto della Redenzione stessa. Se qualche volta dobbiamo cedere allo stimolo del pianto, dobbiamo molto più sentire quanto la munifica effusione della Provvidenza autorizzi il cantico della gioia e la operosità, cui la gioia presta il suo energico impulso. Ed è per questo che prima di trattare argomenti relativi alla difesa della ortodossia preferiamo trattare argomenti nei quali è splendida la fecondità della ortodossia.
Parte prima: Ideali santi
La grande missione assegnata dalla Provvidenza a Giovanni XXIII di santa memoria, lo diciamo per quanto ce lo consente la prospettiva storica, è stata di riportare tra gli uomini un’apertura nelle loro relazioni, comprensiva, fraterna, confidente, sottolineandola come realizzabile anche là ove gli errori obiettivamente li dividono, e realizzabile, ad un certo livello morale, senza alcun danno alla stessa verità [questa è chiaramente uno forzatura imposta, anche se viene sottilmente additata l’eresia “ecumenica” e “pastorale-non dogmatica” del falso papa, il “figlio della vedova”, il 33° Roncalli, agente dei grembiulini! –ndr. ]. – Concretando di fronte al concilio questa sua missione, Giovanni XXIII [occorre aggiungere una X e farlo diventare: Giovanni XXXIII° grado – ndr. ] ha attirato l’attenzione dei cattolici e del mondo sull’ideale ecumenico e sull’ideale pastorale della Chiesa. – Noi tratteremo ora dei due argomenti e di qualche loro importante conseguenza od applicazione. Giovanni XXIII ha fornito ai due argomenti un commento con tutta la sua vita [nelle logge! –ndr. ] e crediamo che, quando si vuol sapere che cosa egli intendesse, si debba guardare stentamente a quello che ha detto, ha scritto e soprattutto ha fatto. – Della sua predicazione abbiamo avuto una documentazione press’a poco quotidiana. E una predicazione parenetica in prevalenza, coi motivi propri della predicazione di un pastore di anime saggio, concreto, affettuoso. Sono i motivi della predicazione tradizionale, quella che sempre ha formato i veri cristiani, né presuntuosi, né equivoci, né impressionati dal mondo. Soprattutto è una predicazione dalla quale è, si può dire, assente il frasario di moda convenzionale, tanto caro a non pochi nostri contemporanei [questa è il ritratto di un “vero” Papa, naturalmente, non di un antipapa: il testo “sviolinato” è chiaramente manipolato, tanto più che oggi sappiamo bene come andarono le cose in quel 26 ottobre del 1958! – ndr.] Egli, il Papa, ha sempre parlato della fede, della speranza, della umiltà, dell’obbedienza (l’aveva nello stemma) [l’obbedienza massonica – ndr.], della fedeltà, della carità. Con tono elevato, con afflato unico e con visione universale, ricevendo gente comune, sapeva parlare, in immediata comunione di anime, come avrebbe parlato loro il migliore e più santo dei parroci. Per sé tollerava gli onori, ma come rivolti al vicario di Cristo; il suo contegno rimaneva semplice, sorridente, umile, conciliante. Per la sua Roma, finché gli fu consentito, si comportò come si potrebbe comportare il Vescovo di una diocesi non grande, che ha il potere di essere in trattenimento domestico e immediato con tutti. Andò a visitare ammalati, carcerati, ospedali, parrocchie, nell’atteggiamento di un padre, senza retorica e senza recitazioni. Per questo il popolo lo comprese, lo amò, lo pianse e, credo, lo ricorderà. Nella mente di Giovanni XXIII [33° -ndr.] era inconcepibile una pastorale che fosse una sferza contro qualcuno, un ecumenismo che si staccasse dalla limpida tradizione e prassi della Chiesa, se non per valutare e rivalutare l’umiltà, il sacrificio, la comprensione e la carità. Egli non vide mai queste cose da un livello politico, ma sempre e solo sacerdotale; vorremmo aggiungere sacerdotale con quel tipico sapore che una luminosa tradizione ha reso familiare alla sua terra di origine. Bisogna mettersi al livello degli umili per capire la grande saggezza di Giovanni XXIII nella sua missione, breve, ma dal duraturo influsso. [infatti Gregorio XVII, in un momento di “libertà”, parlerà di: danni che non sarà possibile riparare prima di 50 anni!]
