CONOSCERE SAN PAOLO (42)

LIBRO V

I canali della redenzione.

CAPO I.

La fede principio di giustificazione.

II. LA GIUSTIFICAZIONE PER MEZZO DELLA FEDE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. LA GIUSTIZIA DI DIO. — 2. IN CHE MODO LA GIUSTIZIA NASCE DALLA FEDE.

1. Il concilio di Trento riconosce due significati all’espressione « giustizia di Dio »: la giustizia di cui Egli stesso è giusto, e la giustizia di cui ci rende giusti (Sess. VI, c. 7). Dopo Bitschl, contro l’opinione comune, parecchi scrittori eterodossi e uno o due cattolici, trovano che tale distinzione è illusoria; essi affermano che la giustizia di Dio è sempre nella Scrittura, — e anche in san Paolo — la sua giustizia intrinseca e immanente. Che cosa ne dobbiamo pensare? Come attributo divino, « la giustizia di Dio è propriamente l’attività della sua santità, nei suoi rapporti con la creazione morale (J. Monod, in Enc. Sciences relig., t. VII, p. 562) ». Mentre la santità è un attributo assoluto, la giustizia di Dio appare nella Bibbia come un attributo relativo. Il Dio giusto sorge per castigare Israele colpevole o per sterminare il peccato; siede sul suo trono per abbattere l’oppressore e per rialzare l’oppresso: (Jahvé) rivestì la Giustizia come una corazza, mise sul capo l’elmo della Salute; Egli prese la Vendetta come armatura, si avvolse dello Zelo come di un manto. – Tali azioni, tale retribuzione: ira per i suoi avversari, vendetta per i suoi nemici — E io prendo il diritto come funicella e la giustizia come archipenzolo (Is. LIX, 17-18; XXVIII, 17). Ma la giustizia di Dio non è soltanto la giustizia vendicativa che punisce il delitto, né la giustizia distributiva che rende a ciascuno secondo i suoi meriti; essa è qualche volta — soprattutto nei Salmi della cattività e nella seconda parte d’Isaia — la giustizia tutelare e salvatrice. Essa allora è messa in parallelismo con la salvezza, con la grazia, con la bontà, con la misericordia. Il profeta prega Dio che lo guidi, lo protegga, lo salvi, lo esaudisca nella sua giustizia (Ps. V, 8; XXX, 1; CXVIII, 40; cxlii, 1; etc.): “Nella tua giustizia togli l’anima mia dall’angustia, nella tua bontà annienta i miei nemici” (Ps. CXLII, 1). Tale associazione d’idee è ancora più apparente nella seconda parte d’Isaia: “La mia giustizia si avvicina, la mia salute viene; il mio braccio farà giustizia ai popoli. – Osservate il diritto, praticate la giustizia; poiché bentosto la mia salute deve venire, e la mia giustizia si deve rivelare. — Sono io la cui parola è « giustizia », (io) che sono grande per salvare” (6 Is. LI, 5; VI, 1; LXIII, 1). Non è difficile spiegare questo fenomeno: la seconda parte di Isaia è un messaggio di consolazione. Il profeta è incaricato di gridare a Gerusalemme:

Che i suoi travagli sono finiti,

che il suo peccato è espiato,

che essa ha ricevuto dalla mano di Jahvé

doppia (pena) per tutti i suoi delitti (Is. XL, 2).

