CONOSCERE SAN PAOLO (46)

LIBRO V

I canali della redenzione.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

CAPO III.

La Chiesa.

II. LA VITA DELLA CHIESA.

1. IL CRISTO MISTICO. — 2. IL CORPO MISTICO DEL CRISTO. — 3. LO SPIRITO SANTO NELLA CHIESA. — 4. LO SPIRITO E IL CRISTO. — 5. LA COMUNIONE DEI SANTI. 6. NEL CRISTO GESÙ.

1. Nell’epistola agli Efesini abbiamo studiato l’essere collettivo formato dall’unione del Cristo e della Chiesa, la sua analogia col corpo umano, le sue principali proprietà, i suoi rapporti col mistero della redenzione. Dobbiamo ora spingere più innanzi questa dottrina, dedurne le conseguenze ed esaminarne il valore. La Chiesa è il « complemento del Cristo (Ephes. I, 23) », come il tronco è il complemento della testa, come le membra sono il complemento dell’organismo. La testa non può nulla senza il corpo; l’organismo non funziona regolarmente se manca qualche organo. Così pure il Cristo senza la Chiesa sarebbe un essere incompleto: incompleto come redentore, poiché la grazia che Egli possiede per diffonderla, rimarrebbe inattiva; incompleto come secondo Adamo, poiché Egli è tale soltanto per il suo carattere rappresentativo; incompleto come Cristo, poiché il Cristo è anche, in san Paolo, una personalità collettiva. Così il Cristo « si completa in tutti, in tutte le maniere »: nei membri della gerarchia sacra come Capo della Chiesa, nei semplici fedeli, come Salvatore e santificatore. Origene fa, sopra questo testo, una profonda riflessione: « La Chiesa è il corpo del Cristo; ma si deve forse considerare come il tronco, distinto dalla testa e da questa governato, oppure tutta la Chiesa del Cristo sarebbe il corpo del Cristo, animato dalla sua divinità e ripieno del suo spirito, secondo l’analogia del corpo umano del quale fa parte anche la testa? Nel secondo caso, quello che vi è di umano in lei sarà un elemento del corpo, e quello che vi è di divino e di vivificante formerà come la potenza divina che anima tutta la Chiesa ». Se lasciamo da parte certe espressioni che avrebbero bisogno di spiegazione, la questione è posta molto bene. San Paolo infatti considera il Cristo e la Chiesa in due maniere assai diverse: qualche volta la Chiesa è paragonata al tronco in opposizione alla testa, e allora la Chiesa e il Cristo sono le due parti integranti del corpo mistico. Tale è il caso di tutti i passi in cui la persona del Cristo è assimilata alla testa (Ephes. I, 22; II Cor. IV, 15). Ma non sempre è così: molte volte la Chiesa e il Cristo sono sinonimi o si distinguono soltanto per una sfumatura di significato appena percettibile; il Cristo e la Chiesa sono un tutto completo; la Chiesa è nel Cristo e il Cristo è nella Chiesa, e l’uno e l’altra si possono sostituire col corpo del Cristo senza mutare notevolmente il significato. Questo fenomeno avviene in tre serie di testi: anzitutto quando il Cristo si presenta come una personalità collettiva, come la vera stirpe di Abramo e la sua « discendenza (spirituale), che è il Cristo (Gal. III, 16) »,  come la somma integrale dei membri il cui insieme forma il corpo « del Cristo (I Cor. XII, 12) ». Qui è il caso di applicare le parole di sant’Agostino, quello, tra i Padri, che più frequentemente e meglio di tutti ha parlato del corpo mistico: « Totus Christus caput et corpus est ». — Poi nelle espressioni rivestire il Cristo, essere immersi nel Cristo, essere innestati sul Cristo: « Voi tutti che siete stati battezzati nel Cristo (εἰς Χριστόν= eis Kriston), avete rivestito il Cristo (Gal. III, 17)… Se sei stato innestato contro natura sopra il buon olivo, quanto più (i rami naturali) saranno innestati sopra l’olivo (che li portava) (Rom. XI, 24) ». — Finalmente nella formula tanto caratteristica in Christo, in Christo Jesu.

