CONOSCERE SAN PAOLO (49)

CONOSCERE SAN PAOLO (49)

LIBRO SESTO

I frutti della redenzione.

CAPO I.

La vita cristiana.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

II. PRECETTI DI MORALE SOCIALE.

1. IL CRISTIANO E L’AUTORITÀ CIVILE. — 2. LA FAMIGLIA CRISTIANA. — 3. IL MATRIMONIO CRISTIANO.

1. La rigenerazione battesimale è una seconda nascita che rende i Cristiani uguali e Uberi: « Voi tutti che foste battezzati nel Cristo, avete rivestito il Cristo: non più Giudeo né Greco; non più schiavo né libero; poiché tutti siete uno nel Cristo Gesù (Gal. III, 27-28) ». Le differenze di nazionalità, di condizione, di sesso, non contano più; esse scompaiono dinanzi a questa unità superiore che le concilia; esse sono in qualche modo assorbite dalla nuova forma specifica che il neofito riveste, la quale altro non è che il Cristo: questo per l’uguaglianza. La libertà cristiana nasce dai medesimi principi. Liberato dal Cristo, il Cristiano non appartiene più ad altri che al Cristo; la libertà ricevuta nel Battesimo è inalienabile: « Il Cristo vi ha concessa la Libertà; dunque tenete fermo e non ricadete sotto il giogo della schiavitù (Gal. V, 1) ». Si tratta del giogo della Legge; ma il valore dei principio è generale: « Voi foste riscattati con un (gran) prezzo; non diventate schiavi degli uomini (I Cor. VII, 23)». Si può pensare quale abuso potessero fare di queste massime gli spiriti mal disposti; e san Paolo e san Pietro dovettero egualmente protestare contro. i falsi interpreti del loro pensiero: Voi siete liberi, dice l’uno, ma siete anche i servi di Dio; non fate della libertà una maschera per coprire l a vostra malizia (I Piet. II, 16). « Voi foste chiamati alla libertà, dice l’altro; però la libertà non sia una scusa alla carne (Gal. V, 13) ». Non dovete pensare di essere esenti dai vincoli di subordinazione e di dipendenza, da impegni e da contratti, da relazioni stabilite dalla natura o create da un fatto contingente. L’eguaglianza cristiana consiste in questo, che sotto l’aspetto religioso tutti hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, dipendono dallo stesso giudice supremo, trattano direttamente col medesimo Dio. Se la libertà cristiana libera dalla schiavitù del peccato e della Legge antica, non sopprime affatto le relazioni gerarchiche della società e della famiglia. La stessa fraternità, la nota più caratteristica dei cristiani, la quale si direbbe che abbia soltanto da portare privilegi, impone anch’essa dei doveri: la tolleranza vicendevole, l’obbligo di evitare lo scandalo. Così i doveri sociali del Cristiano sono in ragione diretta con i suoi diritti. La parola di Gesù: « Rendete a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio » ha una forma così incisiva, che si era dovuta scolpire profondamente nella memoria di tutti. Era tuttavia opportuno inculcare questo dovere e farne vedere la ragione di essere, e questo fa san Paolo nel capo XIII dell’Epistola ai Romani. – “Ogni anima si sottometta alle autorità superiori; poiché non vi è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono ordinate da Dio, di modo che resistendo a loro si resiste all’ordine di Dio stesso e quelli che resistono si attireranno una (giusta) condanna. Poiché i magistrati non sono da temere per le buone azioni, ma per le cattive. Vuoi tu non temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode; perché il principe è per te il ministro di Dio per il bene. Ma se fai il male temi; perché non invano egli porta la spada, essendo ministro di Dio per punire nella sua collera colui che fa il male. Bisogna dunque obbedire non soltanto per causa della collera, ma anche per causa della coscienza. Per questo pure voi pagate i tributi; poiché i magistrati sono ministri di Dio che compiono con zelo questo uffizio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi è dovuta l’imposta, l’imposta;  a chi il tributo, il tributo; a chi il timore, il timore; a chi l’onore, l’onore”. – Molto si è discusso sul motivo che poté provocare queste raccomandazioni. Siccome gli Ebrei di Roma erano famosi per la loro turbolenza, e la liceità dell’imposta pagata agli stranieri era una questione scottante nei centri ebrei, si è supposto che i neofiti si fossero lasciati guadagnare dalle idee rivoluzionarie dei palestinesi. Ma né Svetonio né Arriano non ci lasciano capire che la turbolenza degli Ebrei di Roma avesse di mira ipoteri stabiliti; anzi gli Ebrei della Diaspora, ben lungi dal rivendicare l’indipendenza in nome del principio teocratico, come gli Zeloti della Palestina, si vantavano invece della loro fedeltà e della loro legalità: l’impero non ebbe mai sudditi più sottomessi. E poi l’elemento ebreo entrava in piccola parte nella composizione della Chiesa romana. Non è dunque il caso di cercare un motivo speciale in questo insegnamento dell’Apostolo il quale sembra adoperare a bella posta i termini più generici « ogni anima, il potere, le autorità superiori, i magistrati », evitando qualunque allusione a circostanze locali. Noi ci troviamo dunque dinanzi ad un regolamento teorico su l’atteggiamento dei Cristiani verso il potere civile. Paolo formula queste tre proposizioni: Per diritto e per principio ogni potere viene da Dio. — In fatto e in pratica, il potere stabilito deriva da Dio. — Anzi, il potere si esercita in nome di Dio. Le due prime proposizioni erano quasi assiomi per gli Ebrei contemporanei; perciò l’Apostolo si limita a enunziarle, distinguendole come conviene, e aggiungendovi questa conseguenza evidente, che resistere al potere stabilito da Dio è resistere all’ordine di Dio medesimo (Rom. XIII, 1-2). Egli insiste di più sopra la terza. Il principe è il « ministro di Dio » (διάκονος = diakonos), il luogotenente di Dio » (λειτουργός = leiturgos) per promuovere il bene della società; particolarmente per lodare ericompensare ibuoni cittadini, per incutere timore ai cattivi eper punirli. Se cinge la spada, questo fa in nome di Dio; se vendica il male, questo fa in nome di Dio. « Bisogna dunque obbedirgli, non solo per il castigo » da evitare, « ma anche per ragione di coscienza »; perché la collera di cui minaccia il ribelle è giusta e sancita da Dio. Per motivo pure di coscienza si devono pagare le imposte: nell’esigerle, il sovrano è sempre il ministro di Dio, preposto a tale uffizio per la difesa ed il buon ordine della società di cui ha la custodia (Rom. XIII, 3-6). – La parola che riassume tutto: « Rendete a ciascuno quello che gli è dovuto », dimostra che non si tratta di un semplice consiglio, ma di un vero obbligo. Nel tempo in cui san Paolo scriveva queste parole, l’autorità imperiale si mostrava dovunque nella sua luce più favorevole; ancora durava il famoso quinquennio di Nerone; il mondo era governato da saggi e da filosofi; nonostante gli abusi, le vessazioni, le esazioni di alcuni dei suoi delegati, Roma simboleggiava, nelle province, l’ordine, la giustizia, la libertà, e Paolo aveva quasi sempre avuto da lodarsi dei magistrati incontrati sui suoi passi. Ma quando mutarono le disposizioni del potere verso la Chiesa, l’insegnamento della Chiesa non mutò affatto: appunto allora Paolo ordinava a Timoteo di far pregare « per i re e per tutti quelli che hanno il potere (I Tim. II, 1-2)», e prescriveva a Tito di predicare la sottomissione e l’obbedienza ai poteri costituiti (Tit. III, 1). Appunto allora Pietro scriveva: « Siate sottomessi ad ogni istituzione umana per il Signore; sia al re come a chi ha l’autorità suprema, sia ai governatori che sono da Lui delegati per punire i cattivi e per lodare ibuoni. Poiché tale è la volontà di Dio (I Piet. II, 13-17) ». Un commentatore moderno ha scoperto tra idue Apostoli questo curioso contrasto: Pietro sarebbe repubblicano, e Paolo monarchico! Il cittadino romano sarebbe imperialista in politica come in teologia, l’Ebreo invece della Galilea avrebbe le tendenze rivoluzionarie dei suoi compatriotti (Bigg. The Epis. Of St. Peter, edimbur. 1901). Per un commentatore critico, qui vi è  troppa fantasia. Si potrebbe egualmente sostenere il paradosso contrario; san Pietro infatti parla del « re » (nome dell’imperatore romano in Oriente) e dei suoi delegati, propretori o proconsoli, mentre san Paolo, per rendere il suo insegnamento indipendente dai tempi e dai luoghi, si astiene dal fare designazioni speciali. Una differenza meno illusoria è questa, che san Paolo, con un’eccezione quasi unica, qui sta costantemente sul terreno del diritto naturale e traccia ai fedeli il loro dovere in quanto sono cittadini e uomini, mentre invece il suo collega, mettendosi sul terreno del diritto cristiano, fa appello alla volontà di Dio e all’ordine del Signore. L’obbedienza alla legge civile ha per limite la legge divina; ma non conveniva presentare l’ipotesi di un conflitto tra la legge di Dio e la legge dell’uomo. Presentandosene il caso, i fedeli avevano per guida il precetto evangelico (Matt. XXII21; marc. XII, 17; Luc. XX, 25); la ragione diceva loro che l’autorità superiore deve essere preferita; la condotta degli Apostoli dinanzi al sinedrio, dettava loro la risposta da fare. Ma lasciando da parte questa eccezione che del resto non deroga affatto al principio generale di obbedire all’autorità, i Cristiani dei primi secoli si segnalarono sempre per la loro sottomissione. La loro deferenza verso i pubblici poteri fu il trionfo degli apologisti e la confutazione perentoria delle calunnie popolari circa una pretesa ostilità dei Cristiani contro le istituzioni imperiali. San Clemente di Roma, san Policarpo, san Giustino, Tertulliano ed Origene, per non citarne altri, c’insegnano con quanto zelo la Chiesa nascente si conformasse alle istruzioni di san Paolo. Se, fin tanto che l’impero rimase pagano, essa non favorì la partecipazione dei suoi membri alle funzioni pubbliche e soprattutto non fu mai favorevole alla professione militare, era perché tali impieghi, che erano del resto facoltativi, esponevano quasi sempre il neofito ad atti d’idolatria e lo mettevano sovente nell’alternativa di scegliere tra l’apostasia ed il martirio. Non dobbiamo poi neppure dimenticare che la Chiesa, fino dalla sua origine, ebbe coscienza di essere una società distinta, investita dal suo divino Fondatore, del potere di governarsi e di perpetuarsi. Su tale principio san Paolo giudica e punisce iCristiani scandalosi e biasima con tanta energia il ricorso aitribunali profani (I Cor. VI, 1-6).

2. Dio è Autore della famiglia come è Autore della società; ma nella famiglia cristiana Egli è il prototipo del padrone, del padre, dello sposo, mentre il servo, il figlio e la sposa hanno la Chiesa come simbolo e come modello. Il Cristianesimo non scioglie i matrimoni, ma li consolida col santificarli; non rallenta i vincoli naturali tra padri e figli, ma li sancisce e li restringe; esso rispetta le relazioni legittime tra padroni e schiavi, ma le soprannaturalizza. Il gran principio inculcato da san Paolo ai suoi neofiti, è di non mutare le condizioni esterne della loro vita, purché si possano mettere d’accordo con i precetti del Vangelo. La sua parola d’ordine e la sua consegna è questa: svestirsi del vizio per rivestirsi di Gesù Cristo, ma restare al posto assegnato dalla Provvidenza (I Cor. VII, 20). Questa raccomandazione riguardava soprattutto gli schiavi che accorrevano in folla tra le braccia aperte della Chiesa. Voi non dovete più inquietarvi del vostro stato, dice loro l’Apostolo; nel Cristo, voi siete i fratelli degli uomini liberi, ed uguali a loro; serviteli per amore di Gesù Cristo, senza asservirvi moralmente a loro. Con mano ferma egli indica ai padroni e agli schiavi i loro doveri reciproci (Gal. III, 22-25). Gli schiavi devono « obbedire ai loro padroni secondo la carne, in tutto ciò che non è contrario alla legge di Dio; devono farlo con un sentimento di timore ispirato dal timore del Signore, e non per paura dei castighi; « nella semplicità del cuore », senza ipocrisia e senza finzione; « dal fondo dell’anima », con spirito di fede e per un motivo soprannaturale; per piacere a Dio e non per adulare il padrone spiegando uno zelo maggiore in loro presenza. Essi devono rianimare la loro obbedienza con la prospettiva della ricompensa futura, e pensare che si tratta di giustizia, che la loro coscienza ne è impegnata, e che essi dovranno rendere conto della loro condotta al tribunale del Giudice supremo. Alla loro volta i padroni cristiani devono « osservare verso i loro schiavi il diritto » scritto e naturale; oltre lo stretto diritto, devono applicare le regole dell’equità »; astenersi da « quelle minacce » orribili e avvilenti di cui i pagani erano così larghi; finalmente ricordarsi del comune Padrone e del comune Giudice che non fa accettazione di persone (Col. IV, 1). Ecco il codice che deve d’allora innanzi regolare le relazioni tra padroni e schiavi. Ma quando l’Apostolo dimenticando il suo compito di legislatore, parla da consigliere e da padre, il suo cuore gli detta, in favore dello schiavo Onesimo, parole sublimemente patetiche e d’incomparabile tenerezza: il mondo non aveva mai udito una simile lezione di fratellanza. La posizione degli schiavi Cristiani presso un padrone pagano poteva diventare quasi intollerabile. San Paolo non si limita, come san Pietro (I Piet. II, 18), a ricordare loro che ne avranno maggior merito presso Dio. Tito è incaricato di ingiungere a quei neofiti « di essere sottomessi ai loro padroni, di compiacerli in tutto, senza contraddirli, senza danneggiarli in nulla, ma mostrando loro una perfetta fedeltà, per onorare in tutte le cose la dottrina di Dio nostro Salvatore (Tit. II, 9-10) ». I poveri schiavi sono trasformati in Apostoli; con la loro pazienza e la loro sommissione a tutte le prove, diventano i predicatori muti della fede. Chi potrebbe dire quanti furono guadagnati alla Chiesa nascente dall’eroismo degli schiavi Cristiani? Tuttavia certi schiavi, meno imbevuti dello spirito cristiano, erano più solleciti dei loro diritti che non dei loro doveri; alcuni servivano i pagani con mal garbo, credendo di fare loro troppo onore, e davano così occasione di bestemmiare il nome del vero Dio e di calunniare il Vangelo. Altri erano negligenti nel servizio dei loro padroni Cristiani appunto perché erano Cristiani; ma questo, dice loro l’Apostolo, è pagare con l’ingratitudine la dolcezza e la benignità dei vostri benefattori (I Tim. VI, 1). Intorno ai doveri reciproci dei genitori e dei figli non v i era molto da insistere. Se gli Ebrei, con una casistica perversa, eludevano talora il quarto precetto del Decalogo (Matt. XV, 3-6), non potevano però ignorarlo; ed i Gentili, quando mancavano all’obbedienza ed al rispetto verso i genitori, non potevano sfuggire al rimprovero della loro coscienza (Rom. I, 30). Perciò san Paolo è brevissimo su questo punto: «Figliuoli, obbedite in tutto ai vostri genitori, perché questo è gradito a Dio. Genitori, non irritate i vostri figli, affinché non si scoraggino (Col. III, 20) ». Nel rivolgersi a i figli, fa astrazione dal caso eccezionale e quasi impossibile, che genitori Cristiani comandino qualche cosa di contrario alla legge di ina. Nel passo parallelo, è citato il precetto del Decalogo, ma non tanto per dare maggiore autorità alle sue parole, quanto piuttosto per la promessa con cui lo accompagna il legislatore ebreo. Non era necessario comandare ai genitori l’amore dei figli, essendo questo un sentimento che la natura imprime nel loro cuore; bastava ricordare loro l’obbligo di educarli come si conviene a Cristiani (Col. III, 21). Tuttavia la fortezza non deve degenerare in asprezza, né la fermezza in rigore: un’educazione alla spartana non piace a san Paolo. Egli non vuole che si rendano pusillanimi i figliuoli con la troppa esigenza: soffocando in loro la spontaneità, la confidenza e l’abbandono, con una severità intempestiva, vi si fa nascere la dissimulazione, il timore servile e la falsità. – Non è possibile offrire agli sposi un ideale più nobile di quello che loro propone san Paolo. Egli aveva scritto ai Colossesi: « Donne, obbedite ai vostri mariti come si conviene, nel Cristo. E voi, mariti, amate le vostre spose e non mostrate loro nessuna amarezza (Col. III, 18-19) ». Se si fosse limitato a questo laconico precetto, nessuno mai ne avrebbe indovinata la ragione profonda; ma per fortuna egli stesso si commenta nell’pistola agli Efesini: « Donne, state sottomesse ai vostri mariti come al Signore; poiché il marito è il capo della moglie come il Cristo è il capo della Chiesa, (che è) il suo corpo di cui Egli è il salvatore. Come la Chiesa è soggetta al Cristo, così devono le donne stare soggette ai loro mariti in ogni cosa. Mariti, amate le vostre mogli, come il Cristo amò la Chiesa e si diede per lei, per santificarla, avendola purificata con l’acqua battesimale, nella parola, per condurla dinanzi a sé, questa Chiesa, gloriosa, santa e immacolata, senza macchia né ruga né altro di simile (Ephes. V, 22-28)». I doveri della moglie si riassumono nella sommissione ispirata da un motivo soprannaturale. L’obbligo del marito comprende l’amore, la devozione e la sollecitudine continua di assicurare la felicità della sua compagna, a imitazione del Cristo che s’immola per la sua Chiesa. Modello sublime per entrambi gli sposi cristiani! L’Antico Testamento si serviva volentieri dell’allegoria del matrimonio per rendere sensibile l’unione intima, unica nel suo genere, che vi era tra Jehovah e il suo popolo eletto; san Paolo invece vuole che l’unione ancora più stretta del Cristo con la sua Chiesa serva di regola e di misura all’intimità del vincolo coniugale.

3. La rivelazione di giustizia e di perfezione che il Cristianesimo portava al mondo e che doveva metterlo in rivoluzione, non appare in nessun luogo con maggiore splendore, che nel nuovo concetto del matrimonio. La mostrano fin da principio quattro progressi i quali non mancheranno di influire sui mutui rapporti dei coniugi: l’unità, l’indissolubilità, l’uguaglianza dei diritti e la santità. Sotto l’influenza della legislazione romana che la proscriveva, la poligamia tendeva allora a scomparire; è però troppo il dire che in quei tempi non si faceva più questione di bigamia né di poligamia tra i veri Ebrei ». Né il Talmud né il Vangelo ci hanno conservato il ricordo di quei veri Ebrei che si sarebbero fatto scrupolo di valersi della tolleranza legale. Giuseppe riferisce minutamente le disposizioni mosaiche senza accennare che fossero cadute in disuso e senza sentire il bisogno di farne una difesa. Pare anche che non si sia fatto un rimprovero speciale ad Erode che aveva contemporaneamente nove mogli. In realtà, per gli Ebrei di allora, come per i musulmani dei nostri giorni, la pluralità delle mogli, pure essendo lecita, era un lusso che soltanto i ricchi si potevano permettere. Essa era invece opposta ai principi del Cristianesimo: Gesù l’aveva abolita ricordando che, nei disegni del Creatore, l’uomo e la donna erano destinati a diventare una sola carne (Marc. X, 8).Questa unione così intima escludeva ogni divisione; ed il significato simbolico del matrimonio cristiano che rappresenta l’unione della Chiesa e del Cristo, la escludeva ancora di più. – Pertanto la storia ecclesiastica non presenta neppure un esempio di bigamia ufficialmente tollerata; bisognò arrivare alla Riforma del secolo XVI per vedere sanzionato tale mostruoso abuso. Neppure la dottrina dell’indissolubilità non è una specialità di san Paolo, come non è la dottrina dell’unità del matrimonio: egli altro non fa che promulgarla nel nome del Signore (I Cor. VII, 10);ma forse egli la insegna più chiaramente che gli stessi evangelisti; infatti al coniuge separato dall’altro per qualsiasi ragione, egli lascia soltanto questa alternativa: o riconciliarsi, o rinunziare ad altre nozze (I Cor. VII, 11), il che suppone, in ogni ipotesi, che il primo matrimonio dura. L’eccezione che egli sembra fare nel caso detto « privilegio paolino » non è una vera eccezione, poiché non si tratta del matrimonio cristiano (I Cor. VII, 12-16). Più caratteristico è l’insegnamento che si riferisce all’uguaglianza dei diritti tra gli sposi. Non si tratta di una eguaglianza assoluta che distruggerebbe la subordinazione essenziale all’unione coniugale: il rapporto tra la testa e il corpo è un rapporto di disuguaglianza (I Cor. XI, XI, 3). La soggezione naturale della donna all’uomo, soggezione simboleggiata dal velo, appare in diverse maniere nel racconto della creazione (I Cor. XI, 5-10). Non fu tratto l’uomo dalla donna, ma la donna dall’uomo (I Cor. XI, 8); l’uomo non fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo (I Cor. VII, 9); la donna è il riflesso dell’uomo, come l’uomo è il riflesso di Dio (ivi, 7). Si può stabilire questa gradazione ascendente: la donna, l’uomo, il Cristo, Dio (ivi, 3). Aggiungiamo ancora, per seguire san Paolo fine alla fine, che l’uomo fu creato per il primo e che fu sedotto dopo la donna (I Tim. II, 13-14). Vi sono però dei compensi: se la donna ha bisogno dell’uomo, anche l’uomo ha bisogno della donna, e se la prima donna fu tratta dall’uomo, ora l’uomo nasce dalla donna (I Cor. XI, 11-12). Ma i diritti e i doveri coniugali sono i medesimi; il privilegio paolinoriguarda qualunque sposo convertito, così l’uomo come la donna (I Cor. ,VII, 12-13); e i due coniugi sono egualmente tenuti a conservare la stabilità della famiglia cristiana, benché la formola che enunzia questo dovere insinui con delicatezza la subordinazione della donna (I Cor. Ivi, 11). Il capolavoro morale del Cristianesimo sta nell’aver santificato il matrimonio. Il dovere coniugale è pienamente lecito — ed è questa la dottrina di san Paolo — ed il solo nome di dovere ne dimostrerebbe la liceità (ivi, 3). Se il matrimonio in sé è buono come istituzione divina, il matrimonio cristiano è santo come segno sensibile di una cosa santa. Certamente la verginità è migliore (ivi, 1); ma è una grazia che Paolo è lieto di aver ricevuta, che augura agli altri fedeli (ivi, 7), ma che non impone a nessuno. Non soltanto la verginità è migliore, ma è preferibile anche la vedovanza (ivi, 40): le seconde nozze fermano il candidato alle soglie del chiericato (I Tim. III, ; Tit. I, 6). Vi sono tuttavia dei casi in cui il matrimonio e le seconde nozze sono consigliabili: tutto dipende dalle circostanze e dalle persone; purché non vi sia, naturalmente, qualche impegno precedente, poiché è delitto mancare alla fede giurata (I Tim. V, 11-12). È tale la santità del vincolo coniugale, che nei matrimoni misti essa si riversa sul coniuge pagano e sui figli nati da questa unione (I Cor. VII, 14). Il matrimonio cristiano prepara reclute al Battesimo e candidati per il cielo. L’Apostolo incorona il suo insegnamento con queste consolanti parole: « La donna sarà salva diventando madre — per il fatto che diventa madre (διὰ τεκνογονίας = dia tecnokonias)— purché perseveri nella fede, nella carità e nella santità, congiunte con la modestia (I Tim. II, 15) ».

CONOSCERE SAN PAOLO (48)

CONOSCERE SAN PAOLO (48)

LIBRO SESTO

I frutti della redenzione.

CAPO I.

La vita cristiana.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

I. I PRINCIPI DELLA MORALE.

1  — FONDAMENTI DELLA MORALE CRISTIANA. — 2. L A VOLONTÀ DI DIO. — 3. LA RIGENERAZIONE BATTESIMALE. — 4. RELAZIONI NUOVE.

1. Invece di svolgersi in periodi lunghissimi, intralciati da incisi e da congiunzioni causali, ripieni di digressioni e di parentesi che non danno tregua alla mente e all’occhio, come sono le parti dommatiche, le sezioni morali delle lettere di Paolo, tagliate, sminuzzate in brevissimi incisi, trascorrono per lo più come una monotona litania senza nesso apparente, senza legami grammaticali, senza una relazione con l’idea principale. Non vi è nulla di più sconcertante che tale contrasto. Il lettore si sente talora respingere da quella parenesi scucita che si direbbe fuori proposito e che pare adatta a tutte le situazioni ed a qualunque destinatario. Se la morale delle due Epistole agli Efesini ed ai Colossesi forma un piccolo codice familiare abbastanza ordinato, se quella dell’Epistola ai Romani riassume i principali doveri dei cittadini verso l’autorità e verso i loro simili, non si vede perché l’Apostolo le metta in queste lettere piuttosto che nelle altre. Soltanto nell’Epistola ai Galati la morale scaturisce dal dogma; ma anche qui non vi è nulla che ricordi l’arte perfetta dell’Epistola agli Ebrei, dove il dogma e la morale si fondono armonicamente. Quasi sempre troviamo delle litanie di consigli e di precetti come questi:

Riprendete gl’indisciplinati;

incoraggiate i pusillanimi;

sostenete i deboli;

siate sempre tolleranti con tutti

Non estinguete lo spirito;

non disprezzate le profezie;

provate tutto, attaccatevi al bene;

evitate ogni apparenza di male

(I Tess. V, 14; 19-221).

Questo fenomeno non è affatto speciale delle lettere minori, e anche le maggiori ce ne danno molti esempi:

Dare l’elemosina con semplicità,

aiutare gli altri con sollecitudine,

fare misericordia con allegrezza.

Carità senza ipocrisia.

Abborrite il male, attaccatevi al bene…

Allegri per la speranza,

pazienti nella tribolazione,

perseveranti nella preghiera.,

provvedendo alle necessità dei santi,

praticando l’ospitalità.

Benedite i vostri persecutori;

benedite e non vogliate maledire.

Rallegrarsi con quelli che sono nella gioia,

piangere con quelli che piangono

(Rom. XII, 8-15).

In questa lunga serie di frasi senza nesso grammaticale e senza unità logica, è difficile scorgere un principio direttivo d’insegnamento morale. Ecco precisamente il punto delicato — stavo per dire il punto debole — della morale di Paolo: dopo che ha fatto tabula rasa della Legge mosaica, non dice mai chiaramente con che cosa intenda sostituirla. La Legge di Mosè è abolita per sempre: il Cristo ne è il fine, lo scopo al quale essa certamente tende, ma ne è anche il limite dove essa spira (Rom. X, 4). Il codice del Sinai è stato lacerato, inchiodato sopra la croce (Ephes. II, 15; Col. II, 14). — I cristiani sono morti alla Legge, e la Legge per loro è morta (Rom. VII, 4, 6; Gal. II, 19; Col. II, 20). Figli della donna libera, e non della schiava, essi hanno il diritto e il dovere di perseverare nella libertà che Gesù Cristo ha loro acquistata (Gal. IV, 21, 31; V, 1). Nel vedere Paolo che si accanisce a distruggere tutto l’edificio della legge antica, senza che sembri darsi pensiero di ricostruirlo, si domanda con inquietudine dove mai si fermerà tale opera di demolizione e su quale base poggerà l’obbligazione della nuova economia. Poiché la distinzione immaginata da certi esegeti, tra la legge morale e la legge cerimoniale, delle quali l’una sopravviverebbe e continuerebbe a servire di norma, mentre l’altra sarebbe colpita di morte dal Cristo che essa per la prima avrebbe ucciso, tale distinzione sottile è sconosciuta all’Apostolo. Per lui il codice del Sinai è indivisibile, è un edificio che resta o che cade tutto di un pezzo. Non occorre neppure esaminare se il suo atteggiamento verso la Legge si sia venuto modificando con l’età, o nel senso dell’intransigenza, o nel senso della conciliazione: le sue idee già pienamente determinate fin dalla riunione apostolica dell’anno 50, prima che egli scrivesse una sola riga delle sue lettere (Gal. II, 3-7, 14-21), non si mutarono mai in seguito. In ogni tempo egli seppe mostrarsi condiscendente, tollerando pratiche indifferenti consacrate dall’uso e dai ricordi religiosi, imponendole anche a se stesso, quando occorreva (Act. XVI, 3); ma dal principio alla fine della sua carriera egli sostenne sempre come tesi fondamentale l’abolizione totale della Thora, così per gli Ebrei come per i Gentili. – Siccome la luce sempre più viva, proiettata su la legge naturale dalla rivelazione, è un fatto indiscutibile, si potrebbe tentare di ricostruire, sopra le rovine della Thora, un codice nuovo il quale altro non sarebbe che la legge naturale illuminata, nei suoi punti oscuri, dalla rivelazione divina. Questo sistema, per quanto possa essere ingegnoso, non è quello di Paolo. L’Apostolo riconosce benissimo l’esistenza della legge naturale; dichiara che sono inescusabili i pagani per averla violata (Rom. I, 32); descrive la coscienza che cita l’uomo al tribunale e, secondo i casi, lo assolve o lo condanna (Rom. II, 14-15); ma a questa norma interna non dà il nome di legge (la Legge di S. Paolo è sempre la legge positiva), perché la legge è per lui l’espressione di una volontà positiva. E poi egli non ammetterebbe mai che il Cristiano, liberato dal giogo della Legge, venga retrocesso allo stato di natura: la Legge mosaica segna necessariamente una tappa nell’ascesa dell’umanità e, se deve scomparire, bisogna che venga sostituita con qualche cosa di meglio. Perciò nel momento stesso in cui oppone il regime della Legge a quello della grazia, insinuando che questi due stati sono incompatibili tra loro, protesta energicamente di essere sciolto da ogni legge ed afferma di dipendere dalla legge del Cristo. Questo è il paradosso: il Cristiano è così essenzialmente libero, che non può essere sotto il giogo della Legge, ed è tuttavia soggetto a una legge. La ragione è che l’economia nuova è una vera legge, se si considera il suo carattere obbligatorio, e non è una legge, se si pensa alle imperfezioni della Legge mosaica: se la chiamiamo legge di grazia, siamo nello spirito dell’Apostolo; se la chiamiamo legge del Cristo, ci conformiamo al suo linguaggio. (Ga. VI, 2).