Allora la giustizia di Dio non si eserciterà più che in misericordie per Israele ed in vendette contro i suoi nemici. Siamo così preparati a quella giustizia del Nuovo Testamento la quale, ben lungi dall’escludere la misericordia, la contiene come elemento essenziale, a quella giustizia salutifera e redentrice che si manifesterà solo riguardo ai credenti, quando Gesù Cristo, al quale essi sono uniti per la fede, avrà operata la propiziazione per i loro peccati. Ma questo aspetto particolare non deve far dimenticare gli altri. L’espressione « giustizia di Dio » non è molto frequente nel Nuovo Testamento: essa si trova una volta in san Matteo, una volta nell’Epistola di san Giacomo e otto o nove volte in san Paolo (Rom. I, 17; III, 5; III, 21-22, 25, 26; X, 3; II Cor. V, 21; Fil. III, 9). Nei due primi casi il significato rimane dubbio, benché la giustizia di Dio sembri indicare veramente qualche cosa che è nell’uomo o che l’uomo si può appropriare; ma quello che più ci interessa è il linguaggio di san Paolo. Qui noi ci troviamo dinanzi a due accezioni ben distinte. Quando si dice che « la nostra ingiustizia mette in rilievo la giustizia di Dio (Rom. III, 5) », si tratta chiaramente di un modo di essere di Dio, della sua fedeltà o della sua veracità. Al contrario in questo testo: « Colui che non conosceva il peccato, (Dio) lo ha fatto peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in Lui (Rom. III, 5) », la giustizia di Dio non può essere un attributo divino; da una parte vi si oppone il contrasto col peccato, e dall’altra è impossibile concepire come mai noi diventeremmo una modalità divina; è dunque una giustizia che è in noi,benché derivi da Dio. Cosi pure in un altro testo: « Ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la loro propria, essi non si sottomisero alla giustizia di Dio (Rom. X, 3) », l’antitesi determina con precisioneil significato dei termini. Infatti la giustizia propria dell’uomoè altrove messa in opposizione con la giustizia di Dio, dove non èpossibile nessun equivoco. “Io desidero di essere trovato, dice l’Apostoloai Pilippesi, a non avere la mia giustizia (che viene) dalla Legge, ma quella (che è) dalla fede del Cristo, la giustizia (che viene) da Dio, (che poggia) sopra la fede (Fil. III, 9) ». Qui « la giustizia di Dio »che sostituisce la giustizia propria e che diventa proprietà dell’uomoè dunque inerente all’uomo.Esistono altri due passi intorno ai quali principalmente si svolgeattualmente la controversia: « La giustizia di Dio si rivela in esso (nel Vangelo) dalla fede nella fede, come sta scritto: Ma il giusto vivrà dalla fede (Rom. I, 17) ». A primo aspetto, il senso di giustizia increatasembrerebbe soddisfacente; poiché questa giustizia salvatrice si rivela effettivamente nel Vangelo, dalla, salvezza dei credenti, comel’ira di Dio si rivela, fuori del Vangelo, dalla perdizione degli empi;senza contare che la rivelazione della giustizia di Dio è una locuzionein uso presso i Profeti nei quali essa indica incontestabilmente lamanifestazione di una attività divina. Ma stringendo più da vicinoil testo, i dubbi scompaiono. In che modo la