CONOSCERE SAN PAOLO (49)
LIBRO SESTO
I frutti della redenzione.
CAPO I.
La vita cristiana.
[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA, S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]
II. PRECETTI DI MORALE SOCIALE.
1. IL CRISTIANO E L’AUTORITÀ CIVILE. — 2. LA FAMIGLIA CRISTIANA. — 3. IL MATRIMONIO CRISTIANO.
1. La rigenerazione battesimale è una seconda nascita che rende i Cristiani uguali e Uberi: « Voi tutti che foste battezzati nel Cristo, avete rivestito il Cristo: non più Giudeo né Greco; non più schiavo né libero; poiché tutti siete uno nel Cristo Gesù (Gal. III, 27-28) ». Le differenze di nazionalità, di condizione, di sesso, non contano più; esse scompaiono dinanzi a questa unità superiore che le concilia; esse sono in qualche modo assorbite dalla nuova forma specifica che il neofito riveste, la quale altro non è che il Cristo: questo per l’uguaglianza. La libertà cristiana nasce dai medesimi principi. Liberato dal Cristo, il Cristiano non appartiene più ad altri che al Cristo; la libertà ricevuta nel Battesimo è inalienabile: « Il Cristo vi ha concessa la Libertà; dunque tenete fermo e non ricadete sotto il giogo della schiavitù (Gal. V, 1) ». Si tratta del giogo della Legge; ma il valore dei principio è generale: « Voi foste riscattati con un (gran) prezzo; non diventate schiavi degli uomini (I Cor. VII, 23)». Si può pensare quale abuso potessero fare di queste massime gli spiriti mal disposti; e san Paolo e san Pietro dovettero egualmente protestare contro. i falsi interpreti del loro pensiero: Voi siete liberi, dice l’uno, ma siete anche i servi di Dio; non fate della libertà una maschera per coprire l a vostra malizia (I Piet. II, 16). « Voi foste chiamati alla libertà, dice l’altro; però la libertà non sia una scusa alla carne (Gal. V, 13) ». Non dovete pensare di essere esenti dai vincoli di subordinazione e di dipendenza, da impegni e da contratti, da relazioni stabilite dalla natura o create da un fatto contingente. L’eguaglianza cristiana consiste in questo, che sotto l’aspetto religioso tutti hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, dipendono dallo stesso giudice supremo, trattano direttamente col medesimo Dio. Se la libertà cristiana libera dalla schiavitù del peccato e della Legge antica, non sopprime affatto le relazioni gerarchiche della società e della famiglia. La stessa fraternità, la nota più caratteristica dei cristiani, la quale si direbbe che abbia soltanto da portare privilegi, impone anch’essa dei doveri: la tolleranza vicendevole, l’obbligo di evitare lo scandalo. Così i doveri sociali del Cristiano sono in ragione diretta con i suoi diritti. La parola di Gesù: « Rendete a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio » ha una forma così incisiva, che si era dovuta scolpire profondamente nella memoria di tutti. Era tuttavia opportuno inculcare questo dovere e farne vedere la ragione di essere, e questo fa san Paolo nel capo XIII dell’Epistola ai Romani. – “Ogni anima si sottometta alle autorità superiori; poiché non vi è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono ordinate da Dio, di modo che resistendo a loro si resiste all’ordine di Dio stesso e quelli che resistono si attireranno una (giusta) condanna. Poiché i magistrati non sono da temere per le buone azioni, ma per le cattive. Vuoi tu non temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode; perché il principe è per te il ministro di Dio per il bene. Ma se fai il male temi; perché non invano egli porta la spada, essendo ministro di Dio per punire nella sua collera colui che fa il male. Bisogna dunque obbedire non soltanto per causa della collera, ma anche per causa della coscienza. Per questo pure voi pagate i tributi; poiché i magistrati sono ministri di Dio che compiono con zelo questo