2. L’assimilare le società politiche all’organismo del corpo umano è cosa vecchia quanto il mondo, come lo prova il famoso apologo riferito da Tito Livio: alla plebe che si lagnava al vedere il senato attribuirsi tutti gli onori e arrogarsi tutti i privilegi, Menenio Àgrippa seppe dimostrare che lo stomaco, questo organo vorace ed ozioso per il quale si stancano tutte le altre membra, non è il meno necessario al benessere comune. San Paolo adoperava la stessa similitudine per far comprendere che la diversità dei doni spirituali, ben lungi dal nuocere all’unione dei fedeli, tende invece a stringerla di più: “Poiché come noi abbiamo più membra in un solo corpo e tutte le membra non hanno la stessa funzione; così, collettivamente, noi formiamo un solo corpo nel Cristo, e individualmente siamo membra gli uni degli altri” (Rom. XII, 4-5). Le altre società possono benissimo prendere per metafora il nome di corpo, perché la tendenza ad un medesimo fine, i vincoli di autorità e di dipendenza, i diritti e i doveri reciproci danno loro un’unità morale che li somiglia ad un organismo vivente. Ma l’unione del corpo mistico del Cristo è di natura più eccellente. Se si chiama mistico, questo si fa non per negargli le proprietà reali, ma per distinguerlo dal corpo fisico preso dal Verbo nel seno di Maria, per indicare i suoi rapporti con quello che san Paolo chiama il Mistero, e soprattutto per esprimere certe proprietà misteriose dell’ordine soprannaturale le quali, sebbene sfuggano alla verificazione dell’esperienza sensibile, sono tuttavia vere realtà. In questo composto meraviglioso vi è azione reale della testa su tutte le membra e su ciascun membro, reazione delle membra le une su le altre, per la comunione dei santi, compenetrazione reale dello Spiriti Santo che vivifica tutto il corpo e vi forma il più perfetto dei vincoli, la carità. Ciò che distingue essenzialmente il corpo mistico dagli enti morali che abusivamente si fregiano del nome di corpo, è che esso è dotato di vita, e che la sua vita gli viene dall’interno. Il testo sopra citato è appena un abbozzo della dottrina. In esso Paolo si propone soltanto di esortare ciascuno dei fedeli a contentarsi della sua porzione di grazie, con questa considerazione, che i beni spirituali della Chiesa, qualunque sia il membro che li possiede, sono per così dire comuni a tutti, poiché noi siamo membra gli uni degli altri. A questa unione di solidarietà egli dà un’espressione più ampia o più completa nella sua prima Epistola ai Corinzi: “Come il corpo è uno, benché abbia più membra, e tutta le membra di questo corpo, nonostante il loro numero, formano un solo corpo; cosà è del Cristo. Tutti infatti siamo stati battezzati in un medesimo Spirito per (formare) un solo corpo, ed Ebrei, e Greci, e schiavi, e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un medesimo Spirito. Poiché il corpo non è un solo membro, ma più membra. Se il piede dicesse: Perché non sono la mano, io non sono del corpo; forse che per questo non sarebbe del corpo? E se l’orecchio dicesse: Perché non sono l’occhio, io non sono del corpo; forse che per questo non sarebbe del corpo! Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? e se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato? Ebbene, Dio ha disposto le membra nel corpo, ciascuno al posto che piacque a lui. Se tutti fossero un medesimo membro, dove sarebbe il corpo? Vi sono dunque più membra e un solo corpo. – L’occhio non può dire alla mano: Io non ho bisogno di te; né la testa può dire ai piedi: Io non ho bisogno di voi. Al contrario, le membra del corpo reputate più deboli sono le più necessarie; e quelle che noi stimiamo meno onorevoli circondiamo di maggior onore; e le meno oneste trattiamo con più decenza, poiché quelle oneste non ne hanno bisogno. Dunque Dio ha disposto il corpo in modo da dare più onore a quello che ne mancava; affinché non vi sia divisione nel corpo, ma tutte le membra siano piene di sollecitudine vicendevole. Se un membro soffre, tutte le membra soffrono; se un membro è onorato, tutte le membra partecipano alla sua gioia. Ora voi siete (insieme) il corpo del Cristo e individualmente le sue membra” (I Cor. XII, 12-27).La diversità degli organi in un corpo umano non è soltanto un elemento di bellezza, ma è una condizione essenziale di vita. Nelle membra del corpo mistico, essa non deriva dalla loro qualità di Cristiani, perché a questo riguardo non vi è tra loro nessuna differenza; non viene neppure dalla loro qualità di uomini, poiché le differenze stabilite dalla natura non contano nulla sotto l’aspetto di Cristiani; Paolo la fa derivare da quei doni gratuiti che lo Spirito Santo concede ai fedeli per il bene comune della Chiesa: apostolato, profezia, discorso di sapienza o di scienza, discernimento degli spiriti, potere di guarire gli ammalati, di operare miracoli, attitudine a governare, a insegnare, a soccorrere i poveri, a consolare gli afflitti, a praticare altre opere di misericordia. Questi esempi sono assai ben scelti, essendo icarismi, per definizione, proprietà sociali ed avendo per autore lo stesso Spirito Santo il quale forma a suo piacimento il corpo mistico del quale è l’anima; ma tutto quello che dice l’Apostolo, si potrebbe applicare alla gerarchia ordinaria e forse anche alla disuguaglianza che nei santi è prodotta dalla