2. La libertà dei figli di Dio non è la licenza, e la liberazione dal giogo mosaico non è l’esenzione da qualunque freno (Gal. V, 13). Paolo dovette protestare mille volte contro la falsa interpretazione del suo pensiero (Rom. III, 8; VI, 1-15); lo capivano male: egli non disse mai che Dio abbia abolito l’economia antica senza sostituirne una più perfetta. Nel momento in cui Gesù aboliva il regime della Legge, poneva le basi del regime della grazia (Matt. V, 7).Non vi fu soluzione di continuità: il Nuovo Testamento prende per conto suo la legge morale dell’Antico che esso soppianta: non contento di sanzionarla, la perfeziona e la completa: « Tutto ciò che è vero, scrive san Paolo ai Filippesi, tutto ciò che è onorevole, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è puro, tutte ciò che è amabile, tutto ciò che è di buona fama, virtuoso e degna di elogio, formi l’oggetto delle vostre meditazioni ». Ecco tutta la legge naturale, sotto i suoi diversi aspetti, proposta ai fedeli; ma essa non obbliga più soltanto come legge naturale: « Tutto questo, soggiunge l’Apostolo, voi l’avete appreso e ricevuto (da noi); voi lo avete sentito dire da noi e l’avete visto fare da noi; praticatelo (Fil. IV, 8-9) ». In grazia della rivelazione evangelica, la legge naturale — coma pure il codice sinaitico nella sua parte morale — torna ad essere una legge positiva. La relazione però tra la legge e l’uomo non è più la medesima. Il difetto capitale della Legge antica era quello di essere esteriore all’uomo e poco proporzionata al nostro stato attuale di decadenza (Rom. VII, 14). Per ristabilire l’equilibrio, bisognava o abbassare la Legge fino al livello dell’uomo caduto, oppure innalzare l’uomo fino all’altezza della Legge divina. Essa era stata imposta agli Israeliti, col doppio intermediario di Mosè e degli Angeli, in mezzo ai terrori del Sinai (Gal. III, 19); nascendo soggetto alla Legge, come membro del popolo eletto, l’Ebreo fin dal primo destarsi della sua ragione, ne subiva, volere o no, il fardello reso più pesante dal sentimento della sua impotenza (Rom. VII, 5-11); nulla di spontaneo, di libero, di generoso, di filiale: lo schiavo della Legge non poteva nutrire altri sentimenti che quelli dello schiavo, timore, diffidenza e noia. Ben diversa è la condizione del cristiano: con l’atto di fede e col Battesimo che ne è il sigillo, egli si ò messo liberamente al servizio di Dio e si è fatto soldato del Cristo. Egli si libera dal giogo della Legge soltanto col rinunziare alla sua indipendenza: la volontà di Dio, accettata di cuore e nella misura in cui si manifesterà, diventa la sua regola di condotta: « Non sapete che dandovi a qualcuno come schiavi per obbedirgli, voi diventate schiavi di colui al quale obbedite! … Ora, liberati dal peccato ed asserviti a Dio, voi avete come frutto la santificazione e come fine la vita eterna. Poiché lo stipendio del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna nel Cristo Gesù nostro Signore (Rom. VI, 13-23) ». Si può quasi essere sicuri che Paolo, nello scrivere queste parole, pensava allo schiavo ebreo ed al soldato romano. Presso gli Ebrei, la schiavitù era poco diversa dalla servitù ordinaria; per i compatrioti non poteva mai prolungarsi oltre i sei anni, senza l’espresso consenso dell’interessato; dato poi questo consenso, lo schiavo entrava di pieno diritto e per sempre nella casa del suo padrone, ma la sua condizione non aveva nulla di umiliante e di degradante; egli faceva parte della famiglia, godeva dei privilegi religiosi della nazione, era uomo e cittadino, e non già, come presso i Gentili, una bestia da soma. Perciò Paolo che con tanta energia respinge ogni sospetto di bassezza e di servilismo, non esita  a chiamarsi lo schiavo del Cristo e persino lo schiavo dei suoi fratelli, peramore del Cristo. Schiavo del Cristo, egli è pure soldato del Cristo. È noto che le legioni romane assoldavano soltanto uomini liberi: l’arruolamento dei servi, anche quando erano stati fatti liberi e nei casi di forza maggiore, era sempre considerato come un fatto da non imitarsi e cosa poco compatibile con la maestà delle aquile romane. Le reclute, nel prestare il giuramento, votavano la loro vita all’imperatore e si obbligavano ad un’obbedienza assoluta, molte volte più dura che quella della schiavitù, ma elevata e nobilitata dalla loro qualità di cittadini e dal sentimento di un dovere abbracciato spontaneamente. Per questo l’Apostolo adopera tanto volentieri il linguaggio militare che gli ricorda l’impegno contratto col Battesimo e lo stato di dipendenza in cui volontariamente si è messo con l’atto di fede che lo ha fatto Cristiano. Al suo discepolo prediletto dà il titolo di soldato del Cristo (II Tim. II, 3), il titolo più onorevole che egli conosca; scongiura i Tessalonicesi a rivestire l’armatura delle virtù teologali, la corazza della fede e della carità, e l’elmo della speranza (I Tess. V cfr. Is. LIX, e Sap. V, 17-20); in una famosa panoplia egli descrive agli Efesini tutta l’armatura del legionario, la corazza e l’elmo, la spada corta a due tagli e lo scudo lungo coperto di pelle, e non dimentica neppure la calzatura ed il cingolo di cuoio, ein tutto questo vede altrettanti simboli di virtù cristiane (Ephes. VI, 13-17). Se le metafore di armi, di combattimento, di stipendio, di milizia e altre simili ritornano continuamente sotto la penna dell’Apostolo, è perché egli ha sempre in mente il giuramento col quale si è votato al Cristo, giuramento che lo obbliga a « non impacciarsi nelle sollecitudini di questa vita, per pensare unicamente a piacere al suo capo (II Tim. II, 3-4) ». Soldato del Cristo e schiavo volontario, il Cristiano non appartiene dunque più a se stesso: la regola da cui dipende, poiché l’ha accettata liberamente, è la volontà di Dio, la volontà del Signore (Rom. XII,; Ephes. VI, 6). Tale è pure la norma esteriore che nessun Cristiano può ignorare. Uno dei fatti più certi dell’età apostolica, benché i critici abbiano impiegato assai tempo a constatarlo, è l’esistenza di una catechesi morale abbastanza uniforme nel suo contenuto. San Paolo vi allude chiaramente quando scrive ai Corinzi: « Timoteo vi ricorderà le mie vie nel Cristo, come io insegno dappertutto ed in ogni chiesa (I Cor. IV, 17) ». Le vie di Paolo non sono la sua condotta, ma come indica abbastanza la parola e come lo mette fuori di dubbio l’inciso esplicativo, la sua dottrina morale soprannaturale. Si facciano pure le meraviglie, se si vuole, perché un carattere così libero e di primo impeto si sia legato ad un metodo d’istruzione regolare e per così dire stereotipato; ma qui vi è la sua testimonianza formale: egli insegnava « dappertutto, in ogni Chiesa », le stesse cose e nella stessa maniera, tante che più tardi gli bastava mandare uno dei suoi discepoli per rinfrescarne la memoria. Ma vi èdi più: questa catechesi esiste anche nelle altre chiese, e san Paolo scrive ai Romani che non sono stati evangelizzati da lui: « Voi avete obbedito al tipo di dottrina che vi è stato trasmesso », o forse con maggior forza: « al tipo di dottrina al quale foste dati (Rom. VI, 17) ». Tutto il contesto fa vedere che questo tipo di dottrina è un insegnamento morale, e il nome stesso di tipo dice che la trasmissione non era abbandonata al capriccio o all’ispirazione individuale. Paolo interdice ai Tessalonicesi ogni relazione coi fratelli che si allontanassero dalla tradizione ricevuta da lui; la stessa ingiunzione fa ai Romani riguardo ai fedeli che trasgredissero la dottrina che loro fu insegnata (II Tess. III, 6 e Rom. XVI, 17). Via, tradizione, dottrina, tipo di dottrina, didascalia — e persino la parola con cui si è formata catechesi (Gal. VI, 6) — sono tutti termini che con sorpresa si trovano negli scritti dell’Apostolo, ed in un senso assai vicino a quello delle generazioni seguenti. Dunque la volontà di Dio, proclamata dal Cristo, promulgata dagli Apostoli (II Cor. V, 20), destava nei neofiti un’idea abbastanza concreta. Quando Paolo diceva laconicamente: « Non fate come i Gentili che non hanno Legge, né come gli Ebrei che hanno soltanto la Legge; la vostra condotta sia degna dei santi, degna della vostra vocazione, degna del Vangelo, degna del Cristo, degna di Dio (Rom. XVI, 2) »; queste brevi parole dicevano molto: esse riportavano il neofito al momento in cui, abbracciando la fede, l’aveva rotta col passato, si era abbandonato a Dio e sottomesso alla legge del Cristo; esse riassumevano con una frase la catechesi apostolica della quale certamente nulla ci può dare un’idea più approssimativa che le Vie, ossia il piccolo compendio morale inserito in due dei più antichi monumenti della letteratura cristiana, la Dottrina degli Apostoli e l’Epistola di Barnaba.

3. All’obbiezione che noi con un sotterfugio mettiamo il Cristiano sotto il giogo della Legge da cui il Cristo lo aveva liberato, e che la condizione del bambino battezzato che eredita degli obblighi prima di averli conosciuti, è identica a quella del bambino ebreo che nasce soggetto alla Legge, rispondiamo che ciò non è vero affatto. Certamente l’Apostolo, rivolgendosi a convertiti di data recente, parla della fede attuale degli adulti; ma la sua dottrina si può applicare anche alla fede abituale del bambino Cristiano. La fede, attuale o abituale, ha sempre la medesima tendenza; essa è per sua natura uno slancio spontaneo della mente e del cuore, col quale l’uomo rinunzia nelle mani di Dio la sua intelligenza e la sua volontà. Se vi è qualche differenza, questa è tutta a vantaggio della fede abituale, perché qui lo Spirito Santo opera da solo, e non vi è nulla che ne ostacoli l’azione. Ora l’impulso intimo dello Spirito Santo non si può paragonare ad una costrizione esteriore; essa solleva e non opprime l’uomo; essa toglie all’obbedienza il carattere servile. Col Battesimo il Cristiano diventa soggetto alla legge della grazia, come nasce soggetto alla legge di natura; ma parlando propriamente, egli non è sotto la legge perché non è, come Israele, sotto il giogo della Legge. Nessuno infatti vorrà sostenere che la legge naturale, inerente al nostro essere, sia per l’uomo un giogo estraneo: ora la legge del Cristo è per il Cristiano quello che è per l’uomo la legge naturale. La nostra incorporazione col Cristo mistico non è soltanto una trasformazione e una metamorfosi, ma è una vera creazione, la produzione di un nuovo essere (II Cor. V, 17), soggetto di nuovi diritti e perciò di nuovi doveri: « Non sapete dunque che tutti noi i quali fummo battezzati nel Cristo Gesù, fummo battezzati nella sua morte? Noi fummo con Lui sepolti col Battesimo nella sua morte, affinché, come Egli è risuscitato da morte per la gloria del Padre, così noi camminiamo nella novità della vita. Poiché se fummo innestati su Lui dalla somiglianza della sua morte, lo siamo anche da quella della sua risurrezione; sapendo benissimo che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con Lui, affinché il corpo del peccato sia annientato, perché non serviamo più al peccato (Rom. VI, 3-6) ». Per chi è familiare col pensiero di Paolo, questo periodo intraducibile non ha nulla di oscuro. Il rito del Battesimo, operando quello che significa, ci genera alla vita divina; ci fa morire a noi medesimi immergendoci nella morte del Cristo; c’infonde il succo divino innestandoci su Lui; ci avvolge della sua grazia e del suo spirito immergendoci nel suo corpo mistico. E allora « non sono più io che vivo, ma è Gesù Cristo che vive in me ». È evidente che questo essere nuovo richiede operazioni nuove: Operatio sequitur esse. Per conoscere la natura e l’estensione dei nostri obblighi, ci basta che riflettiamo al mistero della nostra nascita soprannaturale. Che cosa vediamo nel Battesimo? Una morte, una risurrezione, una sepoltura, un ritorno alla luce: e queste quattro cose prodotte dal rito sacramentale che le simboleggia, sono destinate a durare sempre, e non solo a durare, ma a crescere ed a svilupparsi. – La morte al peccato è per se stessa consumata e definitiva; perché Gesù Cristo morendo spezza lo scettro del peccato e, facendoci morire con Lui, ci associa alla sua vittoria; ma a differenza della morte fisica, la morte al peccato è suscettibile di più e di meno: non basta mantenerla, ma bisogna condurla alla perfezione: « Voi siete morti e la vostra vita è nascosta col Cristo in Dio… mortificate dunque le membra terrestri: fornicazione, impurità, passione, desideri cattivi (Col. III, 5) ». L’ideale è questo: portare sempre più lontano lo stato di morte di Gesù. La vita della grazia, eterna di sua natura, vuole anch’essa essere continuamente fortificata e rinnovata: « Se voi siete risuscitati col Cristo, cercate le cose dell’alto… aspirate alle cose dell’alto, non alle cose della terra (Col. III, 1-2) ». La nostra sepoltura nel Cristo deve seguire un progresso analogo; perciò l’Apostolo, dopo di aver detto: « Voi tutti che foste battezzati nel Cristo avete rivestito il Cristo », soggiunge: « Rivestite il Signore Gesù Cristo (Gal. III, 27; Rom. XIII, 14)», perché taleatto ammette dei gradi indefiniti. Finalmente Paolo implora per i neofiti illuminati dal Battesimo, lumi sempre più vivi, e li invita a camminare di chiarezza in chiarezza (Ephes. I, 18; II Cor. III, 18).

4. La morale di Paolo, come si vede, sta su basi salde: essa si appoggia, da una parte, sopra la volontà positiva di Dio, proclamata da Gesù Cristo, promulgata dagli apostoli, liberamente accettata dai neofiti nel primo atto di fede; e dall’altra parte, sopra la rigenerazione battesimale e sopra le nuove relazioni che questa produce; poiché dall’essere soprannaturale ricevuto nel Battesimo, derivano speciali relazioni con ciascuna delle tre Persone divine:

Relazione di filiazione verso il Padre;

Relazione di consacrazione verso lo Spirito Santo;

Relazione d’identità mistica con Gesù Cristo.

Analizzare queste tre relazioni e dedurne i corollari equivarrebbe adesporre minutamente tutta la morale dell’Apostolo, enon è questo il nostro scopo: noi vogliamo soltanto tracciare la via; ma questo rapido sguardo ci farà vedere a quali altezze Paolo innalzi se stesso e innalzi anche noi con sé. Tra la filiazione adottiva del Nuovo Testamento e la filiazione teocratica dell’Antico corre un abisso. Quest’ultima era collettiva ed arrivava all’individuo soltanto mediante il popolo eletto; il figlio di Dio era propriamente Israele, e non l’Israelita. Se qualche personaggio dell’antica alleanza riceve eccezionalmente questo titolo, è perché porta su la sua fronte un riflesso profetico del Figlio per eccellenza. Il Cristiano invece è figlio di pieno diritto e personalmente; lo Spirito Santo gli mette su le labbra il nome di Padre che indica le sue nuove relazioni con Dio; ma con le prerogative di figlio egli ne riceve pure i doveri di gratitudine, di fiducia e di amore (Rom. VIII, 15-17). La presenza dello Spirito Santo che ci consacra come un santuario, crea tra lui e noi un nuovo vincolo che è difficile a definirsi, ma che è impossibile negare. Ora ogni nuova relazione è fonte di nuovi obblighi: di qui, per il Cristiano, il dovere di non contristare lo Spirito (Ephes. IV, 30), di non estinguere lo Spirito (I Tess. V, 19), e soprattutto di non distruggere o profanare il suo tempio (I Cor. 16-17; VI, 19; II Cor. VI, 16; Ephes. II, 21). Ma qui abbiamo anche la fonte di privilegi gloriosi: ospite dell’anima giusta, lo Spirito non vi rimane inoperoso, ma in essa produce i carismi, i doni, le grazie dello stato; versa in essa l’unzione e la luce; vi scolpisce la legge di Dio in caratteri indelebili. Così si spiega quella espressione che sembrerebbe enigmatica: « Se siete guidati dallo Spirito, voi non siete sotto la legge (Gal. V, 18) ». Il Cristiano può obbedire alla legge senza essere sotto la legge, perché la legge per lui non è più un giogo esterno che l’opprime, ma un principio interno che lo guida e lo spinge innanzi: ben lungi dall’asservirlo e dall’opprimerlo, « la legge dello Spirito di vita lo libera dalla legge del peccato e della morte (Rom. VIII, 2) ». La dottrina del corpo mistico, il capolavoro di Paolo, non è meno feconda per lamorale che per il dogma. La prima volta che la propone, egli stesso ne fa l’applicazione con una chiarezza che non lascia nulla adesiderare. Nel dimostrare che la diversità delle membra e l’unità di vita sono essenziali a questo corpo di cui Gesù Cristo è il capo e lo Spirito Santo è l’anima, egli ne deduce i doveri reciproci di carità, di giustizia, di solidarietà, con l’obbligo, per ciascun membro, dicollaborare al bene generale (I Cor. XII, 12-27). È tutto un programma di morale sociale compendiato, la cui originalità consiste nel conciliare le esigenze del bene comune non certamente con l’egoismo, ma con la ricerca istintiva dell’interesse personale. Non pare che si possa attribuire al caso ilfatto che le altre tre descrizioni del corpo mistico servano precisamente come di prefazione alla seconda parte delle lettere in cui la morale è nettamente separata dal dogma (Rom. 4,5; Ephes. IV, 12-16; Col. II, 19). L’intenzione appare manifesta nell’Epistola ai Romani, e allora non fanno più meraviglia le raccomandazioni eteroclite di cui abbiamo dato sopra un saggio. Precetti e consigli, in apparenza disparati, trovano la loro unità in questo principio: « Noi siamo un solo corpo nelCristo e, individualmente, le membra gli uni degli altri ». Non è allora evidente che questo principio ha come corollario il dovere « di amarsi con amore di fraternità » e di « prevenirsi a vicenda con l’onore (Rom. XII, 10) ». La dottrina del corpo mistico si presenta sotto un aspetto alquanto diverso nelle Epistole agli Efesini ed ai Colossesi. L’obbligo che ne deriva per ciascun membro è quello di aspirare alla perfezione del capo (Col. II, 19), perché ciascun fedele, affinché vi sia armonia e perfezione, deve sforzarsi di crescere secondo la misura del Cristo.

THE RESERVATION OF THE EUCHARIST – LA CONSERVAZIONE DELL’EUCARISTIA (Note liturgiche)

THE RESERVATION OF THE EUCHARIST

[LA CONSERVAZIONE DELL’EUCARISTIA (note liturgiche)]

1. The Ritual prescribes that the parish priest, or one who has the cure of souls, should take care that some consecrated particles, in sufficient number for the use of the sick and for the communion of the rest of the faithful, should be always reserved in a clean pyx of solid and decent material, well closed with its own lid, covered with a white veil, and as far as possible in an ornamented tabernacle kept locked with a key. This key should be in the keeping of the priest, not in that of the sacristan or other person. As a rule the pyx or ciborium is of silver, and gilded inside. There seems to be no strict law prescribing that it should be consecrated or even blessed, though there is a form for blessing it in the Ritual. The Blessed Sacrament, then, must be thus reserved for the use of the faithful in all cathedrals, parish churches, and chapels of ease attached to parochial churches. Religious Orders of men and women who take solemn vows have the privilege of reserving the Holy Eucharist in their churches. It can only be reserved in other churches or oratories by special indult from the bishop, or from the Holy See in the case of strictly private oratories.

Note. — Regarding the reservation of the Blessed Sacrament, the Second Plenary Council of Baltimore (n. 265) has the following : “Conservari debet in ecclesia Cathedrali, et in quavis ecclesia parochali ut ad infirmos, data occasione, deferri possit. In aliis vero pluribus vel ecclesiis vel sacellis conservari potest vel ex lege, vel ex Pontificis indulto. Qua in re Ordinarios hortamur ut curent, uti nonnisi debita praehabita licentia hoc maximo privilegio quaevis aedes sacra utatur.” Bishops are restricted in their powers to grant leave for reserving the Blessed Sacrament, as appears from a decree of the S. C. of Rites (March 8, 1879).“Potestne Episcopus jure proprio concedere facultatem asservandi SSmum Sacramentum: 1. In Ecclesiis seu Capellis publicis quae tamen titulo parochiali non gaudent, etsi utilitatibus Paraeciae inserviant; 2. In Capellis piarum Communitatum publicis, id est quarum porta pateat in via publica vel in area cum via publica communicante et quae habitantibus omnibus aperiuntur; 3. In Capellis seu Oratoriis interioribus piarum Communitatum, quando non habent Capellam seu Oratorium publicum in sensu exposito, ut evenit, e.g., in Seminariis?” The response to these questions was: “Implorandum est indultum a Sancta Sede quoad omnia postulate” See Decr. Auth., n. 3484. From an examination of the acts of various provincial councils in the United States it is clear that many provinces received an indult of this kind more or less extensively. Thus, on July 25, 1858, on the occasion of holding the Ninth Provincial Council of Baltimore, the faculty was granted to this ecclesiastical province in virtue of which the bishops could grant permission for the Blessed Sacrament to be kept in the chapels of Religious communities of women. See Coll. Lacensis, vol. 3, p. 180. In the same year (November 10), on the occasion of holding the Second Provincial Council of Cincinnati, the bishops of that province received the faculty of permitting the Blessed Sacrament to be kept in Religious communities without enclosure: “Potestatem tribuit Episcopis permittendi communitatibus Religiosis absque clausura viventibus conservationem SSmce Eucharistiae.” See Coll. Lacensis, vol. 3, p. 212. On April 17, 1859, the privilege was given to the archbishop of St. Louis and his suffragans that the Blessed Sacrament might be kept in Religious houses although they were not canonically erected. In the archdiocese of St. Louis it is permitted that in the oratories of Sisters having a Religious house the Blessed Sacrament may be kept, provided that four persons live in the house. See Diocesan Statutes of St. Louis, n. 68. As regards other dioceses of this country it may be safely said that there is hardly one that does not possess an indult with less or more limitation for reserving the Blessed Sacrament. — End of Note.

2. The Ritual further prescribes that the tabernacle should be decently covered with a veil, that nothing else besides the Blessed Sacrament should be put in it, and that it should be placed on the high altar, or on another if this would conduce to greater reverence toward the Holy Eucharist, so that it would be no obstacle to sacred functions or ecclesiastical offices. Several lamps or at least one should always be kept burning before it night and day. The lamps should be fed with olive oil, but if the church is very poor the bishop may allow vegetable or mineral oil to be used. Gas or electric lamps should not be tolerated. One lamp must be kept burning under pain of grievous sin. The veil of the tabernacle should be white or in keeping with the color of the day, but never black.

3. The particles taken for consecration should be fresh, not more than fifteen days or at most a month old, and they should be renewed every eight or at most fifteen days, though in this matter regard should be had to the dampness or dryness of the place and season.

Note. — It may be well to consider this question more in detail so far as the United States is concerned. The Roman Ritual requires the consecrated particles to be renewed frequently, “Sanctissimæ Eucharistiae particulas frequenter renovabit” (Tit. 4, cap. 1, n. 7). The Caeremoniale Episcoporum prescribes this renovation to be made once a week (Lib. 1, cap. 6, n. 2). Benedict XIV, in his constitution, “Etsi Pastoralis” (May 16, 1752), ordered for the Greeks in Italy that the sacred species should be renewed every eight, or at least every fifteen days. Gasparri in his treatise, De SS. Eucharistia (vol. 2, n. 1013), concludes that in the Western Church the species should be renewed “Singulis octo diebus juxta norma Caeremonialis: “Graecis autem aliisque Orientalibus permissum esse hanc renovationem protrahere ad singulos quindecim dies.” He then adds that many excuse from all sin, even in the Western Church, if the renewal takes place within fifteen days, provided that the condition of place and time exclude all danger of initial corruption. It was evidently the intention of the Fathers of the Second Plenary Council of Baltimore to urge the observance of the Caeremoniale Episcoporum regarding the weekly renewal of the sacred species, for they say (n. 268): “Rituale Romanum jubet particulas Sanctissimae Eucharistiae frequenter renovari: et Caeremoniale Episcoporum id semel saltern in hebdomada faciendum praecipit. Hanc regulam, quam S. Rituum Congregatio nedum saepius confirmavit, verum stricte et rigorose obligare declaravit, sacerdotibus omnibus fideliter servandum serio inculcamus.”  The decrees of the Second Plenary Council of Baltimore were declared by the Fathers of the Third Plenary Council in 1884 to be still in force, except those which were changed or abrogated in the latter council. (Cf. p. 3, Decr. Conc. Balt. Tertii.)

But regarding the law of renewing the species the Third Plenary Council made no change or abrogation; nor since that time in this country has there been any sign of alteration in the Church’s discipline on the question. Hence it does not appear that in the United States we are at liberty to follow the opinion of those theologians who hold that the renewal of the sacred species may be deferred for two weeks. (Cf. Lehmkuhl, vol. 2, n. 132.) Still less is it permissible in this country to follow the opinion of those who allow a month to elapse before it becomes necessary to renew the sacred species. (Noldin, De Sacramentis, n. 129.) Whether some provincial councils elsewhere were content to require that the renewal should not be deferred beyond two weeks or a month, or whether the Holy See directly granted for a particular locality permission to defer the renewal for two weeks, neither of these ordinances would seem to be applicable to the United States, where the regulation of the Caeremoniale Episcoporum is required to be observed. The Second Plenary Council of Baltimore (n. 268) says that the S. Cong. Of Rites has not only confirmed the rule of the Caeremoniale Episcoporum, and for this purpose it refers to three decrees of that Congregation, but also declares that another decree of this Congregation pronounces the rule to be strictly obligatory, “stricle et rigorose obligare” Nothing then remains, it would seem, but to admit the obligation so clearly set forth by this council. Even since its celebration the S. Cong. of Rites has repeated the decision.

A question was proposed whether the custom existing of renewing the species once or twice in the month could be continued : “In ecclesiis hujus dueceseos servari ne potest consuetudo renovandi SSmam Eucharistiam semel vel bis in mense; licet qualibet hebdomada juxta Caeremoniale Episcoporum eadem SSma Eucharistia foret renovanda?” The answer was (September 12, 1884), “Servetur dispositio Cæremonialis Episcoporum (lib. 1, cap. 6, n. 2).”

Assuming, therefore, that there is in the United States a precept which requires the weekly renewal of the sacred species, the question arises, what sin is committed if a priest defer this duty. It is certain that while this precept of renewing the species binds sub gravi, it admits of parvitas materiae, so that a short delay beyond a week would not constitute a mortal sin, unless some serious danger of the corruption of the species would arise. Prescinding from this danger, it may be held that the delay of a week would not be a mortal sin, and probably even the delay of a month. Gasparri (n. 1013) says that the particles to be consecrated should be fresh, i.e., recently made, and that the time for necessary renewal depends to some extent upon the degree of freshness, so that if the hosts at the time of consecration had been made twenty five days the renewal could not be protracted for eight days. (See also Wernz, Jus Decretalium, vol. 3, n. 551 in nota 219.) It seems safe to hold that a reasonable cause of deferring the renewal for a day or even for a few days would excuse from venial sin. Thus during a novena the host for Benediction might be kept for nine days; and a number of small hosts which would be distributed to the faithful within a few days might be kept before the purification of the ciborium. (See O’Kane, n. 620.) — End of Note.

A MANUAL OF MORAL THEOLOGY
FOR ENGLISH-SPEAKING COUNTRIES
BY REV. THOMAS SLATER, S.J. ST. BEUNO’S COLLEGE, ST. ASAPH
WITH NOTES ON AMERICAN LEGISLATION BY REV. MICHAEL MARTIN, S.J.
PROFESSOR OF MORAL THEOLOGY, ST. LOUIS UNIVERSITY
VOLUME II. THIRD EDITION
NEW YORK, CINCINNATI, CHICAGO, BENZIGER BROTHERS
PRINTERS TO THE HOLY APOSTOLIC SEE
PUBLISHERS OF BENZIGER’s MAGAZINE
Permissu Superiorium. R. SYKES, S.J., Praep. Prov. Anglicae.
Permissu Superiorium. R. J. MEYER, S.J., Praep. Prov. Missourianae.
Nihil Obstat REMY LAFORT, Censor Librorum.
Imprimatur. + JOHN M. FARLEY, Archbishop of New York.
New York, September 19, 1908. p. 94-99

fr. UK.

LA CONSERVAZIONE DELL’ EUCARISTIA

1. Il Rituale prescrive che il parroco, o colui che ha cura delle anime, abbia cura che alcune particole consacrate, in numero sufficiente affinché i malati possano usufruirne e per la comunione del resto dei fedeli, siano sempre riservate in una pisside pulita di materiale solido e decente, ben chiuso con il suo stesso coperchio, coperto da un velo bianco, e per quanto possibile in un tabernacolo ornato tenuto chiuso a chiave. Questa chiave dovrebbe essere custodita dal sacerdote, non dal sacrestano o da nessun’altra persona. Di regola la pisside o il ciborio sono d’argento e dorati all’interno. Non sembra esserci alcuna legge rigida che prescriva che debba essere consacrata o addirittura benedetta, sebbene ci sia una forma per benedirla nel Rituale. Il Santissimo Sacramento, quindi, deve essere così riservato all’uso dei fedeli in tutte le cattedrali, le chiese parrocchiali e le cappelle territoriali parrocchiali. Gli ordini religiosi maschili e femminili che emettono voti solenni, hanno il privilegio di conservare la Santa Eucaristia nelle loro chiese. Può essere conservata in altre chiese o oratori, solo con indulto speciale del Vescovo o dalla Santa Sede nel caso di oratori strettamente privati.

Nota. – Per quanto riguarda la prenotazione del Santissimo Sacramento, il Concilio Plenario di Baltimora (n. 265)  afferma:  “Conservari debet in ecclesia Cathedrali, et in quavis ecclesia parochali ut ad infirmos, data occasione, deferri possit. In aliis vero pluribus vel ecclesiis vel sacellis conservari potest vel ex lege, vel ex Pontificis indulto. Qua in re Ordinarios hortamur ut curent, uti nonnisi debita praehabita licentia hoc maximo privilegio quaevis aedes sacra utatur.” I Vescovi sono limitati nei loro poteri, nelle conservazione del Santo Sacramento, da un decreto della S. C.  dei Riti (8 Marzo 1879) « Potestne Episcopus jure proprio concedere facultatem asservandi SSmum Sacramentum: 1. In Ecclesiis seu Capellis publicis quae tamen titulo parochiali non gaudent, etsi utilitatibus Paraeciae inserviant; 2. In Capellis piarum Communitatum publicis, id est quarum porta pateat in via publica vel in area cum via publica communicante et quae habitantibus omnibus aperiuntur; 3. In Capellis seu Oratoriis interioribus piarum Communitatum, quando non habent Capellam seu Oratorium publicum in sensu exposito, ut evenit, e.g., in Seminariis?” La risposta a questa domanda era: “Implorandum est indultum a Sancta Sede quoad omnia postulate” Vedi Decr. Auth., n. 3484. Da un esame degli atti dei vari consigli provinciali negli Stati Uniti è chiaro che molte province hanno ricevuto un indulto di questo tipo più o meno estensivamente. Così, il 25 luglio 1858, in occasione della celebrazione del Nono Consiglio provinciale di Baltimora, fu concessa facoltà a questa provincia ecclesiastica in virtù della quale i Vescovi potevano concedere il permesso per il Santissimo Sacramento da custodire nelle cappelle delle comunità religiose femminili. Vedi Coll. Lacensis, vol. 3, p. 180. Nello stesso anno (10 novembre), in occasione della celebrazione del secondo Concilio provinciale di Cincinnati, i Vescovi di quella provincia hanno ricevuto la facoltà di permettere che il Santissimo Sacramento venga custodito nelle comunità religiose senza clausura: “Potestatem tribuit Episcopis permittendi communitatibus Religiosi absque clausura viventibus conservationem SS.mae Eucharistiae. ” Vedi Coll. Lacensis, vol. 3, p. 212. Il 17 aprile 1859 fu concesso il privilegio all’Arcivescovo di St. Louis e ai suoi suffraganei che il Santissimo Sacramento potesse essere custodito nelle case religiose anche se non fossero erette canonicamente. Nell’Arcidiocesi di St. Louis è permesso che negli oratori delle suore che hanno una casa religiosa sia conservato il Santissimo Sacramento, a condizione che almeno quattro persone vivano nella casa. Vedi gli statuti diocesani di St. Louis, n. 68. Per quanto riguarda le altre diocesi di questo paese, si può tranquillamente affermare che ce n’è a malapena una che non possieda un indulto con più o meno limiti per la conservazione del Santissimo Sacramento. – Fine della nota.

2. Il Rituale prescrive inoltre che il tabernacolo debba essere convenientemente coperto con un velo, che non si debba mettere altro al di fuori del Santissimo Sacramento e che esso sia posto sull’altare maggiore o su altro se ciò comportasse una maggiore riverenza verso la Santa Eucaristia, in modo che non sia di ostacolo alle funzioni sacre o agli uffici ecclesiastici. Diverse lampade o almeno una dovrebbero essere sempre tenute accese con fiammella notte e giorno. Le lampade dovrebbero essere alimentate con olio d’oliva, ma se la chiesa fosse molto povera il Vescovo può consentire l’uso di olio vegetale o minerale. Le lampade a gas o elettriche non devono essere tollerate. Una lampada almeno deve sempre restare accesa sotto pena di peccato grave. Il velo del tabernacolo dovrebbe essere bianco o in armonia con il colore del giorno, mai nero.

3. Le particole prelevate per la consacrazione dovrebbero essere fresche, non più di quindici giorni o al massimo un mese di vita, e dovrebbero essere rinnovate ogni otto o al massimo quindici giorni, anche se a questo proposito si dovrebbe tener conto dell’umidità o secchezza del luogo e della stagione.

Nota. – Potrebbe essere utile considerare questa domanda più in dettaglio per quanto riguarda gli Stati Uniti. Il Rituale Romano richiede che le particole consacrate vengano rinnovate frequentemente, “Sanctissimæ Eucharistiae particulas frequenter renovabit” (Tit. 4, cap. 1, n.7). Il Cæremoniale Episcoporum prescrive che questo rinnovamento venga effettuato una volta alla settimana (1, capitolo 6, numero 2). Benedetto XIV, nella sua costituzione, “Etsi Pastoralis” (16 maggio 1752), ordinò ai greci in Italia che fossero rinnovate ogni otto o almeno ogni quindici giorni. Gasparri nel suo trattato, De SS. Eucaristia (vol.2, p. 1013), conclude che nella Chiesa occidentale la specie dovrebbe essere rinnovata “Singulis octo diebus juxta norma Caeremonialis:” Graecis autem aliisque Orientalibus permissum esse hanc renovationem protrahere ad singulos quindecim dies “. Aggiunge poi che si è esenti da peccato, anche nella Chiesa Occidentale, se il rinnovo avviene entro quindici giorni, a condizione che le condizioni del luogo e del tempo escludano ogni pericolo di incipiente corruzione. Evidentemente era intenzione dei Padri del Secondo Concilio Plenario di Baltimora sollecitare l’osservanza del Cæremoniale Episcoporum riguardo al rinnovamento settimanale delle particole sacre, poiché si dice (n.268): “Rituale Romanum jubet particulas Sanctissimæ Eucharistiæ frequenter renovari : et Caeremoniale Episcoporum id semel saltern in hebdomada faciendum præcipit Hanc regulam, quam S. Rituum Congregatio nedum sæpius confirmavit, verum stricte et rigorose obligare dichiaravit, sacerdotibus omnibus fideliter servandum serio inculcamus. ” I decreti del Secondo Concilio Plenario di Baltimora furono dichiarati ancora in vigore dai Padri del Terzo Concilio Plenario nel 1884, ad eccezione di quelli che furono modificati o abrogati in quest’ultimo concilio. (Cfr. Pagina 3, Decr. Conc. Balt. Tertii.)