giustizia intrinseca diDio potrebbe essere « dalla fede nella fede », comunque s’intendanoqueste parole? Che cosa viene a fare qui la citazione di Abacuc, equale relazione vi è tra la manifestazione della giustizia eterna equesta asserzione del profeta: « Il giusto vivrà per la fede? ». Inveceè facile vedere come la giustizia prodotta da Dio nell’uomo è « dallafede » ( ἐκ πίστεως = ek pisteos), poiché la fede è una condizione necessaria al suo nascere; come essa progredisca « nella fede » (εἰς πίστιν= eis pistin), poiché la fede rimane il suo principio, la sua misura e il suo ideale; come essa si riveli nel Vangelo che l’annunzia e la realizza; finalmente come essa esista e si riveli in conformità delle antiche profezie poiché il profeta Abacuc parla veramente di una giustizia inerente all’uomo. – L’altro testo non è più oscuro: « Ora senza la Legge, la giustizia di Dio si è manifestata, avendo per sé la testimonianza della Legge e dei profeti, la giustizia di Dio, dico, dalla fede di Gesù Cristo, (giustizia che si estende) a tutti i credenti (14 Rom. III, 21) ».La giustizia di Dio dalla fede di Gesù Cristo è una « giustizia cherisiede nell’uomo, il che san Paolo afferma ancora più precisamenteaggiungendo che essa è destinata a tutti i credenti. E non è difficilevedere come questa giustizia di Dio dalla fede abbia per sé la testimonianzadella Legge e dei profeti, poiché Abramo, secondo la Genesi,dovette la sua giustificazione alla fede, e il giusto, secondo ilprofeta Abacuc, vivrà dalla fede. Si obbietta che poco dopo Diomostra o dimostra la sua giustizia — evidentemente la sua giustiziaintrinseca — col proporre o esporre il Crocifisso come mezzo di propiziazione,e si sostiene che una medesima locuzione deve sempreconservare il medesimo significato nel medesimo contesto. Su questoprincipio vi sarebbe molto da dire: per ciò che riguarda san Paolo,è certamente falso, e se si volesse applicarlo rigorosamente, ne risulterebbesovente un’esegesi sforzata, puerile e assurda. Non èforse noto a tutti, che san Paolo suole girare attorno ai sensimolteplicidi una parola, che molte volte percorre tutta la gamma deisignificati di un termine, che anche qui le nozioni di fede e di leggecambiano certamente nel corso del periodo? Del resto l’attributodivino della giustizia e la giustizia che viene da Dio sono due concettivicini che si chiamano e si attraggono a vicenda, poiché Dio si mostragiusto nel giustificare il peccatore unito con Gesù Cristo.Riassumendo: La « giustizia di Dio » si presenta in san Paolosotto due aspetti distinti ma non disparati: la giustizia che è in Dio,e la giustizia che viene da Dio.La giustizia intrinseca di Dio non è unicamente la giustizia vendicativa o la giustizia distributiva, ma è anche — e qualche voltaè principalmente — la giustizia redentrice; essa include la bontà,la grazia e la misericordia invece di escluderle o di farne astrazione.La giustizia inerente all’uomo non è dunque senza relazioni conla giustizia intrinseca di Dio. Dio è giusto e manifesta la sua giustizianel giustificare l’uomo. La giustizia creata è l’effetto e il riflesso dellagiustizia increata.