differenza di cooperazione alle diverse chiamate della grazia. L’uomo è per essenza un essere sociale. Un filosofo pagano disse: « Noi siamo tutti fatti per un’azione comune… l’opporsi gli uni agli altri è dunque contro natura (Marco Aurelio, Pensieri, II, 1) ». Se ciascuno degli organi avesse l’istinto di attirare tutto a sé, il corpo intero non tarderebbe a perire: la stessa cosa avverrebbe del corpo sociale; ma la natura ci premunisce contro l’egoismo. Essa ci fa capire che noi non bastiamo a noi medesimi, che ciascun membro ha la sua utilità, che le membra più deboli sono sovente le più necessarie, che le meno nobili sono quelle che si sogliono trattare con maggior onore, che la salute generale dipende dal buon funzionamento dell’insieme, e che il benessere di tutti è subordinato al buono stato di ciascuno. Questa verità si dimostra soprattutto con la sua stessa evidenza, né noi v’insisteremmo se Paolo non ci desse la vera formula dell’altruismo cristiano: « Noi siamo membra gli uni degli altri (Rom. XII, 5) ». L e altre membra non ci sono estranee, ma sono qualche cosa di noi stessi; esse lavorano per noi, come noi lavoriamo per loro; noi abbiamo bisogno del loro aiuto e dobbiamo dare loro l’aiuto nostro. La funzione sociale che riassume l’attività del corpo organico è la comunanza di vita. Il membro non vive di vita propria, ma della vita del corpo; per questo fa bisogno che esso sia unito alla testa da cui deriva l’influsso vitale, e così pure che sia unito alle altre membra che glielo trasmettono, ciascuno nella propria sfera. Il membro separato dalla testa non vive più; isolato dalle altre membra vivrebbe di una vita imperfetta e precaria. San Paolo ce lo dice quando descrive quel visionario di Colossi, « che non aderisce alla testa da cui tutto il corpo, tenuto e unito insieme per mezzo di giunture e di legamenti, riceve l’accrescimento voluto da Dio »; poiché per mezzo del Cristo, « per mezzo della testa, tutto il corpo bene organizzato e saldamente unito, in forza del mutuo aiuto di tutte le membra, operando ciascun membro secondo la propria misura, cresce e si edifica nella carità (Col. II, 18) ». Spesso si è paragonato il Corpo mistico di san Paolo alla Vite allegorica di san Giovanni (Giov. XV, 1-6). I rapporti sono chiari: da tutte e due le parti la vita soprannaturale è somigliata al crescere di un essere vivente, crescere che è dovuto ad un principio interno e che ha per condizione essenziale l’unione al centro della vita. Ma anche le differenze sono degne di nota: in san Giovanni, i rami, direttamente uniti al tronco, ricevono direttamente da esso il succo; in san Paolo invece le membra, unite al capo da altre membra, ricevono l’influsso vitale per mezzo di queste. Il primo considera piuttosto la vita individuale dei credenti, mentre san Paolo mira soprattutto alla vita sociale della Chiesa, che regola e misura il crescere di ciascun fedele. Ma tanto per l’uno quanto per l’altro, l’agente della vita soprannaturale è lo Spirito Santo.

3. Lo Spirito Santo è l’anima del corpo mistico; ora come l’anima nobilita il corpo umano con la sua presenza, lo vivifica col suo contatto, lo muove con la sua attività, così lo Spirito Santo anima il Corpo mistico del Cristo: Egli è l’ospite divino della Chiesa e di ciascun fedele; è il motore e agente unico nell’ordine soprannaturale; Egli è pure u n dono, dono comune del Figlio e del Padre, ed Egli stesso si dà come il più prezioso dei suoi doni. Lo Spirito Santo abita in noi come in un suo tempio, « questo tempio ora è la Chiesa intera, ora una cristianità, ora l’anima individuale: « L o Spirito Santo abita in voi (I Cor. III, 16). — Il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi (I Cor. VI, 19).— Se lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù da morte abita in voi, colui che ha risuscitato Gesù da morte vivificherà i vostri corpi mortali per causa del suo Spirito che abita in voi (Rom. VIII, 11) ». Siccome lo Spirito Santo è lo Spirito del Padre e lo Spirito del Piglio, Egli pure abiterà dove abitano il Padre e il Figlio: « Non sapete che voi siete il tempio di Dio? (I Cor. III, 16) — Il  tempio di Dio è santo, e voi siete questo tempio (I Cor. III, 17). — Noi siamo il tempio del Dio vivente (II Cor. VI, 16). — Voi siete stati edificati in un tempio di Dio nello Spirito (Ephes. II, 22). — Il Cristo abita nei vostri cuori per la fede (Ephes. III, 17) ». Ospite dell’anima nostra, lo Spirito di santità non vi rimane inoperoso, ma al suo soffio sboccia tutta la fioritura della nostra vita spirituale. Egli è perciò chiamato da san Paolo « Spirito di vita (Rom. VIII, 2) » e da san Giovanni « Spirito vivificante (Giov. VI, 63) ». Tutti i carismi, di qualsiasi natura, sono conferiti da Lui (I Cor. XII, 4). A Lui l’Apostolo deve la rivelazione del gran mistero che è l’articolo fondamentale del suo Vangelo: poiché lo Spirito che serata le profondità di Dio le rivela a chi vuole (I Cor. II, 10). La sua azione si estende a tutti i Cristiani e a tutte le manifestazioni della vita soprannaturale, dalla rigenerazione battesimale fino alla beatitudine eterna. L’obbedire agl’impulsi della grazia vien detto comunemente « camminare nello Spirito, essere mosso dallo Spirito (Rom. VIII, 4-14) »; il complesso di tutte le virtù è « il frutto dello Spirito (Gal. V, 22) »; tutto ciò che ci eleva