L’ideale ecumenico
Fino a pochi anni fa, nell’ambito della Chiesa, il termine «ecumenico» fu sinonimo di universale o cattolico e servì soprattutto a qualificare i concili generali della Chiesa stessa. Il termine «ecumenico» servì pure fin quasi ad oggi ad indicare le iniziative sorte in campo prevalentemente protestante per realizzare una certa unione tra cristiani. Il valore del termine era evidentemente diverso da quello precedente, appunto perché poteva realizzarsi con una certa unione di ristrette esigenze. Questo ecumenismo è sempre stato tollerante con idee e massime diverse e, proprio per il buon viso che faceva ad una tolleranza molto intinta di relativismo, non ebbe, se non con profonde riserve, le simpatie dei cattolici. Lo si riguardò solamente come un principio e si rimase in attesa di attuazioni migliori e più complete. Sarebbe un errore credere che questo tipo di ecumenismo goda o possa godere oggi di un giudizio stanzialmente diverso da quello che se ne dava prima. Il termine di «ecumenico» e, almeno talvolta, perfino quello di ecumenismo» hanno assunto sfumature, anzi valore più marcato e più comprensivo. Questo lo si deve alla impronta voluta per il concilio da papa Giovanni e alla elaborazione che il concetto ha avuto nel Concilio Vaticano II [il “conciliabolo” riunito per dissolvere la dottrina cattolica pian pianino, smontandola un pezzo per volta; ricordiamo solo per inciso che un tal conciliabolo era stato ampiamente scomunicato dalla celebre bolla Exsecrabilis di Papa Pio II, che commina ancora oggi, scomuniche “ipso facto”-“latæ sententiæ” a tutti coloro che, non costretti, vi hanno partecipato a qualsiasi titolo, lo hanno favorito e ne seguono i falsi e deliranti insegnamenti! –ndr.-] Così lo «spirito ecumenico» è quell’anelito che mira in concreto al maggiore incontro possibile, senza danno alla verità e con riguardo alla situazione obiettiva, coi fratelli separati, ma battezzati; all’incontro, sul terreno e sugli ideali comuni, con tutti gli uomini non battezzati. Ai primi, nulla sacrificando della verità e della dignità di quanto ha stabilito il Salvatore, va incontro con maggiore dono di virtù, senza affatto lasciar intendere che sia cessata la verità di fede sulla assoluta necessità della vera Chiesa; ai secondi va incontro con lo stesso metodo, guardandosi bene dal confermarli in posizione di indifferentismo religioso. Per gli uni e per gli altri resta spirito sostanzialmente missionario. Tanto per la precisione dei termini e dei concetti [come si vede il Santo Padre ha un concetto antitetico a quello dei modernisti conciliari! … i censori evidentemente dormivano a quell’ora! –ndr. -]. – Passiamo ora a richiamare i principi esplicitamente formulati da nostro Signore e relativi a tutta questa materia. Essi sono i seguenti. – Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla cognizione della verità. La Redenzione ha scopo e valore per tutti gli uomini. Chi vuol essere con Cristo, deve volere quello che vuole Lui. Nessuno pertanto è autorizzato a fare limitazioni o a porre restrizioni: l’afflato cristiano è di natura sua universale come universale è la caratteristica assegnata dallo stesso Vecchio Testamento al tempo del Messia. La volontà di Cristo è superiore e vince contro le passioni e le concezioni particolaristiche o di vendetta che possono avere gli uomini. Né nazione, né razza, né grado di civiltà può avere valore contro questo chiaro volere del Redentore.
