Omelia della Domenica V dopo Pasqua.

Omelia della V Domenica dopo Pasqua.

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napolitana Vol. II -1851-]

preghiera

-Preghiera-

   “Qualunque grazia voi chiederete”, cosi il divin Salvatore a’ suoi discepoli, e in persona dei suoi discepoli a noi, come leggiamo nell’odierno Vangelo, “qualunque grazia voi chiederete in nome mio all’eterno mio Genitore, senza alcun dubbio voi l’otterrete, Io ne impegno la mia parola: “Amen, amen dico vobis : si quid petieritis patrem in nomine meo, dabit vobis”. Ma voi finora non avete domandato cosa alcuna, “usque modo non petistis quidquam in nomine meo”. Via su domandate, chiedete, e v’assicuro che le vostre preghiere saranno esaudite, “petite et accipietis”. In queste divine parole traluce un lampo della divina onnipotenza, e della divina bontà: dell’onnipotenza, poiché non si restringe a quello o a quell’altro genere di grazie, ma tutte le promette Chi tutte le ha in mano, si quid petieritis”; della divina bontà, che arriva perfino a lagnarsi che non le siano chieste grazie, “usque modo non petistis quidquam”. Conviene ben dire che sia grande il desiderio del Redentor nostro di farci del bene, mentre si lagna di non esser chiesto che ci faccia del bene. Al suo desiderio si aggiunge l’intenzione della nostra madre la santa Chiesa, che in questa Domenica prossima e immediata alle pubbliche solenni preghiere, che Rogazioni si appellano, ci propone il presente Vangelo per animare la nostra fiducia, e spingerci a domandare al dator di ogni bene le grazie delle quali abbisogniamo. Seguendo ora di entrambi il desiderio e lo spirito, passo a dimostrarvi la necessità, e l’efficacia della preghiera; necessità che non può esser maggiore; efficacia, che può essere più grande, se mi accordate la solita gentile vostra attenzione.

I . La necessità della preghiera va del pari colla necessità della grazia. È certo per fede che non siam capaci del minimo atto buono in ordine alla vita eterna senza il superno aiuto della divina grazia. “Sine me…”, detto è dall’incarnata verità Cristo Gesù,“sine me nihil potestis facere(Joann.XV,5). Osservate, commenta S. Agostino, che il Salvatore non dice, senza di me potete far poco, ma nulla “non ait, quia sine me parum potestis facere, sed nihil(Tract. 81, in Joann.). Siam come tralci, che uniti alla vite producono frutto, staccati da quella sono inutili sarmenti, non ad altro uso buoni, che al fuoco.

Ammessa la necessità della grazia, stabilisce la necessità della preghiera. Trovatemi un uomo, scrivea S. Girolamo contro i Pelagiani, che non abbia bisogno di grazia, ed io vi dirò che neppur abbisogna di preghiera. Iddio, secondo la dottrina de’ Santi Agostino, Tommaso, Crisostomo, Damasceno, ha determinato fin dall’eternità di dar all’anime le grazie necessarie alla loro eterna salute, non per mezzo, che per quello dell’orazione. Nella stessa guisa che la sua provvidenza à stabilito, che la terra abbondasse di frumento e di ogni altro frutto, mediante però l’opportuna coltura. Si eccettuano, soggiunge S. Agostino, due sole grazie eccitanti, che, come una pioggia volontaria, vengono in noi senza di noi, qual sono la chiamata alla fede e alla penitenza. Tutte le altre però in noi derivano non da altro canale, che dalla preghiera. Che cosa dice nell’ odierno Vangelo l’amorosissimo nostro Salvatore: domandate, e vi sarà dato “petite, et accipietis”. La grazia mia è sempre pronta, purché preceda la vostra domanda. “Petite”, ecco la condizione, “accipietis”, ecco la grazia. Volete la grazia? Adempite la condizione, senza di questa non potete sperarla. La preghiera è la chiave de’ celesti tesori; questi saran sempre chiusi per chi non adopera la chiave ad aprirli. Ed ecco il perché, soggiunge l’Apostolo S. Giacomo, siete poveri, e mancate delle grazie, che Iddio vi tien preparate, perché non vi curate di farne richiesta, “non abetis propter quod non postulatis( Joann. IV, 2). Come campan la vita i poveri mendicanti? Col chieder pane alla porta de’ facoltosi. E noi, dice S. Giovanni Crisostomo, siamo poveri pezzenti, che dobbiamo alla porta del Padre celeste, ricco in misericordia, chieder soccorso, se non vogliamo morire d’inedia.

Premurosa di nostra salvezza Cristo Signore rinnova l’avviso, “oportet semper orare, et nunquam deficere” (Luc. XVIII). Notate la forza del termine “oportet”, fa d’uopo, bisogna pregar sempre, e mai cessare dalla preghiera; perché, al dire dell’angelico S. Tommaso, la preghiera è necessaria all’anima, come al corpo il respiro. Non già che si debba in ogni momento occupare la lingua o il cuore in orazione continua, indefessa; ma l’enfatica espressione prova la necessità: il modo poi va inteso, come chi dicesse: bisogna sempre cibarsi, vale a dire a dati tempi. Per simil modo si può dire che uno preghi sempre, se in date ore costantemente si eserciti in cristiane preghiere, come appunto facea il Profeta Daniele, che in tre diverse ore del giorno avea il religioso costume di raccogliersi alle sue stanze, e far la sua orazione adorando il Dio d’Israele.

Posta ora e provata la stretta e rigorosa necessità della preghiera, quanto dovrà compiangersi la negligenza di tanti cristiani, che passano i giorni e i mesi senza raccomandarsi a Dio! È sentenza de’ Padri e teologi, che l’omissione della preghiera per un tempo notabile non va esente da colpa mortale; perciocché la preghiera è necessaria a salvarsi per i due più precisi motivi di necessità di precetto, e necessità di mezzo. Come dunque potranno sperare la loro salvezza quei che non adempiono questo precetto, quei che non adoprano questo mezzo? Quei che vanno abitualmente al riposo senza un segno di croce, e vi ritornano senza un segno di cristiano? Quei che credono di pregare masticando preci e rosari col sonno agli occhi, colla distrazione della mente, coll’allontanamento del cuore? Sono costoro in maggior pericolo di dannazione di chi affatto non prega. Chi non prega sa di esser colpevole, e questa cognizione può giovargli all’emenda; ma chi, pregando colla sua lingua, crede di pregar bene, non conoscendo la propria colpa, il suo inganno lo lusinga, lo accieca, lo rende incapace a rimedio.

II. Se tanta è la necessità della preghiera, non minore è la sua efficacia. La preghiera, dice S. Ilario, fa al cuor di Dio una dolce violenza, “Oratio pie Deo vim infert”. E d’onde prende ella mai la sua forza? Da tre capi: dalla bontà di Dio, dalla parola di Gesù Cristo, e dalla nostra cooperazione. Dalla bontà di Dio, primamente. Di questa udite come parla il nostro divin Salvatore. Se ad un padre terreno domanda pane il proprio figlioletto, invece di pane gli presenta forse una pietra? Se gli chiede un pesce, gli da forse un serpente? Se un uovo, gli porge forse uno scorpione? Se dunque voi, che siete una razza cattiva, vi sentite muovere il cuore a donare a’ vostri figli quel che vi chiedono, quanto più il Padre mio, la cui natura è bontà, accorderà alle vostre suppliche lo spirito di perseveranza se siete giusti, lo spirito di penitenza se peccatori, in somma tutte le grazie più opportune e necessarie alla vostra santificazione e salvezza? “Quanto magis Pater vester de coelo dabit spiritum bonum petentibus se”? ( Luca XI) .

In cento luoghi delle Scritture sacre si protesta il nostro buon Dio che ascolterà le nostre voci, che accoglierà le nostre istanze, che si moverà a’ nostri clamori, che aprirà le sue orecchie, che stenderà la sua destra a nostro sollievo. Eccovi un tratto, dice il re Profeta, della gran bontà del suo cuore. La sua provvidenza si estende fino ai pulcini del corvo, allorché sono da’ loro genitori abbandonati. Al veder le aperte lor bocche fameliche, al sentir le querule strida, fa che si aggiri intorno al nido una turba foltissima di moscherini, dei quali con piacer si alimentano. Sia o non sia ciò che ci narrano gl’indagatori della natura, il vero si è che essi L’invocano, ed Egli li pasce, “dat escam pullis corvorum invocantibus eum” [Psal. CXLVI,10]. Se dunque da Dio pietoso si ascoltano le voci d’ignobili animalucci, con quanta maggior bontà darà ascolto alle preghiere di noi, che siam suoi figliuoli, se Gli chiederemo il cibo vivifico della sua grazia?

Dalla parola di Gesù Cristo in secondo luogo prendono la loro efficacia le nostre preghiere. Con una specie di giuramento Ei ci assicura che qualunque grazia imploreremo in suo nome dal suo celeste Genitore, ci sarà infallibilmente concessa. “Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vabis” [Joann. XIII, 38]. Alla parola di tanta sicurezza aggiunge l’invito ch’Egli ci fa nelle più pressanti maniere di pregare, e non cessar di pregare. Domandate e vi sarà dato, “petite , et dabitur vobis”, cercate e ritroverete, “quaerite, et invenietis, battete alla porta della divina clemenza, e vi sarà aperto, “pulsate, et aperietur vobis”. Che più si desidera per esser certi che le nostre suppliche avran favorevol rescritto?

Ma le nostre preghiere, dicon certe anime timorate, sono fiacche, sono deboli, sono di niun valore. Non temete, purché partano dal vostro cuore, purché fatte in nome di Gesù Cristo saranno a Dio accettevoli e care. Le nostre preghiere si possono rassomigliare, con S. Giovanni Crisostomo, a quelle monete, delle quali parla Seneca, monete di cuoio e di legno, a’ tempi degli antichi Romani. Avvi cosa più abbietta di un pezzo di cuoio o più meschina di un pezzetto di legno? Pure, perché corredate della impronta di Numa Pompilio imperatore, avean corso e valore in tutto l’impero. Non altrimenti son miserabili le nostre preghiere, son di niun prezzo; ma fatte in nome di Gesù Cristo acquistano con questa impronta prezzo, virtù ed efficacia. Ed è perciò che la Chiesa, inerendo alle parole del Salvatore, che in suo nome saran da noi richieste le grazie, “in nomine meo”, conchiude tutte le sue orazioni, dirette all’eterno Padre, con quella nota formola : “Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum”.

La nostra cooperazione in fine si richiede per rendere a Dio accetta e a noi vantaggiosa la preghiera. Tre condizioni devono accompagnarla: l’umiltà, la fiducia, e la perseveranza. L’orazione di un’anima umile penetra i cieli, “oratio humiliantis se nubes penetrabit” (Eccli. 32, 21), e presentandosi al divino cospetto, di là non parte senza che Dio l’accolga e l’esaudisca, “et non discedet, donec Altissimus aspiciat”. Ne abbiamo l’esempio nel Pubblicano, che in fondo del Tempio, umiliato, confuso non ardiva alzar gli occhi da terra, e unendo alla preghiera la confessione di esser egli peccatore, venne esaudito e giustificato.

   All’umiltà va congiunta la fiducia. Chi pregando ha il cuor titubante, e l’animo diffidente, è simile, dice S. Giacomo, ai flutti del mare agitato da’ venti; non isperi costui di cosa alcuna dal Signore. La confidenza, miei cari, la fiducia deve animare il nostro cuore pregando. A farne conoscere l’importanza il divin Salvatore, prima di far quelle grazie prodigiose a sollievo de’ peccatori e degl’infermi, esigeva da loro questa fiducia e confidenza. “Confide, fili,” disse al paralitico “remittuntur tibi peccata tua”; “confide filia, disse all’Emorroissa; così al cieco di Gerico, così a tanti altri, alla confidenza de’ quali assegnava la causa degli ottenuti prodigi. E come possiamo temere, interroga S. Agostino, che Iddio ci neghi quel ch’egli stesso ci esorta a domandare? “Hortatur ut petas, negabit quod petis”?

La perseveranza finalmente è l’importantissima condizione per rendere efficaci le nostre preghiere. Giuditta, ispirata da Dio a liberar la sua patria, cominciò la grande impresa colla preghiera, proseguì colla preghiera, e nell’atto di troncar il capo ad Oloferne, accompagnò il colpo con fervorosissima preghiera. La Cananea, perché, non ostante le replicate ripulse, perseverò a chiedere al Salvatore la grazia per l’ossessa sua figlia, fu finalmente esaudita e consolata. Gli Apostoli nel cenacolo, perché “perseverantes in oratione”, ricevettero lo Spirito Santo. Se la nostra orazione sarà perseverante, la divina misericordia ci sarà sempre propizia. La perseveranza finale, che è la corona di tutte le grazie, sebbene non si possa meritare “de condigno”, come ha definito la Chiesa nel Concilio Tridentino, pure Iddio non la nega a chi è assiduo e perseverante in domandarla. Io vorrei, scrive fa un dotto zelantissimo autore (il Segneri), poter dar fiato ad una tromba, come quella che si farà sentire per l’universo nel giorno estremo, e gridar forte a tutti, pregate, raccomandatevi; raccomandatevi, pregate, se volete salvarvi. Altrettanto dicea e lasciò scritto S. Alfonso de Liguori: “se potessi parlare a tutt’i predicatori e confessori del mondo, vorrei dire loro: “Fate ben penetrare nella mente a nel cuore de’ vostri uditori e penitenti questa gran massima: “Chi prega si salva, e chi non prega si danna”. Udiste, fratelli amanissimi, il modo con cui si dee pregar sempre, cioè con umiltà, con fiducia, con perseveranza: mettetelo in pratica, e sarete salvi!

La vera carità

LA VERA CARITA’ 

   Taluni si lamentano che a volte, anche in questo umile ed insignificante blog, si usino espressioni forti nell’attaccare apostati, eretici, falsi tradizionalisti, maschere carnevalesche e marrani incalliti. A costoro, chiaramente in malafede, noi non possiamo rispondere, non ci sentiamo in grado di farlo, vista la nostra infima statura culturale e la scarsa capacità oratoria. Però, grazie a Dio, c’è chi lo ha già fatto per noi, per cui ci limitiamo a ricopiare fedelmente alcuni capitoli dell’opera di Felix Sarda y Salvany del 1884 “El liberalismo es pecado”! È una musica celestiale per le orecchie di un cattolico!

N.B.:al termine “liberale”, possiamo sostituire: “apostata modernista”, o se preferite: “esponente della setta ecumenista-mondialista” … fate voi!

 liberalismo

-Cap. XXI-

La sana intransigenza cattolica opposta alla falsa carità liberale

   Intransigenza! Intransigenza! Io sento una parte dei miei lettori più o meno intaccati dal liberalismo lanciare queste grida dopo la lettura del capitolo precedente. Che maniera poco cristiana di risolvere la questione, dicono!

I liberali sono, si o no, il nostro prossimo, come gli altri uomini? Con tali idee dove andremo? È mai possibile proporre con una simile impudenza la condanna della carità!

“Siamo al punto, infine!” Noi grideremo a nostra volta. Ah! Ci si getta sempre in faccia questa pretesa nostra mancanza di carità. Ebbene! Poiché è così, noi risponderemo nettamente a questo rimprovero che per molti, riguardo a questo soggetto, è un grande cavallo di battaglia. E se non lo è, perlomeno serve da paraurti ai nostri nemici, e, come ha detto con grande spiritualità un autore, obbliga gentilmente la carità a servire da barricata contro la verità. Ma, prima di tutto,

cosa significa la parola carità? 

   La teologia cattolica ne dà una definizione tratta dall’organo più autorevole per l’insegnamento al popolo, il Catechismo, così pieno di saggezza e di filosofia. Ecco questa definizione: “la carità è una virtù soprannaturale che ci inclina ad amare Dio sopra ogni altra cosa e il prossimo come noi stessi per amor di Dio”. Così, dopo Dio, noi dobbiamo amare il prossimo come noi stessi, e ciò, non in una qualsiasi maniera, ma per l’amore che portiamo a Dio e per obbedienza alla sua legge.

E ora, che cosa significa amare?

   Amare è volere il bene, risponde la filosofia, “amare, è volere il bene per colui che si ama”. A chi la carità comanda di voler bene? Al prossimo! Cioè non a tale o tal altro uomo solamente, ma a tutti gli uomini. E quale è questo bene che bisogna volere perché ne risulti un vero amore ? Prima di tutto, il bene supremo, che è il Bene soprannaturale; immediatamente dopo i beni nell’ordine naturale, che non siano incompatibili con esso. Tutto ciò si riassume nella frase: “per l’amore di Dio” e in mille altre il cui senso sia lo stesso.

Ne consegue che si può amare il prossimo, bene e molto, sia facendogli dispiacere, sia contrariandolo, oppure causandogli un pregiudizio materiale o perfino in certe occasioni privandolo della vita.

Tutto si riduce, insomma, a esaminare se in tutti questi casi si operi, sì o no, per il suo bene proprio, per il bene di qualcuno i cui diritti sono superiori ai suoi, o semplicemente per il più grande servizio di Dio.

1°)– Per il suo bene. – Se è dimostrabile che dispiacendo al prossimo, offendendolo, si sia agito per il suo bene, sarebbe evidente che noi lo amiamo, anche nelle contrarietà e dispiaceri che gli abbiamo imposto. Per esempio: si ama il malato bruciandogli con il fuoco o tagliandogli il membro affetto da cancrena; si ama il malvagio correggendolo con la repressione e le punizioni, etc. etc., tutto ciò è carità, e carità perfetta!

2°)– Per il bene di un altro i cui diritti siano superiori.- È sovente necessario dispiacere una persona, non per il suo proprio bene, ma per togliere a qualcun altro il male che ella gli causa. Si tratta allora di un obbligo di carità difendere l’aggredito contro l’ingiusta violenza; e può capitare di fare all’aggressore tanto male quanto sia necessario per la difesa dell’aggredito, ciò che accade quando si uccide un brigante alle prese con un viaggiatore. In questo caso, uccidere l’ingiusto aggressore, ferirlo, ridurlo in ogni maniera all’impotenza, è fare un atto di vera carità!

3°)– Per il servizio dovuto a Dio. – Il Bene di tutti i beni è la Gloria divina, allo stesso modo che Dio è per ogni uomo il più prossimo di tutti i prossimi. Di conseguenza, l’amore dovuto all’uomo in quanto prossimo deve sempre essere subordinato a quello che noi tutti dobbiamo al nostro comune Signore. Per il suo amore dunque e per il suo servizio (se è necessario), occorre dispiacere agli uomini, ferirli e perfino (sempre quando sia necessario) ucciderli. Fate bene attenzione alla grande importanza delle parentesi (quando sia necessario): esse indicano chiaramente il solo caso in cui il servizio di Dio esiga tali sacrifici.

Allo stesso modo che in una guerra giusta gli uomini si feriscono e si uccidono per il servizio alla patria, così essi possono ferirsi o uccidersi per il servizio di Dio.

E ancora: allo stesso modo che si può, in conformità alla legge, giustiziare degli uomini a causa delle loro infrazioni al codice umano, si ha il diritto, in una società cattolicamente organizzata, di fare giustizia degli uomini colpevoli di infrazione al codice divino, in quelli dei suoi articoli obbligatori nel foro esterno. Così si trova giustificata, sia detto “en passant”, l’Inquisizione tanto maledetta. Tutti questi atti (beninteso quando essi siano giusti e necessari) sono degli atti virtuosi e possono essere comandati dalla Carità.

Il liberalismo moderno non la vede in questo modo, ma in ciò ha torto. Da questo deriva che esso concepisca e dia una nozione falsa della carità ai suoi adepti. Con le sue invettive e le sue banali accuse di intolleranza e di intransigenza rinnovate senza interruzione, esso sconcerta perfino i cattolici più fermi. La nostra concezione, per noi, è tuttavia ben chiara e concreta.

Eccola: la sovrana intransigenza cattolica non è altro che la sovrana carità cattolica. Questa carità si esercita relativamente al prossimo, quando, nel suo proprio interesse, essa lo confonde, l’umilia, l’offende e lo fa soffrire. Essa agisce verso terze persone, allorquando per liberarle dall’errore e dal suo contagio, essa ne smaschera gli autori e i fautori, chiamandoli con il loro vero nome: malvagi, perversi, destinandoli all’orrore, al disprezzo, denunciandoli all’esecrazione comune, e quando sia possibile, allo zelo delle autorità sociali incaricate di reprimerli e di punirli.

Infine questa carità si esercita relativamente a Dio, quando per la sua Gloria e il suo Servizio, diventi necessario imporre il silenzio a tutte le considerazioni umane, superare tutti i limiti, tralasciare ogni rispetto umano, ferire tutti gli interessi, esporre la propria vita e tutte le vite allorquando il loro sacrificio fosse necessario al raggiungimento di un così alto fine.

Tutto ciò è pura intransigenza nel vero Amore e, per conseguenza, sovrana Carità.

I tipi umani di questa intransigenza sono gli eroi più sublimi della Carità, come la comprende la Vera Religione. E poiché ai nostri giorni ci sono così pochi veri intransigenti, ci sono anche poche persone veramente caritatevoli. La carità liberale, attualmente alla moda, [ed oggi anche la falsa misericordia –n.d.r.-] è condiscendente, affettuosa, perfino tenera, nella forma, ma in fondo essa non è che il disprezzo essenziale dei veri beni dell’uomo, dei supremi interessi della Verità e di Dio.

-Cap. XXII-

La carità nelle forme della polemica: i liberali hanno ragione su questo punto contro gli apologisti cristiani?

 

Non è tuttavia sul terreno dei principi del liberalismo che a tutta prima si deve dare battaglia, perché si sa troppo bene che nella discussione sui principi, esso avrebbe a subire un’irrimediabile disfatta. Il liberale preferisce accusare senza interruzione i cattolici di esercitare poca carità nelle forme della loro propaganda. E’ su questo punto, come abbiamo già detto, che certi cattolici, in fondo buoni, ma intaccati di liberalismo, si scagliano ordinariamente contro di noi. Vediamo ciò che c’è da dire su questo punto. Cattolici, noi abbiamo ragione su questo punto come su tutti gli altri, ma i liberali non ne hanno neppure l’ombra. Fermiamoci un momento per convincerci di ciò sulla base delle seguenti considerazioni:

1°)– Il cattolico può trattare apertamente il suo avversario in quanto “liberale”, se egli lo è realmente, e questo nessuno lo metterà in dubbio. Se un autore, un giornalista, un deputato fa mostra di liberalismo e non nasconde le sue preferenze liberali, come si può dire che lo si insulta chiamandolo “liberale”? Si palam res est, repetitio injuria non est: “dire ciò che tutti sanno, non è un’ingiuria.”. A maggior ragione, dire del prossimo ciò che lui stesso afferma in tutti i momenti, non può costituire offesa. Quanti liberali tuttavia, soprattutto nel gruppo delle persone miti e di quelle moderate, giudicano ingiuriose le espressioni di “liberali” o “amici dei liberali” riferite loro da qualche avversario cattolico.

2°)- essendo dato che il liberalismo è una cosa malvagia, definire malvagi i difensori pubblici e coscienti del liberalismo, non è una mancanza di carità. Si tratta in sostanza, di applicare al caso presente la legge di giustizia in uso in tutti i secoli. Noi, cattolici di oggi, non diciamo nulla di nuovo a questo riguardo. Noi ci atteniamo alla pratica costante dell’antichità. I propagandisti e i fautori delle eresie sono stati in tutti tempi definiti eretici quanto i loro autori. E siccome l’eresia è sempre stata considerata nella Chiesa come un male dei più gravi, la Chiesa ha sempre definito malvagi e cattivi i suoi fautori e propagatori. Vedete l’insieme degli autori ecclesiastici, voi noterete come gli Apostoli abbiano trattato i primi eresiarchi, come i santi Padri, i controversisti moderni e la Chiesa stessa nel suo linguaggio ufficiale, li hanno imitati. Non c’è dunque alcun peccato contro la carità nel chiamare il male “Male”, malvagi gli autori, fautori e discepoli del male, iniquità, scelleratezza, perversità, l’insieme dei loro atti, parole e scritti. Il lupo è stato sempre chiamato “lupo” senza giri di parole, e mai chiamandolo così si è creduto di fare torto al gregge e al suo pastore.

3°)- se la propaganda del bene e la necessità di attaccare il male esigono l’impiego di termini un poco duri contro gli errori e i loro corifei riconosciuti, questo impiego non è assolutamente contrario alla carità. Vi è qui un corollario o una conseguenza del principio sopra dimostrato. Occorre rendere il male detestabile e odioso. Ora non si ottiene questo risultato senza mostrare i pericoli del male, senza dire quanto esso sia perverso, odioso e da disprezzare. L’arte oratoria cristiana di tutti i secoli autorizza l’impiego delle figure retoriche più violente contro l’empietà. Negli scritti dei grandi atleti del Cristianesimo, l’uso dell’ironia, dell’imprecazione, dell’esasperazione, degli epiteti “pesanti” è continuo. In questo campo l’unica legge deve essere l’opportunità e la verità.

Esiste ancora un’altra giustificazione per questo uso di termini un poco duri.

La propaganda e l’apologetica popolari (esse sono sempre popolari quando sono religiose) non possono conservare le forme eleganti e temperate dell’accademia e della scuola. Per convincere il popolo occorre parlare al suo cuore e alla sua immaginazione che non possono essere toccate che da un linguaggio colorito, bruciante, appassionato. Essere appassionati non è reprensibile quando si è tali per un santo ardore di Verità.

Le pretese violenze del giornalismo ultramontano moderno non solo sono molto inferiori a quelle del giornalismo liberale, ma esse sono ancor più giustificate da tutte le pagine delle opere dei nostri grandi polemisti cattolici delle epoche migliori, ciò che è facile da verificare.

San Giovanni battista cominciò col chiamare i farisei: “razza di vipere”. Gesù Cristo nostro Signore lanciò loro gli epiteti “di ipocriti, di sepolcri imbiancati, di generazione perversa e adultera” senza per questo credere di macchiare la santità della sua predicazione così misericordiosa.

San Paolo stesso diceva degli scismatici di Creta che essi erano dei “mentitori, delle bestie selvagge, fannulloni obesi”. Il medesimo Apostolo definisce il mago Elymas “seduttore, uomo pieno di frode e di furberia, figlio del diavolo, nemico di ogni verità e giustizia”.

Se noi apriamo la collezione delle opere dei Padri, incontriamo dappertutto degli scritti di questa natura. Essi li impiegarono senza esitare, in ogni occasione, nella loro eterna polemica con gli eretici. Limitiamoci a citarne qualcuno dei principali.

San Girolamo discutendo con l’eretico Vigilanzio gli getta in faccia la sua antica professione di teatrante. “Dai tempi della tua prima infanzia, gli disse, tu apprendesti altra cosa che la teologia e ti abbandonasti ad altri studi. Verificare nello stesso tempo il valore delle monete e quello dei testi delle Scritture, degustare i vini e possedere il significato dei Profeti e degli Apostoli: queste non sono certamente cose in cui lo stesso uomo possa cavarsela con onore”! È facile rendersi conto della predilezione del Santo controversista per questa maniera di discreditare il proprio avversario. In un’altra occasione, attaccando il medesimo Vigilanzio, che negava l’eccellenza della verginità e del digiuno, gli domanda, col suo solito buon umore, se il motivo della sua opposizione a queste virtù non fosse il minore afflusso che avrebbero causato ai suoi spettacoli.

Oddio! Che grida avrebbero gettato i critici liberali, se uno dei nostri controversisti avesse scritto in questo modo contro l’eretico del giorno!

Che diremmo di San Giovanni Crisostomo? La sua famosa invettiva contro Eutropio non è paragonabile, dal punto di vista del carattere personale e dell’aggressività, che alle più crudeli invettive di Cicerone contro Catilina o contro Verre. Il dolce San Bernardo non era certamente mellifluo allorquando si trattava dei nemici della Fede. Indirizzandosi ad Arnaldo da Brescia, il grande agitatore liberale del suo tempo, egli lo definisce in tutte le lettere “seduttore, vaso di iniquità, scorpione, lupo crudele”!

Il pacifico San Tommaso d’Aquino dimentica la calma dei suoi freddi sillogismi per lanciare contro il suo avversario, Guglielmo da Saint-Amour e i suoi discepoli, le violente parole che seguono. “Nemici di Dio, ministri del diavolo, membra dell’anticristo, ignoranti, perversi, riprovati”. Mai l’illustre Louis Veuillot ne ha dette tante!

Il serafico San Bonaventura, così pieno di dolcezza, si serve contro Gérald di tali epiteti: “impudente, calunniatore, spirito di malizia, empio, pubblicano, ignorante, impostore, malfattore, perfido e insensato”.

Nei tempi moderni noi vediamo apparire la splendida figura di San Francesco di Sales che per la sua delicatezza squisita e la sua ammirevole mansuetudine hanno chiamato “l’immagine vivente del Salvatore”. Voi credete che egli ebbe dei riguardi per gli eretici della sua epoca del suo paese? Vediamo dunque!

Egli perdonò loro le ingiurie e li riempì di benefici, arrivò fino a salvare la vita di quelli che avevano attentato alla sua, fino al punto di dire ad uno dei suoi avversari: “se voi mi strappaste un occhio, io non smetterei con l’altro di guardarvi come un fratello”; ma con i nemici della Fede, egli non conservava alcuna moderazione, alcuna considerazione.

Interrogato da un cattolico desideroso di sapere se gli era permesso di parlare male di un eretico che spargeva cattive dottrine, egli gli rispose: “Sì, voi potete farlo, a condizione di attenervi all’esatta verità, a ciò che voi sapete della sua malvagia condotta, presentando ciò che è dubbioso come dubbioso e secondo il grado più o meno grande di dubbio che voi avrete a questo riguardo”.

Nella sua “Introduzione alla vita devota”, libro così prezioso e popolare, egli si esprime più chiaramente ancora: “I nemici dichiarati di Dio e della Chiesa, dice a Filoteo, devono essere biasimati e censurati con tutta la forza possibile. La Carità ci obbliga a gridare al lupo, quando un lupo si sia infiltrato in mezzo al gregge e allo stesso modo in quei luoghi in cui vi sia il rischio di incontrarlo”.

Sarà dunque necessario per noi di fare un corso pratico di retorica e di critica letteraria per affrontare i nostri nemici? Insomma, noi abbiamo appena detto ciò che c’è di vero nella questione tanto dibattuta delle forme aggressive utilizzate dagli scrittori cattolici ultramontani, cioè dai “veri” cattolici. La carità ci proibisce di fare agli altri ciò che ragionevolmente non vorremmo che fosse fatto a noi. Notate l’avverbio “ragionevolmente”, esso specifica tutta l’essenza della questione.

La differenza essenziale che esiste tra la nostra maniera di vedere e quella dei liberali a questo proposito, consiste nel fatto che essi considerano gli “apostoli” dell’errore come dei semplici cittadini liberi, che usano il loro pieno diritto quando esprimono il proprio parere, in materia di religione, diversamente da noi. Di conseguenza essi si credono tenuti a rispettare l’opinione di chiunque e di non contraddirla se non nei termini di una discussione libera.

Noi altri, al contrario, vediamo in essi i nemici dichiarati della Fede che noi siamo “obbligati” a difendere. Noi non vediamo nei loro errori delle libere opinioni, ma delle eresie formali e colpevoli, nel modo che ce lo insegna la Legge di Dio.

   È dunque con ragione che un grande storico cattolico ha detto ai nemici del cattolicesimo: “Voi vi rendete infami con i vostri atti ed io arriverò a coprirvi d’infamia con i miei scritti”. In questo stesso modo la legge delle 12 tavole ordinava alle virili generazioni dei primi tempi di Roma: Adversus hostem aeterna auctoritas esto! Ciò che può essere tradotto così: “contro il nemico, mai nessuna tregua!”.

s. Agostino

Cap. XXIII

Conviene, mentre si combatte l’errore, combattere e screditare la persona che lo sostiene ?

   Passi la guerra contro dottrine astratte, dirà qualcuno. Ma conviene combattere l’errore, per quanto evidente esso sia, abbattendosi e accanendosi contro le persone che lo sostengono?

Ecco la nostra risposta!!:

Si, spesso conviene e non solamente conviene, ma ancor più è indispensabile, meritorio davanti a Dio e davanti alla società, che sia così.

Questa affermazione deriva da ciò che è stato precedentemente esposto, tuttavia noi vogliamo trattarla qui ex-professo tanto è grande la sua importanza.

L’accusa di fare dei personalismi non è di solito rivolta agli apologisti cattolici se non quando gli intaccati di liberalismo gettano quest’accusa contro uno dei nostri, e sembra loro che non vi sia più niente da appurare per la sua condanna. Tuttavia essi si sbagliano, sì, in verità, si sbagliano. Occorre discreditare e combattere le idee malsane e ancor più bisogna ispirare l’odio, il disprezzo e l’orrore, verso queste idee, nella moltitudine che cercano di sedurre e reclutare.

Le idee non si sostengono in alcun caso da se stesse, esse non si diffondono né si propagano per il solo fatto di esistere; non potrebbero da sole produrre tutto il male di cui soffre la società. Esse assomiglierebbero a frecce o a pallottole che non ferirebbero nessuno, se non si usassero archi o fucili.

È dunque contro l’arciere e il fuciliere che deve rivolgersi, innanzitutto, colui che vuol metter fine ai loro tiri assassini!

Qualsiasi altro modo di guerreggiare sarà liberale quanto si vorrà, ma sarà insensato. Gli autori e propagatori di dottrine eretiche sono dei soldati che usano delle armi caricate con proiettili avvelenati. Le loro armi sono il libro, il giornale, il discorso pubblico, l’influenza personale [oggi i mezzi di comunicazione –n.d.r.-]. È sufficiente portarsi a destra o a sinistra per evitare i colpi? No, la prima cosa da fare, la più efficace, è quella di eliminare il tiratore.

Così dunque conviene togliere qualsiasi autorità, qualsiasi credito al libro, al giornale e al discorso del nemico, ma conviene anche, in certi casi, fare altrettanto per la sua persona, sì, per la sua persona che è incontestabilmente l’elemento principale della lotta, come l’artigliere è l’elemento principale dell’artiglieria e non la bomba, la polvere e il cannone.

È dunque lecito in certi casi rivelare al pubblico le sue infamie, ridicolizzare le sue abitudini, trascinare il suo nome nella polvere!

Si, lettore, ciò è permesso, permesso in prosa, in versi, in caricatura, in un tono scherzoso o meno, con tutti i mezzi e procedimenti che l’avvenire potrà inventare. Importa solamente non mettere la menzogna al servizio della giustizia. Questo no, sotto nessun pretesto può essere portata offesa alla Verità, nemmeno d’uno iota.

Ma senza uscire dai suoi stretti limiti si può ricordare questa parola di Cretinau-Joly e trarne profitto: la Verità è la sola carità permessa alla storia, si potrebbe anche aggiungere: e alla difesa della Religione e della Società. Ed i Padri che noi abbiamo già citato forniscono la prova di questa tesi. Gli stessi titoli delle loro opere affermano chiaramente che nelle loro lotte con le eresie, i loro primi colpi furono diretti contro gli eresiarchi.

Le opere di Sant’Agostino portano quasi tutte in prima pagina il nome dell’autore dell’eresia che combattono: Contra Fortunatum Manichoeum; Adversus Adamanctum; Contra Felicem; Contra Secundinum; Quis fuerit Petilianus; De Gestis Pelagii; Quis fuerit Julianus, etc.; in tale maniera la maggior parte della polemica del grande dottore fu personale, aggressiva, biografica, per così dire, quanto dottrinale, lottando corpo a corpo con l’eretico, non meno che con l’eresia.

Ciò che noi diciamo di Sant’Agostino, potremmo dirlo di tutti i santi Padri.

Da dove il liberalismo ha dunque tratto la nuova obbligazione morale di non combattere l’errore se non facendo astrazione delle persone, se non elargendo agli eretici incensamenti e sorrisi? Si attengano piuttosto alla Tradizione cristiana e ci lascino, noi gli ultramontani [ed oggi i “veri” cattolici – n.d.r. -], difendere la SANTA FEDE come è stata sempre difesa nella Chiesa di Dio.

Che la spada del polemista cattolico ferisca, che essa ferisca, che vada dritta al cuore !

È questa l’unica maniera reale ed efficace di combattere!!!