sopra la nostra natura carnale e psichica, tutto ciò che ci getta in un’atmosfera divina, tutto ciò che ci trasforma in esseri spirituali, secondo l’espressione cara a san Paolo, riceve il nome generico di spirito per allusione alla fonte da cui emana. Lo Spirito Santo è amore, ed è proprio dell’amore il dare, il dare se stesso con i suoi doni. L’amore con cui Dio ci ama, si manifesta col dono dello Spirito e nel tempo stesso con un’effusione di grazia santificante che è un effetto dello Spirito presente in noi. Questa effusione non è transitoria, ma è inerente e sussiste inseparabilmente unita allo Spirito che ne è la sorgente: « L’amore di Dio è diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci fu dato (Rom. V, 5) ». In noi vi è dunque qualche altra cosa oltre lo Spirito: vi è il prodotto della sua attività. Siccome poi questa effusione è necessariamente finita, poiché viene ricevuta in un essere finito, essa è suscettibile di aumenti indefiniti. Ecco perché san Paolo dice qualche volta che noi abbiamo ricevuto « le primizie (Rom. VIII, 23) » o i « pegni dello Spirito (II Cor. I, 22) ». Noi abbiamo bensì ricevuto lo Spirito tutto intero, perché lo Spirito è indivisibile; ma abbiamo ricevuto soltanto una porzione — e la più piccola, o meglio la meno apparente — dei beni che ci ha destinati. Si è fatta la questione se, per giustificare tutte queste affermazioni dell’Apostolo e le interpretazioni dei Padri, non si dovrebbe concedere allo Spirito Santo un modo speciale di presenza. L’unione dell’anima giusta con Dio avviene direttamente con la natura divina, oppure con la mediazione dello Spirito Santo? Nel primo caso essa riguarderebbe tutte e tre le persone divine a pari titolo e non si potrebbe riferire ad una di esse se non per appropriazione; nel secondo caso invece essa sarebbe propria dello Spirito Santo, e le altre due Persone vi parteciperebbero soltanto per concomitanza, in virtù di quella compenetrazione reciproca che loro non permette di essere separate. È noto che il dotto Petau immaginò, per l’abitazione dello Spirito Santo in noi, qualche cosa di analogo all’unione del Verbo incarnato con la natura umana. Vi mette però una differenza: nell’unione ipostatica del Verbo, un vincolo sostanziale e indissolubile congiunge i due estremi; mentre nell’abitazione dello Spirito Santo il vincolo sarebbe soltanto accidentale — perché essa avrebbe luogo con una facoltà dell’anima e non con la sua sostanza, e si potrebbe sciogliere — ma sarebbe tuttavia personale allo Spirito di santità. Questa teoria seducente è però assai difficile da concepirsi, e lo stesso suo inventore non riuscì a spiegarla. « Essa, egli dice, non è ancora abbastanza dilucidata ». Su che cosa si fonderebbe la relazione speciale di consacrazione o di appartenenza che unirebbe l’anima giusta allo Spirito Santo? Quale funzione ipostatica — o quasi ipostatica — può esercitare lo Spirito Santo nell’anima? E se Egli si unisce a lei con un’operazione, come sarebbe per esempio la produzione della grazia santificante, perché mai la sua unione sarebbe immediata, mentre le altre due persone, che hanno partecipato alla sua attività, sarebbero a lei unite soltanto per un intermediario? D’altra parte la spiegazione volgare la quale, nell’abitazione delle Persone divine, vede soltanto delle differenze di appropriazione, non sembra che combini abbastanza col linguaggio dei Padri e della Scrittura. Per la grazia santificante, si dice, la divinità abita in noi come nel suo tempio; ora la grazia abituale, prodotto di tutte e tre le Persone divine, ci unisce immediatamente a Dio senza distinzione di Persone. Non vi è dunque, nel modo di presenza delle tre Persone divine, altra distinzione possibile, che l’appropriazione, in virtù della quale noi siamo soliti ad attribuire al Padre l’essere e la potenza, al Figlio la scienza e la sapienza, allo Spirito Santo l’amore e la santità, perché noi vediamo in questi diversi attributi un certo rapporto con i loro caratteri personali. Questa teoria è rispettabile, ma non è però altro che una teoria. – Ad ogni modo, non sembra che i Padri e gli scrittori sacri ravvisino in questo modo le cose. Secondo loro, l’unione deifica si fa primieramente con le persone e, per mezzo delle persone, con la natura. La grazia santificante poi è il risultato, non già la condizione, della presenza degli ospiti divini. Quando Dio vuole santificare le anime vi manda il Figlio suo prediletto, mediatore universale della grazia; il Figlio poi, alla sua volta e unitamente al Padre, manda lo Spirito di santità. L’azione santificatrice si svolge dunque secondo l’ordine delle processioni eterne, e lo stesso avviene della presenza delle tre Persone nell’anima santificata. In quest’ultimo caso però l’ordine è invertito: lo Spirito Santo, che è dato all’anima e che dà se stesso, è il primo ad entrare in contatto con lei; priorità di ragione e non di tempo, questo s’intende; ma priorità fondata su qualche cosa di reale, poiché la missione delle Persone non equivale all’appropriazione degli attributi. Sembra che non possano ammettere una diversa esegesi certi testi come il seguente: Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis. Qui si aprirebbe dinanzi a noi un campo immenso nel quale non potremmo tuttavia entrare senza oltrepassare i confini della teologia biblica.