uffizio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi è dovuta l’imposta, l’imposta; a chi il tributo, il tributo; a chi il timore, il timore; a chi l’onore, l’onore”. – Molto si è discusso sul motivo che poté provocare queste raccomandazioni. Siccome gli Ebrei di Roma erano famosi per la loro turbolenza, e la liceità dell’imposta pagata agli stranieri era una questione scottante nei centri ebrei, si è supposto che i neofiti si fossero lasciati guadagnare dalle idee rivoluzionarie dei palestinesi. Ma né Svetonio né Arriano non ci lasciano capire che la turbolenza degli Ebrei di Roma avesse di mira ipoteri stabiliti; anzi gli Ebrei della Diaspora, ben lungi dal rivendicare l’indipendenza in nome del principio teocratico, come gli Zeloti della Palestina, si vantavano invece della loro fedeltà e della loro legalità: l’impero non ebbe mai sudditi più sottomessi. E poi l’elemento ebreo entrava in piccola parte nella composizione della Chiesa romana. Non è dunque il caso di cercare un motivo speciale in questo insegnamento dell’Apostolo il quale sembra adoperare a bella posta i termini più generici « ogni anima, il potere, le autorità superiori, i magistrati », evitando qualunque allusione a circostanze locali. Noi ci troviamo dunque dinanzi ad un regolamento teorico su l’atteggiamento dei Cristiani verso il potere civile. Paolo formula queste tre proposizioni: Per diritto e per principio ogni potere viene da Dio. — In fatto e in pratica, il potere stabilito deriva da Dio. — Anzi, il potere si esercita in nome di Dio. Le due prime proposizioni erano quasi assiomi per gli Ebrei contemporanei; perciò l’Apostolo si limita a enunziarle, distinguendole come conviene, e aggiungendovi questa conseguenza evidente, che resistere al potere stabilito da Dio è resistere all’ordine di Dio medesimo (Rom. XIII, 1-2). Egli insiste di più sopra la terza. Il principe è il « ministro di Dio » (διάκονος = diakonos), il luogotenente di Dio » (λειτουργός = leiturgos) per promuovere il bene della società; particolarmente per lodare ericompensare ibuoni cittadini, per incutere timore ai cattivi eper punirli. Se cinge la spada, questo fa in nome di Dio; se vendica il male, questo fa in nome di Dio. « Bisogna dunque obbedirgli, non solo per il castigo » da evitare, « ma anche per ragione di coscienza »; perché la collera di cui minaccia il ribelle è giusta e sancita da Dio. Per motivo pure di coscienza si devono pagare le imposte: nell’esigerle, il sovrano è sempre il ministro di Dio, preposto a tale uffizio per la difesa ed il buon ordine della società di cui ha la custodia (Rom. XIII, 3-6). – La parola che riassume tutto: « Rendete a ciascuno quello che gli è dovuto », dimostra che non si tratta di un semplice consiglio, ma di un vero obbligo. Nel tempo in cui san Paolo scriveva queste parole, l’autorità imperiale si mostrava dovunque nella sua luce più favorevole; ancora durava il famoso quinquennio di Nerone; il mondo era governato da saggi e da filosofi; nonostante gli abusi, le vessazioni, le esazioni di alcuni dei suoi delegati, Roma simboleggiava, nelle province, l’ordine, la giustizia, la libertà, e Paolo aveva quasi sempre avuto da lodarsi dei magistrati incontrati sui suoi passi. Ma quando mutarono le disposizioni del potere verso la Chiesa, l’insegnamento della Chiesa non mutò affatto: appunto allora Paolo ordinava a Timoteo di far pregare « per i re e per tutti quelli che hanno il potere (I Tim. II, 1-2)», e prescriveva a Tito di predicare la sottomissione e l’obbedienza ai poteri costituiti (Tit. III, 1). Appunto allora Pietro scriveva: « Siate sottomessi ad ogni istituzione umana per il Signore; sia al re come a chi ha l’autorità suprema, sia ai governatori che sono da Lui delegati per punire i cattivi e per lodare ibuoni. Poiché tale è la volontà di Dio (I Piet. II, 13-17) ». Un commentatore moderno ha scoperto tra idue Apostoli questo curioso contrasto: Pietro sarebbe repubblicano, e Paolo monarchico! Il cittadino romano sarebbe imperialista in politica come in teologia, l’Ebreo invece della Galilea avrebbe le tendenze rivoluzionarie dei suoi compatriotti (Bigg. The Epis. Of St. Peter, edimbur. 