– Dio, pur volendo salvi tutti gli uomini, ha condizionato la loro salvezza ad elementi precisi ed impreteribili: se ne hanno l’esercizio gli uomini debbono usare della loro libertà e con questa libertà debbono prestare ossequio a quanto ha posto come strumento necessario di salvezza: la fede, la vita coerente con la fede, la soggezione alla vera Chiesa. A nessuno di noi, neppure per misericordia, è dato di alterare quanto il Signore ha stabilito. Nulla può essere indebolito di quanto riguarda la morale, nulla svincolato di quanto riguarda la Chiesa. Il giudizio sulle situazioni soggettive dei singoli uomini è proprio di Dio, e per questo sappiamo avere Iddio mezzi per i quali possono salvarsi molti uomini che non sembrerebbero sulla via della salute. È tuttavia certo, per la verità sopra esposta, che i mezzi noti a Dio non defrauderanno mai tale regola e la attueranno sempre, anche se il modo resta a noi ignoto.
– Gesù Cristo ha dato alla sua Chiesa ed ai suoi seguaci un indirizzo dinamico; li ha voluti cioè tesi sempre alla illuminazione ed alla salute di tutte le genti (cfr. Mt. 28,19; Mc. 16,15; Lc. 24,48, At. 1,8 sgg.).
– Gesù Cristo ha promulgato la legge della carità, la quale ha per oggetto, dopo Dio e per lo stesso motivo dell’amore di Dio, tutti i fratelli. Essa ha la ricchezza con cui è possibile somministrare ogni forza ed ogni ardire per superare gli ostacoli messi dagli stessi uomini e dalle conseguenze dei loro atti, contro la possibilità o facilità di farsi amare. – Lo spirito ecumenico è così nettamente definito da Cristo e, quel che più conta, è voluto da Lui. Le conclusioni sono chiare:
– l’ideale ecumenico è del Vangelo;
– non è affatto una novità, è soltanto una ripresentazione di una verità in modo più urgente per la urgenza degli avvenimenti, che rapidi si svolgono nella storia contemporanea ed invocano con insistenza più intensa luce e più caldo amore tra gli uomini, la vita di relazione dei quali cresce e si fa pericolosa;
– l’ideale ecumenico può «ispirare» un «metodo» fatto di maggiore virtù, di più forte pazienza, di più profonda comprensione; ma non può ispirare né alterazioni della verità, né falsi concetti di tolleranza rispetto ai diritti degli uomini davanti al loro Creatore. Non si può infatti essere così infrolliti da ammettere che si debbano fare riduzioni a carico di Dio ed in favore degli uomini;
– l’ideale ecumenico è di fatto un ideale missionario, che non sottolinea solo il balzo della conquista, ma anche la serenità e la pazienza del dialogo con tutti gli uomini o fuori della Chiesa o fuori dello stesso Vangelo;
– il modo migliore per snervare l’ideale ecumenico, ideale evangelico, è quello di contaminarlo con generosità ambigue, con silenzi pericolosi, con silenzi e reticenze furbe, con tolleranze di dubbia marca, le quali appartengono assai più alla debolezza od alla scaltrezza degli uomini, che non alla chiara, forte, lealissima fedeltà dei figli adottivi di Dio. – Possiamo veramente dire che l’ideale ecumenico, quale è stato lanciato da Giovanni XXIII e sentito dal Concilio [che è esattamente l’opposto di ciò che in Santo Padre ha precisato, facendo comprendere effettivamente da che parte era, e da che parte opposta si trovano anche coloro che lo criticano ancora oggi per aver aderito all’ecumenismo, evidentemente ignorando colpevolmente ed in mala fede la posizione del Sommo Pontefice, impedito e costretto a scrivere cose che però riconduceva subito sulla linea del