 

Exsurgat Deus, et dissipentur – Salmo LXVII –

Dall’opera “CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES” dell’Abate J.-M. PÉRONNE, (3 voll., Parigi – 1878), anticipiamo, in omaggio al titolo del nostro blog, il commento al salmo LXVII, riservandoci, a tempo debito, e se piacerà al Signore, di proporre l’intera opera che, benché in un certo qual modo monumentale ed impegnativa in tutti i sensi, rappresenta una miniera ove è racchiusa parte della sapienza cattolica di sempre, comune a tanti autori del passato ormai dimenticati, o peggio, volutamente occultati. Chiedendo in anticipo scusa per gli eventuali immancabili errori di traduzione e trascrizione, che grati invitiamo naturalmente a segnalare, cercheremo a modo nostro, nella limitatezza delle nostre capacità e dei nostri mezzi, nel nostro piccolo e con estrema umiltà, di rendere omaggio a questa immensa preziosa sapienza e ad uno dei tanti straordinari autori che hanno dato lustro sia alla letteratura di tutti tempi in generale, che a quella cattolica in particolare.

 

[Il testo in latino è quello della Volgata-Clementina, la traduzione italiana è quella approvata del Cardinal A. Martini, Arcivescovo di Firenze. Dopo le brevi note iniziali, c’è il sommario analitico, alla fine del quale è possibile passare alle spiegazioni e considerazioni, versetto per versetto. Spero, come già noi abbiamo di persona costatato, che possiate godere di questa gioia dello spirito, a gloria e lode del S. N. Gesù Cristo Salvatore]

Davide-re

SALMO LXVII

In finem, Psalmus Cantici ipsi David (1)

1. Exsurgat Deus, et dissipentur inimici ejus; et fugiant qui oderunt eum a facie ejus.

2. Sicut deficit fumus, deficiant; sicut fluit cera a facie ignis, sic pereant peccatores a facie Dei.

3. Et justi epulentur; et exsultent in conspectu Dei, et delectentur in laetitia.

4.Cantate Deo, psalmum dicite nomini ejus; iter facite ei qui ascendit super occasum. Dominus nomen illi (2); exsultate in conspectu ejus. Turbabuntur a facie ejus,

5.patris orphanorum, et judicis viduarum; Deus in loco sancto suo.

6.Deus qui inhabitare facit unius moris in domo; qui educit vinctos in fortitudine, similiter eos qui exasperant, qui habitant in sepulchris. 7.Deus, cum egredereris in conspectu populi tui, cum pertransires in deserto

8.terra mota est, etenim caeli distillaverunt, a facie Dei Sinai, a facie Dei Israel.

9. Pluviam voluntariam segregabis, Deus, haereditati tuae; et infirmata est, tu vero perfecisti eam.

  1. Animalia tua habitabunt in ea; parasti in dulcedine tua pauperi, Deus (3).
  2. Dominus dabit verbum evangelizantibus, virtute multa (4).
  3. Rex virtutum dilecti, dilecti; et speciei domus dividere spolia (5).
  4. Si dormiatis inter medios cleros, pennae columbae deargentatae, et posteriora dorsi ejus in pallore auri (6).
  5. Dum discernit caelestis reges super eam, nive dealbabuntur in Selmon (7).
  6. Mons Dei, mons pinguis. Mons coagulatus, mons pinguis:
  7. ut quid suspicamini montes coagulatos? Mons in quo beneplacitum est Deo habitare in eo; etenim Dominus habitabit in finem.
  8. Currus Dei decem millibus multiplex, millia laetantium; Dominus in eis in Sina in sancto.
  9. Ascendisti in altum, cepisti captivitatem, accepisti dona in hominibus (8);  etenim non credentes inhabitare Dominum Deum.
  10. Benedictus Dominus die quotidie: prosperum iter faciet nobis Deus salutarium nostrorum.
  11. Deus noster, Deus salvos faciendi; et Domini, Domini exitus mortis.
  12. Verumtamen Deus confringet capita inimicorum suorum, verticem capilli perambulantium in delictis suis.
  13. Dixit Dominus: Ex Basan convertam, convertam in profundum maris (9);
  14. ut intingatur pes tuus in sanguine, lingua canum tuorum ex inimicis, ab ipso.
  15. Viderunt ingressus tuos, Deus, ingressus Dei mei, regis mei, qui est in sancto.
  16. Praevenerunt principes conjuncti psallentibus, in medio juvencularum tympanistriarum.
  17. 26- In ecclesiis benedicite Deo Domino de fontibus Israel.
  18. Ibi Benjamin adolescentulus, in mentis excessu; principes Juda, duces eorum; principes Zabulon, principes Nephthali (10).
  19. Manda, Deus, virtuti tu ae; confirma hoc, Deus, quod operatus es in nobis.
  20. A templo tuo in Jerusalem, tibi offerent reges munera.
  21. Increpa feras arundinis; congregatio taurorum in vaccis populorum ut excludant eos qui probati sunt argento (11): dissipa gentes quae bella volunt.
  22. Venient legati ex Aegypto; Aethiopia praeveniet manus ejus Deo.
  23. Regna terrae, cantate Deo; psallite Domino; psallite Deo.
  24. Qui ascendit super caelum caeli, ad orientem: ecce dabit voci suae vocem virtutis.
  25. Date gloriam Deo super Israel; magnificentia ejus et virtus ejus in nubibus.
  26. Mirabilis Deus in sanctis suis; Deus Israel ipse dabit virtutem et fortitudinem plebi suae. Benedictus Deus!

[Al maestro del coro. Di Davide. Salmo.-Cantico di David. 1- Sorga Iddio, e sian dispersi i suoi nemici e fuggan, quei che l’odiano, davanti alla sua faccia. 2- Come si dilegua il fumo, si dileguino; come si scioglie la cera davanti al fuoco, così periscano gli empi in faccia a Dio. 3- Ed i giusti tripudino ed esultino al cospetto di Dio, e gioiscano per l’allegrezza. 4- Cantate a Dio, inneggiate al suo nome, spianate la strada a colui che s’avanza per i deserti: il suo nome è il Signore, esultate al suo cospetto. Si sbigottiranno [gli empi] alla presenza di lui. 5- Padre degli orfani e giudice delle vedove, Dio sta nella sua santa dimora. 6- Iddio che dà ai solitari una casa, che libera i prigionieri con fortezza: soltanto i ribelli restan nella steppa! 7- O Dio, quando uscisti alla testa del tuo popolo, quando traversasti il deserto, 8- la terra si scosse e i cieli gocciolarono, di fronte al Dio del Sinai, di fronte al Dio di Israele, 9- Una spontanea pioggia tu largisti al tuo retaggio, e stanco ch’e’ fu, tu lo ristorasti. 10- I tuoi animali si fermarono in mezzo ad esso: tu provvedesti al povero, o Dio, nella tua bontà. 11- Il Signore fa parlare i messaggeri per la sua molta prodezza: 12- i re degli eserciti fuggono, fuggono, e la venusta [signora] della casa spartisce le spoglie. 13-Oh! Riposate entro i sortiti confini;le ali della colomba sono argentate, e l’estremità del dorso ha il pallore dell’oro! 14- Mentre il celeste [nume] disperdeva i re su quelle [terra], biancheggiavano di neve le pendici sul Selmon. 15- Monte di Dio, monte ferace, monte opimo, monte ferace! 16- Perché guardate i monti opimi? [È Sion] il monte in cui si è compiaciuto Iddio di abitare: e invero ci abiterà per sempre. 17- I carri di Dio son decine di migliaia, [v’è] migliaia di giubilanti: il Signore viene dal Sinai nel santuario. 18- Tu ascendo in alto [sul Sion], trascini dietro prigionieri, ricevi doni tra gli uomini; sì, anche [tra] i ribelli, perché ci abiti il Signore Dio in eterno. 19- Benedetto il Signore Iddio ogni giorno! Prospere rende a noi le vie Iddio della nostra salvezza. 20- Il nostro Dio è un Dio che salva, e in mano del Signore Iddio è lo scampo da morte. 21- Ma Dio schiaccerà il capo dei suoi nemici, il cocuzzolo capelluto di quei che camminano nei loro delitti. 22- Ha detto il Signore: “Da Basan li ricondurrò, [li] ricondurrò dal fondo del mare! 23- affinché si tuffi, [o Israele], il tuo piede nel sangue, e la lingua de’ tuoi cani n’[abbia] la sua parte succhiandolo da’ nemici”. 24- Vedono la tua avanzata, o Dio, lavanzata del mio Dio, del mio re, nel santuario. 25- Precedono i cantori, uniti ai sonatori di cetra, in mezzo a fanciulle sonatrici di cembali. 26- Nelle adunanze benedite Iddio, [benedite] il Signore, voi scaturiti] dalla fonte d’Israele! 27- [Ecco] là Beniamino, il giovane, in rapimento di spirito, i principi di Giuda, i loro capi, i principi di Zabulon, i principi di Neftali. 28- Comanda o Dio, alla tua possanza, rafferma o Dio, ciò che hai fatto per noi. 29- Dal tuo tempio, in Gerusalemme, t’offriranno doni i re. 30- Minaccia la bestia dei canneti, la torma de’ tori tra le vacche de’ popoli: i vitelli dei popoli: che si prostrino con pezzi d’argento! Disperdi le nazioni che vogliono le guerre. 31-Verranno [allora] ambasciatori dall’Egitto, l’Etiopia stenderà le mani a Dio. 32- Regni della terra, cantate a Dio, inneggiate al Signore; inneggiate a colui 33 -che se ne viene a cavallo dal sommo cielo verso oriente! Ecco egli dà alla sua voce suono potente. 34- Date gloria a Dio! Sopra Israele è la sua magnificenza , e la sua potenza nelle nubi. 35- Mirabile è Dio nel suo santuario: Iddio d’Israele, è lui che dà valore e forza al suo popolo. Benedetto sia Iddio!

(1) – Per ben intendere questo magnifico Salmo e comprenderne il senso, talvolta così misterioso e sì difficile, sono da fare tre importanti annotazioni: .1° ci si ricordi che, nell’estasi profetica, tutto appare, tutto si riscopre agli occhi del profeta contemporaneamente. Da qui questo brusco passaggio da un oggetto all’altro, queste associazioni di idee istantanee ed inattese, questo miscuglio, e per così dire, questa confusione di cose che ci rendono talvolta sì ardua l’intelligenza dei Salmi profetici; – 2° la Chiesa è una, perpetua, universale ed abbraccia tutti i tempi, e questa perpetuità si sviluppa in due periodi successivi: nel primo, la Chiesa è figurativa, è l’abbozzo di ciò che più tardi deve essere il capolavoro: è la stessa Chiesa che conduce Mosè e che regge l’Uomo-Dio, di cui Mosè non era che la prefigurazione. Questa unità fa comprendere come, in questo Salmo, il Profeta passi, senza transizione, dalle meraviglie antiche alle opere degli ultimi giorni. – .3° Occorre anche grandemente fissare gli oggetti multipli dei quali questo Salmo è pieno. Il Profeta descrive una solennità, ma la descrizione di questa solennità non serve al Profeta che da cornice per gli sviluppi più sublimi e le rivelazioni più grandiose.

.(2) -“Fate un cammino”, apostrofe agli abitanti dei luoghi ove deve passare l’Arca. “A Colui che sale verso il ponente”. L’armata vittoriosa ritorna a Gerusalemme dal lato di ponente; essa, di conseguenza, avanzava verso Sion attraverso le contrade che erano ad occidente di Gerusalemme.

.(3) – Davide fa qui allusione ai ribelli, condannati a non entrare nelle terra promessa ed a perire nella solitudine del deserto.

.(4) – “Una pioggia volontaria”. Una pioggia tutta di favore, secondo gli uni, pioggia reale che rinfrancava gli Ebrei nella solitudine, e più verosimilmente, secondo gli altri, pioggia della manna di cui essi furono nutriti nel deserto e che è la figura della dottrina evangelica. “I vostri animali vi abiteranno”. Allusione alle quaglie che si sono abbattute in mezzo al campo per nutrire gli Ebrei che avevano preso in disgusto la manna.

(5) – Nelle feste pubbliche e nei trionfi, le donne cantavano le gesta dei vincitori, [Es. XV, Giud. V, I Re XVIII, Giud. XVI.]

(6) – “Rex virtutum dilecti dilecti”, vale a dire “erit dilectissimae o dilectissimo huic cedet erit ejus possessio”. – Questo può applicarsi al popolo di Israele, che assoggettava i re potenti della terra di Chanaan, ma conviene altresì meglio a Gesù Cristo, questo beneamato dal Padre, in cui ha messo tutte le sue compiacenze . – La bellezza della casa, le donne della casa (Giob. V, 24). In Oriente le donne sono ordinariamente chiuse all’interno della casa.

(7) – Quando riposerete in piena sicurezza nelle terre che vi saranno assegnate in sorte (clerus, dalla parola greca κληρόσ), voi brillerete dello splendore dell’argento e dell’oro, similmente alle colombe le cui ali sono argentate e le cui piume che ricoprono l’estremità del dorso riflettono il verde pallore dell’oro.

(8) Mentre il Dio del cielo dissipa i re di questa terra data in eredità al suo popolo. Allora Dio voleva scegliere una montagna per sua dimora. Il Selmon, montagna della catena del Basan, a nord-est della Palestina, sembrava degna di questo onore, a causa della sua vetta elevata, sempre coperta da neve. Senza dubbio, questa catena di Basan è una montagna elevata, una montagna dalle sommità dense, ma non è quella che Dio ha scelto. Perché arrestate i vostri sguardi, o popolo di Israele? È qui su Sion che Dio vuole abitare. – Da questa montagna di Selmon, il Salmista passa dunque alla montagna di Sion.

(9). – Tu ti elevi, o Dio! Nell’arca, sulla montagna santa, per farne tua dimora; tu trascini al tuo seguito i tuoi nemici, che hai fatto prigionieri mediante le mie mani; tu ricevi da essi i tributi che hai loro imposto. – L’Arca rappresenta qui l’umanità di Gesù Cristo che si eleva al cielo nel giorno dell’Ascensione portando prigionieri i principi delle tenebre (Col. II, 15). Tutto ciò che Egli riceve, lo riceve con la sua Chiesa alla quale Egli lo dà; è tale il senso che San Paolo dà a questo versetto (Efes. IV, 8).

(10) – “Io li condurrò da Basan (dall’Oriente), nel paese di Chanaan, dove essi saranno messi a morte con la spada, o precipitati nel mare”. – Il Salmista fa menzione di qualche tribù che le rappresenta tutte, e questa menzione di tribù che marciano separate, sarebbe una prova che questo Salmo è stato evidentemente composto prima della cattività.

(11) – Questa bestia delle canne (il coccodrillo o l’ippopotamo), figura il re d’Egitto con i grandi del suo reame, comparati a due tori potenti e con i loro popoli che li circondano, che si abbandonano ai loro capi, come le vacche ai tori, ed assecondano i disegni che hanno formato di scacciare i servitori provati da Dio.

davide-salmi

Sommario analitico

In questo Salmo, composto nell’occasione del trasporto dell’arca dalla casa di Abededom nel tabernacolo preparato sulla montagna di Sion (II Re, VI, 12), [Hengstenberg ed altri esegeti pensano che questa occasione fosse quella della traslazione solenne dell’Arca, quando in seguito alle guerre essa fu condotta, accompagnata dai prigionieri, sul monte Sion], Davide contempla e celebra il trionfo di Gesù Cristo sulla morte, la sua Ascensione al cielo ed i doni che Egli ha sparso sulla Chiesa nascente.

I. – Egli descrive la splendore del suo trionfo:

1° la dispersione e l’annientamento dei suoi nemici (1, 2);

2° la gioia e la sicurezza dei giusti, che cantano dei cantici in onore del Salvatore che ascende al cielo (3, 4);

3° la protezione che Egli accorda alle vedove e agli orfani (5);

4° La sua entrata trionfale nel suo palazzo, la pace e l’unione che Egli fa regnare intorno a sé e la libertà che accorda ai prigionieri dei quali ha distrutto le catene. (6)-

II. – I doni che il trionfatore distribuisce in abbondanza:

1° Come figura di questi doni, egli ricorda i benefici di Dio nei riguardi del suo popolo nel deserto, la manna che il Dio del Sinai fa piovere dal cielo per nutrirlo (7, 8);

2° egli adatta la figura alla realtà e ci fa vedere come Gesù Cristo salendo al cielo abbia inviato, sugli Apostoli ed i fedeli, lo Spirito Santo come una pioggia celeste, a) per guarire la terra dalla sua sterilità e rendere la sua Chiesa feconda (9); b) per nutrire i fedeli che abitano nel suo seno (10); c) per dare loro la forza di operare i miracoli e di convertire con la loro parola coloro che sono chiamati a far parte della Chiesa (11, 12); d) per dar loro la sicurezza ed anche il fulgore e splendore in mezzo ai pericoli (13, 14); e) per porli sulla sua montagna, di cui enumera i privilegi (15, 16).

III. –La condotta del trionfatore:

1° Nei riguardi di coloro che Egli ha liberato, a) come in precedenza, egli parla dapprima figurando l’Ascensione, cioè l’ascesa di Dio al Sinai, in mezzo agli Angeli (17); b) egli celebra il fatto stesso dell’Ascensione – la liberazione dei prigionieri – i doni che Dio ha elargito agli uomini, anche su coloro che non credono (19); c) egli rapporta il canto trionfale dei prigionieri liberati, lodando Dio per aver appianato davanti a loro il cammino, e per averli ritirati dalla morte e condotti al termine del viaggio (20, 21).

2° Nei riguardi dei loro nemici, cioè dei demoni che tenevano prigionieri questi uomini, a) egli indica il modo in cui saranno distrutti; b) ne fa conoscere la causa (22); c) egli indica il luogo ove compirà questo castigo: le profondità dell’inferno (23);

.d) egli svela tutto il rigore del castigo e la grandezza della vittoria (24).

IV. – Egli predice le lodi che gli Apostoli, I Re ed i popoli convertiti alla fede, canteranno in onore del celeste Trionfatore:

1° Egli ci insegna che gli Apostoli sono stati testimoni dell’Ascensione del Salvatore (24); 2° le lodi cantate da essi, dalla folla dei fedeli e che il Profeta esorta a continuare (25); 3° egli indica da quale tribù vengono gli Apostoli (26, 27); 4° predice che i re delle nazioni, dei quali chiede la conversione, vedranno Lui che offre dei doni 828, 29). 5° Egli predice che i popoli si uniranno ai re in una medesima fede; a) egli chiede a Dio di reprimere gli sforzi dei tiranni e dei demoni che si oppongono a questa conversione dei popoli; b) di dissipare le agitazioni ostili delle nazioni stesse (30), c) predice come frutto la conversione delle nazioni più ostinate nel culto degli idoli (31). 6° I re canteranno a Dio dei cantici di azioni di grazie, in riconoscenza dei benefici della fede (32, 33); 7° Il Re Profeta descrive la potenza di Gesù-Cristo regnante sul suo trono, per eccitare i popoli a lodare eternamente questo Dio magnifico, ammirevole nei suoi Santi, e fonte di ogni potenza e di ogni forza per il suo popolo (34, 35).

 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-6.

1-3. “Sorga Dio, etc.”. È cosa già fatta. Il Cristo che è al di sopra di tutte le cose, Dio benedetto in tutti i secoli, il Cristo è risuscitato (Rom. IX, 6), e i Giudei suoi nemici sono dispersi tra tutte le nazioni. Vinti nel luogo stesso ove essi hanno esercitato contro di Lui la loro inimicizia, sono stati di là dispersi tra tutti i popoli. Ed ora essi odiano il Cristo, ma essi Lo temono, e sotto l’impero di questo timore, essi fuggono lontano dalla sua faccia. Per l’anima, in effetti, temere, è fuggire; perché, come fuggire, secondo il modo del corpo, la faccia di Colui che rende sensibile in tutti i luoghi gli effetti della sua presenza? Essi fuggono, dunque, non con il corpo, ma con lo spirito; non nascondendosene, ma temendoLo; non quella faccia di Dio che essi non seppero vedere, ma quella che essi sono forzati a vedere (S. Agost.). – “Come il fumo svanisce, essi svaniscono da se stessi”. Il fumo è trasportato dal vento, la cera si liquefa a causa del fuoco, e gli empi cadono così senza forza e senza resistenza davanti alla maestà dell’Altissimo. In effetti, sollevati dal fuoco del loro odio, i nemici di Dio e del suo Cristo, si sono elevati al colmo dell’arroganza, essi hanno innalzato la testa fin nel cielo (Ps. LXXII, 9), ma ben presto essi svaniranno nella vergogna dei loro peccati. “Come le cera fonde davanti al fuoco, così i peccatori periscono davanti alla faccia di Dio”. Forse il Profeta ha voluto rappresentare in questo modo coloro la cui durezza si fonde nelle lacrime della penitenza; ciò nonostante si può forse vedere in questo passaggio una minaccia del giudizio prossimo, perché dopo essersi elevati in questo mondo come il fumo, e quindi dopo essersi dissipati nel loro orgoglio, i peccatori saranno colpiti alla fine con l’ultima condanna e periranno per l’eternità davanti alla faccia di Dio, quando Egli si sarà manifestato nel suo splendore, simile al fuoco più vivo, per essere il castigo degli empi e la luce dei giusti (S. Agost.). – Due gli avvenimenti del Messia nei quali Egli deve trionfare sui suoi nemici. Il primo è passato, e noi ne gioiamo, il secondo è da venire, e noi lo attendiamo. – Augurio legittimo: che Dio sia elevato e che i suoi nemici siano confusi. – Desiderio cristiano, che Dio si elevi in un’anima, che ne prenda possesso e che tutti i suoi nemici siano dissipati ed annientati; vale a dire che i peccatori non siano più peccatori, e che i loro peccati non compaiano più davanti alla sua faccia. – I due grandi nemici di Dio nell’anima del peccatore sono l’orgoglio del suo spirito e la durezza del suo cuore. Quando la grazia si fa sentire a questo peccatore, la sua vanità sparisce come il fumo che il vento dissipa, la durezza del suo cuore si ammorbidisce e si rende flessibile a tutte le impressioni che gli si vogliono dare. Questo cuore, in precedenza insensibile e glaciale, riceve infine il calore del divino amore e comincia fondersi con il fervore dello spirito (S. Greg., Berthier). – La gioia dei giusti espressa da un festino, per significare 1° che essa è viva e fa su di essi un’impressione simile a quella che produce uno squisito nutrimento; 2° che essa è intima e non superficiale, 3° che essa fa, per così dire, parte della sostanza dei giusti, che essa li penetra e li fortifica, come il nutrimento che noi assumiamo. – È nella nuova Alleanza un banchetto che riempie di gioia l’anima dei giusti: non è più un pasto alla presenza dell’Arca, è il Dio stesso dei due Testamenti che si dà come nutrimento ai suoi figli. Quali delizie inondano i Santi seduti alla tavola di Gesù Cristo! Essi solo possono spiegare i loro trasporti; ancora la loro lingua è troppo poco eloquente per dire ciò che passa nei loro cuori (Berthier). – Gettiamo gli occhi sul venerabile Sacramento dell’altare: è là che ci è preparata la tavola celeste e su questa tavola la coppa che produce la santa ebbrezza. (S. Greg.). – Comparata a questa gioia divina, ogni altra gioia è un dispiacere, ogni soavità è un dolore, ogni dolcezza è un’amarezza, ogni bontà una bruttura, tutto ciò che può lusingare e piacere, è spiacevole e penoso (S.Bern., Ep. 234). 4. “Cantate le lodi di Dio”. Si cantino le lodi di Dio che vive per Dio; si cantino dei salmi al suo nome, che lavora per la sua gloria. Celebrate le lodi di Dio con questi cantici, con questi salmi, cioè vivendo per Dio, lavorando per Dio. “Preparate, egli dice, la via a Colui che sale su per ponente”. Preparate la via a Cristo con i piedi ammirevoli di coloro che annunziano il Vangelo (Isaia LII, 7), i cuori dei credenti siano una strada aperta per Lui; perché è il Cristo che sale su da ponente, sia perché la vita nuova di colui che si converte a Lui, non si unisce alla sua se non quando l’uomo vecchio è morto con la rinunzia a questo secolo, ossia perché il Cristo è salito su da ponente, quando, con la sua Risurrezione, ha vinto la morte che aveva nascosto il suo corpo nella tomba (S. Agost.). – L’uomo è incapace da se stesso a preparare il cammino al Signore; ma quando Dio parla al suo cuore, accompagna la sua parola con l’unzione della sua grazia, per fargli compiere ciò che non può senza la sua assistenza. Egli abbassa in lui le montagne del suo orgoglio, riempie ciò che vi trova di vuoto, si prepara un cammino per arrivare fino a lui (Dug.). – “Trasalite di allegria in sua presenza”, o voi che preparate la via a Colui che sale su da ponente, esultate di allegria in sua presenza; “se voi siete in un’apparente tristezza, sarete non di meno in una gioia costante”, “afflitti ma sempre lieti”(IICor. VI, 10); perché, mentre aprite un cammino davanti a Lui, e così preparate una via per la quale Egli possa venire e possedere le nazioni, voi soffrirete mille mali che gli uomini giudicheranno ben tristi. Ma voi invece, non solo non vi lasciate abbattere, ma rallegratevi vivamente, non agli occhi degli uomini, ma davanti agli occhi di Dio. “Siate gioiosi per la speranza e pazientate in mezzo alle sofferenze (Rom. XII, 12). “Riempitevi di gioia alla sua presenza”. In effetti coloro che si turbano alla presenza degli uomini “saranno turbati in faccia a Colui che è il Padre degli orfani ed il giudice protettore delle vedove”.  Questi, in effetti, sembrano, a giudizio degli uomini, colpiti dalla desolazione per essere stati separati, il più spesso, dalla spada della parola di Dio, dai figli di cui essi erano i padri, o dalle donne delle quali erano gli sposi (S. Matt. X, 34). Ma nel loro rigetto, nella loro vedovanza, essi trovano consolazione presso “il Padre degli orfani ed il Giudice protettore delle vedove”. Essi trovano consolazione presso di Lui, se sanno dirGli. “mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, il Signore al contrario mi ha preso sotto la sua protezione” (Ps. XXVI, 10); se essi ripongono la loro speranza nel Signore e non cessano di pregare né di giorno né di notte (I Tim. V, 5), davanti a loro i malvagi saranno turbati, quando vedranno che i loro sforzi sono stati inutili e che il mondo intero ha seguito il Signore (S. Agost.). – “Io non vi lascerò orfani, aveva detto il Signore ai suoi Apostoli, Io ritornerò da voi” (S. Giov. XIV, 18); Io tornerò a voi con la mia grazia, con il mio Spirito, con l’Eucaristia. “Io non vi lascerò orfani”, vale a dire “Io non vi invierò il mio Spirito, di modo che Io cessi di essere con voi. Questo nome di orfano che dà loro, indica chiaramente che Egli è loro Padre. Io tornerò a voi dopo la resurrezione del mio corpo, Io che sono sempre con voi con la presenza della mia divinità (S. Bern., Tract. De Coena.). – 6. Il Signore si fa un tempio di questi orfani e di queste vedove, cioè di coloro che sono come destituiti da ogni eredità nelle speranze del mondo. È di questo tempio che parla il Profeta quando dice: “il Signore abita nel suo luogo santo”. Egli mostra chiaramente in effetti, qual è questo luogo santo, quando aggiunge: “Dio fa abitare nella sua casa coloro che sono della stessa sorte, cioè coloro che non hanno che uno stesso pensiero, uno stesso sentimento”. Questi formano il luogo santo del Signore, perché, dopo aver detto: “il Signore abita nel suo luogo santo”, come se noi Gli domandassimo qual è questo luogo, poiché esso è tutto intero dappertutto, il Profeta ci risponde per farci comprendere a non cercarlo fuori di noi, ma piuttosto a riunirci in una stessa maniera di vivere, alfine di meritare che Dio si degni di abitare in noi. Ecco il santuario del Signore, che cercano la maggior parte degli uomini, per pregarvi ed essere esauditi. Che essi siano dunque per se stessi questo luogo che essi cercano, che essi vi abitino come nella casa del Signore, con coloro che non hanno che un solo spirito, uno stesso sentimento, uno stesso pensiero, e che là, nel loro cuore, cioè nel silenzio di questo letto misterioso, essi ripassino con compunzione tutte le loro parole (Ps. IV, 5), affinché il Maestro della grande casa risieda in essi, ed essi siano quello stesso santuario nel quale saranno esauditi (S. Agost.). – Questa profezia si è compiuta nella Chiesa cristiana che lo Spirito Santo formò nel giorno della Pentecoste in cui fece come un solo cuore di tutti i fedeli, e di tutte le loro case, una sola casa, ove essi erano riuniti in un solo corpo, del quale Gesù-Cristo era il capo. – Quale spettacolo mirabile nella Chiesa cattolica, quello di questa unione di tutti i veri fedeli con i loro Pastori, e di tutti i Pastori particolari con il Pastore Universale! Che altro poteva il Signore produrre se non questa unanimità di pensiero, di vedute, di sentimenti? In questo secolo di contraddizioni, di confusione, di tenebre, questo accordo di tanti spiriti in una stessa luce, di tanti cuori in uno stesso amore, questa identità dottrinale e morale di tutti, malgrado la diversità dei punti di partenza di ciascuno, è la prova manifesta della divinità della Chiesa cattolica; è la testimonianza irrecusabile della presenza e dell’azione di Dio nella sua città santa (Mgr. Pie, Entret. Syn. t. IV, p. 458). – È per effetto della sua grazia che si costruisce questa casa, e non a causa dei meriti di coloro con i quali Egli la costruisce. Considerate in effetti, ciò che segue. “Egli libera e fortifica quelli che erano in catene”. Egli ha in effetti spezzato con la sua grazia le pesanti catene che impedivano ai colpevoli di camminare nella via dei suoi comandamenti; Egli li ha liberati ed ha dato loro una forza che essi non avevano prima di aver ricevuto la sua grazia. Egli libera ugualmente coloro che Lo irritano abitando le tombe”, cioè coloro che sono morti in vario modo e non sono occupati che in opere morte. In effetti, questi Lo irritano con la loro resistenza a ciò che è giusto; perché per i primi che sono nelle catene, forse essi volevano camminare, ma costoro non lo vogliono; essi pregano Dio per averne i mezzi e Gli dicono: “liberatemi dalle mie necessità” (Ps. XXIV). E quando Dio li ha esauditi, essi Gli rendono grazie dicendo : “Voi avete spezzato i miei legami” (Ps. CXV, 7). Ma questi peccatori che Lo irritano, abitando le tombe, sono del genere di quelli che la Scrittura designa con queste parole: “da un morto che non è più, la riconoscenza si perde” (Eccles XVII, 23). Di là ancora questa parola: “Il peccatore quando è caduto nel profondo dell’abisso, disprezza tutto” (Prov. XVIII, 3). Una cosa è in effetti, desiderare la giustizia, altra cosa il combatterla, una cosa è l’essere liberato dal male, altra cosa è il difendere i propri peccati in luogo di confessarsi; pertanto, la grazia del Signore libera e fortifica l’uno e l’altro tipo di peccatore? E quale forza dà loro, se non quella di lottare fino al sangue contro il peccato? Perché Egli trova dei peccatori di questi due tipi, che devono proprio a ciò che il santuario di Dio sia costruito in essi. Gli uni dopo la loro liberazione, gli altri dopo la loro resurrezione (S. Agost.). – Questa vita è un luogo di prigionia ed un deserto. Dio deve un giorno liberarci, e noi temiamo il momento della nostra liberazione. Noi vogliamo, dice S. Agostino, sempre accumulare dei giorni e non giungere mai alla fine di questa carriera; noi vogliamo sempre marciare e mai arrivare; questo è irragionevole e contraddittorio. Quale sarà infine la nostra sorte? Quella che il Profeta descrive: noi moriamo da ribelli, ed abiteremo eternamente in luoghi aridi ove la misericordia divina non espande le sue influenze, noi approderemo a queste tombe ove la luce non penetra mai. È una sciagura non profittare del deserto di questa vita per entrare nella terra promessa! (Berthier).