Ma riguardo alla legge del rinnovo delle particole, il Terzo Concilio Plenario non ha apportato alcun cambiamento o abrogazione; né da quel tempo in questo Paese c’è stato alcun segno di alterazione nella disciplina della Chiesa sulla questione. Quindi non sembra che negli Stati Uniti si sia liberi di seguire l’opinione di quei teologi che ritengono che il rinnovo delle particole sacre possa essere rinviato per due settimane. (Cfr Lehmkuhl, vol.2, n.132). Ancora meno è lecito in questo Paese seguire l’opinione di coloro che lasciano trascorrere un mese prima che sia necessario rinnovare la specie sacra. (Noldin, De Sacramentis, 129). Se alcuni consigli provinciali altrove si accontentassero di richiedere che il rinnovo non venisse differito oltre due settimane o un mese, o se la Santa Sede concedesse direttamente per una determinata località il permesso di differire il rinnovo per due settimane, nessuna di queste ordinanze sembrerebbe essere applicabile agli Stati Uniti, dove è richiesto il rispetto del regolamento del Cæremoniale Episcoporum. Il Secondo Concilio Plenario di Baltimora (268) dice che il S. Cong. dei Riti non ha solo confermato la regola del Cæremoniale Episcoporum, e per questo scopo si riferisce a tre decreti di quella Congregazione, ma dichiara anche che un altro decreto di questa Congregazione enuncia che la regola sia strettamente obbligatoria, “stricle et rigorose obligare” Nulla quindi, sembrerebbe eliminare l’obbligo così chiaramente stabilito da questo consiglio. Anche dopo la sua celebrazione il S. Congr. dei Riti ha rinnovato la decisione.

Si chiedeva anche se fosse possibile continuare l’usanza di rinnovare la specie una o due volte nel mese: “In ecclesiis hujus dueceseos servari ne potest consuetudo renovandi SSmam Eucharistiam semel vel bis in mense; licet qualibet hebdomada juxta Cæremoniale Episcoporum eadem SSma Eucharistia foret renovanda?” La risposta fu (12 settembre 1884), “Servetur dispositio Cæremonialis Episcoporum (lib. 1, cap. 6, 2).” – Supponendo, quindi, che negli Stati Uniti ci sia un precetto che richieda il rinnovo settimanale delle specie sacre, sorge la domanda: quale peccato commette il Sacerdote che non ottemperi a questo dovere? È certo che mentre questo precetto di rinnovare le particole lega i sub gravi, ammette la parvitas materiæ, e che quindi questo, per un breve ritardo che non vada oltre una settimana, non costituisca un peccato mortale, a meno che non si presenti un serio pericolo di corruzione della specie delle particole. Prescindendo da questo pericolo, si può affermare che il ritardo di una settimana non sarebbe un peccato mortale, e probabilmente anche il ritardo di un mese. Gasparri (n.1013) dice che le particole da consacrare dovrebbero essere fresche, cioè preparate di recente, e che il tempo necessario per il rinnovamento dipende in una certa misura dal grado di freschezza, così che se le ostie al momento della consacrazione fossero state preparate da più di venticinque giorni, il rinnovo non può protrarsi oltre gli otto giorni. (Vedi anche Wernz, Jus Decretalium, volume 3, numero 551 in nota 219.). Sembra sicuro poter ritenere per giusta ragione che il rinviare il rinnovo di un giorno o anche di pochi giorni sia giustificazione per il peccato veniale. Così durante una novena l’ostia per la Benedizione potrebbe essere conservata per nove giorni; e un numero di piccole ostie da  distribuire ai fedeli nel giro di pochi giorni potrebbero essere conservate prima della purificazione del ciborio. (Vedi: O’Kane, 620.) – Fine della nota.

A MANUAL OF MORAL THEOLOGY
FOR ENGLISH-SPEAKING COUNTRIES
BY REV. THOMAS SLATER, S.J. ST. BEUNO’S COLLEGE, ST. ASAPH
WITH NOTES ON AMERICAN LEGISLATION BY REV. MICHAEL MARTIN, S.J.
PROFESSOR OF MORAL THEOLOGY, ST. LOUIS UNIVERSITY
VOLUME II. THIRD EDITION
NEW YORK, CINCINNATI, CHICAGO, BENZIGER BROTHERS
PRINTERS TO THE HOLY APOSTOLIC SEE
PUBLISHERS OF BENZIGER’s MAGAZINE
Permissu Superiorium. R. SYKES, S.J., Præp. Prov. Anglicæ.
Permissu Superiorium. R. J. MEYER, S.J., Præp. Prov. Missourianae.
Nihil Obstat REMY LAFORT, Censor Librorum. Imprimatur. + JOHN M. FARLEY, Archbishop of New York.New York, September 19, 1908. p. 94-99

fr. UK

Trad. G. d. G.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (28)

Mons. J. J. GAUME

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXVII.

 (FINE DEL PRECEDENTE)

Nuove prove che gli oracoli non erano una ciurmeria — Esempio dei Romani per tutta la durata del loro impero — Fatti curiosi, contemporanei a Cicerone — Pena di morte contro i disprezzatori degli oracoli — Esempi dei Greci — Processioni continue ai templi degli oracoli: testimonianze di Cicerone, di Strabono e di Marc’Aurelio — Oracoli mediante i sogni: nuovo passo di parallelismo: testimonianza d’Àrriano, di Cicerone e Tertulliano — Altro tratto di parallelismo: il tempio di Gerusalemme e il tempio di Delfo — Celebrità e ricchezze di quest’ultimo — Esistenza attuale degli oracoli presso tutti i popoli tuttora pagani: Madagascar, Cina, Cocincina — Riassunto del parallelismo tra le due Città — Belle parole di un Padre del Concilio di Trento.

L’obiezione epicureiana aggiunge che gli oracoli erano senza influenza sugli uomini illuminati, ì quali non vi credevano. Che gli uomini illuminati dall’antichitàpagana non vi credessero, abbiamo già letta laprova in contrario, né ora staremo a ripeterla. Ricordiamo solamente che in nome di tutte le generazioni, omnis ætas, Cicerone ha dato ai moderni pagani una smentita solenne. Che si accomodino col più gran numero delle lettere antiche, come essi lo chiamano, ciò tocca a loro. (Come in Platone, cosi in Cicerone, vi sono due uomini, quello della tradizione e quello del razionalismo. Il primo parla nel primo libro della Divinazione, e constata la fede universale agli oracoli. Nel secondo libro, il razionalista raccoglie le povere negazioni che la ragione individuale appone  alle affermazioni della ragione generale. É il sofista contro il filosofo, il pigmeo contro il gigante). – A noi sta l’esaminare se, conforme alla obiezione, gli oracoli non avevano nessuna influenza sulla condotta degli uomini e dei popoli illuminati dell’antico mondo. Ora, la verità è che gli oracoli esercitavano tale influenza sulla condotta pubblica e privata dei pagani più illuminati, senza distinzione di paese e di civiltà, che ottenevano da essi i sacrifici più onerosi alla natura; vale a dire l’immolazione dei loro figli e la spoliazione dei loro beni. È vero inoltre che gli uomini ed i popoli i più celebri non intraprendevano nulla d’importante, senza consultarli. Limitiamoci ad alcuni fatti. Si tratta per es. dell’ordine puramente religioso? Come infedeli a Jehovah, quante volte non si son visti gli Ebrei senza distinzione di posizione sociale, cadere in Moloch, e dietro la sua richiesta, immolare i loro figli e figlie a questa crudele divinità? In Fenicia, in Siria, in Persia, in Arabia, in Africa, in Creta, a Cartagine, i più illustri cittadini si rassegnano allo stesso sacrificio per ordine degli oracoli. Sulla stessa loro ingiunzione il re Erecteo in Grecia sacrifica la sua diletta figlia; Agamennone, la sua; Idomenèo, il suo figliuolo; gli Ateniesi, i loro figli e figlie scelti; i Messemi, una pura vergine; i Tebani, il figlio del loro re; gli Achei, la più bella giovine ed il più bel giovine della loro capitale. Sacrifici dello stesso genere, cioè solenni e richiesti dall’autorità pubblica si compiono presso tutti i popoli celebri dell’antichità! (V. fra altri, gli Annali di filosofia cristiana, aprile, giugno, luglio, dicembre 1861). – Quanto alla spoliazione dei loro beni, si conoscono le immense ricchezze nei templi di oracoli: ne parleremo ben tosto. Se poi si tratta dell’influenza degli oracoli sulla società e sulla famiglia, sulle faccende pubbliche e private, essa non era né meno potente, né meno universale, che nell’ordine religioso. Ancora qui ci limiteremo a qualche esempio preso dagli uomini e dai popoli modelli. Romolo vuol fabbricare Roma; ma innanzi di porre mano all’opera, consulta l’oracolo. « È una tradizione costante, dice Cicerone, che Romolo, padre e fondatore di Roma, non solamente non gettò le fondamenta di questa città, se non dopo aver preso gli auspici, ma era egli pure un augure eccellente, optimus Augur. Gli altri re suoi successori, adoprarono gli auguri, e quando i re furono cacciati, non si fece niente di poi, in Roma, per autorità pubblica, né in pace, né in guerra, senza l’intervento degli auspicii. » (De Divinat. lib. I, c. II.). E altrove: « La dignità augurale di Romolo non era una cosa inventata da lui dopo la fondazione di Roma per ingannare il volgo ignorante; ma era al contrario una cerimonia religiosa fondata sopra una certa scienza, e che lasciò alla posterità. Egli e suo fratello erano auguri avanti la fondazione della città; come lo vediamo in Ennio. » (Ivi, lib. I, cap. XLVIII). – Numa vuol dare delle leggi a Roma, ma consulta l’oracolo: è proclamato re dal popolo, ma prima di accettare la sovranità, consulta l’oracolo. Quest’ultima consultazione divenne una legge costantemente osservata dal successori di Numa per tutta la durata dell’impero. (Antiquit Rom., art. Romulus et Lituus). – Ecco dunque tutti questi re della Città del male consacrati da satana! Qual nuova parodia del vero Dio e della Città del bene! I primi Romani consultarono l’oracolo di Delfo intorno alla sovranità. Giunio Bruto comprese il responso Egli partì di là per cacciare i re e stabilire la repubblica, della quale fu il primo console. (Delphos ad maxime indytum in terris oraculum mittere Statuit, etc. Tit. Liv., lib. I, decad. I).Più tardi il senato manda ambasciatori a consultare lo stesso oracolo, circa l’esito della guerra contro i Vej; si fa ciò che ordina, ed i Romani, sono vincitori. 3 (Id., lib. Y, decad. I). I Romani nell’incivilirsi non perdono l’abitudine di ricorrere agli oracoli. I loro generali, innanzi di partire per la guerra e di dar battaglia, così i loro magistrati prima di entrare in ufficio, e i loro più celebri personaggi prima d’intraprendere un affare d’importanza, non mancano di consultarli. (Cicer,, De Divinat. lib. I, c. XLIII). Senza parlare degli altri, il gran Cicerone consulta l’oracolo di Delfo intorno al genere di vita che egli doveva abbracciare per diventare illustre, e la risposta del Nume determina la sua vocazione. (Plutarch. in Cicer.). Ottavio Rufo, padre di Augusto, consulta Bacco di Tracia circa i destini di suo figlio e ne riceve gli auguri i più favorevoli. (Sveton., in Oct. aug. c. XCIV). – Innanzi la battaglia di Farsalia, Cassio consulta l’oracolo di Delfo; Tiberio, più tardi, consulta quello di Gerione; Nerone quello di Delfo; Germanico, quello di Glaros; Caligola, quello di Anzio; Vespasiano, quello del dio Carmel; Tito, quello di Venere a Pafo; Traiano, quello di Eliopoli; Adriano, quello di Giove Niceforo; Severo, quello di Giove Belo; Caracalla consulta con avidità’ incredibile tutti quelli che può trovare. Cosi di quegli altri padroni del mondo, sino a Giuliano l’Apostata inclusive. (Baltus etc., p. 865 e seg., e seguito, p. 80, e in Bullet, Stor, dello stabilimento del Cristian p. 318 e seg., ove si leggono tutti i testi degli autori pagani). – Che dire di questa lunga processione di magistrati, di generali, d’imperatori romani che consultano il demonio? Che più? non è la splendida parodia di ciò che avveniva in Israele, ed un nuovo tratto di parallelismo tra la Città del male e la Città del bene? Ma non è tutto; l’oracolo divino diresse costantemente i capi della santa nazione. Parimente intorno ai responsi da essi ottenuti, quei principi del paganesimo, dei quali si ammirano i talenti, fecero una lunga sequela di splendide azioni, qualche volta lodevoli e il più di sovente delittuose; fabbricarono città, emanarono leggi, modificarono le istituzioni, intrapresero guerre, diedero battaglie, segnarono trattati, regolarono le faccende dello stato, e governarono l’impero romano, vale a dire la più gran parte del mondo conosciuto. E poi si ardisce sentenziare che gli oracoli erano senza influenza sulla condotta degli uomini illuminati, e che questi non vi credevano! Ma intorno alla sottomissione religiosa con cui onoravano gli oracoli, bisogna sentire lo stesso Cicerone, quel Cicerone che parla in mezzo ai lumi del gran secolo di Augusto, Cicerone, augure, o come noi diremmo oggi, medium, e medium officiale. Nel riportare le leggi religiose, di Roma, quelle leggi ricevute per cosi dire dalla mano stessa degli dei, a dìis quasi traditam relìgionem, egli cita le seguenti prescrizioni: « Che vi siano due classi di sacerdoti; gli uni che presiedono alle cerimonie ed ai sacrifici; gli altri la cui fondazione sia d’interpretare sulla domanda del senato e del popolo, le parole oscure degli indovini e degli oracoli: che gli interpreti dell’ottimo e massimo Giove, auguri pubblici, consultino, secondo i riti, i presagi e gli auspici: che i sacerdoti prendano gli auguri per vegliare alla conservazione delle vigne, dei giardini e della salute del popolo: che quelli che saranno incaricati della guerra e dei pubblici interessi, prendano gli auspici e si regolino intorno alle loro indicazioni: che si assicurino se gli dei non siano irritati, e che indichino con cura le parti del cielo, di dove scoppierà la folgore.1 » (De Legib., lib, II, c. VIII. Essi credevano dunque, come la stessa Chiesa, che i demoni non erano estranei alle tempeste). – La leggerezza moderna non mancherà di ridere di queste funzioni augurali, di queste consulte e di questi responsi: malgrado la parola del vecchio Catone, la gravità romana non ne rideva però meno. Seguitiamo ad ascoltare Cicerone: « Tutto ciò che l’augure avrà dichiarato ingiusto, nefasto, vizioso, malvagio, sarà reputato nullo e non avvenuto. Chiunque ricuserà di, sottomettersi a questa dichiarazione sarà punito di morte. » (Ibid.). – Così la morte, né più né meno, tale era, qualunque si fosse, la pena riserbata al dispregiatore degli oracoli: e si son visti dei generali messi a morte per aver riportata una vittoria contro la volontà degli dei. Qui ancora segnaliamo un nuovo tratto di parallelismo. Le pene più severe, e pubbliche calamità, sono nella legge di Mosè il castigo di coloro i quali non consultano l’oracolo del Signore, o che disprezzano i suoi responsi. Nella terribile sanzione data da satana a questi oracoli, come fare a non vedere una nuova parodia? Ma che questo rispetto religioso degli oracoli, buono per Romolo ed i suoi ignoranti banditi, scomparve forse dinanzi ai lumi della romana civiltà? Il gran secolo d’Augusto, per esempio, dovette burlarsene senza riguardi, e ridere di un riso inestinguibile della fede semplice ed ingenua degli antichi? Lasciamo ancora la parola a Cicerone, ed ascoltiamo questo testimonio certo, celebrare la potenza degli auguri, quale esisteva al suo tempo, « Uno dei più grandi e più importanti impieghi della repubblica, sia per il diritto, ossia per l’autorità che proclama è senza dubbio quello di augure. (Il collegio degli auguri si componeva di quindici membri, che si rinnovava da se stesso). Non dico questo perché io pure sono rivestito di questa dignità; ma infatti la cosa sta a questo modo. « Quanto al diritto che cosa di più importante del potere di cui gode, di disciogliere cioè i comizi e le assemblee, sino dal principio della loro durata, qualunque magistrato gli avesse convocati, o di annullarne gli atti da qualunque autorità fossero emanati? Che cosa di più interessante che il sospendere le imprese della più alta importanza con questa sola parola: a un altro giorno, alio die? Che cosa di più magnifico che il potere ordinare ai consoli di abdicare la loro magistratura: Quid magnificentius quam posse decernere, ut magistratu se abdicant consules? Ghe cosa di più rispettabile della facoltà di accordare o di rifiutare il permesso di trattare col popolo; che il cassare le leggi che non sono state giuridicamente proposte; talmente che non vi abbia niente di valevolmente fatto per parte dei magistrati, tanto internamente che esternamente, se non è approvato dal collegio degli auguri: Nihil domi, nihil foris per magistratus gestum, sine eorum auctoritate posse cuiquam probari? » (De Legib., lib. II, c. XII. — Il fatto è, c’insegna la medesima Sacra Scrittura, che i pagani nulla facevano, assolutamente nulla, senza consultare l’oracolo. Sap., XIII, 17-19. La prova è altresì negli Annali di filosofia cristiana, an. 1862). – Vediamo ora questa magnifica potenza all’opera. Sotto Pompeo, Cesare e i loro degni colleghi, l’anarchia la più completa regna in Roma. Una sola autorità è riconosciuta, quella degli auguri. Catone vuole essere pretore: Pompeo non lo vuole, e discioglie l’assemblea con questa sola parola: Io prendo gli auspici, cioè dire ho osservato il cielo, ed ho visto pericolosi presagi. (Plutarco in Pomp.). – Alla stess’epoca (53 anni avanti G. C.) Cicerone scriveva ad Attico: « Il tribuno Scevola ha impedito i comizi, per la nomina dei consoli, annunziando tutti i giorni ch’egli osservava il cielo fino a oggi trenta settembre, giorno nel quale io scrivo questo. » (Ad Attic., IV, 16; t. XVII, p. 440). In un altra lettera diretta a suo fratello il ventuno ottobre, mostra ancor meglio la terribile potenza degli auguri: «Tutti i giorni, dice, i comizi sono soppressi per l’annunzio delle osservazioni del cielo con gran soddisfazione della gente dabbene, tanto i consoli sono detestati. » (Ad Quintum, III, t. XX, p. 524). Così, l’osservazione del cielo teneva agitato tutto l’impero romano. In quell’anno stesso impedì la nomina dei consoli, dimodoché l’anno seguente (52 avanti G. C.) fu senza consoli per otto mesi. Questo appellavasi appunto l’interregno di Pompeo. La città cade nella confusione; le uccisioni e le violenze si succedono: « Ogni cosa è cambiato, tutto è rovinato e quasi distrutto, scrive ancora Cicerone ì Sunt omnia debilitate jam prope et extincta.  » (Ad Curion. famil., lib. II, epist. V). Ecco pertanto ciò che erano in pieno secolo d’Augusto questi superbi Romani, questi maggiorenti della libertà: tanti schiavi muti e tremanti sotto il giogo di ferro del demonio. Nel celebrare la potenza assoluta degli auguri, che cosa fa Cicerone, se non la proclamazione solenne della servitù la più vergognosa e la più dura che fosse mai, di quel popolo preteso libero, di quel popolo sovrano, come dicono nei collegi? Non era questa la demonocrazia pura, la demonocrazia alla sua più alta potenza? E ripetiamolo, ci danno i Romani, come il popolo più libero che sia mai esistito. O educazione mentitrice! Avevano essi torto di tremare così dinanzi alle difese di satana e degli auguri, suoi interpreti? Nient’affatto;

alla più piccola resistenza, spaventosi presagi, terribili calamità, annunziavano il corruccio del padrone. Cicerone freme ancora quando narra i presagi che si avverarono il giorno in cui nella sua qualità di console, ei celebrò le Feste latine sul monte Albino. « Nel momento in cui io faceva le libazioni di latte a Giove Lazio, una fulgida cometa annunziò una grande carneficina. Lo splendore della luna scomparve tutto ad un tratto in mèzzo ad un cielo stellato; quello del sole si ecclissò. Un uomo fu colpito dal fulmine con un tempo sereno; tremò la terra: terribili spettri apparvero durante la notte. Gl’indovini furibondi non annunziavano che calamità dappertutto. Da tutte le parti si leggevano gli scritti ed i monumenti che atterrivano gli Etruschi.1 » (Poema intorno al suo consolato. — De Divinitat., lib. I, c. XI). Quanto ai temerari che osavano disprezzare i funesti presagi, eccetto due o tre che confermano la légge, satana aveva la costumanza di colpirli con uno spietato rigore. Sulla certezza stessa del castigo era fondato il timore universale che egli inspirava. L’anno 52 avanti G. C., ne porge un memorabile esempio. In onta agli dei,  Grasso si ostina a far la guerra ai Parti. L’augure Ateio lo attende alla porta di Roma. Appena giunto Grasso, egli mette in terra un caldano pieno di fuoco, vi versa delle libazioni e dei profumi. Nello stesso

tempo egli pronunzia contro l’audace generale delle imprecazioni terribili, mediante le quali lo consacra a certi dèi strani e formidabili, invocandoli coi loro nomi. « I Romani, dice Plutarco, assicurano che queste imprecazioni misteriose, e la cui origine si perde nella notte dei tempi, hanno una tal forza che mai nessuno di quelli contro cui esse erano state fatte, ha potuto evitarne l’effetto. » (In Crass., c. XVI). Appiano aggiunge: « Crasso avendole disprezzate, perì nella Partia col figlio suo e con tutto il suo esercito, composto di undici legioni. Sopra centomila soldati, appena ne ritornarono diecimila in Stria.  » (De Bello Civili, lib. II, c. XVIII). Se non di più, almeno quanto i Romani, troviamo noi i Greci avidi di oracoli, rispettosi per i loro santuari e docili alla loro voce. Il suolo dell’Ellenia ne è letteralmente coperto: la maggior parte godono di una celebrità universale. Tebe, Pelo, Claros, Dodona e cento

altri luoghi fatidici vedono arrivare, non solamente da diverse parti della Grecia, ma dall’Oriente e dall’Occidente, continue processioni di pellegrini di ogni condizione che vanno ad interrogare gli dei, invocare il loro aiuto, od a ringraziarli dei loro benefizi. Una stessa fede confonde tutte le classi, unisce tutti i cuori, e la stessa preghiera esprime tutti i bisogni. I principi ed i capi delle repubbliche vi vanno per le lóro imprese, i cittadini per le loro faccende. Nella collezione degli oracoli, se ne trova un gran numero, resi a dei particolari intorno ai loro matrimoni, ai loro figli e intorno a mille minuzie della vita domestica. (Euséb Praep . evang. lib. V, c. XX-XXIII). « Qual popolo, esclama Cicerone, qual città che non si conduca, o per ispezionare le interiora delle vittime, o per l’interpretazione dei prodigi, o delle folgori, per gli auspici, per le sorti, per le predizioni degli osservatori degli astri, per i sogni e per gli oracoli? »  (De Divinat., lib. I, c. VI). Alla vista di questo immenso e incessante concorso; alla vista delle ricche offerte recate e dei favori ottenuti; un grande pagano esclamava: « Vedete i nostri innumerevoli templi? essi sono più augusti per gli dei che gli abitano, che per il culto che vi si esercita, o per le ricchezze delle quali rigurgitano. Là infatti dei sacerdoti, pieni di Dio, identificati a Dio, interpretano l’avvenire, pigliano precauzioni contro i pericoli, danno agli infermi il rimedio, agli afflitti la speranza, agli infelici il soccorso; consolano nelle calamità e sostengono nella fatica. Ivi altresì, durante il sonno noi vediamo gli dei, gli sentiamo e contempliamo i loro sembianti. » (Vedi intorno alle apparizioni degli dei sotto forme sensibili, le testimonianze degli autori pagani in Bullet, Storia dello stabilimento del CrIstian. p. 311 e seg-, ediz. in-8, 1825). A questo modo Cecilio presenta gli oracoli come una prova palpabile della sua religione. A questa obiezione ripetuta sovente, come rispondevano i Padri della Chiesa? Negandone i fatti? non mai. Essi provavano, e lo facevano senza fatica, che le cose meravigliose, compiute nei templi degli oracoli dovevano essere attribuite non al vero Dio ma ai demoni. (Vedi Àtenagora Legat.). – Se gli stranieri accorrevano in folla nella terra classica degli oracoli, si può giudicare da quel che facevano gli stessi Greci. Consultare gli dei su tutte le loro faccende pubbliche e private, era una tradizione inviolabile. Il fatto è così noto, che Cicerone domanda: « Qual colonia la Grecia ha ella mai inviata nell’Etolia, nell’Ionia, nell’Asia, nella Sicilia, nell’Italia senza aver consultato l’oracolo di Delfo, di Dodona o di Ammone? Qual guerra ha ella mai intrapreso senza il consiglio degli dei? » (De divinat., lib. I, c. I). Allo scopo di essere più vicini all’oracolo e più pronti a ricevere i di lui consigli, gli Anfizioni venivano a tenere le loro sedute a Delfo, allorché si trattava di deliberare sulle faccende generali della Grecia. (Strab., lib. IX). – Ora tutte queste questioni di pace e di guerra, d’intraprese importanti e di pubblica amministrazione, la cui soluzione era richiesta agli oracoli, è forse la moltitudine ignorante che le trattava? È forse essa che sulla stessa autorità, mandò per un lungo seguito di secoli, le colonie per cui tanti paesi, in Asia e in Europa, ricevettero i loro primi abitanti? Nella Grecia, come nel resto del mondo, la fede agli oracoli era dunque, per i grandi come per il popolo, il primo articolo di religione. Quanto agli oracoli mediante i sogni, dei quali parla il pagano Cecilio, erano comunissimi e molto stimati anche da personaggi di prima qualità. Abbiamo inteso Cicerone e Tertulliano nominarne un gran numero, ed aggiungere che si incontravano ad ogni passo. Strabono riferisce, come un fatto a tutti noto, che una quantità infinita di persone se ne andava a dormire nel tempio di Serapide, a Canopo, per conoscere i rimedi alle loro infermità o a quelle dei loro amici. 3 (Strab., 1. XVII). Si legge in Arriano, che i principali ufficiali dell’esercito di Alessandro andarono pure a passare la notte nel tempio dello stesso Dio, ad Alessandria, a fine di sapere se essi vi dovevano trasportar il loro padrone per essere guarito dalla malattia della quale morì. (De expedit. Alexand., lib. VII). – A testimonianza di Cicerone, gli efori e i loro magistrati di Lacedemone avevano usanza d’andare a cercare nel tempio di Pasifae vicino alla loro città, dei sogni profetici, che essi consideravano come certi, concernenti gli affari della repubblica. (De divinat., lib. I, c. XLIII). Per gli stessi fini la madre d’Augusto andava con le matrone romane, a dormire nel tempio di Apollo. (Svet. in Aug., c. XCIV). Infine, l’imperatore filosofo, Marco Aurelio, la più alta personificazione della sapienza, agli occhi dei pagani moderni, scrive egli medesimo: « Un grande segnale della cura degli dei per me, si è che nei sogni essi mi hanno insegnato dei rimedi per le mie malattie, particolarmente pel mio flusso sanguigno e per le mie vertigini, come mi avvenne a Gaeta. » (Marc’Aurel. Anton., De rebus suis, lib. I, n. 17, ad fìnem). La consultazione per via di sogni si faceva, ora dormendo sopra letti destinati a quest’uso, nei templi degli oracoli notturni, e durante il sonno i demoni davano i loro consigli; ora tenendo in mano un biglietto sigillato in cui stavano scritte le domande e sul quale, la mattina appena svegliati, si leggeva la risposta. Altre volte, si mandava all’oracolo una consultazione sigillata, ed egli vi rispondeva senza aprir la lettera. Questo fece un giorno l’imperatore Traiano, il quale essendosi proposto di fare la guerra ai Parti, i suoi ufficiali gli parlarono con elogio dell’oracolo di Eliopoli e lo spronarono vivamente a consultarlo. Traiano che non vi aveva molta fede, e che temeva qualche inganno, spedì all’oracolo una lettera sigillata alla quale chiedeva una risposta. Ora questa lettera non era che in bianco. Senza aprirla, i sacerdoti la presentano al Nume. Questi per rendere a Traiano il contraccambio, ordina che all’imperatore gli sia rimandato un pezzo di carta in bianco ben piegata e sigillata. Una tale ingiunzione spaventò i sacerdoti, poiché essi ignoravano lo stratagemma di Traiano. Egli rimase talmente colpito di meraviglia, che subito confidò nell’oracolo. Gli inviò dunque una seconda volta un biglietto sigillato col quale chiedeva al Nume se ritornerebbe a Roma dopo aver terminata la guerra che stava per intraprendere. Il Nume ordinò che si pigliasse una vite, che era una delle offerte del suo tempio; che la si facesse in pezzi e la si portasse a Traiano. L’avvenimento, aggiunge Macrobio, fu perfettamente conforme a quest’oracolo; imperocché Traiano morì in quella guerra, e si riportarono a Roma le sue ossa, che erano state rappresentate dalla vite spezzata. (Amm. Marcellin., lib. IX, c. XI.) Accadde la stessa cosa al governatore di Qilicia, del quale parla Plutarco. Questi era un epicureo il quale, in tale qualità, faceva professione di non credere agli oracoli. Per burlarsene, invia all’oracolo di Mopso uno dei suoi domestici con una lettera sigillata, chiedendo a questa una risposta che deve darsi in un sogno. Parte il domestico, ignorando il contenuto del biglietto; egli dorme nel tempio e. di poi ritorna dal suo padrone, al quale riferisce quel che ha veduto in sogno, e quel che gli fu detto. Sorpreso di ricevere la sua lettera sigillata tale quale l’aveva mandata e di vedere che le parole del suo domestico erano la risposta esatta di quel che aveva richiesto, ne parlò agli epicurei suoi amici, i quali non seppero che replicare. (Plutarch., De defectu oraculor. ; vedi pure Tacito, Annali, lib. II; Strab., lib. XVII, ecc., ecc.). Indipendentemente da queste incontrastabili testimonianze che abbiamo lette, due fatti bastano per dimostrare l’esistenza, l’antichità e l’universalità degli oracoli per via dei sogni. Il primo, è la proibizione fatta agli Ebrei di ricorrervi, e la condanna dei temerari che osano abbandonarsi a questa pratica demoniaca: « Che nessuno tra di voi, dice il Signore, osservi i sogni…. Ogni giorno ho teso le braccia ad una razza incredula e provocatrice, la quale si reca a dormire nei templi degli idoli per avere dei sogni. » (Deuter., XVIII, 10). Nello spiegare questo passo, san Girolamo aggiunge: « Ivi essi dormivano sulle pelli delle vittime, a fine di avere dei sogni rivelatori dell’avvenire. Cosa che ancora si fa tra i gentili, schiavi dello spirito d’errore, nel tempio d’Esculapio e in molti altri.3 » (Corn. a Lap., In hunc loc.; — e Tertull., De anima, c. LIV). La seconda testimonianza, non meno autentica, é l’usanza in cui era il Signore medesimo di adoperare i sogni per rivelare le sue volontà ai suoi servi: nuovo tratto di parallelismo che il re della Città del male non poteva mancare di aggiungere a tanti altri, e di contraffare a suo prò. Havvene uno non meno sorprendente e preso nello stesso ordine di fatti. Gerusalemme era il soggiorno di Jehovah, e da Sion partivano le voci direttrici della Città del bene. Da tutte le parti della Giudea e del mondo vi accorrevano i servi del vero Dio. (De Sion exibit lex, et Verbum Domini de Jerusalem. Is., XI, 3). – Delfo è l’insolente parodia di Gerusalemme. Il suo oracolo è il più famoso dell’universo; di là, da quell’antro del serpente Python, escono le voci direttrici della Città del male. Per ascoltarle si vedono accorrere a turbe innumerabili, da tutte le parti della terra, gli adoratori di satana. Sarebbe lunga la lista dei legislatori, dei re, degli imperatori, dei magistrati, dei capi di repubbliche, dei generali d’armata, dei filosofi, degli uomini celebri per diversi titoli dell’Europa e dell’Asia, dell’Oriente e dell’Occidente, i quali per migliaia d’anni hanno consultato in persona e per mezzo dei loro inviati il dio Pitone, intorno alle loro imprese, o invocata la sua assistenza. (Vedi Baltus, t. II, c. xiv, xvi xvi). Tale era la venerazione di cui godeva, che le città della Grecia ed anche i principi stranieri mandavano a Delfo ricchi doni, o vi mettevano i loro tesori in deposito sotto la protezione di quel nume. Nuova parodia satanica del tempio di Gerusalemme, nel quale i particolari depositavano le loro ricchezze, come ce lo insegna la storia di  Eliodoro. – Il tempio di Delfo, dicono gli autori pagani, era di una infinita ricchezza. Vi si vedeva una quantità prodigiosa di vasi, di tripodi, dì statue d’oro e d’argento, di bronzo e di marmo, che i re, i principi e le intere nazioni vi mandavano da tutte le parti. (Pausania in Phocoeis, impiega una gran parte del libro decimo nell’enumerare le ricchezze del tempio). Si può giudicare dei tesori che racchiudeva, da un fatto rimasto