4. Tutto quello che abbiamo detto finora, dimostra quanto intima l’unione del Figlio e dello Spirito Santo nell’opera della santificazione. Questa osservazione non è certamente nuova, e già l’aveva fatta, prima di noi, sant’Epifanio che dice: « Il Cristo è mandato dal Padre, e anche lo Spirito Santo è mandato; il Cristo parla nei santi, e anche lo Spirito Santo parla; il Cristo guarisce, e lo Spirito Santo guarisce; il Cristo santifica, e lo Spirito Santo santifica (Ancoratus, 68 – XLIII, 140) ». Segue poi una serie lunghissima di testi nei quali si afferma questa azione comune. Difatti la grazia, i carismi, la filiazione adottiva, le opere buone, la salvezza, la gloria eterna, insomma tutte le manifestazioni della vita divina, sono riferite ora al Cristo, ora allo Spirito Santo. Così « noi viviamo per mèzzo dello Spirito » e tuttavia « il Cristo è la nostra vita (Gal. V, 25 e Col. III, 4; Fil. I, 12) ». Lo Spirito Santo è il dispensatore di tutti i carismi, senza eccezione, e intanto questi carismi ci sono dati « secondo la misura del dono del Cristo (I Cor. XII, 11 ed Ephes. IV, 9) ». Da Gesù Cristo noi riceviamo la filiazione adottiva; tuttavia lo Spirito Santo è lo spirito di filiazione e « tutti quelli che sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio (Ephes. I, 5 e Rom. VIII, 15) ». I morti risusciteranno « per un uomo », Gesù Cristo; eppure Dio ci risusciterà « per causa dello Spirito » o « per mezzo dello Spirito che abita » in noi (I Cor. XV, 21 e Rom. VIII, 11). Aggiungiamo ancora un fatto accennato molte volte, cioè l’equivalenza delle due formole nel Cristo e nello Spirito. Questa equivalenza, bisogna dirlo, non va tanto lontano quanto ordinariamente si suppone, ma tuttavia è pur sempre suggestiva, come si può vedere da qualche esempio: Giustificato nello Spirito = giustificato nel Signore (I Cor. VI, 11 e Gal. II, 17). Santificato nello Spirito Santo = santificato nel Cristo Gesù (I Cor. VI, 11 e I, 2). Tempio santo nello Spirito = tempio santo nel Signore (Ephes. II, 22 e II, 21). Essere segnati nello Spirito = essere segnati nel Cristo (Ephes. I, 13 e IV, 30). Gioia nello Spirito Santo = gioia nel Signore (Rom. XIV, 17 e Fil. IV, 4). Pace nello Spirito Santo = pace nel Signore (Rom. XIV, 17 e V, 1). Per spiegare questo fenomeno, bisognerà dire che il Cristo e lo Spirito Santo sono identici nel pensiero di Paolo, oppure che lo Spirito è soltanto il modo di operazione del Cristo, oppure che il Cristo, dopo la sua risurrezione, si è totalmente trasformato nello Spirito? Vi è una spiegazione assai più semplice, più naturale e che ha inoltre il vantaggio di evitare l’assurdo. Notiamo anzitutto che l’equivalenza di cui parliamo è limitatissima: il Cristo preesistente non è mai identificato con lo Spirito; il Cristo storico non è mai identificato con lo Spirito; il Cristo Salvatore, nell’opera della redenzione, non è mai identificato con lo Spirito. I punti di contatto tra il Cristo e lo Spirito riguardano unicamente il Cristo glorificato, non però nella sua vita fisica, personale, alla destra del Padre, ma nella sua vita mistica, nel seno della Chiesa. In altri termini, lo Spirito Santo e il Cristo glorificato, che altrove si presentano sempre come due persone distinte, sembrano confondersi nel loro compito di santificatore delle anime (Col. I, 19): qui la loro sfera d’influenza è la medesima e il loro campo di azione è unico; infatti il Cristo è il capo oppure, sotto una figura un po’ diversa, l’organismo del corpo mistico del quale lo Spirito Santo è l’anima; ora nel linguaggio ordinario, specialmente in quello di san Paolo, quasi tutti i fenomeni vitali si possono indifferentemente riferire all’anima o alla testa. Ma l’identità di operazione del Cristo e dello Spirito nella vita dei giusti ha una ragione di essere ben più profonda. Il Cristo, come uomo, possedeva la pienezza dello Spirito (I Cor. XV, 45) e doveva riversarla su noi non appena compiuta la sua opera redentrice. Allora, nel momento della risurrezione, Egli diventa veramente per sé e per noi « spirito vivificante (Gal. IV, 5; Ephes. I, 5) »: per sé, perché la grazia di cui è pieno si riversa sul suo corpo e lo rende spirituale; per noi, perché ci comunica con abbondanza tutti i doni dello Spirito Santo e lo Spirito Santo medesimo. Da quel momento, sotto l’aspetto soprannaturale, noi viviamo per mezzo del Figlio e viviamo per mezzo dello Spirito; o, più esattamente, noi viviamo dello Spirito mandato dal Figlio: identità di operazioni senza confusione di Persone. Prendiamo per esempio la filiazione adottiva. Essa ci viene dal Figlio il quale ci ha adottati e fatti accettare come suoi fratelli; Dio ad essa ci «predestina per mezzo di Gesù Cristo » e ce la conferisce con la fede e col Battesimo, ossia con l’atto e col rito che ci mettono « in comunione col Figlio di Dio (I Cor. I, 9) ». Lo Spirito Santo pure è chiamato « Spirito di filiazione », e tutti quelli che sono animati da Lui, « sono veramente figli di Dio (Rom. VIII, 14-18) ». Dio infatti ci adotta come figli con darci il suo Spirito, e il Cristo ci adotta come fratelli col mandarci il suo Spirito; « poiché se alcuno non ha lo Spirito del Cristo, egli non appartiene al Cristo (Gal. IV, 6-7) ». La prova « che voi siete figli, è che Dio ha mandato lo Spirito di suo Figlio nei vostri cuori dove egli grida: Abba, Padre! Dunque tu non sei più schiavo, ma figlio; e se sei figlio sei dunque anche erede di Dio (Gal. IV, 6-7) ». L o Spirito Santo è il testimonio, il messaggero) l’agente e il pegno della nostra filiazione. Dunque, ben lungi dall’essere una fonte di oscurità, la compenetrazione attiva del Figlio e dello Spirito Santo è per noi un vivo focolare di luce. Per essa noi comprendiamo meglio perché il Cristo doveva risuscitare per mandarci il suo Spirito e per diventare Egli stesso spirito vivificante. Essa rischiara anche la natura del corpo mistico che non è una finzione, una semplice metafora, una pura entità morale, ma un composto di ordine soprannaturale, che riceve l’influsso vitale ad un tempo dalla testa, centro dell’organismo, e dall’anima, principio della vita. E allora la dottrina tanto consolante della comunione dei santi non è più una teoria legata artificialmente alla teologia dell’Apostolo, ma un corollario, chiaro e facile, del suo insegnamento.