II. —7-16.

7, 8. “O Dio, quando voi uscite in presenza del vostro popolo”. Per Dio, uscire, significa apparire nelle sue opere. Ora, questo non è da tutti, ma appartiene solamente a coloro che sanno ammirare le sue opere. – Io non parlo attualmente di queste opere che colpiscono gli occhi di tutti, come il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che esse racchiudono, ma delle opere per le quali “Egli libera e fortifica coloro che sono nelle catene”, così come coloro che Lo irritano abitando nelle tombe, per farli abitare nella sua casa come aventi un solo cuore ed una sola anima. È così che Egli esce in presenza del suo popolo, cioè in presenza di coloro che comprendono questa grazia (S. Agost.). – Gesù-Cristo marcia alla nostra testa nel deserto di questa vita; Egli espande su di noi le benefiche influenze della sua grazia; Egli scuote i nostri cuori, sia con il timore dei suoi giudizi, sia con la veemenza del suo amore. Egli si mostra a noi come il Signore si mostrava agli Israeliti nella nube miracolosa; luce da un lato, tenebre dall’altra; molta luce per guidare i nostri passi, tante tenebre per provare la nostra fede. La nostra sventura è il perdere di vista il Conduttore beneficante, e di imitare gli Ebrei che rimpiangevano i falsi beni dell’Egitto. Ah! Diceva S. Gregorio, seguiamo Gesù-Cristo: la strada che Egli ci mostra sembra rude e difficile all’inizio, essa è piena di dolcezze per coloro che conducono una vita perfetta (Berthier). – “La terra è stata scossa quando passavate nel deserto”. Il deserto, erano i gentili che non conoscevano Dio; il deserto era il luogo ove Dio non aveva dato alcuna legge, o nessun profeta aveva abitato e predetto la venuta del Salvatore. “Quando voi dunque passavate nel deserto”, quando il vostro Nome è stato predicato ai gentili, “la terra è stata scossa”, gli uomini della terra sono stati svegliati e chiamati alla fede. Ma come è stata scossa la terra? “Perché i cieli si sono fusi in acque davanti al Dio del Sinai, davanti al Dio di Israele ….”. si tratta qui dei cieli di cui in un altro Salmo è detto: “I cieli raccontano la gloria di Dio”, e poco oltre “Non è linguaggio e non sono parole, di cui non si oda il suono” (Ps. XVIII, 4). In ogni caso non è a questi cieli, per grandi che essi siano, che bisogna attribuire la gloria di aver scosso la terra fino a condurla alla fede, come se il deserto delle nazioni fosse debitore di questa grazia a questi uomini; non è da se stessi che questi cieli hanno dato la loro pioggia, ma questa pioggia è partita dalla faccia di Dio … perché è dal Signore che è detto in un altro punto: “voi versate ammirevolmente la vostra luce dall’alto delle montagne eterne” (Ps. LXXV, 5); benché sia dall’alto delle montagne eterne che viene la vostra luce, tuttavia siete Voi che la spandete. Lo stesso qui: “I cieli si sono fusi in pioggia”, ma questa pioggia è partita dalla faccia di Dio” (S. Agost.). 9, 12.-  La pioggia è qui il simbolo della grazia in noi, della Dottrina della salvezza e della santa Eucaristia; è una pioggia volontaria e tutta gratuita, perché essa è dovuta alla bontà di Dio e non ai nostri meriti. – Dio spande le sue grazie con abbondanza e con una liberalità che è generata dalla sua misericordia, perché noi non possiamo ottenerla da noi stessi. Questa liberalità tutta gratuita esige da noi che noi vi corrispondiamo con una perfetta buona volontà, e con grande coraggio in mezzo alle prove di questa vita, cosa che non fecero i Giudei carnali che, colmi di benefici del Signore, non cessarono di mormorare contro di Lui quando li minacciavano le avversità (Berthier). – Questo popolo che fu ricondotto dall’Egitto con grande clamore; e noi che siamo oggi il popolo di Dio, noi dobbiamo essere liberati da questo mondo, che è l’Egitto in rapporto a noi, e questa liberazione arriverà quando Gesù Cristo apparirà nella sua gloria. Ecco allora due grandi benefici, uno passato, ed uno futuro. Cosa c’è in mezzo? Delle tribolazioni? Perché? Al fine di manifestare la volontà di coloro che servono Dio, affinché appaia fin dove portino lo zelo del suo servizio, affinché si veda se essi servono con disinteresse Colui dal Quale hanno ricevuto gratuitamente la salvezza (S. Agost.). –Quando una terra è stata fertilizzata, gli armenti vi abbondano, perché essi trovano il nutrimento di cui hanno bisogno. Il povero è alleviato e si riconosce che la benedizione del cielo è su questo retaggio. Ognuno deve interrogarsi sullo stato della propria anima, di questa terra che Dio gli dà da coltivare. Ma qui non vi si trovano che animali feroci, cioè passioni indomite! (Berthier). – “Oh! Se poteste vedere il campo del vostro cuore, fondereste in lacrime e non trovereste un solo boccone di cui potervi nutrire. Tutto il vostro uomo interiore perisce per la fame; esso è quasi morto. Quanti morti vediamo camminare nel mondo!” (S. Agost.). – “Voi avete preparato nella vostra soavità, o Dio mio, ciò che è necessario al povero”… nella vostra soavità e non nelle sue ricchezze. In effetti, egli è povero, perché è stato fiaccato per essere reso perfetto, ed ha riconosciuto la sua indigenza per essere poi ricolmo di beni. È di questa soavità che il Profeta dice allora: “Il Signore spanderà la sua soavità, e la nostra terra porterà i suoi frutti” (Ps. LXXXIV, 13), affinché faccia il bene, non per timore, ma per amore, non per il terrore del castigo, ma per l’attrattiva della giustizia; perché tale è la vera libertà. Ma il Signore ha preparato questi beni per l’indigente e non per il ricco, che guarda questa povertà come un obbrobrio; obbrobrio, dice ancora il Salmista, per colui che è nell’abbondanza, ed oggetto di disprezzo per gli orgogliosi (Ps. CXXII, 4), (S. Agost.). – “Il Signore darà la sua parola a coloro che evangelizzano con una grande forza”. È Dio solo che dà Egli stesso la parola che vuole che si annunci al suo popolo, ed il coraggio per annunciarla con forza; nessuno dunque deve ingegnarsi da se stesso in questo ministero. – È Dio che ispira i ministri della sua parola; è Lui che dà loro la forza di predicare in mezzo ai più grandi pericoli. – Coloro che il Signore ha scelto per annunciare la sua volontà provano che lo Spirito-Santo parla con la loro bocca; essi sono illuminati prontamente dalla verità ed infiammati dalla carità … ma essi devono leggere con grande precauzione le Sante Scritture; perché colui che le consulta non in spirito d’amore, ma in spirito di curiosità, e per diventare sapiente, si arricchisce non della pienezza della parola, bensì della pienezza del libro (S. Greg.). – È l’amore della parola di Dio, e non l’amore della scienza che deve condurre allo studio del santi Libri. – La forza che Dio ha comunicato ai predicatori del Vangelo si è manifestata in tre maniere. .1° con l’efficacia dei loro discorsi, hanno convertito il mondo intero: “così le mie parole non torneranno senza frutto, esse compiranno i miei disegni, e prospereranno in tutto ciò che Io ho voluto” (Isaia. LV, 11); .2° per la libertà dei loro discorsi, che è giunta fino a rimproverare i re per la loro vita licenziosa e dissoluta, e le loro empietà: “Io stesso vi darò le parole ed una saggezza alla quale tutti i vostri nemici non potranno resistere, e che essi non potranno contraddire” (S. Luca XXII, 15); .3° per la potenza e la virtù dei miracoli. “le mie parole e la mia predicazione, dice S. Paolo, non sono consistite in parole persuasive di saggezza umana, ma nelle prove sensibili dello Spirito e della potenza di Dio” (II Cor. IV). 13, 14. Gesù-Cristo è il Re dei re ed il Signore dei signori. Egli li ha assoggettati tutti, condividendo le spoglie del “forte armato”, cioè rendendosi maestro di tutte le nazioni che appartenevano in precedenza ai demoni, ed ha così formato tutte le bellezze della sua casa, che è la Chiesa. – Si, il Cristo ha reso bella la casa, cioè la Chiesa, con la distribuzione delle proprie spoglie, con un corpo che è bello per la distribuzione delle sue membra. Ora, si chiama spoglia ciò che è tolto ai nemici vinti. “Nessuno, dice il Salvatore, entra nella casa del forte per togliergli le armi, se non ha prima legato il padrone (S. Matt. XII, 29). Il Cristo ha dunque caricato il demonio di legami spirituali, con la vittoria che ha riportato sulla morte e con la sua Ascensione dagli inferi ai cieli. Egli lo ha legato con il mistero della sua incarnazione, ragion per cui il demonio, benché non avesse potuto trovare nulla che Gli facesse meritare la morte, ha ricevuto il permesso di farLo perire. Egli lo ha legato e gli ha tolto le sue armi come delle spoglie, perché Egli agiva sui figli della diffidenza (Efes. II, 2), per cui Egli assoggettava l’infedeltà ai propri disegni. Allora il Signore ha purificato queste armi con la remissione dei peccati; Egli ha santificato queste spoglie strappate ad un nemico abbattuto e caricato di catene, e le ha distribuite per la bellezza della sua casa. Degli uni ne ha fatti degli Apostoli, degli altri dei Profeti, altri Pastori, o dottori per i bisogni del Ministero, alfine di edificare il corpo di Cristo (Ibid. I, 4), (S. Agost.). – Le spoglie che Egli sottrae e delle quali arricchisce la Chiesa, è ancora il deposito delle sante verità che passa dalla sinagoga alla Chiesa Cristiana, il mondo intero che ha rapito al gentilizio, le vittime che strappa all’inferno, la vita che conquista sulla morte. – Qui dunque il Salmista ci espone, in termini figurati e profetici, l’organizzazione, la forza, i trionfi, le ricchezze della Chiesa. – Sotto la condotta di Gesù-Cristo, il prediletto di Dio, i piccoli, i poveri, i semplici, le donne stesse riportano le vittorie sui nemici della salvezza. Talvolta il Signore, per manifestare i tesori della sua grazia, ha dato lo spettacolo delle virtù più perfette nelle condizioni più eminenti; ma, dice Sant’Agostino, io vedo i peccatori chiamati prima dei filosofi, io vedo Pietro preferito ai re, io vedo migliaia di vergini impossessarsi della corona, e dai bambini anche tenere lezione ai vecchi (Bethier). – “Se voi dormite in mezzo a terre che vi sono toccate in eredità”. Il Profeta sembra rivolgersi a coloro ai quali sono stati distribuiti come delle spoglie per la beatitudine della casa, secondo l’utilità particolare che lo Spirito Santo manifesta per ognuno. Se voi dormite in mezzo alle vostre eredità, voi sarete come le ali della colomba argentata, cioè vi eleverete ad una nuova altezza, restando attaccati alla forza che unisce la Chiesa; perché questa colomba argentata è quella di cui è detto: “Unica è la mia colomba” (Cant. VI, 8). Essa è argentata perché istruita dagli insegnamenti divini per cui in un altro Salmo è detto: “I vostri insegnamenti, Signore, cono come l’argento che il fuoco ha separato da ogni terra e che è stato purificato dette volte” (Ps. XI, 7). È dunque un gran bene il dormire in mezzo alle eredità, che significano, secondo qualcuno, i due Testamenti; così, il dormire in mezzo alle parti, è riposare sull’autorità dei due Testamenti; cioè annuire alle testimonianze dei due Testamenti. Di modo tale che ogni parola proposta e riconosciuta proveniente dall’una o dall’altra fonte, mette termine pacificamente ad ogni discussione col riposo più perfetto. Se così è, qual avvertimento è dato qui a coloro che evangelizzeranno con una grande forza, se non è Dio ad accordar loro questa parola con la quale essi potranno evangelizzare, se essi dormono in mezzo a queste due eredità? In effetti a loro è data la parola di verità quando essi riposano sull’autorità dei due Testamenti, e che essi stessi sono le ali della colomba argentata, portando fino in cielo, con la loro predicazione, la gloria della Chiesa (S. Agost.). – Applicato ai semplici fedeli, questo versetto contiene una verità non meno toccante. In effetti, se l’eredità del primo Testamento, essendo l’ombra figurativo del secondo, consisteva in una felicità terrestre, e se l’eredità del Nuovo Testamento è l’eterna felicità, dormire in mezzo alle due eredità, non è la ricerca con ardore della prima, ma attendere con pazienza la seconda; perché, a coloro che servono Dio, o piuttosto che rifiutano di servire Dio, alfine di ritrovare la felicità in questa vita e su questa terra, il sonno sfugge ed essi non possono dormire. In effetti, agitati dai piaceri che li infiammano, essi sono spinti ai disordini ed ai crimini, e non hanno riposo, desiderando acquisire e temendo di perdere. “Al contrario, colui che mi ascolta, dice la Saggezza, abiterà nella speranza e riposerà senza timore, esente da ogni minaccia” (Prov. I, 33). Ecco che questo è dormire in mezzo alle eredità: è abitare, non ancora in realtà, ma già nella speranza, nella eredità celeste, e riposare lontano da ogni piacere di una felicità terrestre. Ma quando sarà arrivato ciò che noi speriamo, noi non dormiremo più in mezzo a due eredità; noi regneremo in ciò che è il nuovo ed il vero. Ecco perché nulla ci impedisce di comprendere queste parole: “Se voi dormite in mezzo alle eredità”, applicandole alla nostra morte, secondo il costume della Scrittura, che dà il nome di “sonno” alla morte della carne. Perché la migliore delle morti è quella dell’uomo che, perseverando fino alla fine nella repressione dei piaceri terrestri, e nella speranza dell’eredità celeste, vede l’ultima ora chiudere il corso della sua vita. Ora, coloro che si addormenteranno in questa sorte, saranno come le ali della colomba argentata, per essere trasportati, al momento della resurrezione, nelle nubi, nell’aere, davanti al Cristo, al fine di vivere per sempre con il Signore (I Tess. IV, 14), e si abbelliscono a misura dell’avvicinarsi al sole di giustizia (S. Agost.). – Queste ali argentate della colomba, dopo le grandi sofferenze, non sono ordinariamente per questa vita; questo splendore dell’oro non è che per coloro che sono stati epurati per lungo tempo nella fornace. – Criterio nascosto, ma pieno di giustizia, che il Re del cielo fa non soltanto dei re, ma pure di tutti i popoli della terra. – Separazione ben diversa secondo la quale gli uni diventeranno più bianchi della neve, e gli altri più neri del carbone (Duguet). – Le piume della colomba sono suscettibili di colori cangianti, a seconda di come esse siano esposte ai raggi del sole. Ciò che vi domina è il bianco, il grigio, il nero, il vinaccia, e da questo miscuglio ne risulta un colore che rassomiglia all’oro pallido. Il Profeta si serve qui di questa comparazione per designare la protezione che Dio accorderà al suo popolo, principalmente alla tribù di Giuda, quando anche essa sarà circondata dalle dieci altre tribù divenute sue nemiche, dopo lo scisma di Roboamo. Questa tribù è chiamata qui colomba, come lo è nel Cantico dei Cantici, perché essa rimane fedele più tempo delle altre all’alleanza con Dio (Berthier). 15, 16. Ma, nel timore che qualcuno osi comparare Nostro Signore Gesù-Cristo ai Santi, che pure sono chiamati montagne di Dio, e nella paura che si assimilasse a queste montagne, che sono i figli degli uomini, la montagna che è il Cristo, perché non mancherebbero uomini per dire, gli uni che era Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o uno dei profeti, il Salmista si volge ad esse e dice loro: “Perché supponete che queste montagne fertili siano la montagna ove è piaciuto a Dio stabilire la sua abitazione? Similmente questi grandi uomini hanno ricevuto il nome di luce, perché il Signore ha detto loro: “Voi siete la luce del mondo” (S. Matt. V, 14); ma è stato anche detto del Cristo: “ Egli è la vera luce, che illumina ogni uomo veniente in questo mondo” (S. Giov. I, 9); per cui questi uomini sono delle montagne gloriose, ma ben al di sopra di esse è la montagna preparata sulle cime delle altre montagne. Perché dunque supponete che queste montagne siano la montagna sulla quale è piaciuto a Dio fissare la sua dimora? Non è che Egli non abiti gli altri monti; ma non vi abita se non per il Cristo, “perché in Lui risiede tutta la pienezza della divinità”(Colos. II, 7). Il Signore abiterà le montagne che non sono comparabili a quella preparata sulle cime di tutte le altre; Egli vi abiterà per condurli fino alla loro fine, cioè fino a Se stesso, dove essi Lo contempleranno nella sua divinità (S. Agost.). – I luoghi elevati sono stati preferibilmente scelti da Dio per divenire il teatro delle sue divine manifestazioni. I luoghi elevati avvicinano al cielo, e l’esempio che vi si manifesta attira più facilmente gli sguardi. Così Gesù-Cristo compara la sua Chiesa ad una città posta su di una montagna, a causa della sua elevazione e della sua solidità, dice Sant’Agostino, ma la Chiesa non fa che un tutt’uno con Gesù-Cristo. Essa è una Montagna egualmente, perché Essa è il Corpo di Cristo; ma è Gesù-Cristo che è il fondamento della Chiesa, ed è legalmente Gesù-Cristo che Sant’Agostino riconosce in questa parola del Salmo: “La Montagna di Dio è una montagna grassa e fertile, ove è piaciuto a Dio l’abitarvi, perché è la Montagna ove le anime si rafforzano e si arricchiscono di doni celesti”. – Dio scelse quaggiù dei luoghi privilegiati, ove piacque a Lui spandere con più abbondanza le rugiade della sua grazia. Le sante lettere sono piene di questa teologia, ed essa è il fondamento della pratica antica e costante dei pellegrinaggi. E questo si collega a tutto l’insieme della Dottrina cattolica: Dio volendo entrare in trattative con l’uomo, cioè con l’essere nello stesso tempo intelligente e sensibile, ha dovuto adattare alla sua grazia i rapporti di tempo, luoghi e di persone. C’è dunque una vocazione, una predestinazione per i luoghi come per le persone; ci sono dei luoghi, delle montagne ove si sono accumulate delle meraviglie di un ordine soprannaturale, ove è stato il compiacersi di Dio nel risiedere dagli inizi, e dove risiederà fino alla fine (Mgr. Pie, t. VI, p. 524).

III. — 17-24.

 17, 18. Il Salmista termina questo Salmo con la descrizione del trionfo di Gesù-Cristo, che dopo essere disceso, con la sua Incarnazione seguita dalla sua morte, nelle parti più basse della terra, è salito dopo al di sopra di tutti i cieli, conducendo con Sé una moltitudine di prigionieri, ed ha distribuito magnificamente i suoi differenti doni sugli uomini, inviando loro lo Spirito Santo e, cosa più ammirevole, ha trionfato del cuore ribelle di coloro che erano interamente increduli e fatto in modo che popoli in precedenza infedeli ed increduli, abbiano dimorato nel Signore, e che il Signore abbia dimorato in essi (Duguet). – Dopo aver descritto il corteo che circonda il carro di trionfo del Signore, il Profeta si rivolge al Signore stesso: “Voi siete salito nell’alto dei cieli, voi avete catturato la prigionia, avete distribuito dei regali agli uomini. “ L’ Apostolo riporta questo versetto e lo applica a Nostro Signore in questi termini: “Ad ognuno di noi, la grazia è stata data secondo la misura del dono di Gesù. Ecco perché il Profeta ha detto: “Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini”. Ma che significa la parola “ascese”, se non che prima era “disceso” quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose (Efes. IV, 7-10). È dunque, senza alcun dubbio, di Gesù Cristo che il Profeta ha parlato dicendo: “Voi siete salito nell’alto dei cieli, Voi avete fatto prigioniera la cattività, Voi avete ricevuto i doni nella persona degli uomini.”. E non siete preoccupati dal fatto che l’Apostolo, citando questo passaggio, non abbia detto: “ Voi avete ricevuto dei doni nella persona degli uomini”, ma: “ Egli ha dato dei doni agli uomini”. L’Apostolo, con l’autorità che questo titolo gli dava, ha parlato come ha fatto considerando il Figlio come Dio con il Padre. In questo senso, effettivamente, Egli ha dato dei doni agli uomini, inviando loro lo Spirito-Santo, che è lo Spirito del Padre e del Figlio. Ma se si considera lo stesso Gesù Cristo nel suo corpo che è la Chiesa; se si considera che i Santi ed i fedeli sono sue membra, secondo queste parole dell’Apostolo: “Voi siete il corpo ed le membra di Cristo” (I Cor. XII, 27), senza alcun dubbio, in questa qualità, Egli ha ricevuto dei doni nella persona degli uomini (S. Agost.). – Ma cosa vuol dire: “Avete catturato la cattività”? Sarà perché Egli ha vinto la morte, che teneva prigionieri coloro sui quali essa regnava? O forse il Profeta ha designato, con questo termine “cattività”, gli uomini che il demonio teneva prigionieri? Il Profeta dà agli uomini che erano prigionieri, il nome di cattività, come noi diciamo “milizia” parlando dei militari. Il Profeta ha detto che la cattività era stata catturata dal Cristo. Perché in effetti, la cattività non sarebbe felice se gli uomini potessero essere fatti prigionieri per il loro bene? … Essi sono dunque prigionieri perché sono stati presi, e sono stati presi perché sono stati soggiogati; sottomessi a questo giogo che è pieno di dolcezza, liberati dal peccato di cui erano schiavi, essi sono divenuti i servitori della giustizia, rispetto alla quale essi erano liberi in precedenza (Rom. VI, 18). Ecco perché il Cristo è in essi, nello stesso tempo, Colui che ha dato i doni agli uomini, e Colui che ha ricevuto dei doni, nella sua Persona, dagli uomini. Così, in questa cattività, in questa servitù, a questo carro, sotto questo giogo vi sono migliaia di uomini, non che piangono, ma che gioiscono; perché “il Signore è in essi, nel suo Santuario”. – Ma cosa aggiunge il Profeta? “Anche coloro che non credono che Dio possa abitare in mezzo ad essi”. Non parla della cattività, e non dice perché, prima di passare sotto la felice servitù, essi si trovavano incatenati in una servitù funesta? In effetti è in ragione della loro incredulità che gli uomini erano prigionieri del nemico, “che agisce sui figli ribelli, nel numero dei quali una volta eravate anche voi, quando vivevate tra essi” (Efes. II, 2-3). È dunque per i doni della sua grazia che il Cristo, che ha ricevuto i doni nella persona degli uomini, ha reso prigioniera questa funesta cattività. In effetti, questi uomini non credevano che un giorno avrebbero abitato la casa di Dio. Ma la fede li ha infine liberati, affinché essi abitassero la casa di Dio, e diventassero essi stessi questa casa e il carro di Dio, formato da migliaia di Santi che si rallegrano (S. Agost.). 19, 20. È allora che il cantore di queste parole profetiche, al quale lo Spirito Santo concedeva di contemplare in anticipo queste grandi cose, egli stesso pieno di gioia, intona un inno di gioia e grida: “Benedetto sia il Signore-Dio”. La terra deve unirsi al cielo per ridire con la moltitudine degli eletti: “La salvezza viene dal nostro Dio, seduto sul trono, e dall’Agnello … Benedizione, gloria, saggezza, azioni di grazie, onore, potenza e forza dal nostro Dio, nei secoli dei secoli”. (Apoc. VII, 10, 12.). – E poiché il Cristo conduce fino alla fine il carro di cui ha parlato, il Profeta continua e dice: “ Un cammino prospero ci sarà preparato dal Dio della nostra salvezza”. Queste parole ci insegnano la necessità della grazia. Chi sarà salvato in effetti, se Dio non lo salva? Ma per paura che questo pensiero non si presentasse al nostro spirito: “perché dunque noi moriamo se la grazia ci ha salvato?” … egli aggiunge: “Appartiene al Signore liberare dalla morte”, lo stesso vostro Signore, non ha avuto altra uscita dalla sua vita, se non la morte. Soffriamo dunque con pazienza la morte stessa, sull’esempio di Colui che ha voluto uscire dalla vita per mezzo della morte, benché alcun peccato Lo avesse reso tributario della morte, e che fu il Signore, al Quale nessuno poteva togliere la vita ed al Quale apparteneva il deporla da se stesso (S. Agost.). 21-23. “Ma comunque Dio schiaccerà la testa dei suoi nemici, e la fronte superba di coloro che camminano nei loro peccati”; vale a dire di coloro che si elevano in maniera disordinata, e che si inorgogliscono fieramente nei loro peccati, mentre essi dovrebbero attingere sentimenti di umiltà. Egli schiaccerà la loro testa, “perché colui che si esalta, sarà abbassato”. Egli schiaccerà la testa dei suoi nemici e non soltanto di coloro che Lo hanno deriso sulla croce, ma anche di tutti quelli che si ergono contro la sua dottrina e che volgono la sua morte in derisione, come se non fosse che la morte di un uomo (S. Agost.). – Così come Dio è buono nei riguardi dei peccatori umili che riconoscono le loro debolezze, così è terribile nei riguardi dei peccatori orgogliosi che sono nemici dichiarati e vogliono insolentemente perseverare nei loro peccati. Egli talvolta li schiaccia in questa vita, ma sempre nell’altra, dove non ci sarà da sperare più salvezza per coloro il cui orgoglio non sarà stato abbassato in questa vita. – Nessun nemico, per potente che sia, tra le mani di Dio ritira le sue quando a lui piace, con la stessa facilità con la quale Egli ha liberato il suo popolo dalle mani di re potentissimi; nessun abisso di peccato, quantunque profondo, da cui la bontà onnipotente di Dio non si ritira quando vuole (Dug.).

 IV. — 24-35

25-27. “Si è visto il vostro passo, o mio Dio”! Si è visto il vostro passo attraverso il mondo, che voi dovete percorrere interamente su questo carro, chiamato ugualmente nel Vangelo col nome di nube e che significa i Santi ed i fedeli. … Tali sono i passi che da Voi si sono visti; vale a dire, tali sono i passi che ci sono stati manifestati, quanto la grazia del Nuovo Testamento ci è stata rivelata. Ecco perché è scritto: “Quanto son belli i piedi di coloro che annunziano la pace, che annunciano la buona novella” (Rom. X, 15). In effetti, questa grazia e questi passi erano nascosti nell’Antico Testamento; ma quando è venuta la pienezza dei tempi, e quando è piaciuto a Dio rivelare suo Figlio, perché fosse annunciato tra le nazioni” (Gal. IV, 4), si sono visti i vostri piedi, o mio Dio!, i passi del mio Dio, del Re che abita nel luogo santo”. In qual luogo santo, se non nel suo tempio? In effetti il tempio di Dio è santo, e Voi siete questo tempio” (II Cor. III, 17), (S. Agost.). – Ora, perché questi passi fossero visti, “i principi hanno marciato per primi con coloro che cantavano sul salterio, in mezzo alle fanciulle che battevano sui tamburi”. I Principi sono gli Apostoli; essi hanno in effetti, marciato per primi, affinché i popoli li seguissero; essi hanno marciato per primi annunciando il Nuovo Testamento, “con quelli che cantavano sul salterio”, cioè con coloro le cui buone opere, visibili agli altri uomini, glorificassero Dio, come strumenti destinati a lodarLo. Questi stessi principi erano “in mezzo alle fanciulle che battevano sui tamburi”, vale a dire che essi erano onorati dal ministero stesso che essi espletavano; perché tale è il rango dei ministri sacri in mezzo alle nuove chiese che essi governano. In effetti, nel timore che non venga allo spirito di qualcuno l’interpretare queste figure in senso carnale, il Profeta continua e dice: “ benedite il Signore nelle Chiese”; come se dicesse: guardatevi, sentendo parlare di fanciulle che battono sui tamburi, dal pensare a divertimenti lascivi. “Benedite il Signore nelle Chiese”. Le Chiese sono figurate con denominazione mistica; le Chiese sono le fanciulle che battono sui tamburi, cioè a chi la vittoria riportata sulla carne ha dato un’autorità spirituale. “Benedite dunque nelle Chiese il Signore, Iddio, voi che siete usciti dalle sorgenti di Israele. È in Israele, in effetti, che Egli ha scelto coloro che Egli voleva fossero delle sorgenti; è la che Egli ha scelto gli Apostoli, i primi che hanno ascoltato queste parole. “Chiunque berrà l’acqua che Io gli darò, non avrà mai sete, ma uscirà da lui una sorgente d’acqua che zampillerà fino alla vita eterna” (Giov. IV, 13, 14); (S. Agost.). – I piccoli ed i grandi, I princìpi ed I popoli si trovano in queste Chiese come nella casa comune, per rendere I loro doveri a Dio.

28-30. Questa espressione. “Signore, dispiegate la vostra forza”, è nello stile dei profeti, che rappresentano Dio come intimante i suoi ordini agli strumenti della sua bontà o delle sue vendette. Dio comanda alla sua forza, quando la impiega, quando ne fa sentire gli effetti. Io potrei dire, nell’orazione: “Signore comandate alle vostre luci di illuminarmi; comandate al vostro amore di abbracciarmi; comandate alla vostra misericordia di perdonare i miei peccati; comandate alla vostra saggezza di mostrarmi le vostre vie”. Nel Salmo XLIII, il Profeta dice che Dio comanda la salvezza di Giacobbe; vale a dire che Egli prende i mezzi efficaci per salvare il suo popolo. O Signore, ripeto, con il sentimento di un cuore toccato dal desiderio di compiacervi: comandate la mia salvezza; comandate ai nemici che vi si oppongono, lasciate la mia anima gioire della pace che si gusta nel vostro seno; comandate alle mie passioni di tacere alla vostra presenza. Comandate al mio cuore di attaccarsi invincibilmente a voi (Berthier). – In qualunque grado di virtù e di santità l’uomo sia stabilito, deve chiedere a Dio di stabilizzarlo e completare in lui ciò che ha iniziato. Sovrano ambito di Gesù Cristo, al Quale tutti i re della terra sono venuti a rendere adorazione ed i loro omaggi, consacrando a Lui i loro Stati ed ancor più il loro cuore. Quale dono più gradito a Dio, se non il sacrificio di lode? Ma vi sono degli uomini che, benché portino il nome di cristiani, hanno sentimenti contrari, e mischiano a queste lodi queste arie discordanti. Che Dio faccia dunque ciò che dice il Profeta. “Reprimere le bestie feroci della canna”. Queste sono delle vere bestie feroci, perché sono pericolose per la loro mancanza di intelligenza, e sono le bestie feroci delle canne perché essi corrompono, con i loro errori, il senso delle scritture. – È ancora per gli stessi uomini che il Profeta aggiunge: “ Essi sono come una moltitudine di tori in mezzo alle vacche dei popoli”, affinché coloro che sono stati provati come l’argento siano respinti. Dando loro il nome di tori, a causa della loro testa dura ed indomita, il profeta designa gli eretici, mentre le vacche dei popoli sono le anime facilmente seducibili. “Al loro numero appartengono certi tali che entrano nelle case e accalappiano donnicciole cariche di peccati, mosse da passioni di ogni genere, che stanno sempre lì ad imparare, senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità” (II Tim. III, 6-7). – Lo stesso Apostolo dice ancora: “Bisogna che si abbiano delle eresie per manifestare coloro che tra voi sono riprovati” . “È necessario infatti che ci siano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi (I Cor. XI, 19), cosa che si riconduce a ciò che aggiunge il profeta: “Affinché tutti quelli che sono provati come l’argento siano riprovati”; cioè manifestati, evidenziati (S. Agost.). – “Respingete le bestie feroci, sempre pronte a slanciarsi dalle loro canne”. Questo spettacolo non presenta forse in questo momento il mondo, nel quale una banda di tori furiosi ha davanti a sé solo timide vacche? È vero, i popoli stessi sono rammolliti, “stravaccati”, anche se il mondo contiene ancora delle intelligenze ferme, dei coraggi robusti; grandi energie sussistono in seno alle società. Ma queste nature forti ed oneste che sono a prova di argento, vengono escluse, respinte; riducendosi gli uomini degni di questo nome, si crede di aver guadagnato tutto, e tanti popoli si personificano in volontà fiacche, in spiriti fluttuanti, in anime che non hanno nulla di virile: sono queste le truppe di vacche che abbiamo visto più di una volta in fuga, quando i tori hanno fatto irruzione (Mgr. Pie, I, 456, Homél, Pentec.). 31-35. I reami o i re della terra hanno bisogno che si ricordi loro l’obbligo che hanno di cantare le lodi di Dio. Essi sono talmente inebriati dalla loro grandezza e dallo sfarzo che li circonda, che dimenticano facilmente ciò che essi devono a Dio, per non ricordarsi se non di quello che essi credono che gli uomini debbano loro. – La voce di Dio è così forte e potente, che nulla è capace di resisterGli, e che i suoi nemici più dichiarati saranno infine obbligati a renderGli gloria. – I Santi sono la più grande meraviglia di Dio. Il mondo non è che un’ombra della sua grandezza, ma i Santi ne sono un’immagine viva, essi rappresentano in qualche modo, la virtù e la forza invincibile di Dio, perché è per esse che sono divenuti Santi, malgrado tutti gli attacchi del demonio, del mondo, della carne (Dug.). – “Al suo popolo che è ora fragile e debole, Dio donerà la forza e la potenza”. In effetti quaggiù, noi portiamo i nostri tesori in vasi fragili (II Cor. IV, 8); ma allora, per i gloriosi cambiamenti che avranno luogo anche nei corpi, “egli darà la forza e la potenza al suo popolo”; il Cristo gli darà la forza che per primo ha deposto nella sua carne, e che l’Apostolo chiama la forza di resurrezione (Filip., III, 10); questa forza per la quale la morte sarà distrutta. “Benedetto sia il nostro Dio”! (S. Agost.).

San Pietro Canisio e la preghiera per conservare la fede

Oggi, 27 aprile, festeggiamo un grande Santo, modello di fede intrepida ed irriducibile, senza compromessi né tentennamenti:

pietro CanisioSan Pietro Canisio

   Egli è stato un accanito difensore della santa Fede cattolica e della Cattedra di Pietro contro gli attacchi feroci degli eretici del tempo! Salvò numerosissime anime dal baratro in cui le eresie le avrebbero per certo sprofondate per una morte eterna, una volta allontanate dalla retta fede e dai salubri pascoli di Pietro. Oggi più che mai, ciò che resta del popolo cristiano avrebbe bisogno non di uno, ma di dieci, cento, mille S. Pietro Canisio, che allontanino dal gregge i lupi voraci fautori dell’apostasia modernista-conciliare, esponendo ed offrendo, se necessario, la propria vita per proteggere la Chiesa oggi nelle catacombe ed il Santo Padre in esilio nella sofferenza del Getsemani, per il risorgere ed il trionfo della Santa Chiesa. In attesa dell’intervento del Signore che solo, con il soffio della sua bocca, oramai può porre rimedio alla rovina in cui “quelli che hanno per padre il diavolo”, stanno cercando di precipitarla, uniamoci in preghiera invocando l’intercessione del Santo dottore, per conservare la fede divina, e perché si acceleri la venuta del Signore Gesù Cristo ed il trionfo della sua Chiesa sulle porte dell’inferno che giammai prevarranno, secondo promessa evangelica.

 

San Pietro Canisio: preghiera per conservare la vera fede

 

“Preghiera per conservare la vera Fede” scritta da san Pietro Canisio (1521-1597), olandese della Compagnia di Gesù, apostolo della Controriforma in Germania, definito “martello degli eretici”, beatificato da Pio IX nel 1868 e canonizzato da Pio XI nel 1925 che lo nominò pure Dottore della Chiesa.

 

Professo davanti a Voi la mia fede. Padre e Signore del Cielo e della terra, mio Creatore e Redentore, mia forza e mia salvezza, che fin dai miei più teneri anni non avete cessato di nutrirmi col sacro pane della vostra Parola e di confortare il mio cuore. Affinché non vagassi errando con le pecore traviate che sono senza Pastore. Voi mi raccoglieste nel seno della vostra Chiesa; raccolto, mi educaste; educato, mi conservaste insegnandomi con la voce di quei Pastori nei quali volete essere ascoltato e ubbidito, come di persona, dai vostri fedeli.

Confesso ad alta voce per la mia salvezza tutto quello che i cattolici hanno sempre a buon diritto creduto nel loro cuore. Ho in abominio Lutero, detesto Calvino, maledico tutti gli eretici; non voglio avere nulla in comune con loro, perché non parlano né sentono rettamente, e non posseggono la sola regola della vera Fede propostaci dall’unica, santa, cattolica, apostolica e romana Chiesa. Mi unisco invece nella comunione, abbraccio la fede, seguo la religione e approvo la dottrina di quelli che ascoltano e seguono Cristo, non soltanto quando insegna nelle Scritture ma anche quando giudica per bocca dei Concilii ecumenici e definisce per bocca della Cattedra di Pietro, testificandola con l’autorità dei Padri. Mi professo inoltre figlio di quella Chiesa romana che gli empii bestemmiatori disprezzano, perseguitano e abominano come se fosse anticristiana; non mi allontano in nessun punto dalla sua autorità, né rifiuto di dare la vita e versare il sangue in sua difesa, e credo che i meriti di Cristo possano procurare la mia o l’altrui salvezza solo nell’unità di questa stessa Chiesa.

Professo con franchezza, con san Girolamo, di essere unito con chi è unito alla Cattedra di Pietro e protesto, con sant’Ambrogio, di seguire in ogni cosa quella Chiesa romana che riconosco rispettosamente, con san Cipriano, come radice e madre della Chiesa universale. Mi affido a questa Fede e dottrina che da fanciullo ho imparato, da giovane ho confermato, da adulto ho insegnato e che finora, col mio debole potere, ho difeso. A far questa professione non mi spinge altro motivo che la gloria e l’onore di Dio, la coscienza della verità, l’autorità delle Sacre Scritture canoniche, il sentimento e il consenso dei Padri della Chiesa, la testimonianza della Fede che debbo dare ai miei fratelli e infine l’eterna salvezza che aspetto in Cielo e la beatitudine promessa ai veri fedeli.

Se accadrà che a causa di questa mia professione io venga disprezzato, maltrattato e perseguitato, lo considererò come una straordinaria grazia e favore, perché ciò significherà che Voi, mio Dio, mi date occasione di soffrire per la giustizia e perché non volete che mi siano benevoli quelle persone che, come aperti nemici della Chiesa e della verità cattolica, non possono essere vostri amici. Tuttavia perdonate loro, Signore, poiché, o perché istigati dal demonio e accecati dal luccichio di una falsa dottrina, non sanno quello che fanno, o non vogliono saperlo.

Concedetemi comunque questa grazia, che in vita e in morte io renda sempre un’autorevole testimonianza della sincerità e fedeltà che debbo a Voi, alla Chiesa e alla verità, che non mi allontani mai dal vostro santo amore e che io sia in comunione con quelli che vi temono e che custodiscono i vostri precetti nella santa romana Chiesa, al cui giudizio con animo pronto e rispettoso sottometto me stesso e tutte le mie opere. Tutti i santi che, o trionfanti nel Cielo o militanti in terra, sono indissolubilmente uniti col vincolo della pace nella Chiesa cattolica, esaltino la vostra immensa bontà e preghino per me. Voi siete il principio e il fine di tutti i miei beni; a Voi sia in tutto e per tutto lode, onore e gloria sempiterna. Amen.

GLI ANGELI – dal trattato dello Spirito Santo di mons. Gaume

GLI ANGELI

[capp.VIII, IX, X del Trattato dello Spirito Santo di mons. J.-J. Gaume]

 cori angeli

Il Re della Città del bene (lo Spirito Santo) non è solitario. Intorno al suo trono stanno innumerevoli legioni di Principi risplendenti di bellezza che formano la sua corte. L’ufficio loro è di onorare il grande Monarca, vegliare alla guardia della Città e presiedere al suo governo: questi principi sono i buoni angeli. Sotto pena di lasciare nell’ombra una delle più grandi meraviglie del mondo superiore ed il roteggio più importante della sua amministrazione, noi dobbiamo farli conoscere. Perciò fa d’uopo dire la loro esistenza, natura, numero, le loro gerarchie, i loro ordini e funzioni. Esistenza degli Angeli. Gli Angeli sono tante creature incorporee, invisibili, incorruttibili, spirituali, dotate di intelligenza e di volontà. [Angelus est substantia creata, immaterialis sive incorporalis, invisibilis, incorruptibilis et spiritualis, intellectu perspicax et voluntate pollens. Viguiev, c. in, § 2, vers. 2, p. 77.]

La fede del genere umano, la ragione, l’analogia delle leggi divine si riuniscono per stabilire sopra un fondamento incrollabile il domma dell’esistenza degli Angeli. Di già abbiamo visto la Fede del genere umano manifestarsi con splendore nel culto universale dei genii buoni e cattivi. La ragione dimostra facilmente che il nostro mondo visibile con la sua imperfetta natura, non ha né può avere in sé, né la ragione della sua esistenza, nè il principio delle leggi che la regolano. Bisogna cercarla in un mondo superiore, del quale non è che il reverbero. [Invisibilia enim ipsius a creatura mundi, per ea qua e facta sunt intellecta conspiciunuir. Sum., I, 20.]