più rigoroso cattolicesimo, eludendo con astuzia “teologica” anche il lavoro dei censori che non hanno potuto impedire la sua perfetta adesione alla dottrina cattolica di sempre – ndr. -], ha completato l’ideale missionario, aggiornandolo secondo immutabili principi di umiltà e carità alle esigenze di tempi in cui i missionari troveranno meno selvaggi, ma maggiori complicazioni proprie del materialismo pratico ovunque diffuso. – Vorremmo riflettere molto su questo e vorremmo ci riflettessero non meno quelli che sentiranno una vocazione missionaria. Questa deve perdere l’alone di avventura romantica in un mondo sognato secondo antichi e sorpassati moduli, semplificato fino alla ingenuità. Non è certo questo il nostro argomento, ma non potevamo fingere di ignorarlo, rinunciando a richiamare al sapore «nuovo» che dovranno avere le vocazioni missionarie. Ed ecco un effetto pratico, cui per ora solo accenniamo, dell’ideale ecumenico. Il mondo intero, bisognoso di luce, di amore e di perdono, diventa componente della vera pietà cristiana, dell’orazione, della considerazione dei piccoli problemi nel proprio piccolo campo o nel proprio piccolo cenacolo. Così nella immutabile verità e nella immutabile tradizione si avrà una ricchezza nuova e necessaria; la carità ne guadagnerà una sua amplificata perfezione, perché sarà aiutata a mettere in pratica «veramente» e non solo teoricamente» il precetto di amare tutti gli uomini! E tempo che le centrali missionarie non restino isolate in grandi organismi specifici, ma siano contornate da tante piccole centrali dall’umile apparenza, quanti sono i veri adoratori di Dio in spirito e verità, riuniti in modo da essere più forti del mare. – Questo è l’ecumenismo dal volto franco senza belletti, dallo sguardo quale i deboli reclamano, portatore della vera carità di Cristo [ci sembra abbastanza per poter sbugiardare apertamente tutti i vari “Giuda”, i “soloni” modernisti o ancora i peggiori falsi tradizionalisti che unanimi, salomonicamente, emettono giudizi sul Santo Padre impedito, esiliato, dimostrando così solo la loro ignoranza profonda e la ancor più grande malafede nel sostenere le loro posizioni settarie e di comodo massonicamente conseguite! –ndr.- ]
L’ideale pastorale
L’ideale pastorale ha avuto il suo momento glorioso, ha polarizzato l’attenzione di tutto il mondo. Noi vedremo che, come si è detto per l’ideale ecumenico, anch’esso, nell’alone del Concilio Vaticano, traendo la infinita ricchezza della immutabile verità e della immutabile tradizione, ha rivelato qualcosa di nuovo. E questo che vorremmo il nostro clero cogliesse anche se talvolta questo ideale pastorale, nelle intenzioni di taluno, può aver servito scopi non precisamente pastorali e intendimenti polemici. Né l’una né l’altra intenzione furono mai nella mente di Giovanni XXIII [… c’era infatti, e putroppo, ben altro! –ndr. -]. – Chiediamoci anzitutto, per non correre sull’impreciso e sul generico, che cosa sia «pastorale», avvertendo che vogliamo sapere di un termine evidentemente metaforico e che interessa solo per quanto concerne il lavoro e il metodo dei sacri ministri di Dio. – Per rispondere non abbiamo da costruire teorie. Dobbiamo soltanto leggere l’Evangelo. Gesù Cristo ha detto di essere Lui stesso il «buon pastore» per antonomasia. Se la metafora o il traslato può dare qualche indicazione, il significato vero ce lo ha messo Gesù Cristo. Vediamo allora come Egli ha concepito se stesso quale Pastore.