1901). Per un commentatore critico, qui vi è troppa fantasia. Si potrebbe egualmente sostenere il paradosso contrario; san Pietro infatti parla del « re » (nome dell’imperatore romano in Oriente) e dei suoi delegati, propretori o proconsoli, mentre san Paolo, per rendere il suo insegnamento indipendente dai tempi e dai luoghi, si astiene dal fare designazioni speciali. Una differenza meno illusoria è questa, che san Paolo, con un’eccezione quasi unica, qui sta costantemente sul terreno del diritto naturale e traccia ai fedeli il loro dovere in quanto sono cittadini e uomini, mentre invece il suo collega, mettendosi sul terreno del diritto cristiano, fa appello alla volontà di Dio e all’ordine del Signore. L’obbedienza alla legge civile ha per limite la legge divina; ma non conveniva presentare l’ipotesi di un conflitto tra la legge di Dio e la legge dell’uomo. Presentandosene il caso, i fedeli avevano per guida il precetto evangelico (Matt. XXII21; marc. XII, 17; Luc. XX, 25); la ragione diceva loro che l’autorità superiore deve essere preferita; la condotta degli Apostoli dinanzi al sinedrio, dettava loro la risposta da fare. Ma lasciando da parte questa eccezione che del resto non deroga affatto al principio generale di obbedire all’autorità, i Cristiani dei primi secoli si segnalarono sempre per la loro sottomissione. La loro deferenza verso i pubblici poteri fu il trionfo degli apologisti e la confutazione perentoria delle calunnie popolari circa una pretesa ostilità dei Cristiani contro le istituzioni imperiali. San Clemente di Roma, san Policarpo, san Giustino, Tertulliano ed Origene, per non citarne altri, c’insegnano con quanto zelo la Chiesa nascente si conformasse alle istruzioni di san Paolo. Se, fin tanto che l’impero rimase pagano, essa non favorì la partecipazione dei suoi membri alle funzioni pubbliche e soprattutto non fu mai favorevole alla professione militare, era perché tali impieghi, che erano del resto facoltativi, esponevano quasi sempre il neofito ad atti d’idolatria e lo mettevano sovente nell’alternativa di scegliere tra l’apostasia ed il martirio. Non dobbiamo poi neppure dimenticare che la Chiesa, fino dalla sua origine, ebbe coscienza di essere una società distinta, investita dal suo divino Fondatore, del potere di governarsi e di perpetuarsi. Su tale principio san Paolo giudica e punisce iCristiani scandalosi e biasima con tanta energia il ricorso aitribunali profani (I Cor. VI, 1-6).
2. Dio è Autore della famiglia come è Autore della società; ma nella famiglia cristiana Egli è il prototipo del padrone, del padre, dello sposo, mentre il servo, il figlio e la sposa hanno la Chiesa come simbolo e come modello. Il Cristianesimo non scioglie i matrimoni, ma li consolida col santificarli; non rallenta i vincoli naturali tra padri e figli, ma li sancisce e li restringe; esso rispetta le relazioni legittime tra padroni e schiavi, ma le soprannaturalizza. Il gran principio inculcato da san Paolo ai suoi neofiti, è di non mutare le condizioni esterne della loro vita, purché si possano mettere d’accordo con i precetti del Vangelo. La sua parola d’ordine e la sua consegna è questa: svestirsi del vizio per rivestirsi di Gesù Cristo, ma restare al posto assegnato dalla Provvidenza (I Cor. VII, 20). Questa raccomandazione riguardava soprattutto gli schiavi che accorrevano in folla tra le braccia aperte della Chiesa. Voi non dovete più inquietarvi del vostro stato, dice loro l’Apostolo; nel Cristo, voi siete i fratelli degli uomini