Com’é per l’albero, il cui fogliame sboccia ai nostri sguardi, così sono i principii di vita e di solidità, nascosti nelle profondità della terra.

L’osservazione più sapiente delle leggi divine provoca quest’assioma: che non vi è salto nella natura né rottura nella catena degli esseri. [Natura non facit saltus. Linné.]

Nello stesso tempo essa dimostra che di questa catena magnifica l’uomo non può essere l’ultimo anello. Dio è l’oceano della vita. Egli la diffonde su tutte le forme, vegetativa, animale, intellettuale. Secondo che essa è più o meno abbondante, la vita segna il grado gerarchico degli esseri. Ora essa è più abbondante via via che l’essere si avvicina più a Dio. Cosi per ricondurre a sé con gradi insensibili tutta la creazione discesa da lui, l’ Onnipotente, la cui infinita sapienza si è divertita nella formazione dell’universo, ha tratto dal nulla parecchie specie di creature. Le une visibili e puramente materiali, come per esempio, la terra, l’acqua, le piante: altre, visibili ed invisibili a un tempo, materiali e immateriali, come gli uomini; altre infine, invisibili ed immateriali come gli Angeli.

     Questi ultimi, non meno degli altri, sono dunque una necessità della creazione. Ascoltiamo il più grande dei filosofi: « Supposto, dice san Tommaso, il decreto della creazione, l’esistenza di certe creature incorporee è una necessità. Difatti il fine principale della creazione, è il bene. Il bene o la perfezione consiste nella rassomiglianza dell’essere creato col Creatore, dell’effetto con la Causa. La rassomiglianza dell’effetto con la causa è perfetta, allorquando l’effetto imita la causa, secondo che essa lo produce. Ora, Dio produce la creatura con intelletto e con volontà. La perfezione dell’universo esige dunque che vi siano creature intellettuali ed incorporee. « Di maniera che, che vi siano Angeli, e che questi siano esseri personali, e non miti o allegorie, quest’è una verità insegnata dalla rivelazione, confermata dalla ragione, e attestata dalla fede del genere umano.

« Natura degli angeli. L’abbiamo già indicata; gli angeli sono incorporei, vale a dire che non hanno corpi coi quali siano essi naturalmente uniti. La ragione è che essendo tanti esseri completamente intellettuali e sussistenti per se medesimi, formae inbsistentes, come parla san Tommaso, cosi essi non hanno bisogno di corpo per essere perfetti. Se l’anima umana è unita ad un corpo, è che essa non ha la pienezza della scienza, e che è obbligata ad acquistarla per mezzo delle cose sensibili. Quanto agli angeli, essendo perfettamente intellettuali per loro natura, non hanno niente da apprendere dalle creature materiali: e il corpo loro è inutile. » Da ciò risulta che gli angeli non possono, come le anime umane, essere uniti essenzialmente a dei corpi, e diventare una stessa persona con loro. Essi sono per conseguenza incapaci di esercitare nessun atto della vita sensibile o vegetativa, come vedere corporeamente, sentire, mangiare e altre cose simili. Dell’aria o di un’altra materia già esistente, essi possono però formarsi dei corpi, e dar loro una figura ed una forma accidentale. L’Arcangelo Raffaello diceva a Tobia: Quando io era con Voi per volere di Dio, pareva che io mangiassi e bevessi, ma io faceva uso di cibi invisibili. [Tob. XII].

Cosi, l’apparizione degli Angeli sotto una forma sensibile non è una visione immaginaria. La visione immaginaria non è che nella immaginazione di colui che la vede: essa sfugge agli altri. Ora, la Scrittura ci parla sovente degli angeli che appaiono sotto forme sensibili, e che sono visti indistintamente da tutti. Gli angeli che appariscono ad Abramo sono visti dal patriarca, da tutta la sua famiglia, da Lot e dagli abitanti di Sodoma. Cosi pure l’Angelo che appare a Tobia è visto da lui, da sua moglie, da suo figlio, da Sara e da tutta la famiglia di Sara. È dunque manifesto che non era quella una visione immaginaria. Era bensì una visione corporea, nella quale quegli che ne gode, vede una cosa che é esteriore a lui. Ora, l’oggetto di una simile visione, vale a dire la cosa esteriore non può essere altro che un corpo. Ma, poiché gli Angeli sono incorporei e che non hanno corpi, ai quali siano naturalmente uniti, ne risulta, ch’essi rivestono, quando ne hanno bisogno, di corpi formati accidentalmente. Questi corpi, composti d’aria condensata, o di un’altra materia, gli Angeli non gli prendono per sé ma per noi. Tutte le loro apparizioni si riferiscono al mistero fondamentale dell’Incarnazione del Verbo, e alla salute dell’uomo del quale è la indispensabile condizione. Le une lo preparano, le altre lo confermano, intanto che esse provano la esistenza del mondo superiore con le sue realtà eterne, gloriose o terribili. « Conversando familiarmente con gli uomini, dice san Tommaso, gli Angeli vogliono mostrarci la verità di questa grande società degli esseri intelligenti, che noi attendiamo nel cielo. Nell’antico Testamento, le loro apparizioni avevano per scopo di preparare il genere umano all’Incarnazione del Verbo, imperocché erano tutte figura dell’apparizione del Verbo nella carne.

Nel Nuovo, esse concorrono al compimento del mistero, sia in se medesimo, ossia nella Chiesa e negli eletti. È facile convincersene esaminando le circostanze delle apparizioni angeliche a Zaccaria, alla Santa Vergine, a San Giuseppe, a San Pietro, agli apostoli, ai martiri, ai Santi in tutti i secoli. Secondo i più dotti interpreti, le apparizioni accidentali degli Angeli sulla terra non sarebbero che il preludio di una apparizione abituale in cielo. «I reprobi, dicono essi, saranno tormentati non’ solamente nella loro anima, per la conoscenza dei loro supplizi: ma altresì nei loro corpi, vedendo le figure orribili dei demoni. In essi gli occhi del corpo hanno peccato nello stesso modo che gli occhi dell’anima; è dunque giusto che tanto gli uni che gli altri ricevano il loro castigo.

«Parimente, è probabile che nel cielo gli Angeli prenderanno corpi magnifici aerei, a fine di rallegrare gli occhi degli eletti, e di conversare con essi a bocca a bocca. Ciò pare esatto, da un lato, per l’amicizia, per l’unione, per la comunicazione intima, la quale esisterà tra gii Angeli ed i beati, come concittadini della stessa patria: dall’altro per la ricompensa dovuta alla mortificazione dei sensi ed alla vita angelica che i Santi hanno menato quaggiù, nella speranza di godere della società degli Angeli. Se fosse altrimenti, i sensi degli eletti non riceverebbero nessuna gioia dagli Angeli, ed anche ogni relazione con essi sarebbe loro impossibile. Tutto si limiterebbe ad una comunicazione mentale, ed il corpo sarebbe privato di una parte della sua ricompensa! »

Parlando del giudizio ultimo essi aggiungono : « Egli è credibilissimo che tutti gli Angeli riappariranno in corpi splendidi; altrimenti questa gloria del Figliuolo di Dio non sarebbe veduta dagli empi, pei quali appunto sarà soprattutto mostrata. L’esercito potente dei cieli niente aggiungerebbe alla maestà esteriore del Giudice supremo; maestà che la Scrittura prende cura di descrivere con tanta precisione. La moltitudine degli Angeli essendo innumerevole, essa riempirà dunque le immense pianure dell’aria e presenterà alle nazioni radunate, il formidabile aspetto d’un’armata schierata in battaglia. Non è meno credibile che i demoni appariranno sotto forme corporee: altrimenti non sarebbero veduti dai reprobi, e però la gloria del Nostro Signore e la confusione dei malvagi esigono che siano visibili.

Qualità degli Angeli. Dalla semplicità o incorporeità della loro natura, risulta che i principi della Città del bene sono incorruttibili. Esenti da languori e da infermità, essi non conoscono né il bisogno di nutrimento o di riposo, né le debolezze dell’infanzia, né le infermità della vecchiaia. Risulta ancora ch’essi sono dotati di una bellezza, di una intelligenza, di una agilità e di una forza incomprensibile all’uomo. Iddio è la bellezza perfetta e la sorgente di ogni bellezza. Quanto più un essere Gli rassomiglia, tanto più è bello. I cieli sono belli, la terra è bella, perché i cieli e la terra riflettono alcuni raggi della bellezza del Creatore. Di tutti gli esseri materiali il corpo umano è il più bello, perché possiede in un grado più elevato la forza e la grazia, la cui felice unione forma il marchio della bellezza. L’anima è più bella del corpo, perché è l’immagine più perfetta dell’eterna Bellezza. L’Angelo, dunque essendo alla sua volta l’immagine incomparabilmente più perfetta di questa bellezza, é incomparabilmente più bello che l’anima umana. Per conseguenza quale spettacolo offre agli sguardi il Re della Città del bene, circondato da tutti questi Principi, rilucenti come tanti soli, il meno bello dei quali eclissa tutte le bellezze visibili! Il giorno in cui sarà dato all’uomo di vederlo faccia a faccia, entrerà in un rapimento, indicibile anche a Paolo che ne fu testimone. Frattanto l’umanità ha l’istinto di questa suprema Bellezza; imperocché, per indicare il grado più perfetto della bellezza sensibile essa dice; “bello come un Angelo”. La bellezza degli Angeli è il raggio della loro perfezione essenziale, e questa loro essenziale perfezione è l’intelligenza. Chi ne dirà l’estensione? Risponde san Tommaso : « L’intelligenza angelica è deiforme, vale a dire, che l’Angelo acquista la conoscenza della verità non mediante la vista delle cose sensibili, né per via del ragionamento, ma per il semplice sguardo. Come sostanza esclusivamente spirituale la potenza intellettiva é in lui completa, cioè dire ch’essa non é mai in potenza come nell’uomo, ma sempre in atto, di maniera che l’Angelo conosce attualmente tutto ciò che può conoscere naturalmente. »

Ei lo conosce tutto intero, nel complesso, e nei particolari, nel principio, e nelle ultime conseguenze. «Le intelligenze d’un ordine inferiore, come l’anima umana, hanno bisogno per giungere alla perfetta cognizione della verità di un certo movimento, di un certo lavoro intellettuale, col quale esse procedono dal noto all’ignoto. Questa operazione non avrebbe luogo se, dal momento che esse conoscono un principio, ne vedessero istantemente tutte le conseguenze. Tale è la prerogativa degli Angeli. Tosto che sono in possesso di un principio, già conoscono tutto quel che racchiude: ecco perché si chiamano intellettuali, e le anime umane semplicemente ragionevoli. Così non può esservi né falsità, né errore, né inganno nell’intelligenza di nessun Angelo.

A che cosa si estende la conoscenza dei Principi della Città del bene? Essa si estende a tutte le verità dell’ordine naturale. Per essi il cielo e la terra niente hanno di celato; e dacché sono confermati in grazia, conoscono la maggior parte delle verità dell’ordine soprannaturale. Noi diciamo “la maggior parte”, poiché sino al di del giudizio, in cui il corso dei secoli finirà, gli Angeli riceveranno delle nuove comunicazioni intorno al governo del mondo, ed in particolare circa la salute dei predestinati.

Se l’intelligenza dei principi della Città del bene è per essi la sorgente di voluttà ineffabili, essa è per noi un triplice soggetto di consolazione, di tristezza e di speranza; di consolazione, perché i buoni Angeli non si servono della loro intelligenza, se non che nel nostro interesse e quello del nostro Padre celeste. Di tristezza, perché in Adamo noi possedevamo un’intelligenza simile alla loro, esente da errore e noi l’abbiamo perduta. Di speranza, perché noi la ritroveremo in cielo, e già ne possediamo le primizie negli splendori della fede.

   Dalla incorporeità degli Angeli nasce la loro agilità. Come essere finito, l’Angelo non può essere dappertutto nel tempo stesso, ma tale è la rapidità de’ suoi movimenti, che equivalgono quasi all’ubiquità. « L’Angelo, dice san Tommaso, non è composto di diverse nature, di modo che il movimento dell’una impedisca o ritardi il movimento dell’altra; come avviene all’uomo, in cui il movimento dell’anima è contenuto dagli organi. Ora dunque, siccome nessun ostacolo lo ritarda né lo impedisce, l’essere intellettuale si muove in tutta la pienezza della sua forza. Per lui lo spazio sparisce. Così, i principi della Città del bene possono a un colpo d’ occhio, essere in un luogo, ed in un altro colpo d’occhio, in altro luogo senza durata intermedia.

Tale è d’altro canto la loro sottigliezza, che i corpi più opachi sono per essi meno di un velo diafano che per i raggi del sole. Come agilità, la forza degli angeli prende la sua sorgente nell’essenza del loro essere, il quale partecipa più abbondantemente d’ogni altro dell’essenza divina, forza infinita. [Diamo a questa partecipazione il significato delle parole di san Pietro: divinae consortae naturae. Ciò che non è del panteismo.] Cosi l’una e l’altra sorpassano tutto ciò che noi conosciamo d’agilità e di forza nella natura, vale a dire che esse sono incalcolabili e si esercitano sul mondo e sull’uomo. Sul mondo: gli angeli sono quelli che gli imprimono il moto. Tutte le creature materiali, come inerti di loro natura, sono nate per essere messe in movimento dalle creature spirituali, siccome il nostro corpo e l’anima nostra. « È legge della divina sapienza, insegna l’angelico Dottore, che gli esseri inferiori siano mossi dagli esseri superiori. Ora la natura materiale essendo inferiore alla natura spirituale, è manifesto ch’essa è posta in movimento da esseri spirituali. Tale è l’insegnamento della filosofia e della fede».

Ora, la forza d’impulsione della quale gli Angeli sono dotati è cosi grande, che basta un solo per mettere in moto tutti i corpi del sistema planetario; e benché sia ad oriente la sua azione, secondo un’antica credenza conservata pure presso i pagani, si fa sentire a tutte le parti del globo. Di guisa che lo stesso uomo, la cui mano pone in azione la ruota maestra di un’immensa macchina produce senza cambiar di luogo, il movimento di tutte le ruote secondarie.

La conseguenza logica di questa forza d’impulsione è che gli Angeli possono spostare i corpi più voluminosi e trasportarli dove vogliono con una tale rapidità che sfugge al calcolo. Secondo sant’Agostino la forza naturale dell’ultimo degli Angeli è tale, che tutte le creature corporee e materiali gli obbediscono quanto al moto locale, nella sfera della loro attività, a meno che Iddio o un Angelo superiore non vi ponga ostacolo. Se dunque Iddio lo permettesse, un Angelo solo trasporterebbe un’intiera città da un luogo ad un altro, come l’hanno fatto per la santa Casa di Loreto trasportata da Nazaret in Dalmazia, e di Dalmazia al luogo ove riceve oggi gli omaggi del mondo cattolico.

Non solamente gli Angeli imprimono il moto al mondo materiale, ma lo conservano, sia impedendo ai demoni di portare la perturbazione nelle leggi che presiedono alla sua armonia, ossia vegliando al mantenimento perpetuo di quelle leggi ammirabili. «Tutta la creazione materiale, dice sant’Agostino, è amministrata dagli Angeli. Perciò nulla impedisce di dire, aggiunge san Tommaso, che gli Angeli inferiori sono preposti dalla Sapienza divina al governo dei corpi inferiori, e i superiori al governo dei corpi superiori, e in fine, i più elevati, all’adorazione dell’Essere degli esseri».

Non bisogna dunque illudersi: l’ordine meraviglioso che ci colpisce nella natura e soprattutto nel firmamento, è dovuto non al caso, non alla forza delle cose, non a leggi immutabili, ma all’azione continua dei Principe della Città del bene. Sotto gli ordini del loro Re, essi conducono gli immensi globi che compongono la splendida armata dei cieli, come tanti ufficiali conducono i loro soldati, come i capi del treno conducono le terribili macchine; con questa differenza che gli ultimi possono ingannarsi, i primi giammai. A malgrado della spaventosa rapidità che imprimono a queste masse gigantesche, essi le mantengono però nella loro orbita, facendo percorrere ad ognuna la sua ruota con una precisione matematica. Un giorno solamente, che sarà l’ultimo dei giorni, questa magnifica armonia sarà rotta. All’avvicinarsi del Giudice supremo, allorché tutte le creature si armeranno contro l’uomo colpevole, i potenti conduttori degli astri, rovesceranno 1’ordine del sistema planetario, allora le nazioni, inorridiranno di timore nell’aspettativa di ciò che deve succedere. Sull’uomo: In virtù della stessa legge di subordinazione gli esseri spirituali di un ordine inferiore sono sottomessi all’azione degli esseri spirituali di un ordine superiore. Così l’uomo è soggetto corpo e anima, alle potenze angeliche e gli Angeli non sono a lui soggetti. Bisognerebbe scorrere tutta la Scrittura qualora si volessero riferire le diverse operazioni degli Angeli sul corpo dell’uomo. Citiamo soltanto l’esempio del profeta Abacuc trasportato da un Angelo dalla Palestina in Babilonia, a fine di portare il suo nutrimento a Daniele rinchiuso nella fossa coi leoni. Citiamo altresì l’esercito del re d’Assiria Sennacheribbe, del quale cent’ottantacinque mila uomini sono tagliati a pezzi da un Angelo in una notte. Ricordando questo fatto a proposito delle dodici legioni d’Angeli che Nostro Signore avrebbe potuto chiamare intorno a sé nell’orto degli Ulivi, san Crisostomo esclama con ragione: « Se un Angelo solo ha potuto mettere a morte cent’ottantacinque mila soldati che cosa non avrebbero fatto dodici legioni d’Angeli? ».

Si potrebbe aggiungere il passo cosi noto dell’Angelo sterminatore, al quale pochi istanti bastarono per fare perire tutti i primogeniti degli uomini e degli animali nel vasto regno d’Egitto. Quanto alla nostra anima, gli Angeli possono esercitare, e in realtà esercitano su di lei una azione a quando a quando ordinaria e straordinaria, di cui è difficile misurare la potenza. L’intelletto deve ad essi i suoi lumi più preziosi. «Le rivelazioni delle cose divine, dice il gran san Dionigi, giungono agli uomini per mezzo degli Angeli ».

Dalla prima sino all’ultima, tutte le pagine dell’antico e del nuovo Testamento verificano le parole dell’illustre discepolo di san Paolo. Abramo, Lot, Giacobbe, Mosè, Gedeone, Tobia, i Maccabei, la SS. Vergine, san Giuseppe, le sante donne e gli Apostoli sono istruiti e diretti da questi spiriti amministratori dell’uomo e del mondo. Noi vedremo che l’Angelo custode compie certo con meno splendore, ma non con meno realtà le stesse funzioni rispetto all’anima affidata alla sua sollecitudine. Questa illuminazione così potente intorno alla condotta della vita ha luogo in parecchie maniere. Ora l’Angelo fortifica l’intelletto dell’uomo, affinché possa concepire la verità; ora gli presenta immagini sensibili, mediante le quali egli può conoscere la verità, perché senza di esse non conoscerebbe. A questo modo si conduce l’uomo medesimo nell’istruirne un altro.

Si tratta per caso della volontà? È vero che gli Angeli, buoni o malvagi, non possono forzare le sue determinazioni, imperocché l’anima resta sempre libera; ma l’esperienza universale insegna quanto le ispirazioni degli Angeli buoni e le suggestioni degli angeli cattivi sono efficaci, per condurci al bene come al male. Tanto gli uni che gli altri, traggono gran parte della loro forza dalla potenza che hanno i principi della Città del bene e della Città del male, di agire profondamente sopra i sensi esteriori.

Mercé di essi, i demoni affascinano l’immaginazione con lusinghiere immagini che tolgono al male la sua bruttura, e lo rivestono dell’apparenza di bene; sommuovono tutta la parte inferiore dell’anima e accendono in tal modo la concupiscenza. Al contrario i buoni Angeli allontanano le nubi dell’errore e le tenebre delle passioni, riconducono i sensi alla loro natia purezza, e producono come una seconda veduta, mediante cui le cose si presentano agli apprezzamenti dell’anima sotto il vero loro aspetto. In certi casi, gli Angeli possono altresì privare l’uomo dell’uso dei suoi sensi, come avvenne agli abitanti di Sodoma. A questa legge si ricollega la lunga serie dei fatti del soprannaturale divino e del soprannaturale satanico, che riempiono gli annali di tutti i popoli, e di cui la ragione non può molto meno spiegare la natura o disconoscere la causa, come non può negarne l’autenticità. I Pagani meno ignoranti o meno ostinati nell’errore dei nostri razionalisti moderni, che non avevano inventato ancora il sistema delle leggi immutabili, proclamano altamente e senza restrizione il libero governo dell’uomo e del mondo, mediante le Potenze angeliche. Oltre le testimonianze già citate, abbiamo quella di Apuleio. Esso è talmente esplicito, che si direbbe una pagina del libro di Giobbe. « Se, dice egli, è sconveniente per un re di far tutto, e governare tutto da sé medesimo, egli è molto più per Iddio. Per conservar a Lui tutta la sua maestà, bisogna dunque credere che Egli stia assiso sul suo sublime trono e che governi tutte le parti dell’universo con le potenze celesti. Infatti Egli governa il mondo inferiore mediante le loro cure: perciò non Gli occorre né fatica, né calcoli, cose di cui l’ignoranza o la debolezza dell’uomo hanno bisogno.

« Quando dunque il Re ed il Padre degli esseri che noi non possiamo vedere, fuorché con gli occhi dell’anima, vuol porre in movimento 1’immensa macchina dell’universo, risplendente di stelle, fulgida di mille bellezze, regolata dalle sue leggi Ei fa, se dirlo è permesso, come facciamo nel momento di una battaglia. Al suono della tromba i soldati, animati dai suoi accenti, si pongono in moto; chi piglia la sua spada, chi il suo scudo; quelli la loro corazza, il loro elmo, i loro stivali; questi inforca il suo cavallo, l’altro attacca i suoi cavalli alla quadriga, ciascuno con ardore si prepara. I veliti formano le loro file, i capitani fanno la loro ispezione e i cavalieri ne pigliano il comando. Ognuno si occupa del suo ufficio. Ciononostante tutto l’esercito obbedisce ad un sol generale che il re pone alla sua testa. Cosi avviene lo stesso nel governo delle cose divine ed umane. Sotto gli ordini di un solo capo, ciascuno conosce il suo dovere e lo compie, quantunque esso non conosca la molla segreta che lo fa agire e che questa potenza sfugge agli occhi del corpo. Prendiamo un esempio in un ordine meno elevato. Nell’uomo l’anima è invisibile. Però bisognerebbe essere pazzo per negare che tutto ciò che l’uomo fa, viene da questo principio invisibile. A lui deve la vita umana e la sua sicurezza, i campi’ la loro cultura, i frutti il loro uso; le arti il loro esercizio; insomma tutto quel che fa l’uomo».

Bossuet è stato dunque l’eco della fede universale, allorquando ha pronunziato questa magistrale parola: « La subordinazione delle nature create chiede che questo mondo sensibile ed inferiore sia diretto dal superiore ed intelligibile, e la natura corporea dalla natura spirituale. [Sermone per la festa dei SS. Angeli p. 402, t. xvi, edit. Lebel.]

Che l’uomo dunque se ne ricordi. Come il mondo materiale é governato dalle Potenze angeliche, egli stesso é posto sotto l’azione immediata di un Angelo buono o malvagio. Non una parola, non un’azione, non un minuto nella sua esistenza che non sia influenzato da una o dall’altra di queste potenti creature. Ma è dolce il pensare che il potere dei Principi della Città del bene supera quello dei principi della Città del male.

« In Dio, dice l’Angelo delle Scuole, è la sorgente principale di ogni superiorità. Quanto più esse si accostano a Dio, tanto più le creature partecipano di Esso e tanto più sono perfette. Ora, la perfezione più grande, quella che si accosta più di tutto a quella di Dio, appartiene agli esseri che godono di Dio medesimo; tali sono gli Angeli buoni. I demoni sono privi di questa perfezione. Ecco perché i buoni Angeli sono superiori a loro in potenza, e li tengono soggetti al loro impero. Di qui deriva, come conseguenza, che l’ultimo degli Angeli buoni comanda al primo dei demoni, atteso che la forza divina, alla quale egli partecipa, la vince sulla forza della natura angelica».

Numero degli angeli. Quando gli autori ispirati, ammessi a vedere talune delle realtà del mondo superiore, vogliono indicare la moltitudine degli Angeli, essi non parlano che di milioni e di centinaia di milioni. « Io mi stava osservando, dice Daniele, fino a tanto che furono alzati dei troni e l’Antico dei giorni si assise: le sue vestimenta candide come neve e i capelli della sua testa come lana lavata. Il trono di Lui era di fiamme infuocate; le ruote del trono erano vivo fuoco. Rapido fiume di fuoco usciva dalla sua faccia. I suoi ministri erano migliaia di migliaia e i suoi assistenti dieci mila volte cento mila. » [Dan., VII, 10].

Testimone dello stesso spettacolo san Giovanni, continua: « E io vidi e intesi intorno al trono la voce di una moltitudine di Angeli il cui numero era di migliaia di migliaia.» Più sotto avendo osservato 1’universalità degli eletti del sangue d’Abramo, aggiunge: «Dopo ciò vidi una grande moltitudine che nessuno poteva contare, di tutti i popoli e di tutte le lingue. » Ora sin dal principio del mondo, ciascun predestinato e ciascun reprobo ha per guardiano un Angelo dell’ordine inferiore; cosicché il numero degli Angeli di tutte le gerarchie è incalcolabile.

San Dionigi, depositario degli insegnamenti del suo maestro Paolo rapito al terzo cielo, tiene lo stesso linguaggio : «I beati eserciti delle superne menti, superano, egli dice, per numero tutti i poveri calcoli della nostra aritmetica materiale. Non sospettate nessuna esagerazione nelle parole dei Profeti. Il numero degli Angeli é incalcolabile; eccede quello di tutte le creature anche quello degli uomini che furono, che sono e che saranno ».

L’Angelo della scuola ne dà la ragione; e noi traduciamo il suo pensiero. Il fine principale che Dio si è proposto nella creazione degli esseri è la perfezione dell’universo. La perfezione o la bellezza dell’universo risulta dalla più splendida manifestazione degli attributi di Dio, nei limiti segnati dalla sua sapienza. Quindi ne segue che quanto più certe creature sono belle e perfette, tanto più ne è stata abbondante la creazione. Il mondo materiale conferma questo ragionamento. Vi si rinvengono due specie di corpi: i corruttibili e gli incorruttibili. La prima si riduce al nostro globo, abitazione degli esseri corruttibili; ed il globo nostro è un nulla in confronto ai globi del firmamento. Ora siccome la grandezza è per i corpi la misura della perfezione, il numero lo è per gli spiriti. Cosi la ragione medesima conduce a questa conclusione, che gli esseri immateriali superano gli esseri materiali in numero incalcolabile. Aspettando che il cielo ci riveli la esattezza di queste magnifiche supposizioni del genio illuminato dalla fede, è per il nostro pellegrinaggio un grande argomento di sicurezza il sapere che gli Angeli buoni sono molto più numerosi dei cattivi. « La coda del Dragone, dice san Giovanni, non trascinò seco che la terza parte delle stelle ». Non avvi nessuno interprete che per queste stelle non intenda parlarsi qui degli angeli ribelli.

Gerarchie e ordini degli angeli. Una moltitudine senza ordine è la confusione: tale non può essere lo stato degli Angeli. « Tutte le opere di Dio, dice l’Apostolo, sono ordinate; » o, come è scritto altrove: « Dio ha fatto tutte le cose in numero, peso e misura », cioè dire con ordine perfetto. L’ordine è la prima cosa che ci colpisce nel mondo materiale. L’ordine produce l’armonia, e l’armonia suppone la mutua subordinazione di tutte le parti dell’ universo. Dal canto suo questa armonia rivela una causa intelligente che l’ha creata e che la mantiene.

Senza dubbio la stessa armonia deve esistere per quanto è possibile più perfetta nel mondo degli spiriti, archetipo del mondo dei corpi e capo d’opera della sapienza creatrice. La subordinazione, per conseguenza la gerarchia degli esseri che la compongono, è dunque la legge del mondo invisibile, come è la legge del mondo visibile. Tali sono l’insegnamento della fede e l’affermazione invariabile della ragione. Ora secondo l’etimologia delle parole: La Gerarchia è un sacro principato. Principato significa a un tempo il principe stesso e la moltitudine posta sotto i suoi ordini. Di qui derivano bellissime conseguenze che mandano una viva luce sull’ordine generale dell’universo e sul governo particolare della Città del bene. Dio essendo il creatore degli Angeli e degli uomini non ha rispetto a sé che una sola gerarchia della quale Egli è il supremo gerarca. Lo stesso è rispetto al Verbo incarnato. Re dei Re, Signore dei Signori, a cui è stata data ogni potenza in cielo e in terra, Egli è il supremo gerarca degli Angeli e degli uomini e per conseguenza della Chiesa trionfante e della Chiesa militante.

Pietro, come Vicario del Verbo incarnato è il supremo gerarca della Chiesa militante in virtù di quelle parole divine: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore”. Dal canto suo poi Pietro ha stabilito altri gerarchi, i quali essi pure hanno stabilito rettori subalterni, incaricati di dirigere le diverse provincie della Città del bene. Ciononostante tutti non formano che una sola e medesima gerarchia, poiché tutti militano sotto uno stesso capo, Gesù Cristo. Vedremo tra poco che la gerarchia angelica è il tipo della gerarchia ecclesiastica, tipo essa stessa della gerarchia sociale.

Se consideriamo il principato nei suoi rapporti con la moltitudine, chiamasi gerarchia l’insieme degli esseri soggetti ad una sola e medesima legge. Se essi sono soggetti a leggi differenti formano delle gerarchie distinte, senza cessare di far parte della gerarchia, generale.

   Cosi vediamo in uno stesso reame e sotto uno stesso re, delle città governate da differenti leggi. [Vediamo altresì da questo che la centralizzazione in un grande impero è contraria alle leggi fondamentali dell’ordine e, come conseguenza inevitabile, ella deve produrre la collisione, l’inquietudine, la ribellione, la rovina.]

Ora, gli esseri non sono soggetti alle stesse leggi, se non perché hanno la stessa natura e le stesse funzioni. Risulta da ciò che gli Angeli e gli uomini non avendo né la stessa natura né le stesse funzioni, formano delle gerarchie distinte; risulta altresì che tutti gli Angeli non avendo le stesse funzioni, il mondo angelico si divide in parecchie gerarchie.

Che gli Angeli e gli uomini formino delle gerarchie distinte, la ragione e la prova è nella perfezione relativa degli uni e degli altri. Questa perfezione è tanto più grande, quanto gli esseri partecipano più abbondantemente delle perfezioni di Dio. Come creatura puramente spirituale, l’Angelo ne partecipa più dell’uomo. Infatti l’Angelo riceve le illuminazioni divine nell’intelligibile purità della sua natura, mentre l’uomo le riceve sotto le immagini più o meno trasparenti delle cose sensibili, come la parola ed i Sacramenti.

L’Angelo è dunque una creatura più perfetta dell’uomo, e deve per conseguenza formare una diversa gerarchia. Inoltre siccome vi è gerarchia, vale a dire ordine di subordinazione nel mondo angelico, è evidente che tutti gli Angeli non ricevono ugualmente le divine illuminazioni. Vi sono dunque degli Angeli superiori agli altri. La loro superiorità ha per fondamento la cognizione più o meno perfetta, più o meno universale della verità.

« Questa conoscenza, dice san Tommaso, segna tre gradi negli Angeli; imperocché essa può essere riguardata sotto un triplice rapporto. «Primieramente, gli Angeli possono vedere la ragione delle cose in Dio, Principio primo e universale. Questa maniera di conoscere è il privilegio degli Angeli che si accostano più a Dio, e che secondo la bella parola di san Dionigi, stanno dentro il suo vestibolo. Questi Angeli formano la prima gerarchia. « In secondo luogo possono essi vederla nelle cause universali create che appellansi le leggi generali. Queste cause sono multiple, la conoscenza è meno precisa e meno chiara. Questa maniera di conoscere è la dote della seconda gerarchia.  “In terzo luogo, possono essi vederla nella sua applicazione agli esseri individuali, in tanto che essi dipendono dalle loro proprie cause, o dalle leggi particolari che le reggono. In tale modo conoscono gli Angeli della terza gerarchia”.

Vi sono dunque tre gerarchie tra gli Angeli e non sono che tre: una quarta non troverebbe posto. Di fatti queste tre gerarchie hanno la loro ragione d’essere nelle tre maniere possibili di vedere la verità: in Dio, nelle cause generali, nelle cause particolari, vale a dire come parla il sublime areopagita, nella vita più o meno abbondante della quale godono gli Angeli che le compongono.

La rivelazione ci scuopre altresì in ciascuna gerarchia tre cori o ordini differenti. Chiamasi “coro” ovvero “ordine angelico”, una certa moltitudine di Angeli, simili tra loro per i doni della natura e della grazia. Ogni gerarchia ne racchiude tre non più che tre. Più sarebbe troppo; meno, non basta. Infatti ogni gerarchia compone come un piccolo stato. Ora ciascuno stato possiede necessariamente tre classi di cittadini né più né meno. « Per quanto siano numerosi, dice san Tommaso, tutti i cittadini di uno stato si riducono a tre classi, secondo le tre cose che costituiscono ogni società bene ordinata: il principio, il mezzo e il fine. Perciò noi vediamo invariabilmente tre ordini tra gli uomini; gli uni sono al primo grado, ed è l’aristocrazia; gli altri all’ultimo, cioè il popolo, gli altri tengono il mezzo, e quest’è la cittadinanza.

« Così avviene fra gli Angeli. In ciascuna gerarchia vi sono ordini differenti. Simili alle gerarchie medesime questi ordini si distinguono per ’eccellenza naturale degli Angeli che gli compongono e per la differenza delle loro funzioni. Tutte queste funzioni si riferiscono necessariamente a tre cose né più né meno: il principio, il mezzo e il fine ». Vedremo ciò chiaramente con la spiegazione delle particolari funzioni di ogni ordine.

Prima di darla confermiamo che la magnifica gerarchia del cielo, o della Chiesa trionfante si prova di per se stessa, riflettendosi agli occhi nostri nella gerarchia della Chiesa militante, quell’altra porzione della Città del bene. Basta aprire gli occhi per vedere che la Chiesa terrena si divide in tre gerarchie, ed ogni gerarchia in tre ordini.

   La prima si compone di prelati superiori, e racchiude tre ordini: il supremo pontificato, l’arcivescovado e l’episcopato; al supremo pontificato appartiene il cardinalato, imperocché i cardinali sono i coadiutori del supremo pontefice; come l’ arcivescovado appartiene al patriarcato, la cui giurisdizione si estende a parecchie diocesi ed anche a parecchie provincie.

   La seconda si compone di prelati mezzani, i quali ricevono la direzione dai prelati superiori, e che adempiono a certe funzioni, sia in virtù della loro propria autorità, ossia per delegazione. Essa racchiude altresì tre ordini: gli abati a cui è affidato il potere di benedire e qualche volta di confermare. I priori e i decani delle collegiate o delle comunità, i cui poteri sono più o meno estesi. I rettori ed i curati, incaricati della condotta delle parrocchie, ed ai quali si riferiscono nella qualità loro di ausiliari, i vicari ed i chierici inferiori. Tutti hanno per missione di amministrare i Sacramenti.

   La terza si compone dei fedeli o del popolo; ai quali appartiene il ricevere i beni spirituali, ma non amministrarli. Come le altre, quest’ultima gerarchia racchiude tre ordini, le vergini, i continenti ed i maritati, i cui doveri sono diversi, come la loro stessa vocazione é distinta. Nella regolarità del loro ministero queste gerarchie e questi ordini presentano la più bella armonia che l’uomo possa contemplare quaggiù, e quest’armonia non é altro che l’immagine dell’armonia mille volte più bella che noi vedremo nel cielo. Lassù si mostreranno agli occhi nostri senza nubi e senza velo, le tre gerarchie angeliche, con i loro nove cori, di luce e di beltà risplendenti.

Nella prima: i Serafini, i Cherubini ed i Troni. Nella seconda: le Dominazioni, i Principati e le Potenze. Nella terza: le Virtù, gli Arcangeli e gli Angeli.