5. La comunione dei santi è il vincolo della vita solidale che unisce le membra del Cristo tra loro e col loro capo, sotto l’azione comune di un medesimo Spirito. Questa definizione ha il doppio merito di concordare con la terminologia paolina e di essere abbastanza flessibile da potersi piegare a tutte le ulteriori precisioni, senza pregiudicare il senso dell’articolo inserito tardivamente nel Simbolo. – L’Apostolo chiama « santi » tutti quelli che sono in comunione con Gesù Cristo o, come egli preferisce dire, tutti quelli « che sono nel Cristo ». Sia che ancora stiano lottando nello stadio, sia che già abbiano ricevuto la corona, per lui non vi è differenza, perché la carità « che non viene meno » li unisce ugualmente al Cristo Gesù; o vivi o morti, essi sono sempre « con Lui, in Lui »; essi fanno parte del suo regno, del suo corpo mistico. È cosa degna di nota, che san Paolo adopera costantemente questa parola « santi » come un semplice sinonimo di Cristiani e l’applica senza distinzione a tutti i fedeli, anche dove vi sono gravi abusi da togliere. Sarebbe forse perché egli li suppone tutti individualmente degni di questo titolo, lasciando a colui che scruta le reni e i cuori, la cura di farne la scelta? Oppure prenderebbe forse questo titolo nel senso teocratico e sociale che aveva nell’antica alleanza, e basterebbe forse, per avervi diritto, l’appartenere alla Chiesa la cui santità si riverserebbe allora su ciascuno dei fedeli? Quello che favorisce questa seconda ipotesi è il fatto che Paolo riconosce soltanto due maniere di uscire dal corpo mistico: l’infedeltà e la scomunica. Con l’infedeltà, il battezzato si separa dal capo da cui deriva ogni influsso vitale; con la scomunica, ne viene staccato ufficialmente. Chiunque una volta entrato nell’unità del corpo mistico, non se n’è interamente staccato o non ne è stato solennemente escluso, appartiene dunque alla sfera in cui si svolge la comunione dei santi. Una certa comunanza di beni e di mali è essenziale ad ogni società. Tutti i membri di un corpo morale si prestano un aiuto reciproco; i più umili hanno bisogno dei più nobili, i più nobili hanno bisogno dei più umili, di modo che il benessere o il malessere degli uni è in qualche misura diviso dagli altri, e l’onore o il disonore degli uni ricade moralmente su tutti. Questo è anche più vero nella società cristiana la cui unione più intima ha come emblema il corpo umano. Ogni Cristiano lavora per lo sviluppo del corpo del Cristo. La persona stessa di Gesù Cristo possiede una pienezza alla quale è impossibile aggiungere qualche cosa; ma il Cristo mistico è suscettibile di accrescimenti indefiniti che va ricevendo dal crescere individuale dei suoi membri. Così la Chiesa s’innalza per gradi « in un tempio santo nel Signore », ed il corpo del Cristo acquista a poco a poco la sua statura intera, e diventa « un uomo perfetto », in grazia del continuo progresso del suo organismo. Non vi è parte che guadagni qualche cosa senza che ne abbia vantaggio il tutto; ma anche il tutto non guadagna nulla senza che ne abbiano vantaggio le parti. Così si forma come un circuito vitale che porta al centro tutto il prodotto dell’energia, per diffonderlo poi in tutte le direzioni: così il mare assorbe in sé i fiumi dei quali alimenta le sorgenti. Ma in vantaggio del corpo mistico vi è questa differenza, che esso conserva tutto ciò che ha ricevuto e lo restituisce senza perderne nulla. La comunione dei santi ha lo scopo di arricchire il tesoro della Chiesa e di farne poi la distribuzione a questo o a quel membro. Il primo risultato si ottiene con ogni atto meritorio; il secondo, principalmente con la preghiera. « Ora, dice l’Apostolo, io mi rallegro dei miei patimenti (sostenuti) per voi e compio nella mia carne quello che manca