liberi, ed uguali a loro; serviteli per amore di Gesù Cristo, senza asservirvi moralmente a loro. Con mano ferma egli indica ai padroni e agli schiavi i loro doveri reciproci (Gal. III, 22-25). Gli schiavi devono « obbedire ai loro padroni secondo la carne, in tutto ciò che non è contrario alla legge di Dio; devono farlo con un sentimento di timore ispirato dal timore del Signore, e non per paura dei castighi; « nella semplicità del cuore », senza ipocrisia e senza finzione; « dal fondo dell’anima », con spirito di fede e per un motivo soprannaturale; per piacere a Dio e non per adulare il padrone spiegando uno zelo maggiore in loro presenza. Essi devono rianimare la loro obbedienza con la prospettiva della ricompensa futura, e pensare che si tratta di giustizia, che la loro coscienza ne è impegnata, e che essi dovranno rendere conto della loro condotta al tribunale del Giudice supremo. Alla loro volta i padroni cristiani devono « osservare verso i loro schiavi il diritto » scritto e naturale; oltre lo stretto diritto, devono applicare le regole dell’equità »; astenersi da « quelle minacce » orribili e avvilenti di cui i pagani erano così larghi; finalmente ricordarsi del comune Padrone e del comune Giudice che non fa accettazione di persone (Col. IV, 1). Ecco il codice che deve d’allora innanzi regolare le relazioni tra padroni e schiavi. Ma quando l’Apostolo dimenticando il suo compito di legislatore, parla da consigliere e da padre, il suo cuore gli detta, in favore dello schiavo Onesimo, parole sublimemente patetiche e d’incomparabile tenerezza: il mondo non aveva mai udito una simile lezione di fratellanza. La posizione degli schiavi Cristiani presso un padrone pagano poteva diventare quasi intollerabile. San Paolo non si limita, come san Pietro (I Piet. II, 18), a ricordare loro che ne avranno maggior merito presso Dio. Tito è incaricato di ingiungere a quei neofiti « di essere sottomessi ai loro padroni, di compiacerli in tutto, senza contraddirli, senza danneggiarli in nulla, ma mostrando loro una perfetta fedeltà, per onorare in tutte le cose la dottrina di Dio nostro Salvatore (Tit. II, 9-10) ». I poveri schiavi sono trasformati in Apostoli; con la loro pazienza e la loro sommissione a tutte le prove, diventano i predicatori muti della fede. Chi potrebbe dire quanti furono guadagnati alla Chiesa nascente dall’eroismo degli schiavi Cristiani? Tuttavia certi schiavi, meno imbevuti dello spirito cristiano, erano più solleciti dei loro diritti che non dei loro doveri; alcuni servivano i pagani con mal garbo, credendo di fare loro troppo onore, e davano così occasione di bestemmiare il nome del vero Dio e di calunniare il Vangelo. Altri erano negligenti nel servizio dei loro padroni Cristiani appunto perché erano Cristiani; ma questo, dice loro l’Apostolo, è pagare con l’ingratitudine la dolcezza e la benignità dei vostri benefattori (I Tim. VI, 1). Intorno ai doveri reciproci dei genitori e dei figli non v i era molto da insistere. Se gli Ebrei, con una casistica perversa, eludevano talora il quarto precetto del Decalogo (Matt. XV, 3-6), non potevano però ignorarlo; ed i Gentili, quando mancavano all’obbedienza ed al rispetto verso i genitori, non potevano sfuggire al rimprovero della loro coscienza (Rom. I, 30). Perciò san Paolo è brevissimo su questo punto: «Figliuoli, obbedite in tutto ai vostri genitori, perché questo è gradito a Dio. Genitori, non irritate i vostri figli, affinché non si scoraggino (Col. III, 20) ». Nel rivolgersi a i figli, fa astrazione dal caso eccezionale e quasi impossibile, che genitori Cristiani comandino qualche cosa di contrario alla legge di ina. Nel passo parallelo, è citato il precetto del Decalogo, ma non tanto per dare maggiore autorità alle sue parole, quanto piuttosto per la promessa con cui lo accompagna il