Funzioni degli angeli. Il mondo angelico composto di tre grandi gerarchie, ed ogni gerarchia divisa in tre ordini distinti, ci apparisce come un magnifico esercito in bell’ordine. Il saper questo non basta. Per godere dello spettacolo di un immenso esercito nei suoi formidabili splendori, bisogna vederlo in movimento. Cosi, per avere un’idea dell’esercito armato dei cieli, e misurare il luogo occupato nel piano provvidenziale, con i Principi della Città del bene, è d’uopo studiarli nell’esercizio delle loro funzioni. Essere purificati, illuminati, perfezionati; ovvero purifìcare, illuminare e perfezionare; tal’è il duplice fine a cui si riferiscono tutte le funzioni delle gerarchie e degli ordini angelici. Qual è il significato di queste misteriose parole? Tutti gli Angeli non conoscono del pari i segreti divini. La prima gerarchia, abbiamo detto con san Tommaso, vede la ragione delle cose in Dio medesimo; la seconda, nelle cause seconde universali: la terza, nell’applicazione di queste cause agli effetti particolari.

Alla prima appartiene la considerazione del fine; alla seconda, la disposizione universale dei mezzi; alla terza, il porla in opera. I lumi attinti nel seno stesso di Dio gli Angeli della prima gerarchia gli comunicano, per quanto occorre, agli Angeli della seconda gerarchia: questi agli Angeli della terza; e quelli della terza ne fanno parte agli uomini. Ma la reciprocità non ha luogo, atteso che gli Angeli inferiori non hanno nulla da insegnare agli Angeli superiori, né gli uomini agli Angeli.

Questa comunicazione incessante, come necessaria al governo del mondo, durerà sino all’ultimo giudizio. Essa racchiude quel che noi abbiamo chiamata la purificazione, l’illuminazione ed il perfezionamento. Infatti la manifestazione di una verità a colui che non la conosce, purifica il suo intelletto, dissipando le tenebre dell’ignoranza; essa illumina facendo rifulgere la luce dove regnava l’oscurità; essa lo perfeziona dandogli una scienza certa della verità. Tali sono le operazioni degli Angeli superiori rispetto agli Angeli inferiori; i quali sono, per questo, detti purificati, illuminati e perfezionati. Neppure una di quelle misteriose operazioni della gerarchia celeste, che non si rinvenga nella gerarchia della chiesa militante. Ora le comunicazioni angeliche si fanno mediante la parola; imperocché gli Angeli, immagini perfette del Verbo, hanno un linguaggio e si parlano tra di loro. Che gli Angeli parlino, san Paolo ce lo insegna, allorché dice: “Quando io parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli”. Nonpertanto guardiamoci dall’immaginare che il linguaggio angelico sia simile al linguaggio umano, e che abbia bisogno di suoni articolati o di segni esteriori, veicoli del pensiero tra un Angelo e l’altro.

Questo linguaggio è tutto interiore, tutto spirituale, come lo stesso Angelo. Ei consiste da parte dell’Angelo superiore nella volontà di comunicare una verità all’Angelo inferiore; e dalla parte di questi nella volontà di riceverla. Queste due operazioni non incontrando nessun ostacolo, né nella natura degli Angeli, né nelle loro disposizioni individuali, sono infallibili ed istantanee. Tanto la seconda che la terza gerarchia ricevono dalla prima, l’una immediatamente, l’altra mediatamente le divine illuminazioni. Di qui, relativamente alla loro dignità ed alle loro funzioni quella grande divisione degli Angeli, in Angeli assistenti e in Angeli esecutori, o amministratori. I primi considerano in Dio stesso la ragione delle cose da fare, e le manifestano agli Angeli inferiori, incaricati di eseguirle. Tale è l’immagine sotto la quale la sacra Scrittura ci rappresenta gli Angeli della prima gerarchia. Uno di questi principi illustri della corte del grande Re, parlando a Tobia gli dice: « Io sono Raffaello, uno dei sette angeli che siamo assistenti dinanzi a Dio. » Che letteralmente vuol dire: “che noi stiamo in piedi dinanzi al suo trono”.

Bisogna dire che questa bella espressione “essere assistenti al trono di Dio” ha parecchi significati. Gli Angeli assistono dinanzi a Dio allorquando essi prendono i suoi ordini; allorché Gli porgono le preghiere, le elemosine, le buone opere, i voti dei mortali; quando essi difendono contro i demoni la causa degli uomini al supremo tribunale; quando penetrano i loro sguardi nei raggi della faccia divina per ritrarne le ineffabili voluttà che costituiscono la loro felicità. In quest’ ultimo significato tutti gli Angeli, nessuno eccettuato, sono assistenti dinanzi a Dio; poiché tutti godono e godono continuamente della beatifica visione, allorché pure essi compiono le loro missioni sul governo del mondo. Nondimeno nel senso preciso, l’espressione “assistere dinanzi a Dio” designa gli Angeli della prima gerarchia, che non hanno costume d’essere impiegati in ministeri esterni. Questi Angeli assistenti al trono di Dio e superiori a tutti gli altri si chiamano: i Serafini, i Cherubini, i Troni, e formano la prima gerarchia. Poiché le gerarchie del mondo inferiore non sono che un riflesso delle gerarchie del mondo superiore; un solido confronto, preso dalla corte dei re della terra, ci aiuta a comprendere il grado e le funzioni di questi grandi Ufficiali della Corona eterna. Fra i cortigiani ve ne sono di quelli che debbono alla loro dignità l’entrare famigliarmente presso il Principe, senza aver bisogno d’essere introdotti; altri che aggiungono a questo primo privilegio quello di conoscere i segreti del Principe; altri finalmente ancor più favoriti, compagni inseparabili del Principe, sembrano non fare che un solo con Lui.

Questi ultimi ci rappresentano i Serafini. Creature le più sublimi che Dio abbia tratte dal nulla, questi Spiriti angelici debbono il loro nome alla fiamma del loro amore. Posti in cima delle gerarchie create, essi giungono fin dove il finito può giungere all’infinito, alla Trinità divina, all’Amore stesso ed al centro eterno di ogni amore. Lungi dal raffreddare il loro ardore, le solenni missioni che gli sono qualche volta affidate sembrano accrescerlo e far loro ripetere, con una più intima voluttà, il cantico sentito da Isaia: « I Serafini stavano in piedi, e chiamandosi l’un l’altro, dicevano: Santo, santo, santo è il Signore Dio degli eserciti; tutta la terra è ripiena della sua gloria.

Nei fortunati cortigiani che conoscono tutti i segreti del Principe, noi abbiamo un’immagine dei Cherubini, il cui nome significa “pienezza della scienza”. Questi Spiriti deiformi che non abbagliano né turbano mai i raggi scintillanti della faccia di Dio, contemplano con uno sguardo le ragioni intime delle cose nella loro sorgente, a fine di comunicarle agli Angeli inferiori, dei quali debbono essi determinare le funzioni e regolare la condotta. Essi medesimi qualche volta sono spediti in missione. Cosicché vedesi un Cherubino incaricato di guardare l’ingresso del paradiso terrestre e d’interdirlo all’uomo colpevole.

Perché un Cherubino e non un altro Angelo? Vegliare e vedere di lontano sono le due qualità di una sentinella. Ora, come il loro nome lo indica, i Cherubini posseggono queste due qualità ad un grado sovraeminente, anche nel mondo angelico.

I Troni sono rappresentati dai grandi signori che hanno libero ingresso presso il Re. Elevatezza, beltà, solidità: ecco le tre idee che reca allo spirito il nome della sede sulla quale si pongono i monarchi nelle occasioni solenni. Nessuno poteva meglio designare il terzo ordine angelico della prima gerarchia. I Troni sono così chiamati, anche quegli Angeli, sfolgoranti di bellezza, che sono elevati al disopra di tutti i cori delle gerarchie inferiori, ai quali essi intimano gli ordini del gran Re, dividendo con i Serafini ed i Cherubini il privilegio di vedere chiaramente la verità in Dio medesimo, vale a dire nella Causa delle cause. Fissi in Dio per intuizione della verità, essi sono incrollabili. Di più, come il trono materiale è aperto da un lato per ricevere il monarca che parla di questa fede maestosa; cosi i Troni angelici sono aperti per ricevere lo stesso Dio che parla per bocca loro. Ad essi appartiene il nobile ufficio di trasmettere le sue sovrane comunicazioni agli Angeli delle gerarchie inferiori, sparsi in tutte le parti della Città del bene. Infatti i Troni, essendo l’ultimo ordine della prima gerarchia o degli Angeli assistenti, toccano immediatamente alle Dominazioni, che formano il coro il più elevato degli Angeli ministranti.

Tali sono dunque in poche parole i rapporti e le distinzioni che esistono tra gli Angeli della prima gerarchia. Tutti sono assistenti al Trono. Tutti contemplano le ragioni delle cose nella causa prima. Il privilegio dei Serafini è di essere uniti a Dio nel modo il più intimo, negli ardori deliziosi di un indicibile amore!

Il privilegio dei Cherubini è di vedere la verità, di una veduta superiore a tutto ciò che è al disotto di essi. Il privilegio dei Troni è di trasmettere agli Angeli inferiori, in proporzione del bisogno, le comunicazioni divine di cui essi posseggono la pienezza.

Cosi è che l’augusta Trinità, la cui immagine passa attraverso a tutte le creazioni, brilla di un incomparabile splendore nella massima perfezione. Nei Troni vediamo la Potenza; nei Cherubini, l’Intelligenza; nei Serafini, l’Amore.

La gerarchia ecclesiastica, come riflesso della gerarchia celeste, offre lo stesso spettacolo. Nel Diacono voi avete la Potenza che eseguisce; nel Sacerdote, l’Intelligenza che illumina; nel Pontefice, l’Amore che consuma, secondo quella parola indirizzata al capo supremo del Pontificato: « Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più degli altri? — Signore, Voi sapete che io vi amo. — Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore.» L’Amore è dunque il principio, il fine, la legge suprema della Città del bene; siccome l’odio, come noi vedremo, è il principio, il fine, la legge suprema della Città del male.

Innanzi di lasciare la prima gerarchia angelica ci sembra necessario dire una parola dei Sette Angeli assistenti al Trono di Lui, dei quali é parlato nell’uno e nell’altro Testamento. « Io sono Raffaello uno dei sette Angeli che stiamo in piedi dinanzi a Dio, diceva Raffaele a Tobia. » [Tob., xn; 15] .« Giovanni, alle sette Chiese che sono in Asia. Grazie a Voi e pace, da parte di Colui che è e che era e che dee venire, e da parte de’sette Spiriti che stanno alla presenza del suo Trono, scriveva il discepolo diletto». [Apoc., I, 4.]

La tradizione cattolica, interprete fedele degli insegnamenti divini, venera difatti, sette Angeli più belli, più grandi, più potenti di tutti gli altri, che circondano il Trono di Dio, sempre pronti ad eseguire, sia per se medesimi, ossia per altri, le sue volontà supreme. Come l’oggetto di confermarla, il Re degli Angeli si è piaciuto sovente di mostrarsi ai Santi ed ai martiri, circondato da questi sette Principi sfolgoreggianti di splendore. Così Egli apparve al comandante della coorte pretoriana, san Sebastiano, per animarlo al combattimento del martirio; e come pegno di vittoria, lo fece rivestire da’ questi sette angeli di un manto di luce. Un’altra tradizione comune ai giudei, ai filosofi ed ai teologi, attribuisce a questi sette Angeli il supremo governo del mondo fisico e del mondo morale. Essi sono simili ai ministri dei re, la cui vita pare inoperosa perché essa si esercita intorno al Trono; ma che, in realtà, è l’anima di tutti i movimenti dell’impero.

Essendo essi paragonati, secondo san Girolamo, al candelabro dalle sette braccia del tabernacolo mosaico, presiedono ai sette grandi pianeti, le rivoluzioni dei quali determinano il movimento di tutte le ruote secondarie nella meravigliosa macchina che chiamasi universo materiale. Sotto la stessa figura noi vediamo questi sette Spiriti che presiedono al mondo morale. « Di qui viene, secondo l’osservazione di un dotto commentatore, la distribuzione settenaria, cosi frequente nelle opere divine. Come vi sono nel mondo sette pianeti e sette giorni nella settimana, cosi vi sono nella Chiesa sette doni dello Spirito Santo, e sette virtù principali, alle quali presiedono questi sette Angeli superiori al fine di condurre per mezzo di essi gli uomini alla vita eterna. »

Ascoltiamo ancora un altro teologo: « Il numero sette che indica i sette grandi Principi della corte celeste, è un numero preciso; imperocché quando trovasi nella Scrittura lo stesso numero, usato parecchie volte in differenti luoghi, soprattutto in materia di Storia, la regola é di prenderla nel suo significato matematico. Vi sono dunque sette Angeli superiori a tutti gli altri. Loro ufficii speciali sono di vegliare ai sette doni dello Spirito Santo, a fine di ottenerli, di comunicarceli e di farli fruttificare; di domare in virtù ed in forza speciale i sette demoni che presiedono ai sette peccati capitali, di presiedere ai sette corpi più splendidi del firmamento, e di farci praticare le sette virtù necessarie alla salute, le tre teologali e le quattro cardinali.

« Poiché sotto la direzione di Satana sette demoni presiedono ai sette peccati capitali, e nel loro odio implacabile dell’uomo, nulla trascurano per farci commettere questi peccati e strascinarci alla dannazione: perché non crediamo noi che sotto il gran Re della Citta del bene, sette Angeli, scelti tra i più nobili, sono incaricati di sorvegliare questi sette nemici principali, di metterci, al riparo contro i loro assalti, e di farci praticare le virtù che debbono assicurare la nostra eterna salvezza? L’assalto può essere egli superiore alla difesa? E se tra gli Angeli cattivi vi ha un accordo per perdere gli uomini, perché non ve ne sarebbe uno tra gli Angeli buoni per salvarli? » La Chiesa erede fedele di questi alti insegnamenti, ha avuto cura di riprodurli nella sua gerarchia. Diciamo meglio: il divino Fondatore della Chiesa militante ha voluto ch’essa offrisse nella sua gerarchia, l’immagine di quella della sua sorella, la Chiesa trionfante. Perché vediamo poi gli Apostoli, diretti dallo Spirito Santo, stabilire sette diaconi e non sei o otto? Perché i primi successori di San Pietro creano essi sette cardinali diaconi? Perché ordinano che sette diaconi assisteranno il sovrano Pontefice ed anche il vescovo, quando pontifica? Per ricordare i sette Angeli che assistono al Trono di Dio. « Questi sette diaconi, continua Serario, erano chiamati gli occhi del vescovo pei quali egli’ vedeva tutto ciò che avveniva nella sua diocesi. Ora, Iddio è il primo e il maggiore dei vescovi. La sua diocesi, è il mondo. Ei vede tutto ciò che vi accade per mezzo dei sette diaconi angelici. Non certamente che Egli abbia bisogno delle creature, come il vescovo ha bisogno de’ suoi diaconi per conoscere tutte le cose; ma se ne serve per la stessa ragione che gli fa adoperare le cause seconde pel governo dell’universo. Questa ragione è di onorare le sue creature. »

I sette grandi Principi angelici occupano un troppo gran posto nella creazione e nel governo del mondo; essi ci ottengono troppi favori, ci rendono troppi servigi; essi sono troppo onorati da Dio medesimo, perché la Chiesa abbia dimenticato di render loro un culto speciale di riconoscenza e di venerazione. La loro memoria è celebre nelle diverse parti del mondo cattolico, ma in nessuna parte è tanto viva come in Sicilia, a Napoli, a Venezia, a Roma ed in parecchie città d’Italia, questi luoghi, dove sembrano conservarsi più religiosamente che altrove le antiche tradizioni, ce li mostrano rappresentati in pittura, in scultura ed anche in mosaico. Palermo capitale della Sicilia possiede una bella chiesa dedicata ai sette Angeli principi della milizia celeste. Nel 1516 le loro immagini di una grandissima antichità, furono scoperte dall’arciprete di quella chiesa, il venerabile Antonio Duca. Stimolato spesso dall’ispirazione divina, questo sant’uomo venne, a Roma nel 1527, per propagare il culto di questi Angeli, e trovar loro e fabbricarli un santuario. Dopo molti digiuni e preghiere ei meritò di conoscere per rivelazione che le Terme di Diocleziano dovevano essere il tempio dei sette Angeli assistenti al trono di Dio. Le ragioni della scelta divina erano, che queste Terme famose erano state costruite da migliaia di angeli terrestri, vale a dire da quaranta mila cristiani condannati a questa dura fatica; che la loro costruzione gigantesca aveva durato sette anni; che tra tutti quei martiri, sette rifulsero di un più vivo splendore: Ciriaco, Largo, Smaragdo, Sinsinio, Saturnino, Marcello e Trasone, i quali incoraggiavano i cristiani e provvedevano alle loro necessità.

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Questa rivelazione essendo stata accertata, i sovrani Pontefici Giulio III e Pio IV ordinarono di purificare le Terme e di consacrarle in onore dei sette Angeli assistenti al Trono di Dio, o della Regina del cielo circondata da questi sette Angeli. Michelangelo fu incaricato del lavoro. Con i ricchi materiali delle voluttuose Terme del più gran nemico dei cristiani, il celebre architetto fabbricò la splendida chiesa che si ammira tuttora. Il 5 agosto 1561 Pio IV, in presenza del sacro collegio e di tutta la corte romana, la consacrò solennemente a S. Maria degli Angeli e 1’onorò del titolo cardinalizio. Si vede che la Chiesa cattolica nella sua materna sollecitudine nulla trascura per farci conoscere gli Angeli, per onorarli, per avvicinarci ad essi ed assicurarci la loro potente protezione. Nulla di più intelligente di una simile condotta. Noi siamo della famiglia degli Angeli e dobbiamo vivere con essi per tutta l’eternità. Passiamo alla seconda gerarchia. L’abbiamo già notato, non avvi nessun salto nella natura. Tutte le creazioni si toccano e si concatenano con legami misteriosi talmenteché le ultime produzioni di un regno superiore si confondono con le produzioni le più elevate del regno inferiore. La stessa legge regge il mondo delle intelligenze, prototipo del mondo dei corpi. Così, i Troni, ultimo ordine della prima gerarchia angelica, riguardano immediatamente l’ordine il più elevato della seconda, le Dominazioni.

Se i Troni finiscono la gerarchia degli Angeli assistenti, le Dominazioni cominciano le gerarchie degli Angeli ministranti. Queste ultime in numero di tre sono nel governo del mondo e della città del bene, ciò che sono nelle società umane i capi dei grandi corpi dello stato, i generali d’ armata, i magistrati. La più eminente si compone delle Dominazioni, dei Principati e delle Potestà.

Indicare e comandare quel che bisogna fare è la parte delle Dominazioni. Esse sono cosi chiamate e con ragione, perché dominano tutti gli ordini angelici, incaricati di eseguire le volontà del gran Re: come il generalissimo di un esercito domina tutti i capi dei corpi posti sotto i suoi ordini, e gli fa manovrare secondo le intenzioni del principe di cui è il rappresentante. Per continuare il confronto, i Principati, il cui nome significa “conduttori secondo l’ondine sacro”, rappresentano i generali e gli ufficiali superiori che comandano ai loro subordinati i movimenti e le manovre, conforme alle prescrizioni del generalissimo. Principi delle nazioni e dei regni, questi potenti Spiriti le conducono, ognuna in ciò che le riguarda, alla esecuzione del piano divino. In questo ministero, di tutti il più importante, sono secondati dagli Angeli immediatamente sottomessi ai loro ordini. Da ciò resulta la magnifica armonia della quale parla sant’Agostino. « I corpi inferiori, dice il gran vescovo, sono regolati dai corpi superiori, e tanto gli uni che gli altri dagli Angeli, e i cattivi angeli dai buoni. »

Vengono finalmente le Potestà. Rivestiti, come lo indica il loro nome, di una autorità speciale, questi Angeli sono incaricati di togliere gli ostacoli alla esecuzione degli ordini divini, allontanando gli angeli cattivi che assediano le nazioni per distoglierli dal loro scopo. Nell’ordine umano, i loro consimili sono le pubbliche potestà, incaricate di allontanare i malfattori e togliere cosi gli ostacoli al regno della giustizia e della pace.

     La terza gerarchia angelica è formata delle Virtù, degli Arcangeli e degli Angeli. Nei soldati che compongono i differenti corpi di un esercito, di cui ciascun reggimento ha la sua destinazione particolare, negli amministratori subalterni alla giurisdizione ristretta, noi troviamo l’immagine dei tre ultimi ordini angelici e l’idea delle loro funzioni.

Le Virtù, il cui nome vuol dir “forza”, esercitano il loro impero sopra la creazione materiale, presiedono immediatamente al mantenimento delle leggi che la reggono, e vi conservano l’ordine che ammiriamo. Quando la gloria di Dio l’esige, le Virtù sospendono le leggi della natura e operano dei miracoli. Cosi gli agenti invisibili, dai quali noi siamo circondati, rivelano la loro presenza, e mostrano che il mondo materiale è soggetto al mondo spirituale, come il corpo è soggetto all’anima.

Tutti i ministeri degli ordini angelici si riferiscono alla gloria di Dio ed alla deificazione dell’uomo; in altri termini, al governo della Città del bene. Gli uomini, sudditi di questa gloriosa Città, sono l’oggetto particolare della sollecitudine degli Angeli. Fra essi e noi esiste un commercio continuo, figurato dalla scala di Giacobbe. Scendere gli scalini di questa scala misteriosa e venire, in occasioni solenni, a compiere presso l’uomo importanti missioni, soprintendere al governo delle provincie, delle diocesi, delle comunità; tale è la duplice funzione degli Arcangeli, il cui nome significa Angelo superiore, o Principe degli Angeli propriamente detti. Sotto quest’ordine vi è quello degli Angeli. Angelo significa “inviato”. Tutti gli spiriti celesti essendo i notificatori dei pensieri divini, il nome di Angelo è ad essi comune. A questa funzione gli Angeli superiori aggiungono certe prerogative, dalle quali traggono il proprio loro nome. Gli Angeli dell’ultimo ordine dell’ultima gerarchia, non aggiungendo niente alla funzione comune d’inviati e di notificatori, ritengono semplicemente il nome di Angeli. In relazione più immediata e più abituale con l’uomo, essi vegliano alla custodia della sua duplice vita e gli recano ad ogni ora, ad ogni istante, lumi, forze, grazie di cui abbisogna, dalla culla fino alla tomba.

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Se noi riepiloghiamo questo rapido schizzo, quale immenso orizzonte non si apre dinanzi a noi! Quale imponente spettacolo non si spiega a’ nostri occhi! È vero dunque che invece di non essere niente, il mondo superiore è tutto; che il reale è l’invisibile; che il mondo materiale vive sotto l’azione permanente del mondo spirituale; che Dio governa l’universo mediante i suoi Angeli, liberamente, senza necessità, senz’obbligo, come un re governa il suo regno mediante i suoi ministri, e un padre, la sua famiglia, per mezzo dei suoi servi. È vero altresì che razione di questi spiriti amministratori raggiunge ciascuna parte dell’insieme, di modo che né l’uomo né alcuna creatura non è abbandonata al vento, lasciata alle proprie sue forze, o lasciata in balìa degli assalti delle potenze nemiche.

Come principi e governatori della grande Città del bene, a cui si riferisce tutto il sistema della creazione, gli Angeli, nell’ordine materiale presiedono al moto degli astri, alla conservazione degli elementi, ed al compimento di tutti i fenomeni naturali che ci rallegrano o che ci spaventano. Tra essi è divisa l’amministrazione di questo vasto impero. Gli uni hanno cura dei corpi celesti, gli altri della terra e de’ suoi elementi; altri delle sue produzioni, come gli alberi, le piante, i fiori ed i frutti. Ad altri è affidato il governo dei venti, dei mari, dei fiumi, delle fonti; ad altri la conservazione degli animali. Neppure una visibile creatura grande o piccola ch’ella sia, che non abbia una Potenza angelica incaricata di sorvegliarla.

L’uomo animale, lo sappiamo, “animalis homo”, nega questa azione angelica; ma la sua negazione non prova che una cosa, cioè ch’egli è animale. Per l’uomo che ha l’intelligenza, questa azione è evidente. Dappertutto dove la natura materiale lascia scorgere dell’ordine, dell’armonia, del moto, un fine; ivi si riconosce tosto un pensiero, una intelligenza, una causa motrice e direttrice. Ora, niente nella natura materiale si fa senza ordine, senza armonia, senza movimento, senza scopo.

Qual è il principio di tutte queste cose? Non è, né può essere nella materia inerte, cieca di sua natura. Senza dubbio, il vento non sa né dove, né quando deve soffiare; né con qual violenza; né quali tempeste dee suscitare; né quali nubi deve accumulare. La pioggia, la neve, la folgore stessa non sanno dove debbono formarsi, né dove debbono cadere; la direzione che devano tenere, il fine che debbono raggiungere; il giorno e 1’ora dove debbono compiere la loro missione. Cosi è lo stesso delle altre creature materiali, così impropriamente decorate del nome di agenti.

Dov’é dunque il principio dell’ordine, dell’armonia e del moto? A meno che non si ammettano degli effetti senza causa, bisogna per necessità cercarlo fuori della creazione materiale, in una natura intelligente, essenzialmente attiva, superiore ed estranea alla materia. È infatti solamente là dove lo pone la vera filosofia. Il profeta parlando del Creatore, principio di ogni moto e di ogni armonia, ci dice; “Le creature fanno la sua parola”, valea dire eseguiscono le sue volontà, “facìunt Verbum ejus”. Ma come è ella la parola creatrice posta in contatto universale e permanente col mondo inferiore, fino all’ultimo degli esseri dei quali si compone? Nel modo stesso che la parola di un monarca con le parti più lontane e più oscure del suo impero, per mezzo di mediatori. I mediatori di Dio sono gli Spiriti celesti: “qui facit angelos suos spiritus”. Questa verità è di fede universale. Sotto tutti i climi, in tutte le epoche, il paganesimo medesimo la proclama, e la teologia cattolica la manifesta in tutta la sua splendidezza. Il sapere che tutte le parti dell’universo vivono sotto la direzione degli Angeli; qual sorgente inesauribile di luce e di ammirazione per lo spirito, di rispetto e di adorazione per il cuore!

Nell’ordine morale, non meno certo e più nobile altresì è il ministero degli Angeli. Essi sono, giusta la bella espressione di Lattanzio, preposti alla guardia ed alla cultura del genere umano. Ancor qui le loro funzioni non sono meno variate dei bisogni del loro pupillo. Gli uni custodiscono le nazioni, ciascuno la sua. Altri, la Chiesa universale. Come un esercito formidabile difende una città assediata, così essi proteggono la città del loro Re, la santa Chiesa cattolica, nella sua guerra eterna contro le potenze delle tenebre. Ve ne sono di quelli incaricati della cura di ciascuna Chiesa, cioè di ciascheduna diocesi in particolare. « Due custodi e due guide, insegnano con sant’Ambrogio gli antichi Padri, sono preposti a ciascuna Chiesa: l’uno visibile, che è il vescovo; l’altro invisibile, che è l’Angelo tutelare. » Se per conservarla e per impedire che il demonio la deturpi o la distragga, la più piccola creatura nell’ordine fisico, come l’insetto o un filo d’erba, vive sotto la protezione di un Angelo, a più forte ragione l’essere umano, per quanto debole lo si supponga, è oggetto di una eguale sollecitudine.

Ogni uomo ha il suo custode. Come tutore potente, il principe della Città del bene veglia su di noi, anche nel seno materno, a fine di proteggere la nostra fragile esistenza contro i mille accidenti che possono comprometterla e privarci del battesimo.

Lasciamo parlare la scienza: « Grande dignità delle anime, poiché fino dalla nascita, ognuna ha un Angelo per custodirla! Avanti di nascere, l’infante attaccato al seno materno fa in qualche modo parte della madre; come il frutto pendente all’albero fa tuttavia parte dell’albero. È dunque probabile che 1’Angelo custode della madre guardi l’infante rinchiuso nel suo seno; come quegli che custodisce l’albero custodisce il frutto.

Ma appena l’infante è separato dalla madre che subito un Angelo particolare è mandato alla sua custodia.» L’Angelo custode, compagno inseparabile della nostra vita, ci segue in tutte le nostre vie, ci illumina, ci difende, ci rialza, ci consola. Mediatore tra Dio e noi, intercede in nostro favore, offre all’Antico dei giorni i nostri bisogni, le nostre lacrime, le nostre preghiere, le nostre buone opere, come incenso di grato odore, bruciato in un turibolo d’oro. La sua missione non cessa con la vita terrena, ma dura finché l’uomo non è giunto al suo fine.

Così gli Angeli presentano le anime al tribunale di Dio e le introducono in cielo. Se la porta è ad esse momentaneamente chiusa, essi le accompagnano nel purgatorio, dove le consolano fino al dì della loro liberazione. Quanto a quelle che un orgoglio ostinato rende sino alla morte indocili ai loro consigli, i Principi della Città del bene le abbandonano solamente sul limitare dell’inferno, ardente dimora preparata da Satana, agli angeli e schiavi suoi. Come hanno essi presieduto al governo del mondo, cosi gli Angeli assisteranno al suo giudizio, risveglieranno i morti e faranno la eterna separazione degli eletti dai reprobi.

Nel lasciare la Città del bene, cerchiamo di riportare con noi mia memoria che riassuma e il fine della sua esistenza e le innumerevoli funzioni dei Principi che la governano. La Città del bene ed i ministeri degli Angeli si riducono ad un solo oggetto: il Verbo incarnato: ad un solo scopo: la salute dell’uomo, mediante la sua unione col Verbo incarnato. Monarca assoluto di tutti gli esseri, Creatore di tutti i secoli, erede di tutte le cose del cielo e della terra, il Verbo incarnato è l’ultima parola di tutte le opere divine, come la salute dell’uomo è l’ultima parola del suo pensiero. Che cosa avvi di più logico, di più semplice, di più sublime e di più luminoso, per conseguenza di più vero, di questa filosofia del mondo angelico, di questa storia della Città del bene!

Il credere che tutte le spiegazioni che precedono siano il risultato di semplici congetture, piuttostoché cognizioni positive, sarebbe un errore. La scienza del mondo angelico è una scienza certa: certa perché essa è vera; vera perché essa è universale. La rivelazione, la tradizione, la ragione medesima di tutti i popoli, la conoscono, la insegnano, la praticano. Come tutte le altre, essa è stata richiamata alla sua purezza primitiva e svolta dal Signor Nostro, i cui insegnamenti non scritti sono, a testimonianza di san Giovanni, infinitamente più numerosi che quelli di cui il Vangelo ci ha tramandata la cognizione. Il più ricco depositario di questi preziosi insegnamenti fu Maria; e sappiamo che, Madre della Chiesa e istitutrice degli Apostoli, la Augusta Vergine ha parlato sapientemente degli Angeli, che essa conosceva meglio di chiunque.

     Parimente Paolo, che può chiamarsi l’Apostolo degli Angeli, dei quali annovera tutti gli ordini, Paolo, rapito sino al terzo cielo, ha arrecato sulla terra una conoscenza profonda di ciò che aveva visto, non per sé ma per la Chiesa. Il suo illustre discepolo san Dionigi, infatti è il primo tra i Padri, che abbia dato una particolareggiata descrizione, dotta, sublime, del mondo angelico. Questa descrizione, fondata sulle Scritture e sulla testimonianza degli altri Padri, è divenuta il punto di partenza degli scrittori posteriori, e particolarmente, la scorta dell’impareggiabile san Tommaso nel suo grandioso studio del mondo angelico. Tali sono i canali pei quali è giunta sino a noi la conoscenza degli Angeli, delle loro gerarchie, dei loro ordini e dei loro ministeri. Quale scienza può essere più certa?