celebre. I Focesi avendo saccheggiato quel tempio, Filippo di Macedonia, fece stimare da dei commissari il bottino che avevano rubato. L’affare fu giudicato dal consiglio degli Anfizioni, i quali condannarono i rei a restituire sei mila talenti, ovvero diciotto milioni della moneta nostra, rappresentante il valore di ciò che avevano sottratto, e non avevano preso tutto. (Dizionario delle antichità, etc., art. Tempio). Credere che queste splendide testimonianze di rispetto e di fiducia non fossero che passeggiere, sarebbe un errore. La fede dell’ universo al Serpente delfico si conservò viva e generale, anche dopo la predicazione del Vangelo: « Ai dì nostri, dice Plutarco, il tempio di Delfo è più magnifico che mai. Si è scoperto dagli antichi fondamenti che il tempio cominciava a rovinare, e ne sono stati aggiunti dei nuovi. La piccola città che ricava il suo nutrimento dall’oracolo, come un piccolo albero vicino ad uno grande, è oggi più considerevole che non fosse stata da mille anni in qua. » (De Pythiæ oraculo I, sub fine). – Noi domandiamo di nuovo, le immense ricchezze delle quali è pieno il tempio di Delfo, come pure tutti i templi di oracoli, non vengono esse altro che da ignoranti e da poveri, facili vittime della ciurmeria sacerdotale? Se è manifesto che la maggior parte fu l’omaggio dei ricchi, dei principi, dei governi; a chi farete voi ammettere una complicità universale, o una allucinazione di venti secoli, per parte di tutto quel che voi medesimi ci davate per il fiore dell’umanità, per il genio, l’indipendenza, e la virtù? Se Pascal ha detto con ragione: Io credo volentieri a dei testimoni che si lasciano scannare, con qual diritto ricuserete voi alla storia quello di ripetere: io credo volentieri a milioni di testimoni i quali per attestare la verità degli oracoli, hanno sacrificato per due mil’anni ciò che hanno avuto di più caro, i loro figli e le loro ricchezze? Aggiungasi pure: e che gli sacrificano ancora. La credenza agli oracoli satanici non ha cessato. Su tutta la faccia della terra non diretta dall’oracolo divino, essa regna nella pienezza della sua antica forza. Essa comanda come in antico, gli umani sacrifici, o altri atti contrari, sino ai più vivi sentimenti della natura; e come anticamente ancora essa resta comune, tanto presso i privati e presso i re, quanto presso ai dotti ed agli ignoranti. Il mondo è coperto di oracoli, oraculis stipatus orbis. Difatti, sono da diciotto secoli che in Egitto, in Grecia, in Italia, a Cartagine, nelle Gallie e nella Germania, la parola di Tertulliano continua ad essere la stessa: come l’è ancora in Cina, nel Thibet, nelle Indie, in Africa, nell’America e nell’Oceania. Fra migliaia di testimonianze che trovansi registrate nelle relazioni dei viaggiatori, o nelle lettere dei missionari, (Vedi gli Annali della propag. della fede: n. 55, p. 176; n. 95, p. 809; n. 197, p. 275-279, ecc., ecc.), e che stabiliscono la permanenza di questo fatto che voi siete liberi di chiamare strano, assurdo, incredibile, ma che pur tuttavia è un fatto, noi ne citeremo due solamente, presi da popoli di differenti costumi e separati da grandi distanze. Nel 1801, alcuni viaggiatori inglesi scrivevano da Madagascar: « Qui, specialmente alla Corte, vi è l’usanza di consultare l’oracolo Sikidy in, ogni occasione grande, o piccola. Ciò si fa nel modo seguente: Un certo numero di fave, o piccole pietre vengono mescolate insieme; e secondo le figure che esse formano, la gente istruita nell’arte della divinazione predicono un resultato favorevole o sfavorevole. Vi sono più di dodici oracoli interpreti addetti alla Corte e, nelle più futili circostanze la regina ha la premura di consultarli. Essa ha una tal fede in Sikidy, che la sua volontà piega sempre dinanzi all’oracolo, e che la sovrana dispotica è la prima schiava del suo impero. Se vuol fare un viaggio, la regina consulta Sikidy allo scopo di sapere qual giorno e in qual ora deve essa partire. Essa lo consulta a proposito della sua toelette e della sua tavola, e anche decide a qual fonte deve essa attingere l’acqua per rinfrescarsi. Alcuni anni fa, era in uso generalmente di consultare Sikidy nel nascimento dei figli, e di sapere se l’ora in cui eran venuti alla luce era un’ora fasta; se nefasta, il povero bambino era depositato lungo una di quelle strade, per le quali passano grandi mandre di buoi. Se gli animali passavano sopra al bambino senza fargli del male, la sorte infelice sembrava scongiurata, e l’infante era trionfalmente ricondotto alla casa di suo padre. Pochissimi uscivano sani e salvi da questa prova pericolosa, ma la maggior parte di questi soccombevano. La regina ha proibito questo modo d’interrogare la sorte, ed è forse la sola legge d’umanità che sia stata promulgata durante tutto il suo regno. (Viaggi nel Madagascar, 1861). – Questa regina, la celebre Ranavaio, possiede una superba reggia, poche leghe distante dalla sua capitale; di quando in quando ella va a passarvi alcune settimane secondo che gli oracoli glielo vogliono pur permettere … Allorquando gli stranieri giungono alla capitale, è costume che si fermino alcuni giorni a piè della città fino a che non si è consultato gli oracoli, e che non sia loro mandato l’autorizzazione di salire. (Annali della propag. della fede, n. 197, pag. 275-279. — Uno dei nostri missionari era alle Indie, allorché il fenomeno delle tavole giranti faceva gran fracasso in Europa. Tornato a Parigi ei diceva: « La notizia giunta appena nell’Indie, gettò gli Europei nella più gran meraviglia. Quanto agli indigeni una sola cosa li meravigliava, cioè la meraviglia degli Europei. » – Come presso tutti i popoli pagani d’una volta, Babilonesi, Egiziani, Greci, Romani, Galli, Scandinavi, gli atti della vita pubblica e privata delle nazioni idolatre d’oggidì, sono regolati sugli oracoli. Ad ogni pagina del suo recente viaggio alle sorgenti del Nilo, il capitano inglese Speache, testifica questo fatto, In tutte le tribù della costa orientale dell’Africa voi trovate dei medium o indovini, consultati di continuo e religiosamente obbediti, tanto dai principi che dal popolo. La stessa abitudine è nell’interno dell’Africa, e altrove dappertutto. Più di frequente si ricorre agli oracoli nelle malattie; sappiamo per bocca di due venerabili vescovi missionari i fatti seguenti, che datano da ieri: « Quando un Galla è malato, egli chiama subito lo stregone o la stregona (ed io sono stato testimone cento volte di quel che sto per raccontare): giunta presso l’infermo, la stregona comincia ad agitarsi; l’agitazione diventa ben presto convulsiva; dalla convulsione si passa a contorsioni spaventevoli. Ho veduta una di queste donne, battere il tamburo sulle sue reni con la sua anca. A questo segnale si riconosce la presenza dello Spirito; e allora la pitonessa descrive la malattia, e indica i rimedi. » (Racconto di Monsignore Massaia). – « Anche nella Cocincina si mostra la stessa sollecitudine di far venire gli interpreti dello Spirito, che d’ordinario sono due. Uno è munito di un tamburello col quale si serve per chiamare lo Spirito; quest’è l’incantesimo, o l’antico carme. L’altro ascolta: a poco a poco entra in crisi. Il parossismo non tarda a manifestarsi con contorsioni e movimenti disordinati che trasformano quell’essere umano, a guisa di un mezzo demonio, tanto egli diventa spaventoso a vedere. Per assicurarsi che egli è in pieno possesso dello Spirito, gli vien portato una gallina; la prende e la divora tutta intera con le zampe ed il capo, cosicché non resta niente. Dopo questa operazione egli dà le risposte richieste. » (Racconto di Monsignore Soyher). Questi popoli non sono già tanto creduli, poiché per credere vogliono dei segni: questi segni sono cose umanamente impossibili. Non è che dopo esserne stati testimoni che essi credono agli, oracoli, e fanno ciò che prescrivono. Aggiungasi che nel 1864 tutti gli indovini del regno, furono invitati all’incoronazione del re di Cambodge, e che in Cocincina ancor’oggi non prende mai il mare una nave, senza che prima non si sia consultato l’oracolo. Mentre a Madagascar la stessa regina, seguendo l’esempio degli imperatori romani e dei grandi personaggi dell’antichità, regola la sua condotta dietro il responso degli oracoli; nel celeste impero il semplice Cinese gli consulta intorno ai suoi affari domestici, come anticamente il popolo di Roma e di Atene. Imperocché il Cinese, la cui filosofia volterriana formava il tipo della civiltà, è fervente discepolo degli oracoli. Un Missionario scrive: « Noi reclutiamo una gran parte dei nostri neofiti in una certa classe di donne, delle quali pare che Dio abbia più compassione, perché sono esse incorse nell’anatema che i Cinesi appellano, la sorte dell’infelicità. Ed eccone la storia. All’epoca degli sponsali, è uso tra gli infedeli d’invitare un indovino per trarre l’oroscopo della giovine, e predire i suoi futuri destini. Il medium si reca all’invito dei parenti, appena giunto nella casa, egli fa delle evocazioni e adempie ad altre pratiche demoniache. Di poi egli presenta al fanciullo un’urna, nella quale sono rinchiuse le sorti, parte felici e parte funeste, con questa differenza, che le buone, sono incomparabilmente più numerose. « La povera giovine pone tremando la mano nell’urna fatale, ignorando se è un avvenire ridente, o una eredità di disgrazie che essa è per trar fuori. Se viene favorita, tutti se ne rallegrano, e gli sponsali si concludono senza indugio. Ma se la sorte la tradisce, la sua sentenza è pronunziata, la sua. gioventù appassita, la sua vita intera, maledetta. Essa deve curvare per sempre il capo sotto il peso dell’universale disprezzo. Per lei non vi è più pace, neppure la compassione di sua madre. Ella crescerà solitaria ed abominata sotto il tetto paterno, del quale è l’obbrobrio; imperocché i pagani hanno tanta fede in questi auguri che il più povero tra di loro non vorrebbe sposare la più ricca erede che avesse avuto questa trista sorte, convinti che quell’alleanza trae seco inevitabili calamità. » (Annali della propagaz. della fede, n. 95, p. 809). Questo fatto, del quale si avrebbe torto se si ponesse in ridicolo, avendo delle conseguenze così gravi, è la contraffazione satanica della profezia, per via delle sorti che noi vediamo impiegate nella Scrittura. (Sortes mittuntur in sinum, sed a Domino temperantur. Prov. XVI, 33). – II re della Città del male, vuol mostrare ai suoi sudditi che egli dispone, per rivelar loro l’avvenire, delle voci, dei sogni, delle sorti e di tutti i mezzi adoperati dal Re della Città del bene. Qui, come altrove, i suor responsi sono un miscuglio di falso e di vero, mediante il quale, con tutto ché resti sempre il padre della menzogna, pure egli riesce a sedurre gli uomini. Questa tattica è invariabile. Tale la vediamo noi oggi nello Spiritismo, come i nostri padri la conobbero. Dice Minuzio Felice : « I demoni rendono degli oracoli mescolati a molte menzogne; imperocché essi sono ingannati e ingannatori; non conoscono la pura verità, e quella che conoscono per loro perdizione, non la manifestano nella sua purità. » (In Octav.). – Sant’Agostino usa lo stesso linguaggio: « I demoni sono il più delle volte ingannati e ingannatori. Sono ingannati, perché nel momento in cui annunziano le loro previsioni, accade inopinatamente dall’alto qualche cosa che arrovescia tutti i loro consigli. Sono ingannatori, per lo stesso desiderio d’ingannare, e pel piacere di trascinare l’uomo nell’errore. – Però, a fine di non perdere il loro credito presso i loro adoratori, agiscono in modo che la colpa sia imputata ai loro interpreti, intanto che essi medesimi sono ingannati o ingannatori. » (De divinat. daem., c. V). – A meno che non si neghi l’istoria sacra e profana, i fatti che precedono, annullano l’obiezione degli epicurei antichi e moderni, contro l’esistenza universale degli oracoli, contro la fede del pari universale agli oracoli, e contro l’influenza suprema degli oracoli nel governo religioso e sociale del mondo pagano. A questo modo è data la prova perentoria delle verità fondamentali che volevamo stabilire. La prima, cioè la presenza permanente e perpetuamente attiva di satana in mezzo alla sua Città; la seconda, il costante parallelismo delle due Città, nell’ordine religioso e nell’ordine sociale. A fine di renderle più spiccate, riassumiamo in poche parole questi punti essenziali (Diciamo essenziali perché sono la luce della storia; perché l’epoca nostra più. di qualunque altra, si agita contro il soprannaturale; perché da parecchi secoli, rispetto al demonio e alla sua azione sul mondo, l’educazione stessa dei cattolici è volterriana. La più parte ignorano i fatti demoniaci, o gli trattano come racconti di buone donne. Per essi satana è un sovrano detronizzato, che sarebbe puerile il temere, e del quale è meglio non occuparsi) nella storia dello spirito del male e dello Spirito del bene. Come l’uomo medesimo, così il genere umano è un essere istruito. Tutto ciò che egli sa, gli viene dal di fuori. Ora egli sa il bene ed il male, lo sa fino dal momento della sua caduta. Da sei mil’anni in qua, due voci opposte e due solamente, hanno dunque risuonato nel suo orecchio; voci soprannaturali da lui sempre seguite, che segue tuttora e che sempre seguirà, anche quando nell’orgoglio della sua debolezza egli si proclama con più burbanza, indipendente. Dunque il mondo è stato sempre diretto da degli oracoli. Voce della verità e voce della menzogna: oracoli divini, o oracoli satanici; colui che vi nega non capisce sé medesimo. Sulle pagine cancellate della storia, lo. scrivere un certificato di follia universale, o riconoscere che a tutte le ore della sua esistenza, sotto tutti i climi, in tutti gli stati della civiltà, l’umanità è stata diretta da oracoli, e che i principii ispiratori degli oracoli sono inevitabilmente lo Spirito del bene o lo spirito del male, lo Spirito Santo o satana: questa alternativa crudele è uno degli assiomi della geometria morale: Quanto al parallelismo delle due Città, i raffronti seguenti che ne disegnano le grandi linee, sono oramai fuori di contrasto. – La Città del bene ha la sua religione, nella quale nulla è lasciato all’arbitrio dell’uomo. Essa ha le sue leggi sociali venute dal cielo, e delle quali lo stesso Dio, reso sensibile in mezzo al suo popolo, rimane l’interprete e il custode. Ora Egli parla per mezzo dei suoi Angeli, ora per mezzo dei suoi Profeti; un’altra volta mediante le sorti e per mezzo dei sogni. Sempre Egli autorizza la sua parola per mezzo di miracoli, con cui colpisce gli spregiatori di esemplari castighi. Ne risulta che nell’ordine sociale, non meno che nell’ordine religioso, lo Spirito Santo è veramente il principe e il Dio della Città del bene. Così la religione del male ha la sua religione, dove ogni cosa è regolato da una autorità superiore all’uomo. Essa ha le sue leggi sociali, delle quali lo stesso demonio, reso sensibile sotto la forma preferita del serpente, è l’ispiratore, l’interprete e il guardiano. I suoi angeli, i suoi indovini, i sogni e le sorti sono a vicenda gli organi della sua volontà. Sempre egli autorizza la sua parola con prestigi, e la fa rispettare per mezzo di punizioni. Ne resulta che nell’ordine sociale, non meno

che nell’ordine religioso, satana è veramente, secondo la parola del Vangelo, il principe ed il re della Città del male. – La Città del bene ha il suo gran sacerdote incaricato di dirigere i sacri ministri, di regolare le cerimonie del culto, di pronunziare in ultima analisi sopra una infinità di questioni religiose e civili. Questo gran sacerdote si chiama alternativamente Aaron, Samuele, Osia. La Città del male ha essa pure il suo gran sacerdote, investito del potere di iniziare i sacerdoti inferiori, di presiedere le loro assemblee, di ricevere le vestali e di giudicarle, di convalidare le adozioni, e di conoscere intorno a certe cause relative ai matrimoni. In Roma, capitale del vasto impero di satana, questo sovrano pontificato della Città del male, fu esercitato, ora dal gran sacerdote Giulio Cesare, ora dal gran Tiberio, ora dal gran sacerdote Caligola, dal gran sacerdote Nerone e da Eliogabalo: questa dignità era a vita. La Città del bene ha la sua incarnazione divina, i suoi sacrifici, i suoi digiuni, le sue penitenze, le sue preghiere del giorno e della notte. La Città del male ha tutto ciò sopra tutti i punti del pianeta. Si conoscono specialmente le incarnazioni antiche, e le incarnazioni indiane, le austerità dei bonzi e dei fakiri, le preghiere dei lama. « Alla scoperta del Messico restammo meravigliati dei dolorosi supplizi che si infliggevano i sacerdoti del sole. Quattro di essi erano designati ogni quattro anni per fare penitenza durante quel periodo, con austerità, il cui rigore fa fremere. Si abbigliavano come i più poveri. Il loro cibo di ogni giorno si riduceva ad una galletta di grano d’India che pesava due once, e la loro bevanda una piccola tazza di brodo fatto dello stesso grano. Due di loro vegliavano ogni notte cantando lodi agli dei, incensando idoli quattro volte, secondo le ore delle tenebre, e, bagnando col loro sangue

i bracieri del tempio. » (Acosta, Storia naturale, ecc., t. II, c. XXX). Oltre questa espiazione perpetua, vi era una penitenza particolare, chiamata la grande veglia alla quale tutti si assoggettavano, e durava un mese. – Siamo lieti di dirlo: questa dottrina, con la quale si rende conto di tutto, e senza la quale non si può render conto di nulla, non è nostra. Esponendola, non facciamo che riassumere la storia del genere umano, e tradurre uno dei più dotti Padri del Concilio di Trento. In seno a quella augusta assemblea il reverendo Padre maestro Cristoforo Santozio cosi si esprimeva: « satana

vide che Iddio voleva essere pacificato con dei sacrifici, egli pure ne ottenne per sé medesimo, accompagnati da orribili cerimonie. Vide che Iddio parlava agli uomini per mezzo dei suoi Angeli e suoi Profeti; egli stesso parlò per bocca degli idoli. Iddio ebbe il suo tempio, ove accorreva il popolo fedele. satana se ne fece erigere dei magnifici nelle varie parti della terra, ove migliaia d’uomini vennero a rendergli i loro omaggi. Dio ebbe i suoi Profeti ai quali il popolo portò gran rispetto; satana ebbe i suoi oracoli, i suoi indovini, oggetti della venerazione universale. A questi mediatori tra lui e gli uomini, affidò la cura di propagare la sua religione.1 » (Orat. R. P. M. Christoph. Sanctotii Burg. Ad Patr., Conc. Trid. apud Labbe Cotteci., t. XIV, 1601). Quando da tutti questi tratti sparsi, lo spirito forma un solo quadro, si domanda ciò che manca d’essenziale alla parodia satanica di Jehovah, dio, legislatore, oracolo e custode della religione e della società in Israele? Ci resta adesso da provare che la stessa parodia si trova nell’ordine politico.

[Continua …]

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (27)

Mons. J. J. GAUME

TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXVI.

(altra continuazione del precedente.)

Lo Spirito Santo, oracolo e direttore dell’ordine sociale nella Città, delbene — satana, oracolo e direttore sociale della Città del male —Esistenza universale degli oracoli satanici: testimonianza di Plutarcoe di Tertulliano — Credenza universale negli oracoli: passidi Cicerone, di Balto — Erano gli stessi demoni che rendevano glioracoli; parole di Tertulliano, di san Cipriano, di Minuzio Felice — Gli oracoli non erano una ciurmeria; prove.

Si disse che Jehovah, presente nel tabernacolo e nel tempio, non era solamente il Dio del suo popolo edil custode della religione; ma altresì l’oracolo e il direttore della società civile e politica, cioè dire, che dal fondo del suo santuario Egli dirigeva tutte le imprese della sua Città, i cui membri avevano cura di non far nulla senza consultarlo. Le sue volontà si manifestavano ora con sogni, ora con voci, o con oracoli. Tutti i tratti di questo parallelismo si rinvengono nella Città del male. Credere che la presenza del dio serpente in mezzo al mondo, non avesse che un motivo, uno scopo puramente religioso, sarebbe un errore. Essa ne aveva uno, che era principalmente quello sociale. In altri termini vuol dire che, dal fondo dei suoi santuari, satana dirigeva, non solamente la religione, ma la società pagana, con i suoi oracoli e co’suoi prestigi ( … oggi ugualmente lo fa nelle retrologge massoniche! –ndr. – ). Di questo nuovo fenomeno le prove sono numerose quasi quanto le pagine della storia. Il mondo pagano era pieno d’oracoli; ed abbracciava tutta quanta la terra eccetto la Giudea. Intorno a questo punto la storia cristiana e la1 storia profana sono unanimi. Tanto in nome dell’una che dell’altra ascoltiamo Plutarco e Tertulliano: il primo, sacerdote degl’idoli; il secondo, sacerdote del vero Dio. Plutarco così si esprime: « Il primo articolo dell’istituzione delle leggi e della polizia è la credenza e persuasione degli dei, mediante la quale Licurgo santificò anticamente i Lacedemoni, Numa i Romani, Io gli Ateniesi, e Deucalione tutti i Greci universalmente rendendoli devoti e affezionati verso gli dei, in preghiere, giuramenti, oracoli e profezie; di modo che andando per il mondo, voi troverete delle città senza mura, senza accademie, senza re, senza argento, senza moneta, senza teatri, e senza ginnasi; ma non troverete mai che siano senza Dio, senza preghiera, senza sacrifici per ottenere beni e scansar mali. Nessun uomo vive né vivrà mai senza di esso; sarebbe più facile fabbricare una città per aria, che fabbricarne o conservarne una senza religione. » (Contre Colotes, c. XVIII). – Formulando in una sola parola il pensiero di Plutarco, dice Tertulliano, che « il mondo è ingombro di oracoli, oraculìs stipatus est orbis. » (De Anima, c. XLVI).  Per citare solamente alcuni dei più noti: voi avete Beelzebub, presso i Filistei; Moloch, presso i Moabiti; Belo, a Babilonia; Giove Ammone, in Egitto. Nella Grecia, Delos, Claros, Pafo, Delfo, Dodona. In Italia voi trovate i celebri oracoli di Gerione a Padova; di Diana a Preneste; di Ercole a Tivoli; d’Apollo ad Aquileia, e a Baia; della Sibilla a Cuma: a Roma e nei contorni, quelli di Marte, di Esculapio, del Vaticano, di Clitumno, di Giano, di Giove Pistore; quelli d’Anzio, quello di Podalirio in Calabria e più di cento altri. (Vedi Baltus, Storia degli oracoli, ecc. – La stessa Giudea ne era circondata. Il consultarli era una delle più forti tentazioni del popolo di Dio; sino al punto che la pena di morte minacciata nella legge, non lo difendeva sempre. Dopo lo scisma delle dieci tribù, gli oracoli furono in permanenza nel mezzo d’Israele. (Vedi, tra gli altri, IV Reg. 1-2; e i luoghi in cui è parlato dei sacerdoti di Baal. Lo stesso Saul consulta la pitonessa di Endor, cioè una donna invasa da uno spirito chiamato Python, del quale si parla spesso nella Scrittura.33 (Dixitqué Saul servis suis: Quærite mihi mulierem habentem Pythonem, et vadam ed eam, et sciscitabor per illam. I Reg,, XXVIII, 7. — Notisi con Baltus che Python pare vengada una parola ebraica che significa serpente, « nome convenientea quello che ispirava tutti quei falsi profeti. Ivi, seguito della risposta, I parte, 142).E poi che cosa erano le risposte degli auguri e degliauruspici se non oracoli o l’intèrpretàzione degli oracoli?Ora gli auguri e gli auruspici s’incontravano su tutti ipunti del pianeta, nelle città e nelle campagne: e la loroscienza era l’oggetto di uno studio universale. « È unfatto costante, dice Cicerone, che presso gli antichi, icapi dei popoli erano re ed auguri nello stesso tempo.Governare e conoscere i segreti divini erano agli occhi loro due funzioni egualmente regie. Su di che Roma, i cui re furono altresì auguri, in qua et reges, augures, ci fornisce grandi esempi. Dopo di essi, le persone particolariche sono state rivestite dello stesso sacerdozio hanno governato la repubblica per mezzo dell’autorità della religione.« Questa specie di divinazione non è stata trascurata neppur presso i barbari. Vi sono nelle Gallie dei Druidi, tra i quali ho conosciuto Dividiaco d’Autun, che dicono conoscere l’avvenire, parte per scienza augurale, parte per congettura. Fra i Persi i maghi sono auguri e indovini…. e nessuno può essere re di Persia senza essere stato istruito prima nella scienza dei maghi. Vi sono pure famiglie e nazioni intere che’ si sono particolarmente date alla divinazione. Tutta la città di Telmesse nella Caria si distingue nella scienza degli auruspici. Nell’Elide, città del Peloponneso vi sono due famiglie,una dei Giamidi, l’altra dei Clytidi, molto celebri in questa scienza.« Soprattutto l’Etruria ha la reputazione di possedere una grande cognizione delle folgori, (Sapevano che mediante certe formule magiche si poteva chiamare o allontanare il fulmine. (Exstat annalium memoria sacris quibusdam ac precationibus vel cogi fulmina vel impetrare Ansaldi, Hist. lib. II, c. 54), e di sapere spiegare quel che ogni fenomeno può presagire. Per questo motivo i nostri antenati, allorquando fioriva l’impero, ordinarono molto saviamente che sei figli dei principali senatori fossero inviati presso ciascun popolo dell’Etruria, a fine di esservi istruiti nella scienza degli Etruschi; per tema che, a motivo della corruzione degli uomini, non accadesse in seguito, che una sì grande autorità nella religione non venisse ad essere esercitata sotto titolo di guadagno da persone mercenarie. Quanto ai Frigii, ai Pisidi, ai Cilicii e agli Arabi, essi si regolano d’ordinario con i segni ch’essi traggono dagli uccelli: il che si fa ugualmente nell’Umbria. » (De Divinat. lib. I, c. XII, ediz. in-8. Parigi, 1818). – II vero Dio, abbiamo detto che manifestava le sue volontà per via d’oracoli propriamente detti: e si vede di continuo i conduttori d’Israele consultare il Signore nel tabernacolo,, o nel tempio per mezzo di voci misteriose che si udivano senza vedere, o vedendo l’essere da cui uscivano: testimoni Agar, Gedeone, Samuele a Silo, Saulle sulla strada di Damasco, Per mezzo di sogni, testimone Giacobbe, Giuda Maccabeo e molti altri. satana ha contraffatto tutti questi generi di rivelazione. Quanto agli oracoli propriamente detti, abbiamo già visto che erano innumerevoli nella Città del male. Se poi si tratta di voci misteriose, più sotto ne citeremo un esempio dei più notevoli. Frattanto ecco ciò che dice Cicerone: « I Fauni hanno fatto udire le loro voci: sovente gli dei sono comparsi sotto forme talmente sensibili, da forzare chiunque non è stupido o empio a riconoscere la loro presenza. » (Sæpe faunorum voces exauditæ; sæpe visæ formæ deorum, quemvis non hebetem aut impium, deos præsentes esse confìteri coegerunt. De Natur. Deor., lib. II, c. III). E altrove: « Sovente ancora, secondo la tradizione, si sono uditi dei fauni in mezzo alle battaglie, come pure vere voci si son fatte udire nei tempi di agitazione, senza che si potesse sapere donde venissero. Fra molti esempi di questo genere due soprattutto sono degni d’esser notati. Poco innanzi la presa di Roma si udì una voce che veniva dal bosco consacrato a Vesta…. e questa voce avvertiva che si avessero a ricostruire le mura, perché diversamente la città sarebbe presa in breve…. L’oracolo non fu riconosciuto che troppo vero. » (Sæpe etiam et in præliis fauni auditi: et in rebus turbidis veridicae voces ex occulto missæ esse dicuntur; cuius generis duo sunt ex multis exempla, sed maxima, etc. De Divinai., lib. I, c. XLV). – Si conoscono le quercie dodoniche, la cui specie non è estinta. « A Joal, scrive uno dei nostri missionari d’Africa, vi sono degli alberi fatidici e dei riti misteriosi per 1’evocazione dei genii. » (Annali della Prop. della Fede, n. 209, p. 270, an. 1868. — Trovansi ancora degli usi antichi trasformati, è vero, ma riconoscibili nelle abitudini della Grecia moderna. « La divinazione mediante l’esame delle ossa, diceva la signora Dora d’Istria, e particolarmente mediante la spalla arrostita, è una trasformazione evidente della ispezione delle interiora delle vittime, della quale si parla spesso in Omero. » A Dodona e a Delfo, il lauro venerato rivelava l’avvenire per mezzo della combustione delle sue foglie-sacre. Ai dì nostri, le giovani greche interrogano lo stormir delle foglie di rosa. Le querce fatidiche della Dodona di Epiro in cui i Pelasgi avevano un oracolo tanto famoso quanto il Mantéion di Delfo, ricevevano ancora sotto la loro ombra dei dormienti che domandavano l’avvenire ai loro sogni. Vedi Escursione nella Rumelia ed in Morea della sig. Dora d’Istria. Parigi, 1868). – Quanto ai sogni, Cicerone consacra nove capitoli del primo libro della Divinazione, riferendone alcuni dei più famosi tra i Greci ed i Romani. (Dal cap. XX al c. XXIX). I templi nei quali si andava a domandare, si trovavano dappertutto. « Il mondo, dice Tertulliano, ne era ricoperto. Per citarne qualcuno: chi non conosce quelli di Amfiarao a Oropo; di Anfiloco a Mallo; di Sarpedone nella Troade; di Trofonio nella Beozia; di Mopso in Cilicia; di Ermione in Macedonia; di Pasifae in Laconia? È cosa certa che spessissimo i demoni mandano dei sogni qualche volta veri, graziosi e seducenti e sappiamo perché; ma il più del solito confusi, ingannatori, vergognosi, immondi. » (De Anim, c. XLVI E XLVII). – Come Cicerone, anche il grande apologista ne dà una lunga nomenclatura. La credenza negli oracoli, cioè negli dei parlanti, non era meno universale della esistenza stessa degli oracoli. Udiamo ancora la duplice voce dell’antichità: « L’Oriente e l’Occidente, continua Tertulliano, i Romani. ed i Greci, tutta la letteratura del mondo, crede agli oracoli, gli commenta e gli afferma. » (Ibid.). La nostra Repubblica, dice Cicerone, ed anche tutti i regni, tutti i popoli, tutte le nazioni sono piene di esempi della incredibile veracità degli oracoli. Giammai quelli di Polydes, di Melampodis, di Mopso, di Amfiarao, di Calcante, d’Eleno non sarebbero stati tanto celebri: mai tante nazioni, come 1’Arabia, la Frigia, la Lycaonia, la Cilicia e soprattutto la Pisidia non avrebbero conservato i loro, fino ai nostri di, se tutta l’antichità non ne avesse attestato la veracità. Il nostro Romolo non avrebbe consultato mai gli oracoli per fondare Roma: e la memoria di Azzio Navio non sarebbe stata per sì lungo tempo fiorente, se tutti non avessero detto cose ammirabili di verità.2 (De legib. Lib II, c. XIII). Questa fede del genere umano, Cicerone la fa riposare sul seguente ragionamento: « È certo che vi sono degli dei; dunque essi ci fanno conoscere l’avvenire. Che se ce lo fanno conoscere con dei segni, bisogna checi diano nel tempo stesso il mezzo d’intendere questi segni; questo mezzo non può essere altro che la divinazione, dunque è una divinazione…. Se dunque la ragione ed i fatti stanno a prò mio; se le nazioni, se i barbari, se gli stessi nostri maggiori convengono in tutto ciò che ho esposto: qual argomento vi è per porlo in dubbio? Che se inoltre havvi una cosa che sia stata sempre riconosciuta dai più grandi filosofi, dai poeti più celebri e dagli uomini di un eminente saggezza, i quali hanno fondato le repubbliche, e edificate delle città; aspetteremo noi che le bestie parlino, e che l’accordo unanime del genere umano non basti? La verità degli oracoli è una cosa della quale non si è mai dubitato nel mondo, avanti la filosofia che si è sviluppata in seguito (Era il razionalismo che divorava ciò che rimaneva di antiche tradizioni presso i pagani); ed altresì dopo i progressi di questa filosofia, nessun filosofo ha mai avuto altro sentimento. Epicuro solo è di contraria opinione. Ma devesi contare per qualche cosa il sentimento d’un uomo che sostiene non esservi nessuna virtù gratuita nel mondo ? » (De Divinat. lib. I, c, XXXIX). Parlando dell’oracolo di Delfo in particolare: « Io sostengo, aggiunge lo stesso testimone, che questo oracolo non sarebbe stato mai così celebre né così famoso, mai sarebbe stato arricchito di donativi da tutti i popoli e da tutti i re, se tutte le generazioni non avessero riconosciuto la verità dei suoi responsi. » (Ibid. De divinit. Lib. I, c. XXIX). Più sotto assicura di nuovo, che non è solamente il popolo che crede agli oracoli, ma tutto ciò che vi è di più illuminato nel mondo. « Eccetto, dice, Epicuro, il quale non sa altro che balbettare, parlando della natura degli dei, tutti i filosofi hanno creduto agli oracoli. » (Ibid.). Infatti le scuole di filosofia le più celebri dell’antichità, quali le pitagoriche, le platoniche, le stoiche, difendevano gli oracoli con tutte le loro forze; e trattavano di empi e di atei il piccolo numero di epicurei e di cinici, che non vi prestavano fede. Questa credenza non ha cessato col paganesimo. « Dalla nascita del Salvatore del mondo in qua, dice Baltus, tutti i filosofi ne sono stati incaponiti più che mai. Essi hanno sostenuto gli oracoli con ardore, a fine di sostenere la causa della loro religione che andava in decadimento. Gli stessi epicurei ed i cinici dimenticando in questa occasione i principi e gli interessi della loro setta, li facevano valere quanto era possibile, come lo vediamo dall’opera di Celso nella quale quest’epicureo (Apud. Origen., lib. VII) oppone ai profeti dell’antico testamento gli oracoli della Grecia, ch’egli esalta molto al disopra di quelli dei profeti; e dei quali parla come uomo persuaso della loro eccellenza, e dei grandi vantaggi che ne aveva ritratti. Cosi è lo stesso di Massimo di Tiro, cinico di professione e maestro di Giuliano l’apostata. » Apud. Origen., Risposta, III part. p. 344 e seg. e p. 276). Con la stessa certezza con cui si credeva agli oracoli, si credeva pure alla presenza degli dei che gli rendevano. (Oracula, dice Cicerone, ex eo ipso appellata sunt, quod inest his deorum oratio. Topic; e altrove: Deus, inclusus corpore humano, jam non Cassandra, loquitur. De Divinai., lib. I, c. XXXI). Quindi il nome di un dio dato ad ogni oracolo: Apollo a Delfo; Esculapio a Epidauro; Giove al santuario di Memnone; e così degli altri. Ora quelli che i pagani chiamavano dii, non erano che demoni. Cento volte i Padri della Chiesa, testimoni degli oracoli e dei prestigi, l’hanno provato e con le parole e con i fatti. « Fin qui, dice Tertulliano, ho arrecato delle ragioni; ma ecco dei fatti evidenti, che provano che i vostri dei non sono altro che demoni. Si conduca dinanzi ai vostri tribunali un vero indemoniato, se qualche Cristiano gli comanda di parlare, quello spirito confesserà allora pure veramente che non è che un demonio; e altrove dice falsamente ch’egli è Dio. Chiamate pure quelli che sono ispirati da una delle vostre divinità: o la vergine che promette la pioggia, o Esculapio che guarisce i malati. Se questi dei, non osando mentire al Cristiano che gli interroga, non confessano che sono tanti demoni, voi fate morire sull’atto quel Cristiano temerario. Che cosa vi è di più evidente di questo fatto, di più sicuro di questa prova? » (Apol. C. XXIII). – San Cipriano parla come Tertulliano: « Sono, dice egli, gli spiriti maligni nascosti dentro le statue e dentro le immagini consacrate che ispirano i loro profeti; che agitano le fibre delle viscere delle vittime; che governano il volo degli uccelli, che dispongono delle sorti e che rendono gli oracoli, mescolandovi sempre il falso col vero.  » (De idolor. vanitat.). Poi in prova di ciò che egli dimostra, l’illustre dotto aggiungeva: « Però questi spiriti scongiurati nel nome del vero Dio ci obbediscono nell’atto; essi si sottomettono a noi, tutto ci confessano, e sono costretti ad uscire dai corpi che essi invasano. Si vede che le nostre preghiera raddoppiano le loro pene, che gli agitano, che gli tormentano orribilmente. Si sentono urlare, gemere, supplicare e dichiarare alla stessa presenza di quelli che gli adorano, donde vengono e quando si ritrarranno. » (Ibid.). –  Minuzio Felice, Lattanzio, sant’Atanasio e tutti i Padri latini e greci, affermano lo stesso fatto, e lo affermano, in faccia agli stessi pagani (la forma più recente di oracoli, è quella delle false apparizioni di presunte “Madonne”; in pratica tutte le apparizioni (spuntate come funghi negli ultimi tempi), che la vera Chiesa Cattolica non ha riconosciuto, erano, e sono … tutte provocate da demoni! – Vedi ad es. le false apparizioni sataniche di Medjugorie, puntello fradicio della falsa chiesa del novus ordo!! – ndr. -). –  O tutti questi grandi uomini erano allucinati, oppure bisogna riconoscere che erano ben sicuri di quel che dicevano, allo scopo di fondare sopra una simile prova 1’apologia del Cristianesimo e sulle verità della Religione da essi difesa. (Baltus I parte, p. 90 a 109). Bisognava pure che fosse allucinato, o che la verità degli oracoli gli fosse ben dimostrata perché uno dei più grandi uomini dei tempi moderni, il grave, l’illustre Keplero, non tema di scrivere in faccia alla scienza e alla mezza scienza: «Non si può negare che anticamente i demoni non abbiano parlato agli uomini per mezzo degli idoli, per mezzo delle querce, dei boschi, delle caverne, degli animali, per mezzo delle più mute parti del corpo, talmente che l’arte della divinazione non è nient’affatto una ciurmeria per ingannare i semplici.» (De Stella nova. — Comentarum physiologica, p. 107, in-4, Pragæ, 1606). Del resto tra i Cristiani ed i pagani, il punto in litigio non era la presenza degli spiriti negli oracoli, ma la natura di questi spiriti. I pagani asserivano che quegli spiriti erano tanti dei, e gli adoravano. Al contrario i Cristiani provavano che erano demoni ed avevano orrore del loro culto. Ma ripetiamolo, tutti erano d’accordo sulla presenza di agenti soprannaturali negli oracoli. Abbiamo detto che i Cristiani provavano che tutti questi dei, ispiratori d’oracoli, non erano altro che spiriti maligni, ed i loro argomenti erano senza replica. Da un lato essi forzavano quei pretesi dei a confessare essi medesimi che non erano che demoni. « Voi sapete bene, diceva Minuzio Felice ai suoi antichi correligionari, che i vostri dei, lo stesso Saturno, Serapide, Giove e tutti gli altri che adorate, confessano che non sono che demoni; ora non è credibile che mentiscano essi medesimi per disonorarsi soprattutto alla vostra presenza. Credeteli dunque e riconoscete che sono demoni poiché essi stessi ne fanno testimonianza. » (in Octav.)  Dall’altra parte, riassumendo secondo gli stessi autori pagani, gli oracoli degli dei, e gli atti che ne erano stata la conseguenza, mostravano con l’evidenza della luce che avevano costantemente comandato sacrifici umani e impudicizie che fanno arrossire: insegnata la magia, provocato guerre ed eccidi; lodato empi e scellerati, e annientato la libertà umana, sostenendo dappertutto il domma della fatalità e del destino. (Vedi le prove in Baltus, I parte, p. 118 a 180). – E voi considerate come tanti dei, diceva loro Lattanzio, quelli che oltraggiano a questo modo l’umanità e la verità! Sì, dii, ma dii maligni e perversi, vale a dire spiriti ribelli che vogliono usurpare il nome di Dio ed il culto che gli è dovuto. Non che essi desiderino onori, poiché non ve n’è per essi che si son perduti senza speranza di riabilitazione; né che abbiano la pretensione di nuocere a Dio, giacché nessuno lo può; ma agli uomini. Essi vogliono ad ogni costo stornarli dalla conoscenza e dal culto della maestà suprema, a fine di privarli della beata immortalità che essi medesimi hanno perduta a cagione della loro malizia. Essi offuscano la verità con tenebre e nubi, affinché l’uman genere non conosca né il suo Creatore, né il Padre suo. Per meglio riuscirvi essi si nascondono nei templi, si mescolano ai sacrifici, fanno dei prestigi che fanno stupire, e fanno rendere gli onori divini a dei simulacri di dei. » (Lact., lib. C. XVII). Di qui dunque resultano due fatti: il primo che il mondo pagano era pieno di oracoli; essi lo circondavano, come una linea di circonvallazione circonda una città assediata: oraculis stipatus. Tale è tra mille, la dichiarazione di Plutarco e di Tertulliano, due testimoni oculari, situati agli antipodi l’uno dall’altro è per ciò stranieri ad ogni connivenza.. Il secondo, che questi