legislatore ebreo. Non era necessario comandare ai genitori l’amore dei figli, essendo questo un sentimento che la natura imprime nel loro cuore; bastava ricordare loro l’obbligo di educarli come si conviene a Cristiani (Col. III, 21). Tuttavia la fortezza non deve degenerare in asprezza, né la fermezza in rigore: un’educazione alla spartana non piace a san Paolo. Egli non vuole che si rendano pusillanimi i figliuoli con la troppa esigenza: soffocando in loro la spontaneità, la confidenza e l’abbandono, con una severità intempestiva, vi si fa nascere la dissimulazione, il timore servile e la falsità. – Non è possibile offrire agli sposi un ideale più nobile di quello che loro propone san Paolo. Egli aveva scritto ai Colossesi: « Donne, obbedite ai vostri mariti come si conviene, nel Cristo. E voi, mariti, amate le vostre spose e non mostrate loro nessuna amarezza (Col. III, 18-19) ». Se si fosse limitato a questo laconico precetto, nessuno mai ne avrebbe indovinata la ragione profonda; ma per fortuna egli stesso si commenta nell’pistola agli Efesini: « Donne, state sottomesse ai vostri mariti come al Signore; poiché il marito è il capo della moglie come il Cristo è il capo della Chiesa, (che è) il suo corpo di cui Egli è il salvatore. Come la Chiesa è soggetta al Cristo, così devono le donne stare soggette ai loro mariti in ogni cosa. Mariti, amate le vostre mogli, come il Cristo amò la Chiesa e si diede per lei, per santificarla, avendola purificata con l’acqua battesimale, nella parola, per condurla dinanzi a sé, questa Chiesa, gloriosa, santa e immacolata, senza macchia né ruga né altro di simile (Ephes. V, 22-28)». I doveri della moglie si riassumono nella sommissione ispirata da un motivo soprannaturale. L’obbligo del marito comprende l’amore, la devozione e la sollecitudine continua di assicurare la felicità della sua compagna, a imitazione del Cristo che s’immola per la sua Chiesa. Modello sublime per entrambi gli sposi cristiani! L’Antico Testamento si serviva volentieri dell’allegoria del matrimonio per rendere sensibile l’unione intima, unica nel suo genere, che vi era tra Jehovah e il suo popolo eletto; san Paolo invece vuole che l’unione ancora più stretta del Cristo con la sua Chiesa serva di regola e di misura all’intimità del vincolo coniugale.
3. La rivelazione di giustizia e di perfezione che il Cristianesimo portava al mondo e che doveva metterlo in rivoluzione, non appare in nessun luogo con maggiore splendore, che nel nuovo concetto del matrimonio. La mostrano fin da principio quattro progressi i quali non mancheranno di influire sui mutui rapporti dei coniugi: l’unità, l’indissolubilità, l’uguaglianza dei diritti e la santità. Sotto l’influenza della legislazione romana che la proscriveva, la poligamia tendeva allora a scomparire; è però troppo il dire che in quei tempi non si faceva più questione di bigamia né di poligamia tra i veri Ebrei ». Né il Talmud né il Vangelo ci hanno conservato il ricordo di quei veri Ebrei che si sarebbero fatto scrupolo di valersi della tolleranza legale. Giuseppe riferisce minutamente le disposizioni mosaiche senza accennare che fossero cadute in disuso e senza sentire il bisogno di farne una difesa. Pare anche che non si sia fatto un rimprovero speciale ad Erode che aveva contemporaneamente nove mogli. In realtà, per gli Ebrei di allora, come per i musulmani dei nostri giorni, la pluralità delle mogli, pure essendo lecita, era un lusso che soltanto i ricchi si potevano permettere. Essa era invece opposta ai principi del Cristianesimo: Gesù l’aveva abolita ricordando che, nei disegni del Creatore, l’uomo e la donna erano destinati a diventare una sola carne (Marc. X, 8).Questa unione così intima escludeva ogni divisione; ed il significato simbolico del matrimonio cristiano che rappresenta l’unione della Chiesa