La strana sindrome di nonno Basilio -16-

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Caro direttore, sono ancora qui a scriverle, visto che lei ha la bontà di ascoltarmi e non cestina le mie missive che riconosco essere un po’ fuori dal “coro” del cosiddetto “politicamente corretto”, anche se in verità la mia è solo una richiesta di aiuto. Sono qui a raccontare nuovamente del colloquio che intrattengo (lei mi dirà che sono un fortunato in questi tempi in cui da padrone la fanno i video-games) con i miei cari nipoti Mimmo e Caterina, e spesso pure con i loro amici. Infatti gli ultimi avvenimenti, a cui ho fatto riferimento negli ultimi mesi, come lei certamente ricorderà, ha suscitato un ulteriore “scontro-dialogo”, specie da quando nella vita di mio nipote Mimmo è entrata la sua nuova fiamma, Martina, dichiaratamente protestante, anche se onestamente non saprei riferirle con certezza a quale delle 16.000 sette ella aderisca. Quello che mi ha sorpreso, e continua ogni giorno ad allibirmi ed a darmi un dolore profondo, in verità, è che mia nipote Caterina asserisca che tante idee, per me assolutamente strane (è un eufemismo evidentemente!) ed in contrasto anche ferocemente con la fede cattolica di sempre, abbiano invaso l’immaginario dottrinale di preti farneticanti e di fedeli che continuano a proclamarsi cattolici, senza nemmeno lontanamente sapere o anche semplicemente immaginare più cosa ciò comporti in materia di fede, morale, teologia, devozioni, partecipazione ai Sacri Riti, e via discorrendo! Se veramente fosse così, caro direttore, ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli per la desolazione dottrinale, morale, sociale e per gli abomini liturgici perpetrati a danno delle anime di tanti poveracci che si credono fedeli cattolici, anche ferventi, ma che in realtà, invece di dare culto a Dio e a Cristo, Lo disprezzano e Lo ridicolizzano sempre di più, mettendo al centro del mondo i bisogni meramente materiali dell’uomo, ed osannando (Dio non voglia!), al “dio dell’universo”, cioè il baphomet massonico, quello dei Rosa+croce, dei templari corrotti e del “cavaliere kadosch”, incorrendo inconsapevolmente nell’ira di un Dio offeso e deriso continuamente. Ma certamente io credo che, oltre al mattacchione Mimmo, questa volta anche Caterina abbia compreso male o non correttamente ciò che ascolta o legge, per quanto sia una ragazza assennata, prudente, e con buone conoscenze di base,… ma si sa, tutti possiamo sbagliare, in particolare i giovani con la loro inesperienza … bisogna comprenderli e correggerli con amore, non tutti hanno la fortuna di avere uno zio Tommaso! Ed ecco anche perché ricordo sempre ai miei nipoti di recitare, anche mentalmente, il “breve di Sant’Antonio”, e di portarne addosso una copia scritta! Come lei certamente saprà, secondo la tradizione popolare, questa preghiera, nota anche come “motto di sant’Antonio”, sarebbe stata consegnata dal Santo ad una donna per vincere le tentazioni del diavolo. Il Papa francescano Sisto V, nel sec. XVI, la fece addirittura incidere alla base dell’obelisco da lui fatto erigere a Roma, al centro di Piazza san Pietro. La ricordo a lei ed ai suoi lettori, anche perché permette di lucrare 100 giorni di indulgenza per le anime del purgatorio ogni volta, secondo quanto decretato da Papa Leone XIII il 21 maggio del 1892! Eccola! “Ecce Crucem Domini! Fugite partes adversae! Vicit Leo de tribu Juda, Radix David! Alleluia!”(Ecco la Croce del Signore! Fuggite forze nemiche! Ha vinto il Leone di Giuda, La radice di Davide! Alleluia!).Fin da piccoli raccontavo ai miei nipoti, allora anime innocenti, non ancora contaminati dai veleni modernisti e progressisti, l’aneddoto che si ritiene all’origine della preghiera, ed essi mi guardavano sgranando gli occhi pieni di meraviglia. La racconto pure a lei, chissà che qualche altro bimbo innocente non sgrani anche lui gli occhi meravigliati!? Durante il Regno di re Denis del Portogallo, una donna era molto tentata dal diavolo di gettarsi nel fiume Tago. Un giorno ella era sul punto di cedere alla tentazione … ma sulla sua strada capitò una Chiesa francescana, ella vi entrò invocando l’aiuto di Sant’Antonio di Padova. Spossata dalla fatica e desolata si addormentò … fu così che Sant’Antonio le apparve in sogno per dissuaderla dal suo proposito, e nello stesso tempo le diede un pezzo di pergamena, che lei avrebbe dovuto portare sempre con lei! Al risveglio la donna ritrova effettivamente il prezioso dono appeso al suo collo con sopra scritte le parole conosciute appunto come benedizione di Sant’ Antonio. Ella avverte subito l’efficacia di questa benedizione … la tentazione infatti sparisce completamente. Anche il re, all’udir parlare di questo avvenimento e del meraviglioso documento, vuole vederlo ed ordina perciò che gli venga portato. I suoi ordini vengono naturalmente eseguiti, ma non appena la donna viene espropriata del suo “tesoro”, eccola nuovamente assalita dal suo nemico. Le viene ridata allora una copia, e di nuovo la tentazione cessa senza mai più ripresentarsi. La benedizione è stata utilizzata in seguito in tutto il mondo con risultati meravigliosi. Ma torniamo a noi! Le devo dire, con piacere, caro direttore, che ultimamente Mimmo, sente finalmente l’esigenza di istruirsi nella religione cattolica, che dovrebbe essere un obbligo per ogni buon cattolico, come ad esempio, tanto per citarne uno, ricorda Clemente XII nell’enciclica “In Dominico Agro” – 14 giugno 1761 (ed al proposito, lei certamente saprà che lo studio del Catechismo di San Pio X, effettuato almeno per mezz’ora due volte al mese, comporta l’acquisto delle sante Indulgenze!!), e con lui siamo pertanto ritornati sull’importanza della “Bibbia greca”, argomento fugacemente trattato con Martina, e segnalato in una mia precedente missiva. Io non sono certamente un competente però, nonostante la mia memoria malandata, che stranamente risorge in queste circostanze (… stranezze mentali, diceva il neuropsichiatra che un tempo frequentavo!), mi sovviene l’insegnamento dello zio Tommaso che, nelle sue frequenti riunioni familiari, dopo aver gustato un po’ dei deliziosi biscottini della nonna Margherita (anch’egli faceva qualche peccatuccio di gola ogni tanto … ma i biscotti della nonna meritavano, una tentazione …), ci delucidava l’argomento cosi: “Un documento scritto dall’ebreo alessandrino Aristeo al fratello Filocrate riferisce che il capo della Biblioteca di Alessandria, Demetrio, persuase il re ellenistico d’Egitto, Tolomeo II il Filadelfo, a promuovere la traduzione di libri dell’Antico Testamento in greco, e da ciò nacque la versione detta “dei Settanta”, poiché tale era il numero degli anziani di Israele convocati ad Alessandria dal re per compiere la traduzione, la quale venne poi pubblicamente letta alla popolazione giudaica perché la approvasse. Il testo sacro aveva (ed ha!) una funzione assai importante: quella di contenere la Verità rivelata da Dio con potenza salvifica, è cioè la parola di Dio che crea, redime, salva. Gli Ebrei, con voce unanime, acclamarono con entusiasmo la nuova versione. Fra le generali acclamazioni venne pronunciato un solenne “anatema eterno” contro chiunque osasse minimamente alterarla e, a maggior ragione, contro chi cercasse di far ritorno alla precedente versione, proprio ciò che il Sinedrio talmudista apostata e materialista fece dopo aver respinto il Salvatore. Un’altra fonte giudaica, il Frammento di Aristobulo, del secondo secolo avanti Cristo, conferma che tale origine della versione greca dell’Antico Testamento era comunemente nota. Questo nasceva dal bisogno, nell’attesa ritenuta prossima del Messia, di rendere accessibile a tutti le Sacre Scritture che ne profetizzavano l’avvento. La salvezza veniva dagli Ebrei, ma tutti gli uomini vi erano chiamati. Le due versioni bibliche, quella ebraica e quella greca, sono divinamente ispirate, la differenza è che quella greca è più prossima al tempo del Messia ed è assai più esplicita riguardo ai maggiori articoli di fede. S. Agostino nel “De Doctrina Cristiana” sostiene la maggiore autorità della versione greca dei Settanta, e giudica che in ogni caso di divergenza, fra il testo ebraico e quello greco dei Settanta, si debba preferire quello greco. Questa versione consente una versione trinitaria, rivelando che la Salvezza non è un concetto generico, ma una Persona. Delle presunte inesattezze della versione greca non resta evidentemente nulla, ogni inesattezza o divergenza non è che una precisazione ed un approfondimento della Rivelazione, frutto di ispirazione divina nell’imminenza del compiersi della promessa. Tale è l’opinione dei Padri della Chiesa; il mito delle “inesattezze” di traduzione nasce da quella volontà, ancora attuale, del Sinedrio ebraico che aveva respinto e fatto crocifiggere il Redentore, di far dimenticare il testo assai più esplicito dei Settanta, per tornare al vago dell’attesa messianica di molti secoli prima. In pratica, la Chiesa potrebbe tranquillamente abbandonare il testo ebraico, se non per motivi puramente antiquari, ed oltretutto il testo punteggiato masoretico risale addirittura a parecchi secoli dopo Cristo, quando gli ebrei in diaspora, in particolare i discendenti dei Kazari convertiti, gli attuali askenaziti, aspiranti governanti e dominatori del “nuovo ordine” mondiale (questa era una specie di mantra dello zio Pierre … naturalmente!), non conoscevano più la pronunzia esatta del testo e avevano quindi bisogno dei segni vocalici … (sembra quasi una scrittura sulla quale cadono fiocchi di neve …). Così il Concilio di Trento approvò come divinamente rivelata la Bibbia dei Settanta, quella appunto rifiutata e “sforbiciata” da Lutero, che fece delle traduzioni personali inserendo tutto quello che gli aggradava e che sosteneva le sue peregrine argomentazioni. Oggi si fanno ancora traduzioni e versioni “ecumeniche”, con testi formalmente eretici partoriti dalle stramberie ideologiche anche di certe “Eminenze” pseudo ed autoreferenziali intellettualoidi!! Diffida sempre, Mimmo, diffida, perché non ci vuole molto a contraffare la Sacra Rivelazione e ad interpretarla secondo il genio protestante e modernista, (vedi ad esempio il contenuto delle encicliche: “Inter praecipuas” dell’8 maggio 1844 – sulla condanna delle “Società Bibliche” – di Gregorio XVI, oppure “Providentissimus Deus” del 18 nov. 1893 di Leone XIII, o ancora Divino Afflante Spiritu –del 30 settembre 1943 di Pio XII) e così come sottolineato più volte anche da tutti i recenti “veri” Pontefici (leggi: Pio IX, Leone XIII, S. Pio X, Benedetto XV, Pio XI e Pio XII!), soprattutto quando i fedeli vengono colpevolmente tenuti nell’ignoranza per poterli meglio ingannare”! Poi, dopo una breve pausa per sorseggiare un po’ d’acqua, tra una compressa e l’altra che la mia Genoveffa si premura di farmi trangugiare, riprendo: “Un altro aspetto che ti potrebbe interessare, caro Mimmo, visto che ti atteggi a filosofare specie nelle discussioni politiche con i tuoi compagni, è come il protestantesimo abbia giustificato il naturalismo con le sue conseguenze più drammatiche”.“Ma nonno, risponde subito Mimmo, evidentemente già opportunamente “imbeccato”, mi sembra strano e paradossale tacciare il protestantesimo di naturalismo. Non c’è nulla in Lutero di questa esaltazione della bontà intrinseca della natura, giacché, secondo lui, la natura è irrimediabilmente decaduta e la concupiscenza invincibile”.“È vero, replico io, tuttavia, lo sguardo eccessivamente nichilista che il protestante appunta su se stesso approda ad un naturalismo pratico: a forza di sminuire la natura e di esaltare la forza della sola fede, si relegano la grazia divina e l’ordine sovrannaturale nella sfera delle astrazioni. Per i protestanti la grazia non opera un autentico rinnovamento interiore: il Battesimo non è la restituzione di uno stato sovrannaturale abituale, è soltanto un atto di fede in Gesù Cristo che giustifica e salva. La natura non viene restaurata dalla grazia, rimane intrinsecamente corrotta, e la fede ottiene da Dio soltanto che Egli getti sui nostri peccati il pudico mantello di Noè. Quindi, la forma sovrannaturale che il Battesimo aveva aggiunto alla natura radicandosi su di essa, tutte le virtù infuse ed i doni dello Spirito Santo sono ridotti a niente, ricondotti come sono a quest’unico atto disperato di fede-fiducia in un Redentore che fa grazia solo per ritrarsi lungi dalla sua creatura, mantenendo sempre un tale colossale abisso tra l’uomo definitivamente miserabile e il Dio trascendente, tre volte Santo (Kadosh, Kadosh, Kadosh, ripeteva lo zio Tommaso citando Isaia … Sanctus, Sanctus, Sanctus, Dominus Deus Sabbaoth … mi sembra risentirne la voce!) Questo pseudosupernaturalismo, come lo chiama padre Garrigou-Lagrange, attento filosofo e sagace teologo tomista, abbandona infine l’uomo, pur redento, alla sola forza della sue potenzialità naturali, e sprofonda fatalmente nel naturalismo; dopotutto gli estremi opposti coincidono! Jacques Maritain, esprime bene l’esito naturalista del luteranesimo avendolo ben vissuto: «La natura umana non potrà che rifiutare come un vano orpello teologico il manto di una grazia che nulla è per lei, e ricondurre su di sé la sua fede-fiducia, per divenire quella graziosa bestia affrancata il cui infallibile, continuo progresso incanta oggi l’universo». E questo naturalismo si applicherà in modo particolare all’ordine civile e sociale: ridotta la grazia ad un sentimento di fede fiduciaria, la Redenzione non consiste più che in una religiosità individuale e privata, senza presa sulla vita pubblica. L’ordine pubblico, economico e politico, è dunque condannato a vivere e a svilupparsi al di fuori di Nostro Signore Gesù Cristo. Al limite, il protestante cercherà nella sua riuscita economica il criterio della sua giustificazione agli occhi di Dio; è in tal senso che scriverà volentieri sulla porta della sua casa questa frase del Vecchio Testamento: «Rendi onore a Dio dei tuoi beni, dagli primizie di tutti i tuoi raccolti, e allora i tuoi granai saranno abbondantemente colmi e i tuoi tini traboccheranno di vino» (Prov. III, 9 e seg.). Jacques Maritain, un filosofo bergsoniano, che come tale, (e ci diceva lo zio Pierre … fingendosi a tratto tomista, ma contraddicendo spesso, da scaltro marrano-modernista, la dogmatica magisteriale ed il retto pensiero scolastico medioevale, senza mai negarlo espressamente), affondava la sua metafisica nella melma gnostica, in un emanatistico “umanesimo integrale”, (fonte di elucubrazioni moderniste e progressiste, alla quale si sono abbeverati prelati intellettuali acattolici e marrani finti-cattolici, quelli della “quinta colonna” che hanno cercato di minare tutto l’assetto della Chiesa), egli stesso finto cattolico convertito, marrano figlio di una ebreo-russa di origine kazara (la tredicesima tribù d’Israele,  … ci raccontava sempre il solito zio Pierre), che ben conosceva il protestantesimo per essere nato appunto in una famiglia mezzo-protestante, ed esponente poi di punta della nuovelle theologie [la “vecchia teologia di lucifero, come la definiva sempre il caro zio Pierre], scrive sul materialismo del protestantesimo, che darà poi vita al liberalismo economico ed al capitalismo (ne: “I tre riformatori”): «… dietro gli appelli di Lutero all’Agnello che salva, dietro i suoi slanci di fiducia e la sua fede nel perdono dei peccati, c’è una creatura umana che alza la testa e fa molto bene i suoi affari nel fango in cui è piombata per la colpa di Adamo! Si districherà nel mondo, seguirà la volontà di potenza, l’istinto imperialista, la legge di questo mondo che è il suo mondo. Dio non sarà che un alleato, un potente». Il risultato del protestantesimo sarà che gli uomini si attaccheranno di più ai beni di questo mondo e dimenticheranno i beni eterni. E se un certo puritanesimo eserciterà una sorveglianza esteriore sulla moralità pubblica, esso non impregnerà i cuori dello spirito autenticamente cristiano che è uno spirito sovrannaturale, che si chiama “primato dello spirituale”. Il protestantesimo sarà necessariamente condotto a proclamare l’emancipazione del temporale nei confronti dello spirituale. Ebbene, è proprio questa emancipazione che si ritroverà nel liberalismo, la cui perversa radice è proprio anticattolica”. “E qui c’è pure la radice del capitalismo occidentale e del neoconservatorismo americano con le sue funeste conseguenze attuali”, – interviene pronta Caterina! – (su questo argomento però, ho bisogno di fare un po’ di ulteriore chiarezza e di acquisire altre informazioni dalla mia cara nipotina,  … ne riparleremo con più calma in altra occasione). Per il momento un ricordo … l’eco dello zio Tommaso quando, citando alcuni versetti dei salmi II e III, voleva farci stare tranquilli, ci ricordava che la potenza di Dio è superiore a tutte le empietà umane, di esse si ride e, risorgendo, ai peccatori spezza i denti:Quare fremuerunt gentes, et populi meditati sunt inania? Astiterunt reges terrae, et principes convenerunt in unum adversus Dominum, et adversus Christum ejus. Dirumpamus vincula eorum, et projiciamus a nobis jugum ipsorum. Qui habitat in caelis irridebit eos, et Dominus subsannabit eos. (Salmo II, 1-4) [Perché le genti congiurano, perché invano cospirano i popoli? Insorgono i re della terra e i principi congiurano insieme contro il Signore e contro il suo Messia: “Spezziamo le loro catene, gettiamo via i loro legami”. Se ne ride chi abita i cieli, li schernisce dall’alto il Signore], e poi: “Exsurge, Domine; salvum me fac, Deus meus. Quoniam tu percussisti omnes adversantes mihi sine causa; dentes peccatorum contrivisti. Domini est salus; et super populum tuum benedictio tua”. (Salmo III, 7-9) [Sorgi, Signore, salvami, Dio mio. Hai colpito sulla guancia i miei nemici, hai spezzato i denti ai peccatori. Del Signore è la salvezza: sul tuo popolo la tua benedizione]. Direttore, le chiedo scusa, la discussione adesso si è fatta complicata per me, oggi ho avuto una dura giornata e la devo lasciare, ma non tema … non la mollo. Alla prossima!

Insegnamento di San Tommaso contro Maometto e invocazione del b. Marco d’Aviano contro gli infedeli

tommaso_d_aquino Immagine di San Tommaso d’ Aquino, il principe dei teologi

  “Egli (Mohammed) ha sedotto il popolo con la promessa di piaceri carnali, ai quali spinge la concupiscenza della carne. Il suo insegnamento conteneva anche dei precetti conformi alle sue promesse, dando così libero sfogo al piacere dei sensi. In tutto questo, nulla di inatteso: egli è stato obbedito dagli uomini carnali. Per quanto riguarda le prove sulla verità della sua dottrina, ne ha portato solo di quelle che potrebbe essere colte, con la naturale capacità, da chiunque abbia una saggezza molto modesta. Infatti, le verità che lui ha preteso insegnare si mescolavano con molte favole e con dottrine della più grande falsità.

Non ha mostrato alcun segno prodotto in modo soprannaturale, segni che soli danno l’opportuna testimonianza dell’ispirazione divina; un’azione visibile può essere divina solo quando rivela un insegnamento invisibilmente ispirato della verità. Al contrario, Mohammed ha detto di essere stato mandato nella potenza delle sue braccia, segni questi, che non mancano neanche ai ladri e ai tiranni. Per di più, hanno creduto in lui fin dall’inizio non certo uomini saggi, addestrati nelle cose divine e umane; coloro che hanno creduto in lui erano infatti degli uomini brutali e dei banditi del deserto, totalmente ignoranti di qualsiasi insegnamento divino, che attraverso le azioni di Maometto hanno costretto gli altri a diventare suoi seguaci per la violenza delle sue braccia. Né ci sono stati divini pronunciamenti da parte dei profeti precedenti che abbiano offerto di lui alcuna testimonianza. Al contrario, egli ha pervertito quasi tutte le testimonianze dell’antico e del nuovo testamento, rendendole una sua fabbricazione, come può essere visto da chiunque esamini la sua legge. Era, pertanto, una decisione oculata da parte sua il proibire ai suoi seguaci di leggere il vecchio e nuovo Testamento, per timore che questi libri ne avessero smascherato la falsità. È dunque chiaro che coloro che mettono la fede nelle sue parole, credono vanamente.”

St. Tommaso d’Aquino, dottore della Chiesa,”Summa Contra Gentiles”, BK, 1, Cap. 16, Art. 4

 

 Preghiera di S. Marco d’Aviano

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Preghiera del Beato Marco d’Aviano

da lui composta per l’occasione e letta all’alba del 12 settembre 1683, dopo la celebrazione della S. Messa e la benedizione impartita all’esercito cristiano che si accingeva a dare vittoriosamente battaglia ai Turchi che assediavano Vienna

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“O grande Dio degli eserciti, guardateci prostrati qui ai piedi della Vostra Maestà, per impetrarVi il perdono delle nostre colpe.

Sappiamo bene di aver meritato che gl’infedeli impugnino le armi per opprimerci, perché le iniquità che ogni giorno commettiamo contro la Vostra bontà, hanno giustamente provocato la Vostra ira.

O gran Dio, Vi chiediamo il perdono dall’intimo dei nostri cuori; esecriamo il peccato, perché Voi lo aborrite; siamo afflitti perché spesso abbiamo eccitato all’ira la vostra somma Bontà.

Per amore di Voi stesso, preferiamo mille volte morire piuttosto che commettere la minima azione che Vi dispiaccia. Soccorreteci con la vostra grazia, o Signore, e non permettete che noi, vostri servi rompiamo il patto che soltanto con Voi abbiamo stipulato.

Abbiate dunque pietà di noi, abbiate pietà della vostra Chiesa, per opprimere la quale già si preparano il furore e la forza degl’infedeli.

Sebbene sia per nostra colpa ch’essi hanno invaso queste belle e cristiane regioni, e sebbene tutti questi mali che ci avvengono non siano altro che la conseguenza della nostra malizia, siateci tuttavia propizio, o buon Dio, e non disprezzate l’opera delle vostre mani. Ricordatevi che, per strapparci dalla servitù di Satana, Voi avete donato tutto il Vostro prezioso Sangue.

Permetterete forse ch’esso venga calpestato dai piedi di questi cani?

Permetterete forse che la fede, questa bella perla che cercaste con tanto zelo e che riscattaste con tanto dolore, venga gettata ai piedi di questi porci?

Non dimenticate, o Signore, che, se Voi permetterete che gl’infedeli prevalgano su di noi, essi bestemmieranno il Vostro santo Nome e derideranno la Vostra Potenza, ripetendo mille volte: “Dov’è il loro Dio, quel Dio che non ha potuto liberarli dalle nostre mani?” Non permettete, o Signore, che Vi si rinfacci di aver permesso la furia dei lupi, proprio quando Vi invocavamo nella nostra miserevole angoscia.

Venite a soccorrerci, o gran Dio delle battaglie! Se Voi siete a nostro favore, gli eserciti degl’infedeli non potranno nuocerci.

Disperdete questa gente che ha voluto la guerra! Per quanto ci riguarda, noi non amiamo altro che essere in pace con Voi, con noi stessi e col nostro prossimo.

Rafforzate con la vostra grazia il vostro servo e nostro imperatore Leopoldo; rafforzate l’animo del re di Polonia, del duca di Lotaringia, dei duchi di Baviera e di Sassonia, e anche di questo bell’esercito cristiano, che sta per combattere per l’onore del Vostro Nome, per la difesa e la propagazione della Vostra santa Fede. Concedete ai príncipi e ai capi dell’esercito la fierezza di Giosué, la mira di Davide, la fortuna di Jefte, la costanza di Joab e la potenza di Salomone, vostri soldati, affinché essi, incoraggiati dal Vostro favore, rafforzati dal Vostro Spirito e resi invincibili dalla potenza del Vostro braccio, distruggano e annientino i nemici comuni del nome cristiano, manifestando a tutto il mondo che hanno ricevuto da Voi quella potenza che un tempo mostraste in quei grandi condottieri.

Fate dunque in modo, o Signore, che tutto cospiri per la Vostra gloria e onore, e anche per la salvezza delle anime nostre. Ve lo chiedo, o Signore, in nome dei vostri soldati. Considerate la loro fede: essi credono in Voi, sperano tutto da Voi, amano sinceramente Voi con tutto il cuore.

Ve lo chiedo anche con quella santa benedizione, che io conferirò a loro da parte Vostra, sperando, per i meriti del Vostro prezioso Sangue, nel quale abbiamo posto tutta la nostra fiducia, che Voi esaudiate la mia preghiera.

Se la mia morte potesse essere utile o salutare, per ottenere il Vostro favore per loro, ebbene Ve la offro fin d’ora, o mio Dio, in gradita offerta; se quindi dovrò morire, ne sarò contento. Liberate dunque l’esercito cristiano dai mali che incombono; trattenete il braccio della vostra ira sospeso su di noi, e fate capire ai nostri nemici che non c’è altro Dio all’infuori di Voi, e che Voi solo avete il potere di concedere o negare la vittoria e il trionfo, quando vi piace. Come Mosè, stendo dunque le mie braccia per benedire i vostri soldati; sosteneteli e appoggiateli con la vostra Potenza, per la rovina dei nemici Vostri e nostri, e per la gloria del Vostro Nome. Amen”. 

 

Omelia della IV Domenica dopo Pasqua

Omelia della domenica IV dopo Pasqua

[Del canonico G. B. Musso- Seconda edizione napolitana Vol. II -1851-]

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-Dio principio e fine-

“Vado ad eum qui misit me”. Sono queste le parole colle quali il Divin Redentore prese congedo dai suoi discepoli, come ci narra S. Giovanni nell’odierno sacrosanto Vangelo. “Miei cari, più poco mi resta da star con voi, venni al mondo mandato dal Padre mio, ora men vado a Lui che mi mandò, “vado ad eum, qui misit me”.

Oh se queste divine parole potessimo noi ripetere appropriate a noi stessi, in giusto senso di verità! Felici noi. “Io men vado a Colui che mi mandò: Dio è il mio principio, Dio è il mio ultimo fine, da Lui vengo, a Lui mi porto; da Lui vengo come mia prima cagione, mi porto a Lui come mio centro; da Lui vengo per via di creazione, a Lui mi porto per la via de’ suoi comandamenti”. Felici noi, lo ripeto, poiché saremo beati nel tempo e nell’eternità. Su questo pensiero io mi fermo, e per animarvi ad apprezzarlo colla mente, e a secondarlo coll’opera, passo a dimostrarvi che Dio è nostro principio, che Dio è nostro ultimo fine, e che nella cognizione di questo principio, e nel condurci direttamente a questo fine, consiste la nostra temporale ed eterna felicità. Di quanto peso sia l’argomento, e quanto debba impegnare e la vostra attenzione, e il mio e vostro interesse, voi lo conoscete, discreti ascoltanti. Diam principio.

I. “Ego sum alpha, et omega … principium et finis” (Apoc. XXII. 13). Così definisce se stesso il grande Iddio nel divino Apocalisse. Io sono di tutte le cose il principio, di tutte le cose il fine. A comprendere come Dio è nostro principio, ponderate questa proposizione. L’uomo non dà l’essere a se medesimo, perciocché dar l’essere a se medesimo involge contraddizione. Se l’uomo ha dato l’essere a se stesso, dunque esisteva, qual necessità di darsi l’essere? Se poi non esisteva, come fece a darsi l’esistenza? Esisteva adunque al tempo stesso e non esisteva, era e non era, contraddizione manifesta, assurdo madornale, riprovata dal senso comune. Or se l’uomo non può dare a sé l’esistenza, io domando, da chi egli mai l’ebbe? Ascendiamo di generazione in generazione, e arriveremo a quel primo uomo da cui cominciò l’ umana natura, cioè ad Adamo. Onde se voi mi dite che il primo uomo ebbe per padre un altro Adamo, io vi domando, e quest’altro Adamo da voi immaginato da chi ha avuto principio? Da un terzo, e questi da un quarto, e poi da un quinto, da un centesimo Adamo, e così fino all’infinito; ma questo progredire in infinito è una chimera fantastica, contraria al buon senso ed alla naturale ragione; perciocché convien ridursi a un punto fisso, ad un principio determinato. Questo punto, questo principio è il primo uomo; ma abbiamo veduto che quest’uomo da se stesso non si poté dar l’essere, dunque dovette averlo da una causa preesistente, da un principio eterno, indipendente, necessario, infinito, e questo è Dio.

Intelligenti delle cifre aritmetiche, ditemi se si può dare un numero che necessariamente non presupponga, che necessariamente non parta dal primo numero, qual è l’unità. Qualunque piccolo o grande numero necessariamente è basato sull’unità, come suo principio e fondamento; così che dall’unità comincia, e nell’unità con passo retrogrado conviene che ritorni e si fermi. Non altrimenti tutte le creature necessariamente suppongono una prima causa, un principio, da cui derivano, senza del quale non solo non sarebbero esistenti, ma né pur sarebbero possibili. Questa causa, questo principio è Dio, che da se stesso esiste, che “ab eterno” esiste, che necessariamente esiste, tolto il quale non v’è più creatura esistente, né possibilità di alcuna esistenza.

E perché di questo Dio, dite voi, non abbiamo un’idea chiara e adeguata? E di molte cose sensibili e naturali possiamo aver noi una chiara ed adeguata idea? Chi mi spiega la forza del moto, l’origine de’ venti, il modo onde l’anima è unita al corpo, e come il corpo materiale agisca sull’anima, e questa per mezzo degli organi corporei provi sensazioni or piacevoli, or dolorose, ed acquisti le necessarie nozioni a esulare i suoi moti, i suoi pensieri, i suoi voleri? Chi mi spiega la natura della luce così meravigliosa nella sua velocità, così meravigliosa nei suoi cambiamenti? Conosciamo noi la natura dell’aria, di questo fluido così terribile ne’ suoi fenomeni? Conosciamo l’essenza del fuoco così formidabile ne’ suoi effetti? Sudano i filosofi nello spiegare queste ed altre maraviglie che offre ai nostri sguardi la natura, ma un sistema di perfetto convincimento resta ancora a vedersi. Se dunque non possiamo penetrare ne’ segreti dell’ordine naturale, se di queste fisiche cose, delle quali abbiamo vista, tatto e sperienza, non siamo capaci a formarci un’idea che sia compiuta, quale presunzione sarà la nostra pretendere idee e cognizioni perfette nell’ordine soprannaturale? Uomo meschino, non può fissar gli occhi in faccia al sole, e presume fissarli in volto a Dio? Sarebbe più facile racchiudere l’oceano in un vaselletto, che avere una idea adeguata di Dio; che tra un vaselletto e l’oceano vi à certa proporzione, tra noi e Dio v’è una infinita distanza. A finirla, se di Dio potessimo avere una compiuta idea, una delle due: o Dio cesserebbe d’ essere Dio, o l’uomo sarebbe un altro Dio.

Basta che di Dio possiamo avere, come abbiamo di fatto, una cognizione, un’idea proporzionata alla limitata nostra capacità, un’idea giusta, veritiera secondo la retta ragione, e, senza paragone di più, secondo i lumi della rivelazione e della fede. E quale idea più elevata e più sublime di quella che Dio medesimo ci diede della sua esistenza? “Ego sum, qui sum” [Esod. III, 14] disse a Mosè dal misterioso roveto. Io sono quel che sono, vale a dire l’ essere per essenza, la pienezza dell’essere, il principio di ogni essere, l’ unico e solo che esiste per sua propria natura, ed ogni altro essere non si può dire che esista, mentre da Lui dipende e nella sua origine, e nella sua conservazione, così che tolta una, cessata l’altra, cessa la sua esistenza.

Ecco, o fedeli, la Causa prima, unica, eterna da cui discendiamo. Siam creature d’uno Dio, che colla sua onnipotenza ci trasse dal nulla.“Unus est altissimus creator omnipotens” [Eccl. I, 8]. Egli è d’ogni cosa il principio, e d’ogni cosa termine e fine. “Principium et finis, primus et novissimus. In questa cognizione ammessa e tenuta per fede, dice lo scrittore del libro della Sapienza, sta la nostra giustificazione. “Nosse te consummata iustitia est” [Sap. 15, 3]. Ma questa cognizione esser non dee di puro intelletto, sterile, inefficace, ma una cognizione che muova la volontà, che ci porti a Dio per la via della giustizia, per la strada de’ suoi comandamenti, se vogliamo essere felici nel tempo e nell’eternità.

II. Il cuore dell’uomo per naturale necessaria pendenza è portato a cercare la propria felicità; onde come l’ acqua corre al declive, come la pietra tende al centro, per simil modo il cuore dell’uomo è sempre in moto, e sempre in cerca d’un bene, ove crede trovare la sua pace, il riposo, la sua felicità. Questa quiete, questa felicità non può trovarsi che in Dio sommo ed unico bene; ma siccome la bontà, come parlano i teologi, è di se stessa diffusiva, così Iddio, Fonte inesausto d’ogni bene sparge varie stille di bene nelle sue creature, in alcune la bellezza, in altre il gusto, in queste il comodo, in quelle il vantaggio; così l’uomo, allettato da queste stille, abbandona sovente il fonte da cui derivano, quel fonte che solo può spegnere la sete dell’uman cuore, che è Dio, fonte d’acqua viva che sale in vita eterna. Avviene allora, all’uomo ingannato, d’incontrare la mala sorte d’una incauta farfalla, che si aggira intorno al lume sedotta dal suo splendore; uomo deluso, dice lo Spirito Santo, simile ai pesci ingannati dall’esca lusinghiera, simile agli augelletti allettati dal pascolo insidiosamente esposto dal cacciatore.

Convien distinguersi. Il nostro cuore è fatto per Dio; se fuor di Dio cerca il suo bene, in pratica resterà convinto che lo cerca dove non è, o che è un bene d’apparenza ingannevole, che non può fare il cuor contento, anzi il più delle volte un bene avvelenato, che affligge l’animo, e cagiona la morte.

Chi più d’un Salomone gustò i piaceri di questa vita, le delizie di questa terra? In quarant’anni di regno pacifico accumulò ricchezze immense, oltre le ereditate del suo padre Davidde. La sua sapienza fu superiore a tutti i saggi del mondo che erano e che saranno; fu in altissima stima presso tutt’i popoli nazionali e stranieri, e nel colmo degli onori, e nell’apice della grandezza non negò a’ suoi sensi alcun piacere, né sfogo alcuno alle sue passioni. Lo confessò egli stesso: “Omnia quae desideraverunt oculi mei non negavi eis, nec prohibui cor meum, quin omni voluptate frueretur” (Eccl. II, 10) . Questo grand’uomo adunque, questo gran re sarà arrivato al sommo grado della felicità, sarà stato pienamente, perfettamente contento. Per chiarircene, andiamo a trovarlo nel regio suo gabinetto. Osservate com’è tutto occupato da torbidi pensieri, come serio nel volto, come inquieto nell’animo, udite ciò che pronunzia: “La vita mi è di tedio e di peso”, taedet me vitae meae (Eccl. II, 17). Leggete ciò che scrive delle sue grandezze e dei suoi goduti piaceri, “vanitas vanitatum, universa vanitas et afflictio spiritus” (Eccl. I, 14), tutto è vanità, non basta, è vanità di vanità, non basta ancora, è afflizione di spirito.

Cosi è, così sarà; un cuore che non è con Dio è fuori dell’ordine da Dio stabilito, e un pesce fuor dell’acqua, e un osso fuor della propria giuntura, in istato di penosa violenza. Signore, il nostro cuore 1’avete fatto per voi, e sarà sempre inquieto finché in voi non riposi. “Fecisti nos, Domine, ad te, et irrequietum est cor nostrum donec requiescat in te.” Lasciò scritta questa grave sentenza l’ingegno più acuto che vanti la Chiesa, un uomo, che, oltre l’impareggiabile talento, ebbe trentatré anni di esperienza: Desso è S. Agostino, che passò di accademia in accademia, di setta in setta per trovare la verità che lo convincesse, passò di piacere in piacere, lecito illecito, per trovare la pace del proprio cuore, ma vane furono le sue ricerche; finalmente e la verità e la pace trovò in abbracciare la fede di Gesù Cristo che è la via, la verità e la vita, via a conseguire la pace, verità a mantenerla, vita a goderne nel tempo e nell’eternità.

Questa pace, che cercano e trovano in Dio le anime giuste, oltr’esser la vera, essa anche è stabile permanente; perciocché, soggiunge il citato Agostino, siccome ha per oggetto un bene immutabile qual è Dio, così non è soggetta a disgustose vicissitudini. Chi ripone il suo contento in qualche bene di terra, al mancare questo convien che cessi ancor quello, ma chi lo mette in Dio, essendo eterno l’oggetto, sarà invariabile il suo godimento. “Vir habere gaudium sempiternum? Adhaere illi, qui sempiternus est.” Ripetiamolo ancor una volta, “fecisti nos, Domine ad te”. Il nostro cuore è fatto per Dio, fatto per godere Dio, e perciò niun bene creato può appagarlo. Che mai sono i beni dì quaggiù? Onori, ricchezze, piaceri, ma gli onori son fumo, le ricchezze son terra, i piaceri son fango. Come dunque volete che l’anima nostra, nobilissimo spirito, fatto ad immagine di Dio, nel pascersi di fumo, di terra, di fango, trovi la propria felicità?

Me ne appello alla vostra esperienza. Quanto vi costa un piacere proibito, un’illecita soddisfazione; quanto vi tiranneggia una malnata passione; quante gelosie, quanti sospetti, quanti timori che non si scopra quell’amicizia, che non venga alla luce quel furto, quel delitto, quel fallo ignominioso? Se voi trovate la pace e la felicità nel peccato, e perché temete che il vostro peccato si sveli? Perché cercate le tenebre, perché raccomandate il segreto, perche vi copre di confusione il solo spavento che giunga all’altrui notizia? Accordate la pace del vostro cuore con tante apprensioni, con tanti timori, con tanti palpiti, con tanti affanni. Eh via che per i malvagi non v’è pace, non vi sarà mai pace, non può esservi pace. Lo dice Colui che ha fatto il cuore di tutti, lo dice Colui che vede il cuore in seno a tutti, lo dice Iddio: “Non est pax impiis, dicit Dominus Deus” (Isaia LVII, 21).

Conchiudiamo, miei cari. Se vogliamo esser felici di una felicità cominciata su questa terra e poi consumata e perfetta lassù nel cielo, con vivezza di fede riconosciamo Dio per nostro principio, con purità di cuore portiamoci a Dio come nostro ultimo fine. Viviamo ed operiamo in modo da poter dire in vita: Dio è mio principio, da Lui venni per creazione, e a Lui mi porto per la via de’ suoi precetti “vado ad eum, qui misit me”, e da poter ripetere in morte con dolce e fondata speranza, “vado ad eum qui misit me”.

Il piccolo numero di coloro che si salvano

“Il piccolo numero di coloro che si salvano”

famoso sermone di San Leonardo da Porto Maurizio

giudiz.univ. giotto. part.

GIOTTO di Bondone “Giudizio universale” (particolare) 1306 D.C. affresco, Cappella Scrovegni, Padova.

San Leonardo da Porto Maurizio è stato uno dei più grandi missionari nella storia della Chiesa, ed uno dei più grandi predicatori di missioni popolari. I suoi 44 anni di ministero apostolico si svolsero percorrendo instancabilmente tutta l’Italia.

san leonardo

Così brillante e santa era la sua eloquenza, che nella stessa Roma, presso Piazza Navona, nel corso una missione di due settimane, San Leonardo tenne une predica alla quale assistette nientemeno che S.S. Benedetto XV con tutto il collegio cardinalizio. La sua predicazione era infatti estremamente efficace. L’Immacolata Concezione della Beata Vergine, l’adorazione del Santissimo Sacramento e la venerazione del Sacro Cuore di Gesù erano le sue principali crociate o, per così dire, i suoi cavalli di battaglia. Egli è stato in un certo qual modo il precursore e propugnatore della definizione del Dogma dell’Immacolata Concezione, proclamato poco più di un centinaio di anni dopo la sua morte. Ci ha anche lasciato la “divina lode”, che si recita alla fine della solenne Benedizione Eucaristica. Ma l’attività più famosa di San Leonardo scaturiva dalla sua devozione per le Stazioni della Via Crucis. È morto di una morte Santissima nel suo settantacinquesimo anno di vita, dopo ventiquattro anni di predicazione ininterrotta.

Egli usava dire: “I miei sermoni sono basati non su belle parole, ma su belle verità”! Io mi servirò solo di parole semplici, familiari, per essere compreso dai più zotici e dai più bifolchi, senza pur tuttavia tralasciare i più intelligenti”.