alle tribolazioni del Cristo per il suo corpo, che è la Chiesa (Col. I, 24) ». Secondo i suoi pregiudizi dommatici, il lettore corre pericolo di vedere in questo testo troppe o troppo poche cose; ma vi sono almeno tre fatti certi: anzitutto le tribolazioni del Cristo non sono patimenti paragonabili a quelli di Gesù, ma piuttosto i dolori e i tormenti sopportati dal Cristo durante la sua vita mortale. Queste tribolazioni, nonostante il loro valore infinito, presentano, sotto qualche aspetto, una specie di deficienza; la parola adoperata dall’Apostolo (ὑστέρημα = usterema) non può avere altro significato. — Appartiene agli uomini il colmare questa mancanza e il compiere così l’opera del Cristo; ed è appunto ciò che Paolo è orgoglioso e lieto di fare completando (ἀνταναληρῶ = antanaplero) quello che manca alle tribolazioni del suo Maestro. A questo punto l’esegeta deve procedere molto cauto. Quali sono le tribolazioni del Cristo che si tratta di compiere per il bene della Chiesa? Sono i patimenti del Getsemani e del Calvario, per se stessi più che sufficienti per la salvezza dell’umanità, ma dei quali bisogna ancora assicurare l’applicazione alle anime individuali? Oppure sono le persecuzioni subite per fondare il regno di Dio, persecuzioni di cui tutti gli Apostoli e, dopo di loro, tutti i predicatori del Vangelo devono avere la loro parte? Nella prima ipotesi il dogma della comunione dei santi viene insegnato direttamente; nella seconda, noi apprendiamo almeno che Gesù Cristo ha fondato la salvezza del genere umano sul principio della solidarietà, e che i suoi continuatori devono dividere i suoi travagli per effettuare i suoi disegni di misericordia. – Chi dice solidarietà, dice reversibilità di meriti e di demeriti: era questa un’idea comune nei contemporanei di san Paolo. L’Apostolo, senza fermarsi a giustificarla, la suppone quando afferma che la Chiesa di Corinto espia, con malattie e lutti, l’irriverenza di alcuni nella celebrazione dell’eucaristia; quando dice che il marito cristiano santifica la moglie infedele e che la moglie fedele santifica il marito pagano; che l’elemosina colma in qualche maniera la disuguaglianza tra i discepoli, dando i ricchi il superfluo dei loro beni temporali ai poveri, e restituendoli i poveri  ai ricchi, in beni di ordine superiore (I Cor. XI, 30-32; VII, 14; II Cor. VIII, 13-15). Egli ha tanta fiducia in questo scambio di grazie spirituali, che non cessa di implorare le preghiere dai suoi corrispondenti, di offrire loro in cambio l’aiuto delle sue e di raccomandare loro di pregare gli uni per gli altri: « Fate in ogni tempo, per mezzo dello Spirito, preghiere e suppliche … pregate per tutti i santi ed anche per me, affinché Dio mi conceda di parlare coraggiosamente e di predicare con libertà il mistero del Vangelo (Ephes. VI, 18-19) ». A quelle preghiere egli attribuisce la sua liberazione, la protezione di cui Dio lo circonda ed i buoni risultati della sua predicazione; poiché quando la supplica arriva a tale grado d’intensità da potersi chiamare lotta, combattimento (Rom. XV, 30), è onnipotente presso Dio. – La preghiera dei giusti non è soltanto utile ai vivi, ma giova anche ai morti. Un cristiano di Efeso, Onesiforo, era morto dopo di aver prodigato a Paolo gli attestati più commoventi di affetto e di devozione. Per pagare il suo debito di riconoscenza, l’Apostolo non si contenta di raccomandare a Timoteo la famiglia di Onesiforo, ma egli stesso raccomanda a Dio l’anima del defunto: « Il Signore gli conceda di trovare misericordia presso il Signore in quel giorno (II Tim. I, 18) ». – Parecchi commentatori’ protestanti notano il fatto con manifesto malumore e ne fanno le meraviglie: ma che cosa vi è di più naturale, se la Chiesa è una e se abbraccia tanto i morti quanto i vivi?