– Anzitutto Egli è il «buon pastore», ossia il «buono» in modo antonomastico e non solamente epesegetico. Vi prego di calcolare la diversità che c’è tra antonomastico ed epesegetico. Se li confondessimo mutileremmo la verità e snerveremmo quello che il Salvatore ha voluto dire (cfr. Gv. X,11). Dunque la «bontà» è sostanziale carattere del pastore. Lasciamo stare i cavilli esegetici possibili. Tutti comprendono che la «bontà» è fatta di amore profondo, manifestato, concreto, efficace; che affonda le radici nella intelligenza ed impiega tutto il sentimento. Il buon pastore non deroga al diritto, perché è sacro pur quello, come non deroga all’«ordine» riflesso di Dio, ma il suo livello sta più in alto di quello del diritto e non è contenibile nelle sole norme ordinarie del diritto. Il rapporto tra il pastore e le pecorelle, non disdicendo, anzi sommando tutti gli altri giusti rapporti, sta però ad un livello più alto, più luminoso, più cordiale di tutti. La bontà vuole il bene delle persone amate e con questo sta fuori dei limiti e delle remore dell’orgoglio e dell’interesse. Essa proprio perché vuole il bene suppone la intelligenza e la verità, perché solo la verità è in grado di indicare quale sia il bene. Tanto è necessario dire perché non accada di fraintendere, in modo da ritenere che la bontà del pastore sia una somma di impulsi di benevoli istinti e di sentimenti affettuosi, senza ombra di proposizioni sicure, di canovaccio provato per l’intelletto, senza il suggello di una proporzione, quale solo la verità conosciuta è in grado di dare.
– Il pastore dà la vita per le percorelle (cfr. Gv. X,11). Questo rapporto si è realizzato in modo supremo con Gesù Cristo attraverso la Incarnazione e la Redenzione ed è rapporto di «dono» totale. Per quanto riguarda il Salvatore, la Eucarestia è la espressione continuata e commovente di quel «dono totale». Osserviamo bene che cosa vuol dire da parte di Cristo «aver dato la vita per le pecorelle». Certo si intende la sua passione in Croce, ma non solo quello. Egli ha preso sopra di sé i peccati degli uomini (cfr. Is. LII,4-6) sostituendoli nella necessaria espiazione (soddisfazione vicaria). Egli ha abbassato se stesso, umiliandosi fino alla morte ed alla morte di Croce (cfr. Fil. II,8), in una obbedienza al Padre che fu il titolo della sua vita. Egli si è fatto uomo, ossia ha fatto di se stesso quello che sarebbe stato utile ed esemplare per tutti gli uomini. Colle parole «il buon pastore dà la vita per le pecorelle», Gesù ha detto molte e grandi cose e, se queste si riflettono su altri che da Lui mutuano il carattere e l’impegno di pastori, da questi esigono grandi cose.
– Il pastore conosce le pecorelle ed è riconosciuto da esse (cfr. Gv. X,14). Qui Gesù insiste sul rapporto di conoscenza, ad indicare che non è affatto bastante un rapporto di sentimento e di utilità, comunque. Ma la reciproca conoscenza indica chiaramente il regime di affinità e di intimità instaurato da Gesù Cristo.
– Il pastore pasce (cfr. Gv. X ,1 sgg.). Ossia dà alle pecorelle il necessario alla vita. Dà il tesoro del Regno di Dio.
– La qualità di pastore è trasmessa ai capi della Chiesa. Lo indicano nettamente il discorso che Gesù ha fatto a Pietro sulle rive del mare di Galilea dopo la risurrezione (cfr. Gv. XXI) e tutta la predicazione formativa degli apostoli. Naturalmente il trasferimento del concetto di pastore agli uomini eletti a far parte della gerarchia della Chiesa implica che la ragione di pastore in questi subisce l’adattamento ai limiti umani. Ma quei limiti sono onesti solo dove incontrano l’impossibile ad un singolo uomo; prima di quel punto debbono riprodurre la figura del buon Pastore divino, come del Pastore divino prolungano la missione di salvezza. – Da quanto detto deriva che a proposito di «pastore» nella Chiesa due sono le cose da considerarsi: il modo e il contenuto. Per quanto riguarda il «modo», i princìpi sono stati enunciati abbastanza al numero precedente. Per quanto riguarda il contenuto dell’azione di «pastore» il