oracoli erano resi da tanti spiriti. Su questo punto nuova unanimità dalla parte dei testimoni oculari. La moderna incredulità non osa negare il fatto: ma si ride della spiegazione. Secondo lei gli oracoli erano una pura ciurmeria, buona per divertire la moltitudine ignorante, ma senza influenza sugli uomini illuminati che non vi credevano. Una ciurmeria! ciò è presto detto: ma le vostre ragioni? Affermare, non è provare. Cosa è una ciurmeria che ha regnato su tutta l’estensione del globo per venti secoli, la quale ha costantemente gettato il genere umano nell’allucinazione, sino al punto di persuaderlo che egli vedeva ciò che non vedeva, che udiva ciò che non udiva? Una ciurmeria che regna ancora nella più gran parte della terra, dove essa continua a produrre lo stesso sconvolgimento dei sensi e della ragione? Una ciurmeria che non ha cessato presso le nazioni incivilite, se non che all’arrivo del Cristianesimo; che continua con lo stesso successo presso tutti i popoli che il Cristianesimo non ha illuminati, e che ritorna dove la sua luce sparisce? Singolare ciurmeria il cui segreto si perde quando il mondo diventa Cristiano, e che si rinviene quando cessa d’esserlo. (Ad. es. nelle conventicole massoniche!! – ndr. -) Dite il nome, il paese, la nascita dell’abile ciurmatore che l’ha inventata, e che rinunzia al suo mestiere secondo il grado di latitudine, dove si trova egli rapporto al Cristianesimo? Ammettere una ciurmeria universale e universalmente creduta, è ammettere la follia universale ; ma se il genere umano è folle, provate che voi siete savio? E poi di qual natura era questa ciurmeria? Essa era buona, dite voi, per divertire la moltitudine ignorante. Singolare divertimento per la moltitudine anche ignorante, come il sacrificio di ciò che aveva di più caro. Si son veduti mille volte, su mille punti del pianeta, migliaia di genitori portare agli altari di divinità mostruose i loro propri figli: e voi credete che essi obbedissero ad una semplice ciurmeria! Si sono vedute intere popolazioni, come i Pelasgi della Magna Grecia, abbandonare i loro beni e la loro patria, per sottrarsi agli ordini di questi oracoli sanguinari; e mai è venuto loro il pensiero di diffidare delle ciurmerie sacerdotali! Voi ammettete, senza inarcare le ciglia, che uomini abbiano potuto burlarsi così dei loro simili per tanti secoli, senza che nessuno abbia potuto mai scoprire la loro furberia! Se voi siete increduli in materia di religione, convenite però che non è la credulità che vi manca. Siate almeno d’accordo con voi stessi. Per voi l’antichità pagana è l’epoca della vera luce: e voi ne fate l’epoca la più facile ad ingannare! Sarebb’egli vero che le vostre convinzioni cambiano con i bisogni della polemica? Voi rispondete: non si tratta che della moltitudine ignorante; e la troviamo nell’istesse epoche più incivilite. Invero, moltitudine singolarmente ignorante, che secondo Tertulliano comprende tutti i letterati del mondo, omnis sæculi litteratura; e che, dietro la testimonianza dello stesso Cicerone, si compone di tutto ciò che i popoli pagani dell’Oriente e dell’Occidente hanno conosciuto per due mila anni, di più celebre per il genio e per la scienza. Re, legislatori, capitani, oratori, filosofi di tutti i nomi, pitagorici, platonici, stoici, tutti gli uomini infine, meno tre o quattro bruti epicurei, Epicuri de grege porci: ecco di che si compone la moltitudine ignorante che ha creduto agli oracoli. E voi non vi credete! Badate, che la negazione è pericolosa; ella potrebbe farvi applicare il proverbio: Chi si assomiglia, si piglia. – Innanzi di continuare l’esame dell’obiezione, fermiamoci un istante. Per separarsi in tal modo dalla fede comune, vi vogliono più pretesti, e più motivi. Fin qui non abbiamo visto che i primi, vediamo quali possono essere i secondi. Ve ne sono due: l’ignoranza e l’interesse. Un grave filosofo ce lo spiegherà. « L’ignoranza di noi medesimi, dice, ci fa dimenticare che gli uomini sono naturalmente increduli: Noi non vediamo cosi facilmente ciò che è al di là di quel che noi vediamo. Tutto ciò che è meraviglioso e straordinario, sembra loro sospetto. Essi vi sospettano sempre della frode e dell’impostura, e per poco che ve ne sia, non è possibile che sfugga loro. Avviene altresì troppo spesso, che con questa avversione naturale al credere tutto ciò che sembra straordinario, essi suppongano della furberia, dove non hanno la minima ragione di sospettarne. Che se la verità, e spesso una verità tutta divina, dura tanta fatica a farsi riconoscere, come mai una furberia puramente umana potrebb’ella sostenersi lungo tempo? Come potrebb’ella sussistere tanti secoli e ingannare non pochi ignoranti, ma gli uomini più dotti e le intere nazioni più illuminate e più abili? « Tali sono stati alla lettera quei famosi oracoli del paganesimo. Essi hanno sussistito più di due mila anni; durante questo tempo, sono stati consultati, ammirati e rispettati da tutto il paganesimo, dai popoli e dalle nazioni più illuminate. I Greci ed i Romani gli hanno considerati come ciò che vi fosse di più augusto e di più divino nella loro religione. Tutti i filosofi sono stati convinti come gli altri. Appena se ne trova un solo tra coloro, che simili alle bestie, non riconoscessero né divinità, né provvidenza, né immortalità dell’anima, osando balbettare che tutti questi oracoli, non sono stati che furberie dei sacerdoti degli idoli. » (Baltus, p. 231 e seg.). Da ciò si vede donde venga l’opposizione. Non è né  l’autorità, né la scienza che la motivano, ma l’interesse del cuore. Il soprannaturale importuna l’uomo animale ed ei lo nega. Ma la sua negazione lo conduce all’assurdo. « Gli antichi e moderni epicurei, continua Baltus, sono costretti ad ammettere il fatto degli oracoli; ma nel modo con cui essi lo spiegano, gli oracoli erano tante furberie così grossolane, che dovevano essere incapaci d’ingannare, anche per sei settimane, la gente della campagna la più stupida e la più ignorante. Secondo essi si parlava agli adoratori in tante statue vuote; gli si urlava nelle orecchie con delle trombette; e si addormentavano con un non so quale sorta di droghe; e si presentava dinanzi ai loro occhi delle marionette. E per più di due mila anni, tutti i popoli hanno creduto che tutto ciò fosse divino, soprannaturale, miracoloso, in una parola, opera degli dei, ed effetto della loro potenza! Tra i filosofi più abili, in seno a nazioni le più illuminate, non si è trovato alcuno che ne scoprisse la frode! Che forse gli uomini d’allora fossero incapaci di sospettare che si potesse o che si volesse ingannarli? Se i sacerdoti degli idoli avevano interesse a divertirli ed a sedurli, non ne avevano molto più nell’evitare d’esserlo? » (Baltus, part. 231 e seg.). Allo scopo di dare alla loro spiegazione naturale degli oracoli una vernice di scienza, altri epicurei gli hanno attribuiti a delle virtù nascoste, a delle proprietà ignote alla natura, a dei fluidi, od a certe esalazioni della terra. (Così parla Plinio, l’epicureo, lib. 2, natur. hist., c. XCIII). Ma se queste virtù sono nascoste, se queste proprietà sconosciute, come sanno eglino che possano pronunziare degli oracoli? Quali relazioni si sono verificate tra certe esalazioni della terra, e la facoltà di predire l’avvenire o di vedere a certa distanza? Essi non si accorgono che si rendono ridicoli agli occhi del senso comune, mettendo delle parole in luogo delle cose; ed agli occhi dei loro confratelli, cercando seriamente la causa di un effetto, che non è altro che una chimera, od una furberia grossolana di qualche impostore, e poi si dichiarano fermamente increduli! « La verità è, che per credere che tanti grandi uomini e tante nazioni differenti, sono stati in un accecamento così prodigioso durante un così lungo seguito di secoli, ci vuole una fede molto robusta. Egli è più facile credere, quel che vi è di più incredibile, e di più prodigioso nelle favole. Cionondimeno voi credete questo prodigio, quantunque siate nemici del meraviglioso. Da che cosa dipende ciò? Dipende che, molta gente non ama sentir parlare dei demoni né di tutto ciò che vi possa aver relazione. Questo risveglia certe idee dell’altra vita che non piacciono: credono essi abbastanza le verità della religione sopra ragionamenti speculativi; ma prove troppo sensibili di queste medesime verità, gli danno noia. » (Baltus, ubi supra).

COCOSCERE LO SPIRITO SANTO (26)

Mons. J. J. GAUME

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO, Vol. I

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXV.

(continuazione del precedente.)

Culto del serpente presso le nazioni moderne tuttora idolatre — La setta degli Ofiti — La Cina adora il Gran Drago — È il sigillo dell’impero — Solenne processione in onore del Drago — L’imperatrice attuale — La Cocincina — L’India: pubblica adorazione del serpente — Tempio di Soubra-Manniah — “Festa della Penitenza — Culto privato del serpente — L’Africa — Culto del serpente di Etiopia, a tempo di san Frumenzio — Culto attuale, di tutti più celebre — Passo di De Brosses e di Bosman — Culto del serpente nel Regno di Juidah (Widah) da un secolo a questa parte — Culto attuale, simile all’antichità pagane — Curiosi ma tristi dettagli — Relazione dei missionari e di un chirurgo di marina — L’America — Culto del serpente all’epoca della scoperta — Culto attuale — Relazione del Padre Bonduel — Culto del serpente nella Polinesia, l’Australia, l’Oceania — Il Vaudoux — Culto agli S tati Uniti — Parole di un missionario — Altre testimonianze — In Haiti — Sacrifizio umano — Esecuzione dei colpevoli nel 1864.