6. Qualunque sia l’aspetto sotto il quale si consideri la vita della Chiesa, bisogna fatalmente giungere alla formula In Christo Jesu, la quale è davvero « uno dei pilastri della teologia di san Paolo » (Sanday). Benché non sia esclusivamente sua, poiché san Giovanni ne fa un uso limitato, essa ha in lui una pienezza di significato ed una varietà di applicazioni veramente caratteristiche. Nella sua prima Epistola, san Giovanni afferma a più riprese, che la carità stabilisce tra Dio e noi una relazione di compenetrazione reciproca: « Dio è carità, e chiunque persevera nella carità dimora in Dio, e Dio dimora in lui (I Giov. IV, 16) ». Il nostro atto di carità, per quanto sia finito, non solamente ha Dio come oggetto immediato, ma è veramente una presa di possesso di Dio, l’amore increato. La carità, finché esiste in noi, ci unisce dunque a Lui con un vincolo indissolubile. E ciò, che è vero del Padre, è vero anche del Figlio, poiché essi sono una medesima sostanza: Ego et Pater unum sumus. E vero che nell’Epistola può talora nascere il dubbio se san Giovanni voglia parlare del Padre o del Figlio; ma nel Vangelo il suo linguaggio è ben diverso. Gesù dice ai suoi discepoli: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui (Gio. VI, 56) ». Non già in virtù dell’unione reale della carne del Cristo con la nostra, Gesù Cristo rimane in noi, ma Egli rimane in noi come alimento spirituale dell’anima nostra, anche dopo la corruzione delle specie sacramentali; e noi rimaniamo in Lui perché questo alimento celeste ha la proprietà meravigliosa di trasformarci in Lui, contrariamente a ciò che avviene per ogni altro nutrimento. Alquanto diverso è il caso nell’allegoria della vite: « Rimanete in me ed io in voi… Colui che rimane in me enel quale io rimango porta molto frutto (Giov. XV, 4-5) ». Noi rimaniamo in lui per mezzo di una fede viva, come il ramo sta attaccato al tronco con le fibre e con la scorza; ed egli rimane in noi per mezzo della carità che ci mette in contatto vitale con Lui e per mezzo della quale Egli ci comunica il succo divino. Nel passare da san Giovanni a san Paolo, abbiamo l’impressione che l’orizzonte non è più il medesimo. Anzitutto rileviamo due differenze capitali nell’uso della formola. Diversamente da san Giovanni, san Paolo non dice mai in Gesù o in Gesù Cristo, ma dice sempre nel Cristo o nel Cristo Gesù: prova evidente che egli non considera la persona individuale di Gesù, ma la sua funzione di Messia, la sua qualità di secondo Adamo, insomma il suo carattere rappresentativo. In secondo luogo, mentre san Giovanni stabilisce la reciprocità tra Gesù e noi, san Paolo non lo fa, o almeno non parla di Gesù Cristo in noi se non in rarissimi casi il cui senso preciso è ancora da discutere (Rom. VIII, 10). La formula In Christo Jesu si connette evidentemente alla dottrina del corpo mistico: questo è un punto incontestato. Vediamo dunque in che modo san Paolo descrive l’incorporazione del cristiano al Cristo: “Voi siete tutti figli di Dio per la fede, nel Cristo Gesù; poiché voi tutti che siete stati battezzati nel Cristo avete rivestito il Cristo: non più Ebrei né Gentili, non più schiavi né liberi;… perché voi tutti siete uno nel Cristo Gesù. Non sapete che tutti noi che siamo stati battezzati nel Cristo Gesù siamo stati battezzati nella sua morte! Infatti noi siamo stati sepolti con lui per mezzo del Battesimo (che è) nella sua morte, affinché come il Cristo è resuscitato da morte dalla gloria del Padre, anche noi camminiamo nella novità della vita. Se infatti noi siamo stati innestati su lui dalla somiglianza della sua morte tali pure saremo da quella della risurrezione” (Gal. III, 26-28 ). – Siccome il senso etimologico di battezzare è immergere nell’acqua, non si può quasi dubitare che, nel descrivere gli effetti del Battesimo, san Paolo pensi al rito esteriore dell’immersione e dell’emersione, simbolo efficace di morte e di vita nuova. L’effetto del Battesimo è di immergerci nel Cristo, d’innestarci sul Cristo, d’incorporarci al Cristo, d’identificarci parzialmente col Cristo. Quando si dice che il Cristiano è nel Cristo, come è l’uccello nell’aria o il pesce nell’acqua, questa espressione realistica rimane al disotto della verità; infatti noi non siamo nel Cristo come in un elemento estraneo, ma come in un tutto di cui noi stessi facciamo parte. A dire il vero, il miglior commento della formula In Christo Jesu è questo testo di san Paolo: “La morte è per mezzo di un uomo e la risurrezione da morte sarà per mezzo di un uomo; poiché come tutti muoiono in Adamo, così tutti saranno vivificati nel Cristo(I Cor. XV, 21-22) ». Adamo e il Cristo rappresentano qui tutta quanta l’umanità, e si può dire con sant’Agostino, a patto di non fraintenderlo: In Adam Christus et Christus in Adam(in Ps. CI, sermo I, n. 4). Tutti gli uomini sono in Adamo e tutti sono nel Cristo, benché in modo assai diverso: « Tutti muoiono in Adamo, dice san Cirillo di Alessandria, perché per causa della sua trasgressione la natura fu condannata in lui; così tutti saranno giustificati nel Cristo perché, in grazia del suo atto redentore, la natura è di nuovo benedetta in Lui (Fragm. In I Cor, XV, 22) ». – Si parla poco esattamente quando si dice che « il Cristo della formula In Christo Jesu è sempre il Cristo glorificato come πνεῦμα (= pneuma), e non il Cristo storico » (Sanday). Non è precisamente il Cristo glorificato, ma il Cristo Salvatore, il nuovo Adamo, quello cui allude la formula; ed è questo Cristo Salvatore dal momento in cui inaugura la sua missione redentrice, cioè dalla sua passione. Da quel momento noi soffriamo e moriamo con Lui, noi risuscitiamo e regniamo con Lui; noi partecipiamo della sua forma, della sua vita e della sua gloria. Così pure da quel momento noi siamo chiamati, giustificati, eletti, predestinati in Lui; in Lui otteniamo tutte le benedizioni celesti; la grazia, la filiazione adottiva, la santificazione, la vita eterna. Tale è il valore normale della formola In Christo Jesu, ma essa può subire notevoli aumenti o diminuzioni di significato. Quando l’Apostolo vuole esprimere l’unione ineffabile dei cristiani tra loro e col Cristo nell’identità del corpo mistico, la formola raggiunge il suo massimo valore; quando invece si limita a indicare il principio della solidarietà cristiana, il significato si attenua: allora essere nel Cristo vuol dire muoversi nella sfera del Vangelo o vivere secondo lo spirito del Cristianesimo.