discorso deve farsi più attento. Infatti la «pastura», il «cibo» da darsi alle pecorelle è tutto il tesoro del Regno di Dio. Questo tesoro del Regno comincia dalla «semente gettata», ossia dalla predicazione della Parola di Dio, che ha come scopo immediato di dare la fede (cfr. Mt. XIII,27 sgg.; Rm. X,17). E la fede è essenzialmente un atto di intelletto. Il «pastore» deve anzitutto dare la verità rivelata, la sua certezza, con le qualità senza delle quali non esiste né certezza, né fecondità. Se trascura il patrimonio «dato» (tradizione) da Cristo alla Chiesa nella Rivelazione, potrà – il pastore – sentirsi soddisfatto di distribuire carezze, soddisfazioni ed affetti, ma non farà certamente il suo dovere. Il pastore deve dare e facilitare alle pecorelle i mezzi della grazia. Deve dare il completamento sociale e giuridico che ai fedeli viene dalla appartenenza alla società visibile della Chiesa e che essi realizzano bene solo con l’obbedienza e la riverenza. Si tratta di un pastore che deve guidare ai campi eterni. La visione del «tesoro» che deve elargire riflette su di lui una luce ed una dimensione incredibilmente grandi e giustifica perché egli, solo in grazia di un continuo sacrificio di se stesso, quello che comincia dal celibato e si matura nella sudditanza perfetta alla sacra disciplina, è in grado di essere portatore d’un simile tesoro. A portare quel tesoro non può abilitarsi chi se ne vuol stare nella levatura del semplice laico senza mettersi al necessario livello di sacrificio del proprio io e della materia con l’accettazione umile dell’obbedienza e del celibato. E nessun laico può pretendere di sostituire, o coartare, o diminuire il pastore, per il fatto che non è consacrato. – Il vero punto sostanziale per capire il pastore e il pascolo sta nell’adeguato concetto del tesoro del Regno di Dio, nell’impegno che esso adduce, nella responsabilità alla quale lega. Insomma non c’è posto per del linfatico romanticismo. La misura del pastore resta quella del buon pastore: la Croce. Volevamo dire questo: che nel Vangelo non è solamente il «modo» quello che fa da parametro alla idea di pastore, ma ancora e ben più il «contenuto» della azione pastorale, e che il «modo stesso» – amore e sacrificio portati all’ultimo dono — viene giustificato appunto dal contenuto. – Non è possibile ritenere adeguati all’Evangelo coloro che dipingono la pastoralità come cosa estranea all’interesse per la precisione dogmatica della verità di cui nutrire le pecorelle; come non è concepibile il linguaggio di coloro i quali pare ritengano il pastore una sorta di protettore bonario e condiscendente degli uomini, messo là perché li salvi e li storni dai rigori della verità, della legge di Dio e, in sostanza, dal numero maggiore di pesi. [Penso che queste e le successine considerazioni magistrali del Sommo Pontefice, eliminino ogni dubbio sulla sua presunta “connivenza” con la “pastoralità-suina” del Vaticano II e dei suoi adepti attuali. –ndr.]. Non confondiamo il «modo» adatto per portare gli uomini alla Croce col compromesso di stornarli da essa. Il pastore ha tanto bisogno del sorriso, perché è la porta più facilmente simpatica agli uomini, ma ha molto più bisogno della forza per portare sulle proprie spalle pecorelle deboli, sperdute ed ignoranti. – Ora siamo in grado di rispondere al quesito posto. La pastoralità è la imitazione di Gesù Cristo, il buon pastore. In essa il maestro vero ed assoluto è uno solo, Lui stesso. Definire la pastoralità è facile ed il criterio evidente. La definizione non può avvalersi, quasi fossero fonte prima e decisiva, di tutti gli atteggiamenti edulcorati, remissivi, romantici, sentimentali, quali è possibile trovare nella esperienza umana. La pastoralità non è materia da trattarsi col sistema col quale le prime società di assicurazione crearono l’arte e la scienza della propaganda, ispirate al criterio di piacere alla gente perché meglio accettasse il loro retribuito servizio. – Cari confratelli, ora veniamo al pratico. Se qualcuno