Se l’assioma da noi ricordato avesse bisogno di una nuova conferma, si troverebbe nella storia delle nazioni pagane ancora esistenti su diversi punti del globo. Molto tempo dopo la pubblicazione del Vangelo, vediamo il culto del serpente vivo perpetuarsi presso gli Ofiti, eretici  ostinati, dei quali parla Origène e sant’Epifanio (Contr. Cels. et hær., 37). Fra gli Gnostici apparve una sètta numerosa, la quale, per ragione del suo culto peculiare del serpente, ricevette il nome d’Ofìti. Gli adepti insegnavano che la sapienza erasi manifestata agli uomini sotto la figura di un serpente. Adoravano pure con devozione un serpente chiuso in una lunga gabbia. Quando era giunto il giorno di celebrare la ricordanza dei servizio reso al genere umano, mediante l’albero della scienza, aprivano la gabbia, e chiamavano il serpente, il quale saliva sulla tavola e si avvoltolava intorno ai pani; quest’era ai loro occhi, un perfetto sacrificio. Dopo avere adorato il serpente, offrivano per mezzo suo un inno di lode al Padre celeste. – Nessuno ignora che il Gran Drago è la suprema divinità della Cina e della Cocincina. Uno dei divertimenti, che spesso si ripete nel palazzo dell’imperatore al Pekino, è il Drago intorno alla gabbia dell’avoltoio, con la gola spalancata, con gli occhi inferociti che escono dall’orbita. Quest’è l’emblema inseparabile del figlio del cielo, che trovasi sopra il suo sigillo, sulle sue tazze, il suo vasellame, i suoi mobili, sugli angoli delle case, sulle porte, dappertutto. (Annali della Propag. della Fede, n. 223, p. 298, 1887). Il Drago scolpito sul sigillo imperiale! Non direbbesi l’infernale parodia della croce, che sormonta la corona dei principi cristiani; o dell’antica iscrizione delle monete d’oro del regno di Francia: Christus vincit, regnat, imperat! Non è un segno vano, il Dio che rappresenta, è l’oggetto di un culto reale. Cosi il giovine imperatore della China, essendo stato colpito da una grave malattia nel 1865, la imperatrice madre si è portata per nove giorni a piedi, mattina e sera, al gran tempio del Drago a pregare pel suo figlio. Poco fa gli abitanti della città cinese di Tlng-haè si lamentavano della siccità. Fu deciso che il Drago comparisse nelle strade, e si pregasse solennemente di mandare la pioggia nelle campagne. Al giorno stabilito noi vedemmo volgersi per le vie principali di Ting-haè in tortuosi giri il mostro, portato da cinquanta o sessanta persone, intorno alle quali si accalcava tutta la popolazione della città. (Annali della Filosof. Crist,, t. XVI, p. 355). Ancor oggi, le congregazioni cinesi di Saigon celebrano ogni anno, con un lusso ed una pompa inusitata, la festa del Drago. L’interminabile processione percorre le vie principali della città, e qualche volta anche attraversa il giardino del palazzo dei governatore. – (Corriere di SaXgon, 1865).La schifosa figura del Drago si incontra dovunque. Ad ogni momento la s’invoca, e in tutte le circostanze più importanti della vita ed anche dopo morte. L’Annamita che ha perduto un membro della sua famiglia non si permetterebbe di sotterrarlo, prima d’avere domandato allo stregone, od al sacerdote del Drago, di fargli conoscere il luogo della sepoltura. Si suppone che vi siano dei draghi sotterranei che passano e ripassano in certi luoghi privilegiati. I morti si pongono sulla loro via, nella credenza che i draghi ricolmino essi ed i parenti loro di ricchezze e di felicità. Se una disgrazia colpisce la famiglia, si va a dissotterrare il morto, e dietro l’indicazione di un nuovo oracolo, lo si sotterra in un luogo più prossimo al passaggio del Drago. – Il serpente ha rappresentato un ufficio considerevole presso gli antichi popoli dell’India (Massimo di Tiro, Dissert., VII, p. 139, ediz. Reiske), ed il suo culto si è mantenuto fino a questo giorno in quella vasta parte dell’Asia. I loro libri sacri sono pieni di racconti in cui è fatta menzione del serpente. Ivi, come in Egitto, tutti i simboli del culto, portano la sua immagine. Un gran serpente figura al principio del mondo, ed è l’oggetto di una profonda venerazione. « Vedesi un tempio rinomatissimo, consacrato al serpente, all’est del Maissour, in un luogo detto Soubra Manniàh. Questo nome è quello del gran serpente, tanto famoso nelle favole indiane. « Tutti gli anni nel mese di dicembre, ha luogo una festa solenne nel tempio. Innumerevoli devoti accorrono di molto lontano per offrire ai serpenti adorazioni e sacrifici in quel luogo privilegiato. Una moltitudine di questi serpenti hanno fissato il loro domicilio nell’interno del tempio, dove sono mantenuti e ben nutriti dai Brama che gli servono. La protezione speciale di cui godono, ha permesso loro di moltiplicarsi sino al punto che ne vediamo uscire da tutti i lati all’intorno. Molti devoti portano loro da mangiare. Guai a chi avesse la disgrazia di uccidere una di quelle divinità striscianti! Si tirerebbe addosso terribili castighi. » (Costumi e istituzioni dei popoli dell7India, del sig. Dubois, superiore delle Missioni straniere, il quale ha dimorato ventotto anni nelle Indie, t. II, c. XII, p. 435). Sopra un altro punto dell’immensa penisola, il serpente riceve pure gli onori divini. « Recentemente, scrive uno dei nostri missionari, sono stato a Galcutta, testimone oculare di una festa religiosa, celebrata in onore della dea Kalli. È una delle più solenni dell’anno: essa si nomina la festa della Penitenza. Il primo giorno della festa, la moltitudine dei curiosi era immensa, essa superava quasi il numero dei penitenti. Ma il secondo e il terzo giorno vidi in molti punti, principalmente sui canti delle strade e nei crocicchi, alcuni uomini che avevano la lingua traforata verticalmente da una lunga sbarra di ferro. Essi la dondolavano al suono degli strumenti, e ballavano essi medesimi in quello stato. Altri si erano fatta una larga apertura nelle reni e nelle spalle, e da ciascun foro passava un enorme serpente, che coi suoi giri tortuosi avvolgeva il loro corpo. » (Annali della Propag. della Fede, n. 18, p. 535, aprile, 1886). Oltre all’adorazione nazionale del serpente, gli Indiani, come gli antichi abitanti dell’Egitto, rendono anch’oggi un culto domestico ad un serpente comunissimo, la cui morsicatura dà quasi istantaneamente la morte; lo si chiama serpente capei. La loro condotta, che ognuno può verificare con i propri occhi, rende credibile tutto quello che abbiamo letto dell’antichità pagana. I devoti vanno in cerca dei buchi, ove stanno riposti questa sorta di serpenti. Allorquando hanno avuto la fortuna di scoprirne qualcuno, essi vanno religiosamente a deporre alla bocca di detti fori, del latte, dei banani (fichi di Adamo), ed altri cibi che sanno esser graditi da questi dèi rettili. – Se per caso uno di essi s’introduce in una casa, gli abitanti si riguardano dal cacciarlo via, ed è al contrario gelosamente custodito e onorato con sacrifici. Vediamo infatti degli Indiani conservare presso di sé per parecchi anni di questi grossi serpenti capels; ed ancorché dovesse costare la vita a tutta la famiglia, nessuno ardirebbe porre la mano su di essi (Costumi e istituzioni dei popoli dell’Indie, del Sig. Dubois. Per altri popoli moderni, vedi gli Ann. della Filos. Cristiana, citati più sopra). – Passiamo adesso in Africa. Antichissimamente il serpente è stato il gran dio della terra di Cam. Nel quarto secolo, allorché san Frumenzio andò a portare la fede agli Etiopi, trovò il culto del serpente in tutto il suo splendore. Per riuscire nella sua missione, dovette come Daniele, incominciare col distruggere il serpente che era stato sino allora la divinità degli Axumiti. (Gonzales, apud Ludolf. Etiopie, p. 479). Cosi accade ancora in tutta l’Africa non cristiana. Fra tutte le nazioni negre a lui note, dice un viaggiatore tedesco, non ve n’è una che non adori il serpente…. « I Fidas, oltre al gran serpente, che è là divinità di tutta la nazione, hanno ciascuno i loro piccoli serpenti, adorati come tanti dèi penati, ma che non sono stimati, potenti del pari quanto l’altro, di cui non sono che i subordinati. Quando un uomo ha riconosciuto che il suo dio lare, il suo serpente domestico, è senza forza per fargli ottenere ciò ch’egli domanda, egli fa ricorso al gran serpente. « I sacrifici che presso i popoli, formano la parte più interessante dei culti, consistono in bovi, vacche, montoni ecc. Alcune nazioni offrono altresì dei sacrifizi umani. Tra il numero delle feste annuali, bisogna contare il pellegrinaggio della nazione dei Fidas al tempio del gran serpente. Il popolo riunito dinanzi l’abitazione del serpente, con la faccia prostrata contro terra, adora quella divinità senza osare di levare gli occhi su di lei. Fuori dei sacerdoti non havvi che il re che abbia diritto a questo favore, e per una volta soltanto. » (Oldendrop, citato dal dott, Boudin nel culto del serpente, p. 57 e segg. in-8, 1864). Un altro viaggiatore si esprime in questi termini: « Il culto più celebre dell’Africa, dice Bosman. è quello del serpente. Tra il gran numero di serpenti che vi sono onorati con cerimonie più o meno bizzarre, ve ne ha uno che è riguardato come il Padre, ed a cui si rendono omaggi particolari. Gli si è fabbricato un tempio, dove sacerdoti sono incaricati di servirlo. I re gli inviano doni magnifici, e intraprendono lunghi pellegrinaggi per andare a presentargli le loro offerte e le loro adorazioni. » (Viaggio di Bosman, nel gran dizionario della Favola, art. Serpenti d’Africa). Trattando lo stesso soggetto nella sua storia degli Dei Fetisci, (Fetiscio viene dal portoghese fetisso che vuol dire incantato)il presidente de Brosses pronunzia parole d’oro allorché dice: « Il miglior mezzo d’illuminare certi punti oscuri dell’antichità, e di sapere ciò che avveniva presso le nazioni pagane antiche, si è di esaminare ciò che accade presso le nazioni pagane d’oggigiorno, e di vedere se non succede in qualche luogo, tuttora sotto gli occhi nostri, qualcosa di simile. La ragione si è, come dice un filosofo greco, che le cose si fanno e si faranno come le si son fatte. L‘Ecclesiastico dice pure; Quid est quod fuit? ipsum quod futurum est. Ora niente rassomiglia più al culto del serpente e degli animali sacri dell’Egitto, quanto quello del fetiscio o serpente vergato dell’Juidah (Dicesi oggi Whydah), piccolo regno sulla costa della Guinea, il quale potrà servire d’esempio per tutto quel che avviene di simile nell’interno dell’Africa. Vediamo già che nulla più rassomiglia al serpente di Babilonia, che il profeta Daniele ricusò di adorare. » (Del culto degli Dei Fetìsci, p, 16 e 26 ef. ediz, in-12, 1760)- La storia ci ha detto che gli Epiroti credevano che tutti i loro serpenti sacri discendessero dal gran serpente Python: medesima credenza in Africa. « Il serpente, continua l’autore, è un animale grosso quanto la coscia d’un uomo, e lungo circa sette piedi, rigato di bianco, di bleu, di giallo e di bruno, con la testa tonda, gli occhi aperti, senza veleno, di una dolcezza e di una familiarità sorprendente con gli uomini. Questi rettili entrano volentieri nelle case e si lasciano prendere e maneggiare. » (Del culto degli dei fetisci, p. 29 e segg.). « Tutta la specie di questi serpenti sacri, se deesi credere ai negri dell’Juidali, discende da un solo che abita il gran tempio presso la citta di Shabi, e che vivendo da parecchi secoli, è diventato di una grandezza e di una grossezza smisurata. Era stato prima la divinità dei popoli di Ardra; ma questi essendosi resi indegni della sua protezione, il serpente venne di suo proprio moto a dare la preferenza ai popoli dell’Juidah. Nel momento stesso di una battaglia, che le due nazioni dovevano darsi, lo videro passare pubblicamente da uno dei due campi all’altro. Ecco l’antica evocazione. II gran sacerdote allora lo prese nelle sue braccia e lo mostrò a tutto l’esercito. A questa vista tutti i negri caddero in ginocchio, e riportarono facilmente una vittoria completa sul nemico. » (Idem). A Babilonia, in Egitto, in Grecia e presso gli altri popoli pagani dell’antichità, il serpente aveva dei templi dove era servito da sacerdoti e da sacerdotesse, onorato, consultato, nutrito a spese del pubblico. I soli suoi ministri avevano il diritto, di penetrare nel suo santuario; fuori di lì, ei si rendeva familiare, e degnava lasciarsi prendere e maneggiare. Ecco parola per parola ciò che avviene in Africa: « Si edificò un tempio al nuovo fetiscio. Fu portato sopra un tappeto di seta per cerimonia con tutte le possibili testimonianze di gioia e di rispetto; e gli furono assegnati fondi per la sua sussistenza. Gli si scelsero dei sacerdoti per servirlo e, vergini per essere a lui consacrate. Subito questa nuova divinità prese autorità sulle antiche. Essa presiede al commercio, all’agricoltura, alle greggi, alla guerra, agli affari pubblici del governo ecc. Gli si fanno considerevoli doni, cioè pezze intere di stoffe dì cotone o di mercanzie d’Europa; tonnellate di liquori, e greggi interi: dei sacerdoti s’incaricano di portare al serpente le adorazioni del popolo, e riferire i responsi della divinità, non essendo permesso ad alcun altro che ai sacerdoti, nemmeno al re, d’entrare nel tempio e di vedere il serpente. La posterità di questo rettile divino è diventata innumerevole. Quantunque essa sia meno onorata del capo, non avvi negro che non si creda felicissimo d’incontrare serpenti di questa specie, e che non li alloggi e li nutrisca con allegrezza. » – Ricolmo d’onori e servito da sacerdoti, il gran serpente volle, come in antico, avere delle sacerdotesse. « Ecco in qual modo si prendono per procurargliele. Durante un certo tempo dell’anno, le vecchie sacerdotesse o beias, armate di clave, corrono il paese, dallo spuntar del sole fino a mezzanotte, furibonde come tante baccanti. Tutte le fanciulle dell’età di dodici anni che possono trovare, gli appartengono di diritto; né è permesso di resister loro. (Nell’antico Messico, trovasi la medesima tratta’di giovinette a profitto del serpente). Esse rinchiudono queste giovinette in delle capanne, le trattano assai dolcemente e le istruiscano nel canto, nel ballo e nei sacri riti. Dopo averle istruite, imprimono loro il segno della consacrazione, disegnando loro sulla pelle, con acute punture, delle figure di serpenti…. « Si dice loro che il serpente le ha contrassegnate, e in generale, il segreto su tutto ciò che avviene alle donne nell’interno dei chiostri, è talmente raccomandato sotto pena d’essere portate via e bruciate vive dal serpente; che nessuna di esse è tentata di violarlo. Allora le vecchie le riconducono, durante un’oscura notte, ognuna alla porta dei loro genitori, che le ricevono con gioia, e pagano carissima alle sacerdotesse la pensione della dimora, tenendo ad onore la grazia che il serpente ha fatta alla loro famiglia. Le giovanette incominciano allora ad essere rispettate ed a godere una infinità di privilegi. « Finalmente, quando sono esse nubili, ritornano al tempio in cerimonia e benissimo abbigliate per essere sposate al serpente. Il giorno dopo si riconduce la maritata nella sua famiglia, e d’allora in poi ha parte alle retribuzioni del sacerdozio. Una parte di quelle fanciulle si marita in seguito a qualche negro, ma il marito deve rispettarle quanto egli rispetta il serpente, di cui portano il marchio, né possono loro parlare fuorché in ginocchio, e restare soggetti in ogni cosa alla loro autorità. » (Del culto degli dei fetisci, p. 49 e seg.). Ecco oggi dunque, come anticamente, in Africa, come dappertutto, l’innocenza profanata dal serpente e consacrata al suo servizio. « Indipendentemente da questa specie di religiose affiliate, avvi una consacrazione passeggera per le giovinette… S’immaginano che queste siano state toccate dal serpente, il quale avendo concepito dell’inclinazione per esse, ispira loro una specie di furore. Talune si mettono tutt’ad un tratto a fare degli urli spaventosi, assicurando che il fetiscio le ha toccate. Esse divengono furibonde come tante pitonesse; e rompono tutto quel che cade loro tra mano, facendo mille danni. » (Ivi, p. 42). Stando alla relazione di Bosman, in altre contrade di questa trista parte di mondo, vedesi come nell’antichità, le più belle figlie del paese consacrate al servizio dei serpenti. Havvi questo di particolare, che i negri credono che il gran serpente ed i suoi confratelli abbiano l’usanza di adocchiare in primavera le giovinette in sulla sera, e che l’accostarsi, o il semplice contatto di questi rettili faccia perdere ad esse la ragione. (Bosman, come sopra). – Viaggi più recenti confermano questi dettagli e ne aggiungono dei nuovi: « In tutti i villaggi, si diceva poco tempo fa quello dei nostri missionari che penetrò assai addentro nell’Africa, voi trovate il fetiscio della località, senza contare quelli di ciascuna casa. Il fetiscio del villaggio è pel solito un grosso serpente che passeggia liberamente per tutte le strade. Il primo che io scòrsi, mi ispirò un vero spavento. Presi il mio bastone per batterlo, ma la mia guida mi trattenne il braccio, e fece bene. Se avessi avuta la disgrazia di offendere quel dio, sarei stato sull’istante fatto a pezzi. » Alla data del 28 aprile 1861 un altro missionario scrive da Dahomey: « Il popolo di questo paese pare consacrato al più abominevole feticismo. Il culto dei serpenti vivi è in voga su molti punti della costa: ma in nessuna parte hanno templi e sacrifici regolari come a Whydah. (Città di circa 20,000 anime, sul mare). In un recinto ben disposto, si nutrisce un centinaio di grossi serpenti, i quali vanno quando gli pare e piace a passeggiare per la città. Allora tutti quelli che gli incontrano, abbassano il capo fino in terra, mentre che l’animale abominevole avanza pesantemente per la via, fino a che qualche fervente adoratore non lo prende con rispetto e lo riporta nel suo covile. » (Annali ecc. Marzo 1861, p. 390. — I Gallas che abitano la costa opposta dell’Africa adorano pur essi il serpente. A questo dio rettile attribuiscono una terribile potenza sulla natura. Se si sente una scossa di terremoto, si vedono gli abitanti correre con le mani piene di doni verso la caverna, riguardata come l’abitazione del dio che scuote la terra). – Questo tempio, o piuttosto questa spaventosa tana, fu visitata nel 1860 da un chirurgo della marina imperiale, che ne fa la seguente descrizione. « La prima mia visita fu al tempio dei serpenti fetisci, situato non lungi dal forte, in un luogo un po’ isolato, sotto un gruppo di alberi magnifici. Questo curioso edificio consiste semplicemente in una specie di rotonda, di dieci o dodici metri di diametro e sette o otto di altezza. Le sue mura, in terra asciutta hanno due aperture, l’una opposta all’altra, per le quali entrano od escono liberamente le divinità di quel luogo. La vòlta dell’edificio, formata di rami d’alberi intrecciati che sostengono una tettoia d’erbe secche, è costantemente tappezzata di una miriade di serpenti che potei esaminare a tutto mio agio…. « La loro statura varia da uno a tre metri. La testa è larga, schiacciata e triangolare ad angoli rotondi, sostenuta da un collo un po’ meno grosso del corpo. Il loro colore varia dal giallo chiaro, al giallo verdastro. Il maggior numero porta sul dorso due linee brune. Gli altri sono regolarmente macchiati. Durante la mia visita, quegli animali potevano ammontare a più di un centinaio. Alcuni scendevano e salivano avvinghiati a dei tronchi d’alberi, disposti a tale effetto lungo le muraglia; altri sospesi per la coda, dondolavano in qua e in là sopra il mio capo, scintillando la loro triplice lingua e, guardandomi col continuo batter degli occhi; altri infine a spira, o addormentati sull’erbe del tetto, digerivano senza dubbio le ultime offerte dei fedeli. Malgrado l’affascinante stranezza di quello spettacolo, io sentiva dentro di me un certo malessere in mezzo a quelle viscose divinità…. « I sacerdoti che ne hanno cura, abitano vicino al tempio…. Queste spaventose divinità hanno pure delle sacerdotesse; sono come le fetiscie o spose del serpente fetiscio. In certe epoche dell’anno le vecchie sacerdotesse corrono per le strade del villaggio, rapiscono le bambine dagli otto ai dieci anni che incontrano, e le conducono nella loro abitazione. Queste bambinette subiscono là un noviziato più o meno lungo, e quando divengono nubili sono fidanzate al serpente fetiscio. Più tardi alcune finiscono per maritarsi a de’ semplici mortali, ma assai difficilmente, perché conservando sempre qualche cosa del loro sacro carattere, esigono dal loro marito una completa sottomissione. » (Rapporto del Sig. Repin nel Giro del mondo, n. 161, p. 71-74 —: 4° anno 1868). – Tutti questi dèi rettili non sono inoffensivi come quelli di Whydah. « Un altro punto della nostra missione, scrive il padre Borghero, offre uno spettacolo assai più ributtante. Al gran Popo, non lungi da Whydàh, i serpenti non hanno tempio, è vero; ma ricevono un culto che fa orrore. Vi è una specie di rettili ferocissimi, della razza dell’aspide, o del boa. Quando uno di questi serpenti incontra per via dei piccoli animali, li divora senza pietà. Quanto più e vorace, tanto più eccita la devozione dei suoi adoratori. Ma i maggiori onori, le maggiori benedizioni gli sono prodigate, quando ei trova qualche fanciullo, e ne fa suo pasto. Allora i genitori di questa povera vittima si prostrano a terra e rendono grazie ad una tale divinità, per avere scelto il frutto delle loro viscere per farne suo cibo; « E noi ministri di Colui che ha vinto l’antico serpente e che l’ha maledetto, siamo obbligati ad avere tutti i giorni questo spettacolo sotto gli occhi nostri, senza che ci sia dato modo di vendicare l’onore del nostro maestro cosi indegnamente oltraggiato. » (Annali ecc., marzo 1861, p. 890 e seg. Come sotto l’ardente sole dell’Africa, così il culto del serpente esiste ancor oggi in mezzo alle nevi della Mantchourie. Id., 1867, n. 175, p. 428). – Il culto del serpente si è rinvenuto nelle vaste contrade del nuovo mondo, e questa non è la minor prova dell’unità della razza umana. Al momento della scoperta dell’America, gli Spagnuoli riscontrarono su diversi punti tracce non dubbie del culto del serpente. Ricordiamoci che nel Messico, Huitzilopochtli, principale divinità dell’impero, era assiso sopra una gran pietra cubica, da ciascun angolo della quale, usciva un serpente mostruoso. La faccia del nume era coperta da una maschera, alla quale era appeso un altro serpente. Il tempio dedicato a Quetzalcohuatl, altra divinità messicana, era di forma rotonda, e l’entratura rappresentava una gola di serpente che pareva volesse divorare, riempiendo di terrore quelli che vi si accostavano la prima volta. – Negli annali più antichi dei Messicani la prima donna chiamata da essi la madre della nostra carne, è sempre rappresentata come vivente in relazione con un gran serpente. Questa donna figurata nei loro monumenti da una sorta di geroglifici, porta il nome di Cikuacohuatl, che significa donna del serpente. Fra gli altri doni gli si offrivano delle spine tinte di sangue dei sacerdoti e dei nobili, poi anche delle vittime umane. (Storia delle nazioni civilizzate del Messico dell’abate le Brasseur di Berigbourg, t. III, p. 504). – È qui il luogo di fare una osservazione che si riproduce parecchie volte nel nostro studio. Ogni credenza religiosa si traduce con atti speciali che le danno carattere. E niente è più vero della parola citata più sopra: Dimmi quel che tu credi, ed io ti dirò ciò che tu fai. Per ciò che concerne il culto dei serpenti l’esperienza dimostra, che presso quasi tutti i popoli il suo infallibile corollario è stato il sacrificio umano. Non è forse questa la prova evidente che il culto del serpente non è altro che il culto del grande omicida? Proseguiamo il nostro cammino. Durante i primi anni della conquista, un certo numero d’indigeni abbracciarono il Cristianesimo, piuttosto per timore che per convinzione. Gli adoratori del serpente non trascuravano nulla per far loro abiurare la fede, e ricondurli alle pratiche dell’antico culto. Sotto il titolo specioso di medici, s’introducevano nei villaggi, e spessissimo riuscivano nella loro colpevole impresa. Prima di ammettere il rinnegato alla iniziazione, esigevano la rinunzia al Cristianesimo. Gli lavavano quelle parti del corpo, sulle quali aveva quello ricevuto le unzioni del Battesimo, per cancellarne qualunque traccia. Di poi, conducevano il loro discepolo in una oscura foresta, o nel fondo di un precipizio, e là invocavano su di esso il gran serpente variegato, il quale si presentava accompagnato da altri piccoli serpenti. Il gran serpente si lanciava d’un tratto in bocca, e usciva per la parte posteriore del corpo. Gli altri uno dopo l’altro facevano altrettanto, poi rientravano tutti nel formicolaio; questi riti si ripetevano per tredici giorni di seguito. In questo tempo gli iniziatori comunicavano ai loro adepti, conferendo loro la maestranza, la misteriosa autorità che essi medesimi esercitavano sugli individui, direttamente o indirettamente ascrittisi all’idolatria. Con una sola parola, con un solo sguardo, potevano essi, entrando in una casa, soggiogare la volontà degli abitanti e specialmente delle donne. Le genti in tal modo affascinate, si sentivano impossessate da un tremito convulso in tutto il corpo sino al punto, che parevano come indiavolate. Si gettavano per terra con la bocca spesso spumante, e rimanevano cosi per tutto quel tempo che piaceva al mostro di ritenergli in quello stato. Il Vescovo di Chiapa dichiara di avere tutti questi particolari e altri ancora da parecchi iniziati, ravveduti dei loro errori. (Vedi Burgoa, descrizione geografica della provincia di san Domingo de Ozaca, cap. 17, Messico 1674. Torquemada, Monarchia indiana, t. II, 1, 6).Diminuito, ma non abolito, il culto del serpente si pratica ancora ai dì nostri, presso le tribù selvaggio dell’America del nord. Uno dei nostri missionari il P. Bonduel che ha dimorato per circa venti anni nel Wisconsin, ci raccontava nel 1858 che, gli stregoni non si dedicavano mai alle loro pratiche magiche che nei luoghi aridi, sulle spiagge di quelle fangose paludi e con la testa contornata della pelle del gran serpente Ketch-Kéfébeck. La formula della loro evocazione cominciava con queste terribili parole: « O tu che sei armato di dieci granfie, scendi nella mia capanna. » La preghiera continua, aggiunge il padre, finché la capanna non si sconvolge in cosiffatto modo che la vetta tocca il suolo.Lasciamo per un momento l’America, per fare una escursione negli Arcipelaghi di recente scoperti. Alle isole Viti, nell’Oceano Polinesiaco, gli abitanti adorano in un enorme serpente la loro principale divinità che porta il nome di Ndengeì. (Pritchard, Besearches into The physical history ou Menkind, Londra, 1846, in-8, t. V, p. 247). « Presso la donna australiana, scrive un missionario, è meno il gusto di un adornamento che l’idea di un sacrificio religioso che la porta a mutilarsi. Allorché è tuttora giovine le si lega la punta del dito mignolo della mano sinistra, con dei fili di ragnatelo. In capo a qualche giorno si strappa la prima falange, offesa dalla cancrena, e viene consacrata al dio serpente. » (Annali della Propag. della fede, n. 98, p. 275). – Nell’Oceania il pascersi di serpenti pare cammini insieme col culto del rettile. Non sarebbe forse in questo caso, per queste infelici vittime del demonio, la parodia sacrilega della Comunione eucaristica? Ecco quel che riferisce un viaggiatore moderno: « Quei dell’Australia mangiano ogni specie di serpenti, anco i più velenosi. Essi procurano però di sbuzzarli, e di tagliarli la testa.- Sebbene i serpenti siano in grandissima quantità nella Nuova Olanda, io non ne ho incontrato che un solo, durante la mia dimora a Sydney, ancorché facessi nei boschi delle lunghe e frequenti girate. « Quando mi apparve questo serpente, io l’uccisi con un colpo di fucile, e mi affrettai a mutilarlo più che potevo: ma l’indigeno che mi accompagnava lo prese, e dopo avergli tagliato il capo per maggior sicurezza, se ne servi come di una cravatta aspettando a mangiarlo poi a cena. » (E. Deiessert, Viaggi nei due Oceani, p. 185 e 186). – Ritorniamo in America e terminiamo il nostro viaggio per gli Stati del Sud e per Haiti. Nel trasportare dalla parte dell’Africa milioni di negri in America, il trattato vi portò seco anche il culto del serpente. La sètta di cui l’odioso rettile è la principale, forse l’unica divinità, si chiama la sètta dei Vaudoux. Molto diffusa tra i negri degli Stati Uniti, delle Antille e di S. Domingo, essa conta tra i suoi adepti molti creoli, gente di colore, ed anco bianchi, dei due sessi. Taluni anche occupano nella società, altissime posizioni. (L’imperatore Soulouque in particolare era un fervente adoratore del serpente). – I Vaudoux la cui immoralità agguaglia, se non sorpassa quella dei Mormoni, ispirano un grande spavento. Si credono possessori di segreti importanti per fabbricare terribili veleni, i cui effetti sono diversissimi. Taluni uccidono come la folgore, altri alterano la ragione o la distruggono completamente. Quantunque sia tanto difficile quanto pericoloso il mescolarsi nelle loro faccende, però alcuni fatti recenti sono venuti a porre in chiaro i vergognosi e crudeli misteri di questa abominevole sètta. I Vaudoux si adunano sempre di notte in abitazioni isolate o nelle montagne, in mezzo a folte foreste. Il serpente che riceve le loro adorazioni, comunica le sue volontà per l’organo di un gran sacerdote tra i settari, e più specialmente ancora per quello della compagna che si unisce al gran sacerdote, elevandola alla dignità di gran sacerdotessa. Questi due ministri, che diconsi ispirati dal serpente; ispirazione alla quale gli adepti hanno la più robusta fede, portano i pomposi nomi di re e di regina. Resistere loro, è resistere allo stesso nume esponendosi ai più terribili castighi: una volta riuniti, gli iniziati si spogliano affatto. Il re e la regina si pongono ad una delle estremità del recinto, vicino all’altare su cui è una gabbia che racchiude il serpente. Allorché si sono assicurati che nessun profano si è introdotto nell’assemblea, la cerimonia incomincia con l’adorazione del serpente. Questa consiste in proteste di fedeltà al suo culto e di sottomissione alle sue volontà. Si rinnova nelle mani del re e della regina il giuramento del segreto, accompagnato da tutto ciò che il delirio ha potuto immaginare di più orribile, per renderlo più imponente. In seguito, il re e la regina con tuono affettuoso come di padre e di madre, indirizzano ai loro diletti figli alcune commoventi osservazioni. Quindi la regina sale sulla gabbia che contiene il serpente (È precisamente ciò che faceva la Pitonessa di Delfo), non tarda, a sentirsi invasa dallo spirito del nume che ha sotto i piedi: ella si agita, prova in tutto il suo corpo un tremito convulso, e l’oracolo parla per bocca sua. Allorché l’oracolo ha risposto a tutte le questioni, il serpente è adorato di nuovo e ciascuno gli offre un tributo. Terminata l’adorazione, anche il re pone il piede sulla gabbia, e tosto riceve una impressione che egli comunica alla regina e questa comunica a tutti quelli che la circondano. Questi non tardano ad essere in preda alla più violenta agitazione; si contorcono ad un tratto e agitano così vivamente la parte superiore del corpo, che la testa e le spalle pare che si sloghino. (Ciò ricorda il Djedàb degli Aissaoua dell’Africa, che abbiamo visto a Parigi nel 1867, e i Coribanti dell’antichità, il cui nome greco significa agitare violentemente il capo. satana non invecchia). – Chi finisce per cadere di stanchezza, e chi di deliquio: altri finalmente provano un furibondo delirio. In tutti poi vi sono tali tremiti nervosi, che non sono più in grado di padroneggiare. Non possiamo descrivere quel che allora succede; è facile però il comprendere che in seguito all’eccessivo sovreccitamento dei sensi, che hanno dovuto produrre quelle scapigliate baccanali, lo sfogo dei grossolani piaceri, e delle brutali passioni, in quell’orrida promiscuità dei due sessi, non può mancar di presentare il più disgustoso spettacolo. – satana, nemico implacabile dell’anima dell’uomo che spinge a tutti i generi di degradamento, non lo è meno del suo corpo. Presso differenti popoli, antichi e moderni, il sacrificio umano è il corollario infallibile del culto del serpente. I Vaudoux continuano fedelmente la crudele tradizione; non si saprà mai il numero delle vittime che hanno scannato. (qui segue, in nota, un racconto di cronaca giudiziaria dell’epoca, di un fatto accaduto in Haiti, dai risvolti crudi, per non dire orripilanti, che preferiamo non riportare – ndr. -) – Tutti questi fatti e mille altri dello stesso genere, provano una volta di più all’Europa incredula, all’Europa che volge le spalle al Redentore, che il re della Città del male è sempre lo stesso; sempre pronto a riprendere il suo impero, sempre geloso di farsi adorare sotto la forma vincitrice del serpente, sempre sitibondo del sangue dell’uomo, divenuto suo schiavo. Essi stabiliscono ancora che il culto del serpente, come il sacrificio umano, ha fatto il giro del mondo. Entrambi esistono anch’oggi: il primo soprattutto sopra una larga scala, presso un gran numero di popoli dell’Africa, dell’Asia e dell’America. Cosi nella Città del male vi sono due perpetuità: perpetuità del sacrificio umano; perpetuità dell’adorazione del serpente, sotto la sua naturale forma. Queste due perpetuità ne amplificano una terza: la perpetuità cioè degli oracoli nel mondo pagano. Senza di ciò, come spiegare che sotto tutti i climi, in tutte le epoche, in tutti i gradi della civiltà, l’uomo non Cristiano abbia preso per suo dio, per suo gran dio, il più aborrito di tutti gli esseri; ed a lui abbia sacrificato quel che ha di più caro? (V. sul serpente un bel passo di Chateaubriand, Genio del Cristianesimo, t. I, lib. in, c. 2). Purnonostante, è cosi. Il fatto è universale e permanente; havvi dunque una causa universale e permanente. Questa causa non esiste, né nei lumi della ragione, né nelle inclinazioni della natura, né nella volontà di Dio. A meno che non si voglia rimanere dinanzi a questo fatto spietato, con gli occhi sgranati e la bocca spalancata, bisogna dunque spiegarlo, mediante l’ufficio sovrano del serpente nella caduta dell’umanità. Con la ragione illuminata dalla fede, bisogna riconoscere che un fatto simile, non venendo né da Dio né dall’uomo, è a fortiori rivelato da una potenza intermedia. Non dimentichiamo, che qui la parola rivelazione, non implica la divinità del rivelante; ma l’universalità e l’identità della rivelazione implicano 1’universalità ela identità del rivelante; di questo parleremo altrove. Trattare tutto ciò di superstizione, di figurismo e di allegoria, è mentire alla sua propria coscienza, e burlarsi del senso comune. Parlare di superstizione, d’ignoranza, di demenza, in una credenza fondamentale, è lo stesso che non dir nulla, o pronunziar la condanna dell’umano genere. Ma se dopo sei mila anni, il genere umano, straniero al Cristianesimo, è stato ed è ancora un fanatico, un pazzo, un ignorante; è confessare, che il Cristianesimo è la verità, la luce, la ragione. Lasciamo all’incredulo, per non confessar ciò, balbettare sofismi; e continuiamo.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO:

Questa lettera Enciclica di S. S. il Beato Pio IX, si apre con un magnifico elogio alla Cattedra di S. Pietro, pietra fondante ed unica garanzia della Chiesa di Cristo, delle dottrina, della morale e della liturgia cattolica, cioè unica garanzia di salvezza eterna: « … gli stessi, invero, non hanno mai cessato di insegnare che vi è “un solo Dio, un solo Cristo, una sola Chiesa, una sola Cattedra fondata su Pietro per volontà del Signore, e che su tale pietra, come su solidissimo macigno, è stata costruita, in tutta la sua grandezza, la mole della comunità cristiana. Invero, questa Cattedra di Pietro (sempre così chiamata e definita) è unica e prima per i suoi pregi; splende in tutto il mondo per il suo primato; è radice e matrice da cui deriva l’unità sacerdotale; è madre e maestra (e non solo vertice) di tutte le Chiese; è metropoli di pietà, in cui è integra e perfetta la saldezza della religione cristiana e in cui sempre primeggiò il Principato della Cattedra Apostolica; è fondata su quella pietra che le superbe porte degli inferi non abbattono e per la quale gli Apostoli profusero tanta dottrina e sangue; da essa si diffondono nei confronti di tutti le leggi che presiedono a una venerabile comunione; ad essa occorre prestare totale obbedienza e onore; chi l’abbandona, vanamente confida di appartenere alla Chiesa; fuori di essa, è profano chi si ciba d’agnello. E inoltre Pietro, che nella propria Sede vive e governa, offre ai postulanti la verità della fede; Pietro che vive fino ad oggi e sempre nei suoi Successori e pratica la giustizia, ha detto per bocca di Leone che il Romano Pontefice detiene il primato su tutta la terra, è il Successore del beato Pietro, Principe degli Apostoli, è il vero Vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, Padre e Dottore di tutti i Cristiani ». Tale è appunto la premessa nel trattare l’argomento di questo documento, che è la conferma dei Riti Orientali, e di altri particolari già approvati dal solenne Magistero pontificio, Riti ovviamente nei quali non ci siano errori a proposito della fede o della purezza dei costumi « … invero non contrasta affatto con l’unità della Chiesa Cattolica la molteplice varietà dei sacri e legittimi riti, ché anzi concorre ad accrescere la dignità, la maestà, il decoro e lo splendore della stessa Chiesa. » (…) « era loro precisa volontà di preservare intatti i riti delle Chiese Orientali purché in essi non si insinuasse qualche errore a proposito della Fede Cattolica o della purezza dei costumi ». In tal modo il Santo Padre, lasciava facoltà agli Orientali convertiti al Cattolicesimo di conservare i propri riti senza essere obbligati all’osservanza di quelli in uso presso la Chiesa romana. – L’importanza del documento, per questi nostri tempi di apostasia spudorata e manifesta dalla fede e dai riti Cattolici, è evidente, nel senso che qualsiasi rito, anche orientale, officiato da un Sacerdote validamente consacrato (secondo le formule pre-68 da Vescovi non massoni, e validi pre-68), di stretta osservanza cattolica, in unione con la Cattedra di Pietro, vale a dire “una cum” il Santo Padre impedito in esilio, S. S. Gregorio XVIII, è assolutamente valido, legittimo e lecito sotto ogni riguardo. Non c’è quindi alcun timore alla partecipazione di tali riti, non si incorre in alcuna censura né scomunica in violazione dei Canoni tridentini o dei Canoni del C. J. C. – 1917, come partecipando ai falsi riti rosacrociani del satanico novus ordo (nei quali le scomuniche sono praticamente in numero incalcolabile), o in quelli dei sedevacantisti o delle “fraternità” falsamente ed invalidamente consacrati da non-chierici di estrazione massonica (si pensi ai cavalieri Kadosh e figliocci!!), e nella inosservanza totale di tutti i Canoni della giurisdizione e del mandato Apostolico, … e qui ci sono solo anti-sacramenti del demonio che aprono ampi spazi alla eterna dannazione. Leggiamo quindi la Lettera e adeguiamoci alle conclusioni che possiamo legittimamente trarne.    

S. S. Pio IX
Amantissimus humani

Amantissimo del genere umano, Cristo Redentore e Signore, Figlio Unigenito di Dio, volendo (come Vi è ben noto, Venerabili Fratelli) liberare tutti gli uomini dalla schiavitù del demonio, dal giogo del peccato e richiamarli dalle tenebre alla Sua meravigliosa luce e farli salvi, cancellò il decreto, a noi avverso, affiggendolo alla croce; formò e istituì la Chiesa Cattolica, conquistata con il suo sangue, come la sola dimora del Dio vivo (1Tm III,15), il solo regno dei cieli (Mt XIII; ecc.)o come la sola città posta sopra il monte (Mt V, 14) o come il solo ovile (Gv X,16) e il solo corpo consistente e vivente di un solo spirito, unito e congiunto da una sola fede, speranza e carità e dagli stessi vincoli sacramentali, religiosi, dottrinali (Ef. IV, 4), e dotò poi la Chiesa di reggitori da Lui nominati e scelti e stabilì che essa, così da Lui creata e istituita, perdurasse finché il mondo stesso non crolli e perisca. Decretò inoltre che la Chiesa avrebbe abbracciato tutti i popoli e le nazioni dell’orbe terracqueo, affinché gli uomini di ogni razza accogliessero la sua divina religione e la sua grazia, conservandole fino all’ultimo respiro onde conseguire la salvezza e la gloria eterna. Affinché questa unità di fede e di dottrina fosse sempre conservata nella Sua Chiesa, scelse tra tutti uno solo, Pietro, che designò come Principe degli Apostoli e Suo Vicario in terra, inespugnabile fondamento e capo della Sua Chiesa, così che, sovrastando su tutti sia per il grado di nobiltà, sia per l’ampiezza e il prestigio dell’autorità, del potere e della giurisdizione, pascesse le pecore e gli agnelli, rincuorasse i Fratelli, reggesse e governasse la Chiesa universale. Cristo volle pertanto che questa sua Chiesa rimanesse una e immacolata fino alla consumazione dei secoli, e ordinò di conservare integra una sola fede, una sola dottrina e la struttura di governo; volle inoltre che la pienezza della dignità, della potestà e della giurisdizione, la purezza e la saldezza della fede concesse a Pietro fossero tramandate anche ai Romani Pontefici successori di Pietro che sono elevati a questa Romana Cattedra dello stesso Pietro ed ai quali – che impersonano il Beatissimo Principe degli Apostoli– dallo stesso Cristo sono stati divinamente affidati la suprema cura di tutto il gregge del Signore e il supremo governo della Chiesa Universale. Voi ben sapete, Venerabili Fratelli, in che modo questo dogma della nostra divina religione sia sempre stato dichiarato, difeso e inculcato con unanime e perenne spirito e parola dei Sinodi e dei Padri. Gli stessi, invero, non hanno mai cessato di insegnare che vi è “un solo Dio, un solo Cristo, una sola Chiesa, una sola Cattedra fondata su Pietro per volontà del Signore, e che su tale pietra, come su solidissimo macigno, è stata costruita, in tutta la sua grandezza, la mole della comunità cristiana. Invero, questa Cattedra di Pietro (sempre così chiamata e definita) è unica e prima per i suoi pregi ; splende in tutto il mondo per il suo primato; è radice e matrice da cui deriva l’unità sacerdotale; è madre e maestra (e non solo vertice) di tutte le Chiese; è metropoli di pietà, in cui è integra e perfetta la saldezza della religione cristiana e in cui sempre primeggiò il Principato della Cattedra Apostolica; è fondata su quella pietra che le superbe porte degli inferi non abbattono e per la quale gli Apostoli profusero tanta dottrina e sangue; da essa si diffondono nei confronti di tutti le leggi che presiedono a una venerabile comunione; ad essa occorre prestare totale obbedienza e onore; chi l’abbandona, vanamente confida di appartenere alla Chiesa; fuori di essa, è profano chi si ciba d’agnello . E inoltre Pietro, che nella propria Sede vive e governa, offre ai postulanti la verità della fede ; Pietro che vive fino ad oggi e sempre nei suoi Successori e pratica la giustizia, ha detto per bocca di Leone che il Romano pontefice detiene il primato su tutta la terra, è il Successore del beato Pietro, Principe degli Apostoli, è il vero Vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, Padre e Dottore di tutti i cristiani” . Altri innumerevoli passi, tratti da splendidi testi, in modo esplicito insegnano e rivelano con quanta fede, religione, rispetto e obbedienza devono seguire questa Sede Apostolica e il Romano Pontefice tutti coloro che vogliono appartenere alla vera, unica e santa Chiesa di Cristo per conseguire l’eterna salute. – Invero non contrasta affatto con l’unità della Chiesa Cattolica la molteplice varietà dei sacri e legittimi riti, ché anzi concorre ad accrescere la dignità, la maestà, il decoro e lo splendore della stessa Chiesa. Ma non sfugge ad alcuno di Voi, Venerabili Fratelli, in che modo alcuni uomini cerchino di ingannare e di indurre in errore gli incauti e gli inesperti calunniando questa Santa Sede, come se essa, accogliendo i dissidenti orientali nella fede Cattolica, volesse indurli ad abbandonare il proprio rito e ad abbracciare quello della Chiesa latina. Quanto ciò sia falso e lontano dalla verità, lo mostrano e attestano, con piena evidenza, le tante Costituzioni dei Nostri Predecessori, e le Lettere Apostoliche (attinenti alle questioni degli Orientali) con le quali gli stessi Nostri Predecessori non solo dichiararono concordemente di non aver mai avuto in animo un simile proposito ma anzi riconobbero che era loro precisa volontà di preservare intatti i riti delle Chiese Orientali purché in essi non si insinuasse qualche errore a proposito della fede cattolica o della purezza dei costumi. A queste reiterate e limpide dichiarazioni dei Nostri Predecessori corrispondono sia le antiche che le recenti azioni, in quanto non si può mai affermare che questa Apostolica Sede abbia ordinato alle sacre Gerarchie o agli ecclesiastici o ai popoli orientali ritornati alla unità cattolica, di mutare il loro legittimo rituale. Infatti tutta la cittadinanza di Costantinopoli vide di recente in che modo il Venerabile Fratello Melezio, Arcivescovo di Drama, ritornato nel grembo della Chiesa Cattolica con la Nostra più viva consolazione e con la gioia di tutti i buoni, abbia celebrato la divina funzione col proprio rito, con solenni e festose cerimonie e alla presenza di numerosa folla. Pertanto, Venerabili Fratelli, in virtù della vostra eminente sollecitudine episcopale, non tralasciate di insistere presso il Clero delle vostre Diocesi perché nei modi opportuni si sforzi di smascherare e respingere la calunnia con cui uomini malevoli tentano di indurre in errore gli ingenui e di suscitare odio e sospetto contro questa Sede Apostolica. – D’altra parte Noi, innalzati a questa Cattedra di Pietro e al supremo governo di tutta la Chiesa di Cristo per arcano disegno della Divina Provvidenza, pieni di fiducia e di speranza in Gesù Cristo, aspiriamo ad assolvere le funzioni del Nostro ministero Apostolico come Ci chiedono l’insistenza e la sollecitudine quotidiana di tutte le Chiese. Pertanto, sorretti dal divino aiuto di Colui del quale su questa terra, sebbene senza merito, facciamo opera vicaria; di Colui che disse: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli” e confermò che le porte dell’inferno non avrebbero mai prevalso contro la sua Chiesa, Noi non temiamo affatto tante malvagie e sacrileghe macchinazioni, tanti tentativi e attacchi con cui (in questi tempi così iniqui) i nemici si sforzano di sovvertire radicalmente (se mai fosse possibile) la Religione Cattolica, ma non desistiamo dal provvedere al bene e alla salute spirituale di tutte le genti. Infatti l’amore di Cristo, di cui nulla è per Noi più forte, Ci sospinge ad affrontare lietamente ogni affanno, fatica, decisione affinché i popoli possano convergere in unità di fede e crescere nella conoscenza di Dio e del nostro Signore Gesù Cristo “che è la via, la verità e la vita; via di santa intimità, verità di divina dottrina, e vita di beatitudine sempiterna” . Né invero Voi ignorate, Venerabili Fratelli, con quale singolare amore, con quale assiduo impegno abbiamo dedicato le nostre cure paterne a codesta eletta parte del gregge del Signore affidata alla vostra vigilanza, fin dall’inizio stesso del Nostro supremo Pontificato; dalla recentissima nostra lettera, sigillata con l’anello del Pescatore e pubblicata il 7 gennaio scorso, avete potuto comprendere ancora di più quanto Ci stiano profondamente a cuore il bene, l’interesse e la prosperità di codeste Chiese Orientali. Infatti con quella Lettera abbiamo costituito una Congregazione apposita (nell’ambito della Congregazione di Propaganda Fide), che alla stessa Congregazione di Propaganda Fide (da tante assidue e gravi occupazioni quasi sommersa) sia del maggiore aiuto e possa svolgere l’opera finora prestata dalla stessa Congregazione di Propaganda Fide con molto zelo e con somma lode, in modo che tutte le questioni delle Chiese Orientali siano trattate e risolte con unico criterio. Invero siamo sostenuti dalla speranza che, con l’aiuto di Dio, ogni giorno di più sovrabbondi il bene spirituale in tutti i Paesi Orientali, anche in virtù del Nostro consiglio e del Nostro zelo. Pertanto abbiamo piena fiducia che questa nuova speciale Congregazione recentemente istituita da Noi non lascerà mai nulla di intentato, in conformità dei Nostri desideri: nulla, in ogni caso, di ciò che riguardi la promozione dell’unità cattolica nel trattare le vostre questioni, o che accresca la prosperità delle vostre Chiese, o che tuteli l’integrità dei vostri legittimi riti, e che procuri un maggiore vantaggio spirituale ai fedeli. – Affinché questa Congregazione possa esercitare con ogni cura ed energia il compito che le abbiamo affidato, e contribuire con laborioso impegno alla maggiore prosperità di codeste Chiese, è del tutto necessario che essa abbia piena conoscenza dei bisogni spirituali delle nazioni Orientali, sulle quali è opportuna e provvida una consultazione. E poiché a Voi, Venerabili Fratelli, è ben nota la condizione presente del gregge affidato alla vostra cura, saprete anche, grazie alla vostra saggezza, quanto sia urgente che Voi Ci informiate, con la maggiore diligenza possibile, su tutte le questioni che riguardano le vostre Chiese e il vostro gregge, e che Ci mandiate un’accurata relazione sullo stato delle vostre Diocesi, nella quale si esponga con cura tutto ciò che si riferisce alle Diocesi stesse, in modo che Noi possiamo considerare con tutta diligenza le necessità dei fedeli. Sarà per Noi motivo di somma consolazione se ognuno di Voi, Venerabili Fratelli, Ci riferirà sollecitamente tutte le questioni della propria Diocesi: quanti fedeli dimorino nella stessa Diocesi; quanti siano gli ecclesiastici che affrontando i doveri del proprio ministero assistono gli stessi fedeli; quale il modo di comportarsi di quei fedeli; di quale fede, di quale integrità di costumi, di quale dottrina sia dotato il Clero; quale la formazione dello stesso Clero; in che modo il popolo sia educato alla santissima nostra religione e alla disciplina dei costumi, e in che modo il popolo stesso possa ogni giorno meglio essere conformato e sospinto alla pietà e alla purezza dei costumi. Ardentemente poi desideriamo conoscere quale sia la situazione delle vostre scuole e con quale assiduità la gioventù le frequenti. Sapete bene, Venerabili Fratelli, che tutte le speranze, sia delle cose sacre, sia civili, sono riposte nella retta, salutare e religiosa educazione dei fanciulli, e perciò è del massimo interesse che gli stessi sin dagli anni più teneri frequentino le scuole cattoliche in cui imparando presto la verità e i precetti della divina nostra religione, siano allontanati dal pericolo che le loro tenere menti siano corrotte da perversi principi. E neppure dimenticate di avvertirci se mancate di libri, e contemporaneamente di farci conoscere quali libri soprattutto (secondo il vostro parere) possono essere più adatti alle esigenze culturali del Clero, a promuovere l’educazione del popolo, a confutare le opinioni degli acattolici, e ad assecondare la pietà dei fedeli. Inoltre abbiamo appreso che in alcuni luoghi sono stati adottati libri liturgici e rituali nei quali s’insinuò qualche errore o fu introdotto qualche arbitrario mutamento; perciò sarà vostro dovere comunicarci quali libri sono stati adottati e dirci inoltre se tali libri sono stati in altro tempo approvati da questa Santa Sede, o se a vostro parere contengono errori da correggere, e se abbiate qualche dubbio da dissipare o vi siano abusi da cancellare. Inoltre Vi chiediamo con insistenza di registrare quali progressi abbia compiuto nelle vostre Diocesi la santa unità cattolica, quali impedimenti la ostacolino, in quali modi più opportuni si possano rimuovere siffatti impedimenti, al fine di promuovere e di consolidare sempre più tale unità. – Certamente vi è dato constatare, Venerabili Fratelli, con quanto amore e con quanto zelo seguiamo codeste Chiese Orientali e con quanta passione desideriamo che tra i popoli orientali la nostra santissima fede, la nostra religione, la nostra devozione raggiungano una diffusione sempre più estesa e si consolidino e fioriscano. Siamo certi che Voi con ogni energia (secondo il dovere del vostro ministero episcopale e del vostro impegno pastorale) consacrerete tutte le vostre premure e i vostri pensieri alla protezione e alla propagazione della nostra divina religione e alla salute del vostro gregge. In questi luttuosi tempi, il nemico non cessa di seminare zizzania nella terra del Signore, sia con libri e giornali pestiferi, sia con mostruose ed aberranti opinioni che apertamente avversano la fede e la dottrina cattolica; perciò ben comprendete con quanta sollecitudine, vigilanza e costanza dovrete affaticarvi e stare all’erta per allontanare da questi pascoli avvelenati i fedeli a Voi affidati e per sospingerli verso quelli salutari, al fine di pascerli generosamente con la dottrina della Chiesa Cattolica. Affinché siate in grado di conseguire più facilmente tale scopo, persistete nel sollecitare lo zelo dei curatori di anime, Venerabili Fratelli, in modo che essi, compiendo con scrupolo il loro dovere, continuino a diffondere il Vangelo di Dio tra sapienti e insipienti, soccorrano con ogni opera santa il popolo cristiano loro affidato, con amore e pazienza insegnino soprattutto ai fanciulli e agli ignoranti i fondamenti della fede cattolica e la disciplina nel comportamento, e con insistenza li esortino a una sana dottrina, affinché non siano avviluppati da ogni fatua teoria. Inoltre esortate sempre tutti i Sacerdoti delle vostre Diocesi perché valutino ed esercitino severamente il ministero che ricevettero nel nome del Signore, perché offrano al popolo cristiano esempi d’ogni virtù, insistano nella preghiera, pratichino assiduamente le sacre discipline e con tutte le loro forze intendano assicurare l’eterna salvezza ai fedeli. E per disporre più facilmente di attivi e industriosi operai, capaci di prestare nel tempo il loro aiuto nel coltivare la vigna del Signore, non risparmiate cura alcuna, consiglio alcuno, Venerabili Fratelli, in modo che i chierici adolescenti fin dalla prima età siano plasmati da eletti maestri alla pietà e al vero spirito ecclesiastico, e con molta diligenza siano educati alle lettere e particolarmente alle sacre discipline, assolutamente lontane da ogni pericolo di qualsivoglia errore. Certamente non ignoriamo, Venerabili Fratelli, quali e quante siano le difficoltà cui siete soggetti nell’esercizio del vostro ministero episcopale. Ma vi sia di conforto nel Signore, (riandando con la memoria alla potenza della Sua virtù) di essere ambasciatori di Cristo, che offrì la sua anima per il suo gregge, lasciando a noi un esempio che ci induce a seguire le sue vestigia. – In verità nessuno ignora quanto servizio e decoro recarono in Oriente alla Chiesa Cattolica le Religiose Famiglie di Monaci. Infatti con l’integrità della loro vita, con la severità dei loro costumi e con la fama di una specchiata disciplina religiosa, offrivano esempi di opere virtuose ai fedeli, educavano la gioventù, coltivavano le lettere e gli studi e prestavano la loro utile opera ausiliaria alle sacre Gerarchie. In seguito a tristissime vicende di luogo e di tempo, quelle Sacre Famiglie, così meritevoli al cospetto della società cristiana e civile, vennero meno, in alcuni luoghi, alla disciplina del proprio Ordine o si estinsero del tutto. Invero, alla nostra santissima religione verrebbe un grande giovamento se queste Sacre Famiglie potessero rinascere specialmente là dove scomparvero, e se irradiassero l’antico splendore tra le nazioni orientali; perciò Vi chiediamo di manifestarci la vostra opinione su tale argomento e in che modo potrebbe compiersi la rifondazione di quelle Sacre Famiglie. – Siamo fermamente persuasi che Voi, Venerabili Fratelli, accoglierete con animo fervido e lieto non solo questi Nostri desideri e queste sollecitazioni, ma che vorrete anche esporre tutte le cose che converrebbe fare a maggior vantaggio della nostra santissima religione, del Clero e del popolo fedele in codeste regioni. Non appena avrete appreso, dalla lettera Enciclica del Cardinale Prefetto della Nostra Congregazione del Concilio, quanto Ci sarà gradita la presenza dei Venerabili Fratelli Sacri Prelati nella solenne canonizzazione di numerosi Santi che con l’aiuto di Dio celebreremo nel prossimo giorno della Pentecoste, allora Ci sorreggerà la speranza che in tale occasione (se lo consentiranno le incombenze delle vostre Diocesi) potremo vedervi, affettuosamente abbracciarvi e ascoltare da Voi stessi le relazioni concernenti le vostre Diocesi. Frattanto poi, forti della vostra eccelsa pietà e del vostro zelo episcopale, perseverate, Venerabili Fratelli, nell’adempiere al vostro ministero con la massima alacrità e costanza, nel provvedere con grande impegno alla salute dei vostri fedeli, ad ammonirli e ad esortarli perché persistano sempre più saldi e immobili nella professione della fede cattolica, perché osservino religiosamente i comandamenti di Dio e della Sua Santa Chiesa e perché procedano degnamente, piacendo in tutto a Dio e fruttificando in ogni opera buona. Inoltre, con la consueta vostra benevolenza e con paterno affetto accogliete coloro che ritornano nel grembo della Chiesa Cattolica con immensa gioia dell’animo Nostro; impegnatevi con ogni cura affinché essi, sempre più amorevolmente alimentati dalle parole della fede e rinvigoriti dai carismi della grazia, rimangano saldi nella santa vocazione, incedano con il più sollecito passo sui sentieri del Signore e seguano la via che conduce alla vita. Nell’interesse della insigne vostra Religione, non rinunciate mai a qualsiasi tentativo di riportare a Cristo i miseri erranti con atti di bontà, con la pazienza, con la dottrina, con la mansuetudine, con la dolcezza; di ricondurli al Suo unico ovile, di restituirli alla speranza del premio eterno. Tra le angustie e le difficoltà che non possono mancare al vostro incarico episcopale, soprattutto in questi tempi calamitosi, confidate nella grazia di nostro Signore Gesù Cristo, tenendo presente che chi insegna la giustizia ai molti, rifulgerà come le stelle per tutta l’eternità. – Infine, Venerabili Fratelli, vogliamo che abbiate per certa la somma benevolenza con la quale Vi accompagniamo nel Signore. E frattanto non tralasciamo, in ogni preghiera, in ogni supplica e in ogni atto di grazia, di chiedere con umile insistenza a Dio Ottimo Massimo che effonda sempre propizio sopra di Voi tutti i più fecondi doni della Sua bontà, e che essi possano scendere copiosamente anche sul diletto gregge affidato alla vostra vigilanza. Come auspicio di quei doni e come pegno della Nostra volontà tutta incline verso di Voi, amorevolmente impartiamo a Voi, Venerabili Fratelli, a tutti i sacerdoti e ai laici fedeli affidati alla cura di ciascuno di Voi, l’Apostolica Benedizione dal profondo del cuore.