2. Nel percorrere le lettere di san Paolo, prima di qualunque analisi dei particolari, si rimane colpiti dai fatto che egli associa sempre all’atto di fede la giustizia e la giustificazione dell’uomo. Così « la giustizia di Dio [è] dalla fede di Gesù Cristo (Rom. III, 22), la giustizia (viene o risulta) dalla fede (Rom. IX, 30), la giustizia (poggia) sopra la fede (17 Fil. III, 9) »; insomma, è « la giustizia dalla fede (Rom. IV, 11-13) ». Così pure « l’uomo è giustificato dalla fede (Rom. III, 28) »; tutti, Ebrei e Gentili, sono « giustificati per motivo della fede (Rom. III, 30) »; Dio « giustifica chiunque dipende dalla fede di Gesù (Rm. III, 26) »; finalmente « a ogni credente la fede è imputata a giustizia (Rom. IV, 5) ». Se esaminiamo da vicino queste formole vedremo che la fede non è una semplice condizione essenziale la cui presenza è richiesta non si sa bene perché, ma vedremo che essa esercita una vera causalità di ordine morale. Per parlare esattamente, non è la fede che giustifica, ma è Dio che giustifica per mezzo della fede; poiché la fede non è né causa efficiente principale, né causa formale, ma soltanto causa strumentale della nostra giustificazione. Dio giustifica per mezzo della fede ( πίστει o διὰ πίστεως = pistei o dia pisteos), come canale della grazia; giustifica in vista della fede, avuto riguardo alla fede (ἐκ πίστεως = ek pisteos), come principio di rinnovamento interiore; giustifica sopra la fede (ἐπί πίστει = epi pistei), come fondamento della salvezza. La strumentalità della fede appare soprattutto nella giustificazione del padre dei credenti: « Abramo credette a Dio, e questo gli fu imputato a giustizia (Gen. XV, 6; Rom. IV, 3, 22, 23; Gal. III, 6) ». San Paolo non dice già che la giustizia fu imputata ad Abramo; dice invece — ed è cosa ben diversa — che la fede gli fu imputata a giustizia. Egli non dice neppure che la fede è l’equivalente della giustizia, perché  allora tale imputazione sarebbe di diritto, mentre è, secondo lui, un atto grazioso (Rom. IV, 16). Egli dice che la fede fu imputata a giustizia perché la fede è inferiore alla giustizia, e la giustizia è tuttavia concessa per ragione della fede. Dio non riconosce affatto l’equivalenza tra la fede e la giustizia, ma l’accetta per grazia; la sua misericordia è quella che supplisce a ciò che manca. Siccome però i suoi doni non sono illusori, la giustizia che è da Lui messa a conto dell’uomo, diventa realmente cosa e proprietà dell’uomo. – Per il protestantesimo ufficiale, la fede giustificante non ha nessun valore morale; è una specie di strumento passivo, una potenza puramente recettiva della giustificazione, la quale non esercita nessuna causalità ed è soltanto una condizione sine qua non; solamente per un abuso di linguaggio si può dire che essa giustifica. La giustificazione dell’empio si compie tutta in Dio; essa non cambia e non opera nulla nell’uomo; è un giudizio sintetico in virtù del quale l’empio, che resta empio, viene dichiarato giusto. Dio nel vedere la sua fede gli imputa la giustizia del Cristo, senza però dargliela. Perciò l’empio giustificato è sempre empio in se stesso, ma è giusto dinanzi a Dio il quale gli ha assegnato l’attributo della giustizia. Questo discorso è duro da comprendersi: in che modo il falso può essere vero, o come mai Dio può dichiarare vero quello che sa essere falso! Perché la fede è richiesta se è inattiva, e perché Dio ne tiene conto, se essa non ha nessun valore? Con quale diritto si afferma che la giustizia di Dio ci viene imputata, mentre san Paolo afferma invece che la nostra fede ci è imputata a giustizia! Non bisognerà dunque più meravigliarsi se molti protestanti liberali ripudiano questo sistema come arbitrario, immorale e incoerente. Per costoro la fede non è senza valore: essa è un germe di virtù, un’aspirazione verso il bene, il punto di partenza di una vita nuova. Da parte di Dio, essi dicono, la giustificazione consiste nel contentarsi di questo germe, nel giudicare l’uomo dal suo ideale, nel prendere la tendenza come un fatto compiuto, nel vedere nell’umile ghianda la quercia sublime che ne uscirà. Dio dichiara che l’empio è giusto, perché questi col credere ha già cominciato ad essere giusto e diventerà un giorno interamente giusto. – Noi ammettiamo senza esitare, che la giustificazione dell’uomo desta ordinariamente, nell’Antico Testamento e anche nel Nuovo, l’idea di un giudizio divino, che si può almeno scoprirvelo senza far violenza ai testi, che in alcuni casi la giustificazione è puramente dichiarativa. Così è, per esempio, tutte le volte che si tratta del giudizio finale il quale non produce la giustizia nell’uomo, ma la presuppone: « Non quelli che ascoltano la Legge sono giusti dinanzi a Dio, ma