tra voi trascurasse il catechismo, trascurasse di battersi per dare ai suoi parrocchiani l’antidoto circa gli innumerevoli errori, potrebbe avere della popolarità e della gloria, ma sarebbe un cattivo pastore. Se qualcuno di voi curasse i propri comodi e fosse contento di adempiere la legge sì da non avere mai riprensioni canonicamente orientate e nulla più volesse fare oltre la stretta legge, non desse insomma ad oltrepassare senza misura il limite del puro dovere, – ne sia ben certo – sarebbe burocrate, forse principe munifico, ma non certamente pastore. Se qualcuno di voi abbandona indebitamente e quando può il suo posto, per attendere ad altro che non sia il suo dovere, ama le vacanze, le gite, i passatempi, giustificandoli colla necessità della variazione, sarà un uomo come gli altri, non un pastore. Ed i fedeli capiranno questo assai prima di lui. Anche se non glielo diranno in faccia. – Se qualcuno di voi si mette in testa che sono gli altri a doversi adattare a lui e non lui agli altri, e pretenderà di imporre esagerati limiti di orario per essere più libero ed esigerà riguardi costosi, esimendo se stesso dal quotidiano sacrifìcio della pazienza, del silenzio, del perdono e della fatica, anche quando le pecorelle fossero ordinate e balzane, creda pure, sarà funzionario magari degno di rispetto, ma non pastore. Se crederà di essere esentato dall’andare ai singoli e gli basterà l’altare o il pergamo; se rifuggirà dal paterno e continuo accostamento della povertà e della sofferenza, per fare una continua questione di dignità e di autorità, sarà vanesio, ma non pastore. Se qualcuno di voi dimenticasse che l’accesso alla pratica qualità di pastore gli è dato dalla perfezione e dalla elevatezza della sua vita, credendosi pastore ingannerebbe se stesso. Dio passa dappertutto, e la sua grazia può fare a meno di noi. Ma la via più ordinaria è che passi attraverso il ministero sacerdotale. Ora, ciò che nell’animo dei fedeli la porta alla fiducia ed alla stima per quel mistero, sempre pastorale, è la vita virtuosa. I fedeli debbono con evidenza constatare che i pastori sono applicati ad una vita più santa dellaloro (can. 124 CJC). Se qualcuno di voi non riflettesse bene che la qualità di buon pastore, in Gesù Cristo, porta con sé la soddisfazione vicaria e non ne deducesse che egli deve pregare, espiare e sacrificarsi per le pecorelle, sostituendole quanto è possibile nel bene che omettono di fare, limiterebbe la sua concezione di pastore a qualcosa di parziale, ossia di incompleto. Questo diviene assolutamente chiaro: l’azione di pastore non si svolge solo in quegli atti qualificati che diventano «rapporti» o «vita di relazione»; essa prende tutto, soprattutto quello che non appare alla prima nella stessa vita di relazione. E qui sta la sincerità del pastore. Il clima del Concilio Vaticano II è stato propizio a ulteriormente sviluppare la dottrina sulla pastorale, senza affatto mandarla fuori del suo alveo duraturo, che è la imitazione di Cristo sommo pastore [testo manifestamente manipolato, ma il Pontefice si era espresso già in termini chiarissimi ed inattaccabili soprattutto oggi che si notano le derive pastorali della setta del “novus ordo”, con la “sponda” dei sedevacantisti e dei gallicani fallibilisti – che ha preso il posto della Gerarchia cattolica – in cui i principi qui delineati sono desueti e profondamente calpestati! – ndr. -]. – Anzitutto si è delineata una salutare reazione all’istinto mondano. Pensiamo che più d’uno si meraviglierà di questa affermazione. So bene che molti i quali hanno parlato o scritto di pastorale qua e là in questo periodo di tempo non hanno dato grande prova di avere le idee chiare, ma ne hanno parlato e questo è l’importante: che se ne sia parlato. Perché quando un argomento entra in campo e diviene discorso comune, potrà sul principio ed in qualche angolo avere un delineamento improprio, ma dopo va avanti da sé, secondo il suo peso, la sua natura, la sua obiettiva affinità. Ora l’obiettivo peso dell’argomento