Il suo instancabile compagno, il frate Giacomo di Firenze, gli consigliò un giorno di cambiare i suoi temi nel sermone poiché, egli asseriva, facendo sempre gli stessi sermoni, non si sarebbero ottenuti i frutti che si potevano invece ottenere variandoli. Il Santo rispose con questo efficace argomento: “Fallo tu!, così sarai un piccolo dotto presuntuoso alla ricerca della gloria del mondo e non di quella di Dio”! Evidentemente è così che ragionano i santi.

Con due o tre compagni, a piedi, senza scarpe, bastone alla mano, San Leonardo percorse tutta l’Italia centrale fino a Napoli e quasi tutta l’Italia del nord. Ovunque si fermasse, provocava sempre un afflusso straordinario di gente. Fin dai primi sermoni, ogni chiesa si rivelava troppo piccola per la folla che accorreva, e quindi non gli restava che parlare nelle pubbliche piazze che si riempivano all’inverosimile, gremite fin sui tetti. Una volta conclusi i sermoni, i confessionali venivano assediati, ed il santo missionario, apparentemente senza fatica, confessava per ore, giorno e notte, con il coraggio di un soldato che rifiuta di abbandonare il campo di battaglia fino a quando non abbia ottenuto una vittoria completa, e senza dimenticare che, dopo la battaglia, resta ancora da inseguire il nemico!

“Contro l’inferno, diceva, abbiate la spada in pugno … siate pronti a combattere l’inferno fino all’ultimo respiro”. Papa Benedetto XV lo chiamava “Il grande procacciatore del paradiso”.

Figura apostolica celebre e molto popolare, San Leonardo è il patrono delle missioni popolari; qual è la ragione di questo patronato? Egli compiva completamente ciò che comanda il Codice di diritto Canonico (CJC 1917) al Canone 1347: Can. 1347. §1. In sacris concionibus exponenda in primis sunt quae fideles credere et facere ad salutem oportet.

  • 2. Divini verbi praecones abstineant profanis aut abstrusis argumentis communem audientium captum excedentibus; et evangelicum ministerium non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis, non in profano inanis et ambitiosae eloquentiae apparatu et lenocinio, sed in ostensione spiritus et virtutis exerceant, non semetipsos, sed Christum crucifixum praedicantes.

[.1- La sacra predicazione dovrà esporre prima di tutto ciò che i fedeli devono credere e praticare per salvarsi! 2- I predicatori della parola divina devono astenersi dal trattare affari profani, soggetti astratti che oltrepassino la capacità ordinaria degli ascoltatori, essi devono esercitare il loro ministero evangelico non attraverso ragionamenti persuasivi, di eloquenza umana, né attraverso un apparato profano o con la seduzione di una vana ed ambiziosa eloquenza, ma mostrandosi nella loro predicazione pieni dello spirito e della virtù di Dio, non predicando se stessi, ma Cristo crocifisso.]

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Uno dei più famosi sermoni di San Leonardo da Porto Maurizio è stato indubbiamente “Il piccolo numero di coloro che si salvano.” Su di esso egli faceva affidamento per la conversione dei grandi peccatori. Questo sermone, come altri suoi scritti, è stato sottoposto all’esame canonico durante il suo processo di canonizzazione. In esso egli recensisce primariamente i vari Stati di vita dei Cristiani per concludere poi con: “il piccolo numero di coloro che si salvano, in relazione alla totalità degli uomini”.

Il lettore che mediterà su questo testo di notevole importanza, potrà verificare la solidità delle sue argomentazioni, che gli hanno valso l’approvazione della Chiesa. Ecco il discorso vibrante e commovente del grande missionario.

Il piccolo numero di coloro che si salvano

[Da: Opere complete di S. Leonardo da Porto Maurizio Missionario apostolico, Minore riformato del Ritiro di San Bonaventura in Roma riprodotte con alcuni scritti inediti in occasione della sua canonizzazione, vol. III (Prediche quaresimali), Venezia 1868, pag. 314-327.]

PREDICA VIGESIMAQUARTA

MARTEDÌ DOPO LA QUARTA DOMENICA di Quaresima

DEL PICCOLO NUMERO DEGLI ELETTI.

salvati

– De turba autem multi crediderunt in eum. – [Joann. VI]
  1. Lode sia all’Altissimo; non è poi sì scarso il numero dei seguaci del Redentore, che ne debba tripudiar con tanto di gioia la malignità degli scribi e farisei. Per quanto si studiassero di calunniar l’innocenza, e con avvelenati sofismi procurassero d’ingannare le turbe screditando e la di Lui dottrina e la di Lui santità, fingendo le macchie perfin nel sole, non lasciarono perciò moltissimi di riconoscere al riverbero di tanta luce la divinità del vero Messia; anzi ad onta di chi con maligne imposture voleva oscurarne gli splendori, senza tema alcuna o di minacce, o di castighi, si gettarono palesemente al partito di Lui: de turba autem multi crediderunt in eum. [1] Se poi tutti quelli che furono del numero de’ seguaci di Cristo fossero altresì del numero dei comprensori [= beati, n.d.r.] con Cristo: oh qui sì che ammutolisco per riverenza di sì alto mistero, e adoro gli abissi di Dio con silenzio, piuttosto che decidere un sì gran punto con temerità. Grande argomento è quello che si deve trattar questa mane! argomento di sì alta importanza, che fe’ tremare le colonne principali di santa Chiesa, ricolmò d’orrore i più gran santi, e riempì di anacoreti i deserti; un argomento sì terribile, in cui si ha a decidere quel gran dubbio, se sia maggiore il numero dei cristiani che salvansi, o il numero dei cristiani che vanno dannati, servirà, cred’io, di pungolo ai vostri cuori per stimolarli a temere una volta i giudizî di Dio. Miei cari uditori, per l’amore tenerissimo che a voi porto, bramerei consolare i vostri timori con pronostici di felicità, dicendo a ciascheduno di voi: allegramente, il paradiso è vostro, la maggior parte dei cristiani si salvano, vi salverete ancor voi. Ma come posso io recarvi così dolce conforto, se voi, nemici giurati di voi medesimi, vi ribellate ai disegni di Dio? Io scorgo in Dio un desiderio vivo di salvarvi, e scorgo in voi una propensione somma a dannarvi; che farò dunque questa mane? Se parlo chiaro, disgusto voi; se non parlo, disgusto Iddio; facciamo così: dividerò l’argomento in due punti. Nel primo per atterrir voi solamente lascierò decidere il punto dai teologi e santi padri, cioè che dei cristiani adulti la maggior parte si dannano; mentre io, adorando taciturno l’altezza del mistero, terrò nascosto il mio proprio sentimento. Nel secondo deciderò apertamente per difendere dalle censure dei libertini la bontà del mio Dio: cioè chiunque si danna per sua schietta malizia si danna, perché si vuol dannare. Ecco dunque due importantissime verità. De’ cristiani adulti la maggior parte si danna: ecco la prima. Chiunque si danna, per sua schietta malizia si danna: ecco la seconda. Se rimanete atterriti dalla prima, non vi lamentate di me, quasi che vi voglia stringere la via del paradiso: sarebbe questa una nera calunnia, mentre ho protestato di voler essere neutrale, e passarmela con rigoroso silenzio; lamentatevi di quei teologi, di quei santi padri, che a forza di vive ragioni ve lo imprimeranno nel cuore. Se rimarrete disingannati dalla seconda, ringrazierete Iddio, che con tanti mezzi altro finalmente non vuole che una resa totale de’ vostri cuori. Se poi in ultimo mi sforzerete a dir chiaro il mio proprio parere, lo dirò, e sarà di vostra somma consolazione. Incominciamo.
  2. Non è curiosità, è cautela il ventilarsi da’ pergami certe verità, che servono a maraviglia per reprimere la insolenza de’ libertini, che, riempiendosi tuttodì la bocca di misericordia di Dio più che grande, di conversione facile, di speranza sicura, vivono poi immersi sino agli occhi nelle iniquità, e dormono agiatamente con gran sicurezza in mezzo alla via della loro perdizione. A risvegliar dunque costoro e a disingannarli, si discuterà questa mane il gran dubbio, se sia maggiore il numero dei cristiani che salvansi, o il numero dei cristiani che vanno dannati. Anime buone, ritiratevi, la disputa non è per voi, tutta è ordinata ad imbrigliar l’orgoglio dei licenziosi, che, sbandito dal mondo il santo timor di Dio, hanno fatto lega col demonio, che, al parer d’Eusebio, con assicurare le anime, le manda alla perdizione: “immittit securitatem, ut immittat perditionem” [2]. Per scioglier dunque il dubbio proposto, schierate in bella ordinanza da una parte tutti i santi padri sì greci, come latini, dall’altra tutti i teologi di maggior sapere, tutti gl’istorici di maggior erudizione, e nel bel mezzo ponetevi la Bibbia sacra esposta agli occhi di tutti. Or qui attendete, non a ciò che son per dir io, che già ho protestato e di bel nuovo protesto non voler decidere, anzi di voler essere mutolo affatto; ma attendete a quel tanto che sono per dirvi quelle anime grandi, che nella Chiesa di Dio servono come di fanali per far lume agli altri; acciocché non isbaglino la via del paradiso, affinché con la loro guida al lume della fede, dell’autorità e della ragione, rimanga sciolto compitamente un sì gran dubbio. Avvertite però, che non cade il discorso sulla gran massa di tutto l’uman genere, né s’intende parlare di tutti i cristiani cattolici alla rinfusa, ma solo de’ cattolici adulti, che con la libertà dell’arbitrio sono capaci di cooperare al grande affare dell’eterna salute. Date pure la precedenza ai teologi, che hanno per proprio di esaminare le cose più per sottile, e di non esagerare insegnando. Ecco che si fanno innanzi due eminentissimi porporati, il Gaetano e il Bellarmino, spalleggiati dal dottissimo Abulense, i quali concordemente votano contro dei libertini, e dicono aperto il loro parere, cioè che de’ cristiani adulti la maggior parte si dannano. Ed oh avessi tempo di porvi sotto gli occhi i loro motivi e fondamenti e ragioni, quanto ne rimarreste convinti! Ve ne accerta però in mia vece il Suarez, che dopo averli consultati tutti, dopo avere esaminato tutto, ci lasciò scritto: “communior sententia tenet ex christianis plures esse reprobos, quam praedestinatos” [3]. Tant’è, fra’ teologi corre per sentenza più comune, che dei cristiani adulti i più vanno dannati. Se poi ai sentimenti dei teologi volete accoppiata l’autorità dei padri sì greci, come latini, li troverete quasi tutti uniformi. Così sentirono un s. Teodoro, un s. Basilio, un s. Efrem, un s. Giovanni Grisostomo; anzi fra questi padri greci fu comune opinione, al riferir del Baronio, che di questa verità ne avesse espressa rivelazione s. Simeone Stilita; che però per assicurare sempre più l’affare importantissimo della sua eterna salute, si risolvesse a vivere per quarant’anni continui su quella prodigiosa colonna sempre in piè esposto a tutte le intemperie delle stagioni, divenuto agli occhi di tutti un insigne modello sì di santità, come di penitenza. Chiamate adesso a consulta i padri latini, e sentirete un s. Gregorio, che chiaramente decide: “ad fidem plures perveniunt, ad regnum coeleste pauci perducuntur”; [4] a cui fa eco s. Anselmo: “ut videtur, pauci sunt qui salvantur”, [5] e con più chiara espressione conchiude s. Agostino: “pauci ergo qui salvantur in comparatione multorum perituro rum”. [6] Il maggiore spavento però ce lo porge s. Girolamo, che, ridotto all’estremo di sua vita, in presenza dei suoi discepoli proferì quella orribilissima sentenza: “vix de centum millibus, quorum mala fuit semper vita, meretur habere indulgentiam unus”. [7] Di centomila cristiani vissuti sempre male, appena uno si salva.

III. Ma a che servono le opinioni dei padri e dei teologi, se dalla sacra Scrittura, che teniamo aperta innanzi agli occhi, si deduce chiara la risoluzione di sì gran dubbio? Voltate su e giù ambedue i Testamenti vecchio e nuovo, e li troverete ripieni di figure, di simboli, di parabole, che ci esprimono al vivo questa rilevantissima verità, che pochi, anzi pochissimi, si salvano. Al tempo di Noè tutto il genere umano restò affogato nel diluvio, e solo otto persone si salvarono nell’arca: quest’arca, dice s. Pietro nella sua epistola, fu figura della Chiesa: e quell’essersi salvate solo otto persone, ripiglia s. Agostino, significa che pochissimi cristiani si salvano, perché pochissimi sono quelli che confermino coi fatti quella rinunzia che fecero nel battesimo con le parole; “qui saeculo solis verbis, non factis renunciant, non pertinent ad hujus arcae mysterium”. [8] Seguitate a leggere, e poi dite che lo stesso volle significare quell’essere entrati nella terra di promissione due soli di quasi due milioni d’ebrei, che vi s’incamminarono dopo l’uscita dall’Egitto; quell’essersi salvati soli quattro dall’incendio di Sodoma e delle altre città nefande; quel raccogliersi assai più paglia dei reprobi da gettarsi nel fuoco, da quel che si raccolga frumento d’eletti da riporsi nei granai. E chi la finirebbe mai, se si avessero ad esaminar tutte le figure, delle quali abbonda la sacra Scrittura in conferma di questa verità? Eh via… che a noi deve bastare l’oracolo vivo della incarnata Sapienza. Che risposta diede il Redentore a quel curioso del Vangelo, che lo interrogò: “Domine, si pauci sunt, qui salvantur?” Signore, sono pochi o molti quei che si salvano? Che rispose? Forse tacque? Rispose titubando? Dissimulò per non atterrire? Mi maraviglio, rispose apertissimamente, e interrogato da un solo volse il suo dire a tutti quanti erano ivi presenti: Di che mi ricercate voi? Se siano pochi o molti quei che si salvano? Ecco quel che vi dico: sforzatevi d’entrare per la porta stretta, perché in verità vi assicuro che molti procureranno d’entrarvi, eppure non vi potranno entrare, mentre si contenteranno di una diligenza mediocre, e per entrar in paradiso vi vuole uno sforzo grande. “Domine, si pauci sunt, qui salvantur? Ipse autem dixit ad illos: contendite intrare per angustam portam, quia multi, dico vobis, quaerent intrare, et non poterunt” [9]. Chi è qui che parla? Forse un teologo che specula, un dottore che formalizza? No, no; è il Figlio di Dio, è la stessa eterna Verità, che in altra occasione disse anche più chiaro: “multi sunt vocati, pauci vero electi” [10]. Non disse: “omnes sunt vocati”, rinchiudendovi tutti gli uomini, e che di tutti gli uomini sono pochi eletti; no, ma disse: “multi sunt vocati”, cioè, come spiega s. Gregorio, tra tutti gli uomini molti sono i chiamati alla vera fede, molti sono i cristiani cattolici, e di questi pochi sono gli eletti, pochi si salvano. Lamentatevi adesso di me, che vi stringo la strada del paradiso, mentre io mi sono protestato di non voler neppure aprir bocca. Queste, popolo caro, sono pur parole di Gesù Cristo? sono pur chiare? sono pur vere? Or ditemi adesso, si può aver fede in cuore questa mane, e non tremare per il grande orrore?….

  1. Ah… tardi mi avveggo, che il parlare così alla rinfusa di tutti è uno scoppio senza palla. Stringiamo l’argomento al diverso stato d’ognuno, e toccherete con mano esser d’uopo o rinunziare alla ragione, all’esperienza, al senso comune dei fedeli, o confessare che dei cattolici i più vanno dannati. E però ditemi in grazia, v’è stato nel mondo più favorevole all’innocenza, più idoneo alla salute, più in credito di bontà di quello dei sacerdoti, che sono i luogotenenti di Dio? Or chi non presumerebbe senz’altro i più di loro essere gli ottimi, che non i buoni? Eppure odo non senza orrore lagnarsi un Girolamo, che essendo il mondo pienissimo di sacerdoti, ve n’è però tal carestia, che appena uno tra cento si troverà che sia buon sacerdote; odo un servo di Dio attestare di avere inteso per rivelazione a sé fattane, esser tanti i sacerdoti che giornalmente precipitano nel baratro dell’inferno, che non gli parea possibile restarne altrettanti nel mondo; odo il Grisostomo, che in vedere sì poca esemplarità di vita nei sacerdoti, il tutto conferma con le lagrime agli occhi, dicendo che i più vanno perduti: “non arbitror inter sacerdotes multos esse, qui salvi fiant, sed multo plures, qui pereant”. [11] E se volete maggiormente raccapricciarvi per l’orrore, sollevate gli occhi più in alto, e poi ditemi: dei principi, prelati di santa Chiesa, e curati d’anime sono i più quelli che si salvano, o quelli che si dannano? Io son mutolo, non parlo; il Cantipratense vi racconterà un fatto, toccherà a voi dedurne le conseguenze. Si radunò un sinodo in Parigi con l’intervento di molti prelati e curati d’anime, assistiti per maggior pompa e decoro dalla presenza del re e dei principi di quella dominante. Fu invitato a sermoneggiare in questo sinodo un famosissimo predicatore, e mentre studiava la materia del suo discorso, gli comparve uno spaventoso demonio, e gli disse: eh via, metti da parte tanti libri; vuoi tu fare una predica fruttuosissima a questi principi, prelati e curati di anime? Lascia pur tutto il resto, e porta loro solamente una imbasciata da parte di noi altri diavoli dell’inferno, e di’ loro così, come in persona nostra: noi principi delle tenebre rendiamo infinite grazie a voi, principi, prelati e curati d’anime delle chiese, mentre per vostra negligenza la maggior parte dei fedeli si dannano; che però ci riserbiamo a rendervi il contraccambio di sì gran favore, quando vi troverete con esso noi nel nostro inferno. Guai a voi, che presiedete agli altri, guai a voi! Se per causa vostra tanti si dannano, di voi che sarà? Or se di questi, che sono i luminari di prima grandezza nella Chiesa di Dio, tanto pochi si salvano, di voi che sarà? Fate pure un fascio di tutte le sorta di persone di ogni sesso, di ogni stato, di ogni condizione, dei coniugati, liberi, maritate, vedove, fanciulle, soldati, mercanti, artefici, bottegai, contadini, ricchi, poveri, nobili, plebei; di tanta gente, che per altro vive sì male, qual giudizio faremo noi? A me nol chiedete; non ho cuore, me ne sto taciturno ammirando i giudizî di Dio. San Vincenzo Ferreri vi chiarirà con un fatto. Riferisce dunque il santo, qualmente un arcidiacono di Lione di Francia, rinunziò la sua dignità, e per zelo dell’anima sua ritirossi a far penitenza in un deserto. Spirò lo stesso dì ed ora, in cui morì san Bernardo, ed apparendo poscia al suo prelato gli disse: Monsignore, sappiate che nella stessa ora, in cui io spirai morirono trentamila persone; di questi l’abbate Bernardo ed io salimmo al cielo senza dilazione alcuna, tre al purgatorio, e tutte le altre ventinovemila novecento novantacinque precipitarono all’inferno. Anche più spaventoso è il caso che si registra nelle nostre cronache. Predicando in Alemagna un nostro religioso insigne per santità e dottrina, esagerò sulla deformità dei peccati disonesti con tanta veemenza di spirito, che una donna dell’uditorio cadde svenuta per il gran dolore a vista di tutti, e ritornata in sé, disse: Quando fui presentata al tribunale di Dio vi concorsero pure da varie parti del mondo sessantamila persone, delle quali si salvarono tre, che andarono in purgatorio, e tutto il resto dannossi! Di trentamila soli cinque si salvano, di sessantamila soli tre vanno in luogo di salute; eh, peccatori fratelli, voi che mi udite, di qual numero sarete voi? che dite? che pensate?…
  2. Già mi avveggo che per la maggior parte abbassate il capo, e stupidi per l’orrore ve ne rimanete attoniti, sorpresi da un’alta maraviglia. Eh via, deponete lo stupore, e lasciamo ormai, cari uditori, di adulare il nostro rischio, ma bensì procuriamo di trar qualche vantaggio dal nostro timore. Siete voi ragionevoli? eccovi dunque chiariti dalla ragione. Non è vero che due sono le vie che conducono al santo paradiso, cioè la via della innocenza e la via della penitenza? Or se io vi dimostrerò che pochissimi camminano per una delle due strade, voi da quei ragionevoli che siete, dedurrete subito che pochissimi si salvano. E per venire alle prove, qual’età, qual impiego, qual grado mi troverete voi, nel quale il numero dei cattivi non sopravvanzi con proporzione di cento ad uno quello dei buoni, ed a cui non quadri l’opinione di Biante: “Rari boni, pravi plurimi?” Ormai può dirsi del nostro tempo ciò che diceva Salviano del suo: essere più facile trovar un numero senza numero di persone colpevoli e immerse in ogni sorta d’iniquità, che rinvenirne pochissime innocenti. Quanti pochi vi sono tra i servitori, che siano netti di mano e fedeli nei loro uffici! quanti pochi tra i bottegai discreti e giusti nelle loro vendite! quanti pochi artigiani puntuali e veridici nelle loro opere! quanti pochi tra i mercanti disinteressati e sinceri nei loro traffichi! quanti pochi curiali, che non tradiscano l’equità! soldati che non calpestino l’innocenza! padroni che non ritengano le mercedi! potenti che non soverchino gl’inferiori! “Rari boni, pravi plurimi”. Chi non vede che è tanto universale ormai la sfrenatezza nei giovani, la malizia negli adulti, la libertà nelle fanciulle, la vanità nelle donne, nella nobiltà la licenza, nella cittadinanza la corruttela, nella plebe la dissoluzione, nella povertà l’impudenza, che, come Davidde disse dei tempi suoi, quei pochissimi che vivono bene tra la moltitudine dei malviventi non compariscono, come se al mondo non ve ne fosse pur uno? Omnes declinaverunt, non est qui faciat bonum, non est usque ad unum”. [12] Eccoci giunti pur troppo a quella universale inondazione dei vizî profetizzata da Osea: “maledictum, et mendacium, et furtum, et adulterium inundaverunt”. [13] Scorrete le piazze e le strade, i fondachi e le officine, i palazzi e le case, i quartieri ed i campi, i tribunali e le corti, i tempî stessi di Dio; dove mai troverete più un palmo di netto? Ahimè, dice Salviano, ora mai non si può più reggere alla gran piena di bestemmie e di spergiuri, di uccisioni e di rancori, di oppressioni e di rapine, di crapule e di adulterî, di scandali e di ateismi, che allagano dappertutto: “praeter paucissimos qui mala fugiunt, quid est aliud christianorum coetus, quam sentina vitiorum?” [14] Tutto è interesse, tutto è ambizione, tutto golosità, tutto lusso; dalle sole sozzure della disonestà forse non è ammorbata la maggior parte degli uomini? Dunque non è verissimo il sentimento di s. Giovanni, che il mondo, se pur si può chiamare mondo quello che è la stessa immondezza, tutto arde di questa febbre maligna, tutto divampa: “mundus totus in maligno positus est?” [15] Non mi tacciate, se così è; non sono io che parlo, non sono io che vel dico, è la ragione che vi violenta a credere che di tanta gente che vive sì male, pochi, anzi pochissimi si salvano.
  3. Ma la penitenza, mi dite voi, non può riparar con vantaggio le perdite della innocenza? Sì che il può; ma io so ancora che è sì difficile in pratica, e sì disusata, o sì abusata tra’ peccatori la penitenza, che basta questo a convincerci essere ben pochi quei che si salvano per questa strada. Ed oh che strada scoscesa, angusta, spinosa, orrida a rimirarsi, aspra a salirsi, dolorosa a calcarsi, segnata per tutto d’orme sanguigne, di tronche membra, di funeste memorie! quanti si smarriscono in solo vederla! quanti si ritraggono nel principio! quanti vengono meno nel mezzo! quanti abbandonansi miseramente sul fine, e quanti pochi sono quelli che con santa perseveranza la tengono fino alla morte! È un gran dire quello di Ambrogio, di aver trovato più facilmente chi abbia serbata l’innocenza in tutto il tempo di sua vita, che chi vissuto malvagio abbia poi fatta de’ suoi peccati penitenza condegna: “facilius inveni qui innocentiam servaverint, quam qui congruam poenitentiam egerint”. [16] Che se considerate la Penitenza qual sacramento, oh Dio! quante confessioni dimezzate! quante narrazioni istoriche! quante apologie studiate! quanti pentimenti bugiardi! quante promesse ingannevoli! quanti propositi inefficaci! quante assoluzioni male impiegate! Direte voi che sia buona la confessione di colui, che confessa disonestà inveterate, di cui tiene appresso di sè l’occasione? o ruberìe manifeste, che non ha animo di risarcire quantunque possa? o ingiustizie, o imposture, o iniquità d’ogni genere, in cui appena confessato ricade? Oh abuso orribile di sì gran sacramento! chi si confessa per esimersi dalle scomuniche, chi si confessa per acquistar credito di penitente, chi si sgrava dei peccati per attutare i suoi rimorsi, chi per vergogna li tace, chi per malizia li tronca, chi per usanza li scopre. A chi manca il vero fine del sacramento, a chi il dolor necessario, a chi il proposito universale. Poveri confessori! quanto vi convien sudare per indurre la più parte de’ penitenti a quelle risoluzioni, a quegli atti, senza dei quali la confessione è un sacrilegio, l’assoluzione è una condanna, e la penitenza è una vanità? Dove sono adesso coloro che, per autenticar l’opinione contraria del maggior numero degli eletti, si fanno forti con questo discorso: i più dei cattolici adulti muoiono nel loro letto co’ sacramenti, dopo essersi confessati; dunque i più dei cattolici adulti vanno salvi. Oh che bel raziocinio! Conviene inferire tutto l’opposto; i più dei cattolici adulti si confessano male in vita, dunque a fortiori i più dei cattolici adulti si confessano male in morte; e i più vanno dannati. Ho detto a fortiori, perchè ad un moribondo, a cui riuscì sì malagevole il confessarsi bene quando era sano, come volete che riesca confessarsi bene, allorché se ne giace in un letto col cuore oppresso, col capo vacillante, con la ragione sopita, combattuto in più guise dagli oggetti ancor vivi, dalle occasioni ancor fresche; dagli abiti fatti, e soprattutto dai demonî assistenti, che cercano tutti i mezzi per precipitarlo? Or se a tutti questi o falsi penitenti, o veri impenitenti voi aggiungerete quei tanti altri malvagi, che i giorni loro finiscono improvvisamente in peccato, o per imperizia dei medici, o per colpa de’ parenti, o per malignità de’ veleni, o sepolti da’ terremoti, o rapiti da apoplessie, o precipitati da alto, o morti in guerra, o uccisi in rissa, o colti in fallo, o fulminati, o arsi, o annegati, come non direte che sopravvanzino di gran lunga il numero di coloro che vanno salvi? Concludiamo a forza di convincentissima ragione, che i più de’ cristiani adulti vanno dannati. Il discorso non è mio, io per me sto quieto, non parlo, è di Giovanni Grisostomo, che vi mette con le spalle al muro. Venite qua, dice il santo: la maggior parte dei cristiani non battono la via dell’inferno? non camminano per tutto il tempo della loro vita verso l’inferno? Perché dunque vi maravigliate che la maggior parte vadano all’inferno? che i meno entrino in paradiso? “Non potest quis pervenire ad portam, nisi ambulaverit in via.” [17] Rispondete adesso ad una ragione sì robusta, se vi dà l’animo.

VII. La risposta l’abbiamo in pronto: la misericordia non è grande? Sì, che è grande per chi teme Dio: “misericordia Domini super timentes eum”, [18] dice il profeta; ma per chi non teme Dio è grande la giustizia, che è risoluta mandare in perdizione tutti i contumaci: “discedite a me, omnes operarii iniquitatis”. [19] Or se così è, per chi sarà fatto il paradiso, se non è fatto per i cristiani? Anzi per i cristiani è fatto il santo paradiso, ma per quei cristiani che non disonorano un sì bel carattere e vivono da buoni cristiani; tanto più che se voi al numero dei cristiani adulti, che muoiono in grazia, aggiungerete uno stuolo numerosissimo di bambini che muoiono dopo il battesimo prima di arrivar all’uso della ragione, si formerà una turba sì smisurata e sì strana, che l’apostolo s. Giovanni in vederla, la chiamò innumerabile: vidi turbam magnam, quam dinumerare nemo poterat. [20] Ed ecco l’abbaglio di chi sostiene opinioni in contrario. È certo che, parlandosi di tutti i cattolici alla rinfusa, la maggior parte si salvano, attesoché, secondo le varie osservazioni già fatte, dei bambini che nascono, circa la metà muoiono dopo il battesimo prima di arrivar all’uso della ragione. Or se a questa metà si aggiungono gli adulti, che conservarono intatta la stola dell’innocenza, o dopo averla macchiata la lavarono con lagrime di opportuna penitenza, è certo che i più vanno salvi, e quadra loro benissimo il “vidi turbam magnam” dell’Apostolo diletto; il “venient multi ab oriente, et occidente, et recumbent cum Abraham, et Isaac, et Jacob in regno coelorum” [21] del Redentore, con gli altri simboli e figure, che sogliono addursi in favore di questa opinione; ma se si parla de’ cristiani adulti, troppo convincono e l’esperienza e la ragione e l’autorità e la convenienza e la Scrittura, che i più vanno dannati. Nè crediate perciò sia per formarsi del paradiso un deserto; eh no, no, anzi un reame popolatissimo; e se i reprobi saranno tanti quante le arene del mare, gli eletti saranno tanti quante le stelle del cielo, cioè a dire gli uni e gli altri senza alcun numero, benché con differentissima proporzione; la quale proporzione ben ponderata un dì da Giovanni Grisostomo lo fe’ fremere per l’orrore. Predicando egli nella sua cattedrale di Costantinopoli, città allora popolatissima, ebbe a dir sospirando: quanti credete voi d’un popolo sì numeroso siano per salvarsi? E senza aspettar risposta, soggiunse: io sono di parere che appena cento si salveranno, e di questi ancora dubito: “non possunt in tot millibus inveniri centum qui salventur, quin et de his dubito”. [22] Ahi spavento! ahi terrore! d’un popolo sì numeroso, appena cento credeva quel gran santo si avessero a salvare, e nemmeno questi dava per sicuri; e di voi che mi ascoltate, che sarà? Dio immortale! è punto questo da tremare. Troppo ardua, dilettissimi, è la impresa della nostra eterna salute, e, secondo la massima di tutti i teologi, quando un fine dipende da mezzi grandemente difficili, non è che di pochi l’arrivare a spuntarlo: “deficit in pluribus, contingit in paucioribus”. Che però l’angelico dottor s. Tommaso, dopo aver ponderato ben bene con la vastità del suo sapere tutti i motivi, tutte le ragioni, alla fine conchiude che de’ cattolici adulti la maggior parte si danna: “cum beatitudo aeterna excedat statum naturae, et praecipue secundum quod est gratia originali destituta, pauciores sunt qui salvantur.” [23]

VIII. Strappatevi dunque dalla fronte quella benda, con cui pur troppo vi accieca l’amor proprio acciocché non crediate sì potenti verità, facendovi formare un erroneo concetto della giustizia di Dio: “Pater juste, mundus te non cognomi”. [24] Padre giusto, disse Cristo Signor nostro, il mondo non vi conosce: non disse, padre onnipotente, padre ottimo, padre misericordioso; no, disse, Padre giusto, per dinotar che Dio in nessuno dei suoi attributi è meno conosciuto, che in quello della giustizia di Dio, perché gli uomini non vogliono credere quello che non vorrebbero esperimentare. Togliete dunque quel velo che vi benda gli occhi, ed aprite in ambedue le pupille due fonti di pianto; ah dite… che del mondo cattolico, di questo stato, di questo luogo, e forse ancora di questa udienza, i più andranno dannati! E quando mai più a proposito lagrimerete, occhi miei, che in un caso sì deplorabile? Pianse il re Serse nel rivedere dall’alto d’un colle schierati in bella ordinanza centomila soldati, considerando che dopo cento anni di una sì numerosa e florida armata non resterebbe più vivo un solo uomo. Quanto maggiore motivo abbiamo di piangere ancor noi in pensare che di un numero innumerabile de’ fedeli cattolici la maggior parte se ne morrà di morte eterna? Ahimè che una evidenza sì lagrimevole dovrebbe farci struggere in un mare di pianto; e se non altro dovrebbe per lo meno eccitare nei nostri cuori quel sentimento di compassione, che già provò il venerabile fr. Marcello di s. Domenico religioso agostiniano. Meditando egli un dì le pene eterne, si degnò di mostrargli il Signore quanti in quel punto andavano dannati; e ciò per un grande stradone, dove in numero di ventiduemila, come a lui parvero, urtandosi gli uni con gli altri, correano a folla verso l’inferno. A quella vista il buon servo di Dio tutto in atto di attonito era udito esclamare: oh quanti sono! oh quanti! oh quanti! eppure ne vengono degli altri! eppure corrono a dannarsi! O Gesù! o Gesù! che follia, che stolidezza! sì, sì, che voglio dire ancor io con Geremia: “quis dabit capiti meo aquam, et oculis meis fontem lacrymarum, et plorabo interfectos filiae populi mei?” [25] Povere anime, anime belle, come correte sì affollate verso l’inferno? Deh, fermate di grazia, fermate e discorriamola un po’ familiarmente. O voi capite che voglia dire salvarsi per tutta l’eternità, che voglia dire dannarsi per tutta l’eternità; o voi nol capite? Se lo capite, e non vi risolvete questa mane a mutar vita, a fare una buona confessione, a mettervi il mondo sotto de’ piedi, insomma a far tutti gli sforzi per entrare nel numero di quei pochi che si salvano, dico che in voi non v’è fede; se poi non lo capite, siete degni di maggiore scusa, perché non v’è cervello, non vi è senno. Salvarsi per tutta l’eternità! dannarsi per tutta l’eternità! e poi non far ogni sforzo per fuggir l’uno, e assicurar l’altro, l’è un gran che! Forse ancor non credete? ancor titubate? Ma sono pure i teologi di maggiore sfera, i padri di maggiore autorità che vi hanno predicata questa mane una sì gran verità? Io per me non ho avuto cuore di decidere; come dunque potete far testa a tante ragioni corroborate da tanti motivi, da tanti esempi, da tante scritture? Che se, non ostante una sì gran piena di ragioni convincentissime, rimaneste ancora sospesi, e il vostro intelletto inclinasse alla opinione opposta, non basta per farvi tremare il solo sospetto che possa esser vera questa pia opinione, che dei cristiani i più si dannano, la quale vi viene predicata da tanti santi, da tanti servi di Dio e da tutti i più accesi della salute delle anime? Ahimè che pur troppo dareste a conoscere che a voi non preme la eterna salute. Io so che ad ogni uomo di senno in quel che risguarda l’affare della eterna salute fa più colpo un leggiero dubbio del suo pericolo, che la evidenza d’una totale ruina in altri affari che non ispettano all’anima. Quindi è che il nostro beato Egidio soleva dire, che se di tutti gli uomini uno solo si avesse dovuto dannare, avrebbe fatto tutto il fattibile per accertarsi di non esser egli quello. Or che dovremo far noi con una verità sì manifesta sugli occhi, che non solo di tutti gli uomini, ma ancora de’ cattolici i più vanno dannati? Che si risolve per entrare nel numero di que’ pochi che si salvano? Che dite? Che pensate? Che abbiamo a dire?… Se Cristo m’aveva a dannare, a che farmi nascere? Taci, lingua temeraria, taci; nemmeno i turchi Cristo ha fatto nascere per dannarli, ma chiunque si danna, per sua schietta malizia si danna; si danna perché si vuol dannare. Oh qui sì che voglio parlare io per difendere la bontà del mio Dio da ogni censura. Lasciatemi riposare.