Dato a Roma, presso San Pietro, l’8 aprile 1862, nell’anno decimosesto del Nostro Pontificato.

DOMENICA DI SESSAGESIMA (2019)

DOMENICA DI SESSAGESIMA [2019]

Incipit 

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLIII: 23-26

Exsúrge, quare obdórmis, Dómine? exsúrge, et ne repéllas in finem: quare fáciem tuam avértis, oblivísceris tribulatiónem nostram? adhaesit in terra venter noster: exsúrge, Dómine, ádjuva nos, et líbera nos. [Risvégliati, perché dormi, o Signore? Déstati, e non rigettarci per sempre. Perché nascondi il tuo volto diméntico della nostra tribolazione? Giace a terra il nostro corpo: sorgi in nostro aiuto, o Signore, e líberaci.]

Ps XLIII: 2 – Deus, áuribus nostris audívimus: patres nostri annuntiavérunt nobis. [O Dio, lo udimmo coi nostri orecchi: ce lo hanno raccontato i nostri padri.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui cónspicis, quia ex nulla nostra actióne confídimus: concéde propítius; ut, contra advérsa ómnia, Doctóris géntium protectióne muniámur. – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

[O Dio, che vedi come noi non confidiamo in alcuna òpera nostra, concédici propizio d’esser difesi da ogni avversità, per intercessione del Dottore delle genti. – Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. – Amen.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

2 Cor XI: 19-33; XII: 1-9.

“Fratres: Libénter suffértis insipiéntens: cum sitis ipsi sapiéntes. Sustinétis enim, si quis vos in servitútem rédigit, si quis dévorat, si quis áccipit, si quis extóllitur, si quis in fáciem vos cædit. Secúndum ignobilitátem dico, quasi nos infírmi fuérimus in hac parte. In quo quis audet, – in insipiéntia dico – áudeo et ego: Hebraei sunt, et ego: Israelítæ sunt, et ego: Semen Abrahæ sunt, et ego: Minístri Christi sunt, – ut minus sápiens dico – plus ego: in labóribus plúrimis, in carcéribus abundántius, in plagis supra modum, in mórtibus frequénter. A Judaeis quínquies quadragénas, una minus, accépi. Ter virgis cæsus sum, semel lapidátus sum, ter naufrágium feci, nocte et die in profúndo maris fui: in itinéribus sæpe, perículis fluminum, perículis latrónum, perículis ex génere, perículis ex géntibus, perículis in civitáte, perículis in solitúdine, perículis in mari, perículis in falsis frátribus: in labóre et ærúmna, in vigíliis multis, in fame et siti, in jejúniis multis, in frigóre et nuditáte: præter illa, quæ extrínsecus sunt, instántia mea cotidiána, sollicitúdo ómnium Ecclesiárum. Quis infirmátur, et ego non infírmor? quis scandalizátur, et ego non uror? Si gloriári opórtet: quæ infirmitátis meæ sunt, gloriábor. Deus et Pater Dómini nostri Jesu Christi, qui est benedíctus in saecula, scit quod non méntior. Damásci præpósitus gentis Arétæ regis, custodiébat civitátem Damascenórum, ut me comprehénderet: et per fenéstram in sporta dimíssus sum per murum, et sic effúgi manus ejus. Si gloriári opórtet – non éxpedit quidem, – véniam autem ad visiónes et revelatiónes Dómini. Scio hóminem in Christo ante annos quatuórdecim, – sive in córpore néscio, sive extra corpus néscio, Deus scit – raptum hujúsmodi usque ad tértium coelum. Et scio hujúsmodi hóminem, – sive in córpore, sive extra corpus néscio, Deus scit:- quóniam raptus est in paradisum: et audivit arcána verba, quæ non licet homini loqui. Pro hujúsmodi gloriábor: pro me autem nihil gloriábor nisi in infirmitátibus meis. Nam, et si volúero gloriári, non ero insípiens: veritátem enim dicam: parco autem, ne quis me exístimet supra id, quod videt in me, aut áliquid audit ex me. Et ne magnitúdo revelatiónem extóllat me, datus est mihi stímulus carnis meæ ángelus sátanæ, qui me colaphízet. Propter quod ter Dóminum rogávi, ut discéderet a me: et dixit mihi: Súfficit tibi grátia mea: nam virtus in infirmitáte perfícitur. Libénter ígitur gloriábor in infirmitátibus meis, ut inhábitet in me virtus Christi.”

Omelia I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

S. PAOLO

“Fratelli: Saggi come siete, tollerate volentieri gli stolti. Sopportate, infatti, che vi si renda schiavi, che vi si spolpi, che vi si raggiri, che vi si tratti con arroganza, che vi si percuota in viso. Lo dico per mia vergogna: davvero che siamo stati deboli su questo punto. Eppure di qualunque cosa altri imbaldanzisce (parlo da stolto) posso imbaldanzire anch’io. Sono Ebrei? anch’io: sono Israeliti? anch’io; discendenti d’Abramo? anch’io. Sono ministri di Cristo? (parlo da stolto) ancor più io. Di più nelle fatiche; di più nelle prigionie: molto di più nelle battiture; spesso in pericoli di morte. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno. Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta lapidato. Tre volte ho fatto naufragio, ho passato un giorno e una notte nel profondo del mare. In viaggi continui tra pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli da parte dei mei connazionali, pericoli da parte dei gentili, pericoli nelle città, pericoli del deserto, pericoli sul mare, pericoli tra i falsi fratelli; nella fatica e nella pena; nelle veglie assidue; nella fame e nella sete; nei digiuni frequenta nel freddo e nella nudità. E oltre le sofferenze che vengono dal di fuori, la pressione che mi si fa ogni giorno, la sollecitudine di tutte le Chiese. Chi è debole, senza che io ancora non sia debole? Chi è scandalizzato, senza che io non arda? Se bisogna gloriarsi, mi glorierò della mia debolezza. E Dio e Padre del nostro Signor Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco il governatore del re Areta, faceva custodire la città dei Damascesi per impadronirsi di me. E da una finestra fui calato in una cesta lungo il muro, e così gli sfuggii di mano. Se bisogna gloriarsi (certo non è utile) verrò, dunque, alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo, il quale, or son quattordici anni, (se col corpo non so; se senza corpo non so; lo sa Dio) fu rapito in paradiso, e udì parole arcane, che a un uomo non è permesso di profferire. Rispetto a quest’uomo mi glorierò; quanto a me non mi glorierò che delle mie debolezze. Se volessi gloriarmi non sarei stolto, perché direi la verità; ma me ne astengo, affinché nessuno mi stimi più di quello che vede in me o che ode da me. E affinché l’eccellenza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, m’è stata messa una spina nella carne, un angelo di satana, che mi schiaffeggi. A questo proposito pregai tre volte il Signore che lo allontanasse da me. Ma egli mi disse: «Ti basta la mia grazia; poiché la mia potenza si dimostra intera nella debolezza». Mi glorierò, dunque, volentieri delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo” (2 Cor. XI, 19-33 e XII, 1-9).

S. Paolo aveva sentito dal discepolo Tito, come la sua prima lettera a quei di Corinto aveva prodotto buoni effetti, e come quei Cristiani gli erano affezionati e fedeli. Alcuni, però, erano rimasti ostili a Paolo, a cui muovevano parecchie accuse. Dalla Macedonia, ove s’era incontrato con Tito, l’Apostolo s’affretta a scrivere ai Corinti una seconda lettera, in cui risponde ai suoi detrattori, e difende il proprio operato. Da questa lettera è tolta l’Epistola di quest’oggi, nella quale, descrivendo il proprio ministero apostolico, in opposizione al ministero dei suoi detrattori, S. Paolo scrive una insuperabile pagina biografica, che ci porge occasione di dire due parole sul grande Dottore delle genti. In lui possiamo considerare:

1. Il Giudeo,

2. L’Apostolo,

3. Il Martire.

1.

Gli oppositori di S. Paolo lo dipingono come un nemico dei figli d’Israele, ed egli risponde di non essere meno Ebreo dei suoi accusatori. Sono Ebrei? anch’io: sono Israeliti? anch’io, discendenti d’Abramo? anch’io. Paolo nasce a Tarso, nella Cilicia, da padre ebreo, e precisamente della tribù di Beniamino. Dopo la prima istruzione in patria, va a Gerusalemme dal celebre dottor della legge Gamaliele, il quale, sotto l’atrio del tempio, teneva scuola a numerosi giovani, istruendoli nella legge di Mosè. Paolo primeggia nello studio della legge e nello zelo per la sua osservanza. Zelo che arriva al punto di volere la prigionia, la morte per i seguaci del Nazareno. Quando Stefano cade sotto la furia dei sassi, egli è lì sul posto ad assistere, «approvando l’assassinio di lui» (Act. VII, 60). E quando si scatena la prima persecuzione contro i seguaci di Gesù Cristo, non rimane inerte. Leggiamo che egli « devastava la Chiesa entrando per le case, e, trascinando uomini e donne, li faceva mettere in prigione » (VIII, 3). Nel suo zelo ardente per la tradizione dei padri non si contenta della persecuzione di Gerusalemme. Vuol perseguitare i discepoli del Signore dove li trova, e riesce a ottenere dal principe dei sacerdoti lettere alle Sinagoghe di Damasco « per menar legati a Gerusalemme quanti avesse trovato di quella dottrina, uomini e donne » (Act. IX, 2). Ma qui lo attendeva quel Gesù che egli perseguitava nei suoi discepoli. Mentre egli, ancor spirante minacele e strage, s’avvicina a Damasco, sul mezzo giorno, è investito all’improvviso da una luce del cielo, e, cadendo a terra, sentì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo perché mi perseguiti? ». Egli disse: «Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: « Io sono Gesù che tu perseguiti. È dura cosa per te ricalcitrare contro il pungolo». Ed egli tremante e pieno di stupore domandò: « Signore che vuol che io faccia? » E il Signore a lui: «Alzati, ed entra in città, e lì ti sarà detto quel che dovrai fare» (Att. IX, 3-6). Saulo, divenuto cieco, è guidato dai suoi compagnialla casa di Giuda. Quivi è visitato dal discepolo Anania,miracolosamente avvertito, che gli ridona la vista conl’imposizione delle mani e lo battezza. Ora Paolo non èpiù quello di prima. La grazia ha trasformato il lupo inagnello, il persecutore in difensore, il nemico in soldatofedele. La grazia di Dio ha compiuto uno strepitoso miracoloper nostro ammaestramento. Infatti «per indurci allanostra emendazione quale impulso maggiore avrebbe potutodarci, che quello della conversione d’un persecutore perdarcelo dottore?» (S. Ambrogio, De Pœn. L. 2, 5). «Qualsiasi peccatore — esorta S. Agostino — guardi all’Apostolo Paolo a cui da Dio fu perdonata tanta malizia e tanta crudeltà e non disperi, ma si converta a Dio » (En. 1 in Ps. 70, 1).

2.

Se c’erano di quelli che potevano vantarsi di lavorare per il Vangelo, non potevano vantarsi di lavorare come Paolo, che era più di loro nelle fatiche. Paolo era stato chiamato da Dio a portare il suo nome soprattutto fra le genti. Ad Anania, che è preoccupato per l’ordine ricevuto di recarsi da Saulo in casa di Giuda, «Va pure — dice il Signore — perché costui è uno strumento da me eletto a portare il mio nome ai gentili e ai re e ai figliuoli d’Israele» (Att. IX, 15). Era una missione mondiale, che S. Paolo abbracciò con grande ardore e condusse sino alla fine. Nessun confine può arrestare i suoi passi. Lo troviamo nella Siria, nella Gabazia, nella Panfilia, nella Pisidia, nella Licaonia, nella Cilicia, nella Frigia, nella Macedonia, nella Grecia, nell’Illiria. in Italia, a Roma, da dove si propone di andare in Spagna sino ai confini del mondo romano. Viaggiava, ora da solo, ora con compagni. Sempre era un viaggio faticoso. Se viaggiava per terra c’erano varchi pericolosi da superare, o pianure mai sicure da attraversare. Se viaggiava per mare doveva servirsi di navi o barche non sempre ben solide, sballottate spesso qua e là dalla furia delle onde. Eppure non dice mai: basta! Partito o scacciato da un luogo, ne evangelizza un altro. Il cattivo successo non raffredda il suo zelo, anzi lo rafforza. – Noi ammiriamo il coraggioso che. rotta la cerchia dei nemici, va a piantar la bandiera nel loro campo, e vi raduna attorno i forti che la difendano, e la facciano sventolare. Che dovremmo dire di S. Paolo, che sormonta qualunque ostacolo per portar la luce del Vangelo nei luoghi, ove le tenebre sono più fitte; che innalza l’emblema della croce, ove satana maggiormente domina mediante il culto degli dei falsi e bugiardi? «Da Gerusalemme, per le regioni intorno fino all’Illirico — scrive egli ai Romani — ho pienamente compiuto la predicazione del Vangelo di Cristo: studiandomi, così di predicare questo Vangelo là, dove Cristo non è ancor stato conosciuto» (Rom. XV, 19-20). Quando, poi, il tempo e le circostanze lo permettevano egli ritornava in quei luoghi a compiere la sua visita apostolica, a correggere ove si errava, a incoraggiare dove era subentrato il raffreddamento, a infervorare tutti nell’amore a Gesù Cristo. E quando non poteva recarsi in persona mandava i suoi discepoli; mandava le sue lettere che illuminarono e infiammarono i cori dei fedeli d’allora, e che hanno continuato e continueranno a illuminare e a infiammare i cuori dei fedeli di tutti i secoli. Lo zelo di S. Paolo non si limita alla sollecitudine di tutte le Chiese: si occupa anche dei singoli Cristiani. Ogni giorno è un concorso, una ressa di neofiti, che fa pressione attorno all’Apostolo, e non gli lascia un momento di respiro. Chi ha un dubbio da dilucidare, chi ha un caso da esporre, chi ha una pena da manifestare, chi ha un pericolo che gli sovrasta, ricorre all’Apostolo. Ed egli si fa tutto a tutti. Per tutti ha una risposta, a tutti porta un sollievo, con tutti condivide una lagrima. Chi è debole, senza che io ancora non sia debole! — dichiara egli stesso — Chi è scandalizzato, senza ch’io non arda? – Dove attingeva S. Paolo l’energia per una attività così sorprendente nell’adempimento del suo apostolato? Il velivolo che s’innalza, sorpassa le vette dei monti, sorvola gli oceani che dividono i continenti, ha una forza che lo spinge, il motore. L’amor di Dio è la gran forza che, a traverso i monti e a traverso i mari, spinge Paolo a portar la conoscenza di Gesù Cristo là, dove non è conosciuto. «L’amor di Cristo ci spinge» (2 Cor. V, 14), dice egli stesso. – Se la grandezza dell’amore si conosce dalla grandezza dei patimenti, bisogna dire che l’amor di Dio ardeva senza misura nel petto di San Paolo, perché senza misura furono i patimenti, che accompagnarono e coronarono il suo apostolato.

3.

S. Paolo non solo poteva dire d’essere di più dei suoi oppositori nelle fatiche: poteva anche aggiungere: di più nelle prigionie; molto di più nelle battiture mi trovai spesso in pericoli di morte. Il Signore aveva detto ad Anania, parlando di Paolo : «Io poi gli mostrerò quanto dovrà patire per il mio nome» (Att, IX, 16). E i patimenti accompagnarono costantemente l’apostolato di lui. Ed egli, anziché procurare di schivarli, se ne compiaceva. «Io mi compiaccio — scrive — nelle debolezze, negli obbrobri, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angustie per il Cristo» (2 Cor. XII, 10). «Egli — come dice il Crisostomo — immolava se stesso ogni giorno» (De Laud. S. Pauli Ap. Hom. 1). La sua vita fu certamente un martirio continuo, se si considerano le penitenze e le mortificazioni volontarie, che sosteneva per essere più somigliante al suo Signore nella passione; se si considerano tutte le prove che Dio gli ha mandato, sia rispetto all’anima, sia rispetto al corpo; se si considerano tutte le insidie e le persecuzioni con cui lo combattevano ebrei e gentili Nel suo apostolato ha da lottare con le onde, con le fiere, contro gli agguati degli assassini. Egli non aspetterà a versare il suo sangue nel giorno bramato, che lo congiungerà con Cristo in cielo. I suoi piedi hanno certamente lasciato impronte di sangue, dorante i suoi viaggi, per le vie lunghe e sassose. Sul suo corpo più d’una volta si sono insanguinati i flagelli e le verghe. E quando il suo sangue sta per esser sparso «come libazione», e si approssima la dipartita, può scrivere dal carcere romano al fedele Timoteo, con tutta confidenza: «Ho combattuto la buona battaglia, sono giunto al termine della corsa; ho serbato la fede» (2 Tim. IV, 6-7). – Solamente lo scioglimento dell’anima dal corpo potrà troncare la sua vita di martirio, dopo che avrà compiuto con la più grande fedeltà la missione affidatagli. Il 29 Giugno dell’anno 67 dal carcere vien condotto fuor di Roma sulla via ostiense, nel luogo chiamato Acque Salvie, oggi Tre Fontane, e là è decapitato nello stesso giorno che Pietro è crocifisso. Così, ha termine la vita di quest’uomo che «incarcerato sette volte, inseguito, lapidato, fu banditore della fede in oriente e in occidente» (Ep. 1 Clementis ad Cor. 5, 6). S. Gerolamo suggerisce a Eustachio di leggere il brano della seconda lettera ai Corinti, che forma l’epistola di quest’oggi, quando gli sembra grave la tribolazione che deve sopportare (Ep. 22, 40 ad Eust.). Questo brano ricordiamolo spesso anche noi. È un richiamo di tutta la vita di S. Paolo. La vita di quest’uomo, simile al quale né sorse, né sorgerà il secondo nella conquista delle anime, è di grande insegnamento a tutti. Essa insegna ad amar Dio di amore vivissimo: insegna che l’amore non sente peso né fatica. Le tribolazioni, le angustie, le persecuzioni, la fame, i pericoli, la spada, non valgono a spegnerlo e separar l’uomo dal suo Dio. La vita di S. Paolo ci insegna a non respingere l’aiuto del Signore. Quando Dio c’invita, con le sue ispirazioni, ad abbandonare la via nella quale ci siamo messi; a progredire più generosamente nel suo servizio, non induriamo il cuore, ma rispondiamo pronti come S. Paolo: «Signore, che vuoi tu che io faccia? ».

Graduale

Ps LXXXII: 19; LXXXII: 14

Sciant gentes, quóniam nomen tibi Deus: tu solus Altíssimus super omnem terram, [Riconòscano le genti, o Dio, che tu solo sei l’Altissimo, sovrano di tutta la terra.]

Deus meus, pone illos ut rotam, et sicut stípulam ante fáciem venti.

[V. Dio mio, ridúcili come grumolo rotante e paglia travolta dal vento.]

 Ps LIX: 4; LIX: 6

Commovísti, Dómine, terram, et conturbásti eam.Sana contritiónes ejus, quia mota est.Ut fúgiant a fácie arcus: ut liberéntur elécti tui.

[Hai scosso la terra, o Signore, l’hai sconquassata. Risana le sue ferite, perché minaccia rovina. Affinché sfuggano al tiro dell’arco e siano liberati i tuoi eletti.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam

Luc VIII:4-15

“In illo témpore: Cum turba plúrima convenírent, et de civitátibus properárent ad Jesum, dixit per similitúdinem: Exiit, qui séminat, semináre semen suum: et dum séminat, áliud cécidit secus viam, et conculcátum est, et vólucres coeli comedérunt illud. Et áliud cécidit supra petram: et natum áruit, quia non habébat humórem. Et áliud cécidit inter spinas, et simul exórtæ spinæ suffocavérunt illud. Et áliud cécidit in terram bonam: et ortum fecit fructum céntuplum. Hæc dicens, clamábat: Qui habet aures audiéndi, audiat. Interrogábant autem eum discípuli ejus, quæ esset hæc parábola. Quibus ipse dixit: Vobis datum est nosse mystérium regni Dei, céteris autem in parábolis: ut vidéntes non videant, et audientes non intéllegant. Est autem hæc parábola: Semen est verbum Dei. Qui autem secus viam, hi sunt qui áudiunt: déinde venit diábolus, et tollit verbum de corde eórum, ne credéntes salvi fiant. Nam qui supra petram: qui cum audierint, cum gáudio suscipiunt verbum: et hi radíces non habent: qui ad tempus credunt, et in témpore tentatiónis recédunt. Quod autem in spinas cécidit: hi sunt, qui audiérunt, et a sollicitudínibus et divítiis et voluptátibus vitæ eúntes, suffocántur, et non réferunt fructum. Quod autem in bonam terram: hi sunt, qui in corde bono et óptimo audiéntes verbum rétinent, et fructum áfferunt in patiéntia.”

OMELIA II

[A. Carmagnola; Spiegazione dei Vangeli Domenicali – S. E. I. Edit. TORINO, 1921]

SPIEGAZIONE XIIIP

« In quel tempo radunandosi grandissima turba di popolo, e accorrendo a lui da questa e da quella città, disse questa parabola: Andò il seminatore a seminare la sua semenza: e nel seminarla, parte cadde lungo la strada, e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono. Parte cadde sopra le pietre; e nata che fu, seccò, perché non aveva umido. Parte cadde tra le spine; e le spine, che insieme nacquero, la soffocarono. Parte cadde in buona terra; e nacque, e fruttò cento per uno. Detto questo, esclamò: Chi ha orecchie da intendere, intenda. E i suoi discepoli gli domandavano, che parabola fosse questa. Ai quali egli disse: A voi è concesso d’intendere il mistero di Dio; ma a tutti gli altri (parlo) per via di parabole, perché vedendo non veggano, e udendo non intendano. La parabola adunque è questa. La semenza è la parola di Dio. Quelli che (sono) lungo la strada sono coloro che la ascoltano; e poi viene il diavolo, e porta via la parola dal loro cuore, perché non si salvino col credere. Quelli poi che la semenza han ricevuta sopra la pietra, (sono) coloro i quali, udita la parola, la accolgono con allegrezza; ma questi non hanno radice, i quali credono per un tempo, e al tempo della tentazione si tirano indietro. La semenza caduta tra le spine, denota coloro i quali hanno ascoltato; ma dalle sollecitudini, e dalle ricchezze, e dai piaceri della vita a lungo andare restano soffocati, e non conducono il frutto a maturità. Quella che (cade) in buona terra, denota coloro i quali in un cuore buono e perfetto ritengono la parola ascoltata, e portano frutto mediante la pazienza » (Luc. VIII, 4-15).

È certo che una delle armi più poderose che il Cielo abbia dato agli uomini è la parola. Ed invero è la parola che sveglia alla guerra e compone la pace; è la parola che scuote i pigri e disarma i violenti; è la parola che ammansa i furiosi, placa gli adirati, consola gli afflitti, difende e salva gli innocenti. È la parola che sopra tutto fa scomparire dalle menti le tenebre dell’ignoranza e vi diffonde in quella vece la luce della scienza. Ora se tanto può e tanto profitta la parola dell’uomo, che cosa non sarà mai della parola di Dio? Udite come il celebre e grave Tertulliano ne fa risaltare la potenza e l’efficacia. Salomone, egli dice, regnò, ma solamente sulla Giudea da Dan fino a Bersabea: Dario imperò su Babilonia e sul paese dei Parti, ma non altrove; Faraone dominò l’Egitto. Nabucodònosor vide la sua dominazione confinata dalla Giudea e dall’Etiopia: Alessandro Magno non comandò mai all’Asia intera, e ben sovente or l’una or l’altra delle contrade soggiogate scuotevano il suo giogo. Il medesimo è a dire dei Bretoni, de’ Germani, de’ Mauritani. I Romani medesimi s’arrestarono in certi confini. Ma per la potenza della parola di Dio, il nome e il regno di Gesù Cristo si stendono in tutte le regioni del pianeta; tutti i popoli credono in Lui, tutte le nazioni lo servono; Egli regna in ogni luogo, è adorato dappertutto; Egli accoglie ugualmente tutti gli uomini, Egli è re, giudice, maestro e Dio dell’universo. Ed in vero la parola di Dio, dotata di una virtù celeste e soprannaturale, è chiamata nelle sacre Scritture spada a due tagli, che penetra sino alla divisione dei cuori, lucerna ardente che dissipa tutte le tenebre, rugiada che ammollisce, seme che feconda, alito che ravviva, via, verità e vita. Con tutto ciò, o miei cari, questa divina parola, che ha sempre operato ed opera tuttora i più grandi prodigi nella conversione delle anime, alle volte non produce tra taluni de’ suoi uditori alcun salutare effetto. Qual è la ragione di ciò? Nessun’altra che quella delle cattive disposizioni di chi l’ascolta. Ce lo insegna lo stesso divin Maestro con una bella parabola nel Vangelo di questa mattina.