pastorale pende verso la definizione che in parole e in fatti ne ha dato Gesù Cristo. Ed accade così che l’argomento pastorale e l’ideale pastorale non solo sboccano sulla giusta via, ma finiscono col richiamare ad aspetti ai quali non era data la necessaria, costante attenzione. Il grande richiamo pastorale, che lentamente acquista tutta la illuminazione dall’Evangelo, mette in rilievo la dedizione, il sacrificio, la generosità, la umiltà, la pazienza, la spiritualità soprannaturale nell’amore proprio dei pastori secondo Dio. La figura viene energicamente sbalzata e crea un contrasto. Quale contrasto? Con chi? Eccolo. Tutto si fa meccanico. Tutto disegna l’ideale della comodità come quotidiano supremo appetito. Tutto tende a materializzarsi. La missione lascia il posto volentieri al funzionariato, il mondo della libertà al mondo delle accurate e predisposte programmazioni totali, il dare al pretendere, l’uomo al robot, il dono alla retribuzione, la natura all’artificio. La grande maggioranza degli uomini si giustifica dicendo che deve farsi la propria onorata sistemazione e si direbbe che tutti dicano essere ciò giustissimo. Il mondo è «pensare a se stesso». In realtà si comporta così. Il pastore non pensa più a se stesso, allo stipendio, al mangiare, al bere, alle sue vacanze; perché egli è in atto di dare giorno per giorno, goccia a goccia la sua vita per le pecorelle. Contrasto più energico non si può immaginare. Esso porta uno dei gaudiosi segreti del sacrificio dei sacerdoti: non hanno concorrenti temibili, finché danno tutto, come il Buon Pastore. Più i sacerdoti diventano rari, più diventano preziosi e insostituibili. Operai, gente disagiata spesso a pensare a voi, al di là delle parole seducenti, rimangono solo i «pastori» e rimangono in forza di quel contrasto. Spesso non abbiamo saputo sottrarci al più sapido umorismo, voltando le proposizioni o leggendo gli epifonemi di taluno sulla pastorale. Abbiamo detto tra noi: attento, perché questa è una bomba che ti scoppia in mano. Ecco come l’aver portato in primo piano l’argomento pastorale ha messo sulla via di demarcare profondamente la reazione al modo di essere del gran mondo. Questa reazione non è ancora completa, ma temiamo che lo diventerà. I santi pregano! Si è disegnata limpidamente la «unicità» nella Chiesa del senso pastorale. Fuori della sequela di Cristo, da nessuna parte si ha il coraggio di disegnare un tale contorno per coloro che prestano a parole o a fatti il loro servizio agli altri, dal primo all’ultimo gradino della scala sociale. Questi uomini, questi pastori che unici attraversano la giungla da soli, e da soli perché accettano e conservano un celibato «onesto», che proprio perché «soli» sono in grado di sacrificare tutto anche in un istante, stagliano nel cielo! La divaricazione del carattere pastorale dall’andazzo mondano diviene naturalmente divaricazione e immunità dalla patologia del mondo. Perché patologia c’è. La troppa materia, i troppi squilibri tra impegno spirituale e terreno, le violenze fatte alla normalità biologica da estranee ragioni aumentano il contingente della anormalità. L’esame di questa non appartiene per ora al nostro argomento. Qui ci interessa solo mostrare che c’è divaricazione. – Sotto la grande luce di questa visione pastorale, noi assistiamo a questo fatto: che il vero ammodernamento della Chiesa, anche se non a tutti riesce evidente, si è messo in moto e continuerà la sua strada. – Sì. Perché l’ammodernamento non sta in una imitazione del mondo, o in un adattamento delle cose nostre al mondo, il che equivarrebbe a un tradimento nei confronti di Gesù Cristo; ma nell’aumentare la forza per controbilanciare gli errori, i peccati e le debolezze del mondo in uno slancio di amore per gli uomini, attuando coll’immutabile criterio e con nuove dedizioni la figura del pastore. Di questa figura perfetta bisogna illuminare ogni cosa nella Chiesa. – Qui il Concilio cammina da sé. È dove si sente, e non è solamente qui, l’azione dello Spirito Santo. [Continua …]