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Seconda parte

  1. Prima d’inoltrarci, fate un fascio da una parte di tutti i libri ed eresie di Lutero e di Calvino; dall’altra accumulate tutti i libri ed eresie dei pelagiani e semipelagiani, e poi date loro fuoco; gli uni distruggono la grazia, gli altri distruggono la libertà, sono pieni di errori, gettateli alle fiamme; è stampato in fronte ad ogni prescito [= reprobo, n.d.r.] l’oracolo di Osea profeta: “perditio tua ex te”. [26] Per fargli capire che chiunque si danna, per sua schietta malizia si danna, si danna perché si vuoi dannare, piantate questi due fondamenti: “Deus vult omnes homines salvos fieri”, [27] Iddio per quanto è da parte sua vuole salvar tutti; “Omnes egent gloria Dei”, [28] e per salvarci tutti abbiamo bisogno della grazia di Dio. Or se io vi farò vedere che Iddio ha questa buona volontà di salvar tutti, e che per salvar tutti, a tutti dà la sua grazia con gli altri mezzi necessarî per conseguire un fine sì sublime, sarete sforzati a confessare che chiunque si danna, per sua schietta malizia si danna; e se la maggior parte dei cristiani vanno dannati, ci vanno perché ci vogliono andare: “perditio tua ex te, in me tantummodo auxilium tuum”. [29] Che per verità Iddio abbia voglia di salvar tutti, l’ha manifestato in cento luoghi delle sacre Carte: “nolo mortem peccatoris, sed ut magis convertatur et vivat: vivo ego, dicit Dominus, nolo mortem impii”; [30] “convertimini, et vivite”. [31] E perché non ho tempo di dilatarmi, solo dirò che quando alcuno ha voglia grande di qualche cosa, si suole dire: se ne muore di voglia: ma si dice così per esagerazione, per iperbole; Iddio sì, che ha ed ha avuta una voglia sì grande, sì accesa della nostra eterna salute, che è morto per sì gran voglia, e per brama di dare a noi la vita, ha sofferto egli stesso la morte: “et propter nostram salutem mortuus est”. Dunque questa volontà di salvar tutti in Dio non è una volontà affettata, superficiale, per cerimonia, no, ma è una volontà vera, pratica, benefica, perché infatti ci dà tutti quei mezzi che sono attissimi per salvarci, e non ce li dà acciocché non abbiano il suo effetto, o perché vede che non l’avranno; ma ce li dà con volontà buona, con intenzione vera che ottengano il loro fine, e se non l’ottengono, si dichiara che se ne disgusta, se ne offende; ed anche a’ presciti comanda che si adoprino per conseguire la loro eterna salute; li esorta a questo, a questo li obbliga, e se non lo fanno, fanno peccato; dunque poteano farlo, e salvarsi anch’essi; anzi perché Dio vede che senza il suo aiuto nemmeno ci serviremmo della sua grazia, ci dà altri aiuti, acciocché con essi ci aiutiamo; e se questi aiuti talvolta riescono inefficaci, la colpa è nostra: perché con quegli stessi aiuti in actu primo, dicono i teologi, de’ quali uno si abusa e si danna, un altro può cooperare e salvarsi, anzi con minori. Sì, sì, uno che ha maggior grazia, può abusarla e dannarsi; un altro che ha minor grazia, può cooperare e salvarsi. Or qui s’alza in piedi s. Agostino e intuona: laonde chiunque si danna, per sua schietta malizia si danna: “ergo si quis a justitia deficit, suo in praeceps fertur arbitrio, sua concupiscentia trahitur, sua persuasione decipitur”. [32] Ma per questi poverelli, che non intendono questa teologia, ecco che voglio dire: attendete. Iddio, fratelli cari, è tanto buono, ma sì buono, buono che quando vede un peccatore correre a spron battuto alla perdizione, che fa? Ecco, gli corre sempre dietro, lo chiama, lo prega, e lo accompagna perfino sulle porte dell’inferno; e che non fa per convertirlo! Gli manda buone ispirazioni, santi pensieri, e se non ne approfitta, Iddio si adira, si sdegna, e lo piglia di mira. Ahimè, adesso lo colpisce! No, perché poi spara all’aria e gli perdona; ma pur non si emenda: ed Egli lo getta moribondo su di un letto. Or sì che lo finisce; ma no, perché poi lo risana; ancora imperversa; ahimè, dice Dio, vediamo un po’, pensiamo un po’, che si può far di più, diamogli ancora un anno di tempo, e, finito questo, via, diamogliene un altro; e se con tutto questo colui ad ogni modo si vuol gettare in quella fornace di fiamme, Iddio che fa? Lo lascia? No, lo prende per mano, e mentre sta mezzo dentro e mezzo fuora dell’inferno, ancora gli predica, ancora lo supplica a prevalersi della sua grazia. Or ditemi adesso, se costui si danna, non è vero che a dispetto di Dio si danna, si danna perché si vuol dannare? Dov’è colui, che mi diceva, se Cristo m’aveva a dannare, a che farmi nascere?…
  2. Ah peccatori sconoscenti, intendete questa mane, se vi dannate, Iddio non ha colpa, la colpa è vostra; vi dannate perché vi volete dannare. E per chiarirvene maggiormente, affacciatevi giù a quelle porte dell’abisso, e poi lasciate che io vi faccia venire quassù alcuno di quei miseri presciti, che bruciano tra quelle fiamme; acciocché vi diciferi questa verità. Udite, sgraziati, venga su alcuno di voi per disingannare chiunque mi ascolta. Ecco che tra quei gorghi di fuoco e di fiamme ne spunta su uno brutto e spaventoso assai; eccolo a galla: or dimmi, chi sei tu? Io sono un povero idolatra nato nella terra incognita, che non seppi mai nulla né d’inferno, né di paradiso, né di quanto adesso patisco! Poverino, va giù, che non cerco te; venga su un altro: eccolo, oh quanto mostruoso! E tu chi sei? Io sono uno scismatico del l’ultima Tartaria vissuto sempre alla foresta: appena sapevo che vi fosse Dio; nemmeno te io voglio, torna giù: eccone un altro, che viene su da quelle bolge di fuoco: e tu chi sei? Io sono un povero eretico del Nord, nato sotto del polo, senza aver veduto mai né luce di sole, né lume di fede: eh che io non voglio nessuno di voi, tornate pur giù. Cristiani miei, mi piange il cuore in vedere che si siano dannati questi poverini, che non hanno saputo mai nulla di fede: eppur sappiate che anche a questi, quando fu data la sentenza, fu detto: perditio tua ex te, si sono dannati perché si sono voluti dannare. Oh quanti aiuti ricevettero dalla bontà di Dio per salvarsi! noi non li sappiamo, ma li sanno ben eglino, che adesso confessano: “justus es Domine, et rectum judicium tuum.” [33] Che però dovete sapere che la più antica legge è la legge di Dio; questa tutti la portano scritta nel cuore, questa s’impara senza maestro, basta avere il lume della ragione per saper tutti i precetti di questa legge; quindi è che gli stessi barbari cercano tanto il segreto per commettere i loro delitti, procuran nasconderli, perché conoscono il male che fanno; ed ecco perché si sono dannati, perché non osservarono la legge naturale, che ebbero impressa nel cuore, mercecché, se avessero osservata questa, Iddio avrebbe fatto miracoli piuttosto che lasciarli dannare; avrebbe mandato chi li istruisse, e avrebbe loro dati altri aiuti, de’ quali si resero indegni, perché non vissero conforme ai dettami della propria coscienza, che li avvisò sempre del bene e del male; questa li accusò dinanzi al tribunale di Dio, questa laggiù nell’inferno intima di continuo al cuor loro: “perditio tua ex te, perditio tua ex te”; ed essi non sanno che rispondere, e sono sforzati a confessare che la dannazione loro sta bene. Or se questi infedeli non hanno scusa, che scusa potrà avere un cattolico con tanti sacramenti, con tante prediche, con tanti aiuti? Come ardisce dire, se Cristo aveva a dannarmi, a che farmi nascere, mentre Iddio gli dà tanti aiuti acciocché si salvi? Lasciate dunque che io finisca di confondere costoro.
  3. Rispondete voi, che penate laggiù in quel profondo; de’ cristiani cattolici ve ne sono fra queste fiamme? Se ve ne sono?! oh quanti, oh quanti! Venga su dunque uno di questi; non può riuscire, stanno troppo giù nel fondo fondo; bisognerebbe mettere sottosopra tutto l’inferno; è più facile fermar uno di questi, che già stanno per cadervi. Olà, con te parlo, che vivi in peccato mortale con odî, con pratiche, involto nel fango di mille disonestà, ed ogni giorno più ti avvicini alla bocca dell’inferno; fermati, fratello, sorella, fermati, volgiti indietro; è Gesù che ti chiama, e con tutte le bocche delle sue piaghe ti dice al cuore: figlio, figlia, oh tu sì, se ti danni, non hai di che lamentarti, se non di te: perditio tua ex te. Alza il capo, figlio, e mirati d’intorno, di quanti beneficî ti ho arricchito, acciocché assicurassi la tua eterna salute; ti poteva pure far nascere in una selva de’ più remoti paesi della Barberia; l’ho fatto con tanti e tanti; con te non ho fatto così, anzi ti ho fatto nascere in seno alla santa fede cattolica, ti ho fatto allevare da sì buon padre e buona madre, con tante istruzioni e insegnamenti miei; or se con tutto questo ti danni, la colpa di chi sarà? Sarà tua, figlio, sarà tua: “perditio tua ex te”. Ti poteva pure mandare all’inferno sin dal primo peccato, senza aspettare il secondo; ho fatto così con tanti e tanti, ma con te ho avuto pazienza, ti ho aspettato per anni ed anni, anche adesso ti aspetto a penitenza; or se con tutto questo ti danni, la colpa di chi sarà? Sarà tua, o figlio, sarà tua: “perditio tua ex te”. Sai pure quanti ne ho fatti morire malamente sugli occhi tuoi: l’ho fatto per tuo avviso; quanti altri ne ho rimessi per la buona strada: l’ho fatto per darti esempio; ti ricordi di quel che ti disse quel buon confessore? Io gliel feci dire; non t’invitò egli a mutar vita, fare una buona confessione generale? Io glielo ispirai; non udisti quella predica, che ti toccò il cuore? Io ti ci condussi, io ti compunsi; e poi quel che è passato fra me e te, là dentro al gabinetto segreto del tuo cuore, tu nol puoi negare; quelle tante ispirazioni interne, quelle cognizioni sì chiare, quegli stimoli di coscienza sì continui, hai cuore a negarli? Or sappi che erano tutti aiuti della grazia mia, che ti voleva salvo in paradiso; a tanti e tanti li ho negati, e li ho dati a te, da me amato come figlio; ah figlio, ah figlio, se tanti e tante mi udissero parlare così con tanta tenerezza, come al presente Io parlo a te, si struggerebbero, si ridurrebbero sulla buona via; e tu mi volti le spalle, eh? … Deh, anima cara, anima cara, senti queste ultime mie parole, tu mi costi sangue, figlia, mi costi sangue; che se con tutto il prezzo del mio sangue ti vuoi dannare, deh non ti lamentar di me, lamentati di te, e tieni a mente questo per tutta l’eternità; se ti danni, senza mia colpa ti danni, a mio dispetto ti danni, ti danni perché ti vuoi dannare: “perditio tua ex te, perditio tua ex te”. Ah Gesù mio dolcissimo, una pietra non si spezzerebbe a queste parole sì dolci, ed espressioni sì tenere? C’è nessuno in questa udienza, che a dispetto di Dio voglia dannarsi, che con tanti aiuti di Dio voglia precipitarsi all’inferno? Se vi è, attenda, e poi resista se può, e finisco.

XII. Giuliano apostata, conforme riferisce il Baronio, dopo l’infame sua apostasia, concepì un odio sì intenso al santo battesimo, che giorno e notte andava fantasticando il modo di sbattezzarsi; e infatti fece preparare un bagno di sangue di capra, e vi si tuffò dentro, pensando con quel sangue lordo di vittima consacrata a Venere cancellare dall’anima sua il sacrosanto carattere battesimale. Vi parrà bestiale un tal successo, ma non è vero; fe’ benissimo l’apostata, perché oh quanta minor pena avrebbe sofferto nell’inferno, se vi fosse comparso senza battesimo! Ah peccator mio, vi parrà strano il consiglio che io sono per darvi; ma se bene si considera, è tutto pietoso; ed acciocché vi faccia maggiore impressione, eccomi genuflesso ai vostri piedi; mio caro peccatore, vi prego per il sangue di Gesù, per le viscere di Maria a mutar vita, a rimettervi sulla via del paradiso, a far quanto mai potete per entrare nel numero di quei pochi che si salvano; che se non vi risolvete, e volete tirare innanzi verso l’inferno; ah ecco il consiglio che vi do, ingegnatevi almeno di trovar qual che modo di sbattezzarvi; guai a voi, se portate laggiù fra tanti diavoli il nome sacrosanto di Gesù Cristo, se vi comparite col sacrosanto battesimo in capo, guai a voi! oh quanta maggior confusione sarà la vostra! deh fate a mio modo, se non vi volete convertire, andate sin da oggi alla parrocchia, supplicate il vostro parroco a cancellare il vostro nome dal libro dei battezzati, acciocché non vi rimanga memoria, che voi siate mai stato cristiano; supplicate altresì il vostro Angelo custode a cancellare dal suo libro tutte le grazie, ispirazioni e aiuti, che per ordine di Dio v’ha dati; guai a voi, se si risanno! voltatevi ancora a questo Cristo, e ditegli apertamente che si ripigli la sua fede, il suo battesimo, i suoi sacramenti. Voi inorridite eh? Non vi dà il cuore di far sì cruda preghiera? Finitela dunque, caro mio peccatore, e gettatevi ai piè di Gesù tutto lagrime, tutto compunto, e col capo basso e cuor contrito ditegli tutto amareggiato dal dolore: lo confesso, caro mio Dio, che sino a quest’ora sono vissuto peggio di un turco; non merito no di essere ascritto al numero dei vostri eletti; conosco che mi starebbe bene la dannazione; ma pure, grande è la vostra misericordia, ed affidato sugli aiuti della grazia vostra, mi protesto che vo’ salvar l’anima mia, sì, sì, vo’ salvare l’anima mia; vadane pure ciò che ne può andare, vada la roba, vada l’onore, vada la vita, purché mi salvi; se per l’addietro sono stato infedele, ecco il mio cuore contrito, mi spiace della mia infedeltà, la deploro, la detesto, e ve ne chieggo umilmente perdono; perdonatemi, caro Gesù mio, e insieme insieme invigoritemi acciocché mi salvi; non chieggo ricchezze, non onori, non prosperità, solo chieggo di salvare quest’anima; l’anima, l’anima vi raccomando, che mi salvi l’anima. E voi che dite, mio Gesù? Ecco la pecorella smarrita, che ricorre a voi, buon pastore; deh abbracciatelo un peccatore sì bene risoluto, sì addolorato; benedite le sue lagrime, benedite i suoi sospiri, anzi benedite non un peccator solo, ma benedite tutto questo popolo sì bene disposto, sì risoluto di non voler cercare altro che la salute dell’anima. Via su, dilettissimi, facciamone una fervorosa protesta ai piè di questo Amor crocifisso, di volere a tutto costo salvarci l’anima. Chi ha concepito un vivo desiderio di salvarsi, mi sia compagno in far sì bella protesta; ah che troppo preme, siatemi compagni tutti, e diciamolo pur tutti insieme: Gesù mio, voglio salvare l’anima mia: diciamolo con le lagrime agli occhi: Gesù mio, voglio salvare l’anima mia. Oh benedette lagrime! oh benedetti sospiri! Oh questa mane sì che vi vo’ mandare a casa consolati! Che però se mi ricercate del mio proprio sentimento, se siano pochi quei che si salvano, o no; ecco quel che ne sento: o siano pochi, o siano molti, dico che chi si vuol salvare si salva, dico che non si perde chi non vuol perdersi; e se è vero che pochi si salvano, si salvano pochi perché sono pochi che vivono bene. Per altro ponete su di un tavolino ambedue le opinioni. La prima dice che i più dei cattolici vanno dannati; la seconda dice che i più dei cattolici vanno salvi; e poi fingete che un Angelo mandato da Dio, suonata in tuono feroce la tromba dell’eternità, in conferma della prima opinione, dica che non solo la maggior parte dei cattolici vanno dannati, ma aggiunga di più che di tutto questo popolo qui presente uno solo dovrà salvarsi; ubbidite pur voi con esattezza ai divini comandamenti, detestate pur voi le mode senza modo di questo secolo corrotto, abbracciatevi con un vero spirito di penitenza al tronco di questo mio Gesù crocifisso; e voi, voi sarete quel salvo, voi sarete quel solo che si salverà. Ritorni poi l’Angelo, e risuonata con fiato più giulivo la tromba, in conferma della seconda opinione, dica che non solo i più dei cattolici vanno salvi, ma di più aggiunga che di questo popolo qui presente un solo s’ha da perdere, gli altri tutti si hanno a salvare. Seguitate pur voi ad amare le vostre usure, le vostre vendette, le vostre borie, i vostri amori, le vostre disonestà, e voi, e voi sarete il perduto, voi sarete quel solo che si dannerà. Che giova dunque la curiosità di sapere se siano pochi, o molti quei che si salvano? Ecco l’oracolo di s. Pietro: “satagite ut per bona opera certam vestram electionem faciatis”. [34] Se vorrete, vi salverete, così disse l’angelico dottor s. Tommaso d’Aquino alla sua sorella, che lo interrogò che cosa doveva fare per salvarsi: se vuoi, le rispose, ti salverai. E se ne volete un argomento in forma insolubile, convincentissimo, eccolo: non va all’inferno chi non pecca mortalmente, questa maggiore è di fede innegabile. Non pecca mortalmente chi non vuole, questa minore è proposizione teologica, verissima: “non est peccatum nisi voluntarium”. Dunque chi non vuole non va all’inferno. Questa è conseguenza legittima, indubitabile. Non basta questo per consolarvi? Piangete i peccati passati, confessatevi bene, non peccate più per l’avvenire, eccovi tutti salvi. A che tanti sgomenti, essendo verissimo che non va all’inferno chi non pecca mortalmente; non pecca mortalmente chi non vuole; dunque chi non vuole non va all’inferno? Questa non è opinione, ma verità soda, accertata, che ristora, che consola. Iddio ve la faccia capire e vi benedica.

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NOTE REDAZIONALI (dal sito: Progetto Barruel):

[1] Joann. VII, 31. Molti però del popolo credettero in lui.

[2] Eusebio Emis., Hom. de Latrone.

[3] Suarez De Deo lib. VI

[4] San Gregorio Magno, Homiliae in Evangelia, l. I (Lectio Evang. sec. Matth. 20, 1-16)

[5] Sant’Anselmo, In Elucid.

[6] Sant’Agostino, Serm. 111, 1 (PL 38,642).

[7] In Epist. Euseb. ad Damas. Pap. de morte D. Hieron.

[8] Sant’Agostino, De Baptismo contra Donatistas, V.

[9] Luc. XIII, 23-24: Signore, son eglino pochi quei, che si salvano? Ma egli disse loro: Sforzatevi di entrare per la porta stretta: imperocché vi dico, che molti cercheranno di entrare, e non potranno.

[10] Matth. XX, 16 e XXII, 14: Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti.

[11] San Giovanni Grisostomo, Hom. III in Act. Apost.

[12] Ps. XIII, 3 e LII, 4: Tutti sono usciti di strada, son divenuti egualmente inutili: non havvi chi faccia il bene, non ve n’ha nemmen uno.

[13] Os. IV, 2. La bestemmia e la menzogna e l’omicidio e il furto e l’adulterio la hanno inondata (la terra).

[14] Salviano, De gubernatione Dei lib. III.

[15] I Joann. V, 19. Tutto il mondo sta sotto il maligno.

[16] Sant’Ambrogio De Poenit. Lib. II.

[17] San Giovanni Grisostomo In Matth. Homil.  XVIII.

[18] Ps. CII, 17. La misericordia del Signore… sopra color, che lo temono.

[19] Luc. XIII, 27. Partitevi da me voi tutti artigiani d’iniquità.

[20] Apoc. VII, 9. Vidi una turba grande, che nissuno poteva noverare.

[21] Matth. VIII, 11. Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno con Abramo e Isacco e Giacobbe nel regno de’ cieli.

[22] San Giovanni Grisostomo, Hom. XL ad populum Antiochenum.

[23] San Tommaso d’Aquino, S. Th. Iª q. 23 a. 7 ad 3.

[24] Joann. XVII, 25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto.

[25] Jer. IX, 1. Chi darà acqua alla mia testa, e agli occhi miei una fontana di lacrime? e piangerò dì e notte gli uccisi della figlia del popol mio.

[26] Cfr. Os. XIII, 9. La perdizione è da te, o Isrele, da me solo il tuo soccorso. Mons. Antonio Martini commenta: «Vers. 9. La perdizione è da te, o Israele: ec. Tu solo, o Israele, se’ la cagione di tue sciagure: perocchè dal canto mio io non pensai, se non al tuo bene, al tuo soccorso, alla tua salute, e tu solo potevi colla tua ingratitudine sforzarmi a dar mano al flagello.»

[27] I Tim. II, 4. (Dio) vuole, che tutti gli uomini si salvino.

[28] Rom. III, 23. Tutti… hanno bisogno della gloria di Dio.

[29] Cfr. Os. XIII, 9 (vedi nota 26).

[30] Ez. XXXIII, 11: Io giuro, dice il Signore Dio: io non voglio la morte dell’empio, ma che l’empio dalla sua via si converta e viva. Convertitevi, convertitevi dalle pessime vie vostre…

[31] Ez. XVIII, 32. Convertitevi e vivete.

[32] Sant’Agostino, De articulis falso sibi impositis art. 13.

[33] Ps. CXVIII, 137. Giusto se’ tu, o Signore, e retti sono i tuoi giudizj.

[34] II Pt. I, 10. Per la qual cosa, o fratelli, viepiù studiatevi di certa rendere la vocazione ed elezione vostra per mezzo delle buone opere: imperocchè così facendo, non peccherete giammai.

PREGHIERE ed “Esercizio di Virtù” PER OGNI GIORNO DELLA SETTIMANA -Sabato-

PREGHIERE ed “Esercizio di Virtù” PER OGNI GIORNO DELLA SETTIMANA

-SABATO-

Verg. con Bambino

-Alla BB. Vergine Maria- 

[da: La via del Paradiso, III edizione, Siena 1823 -imprimatur-]

V.- In Te Domine, speravi; non confundar in æternum, in gratia tua suscipe me.

R.- Tu es Fortitudo mea, et refugium meum; consolatio mea, et protectio mea.

In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti. Amen.

I. O Madre di pietà, ed amorosa Avvocata de’ vostri devoti, sotto le ali del vostro altissimo Patrocinio ricoverato, vi prego, la mia debole memoria, acciò in avvenire, sgombrate le immagini dei terreni oggetti, mi ricordi solo dei divini favori, e delle grazie, che per mezzo vostro ricevei da Gesù Cristo vostro dilettissimo Figlio.

Ave Maria etc.

II. O Vergine benignissima, e maestra ingegnosa delle vere virtù, colla luce del vostro più che possente Patrocinio rischiarate, vi prego, il mio cieco intelletto acciò in avvenire, dissipate le tenebre dell’ignoranza, conosca meglio la grandezza infinita del mio Signore, e la sovrana eccellenza del vostro gran merito.

Ave Maria etc.

III. O Madre dell’amore il più santo, e rifugio universale de’ miserabili, sotto il Manto del vostro amorevole Patrocinio riponete, vi prego, la mia instabile volontà, acciò in avvenire, purgata da ogni amore profano, attenda con purità di cuore ad amare il mio Iddio, e dopo Lui ami ancor Voi con tutto l’ardore possibile. 

Ave Maria etc.

IV. O Specchio di santità, e speranza sicura dei supplichevoli, collo scudo del vostro amabile Patrocinio difendete, Vi prego, gli erranti miei occhi, acciò in avvenire fuggendo la vista delle mondane curiosità, mi renda degno di vedere a faccia scoperta il mio caro Iddio, e l’impareggiabile bellezza del vostro volto in Cielo. 

Ave Maria etc.

V. O Madre di Clemenza, a cagione principalissima della nostra allegrezza, colla forza del vostro autorevole Patrocinio ritenete, vi prego, la mia sdrucciolante lingua, acciò in avvenire, schivando il dir male del prossimo, l’impieghi solo in lodare il mio Iddio, ed in benedire l’eccelse vostre Virtù, e Perfezioni. 

Ave Maria etc.

VI. O Regina dell’Universo, ed aiuto possente de’ bisognosi, sotto l’ombra del vostro efficacissimo Patrocinio custodite, vi prego, le incaute mie orecchie, acciò in avvenire, aborrendo ogni sorta di nocivo discorso, ascolti più volentieri la divina Parola, e tutto ciò che ridonda in vostro onore, e gloria.

Ave Maria etc.

VII. O Madre di Dio, e consolatrice efficace degli Uomini, coi legami amorosi del vostro piissimo Patrocinio fermate, vi prego, le mal regolate mie mani, acciò in avvenire, astenendomi da ogni indecente e malvagia operazione, solo le adoperi in servizio di Dio, ed in azioni degne del vostro Immacolato purissimo Cuore.

Ave Maria etc.

VIII. O Regina degli Angeli ed Avvocata pietosa dei poveri peccatori, colla scorta sicura del vostro efficacissimo Patrocinio dirigete, vi prego, i vagabondi miei piedi, acciò in avvenire, lasciando i sentieri del vizio, abbia sempre ad incamminarmi per la strada della virtù, e del vostro santo amore.

Ave Maria etc.

IX. O Madre di misericordia, e Fonte perenne di grazie, nel mare inesausto del vostro pietosissimo Patrocinio immergete, vi prego, tutto intieramente me stesso, acciò in avvenire, rinnovando tutto il mio spirito, e mondati tutti i miei sensi, ed in vita, ed in morte, sia tutto di Dio, ed insieme sia in tutto per sempre vostro fedelissimo servo. Amen.

Ave Maria, Gloria Patri ete.

Ant. Elegit eam Deus, et praelegit eam; in tabernaculo suo habitare fecit eam .

V .- Domina, exaudi Orationem meam;

R.- Et clamor meus ad te veniat.

Oremus.

Concede, quæsumus, Omnipotens Deus, ut Fideles tui, qui sub Sanctissimæ Virginis Mariæ Nomine, et Protectione laetantur, Ejus pia intercessione a cunctis malis liberentur in Terris, et ad gaudia æterna pervenire mereantur in Cœlis. Per Christum etc.

Si potranno recitare le Litanie della Madonna con la solita Orazione: “Gratiam tuam, quæsumus, Domine etc”.

Devozione a Maria Addolorata

1). Ind. Plen. a chi dalle ore 15 del Venerdì alle ore 16 del Sabato Santo, in pubblico o in privato, si intrattiene per qualche tempo in meditazioni o preghiere in onore dell’Addolorata.

2) Ind. 5 anni a chi dalle ore 15 di qualunque venerdì alla mattina della domenica compirà lo stesso esercizio.

Corona de’ sette dolori di Maria

“Madre mia, fa che il mio core accompagni il tuo dolore nella morte di Gesù”.

I. Dolore. Vi compatisco, Madre addolorata, per la prima spada di dolore che vi trafisse quando nel tempio per mezzo di san Simeone vi furono rappresentati tutti gli strazi che dovevano fare gli uomini al vostro amato Gesù, e che voi ben sapevate dalle divine scritture, sino a farvelo morire avanti gli occhi appeso ad un legno infame, esangue ed abbandonato da tutti, senza poterlo voi difendere né aiutare. Per quell’amara memoria dunque che per tanti anni v’afflisse il cuore vi prego, regina mia, ad impetrarmi grazia ch’io sempre in vita ed in morte tenga impressa nel cuore la passione di Gesù ed i vostri dolori.

Pater, Ave, Gloria etc. Madre mia, ecc. come sopra, la quale strofa sempre si ripete.

II Dolore. Vi compatisco, Madre mia addolorata per la seconda spada che vi trafisse in vedere il vostro Figlio innocente appena nato perseguitato a morte da quegli uomini stessi per cui era venuto nel mondo; sicché allora foste voi obbligata di notte e di nascosto, a trafugarlo in Egitto. Per tanti travagli dunque, che voi, delicata donzella, in compagnia del vostro esiliato Bambino soffriste nel viaggio lungo e faticoso, per paesi deserti ed aspri e nella dimora in Egitto, dove essendo sconosciuti e forestieri viveste per tutti quegli anni poveri e sprezzati; vi prego, amata mia Signora, ad impetrarmi grazia di soffrire con pazienza, in vostra compagnia sino alla morte, i travagli di questa misera vita, acciocché possa nell’altra scampare dai travagli eterni dell’inferno da me meritati.

Pater, Ave, Gloria etc. Madre mia, ecc. come sopra …

III Dolore. Vi compatisco, Madre mia addolorata, per la terza spada che vi ferì nella perdita del vostro caro Figliuolo Gesù, che rimase per tre giorni da voi lontano in Gerusalemme; allora voi non vedendovi accanto il vostro amore e non sapendo la cagione della sua lontananza, penso già, amante mia Regina, che in quelle notti non riposaste, ma non faceste altro che sospirare Colui ch’era tutto il vostro bene. Per li sospiri di quei tre giorni per voi troppo lunghi ed amari, vi prego ad impetrarmi grazia di non perdere mai il mio Dio, acciocché abbracciato con Dio io viva sempre e così mi parta dal mondo nel punto della mia morte.

Pater, Ave, Gloria etc. Madre mia, ecc. come sopra …

IV Dolore. Vi compatisco, Madre mia addolorata, per la quarta spada che vi trafisse in vedere il vostro Gesù condannato a morte, legato con funi e catene, coperto di sangue e piaghe, coronato da un fascio di spine, cadendo per via sotto la pesante croce che portava sulle spalle impiagate, andare come un agnello innocente a morire per nostro amore. S’incontrarono allora occhi con occhi, e divennero i vostri sguardi tante saette crudeli con cui vi feriste insieme i cuori innamorati. Per questo gran dolore dunque vi prego ad impetrarmi grazia di viver tutto rassegnato alla volontà del mio Dio, portando allegramente la mia croce in compagnia di Gesù sino all’ultimo respiro della mia vita.

Pater, Ave, Gloria etc. Madre mia, ecc. come sopra …

V Dolore. Vi compatisco, Madre mia addolorata, per la quinta spada che vi trafisse, quando sul monte Calvario vi trovaste presente a vedervi morire avanti agli occhi a poco a poco fra tanti spasimi e disprezzi in quel duro letto della croce il vostro amato Figlio Gesù, senza potergli dare neppure un minimo di quei conforti che si concedono in punto di morte anche ai più scellerati. E vi prego per l’agonia che voi, amorosa Madre, patiste insieme col vostro Figlio agonizzante e per la tristezza che sentiste quando Egli dalla croce l’ultima volta vi parlò, e da voi licenziandosi vi lasciò con Giovanni tutti noi per figli, e voi, costante, lo miraste chinare il capo e spirare; vi prego ad impetrarmi grazia dal vostro amor crocifisso, di vivere e morire crocifisso a tutte le cose di questo mondo, per vivere solo a Dio in tutta la mia vita, e così entrare un giorno a goderlo in faccia in Paradiso.

Pater, Ave, Gloria etc. Madre mia, ecc. come sopra …

VI Dolore. Vi compatisco, Madre mia addolorata, per la sesta spada che vi trafisse in vedere trafitto da parte a parte il dolce cuore del vostro Figlio già morto, e morto per quegli ingrati che neppure dopo la morte erano sazi di tormentarlo. Per questo fiero dolore dunque che fu tutto vostro, vi prego ad ottenere grazia di abitare nel cuore di Gesù ferito ed aperto per me; in quel cuore dico, ch’è la bella cella d’amore dove riposano tutte le anime amanti di Dio, e dove io, vivendo non pensi né ami altro che Dio. Vergine sacrosanta, Voi lo potete fare, da voi lo spero.

Pater, Ave, Gloria etc. Madre mia, ecc. come sopra …

VII Dolore. Vi compatisco, Madre mia addolorata, per la settima spada che vi trafisse in vedervi fra le braccia il vostro Figlio già morto, non bello e candido, come lo riceveste un giorno nella stalla di Betlemme, ma insanguinato, livido e tutto lacero per le ferite che gli avevano scoperte ancora le ossa: Figlio, dicendo allora, Figlio, a che t’ha ridotto l’amore? E portandosi a seppellire voleste accompagnarlo ancor voi ed accomodarlo nel sepolcro con le vostre medesime mani, finché dandogli l’ultimo addio ivi sepolto, col Figlio lasciaste il vostro cuore amante. Per tanti martiri dunque della vostra bell’anima, impetratemi voi, o Madre del bello amore, il perdono dell’offese che ho fatto all’amato mio Dio, di cui mi pento con tutto il cuore: voi difendetemi nelle tentazioni; voi assistetemi in punto della mia morte; acciocché io salvandomi per i meriti di Gesù e vostri, venga un giorno col vostro aiuto dopo questo misero esilio a cantare nel paradiso le lodi di Gesù e vostre per tutta l’eternità. Amen.

Pater, Ave, Gloria etc. Madre mia, ecc. come sopra …

V. Ora prò nobis, Virgo dolorosissima.

R. Ut digni efficiàmur promissiónibus Christi.

Orèmus

Deus, in cuius passióne, secùndum Simeónis prophetiam, dulcissimam ànimam gloriósæ Virginis et matris Mariæ dolóris gladius pertransivit, concede propitius, ut qui dolores éius venerando recolimus, passiónis tuæ effectum felicem consequamur, qui vivis et regnas in sæcula sæculorum. Amen.

CASTITÀ

La Castità, che è il compimento di tutte le Virtù, difende la mente, il cuore, il corpo da ogni macchia d’impurità, e rende in qualche modo l’anima, che ne è adorna, simile agli Angeli, e cara alla Beatissima Vergine, che è la Madre della Purità, e la più pura di tutte le più pure creature. Esercitatevi oggi con più scrupolosa attenzione in questa Santa Virtù ad onore specialmente di Maria Santissima, e ricordatevi spesso di quelle parole del nostro Divin Redentore: “Beati sono quelli, che hanno il Cuor puro, perché vedranno Dio”. Tutte le ricchezze del Mondo sono un bel nulla a confronto di un’anima veramente casta. Se voi vivete a seconda dei movimenti della Carne, voi morirete. I pensieri, i desideri, le parole, e le azioni impure deturpano l’anima, la rendono orribile dinanzi a Dio; e la fanno morire di una morta assai peggiore di quella del Corpo.

Sei gradi di Castità

  1. Mantenere gli occhi e le orecchie in perfetta purità, perché le porte dei sensi essendo chiuse, nulla entri nell’anima che possa eccitate cattivi pensieri, o laide immaginazioni.
  2. Astenersi grandemente dall’uso delle cose che lusingano e accendono i sensi, esser sobri nel mangiare, e modesti nel vestire.
  3. Avere una sincera, e ingenua condotta nelle conversazioni, alle quali la civiltà, o i doveri scambievoli ci astringono, regolando il nostro contegno esterno in modo che vi comparisca soltanto ciò, che l’onestà e la decenza cristiana esigono da noi.
  4. Aver un santo candore nell’amicizia che dobbiamo alle Creature, fuggendo la familiarità con le persone dell’altro sesso, per non allontanarci dal Creatore.
  5. Ritirarsi da tutte le occasioni esterne ed interne che conducono al male, e così fuggire la superbia, l’ozio, i luoghi e le persone, dalle quali la Castità può ricevere qualche assalto, o affatto perdersi.
  6. Impiegare ogni attenzione per rendere puri e santi tutti i sentimenti del nostro cuore e i pensieri del nostro spirito, e per estinguere i movimenti della carne, e dominarli con la ragione.

Preghiera

Gesù, unico oggetto delle mie speranze e del mio amore, Agnello immacolato e mansueto, Sposo castissimo, ricca Corona delle Anime pure e vigilanti, oh quanto è grande la tenerezza, con cui amate chi solamente Voi ama! Quanto mi duole di non essere io di quel numero! Ma, o mio divin Salvatore, spero nella vostra misericordia, e Vi supplico a concedermi le grazie, che mi sono necessarie per amare unicamente Voi. Purificate il mio cuore, o mio Dio, e restituite all’anima mia la sua prima innocenza, e fate, ch’io porti in mano la lampada delle buone opere per entrare nel Sacro Convitto delle vostre nozze Celesti.

E Voi, Santissima e purissima Vergine, Sposa dello Spirito Santo, e Madre di Gesù, Regina degli Angeli, e degli Uomini, pregate per me, ve ne supplico, e ottenetemi dal vostro caro Sposo la Castità, e dal vostro Divin Figliuolo il Santo Amore. Fate, che tutte le porte de’ miei sensi siano chiuse, onde non vi sia cosa, che oscuri questa bella Virtù; che io conservi per vostra intercessione un sommo orrore al peccato; che abbia sempre dinanzi agli occhi il timore dei castighi dì Dio; e che, fuggendo costantemente la mollezza dell’ozio, e le vanità del Secolo, non abbia il tentatore sopra di me verun’impeto. Ottenetemi dal vostro e dal mio Gesù, che io viva in Lui solo, che sia da Lui governato, e finalmente per Lui, e in Lui io passi dal tempo alla beata eternità. Così sia.