1. Il seminatore, disse Gesù ad una immensa turba che lo ascoltava, il seminatore andò a seminare la sua semenza: e nel seminarla parte cadde lungo la strada, e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono. Et reliquia…

Voi vedete adunque come Gesù Cristo, avendo Egli stesso spiegata la sua parabola, dopo di aver detto che la semenza gettata dal seminatore è la parola di Dio, soggiunge le tre principali cause, che non le lasciano produrre i suoi frutti. E la prima di esse è la durezza del cuore, raffigurata nella terra vicina alla strada, che è terra battuta, pesta, indurita dai viandanti. Un cuore indurato nel male, ancorché ascolti la parola di Dio, non ne ricava profitto, perché riceve una tal parola superficialmente, senza abbracciarla e compenetrarsene, sicché il demonio senza difficoltà di sorta rende vano per costui quanto di buono ha udito. E che sia così, ce lo insinua il santo re Davide, il quale dopo di aver detto che « la legge del Signore, è legge che converte i cuori: lex Domini immaculata convertens animas; » soggiunge subito: « Sapìentiam præstans parvulis » (Psalm. XVIII, 7); che questa medesima legge cioè dà la sapienza a coloro che per la docilità del loro cuore sono come fanciulli. Senza dubbio può benissimo Iddio, qualora lo voglia, ferire un cuore quanto mai caparbio e rivoltoso, ed impossessarsene siffattamente da muoverlo, anzi trascinarlo, ad abbracciare la verità, ad amarla ed a costantemente seguirla, perché Egli è onnipotente ed alla sua onnipotenza neppur il cuore più ostinato può far fronte. Così appunto avvenne di Saulo. Galoppando verso di Damasco, pieno di furore contro i Cristiani, all’improvviso, come colpito da un fulmine, cade a terra ed ode la voce di Dio, che prima lo rimprovera e poscia lo ammaestra. E a quel miracolo dell’onnipotenza divina, Saulo interamente si muta e da quel punto comincia ad essere S. Paolo. Ma questi, o miei cari, sono portenti, che raramente accadono, e se alcuno li pretendesse, sarebbe un miserabile presuntuoso. Epperò la regola ordinaria si è che nel cuore indurato dal male la divina parola non fa breccia alcuna. Ne abbiamo un esempio nello sciagurato Faraone. A quel tiranno, che nell’Egitto caricava il popolo del Signore d’ogni aggravio, Iddio manda Mosè e gli fa significare da parte sua che lasciasse andare alla solitudine il popolo d’Israele, affinché là gli offrisse dei sacrifici. Chi è, risponde il superbo, chi è questo Signore? Io non lo conosco punto, nè farò ciò che tu dici. Rimanda Iddio Mosè a Faraone, ad annunziargli che è volontà sua assoluta che egli licenzi il popolo; ed a convincerlo che da Dio è questo comando, fa gettare ad Aronne la vérga sul suolo, che tosto mutasi portentosamente in una serpe. Ma l’ostinato non cede ancora. Manda allora Iddio la terza volta Mosè a fargli la stessa ambasciata, e alla negativa pronto succede il castigo, e l’acqua del fiume a un tocco della verga si cangia in sangue; ciò non bastando carica Iddio la mano, e fa sorgere in tutto l’Egitto una sì grande maledizione prima di rane, quindi di insetti, poscia di mosche, che era una disperazione in tutto il regno, né la reggia medesima, né il trono, né la real persona di Faraone era punto da quei lordi e molesti animaluzzi rispettata. Questi flagelli tornati inutili, rimanda Iddio il suo messo al superbo, dicendogli che ormai lasciasse libero Israele. A dir breve, ben dieci volte e più fece parlare il Signore al tiranno, dieci volte lo minacciò, se non cedeva, di terribili castighi, e dieci volte lo percosse con flagelli l’un più dell’altro terribile, fino a fargli morire di peste per tutto il regno gli armenti d’ogni genere, fino a devastar con la grandine e con le cavallette ogni campagna, fino ad impiagare pressocché tutti gli Egiziani di ulceri straziantissime, fino a privarli della luce benefica del sole, e far che tutti gli Egiziani brancolassero entro a tenebre quasi palpabili, fino a introdurre in tutte le case la morte, percuotendone ogni primogenito, ed eccitare così il pianto per ogni angolo di quel regno, non escluso il reale palazzo, fino a strappare i lamenti dalla bocca medesima dell’ostinato e superbo Monarca. Con tutto ciò il Faraone non voleva cedere, e perché! Ce lo dice la Sacra Scrittura: « Induratimi est cor Pharaonis; il cuor di Faraone si era indurato ». (Esod. pass.). A Davide invece, macchiato innanzi a Dio di duplice abbominevole delitto, si presenta per comando dell’Altissimo il profeta Natan e gli racconta una breve parabola, per cui il re avvampando di giusto sdegno contro il supposto truffatore, esce in quelle parole: « Viva Dio, che cotesto iniquo è degno di morte. Ma proprio tu sei quel desso, ripiglia il Profeta, tu es ille vir, ed aggiunte ancor poche parole di giusto rimprovero e di minaccia di meritati castighi, Davide tosto si compunge, si umilia, e pieno di sincero pentimento, esclama: Signore, ho peccato; abbi di me pietà. – Or ecco una delle principali cause per cui la parola di Dio non riesce per tutti di salutare effetto. Vanno taluni ad ascoltarla, sia pure col peccato sull’anima, ma perché non sono ostinati nel male, e non ban fatto proposito di restare nel vizio, perciò non è mai che anche costoro non ne ricavino qualche frutto. Ma invece altri ci vanno, unicamente o perché ci sono costretti o per mera curiosità, ma col cuore deliberato a non farne caso, con volontà ostinata e caparbia, e, quasi direi, con fermo proposito di voler perfidiare nell’empietà e nei vizi, epperò come mai per costoro potrà essere profittevole la parola di Dio? Eh! la grazia del Signore non è una violenza, e quando il cuore non cooperi alcun poco, o almeno almeno non resista ai suoi movimenti, si rimane inefficace. Or dite, o miei cari, non vi sarà tra di voi alcuno, che abbia per la parola di Dio questa sì grave indisposizione? Oh! se mai vi fosse, non voglia più oltre indurare il cuore, ma fin da questo istante ascolti docilmente la divina parola: Hodie si vocem eius audieritis, nolite óbdurare corda vestra(Psalm. XCIV, 8).

2. La seconda indisposizione per la parola di Dio si è la leggerezza di spirito, raffigurata dalla poca terra posta in mezzo alle pietre, la quale fece bensì germogliare la semenza, ma poscia, per mancanza di umore non potendo darle nutrimento, la lasciò tosto seccare. Ed in vero vi hanno di coloro, i quali volentieri ascoltano la parola di Dio e l’ascoltano pur anche con tenerezza di cuore. Sopra di costoro la divina parola, nel momento in cui è predicata, produce delle salutari impressioni, e secondo gli argomenti che tratta, ora si pentono delle loro passate colpe, ora si animano a farne aspra penitenza, ora si decidono ad imitare gli esempi dei Santi e far grandi cose, ed a correre eziandio alla salute delle anime. Ma ohimè! Con tanti bei desideri e propositi, il più delle volte, appena usciti di Chiesa, non pensano quasi più a nulla di quanto hanno udito, e se pur lo ricordano, non appena si trovano in mezzo a qualche pericolo e sono in qualche modo tentati, tornano miseramente a cadere nel peccato come prima. Costoro hanno una grande leggerezza di spirito, sono mutabili, incostanti e mancano perciò dell’umore del vero amor di Dio. Ed oh quanto numerosi pur troppo sono costoro! Quanti possono sono dire come il Profeta: « L’anima mia, o Signore, è divenuta come una terra senz’acqua: anima mea, sicut terra sine acqua tibi(Psalm. CXLII, 6). Ed ecco perché il Divin Redentore diceva che « beati sono coloro, i quali non solo ascoltano la parola di Dio, ma la custodiscono nel loro cuore per praticarla: Beati qui audiunt verbum Dei et custodiunt illud(Luc. XI, 28) ». Sì, questo sommamente importa, che si conservi nel cuore la parola del Signore, che si è udita in Chiesa, e si metta in pratica. Poiché, per qual altro fine il Signore ha ordinata la predicazione? Nel mandare gli Apostoli in mezzo al mondo a predicare il suo santo Vangelo disse loro: Euntes docete omnes gentes… docentes eos servare omnia, quæcumque mandavi vobis: Andate ed istruite tutte le genti… insegnando loro di osservare tutto quello che io vi ho comandato (Matth. XXVIII, 20). Ecco il gran fine della predicazione cristiana, l’apprendimento della legge di Gesù Cristo per osservarla. A che vale adunque ascoltare la parola di Dio, anche con attenzione e riverenza, se poi non si mette il massimo impegno di ridurla alla pratica, e specialmente allora che assale la tentazione, che occorre un qualche pericolo? Cacciamo adunque, se mai vi fosse, cacciamo dal nostro spirito la leggerezza, ed invece diamo luogo alla riflessione ed alla fermezza di proposito. Quando il buon terreno conserva la semente, che gli fu affidata nei giorni dell’autunno, accade nell’interno del suolo un lavoro che sfugge agli occhi nostri. Il germe si sviluppa, le radici si allungano, poi compare alla fine il gambo. Ma per questo occorre un certo numero di giorni. Cosi, o miei cari, quando avete ricevuto la buona semenza della parola di Dio, deve in voi operarsi il lavoro della riflessione e d’una seria risoluzione. E poi un giorno si vedranno germogliare e comparire al di fuori i buoni proponimenti del vostro cuore, e questo cuore, simile al buon terreno del Vangelo, produrrà dei frutti abbondantissimi di vita eterna.

3. Da ultimo la terza principale indisposizione per la parola di Dio è la sregolata condotta, raffigurata dalle spine, le quali crescendo insieme con la semenza la soffocarono. E la sregolata condotta, secondo l’insegnamento divino, massimamente consiste nelle sollecitudini del mondo, nell’attacco alle ricchezze e nell’amore dei piaceri. Anzi tutto nelle sollecitudini del mondo. Chi sa dire i pensieri, gli affanni, le ansietà continue, in cui vivono taluni per riguardo ai loro studi, o ai loro interessi, od alla loro ambizione? Il loro animo è preoccupato dal mattino alla sera, e persino la notte durante il sonno non sognano altro se non ciò che li agita. Ora come è possibile, che costoro pur ascoltando, o casualmente, o per forza, la parola di Dio ne abbiano poi a far frutto? Ancorché nell’udirla si formassero nei loro cuori dei buoni desideri e propositi, certamente le temporali sollecitudini, a cui sono in preda, tosto soffocherebbero quel tanto di bene spuntato fuori. In secondo luogo le ricchezze. E qui S. Gregorio Magno esclama: Chi mi avrebbe creduto, se da me stesso avessi voluto per le spine intendere le ricchezze di questo mondo, poiché quelle nuocciono al corpo, e queste allettano i sensi? Eppure quanto è giusto questo paragone preso dal Salvatore. Le ricchezze non sono meno sterili delle spine; per se stesse nulla producono per l’eternità. Vi ha una sola maniera di renderle utili, ed è di perderle volontariamente consacrandole alle opere buone, come non v’ha che un solo modo di utilizzare le spine, cioè gettarle al fuoco per riscaldare le membra irrigidite dal freddo della stagione. Ma quanto pochi sono coloro, che gettino così i loro tesori alle fiamme della carità fraterna! Il più delle volte si attaccano a questi beni passeggieri, che per essi divengono vere spine. Quante fatiche per acquistarli, quante cure per conservarli, quante ferite fatte all’anima, che dimentica i veri beni, i beni eterni, quanti amari affanni preparano per l’ora estrema della separazione! E come mai in un cuore tutto pieno dell’amor dei tesori della terra vi sarebbe ancor posto per la parola di Dio? Vi ricordate di quel giovane che chiedeva di porsi alla sequela di Gesù? Il Salvatore gl’impone per condizione rigorosa di vendere il suo avere e darne il prezzo ai poveri; allora solamente potrà ritornare e contare fra i discepoli del divin Maestro. E il giovane se ne partì mesto, perciocché possedeva grandi beni e il suo cuore vi si era fortemente attaccato. La semenza dei buoni desideri e delle sante ispirazioni, fu soffocata dalle spine della ricchezza e dell’attaccamento alle cose di quaggiù. Ecco perché il Salvatore ha scagliato i divini anatemi contro le ricchezze; ecco perché con voce lamentevole egli gemette sulla difficoltà, che incontrano i ricchi nella strada del cielo. Lo stesso infine diciamo pei piaceri: anch’essi soffocano la buona semenza. E come infatti accordare l’amor del piacere con la parola di Dio? Questa non predica che rinunzia e sacrificio; essa esalta la povertà, le lagrime; proclama beati quelli che hanno a subire persecuzioni ed oltraggi; vuole che si elegga sempre l’ultimo posto; fa un rigoroso dovere del perdono delle ingiurie e dell’amor dei nemici. Ora, può egli capire ed accettare questo linguaggio chi è misero schiavo del piacere? Chi brama di vivere secondo l’impeto delle sue malvagie passioni? Chi vuole accontentare le sue perverse inclinazioni? È impossibile. Oh quanto importa adunque, se desideriamo profittare della parola di Dio, quanto importa di scacciare dall’anima nostra l’affetto alle cose miserabili di questo mondo e renderla così una terra buona che produca il centuplo per uno! Quanto importa di formarci un cuor buono e perfetto che ritenga la parola di Dio e la faccia fruttificare mediante la pazienza sia nel sopportare le avversità della vita, sia nel combattere le difficoltà che si incontrano nel fare il bene! Noi felici se useremo questo impegno: dopo di avere ben ascoltata e praticata quaggiù la parola di Dio, avremo alla fine la gran sorte di andarla ad ascoltare per sempre con la massima gioia lassù nel tempio celeste.

Offertorium

Orémus Ps XVI:5; XVI:6-7

Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine. [Rendi fermi i miei passi nei tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino. Inclina l’orecchio verso di me, e ascolta le mie parole. Fa risplendere la tua misericordia, tu che salvi chi spera in Te, o Signore.]

Secreta

Oblátum tibi, Dómine, sacrifícium, vivíficet nos semper et múniat.

[Il sacrificio a Te offerto, o Signore, sempre ci vivifichi e custodisca.]

Communio

Ps XLII:4

Introíbo ad altáre Dei, ad Deum, qui lætíficat juventútem meam. [Mi accosterò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut, quos tuis réficis sacraméntis, tibi étiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas. [Ti supplichiamo, o Dio onnipotente, affinché quelli che nutri coi tuoi sacramenti, Ti servano degnamente con una condotta a Te gradita.]

LO SCUDO DELLA FEDE (L)

IL NUMERO DEGLI ELETTI.

Sarà grande o piccolo il numero degli eletti? — ragioni che persuadono essere grande. — Se questa opinione ingeneri soverchia e ingiusta fidanza di salvarsi. — Conclusione e ammonimenti.

— E sarà grande o piccolo il numero degli eletti al paradiso?

Questo è il segreto di Dio, e la Chiesa a questo riguardo non ha dichiarato e tanto meno definito nulla. Vi sono tuttavia due opinioni: quella di coloro che dicono assai piccolo il numero degli eletti, inferiore a quello dei riprovati, e quella di coloro che lo affermano grande e superiore assai a quello dei dannati. Trattandosi di opinioni libere, non ti pare, a te, che sia assai meglio attenerci a quella che più ci consola, che meglio risponde alla bontà di Dio e che più esalta la divina redenzione?

— Oh sì! certamente. Ma non vi sono nella Scrittura delle comparazioni e delle parabole che provano il numero degli eletti essere piccolo?

Le comparazioni e le parabole, eccetto che Gesù Cristo, spiegandone il senso, attribuisca loro un valore probativo non sono argomenti, né dimostrazioni; possono perciò servire a far capire una cosa, una verità, ma non già a dimostrarla. D’altronde se esse avessero forza di prove, si avrebbe piuttosto a conchiudere al gran numero degli eletti che al piccolo, giacche la più parte delle comparazioni e parabole mostrerebbero ciò.

— Non vi sono tuttavia nel Vangelo delle sentenze decisive, quali queste: — Molti sono i chiamati, pochi gli eletti. — La porta è larga ed è spaziosa la via che mena alla perdizione, e molti si mettono per essa. Come è stretta la porta ed angusto il cammino che conduce alla vita, e pochi son quelli che vi entrano. — ?

Queste sentenze sarebbero decisive se tutti si accordassero nella loro interpretazione per il piccolo numero degli eletti. Ma non è così. E trattandosi della prima sentenza, la si può intendere in questo senso: che molti, cioè tutti sono chiamati alla grazia e all’osservanza, dei precetti, ma pochi sono eletti alla grazia esimia e all’osservanza dei consigli. La seconda poi si può credere sia stata profferita specialmente e direttamente da Gesù Cristo, per coloro che vivevano ai tempi suoi, e che così poco profittavano della sua divina predicazione (V. Monsabrè, Dogma Cattolico, Conferenza CII). Quindi è che così interpretate, o in modo somigliante, queste sentenze non decidono allatto sul piccolo numero degli eletti al paradiso.

— Ma su quali ragioni si fonda l’opinione del maggior numero degli eletti?

Su ragioni ottime, che io ti accenno appena, cavandole dagli scritti di valenti teologi e di eminenti autori, tra i quali mi basti nominarti un Faber, un Suarez ed un S. Francesco di Sales.

l. La Magnificenza di Dio. — Nell’ordine della natura, come in quello della grazia, ciò che costituisce il carattere di Dio è l’abbondanza, la magnificenza, profondendo egli i suoi doni senza misura. Non sarà dunque anche magnifico nel numero degli eletti?

2. L’onore della Redenzione. — Gesù Cristo è disceso dal cielo per abbattere satana e strappargli le anime dalle mani. Nella lotta a tal fine, ingaggiata con lui, vinse; né poteva essere altrimenti. Ora sarebbe possibile che Gesù Cristo, vincitore di satana, si trovasse in cielo ad avere un trofeo di anime inferiore al numero di quelle che Satana, il vinto, sarebbe riuscito tuttavia a far sua preda? In certa guisa il demonio non potrebbe così eternamente vantarsi di una potenza di rovina superiore alla potenza della redenzione?

3. La Costituzione della Chiesa Cattolica. — Essa è formata di Cattolici, che sono ricolmi di grazie e di privilegi per parte di Dio e per virtù di Gesù Cristo. Alla sua anima inoltre, senza appartenere al suo corpo, ossia alla società visibile da lei formato, appartengono molti eretici e scismatici, che vivono in buona fede ed operano cristianamente. Ora non è pur scritto che « non vi è dannazione per coloro che sono in Gesù Cristo, e che Colui che accorda di cominciare (mediante la vocazione alla fede) accorda eziandio il dono di finire (colla vocazione alla gloria)? »

4. L’azione dei Sacramenti. — Essa è mille volte più estesa ed efficace di quel che possiamo immaginare. E se si pone mente al numero immenso di sacramenti, che ogni giorno si amministrano, e al valore della grazia divina, che comunicano a coloro che degnamente li ricevono, si potrebbe credere seriamente, che ciò non ostante ne debba seguire la perdita della maggioranza degli uomini?

5. L’azione dei mezzi straordinari. — Volendo Iddio di volontà vera che tutti gli uomini si salvino e pervengano al conoscimento della verità, epperò volendo ancora applicare a tutti gli uomini gli effetti salutari della sua redenzione, oltre che coi mezzi ordinari posti a tal fine nella sua Chiesa, non si può dubitare che Egli, nella sua bontà infinita, si valga altresì di mezzi straordinarii, perché coloro stessi che vivono lontani dalla Chiesa possano conseguire la salvezza. Come dunque tra gli stessi gentili Iddio non si formerebbe un gran numero di eletti con delle operazioni misteriose, che Egli solo conosce, ma che con tutta la teologia cattolica puossi affermare che esistono?

6. La somma giustizia di Dio. — Molte volte noi possiamo credere che taluni si trovino in peccato mortale e muoiano in tale stato, mentre invece non è così. Perché il peccato sia mortale ci vuole materia grave, pieno conoscimento e piena volontà. « Ora, dice Mons. Bonomelli, è facilissimo riconoscere se in un peccato vi sia materia grave o no, ma non è troppo facile il giudicare se vi siano il pieno conoscimento e la piena volontà. Bisognerebbe perciò conoscere a fondo l’indole di ciascuno, la parte sì grande che vi hanno l’eredità fisica e morale, l’educazione domestica e pubblica, le letture, il genere di vita, i cibi, il clima stesso, le amicizie, le mille e mille circostanze che possono influire sulla mente e sulla volontà, accrescerne o scemarne, o toglierne affatto la responsabilità. Gli atti dell’uomo sono il risultato di tante e tante forze interne ed esterne, che influiscono sulla mente e sulle volontà, che solamente un temerario od un pazzo potrà dire di conoscerle tutte e quindi giudicare la responsabilità. Questo lo può fare solo Iddio. E lo fa con una giustizia somma, per cui spessissime volte Egli giudicherà solo come peccato veniale, quello che noi negli altri, col nostro scarso giudizio, abbiamo creduto mortale ». E questa consolante verità non sarebbe essa pure in favore del maggior numero degli eletti?

7. L’infinita misericordia di Dio al punto di morte. — Questa misericordia verso i morenti deve superare ogni idea. Cento volte più che non vediamo, mille volte più che non possiamo supporre, nell’ora estrema, anzi nello stesso istante finale della vita, sia a coloro che sino a quel punto si ostinano a star in peccato, sia a quelli stessi, che repentinamente arrivano a quel punto negli infortuni, nei disastri, negli assassinii, nelle risse, negli stessi suicidi e duelli, Iddio si presenta ad offrire la misericordia sua, e solo che costoro il vogliano, e poi con una parola, con un affetto, con un sospiro, con una sola lagrimetta (cfr. Dante in Purg. c. V) che esprima il pentimento sincero del male che hanno commesso, possono acquistare la sua grazia e morire con essa. Certamente Dio vorrà che essi espiino con lunghi e crudi tormenti la loro grande tardanza ad arrendersi alla sua grazia, ed è per questo che il purgatorio fu fatto terribile, ma essi intanto entrano nel novero degli eletti. Ecco le principali ragioni sulle quali, come ti dissi, autori eminenti e insigni dottori appoggiano l’opinione del maggior numero degli eletti.

— A me paiono davvero di gran valore e per esse si dilegua dalla mia mente qualsiasi idea di durezza da parte del Signore nell’opera della nostra salute. Tuttavia questa opinione non può ingenerare in taluni una soverchia e ingiusta fidanza di salvarsi senza fare quello che a tal fine importa?

In un’anima vile ed orgogliosa certamente ciò potrebbe accadere. Ma noi affidandoci all’indulgenza e misericordia di Dio, « ci studieremo colla maggior sollecitudine di corrispondere generosamente alla medesima, col rendere certa la nostra vocazione ed elezione per mezzo delle buone opere, » in conformità all’avvertimento che ci dà il principe degli Apostoli S. Pietro; e ancorché sapessimo che su cento uomini non vi fosse che un dannato, ci manterremo in quella umiltà e saggezza cristiana, che facendoci temere di essere quell’uno, ci sprona « ad operare la nostra salvezza con timore e tremore, » secondo che ci esorta S. Paolo.  – E con questo pensiero io prendo da te commiato, non senza ridarti prima qualche avvertimento e rifarti qualche raccomandazione della massima importanza per la difesa e conservazione costante della fede nel tuo cuore. E primieramente: sebbene io t’abbia data tutta la libertà di farmi lo obbiezioni e difficoltà che sapevi contro la fede cristiana, e vi ti abbia anzi incoraggiato affine di scioglierle ed illuminarti quanto più era possibile senza recarti tedio, tuttavia vi sarebbero ancora varie altre difficoltà ed obbiezioni, che si potrebbero fare, e che forse mi farai un’altra volta, che di proposito rientriamo a discorrere insieme. Con tutto ciò ti avverto che molte difficoltà ed obbiezioni, che intenderai da altri, che potrai leggere, o che ti si presenteranno da per sé alla mente, potranno a prima vista parerti nuove, senza che lo siano, almeno nella loro sostanza, essendo l’errore proteiforme. Ed allora scorgendo tu in esse, anche solo da lontano, una qualche relazione con quelle che già mi hai fatte, richiama alla mente la soluzione che ne hai avuto, considerata se occorre, in tutta la sua ampiezza, ed io credo che anche allora potrai dare a quelle difficoltà apparentemente nuove una soddisfacente risposta. – In secondo luogo ti raccomando di evitare la frequenza di quelle persone, che sono bacate nella fede, e di astenerti sempre dalla lettura di quei libri e di quei giornali che più o meno, con sfacciataggine aperta o con raffinata malizia ammanniscono altrui il veleno dell’immoralità e dell’irreligione. Rammenta in proposito quanto ti ho già detto al riguardo; è qui che sì avvera il proverbio che « la goccia scava la pietra ». Frequentando certe persone, facendo certe letture, senza avvedertene, a poco a poco scadresti dalla fermezza della fede cattolica, non ostante tutto quello che hai appreso intorno ad essa. – Da ultimo ti raccomando quanto so e posso che sii puro nei costumi e religioso nei sentimenti. Un cuore mondo e pio difficilmente è tentato di incredulità. Che se pure qualche dubbio si presenta ad assalirlo all’improvviso, prontamente ed efficacemente ne lo discaccia. Evita adunque ogni contaminazione sia nei pensieri, nei desideri e negli affetti, sia negli sguardi, nelle parole e nelle opere. Prega qualche po’ tutti i giorni; ogni dì festivo pratica i tuoi doveri cristiani, ascoltando bene la Messa ela parola di Dio, ai tempi nostri più necessaria del pane; ogni mese, se puoi (e basta che tu il voglia), accostati con le dovute disposizioni ai SS. Sacramenti; fatti ascrivere, se ancora non sei ascritto, a qualche buona associazione per partecipare anche tu vivamente, ma sempre in obbedienza a chi di ragione, all’Azione Cattolica; infine mettiti sotto il manto di Colei, che giustamente invocata sotto il titolo di Aiuto dei Cristiani, per averli preservati dai nemici della fede, scamperà te pure da tutti i dardi, che contro di essa ti si possano scagliare. Ed allora anche tu, giunto al termine della vita, che ti auguro lunga e felice, potrai dire come S. Paolo: « Ho conservata la fede; non mi rimane che riceverne la corona da Dio ». Ed io pure, allargando vieppiù i l cuore alla fiducia nella bontà del Signore, mi terrò confortato per avere colla divina grazia qualche po’ cooperato a porre in difesa e salvezza dell’anima tua … Lo Scudo della fede.

FESTA DELLA CATTEDRA DI S. PIETRO IN ANTIOCHIA

Sermone di sant’Agostino Vescovo

Sermone 15 sui Santi

L’istituzione dell’odierna solennità ricevé dai nostri antenati il nome di Cattedra, perché è tradizione che Pietro, principe degli Apostoli, prendesse possesso quest’oggi della sua sede episcopale. I fedeli perciò, con ragione, celebrano l’origine di quella Sede onde l’Apostolo fu investito per la salute delle chiese con quelle parole del Signore: «Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa » Matth. XVI, 18. – Il Signore dunque ha chiamato Pietro il fondamento della Chiesa: ed è perciò che la Chiesa venera giustamente questo fondamento sul quale poggia tutto l’edificio ecclesiastico. Quindi ben a ragione si dice nel Salmo ch’è stato letto: « Lo esaltino nell’adunanza del popolo, e lo lodino nel consesso dei seniori » Ps. CVI, 32. Benedetto Dio, che prescrive d’esaltare il beato Pietro Apostolo nell’adunanza del fedeli; è giusto infatti che la Chiesa veneri questo fondamento per cui si sale al cielo. – Celebrando dunque quest’oggi l’origine della Cattedra, noi onoriamo il ministero sacerdotale. Le chiese si rendono questo mutuo onore, comprendendo esse che la Chiesa tanto più cresce in dignità, quanto più viene onorato il ministero sacerdotale. Avendo dunque una pia usanza introdotto giustamente nelle chiese questa solennità, mi meraviglio delle grandi proporzioni che ha preso oggi un pernicioso errore tutto pagano, di portare cioè sulle tombe dei defunti dei cibi e del vino, come se le anime, che hanno abbandonato i loro corpi, reclamassero questi cibi propri della carne.

#     #     #

Omelia di san Leone Papa

Sermone 3 nell’anniversario della sua elezione, dopo il principio

Il Signore domanda agli Apostoli, chi dicesse la gente ch’egli sia: e la loro risposta è comune finché essi esprimono l’incertezza dello spirito degli uomini. Ma appena interroga i discepoli sul proprio sentire, il primo in dignità fra gli Apostoli è il primo ancora a confessare il Signore. Ed avendo egli detto: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» Matth. XVI, 16; Gesù gli rispose: «Beato te, Simone, figlio di Giona, perché non te l’ha rivelato la natura e l’istinto, ma il Padre mio ch’è nei cieli» Matth. XVI, 17. Vale a dire: Perciò tu sei beato, perché te l’ha insegnato il Padre mio; non sei stato ingannato dall’opinione terrena, ma te l’ha dichiarato l’ispirazione celeste: e non la natura e l’istinto mi ti han fatto conoscere, ma colui del quale sono il Figlio unigenito. – « E io, continua, ti dico » Matth. XVI, 18; cioè: Come il Padre mio ti ha manifestato la mia divinità, così io pure ti faccio conoscere la tua propria eccellenza. Perché tu sei Pietro: cioè: Mentre io sono la pietra inviolabile, la pietra angolare che di due popoli) ne faccio uno, io il fondamento all’infuori del quale nessuno può porne altro; tuttavia anche tu sei pietra, essendo confermato dalla mia virtù, così che quanto m’appartiene di proprio, quanto al potere, ti sia comune per la mia partecipazione. «E su questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei» (Matth. XVI, 18: Su questa fortezza, dice, edificherò un tempio eterno; e la sublimità della mia Chiesa, che deve penetrare il cielo, si eleverà sulla fermezza di questa fede. – Le porte dell’inferno non impediranno mai questa confessione di Pietro), né la legheranno punto le catene della morte; poiché questa parola è parola di vita. E come essa innalza al cielo i suoi confessori, così ne sommerge nell’inferno i negatori. Perciò dice al beatissimo Pietro: « Ti darò le chiavi del regno dei cieli: e qualunque cosa legherai sulla terra, sarà legata anche nei cieli; e qualunque cosa scioglierai sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli » (Matth. XVI, 19. Certo, questo potere fu comunicato anche agli altri Apostoli, e questo decreto costitutivo riguarda egualmente tutti i principi della Chiesa; ma confidando questa prerogativa, non senza motivo il Signore s’indirizza a uno solo, benché parli a tutti. Essa è affidata particolarmente a Pietro, perché Pietro è stabilito capo di tutti i pastori della Chiesa. Il privilegio dunque di Pietro sussiste in ogni giudizio portato in virtù della sua legittima autorità. E non c’è eccesso né di severità né di indulgenza, dove non si lega né si scioglie se non ciò che il beato Pietro avrà sciolto o legato.

[dal Breviario Rom. 1955]

« … le porte dell’inferno non impediranno mai questa confessione di Pietro, né la legheranno punto le catene della morte; poiché questa parola è parola di vita. » Il nostro Santo Padre, benché in esilio ed impedito, testimonia ancora le parole che Nostro Signore ha detto a Pietro, al suo Vicario in terra e ai suoi successori legittimi: portæ inferi non prævalebunt. Tutti coloro che negano questa verità divina, i suoi oppressori, i suoi usurpatori, hanno già segnata la loro sorte eterna: “… così ne sommerge nell’inferno … “

… Or quivi il Sales (S. Francesco di Sales) allegando le parole Evangeliche, che dicon fondata su Pietro la Chiesa, contr’a cui le porte dell’inferno non prevarranno, cosi discorre: Con queste parole il Signor nostro mostra la perpetuità e l’immobilità di questo fondamento. La pietra, da cui dipende l’edificio, è la prima: le altre sopra essa si rassodano. Ben si può smuovere altra qualunque senza ruinar l’edificio; ma chi ne leva la fondamentale, rovescia la casa. Se dunque le porte infernali nulla possono contro la Chiesa, non possono pur nulla contra il fondamento, cui esse non possono levare né rovesciare senza che mettano sossopra tutto l’edificio. Sin qua il Santo; il quale pur inerendo all’altro detto Evangelico, per cui Pietro è costituito Confermator dei Fratelli, ripiglia: La Chiesa abbisogna sempre di un Confermatore infallibile, a cui ella possa rivolgersi, un fondamento, cui le porte dell’inferno, e l’errore principalmente non possano atterrare; e che il suo Pastore non possa condurre all’errore i suoi figliuoli. I Successori dunque di S. Pietro hanno tutti questi medesimi privilegi che non sieguono la persona, ma la dignità o la carica pubblicacosì il Sales con pari energica chiarezza … [G. B. Noghera: Riflessioni sulla infallibilità del Papa nel Magistero dogmatico, appendice alla Infallibilità della Chiesa, Raimondini Stampa di Bassano, 1776].

Lunga vita al nostro attuale Principe degli Apostoli, Gregorio XVIII, e … dannazione eterna agli usurpanti!