quelli che mettono in pratica la Legge saranno giustificati (Rom. II, 13) ». Qui là giustificazione non è altro che la sentenza del Giudice supremo; tuttavia in virtù dell’equazione « essere giustificato » ed « essere giusto dinanzi a Dio », il giudizio divino non è arbitrio; esso poggia sopra la verità e non sopra una finzione di diritto. – Ma non è questo il senso ordinario, e lo prova l’impossibilità di sostituire, nella maggior parte dei casi, il verbo « giustificare » con i suoi pretesi equivalenti « dichiarare giusto » o « trattare come giusto ». Anche quando la giustificazione si presenta sotto forma di sentenza dichiarativa, suppone o produce la giustizia: come infatti si può concepire una dichiarazione divina che dica il falso, e un giudizio di Dio fondato sopra l’errore? Quando « Dio giustifica l’empio », dicono i corifei del protestantesimo, la giustificazione non è già un giudizio analitico, “ma un giudizio sintetico il cui attributo non è contenuto nella nozione del soggetto. Un giudizio analitico sarebbe questo: « L’empio è ingiusto ». Ma è ben diverso il giudizio che Dio pronunzia quando ci giustifica: « L’empio è giusto ». Di modo che l’empio giustificato si trova nel tempo stesso (in sensu composito) in possesso di due predicati contradittori, uno dei quali gli appartiene in quanto è empio, e l’altro gli è attribuito dalla dichiarazione divina. Tanto varrebbe dire che un cerchio sarà rotondo e quadrato nello stesso tempo, se Dio pronunzia che è quadrato: sarà rotondo per essenza, e quadrato in forza del giudizio sintetico formulato da Dio. «Nel giustificare. Dio non riconosce nel peccatore nessun attributo (di giustizia); al contrario, gli aggiunge un attributo mentre ancora è peccatore, cioè quello della giustizia (Franks, Justification – Dict. Of Christ and the Gospel, t., p. 919) ». Farà meraviglia che tale dottrina abbia provocato proteste fin dal giorno in cui nacque? Quelli che ancora la difendono, rinunziano però a comprenderla e, pure appellandosi all’autorità di Paolo, volentieri si trincerano dietro il mistero. Perché un uomo sia giusto dinanzi a Dio, e perché Dio pronunzi che egli è giusto, si richiede una di queste due cose: o che Dio lo abbia reso giusto in precedenza, oppure che lo renda giusto con questa stessa dichiarazione. In questa seconda ipotesi, la giustificazione dell’empio sarebbe dichiarativa nella forma, ma effettiva in realtà. La sentenza divina di giustificazione produrrebbe allora il suo effetto alla maniera delle formule sacramentali, come le parole della consacrazione, come le parole del Cristo operante miracoli. Così si conserverebbe alla parola « giustificazione » il senso giudiziario che molti esegeti moderni considerano come essenziale, pure non ammettendo quella giustificazione fittizia dovuta ad un giudizio divino contrario alla verità. La maggior parte dei teologi eterodossi dei nostri giorni si lamentano di trovare in san Paolo una dualità delle più singolari. Ci sarebbe la giustificazione ideale, giuridica, oggettiva, imputata, e la giustificazione reale, morale, soggettiva, inerente. Nella prima, lo Spirito Santo interverrebbe soltanto come testimonio; nella seconda, sarebbe autore, pegno e caparra della giustificazione; qui la fede sarebbe presentata come un vincolo mistico che ci unisce al Cristo, là invece la fede non sarebbe altro che un semplice riconoscimento intellettuale dell’economia della salvezza. La giustificazione forense si collegherebbe al concetto della redenzione per mezzo di riscatto e di sostituzione penale, mentre la giustificazione soggettiva corrisponderebbe alla liberazione dal peccato e dalla carne. Secondo Pfleiderer, questi due concetti « sono come due fiumi che scorrono nel medesimo letto senza mescolare le loro acque ». Parecchi li dichiarano inconciliabili o almeno sostengono che la conciliazione non avvenne nella mente di Paolo; altri si sforzano di conciliarli, ma, traviati dai loro pregiudizi, riescono soltanto a soluzioni inaccettabili. Essi sono persuasi che « è impossibile armonizzare la dottrina dell’Apostolo, eccetto che si consideri la giustizia di Dio come una qualità che non è in nessun modo attuale nel credente, ma che gli è sicuramente promessa per l’avvenire ». Sarebbe una specie di giudizio profetico, in anticipazione, che Dio confermerebbe poi, e nel tempo stesso realizzerebbe nell’ultimo giorno. Tale è la famosa giustificazione forense ed escatologica che doveva rischiarare tutto il mistero, e che invece altro non fa che rendere più fitte le tenebre. – Ben più semplice, più ragionevole, più conforme alla lettera e allo spirito dell’Apostolo è la soluzione Cattolica, della quale ciascun punto si può giustificare con una parola di san Paolo:

Dio prende l’iniziativa; Egli è il solo Autore della chiamata interna come della vocazione esterna; è l’iniziativa della grazia, ed in questo senso la fede è da Dio.

L’uomo alla sua volta risponde alla chiamata, ma non senza l’aiuto divino; egli rende gloria a Dio con l’accettare la sua testimonianza, con l’inchinarsi sotto la sua mano, con l’abbandonarsi totalmente in Lui: questo è certamente un merito, ma un merito di cui non può attribuire a sé l’onore.

Dio interviene di nuovo: Egli imputa la fede a giustizia; dà generosamente la giustizia in cambio della fede, ma non come l’equivalente o il compenso della fede: fino a questo punto la grazia ha avuto sempre una parte preponderante.

La giustizia concessa all’uomo gli impone l’obbligo e gli conferisce il potere, delle opere buone. L’uomo, armato della grazia abituale,può avanzare di virtù in virtù; ma i frutti che acquista, pure appartenendoa lui, non sono esclusivamente suoi, perché egli lavora suifondi di Dio e con i mezzi che Dio gli dà.

Finalmente Dio incorona l’opera; per sempre Egli giustifica l’uomo, questa volta col dichiararlo giusto, perché l’uomo è veramente tale. – Concerto ammirabile nel quale Dio è sempre attivo senza sopprimere né intralciare l’attività dell’uomo, e nel quale l’uomo opera la propria salvezza senza ledere in nulla il dominio supremo di Dio.

III. LA SANTIFICAZIONE.

1. L’IDEA DELLA SANTITÀ. — 2.. GIUSTIZIA E SANTITÀ.

1. L’abisso che separa il Cristianesimo dal paganesimo classico, in nessun luogo appare più largo e più profondo, che nel concetto della santità. L’antica religione dei Greci e dei Romani non sospettava neppure la santità delle divinità; in ogni caso l’epiteto di santo non veniva affatto applicato agli dèi dell’Olimpo. Certe frasi bibliche come queste: « Siate santi perché io sono santo », oppure: « Io sono santo, io che vi santifico », dovevano avere un suono strano per orecchie pagane. Per quanto possano essere oscuri il senso primordiale ed etimologico della parola santo in ebraico, le fasi della sua evoluzione semantica, i gradi di spiritualizzazione che venne superando nel corso dei tempi, seguendo il progresso della rivelazione, è cosa certa che la nozione biblica di santità, è essenzialmente religiosa e morale, che conviene a Dio per eccellenza, ed agli esseri finiti in rapporto a Dio ». Nell’Antico Testamento, il santo era l’uomo legato a Dio con un vincolo di consacrazione o di appartenenza speciale; nel nuovo è colui che partecipa alla stessa santità di Dio. Se si confrontano tra loro, per distinguerle, la giustificazione e la santificazione, questa appare come una perfezione positiva, suscettibile di progressi indefiniti, mentre quella si presenta soprattutto sotto il suo aspetto negativo — la remissione dei peccati — che non pare ammettere il più e il meno. La santificazione inchiude la nozione stessa di giustificazione, ma non è vera la proposizione reciproca; di modo che si può concepire un ordine di provvidenza nel quale l’uomo peccatore sarebbe semplicemente dichiarato giusto, mentre sarebbe impossibile immaginarsi un santo al quale non fossero stati rimessi i peccati. Sotto questo aspetto, la giustificazione precede logicamente la santificazione alla quale serve di base.