e del Cristo, la escludeva ancora di più. – Pertanto la storia ecclesiastica non presenta neppure un esempio di bigamia ufficialmente tollerata; bisognò arrivare alla Riforma del secolo XVI per vedere sanzionato tale mostruoso abuso. Neppure la dottrina dell’indissolubilità non è una specialità di san Paolo, come non è la dottrina dell’unità del matrimonio: egli altro non fa che promulgarla nel nome del Signore (I Cor. VII, 10);ma forse egli la insegna più chiaramente che gli stessi evangelisti; infatti al coniuge separato dall’altro per qualsiasi ragione, egli lascia soltanto questa alternativa: o riconciliarsi, o rinunziare ad altre nozze (I Cor. VII, 11), il che suppone, in ogni ipotesi, che il primo matrimonio dura. L’eccezione che egli sembra fare nel caso detto « privilegio paolino » non è una vera eccezione, poiché non si tratta del matrimonio cristiano (I Cor. VII, 12-16). Più caratteristico è l’insegnamento che si riferisce all’uguaglianza dei diritti tra gli sposi. Non si tratta di una eguaglianza assoluta che distruggerebbe la subordinazione essenziale all’unione coniugale: il rapporto tra la testa e il corpo è un rapporto di disuguaglianza (I Cor. XI, XI, 3). La soggezione naturale della donna all’uomo, soggezione simboleggiata dal velo, appare in diverse maniere nel racconto della creazione (I Cor. XI, 5-10). Non fu tratto l’uomo dalla donna, ma la donna dall’uomo (I Cor. XI, 8); l’uomo non fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo (I Cor. VII, 9); la donna è il riflesso dell’uomo, come l’uomo è il riflesso di Dio (ivi, 7). Si può stabilire questa gradazione ascendente: la donna, l’uomo, il Cristo, Dio (ivi, 3). Aggiungiamo ancora, per seguire san Paolo fine alla fine, che l’uomo fu creato per il primo e che fu sedotto dopo la donna (I Tim. II, 13-14). Vi sono però dei compensi: se la donna ha bisogno dell’uomo, anche l’uomo ha bisogno della donna, e se la prima donna fu tratta dall’uomo, ora l’uomo nasce dalla donna (I Cor. XI, 11-12). Ma i diritti e i doveri coniugali sono i medesimi; il privilegio paolinoriguarda qualunque sposo convertito, così l’uomo come la donna (I Cor. ,VII, 12-13); e i due coniugi sono egualmente tenuti a conservare la stabilità della famiglia cristiana, benché la formola che enunzia questo dovere insinui con delicatezza la subordinazione della donna (I Cor. Ivi, 11). Il capolavoro morale del Cristianesimo sta nell’aver santificato il matrimonio. Il dovere coniugale è pienamente lecito — ed è questa la dottrina di san Paolo — ed il solo nome di dovere ne dimostrerebbe la liceità (ivi, 3). Se il matrimonio in sé è buono come istituzione divina, il matrimonio cristiano è santo come segno sensibile di una cosa santa. Certamente la verginità è migliore (ivi, 1); ma è una grazia che Paolo è lieto di aver ricevuta, che augura agli altri fedeli (ivi, 7), ma che non impone a nessuno. Non soltanto la verginità è migliore, ma è preferibile anche la vedovanza (ivi, 40): le seconde nozze fermano il candidato alle soglie del chiericato (I Tim. III, ; Tit. I, 6). Vi sono tuttavia dei casi in cui il matrimonio e le seconde nozze sono consigliabili: tutto dipende dalle circostanze e dalle persone; purché non vi sia, naturalmente, qualche impegno precedente, poiché è delitto mancare alla fede giurata (I Tim. V, 11-12). È tale la santità del vincolo coniugale, che nei matrimoni misti essa si riversa sul coniuge pagano e sui figli nati da questa unione (I Cor. VII, 14). Il matrimonio cristiano prepara reclute al Battesimo e candidati per il cielo. L’Apostolo incorona il suo insegnamento con queste consolanti parole: « La donna sarà salva diventando madre — per il fatto che diventa madre (διὰ τεκνογονίας = dia tecnokonias)— purché perseveri nella fede, nella carità e nella santità, congiunte con la modestia (I Tim. II, 15) ».