2. Affrettiamoci però a dire che nell’ordine attuale, il solo che ci interessi, la giustificazione e la santificazione sono inseparabili. Lo dimostriamo con due serie di testi. San Paolo scrive ai Corinzi:

Voi dunque ignorate che gl’ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né gl’impudichi, né gl’idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né gl’infami, né i ladri, né gli avari, né gli ubbriaconi, né i maledici, né i rapaci erediteranno il regno di Dio. Ed ecco quello che eravate alcuni di voi; ma voi vi siete purificati, ma voi siete stati santificati, ma voi siete stati giustificati dal nome del Signore Gesù Cristo e dallo Spirito del nostro Dio” (I Cor. VI, 9-11).

L’Apostolo enumera come a caso una decina di vizi dei più comuni tra i pagani, e soprattutto a Corinto. Egli ricorda che un certo numero dei suoi lettori — egli non generalizza troppo per non offenderli — una volta se ne resero colpevoli; ma che importa? Il Battesimo ha scancellato tutto! Il Battesimo produce, tutto in una volta, la purificazione, la santificazione, la giustificazione del peccatore. Invano certi esegeti troppo sottili si ingegnano di trovare una gradazione tra questi tre effetti della grazia sacramentale. La gradazione non esiste; ma san Paolo, collocando la santificazione in mezzo agli altri due frutti del Battesimo, fa vedere che essa non è posteriore a loro. – Con gli Efesini egli tiene lo stesso linguaggio; soltanto qui applica alla Chiesa intera quello che là diceva di ciascun Cristiano: “Il Cristo ha amato la Chiesa ed ha dato se stesso per lei, affine di santificarla purificandola nel bagno di acqua, per mezzo della parola, per offrire a se stesso la Chiesa gloriosa, senza macchia né ruga né altro di simile, ma santa e irreprensibile (Ephes. V, 26). – La santità non è privilegio di una classe scelta, ma è cosa di tutti i Cristiani degni di questo nome. Quando l’Apostolo scrive ai santi di Roma, di Corinto, di Filippi o di qualsiasi altra città, non stabilisce affatto più categorie di fedeli; egli si rivolge a tutti indistintamente. Per lui ogni Cristiano è un santo, ed a questa parola egli lascia tutto il suo valore. In qualche raro testo egli potrà bensì parlare soltanto di una santità esteriore e legale che non supera illivello dell’Antico Testamento; quando dice, per esempio, parlando dei matrimoni misti: « Il marito infedele è santificato dalla moglie (fedele), e la moglie infedele è santificata dal (marito) fedele; altrimenti i vostri figliuoli sarebbero impuri, mentre ora sono santi (I Cor. VII, 14) ». – Essendo l’unione coniugale così intima, che i due coniugi formano una sola carne, una sola persona morale, la santità dell’uno si riversa su l’altro; il coniuge infedele e i suoi figli sono come immersi in un’atmosfera di santità che li avvolge e che finirà col penetrarli: così l’acqua mescolata col vino prende il sapore e il colore del vino. Ma questo modo di parlare è eccezionale. Il Cristiano, per il fatto del suo Battesimo, è santificato dallo Spirito Santo del quale è tempio (I Cor. III, 16; II Cor. VI, 16), diventa amico di Dio (Col. III, 12; Rom. I, 7), è « chiamato alla santità (I Cor. I, 2; Rom. I, 7) »; e noi sappiamo che per san Paolo la vocazione è sempre una vocazione efficace che ottiene il suo effetto. La santità del Cristiano non è dunque una santità solamente in potenza, ma una santità almeno iniziale il cui germe non chiede altro che di fruttificare. Dunque, nell’economia attuale, la giustificazione non è la semplice remissione dei peccati; è una riconciliazione con Dio (Rom. V, 10-11; II Cor. V, 18-19), che ci restituisce l’amicizia divina e, con questa, i beni perduti in Adamo. Essa è perciò rappresentata come una trasformazione di tutto il nostro essere, come una metamorfosi che di ogni Cristiano fa « una nuova creatura (II Cor. V, 17) ».