CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: APRILE 2023

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA:

APRILE 2023

Nel mese di aprile, la Santa Chiesa cattolica festeggia, con i riti che la precedono e la seguono, la Pasqua di Resurrezione, del N. S. Gesù Cristo, evento centrale della vita di ogni Cristiano. – Sii dunque benedetto e glorificato, vincitore della morte, che durante questo solo giorno ti sei degnato di mostrarti agli uomini fino a sei volte, per soddisfare il tuo amore e per confermare la nostra fede nella tua divina Risurrezione. Sii benedetto e glorificato per aver consolato, con la tua presenza e dolci carezze, il cuore così oppresso della tua e nostra Madre. Sii benedetto e glorificato per aver calmato la desolazione della Maddalena con una sola parola del tuo amore. Sii benedetto e glorificato per aver asciugato le lacrime delle pie donne con la tua presenza e per aver dato loro da baciare i tuoi sacri piedi. Sii benedetto e glorificato per aver dato, con la tua stessa bocca, l’assicurazione a Pietro del suo perdono e per aver confermato in esso i doni del suo Primato, rivelando a lui, prima che agli altri, il dogma fondamentale della nostra fede. Sii benedetto e glorificato per aver rassicurato, con tanta dolcezza, il cuore vacillante dei due discepoli sulla strada di Emmaus e per aver completato questo favore, svelandoti ad essi. Sii benedetto e glorificato per non aver lasciato finire questa giornata senza visitare i tuoi Apostoli e senza aver loro dato delle prove della tua adorabile condiscendenza alla loro debolezza. Sii benedetto e glorificato, infine, o Gesù, perché oggi ti degni di farci partecipare, dopo tanti secoli, per mezzo dell’istituzione della tua Chiesa, alle gioie che gustarono in un simile giorno Maria, tua Madre, Maddalena con le sue compagne, Pietro, i discepoli di Emmaus e gli Apostoli riuniti insieme. –  Niente qui ne è cancellato; tutto è vivo, tutto è rinnovato; tu sei sempre lo stesso e la nostra Pasqua, oggi, è pure la medesima di quella che ti vide uscir dalla tomba. Tutti i tempi sono tuoi; e il mondo delle anime, vive per mezzo dei tuoi misteri, come il mondo materiale si sostiene per mezzo del tuo potere, dal momento in cui ti piacque di cominciare l’opera tua, creando la luce visibile, fino a che essa impallidisca e si annienti davanti all’eterna luminosità che tu oggi ci hai conquistata.

PREGHIAMO

O Dio, che in questo giorno per mezzo del tuo Unigenito hai debellata la morte e ci hai riaperto le porte dell’eternità; fa’ che col tuo aiuto si adempiano le buone aspirazioni della grazia.

(Dom. P. Guéranger: L’anno liturgico, 1956)

201

En ego, o bone et dulcissime Iesu, ante conspectum tuum genibus me provolvo ac maximo animi ardore te oro atque obtestor, ut meumin cor vividos fidei, spei et caritatis sensus, atque veram peccatorum meorum paenitentiam, eaque emendandi firmissimam voluntatem velis imprimere: dum magno animi affectu et dolore tua quinque Vulnera mecum ipse considero, ac mente contemplor, illud præ oculis habens, quod iam in ore ponebat tuo David Propheta de te, o bone Iesu: Foderunt manus meas et pedes meos; dinumeraverunt omnia ossa mea (Ps. 21, V. 17 et 18).

Fidelibus, supra relatam orationem coram Iesu Christi Crucifixi imagine pie recitantibus, conceditur: Indulgentia decem annorum;

(ai fedeli che recitano questa orazione piamente davanti ad una immagine di Gesù crocifisso, si concedono 10 anni di indulgenza)

Indulgentia plenaria,

si præterea sacramentalem confessionem instituerint, cælestem Panem sumpserint et ad mentem Summi Pontificis oraverint

(… se preceduta dalla confessione sacramentale e dalla Comunione – Pane celeste – pregando secondo le intenzioni del Sommo Pontefice: Indulgenza plenaria.)

(S. C. Indulg., 31 iul. 1858; S. Paen. Ap., 2 febr. 1934).

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Deus, qui Unigeniti Filii tui passione, et per quinque Vulnera eius Sanguinis effusione, humanam naturam peccato perditam reparasti; tribue nobis, quaesumus, ut qui ab eo suscept Vulnera veneramur in terris, eiusdem pretiosissimi Sanguinis fructum consequi mereamur in caelis. Per eumdem Christum Dominum nostrum. Amen (ex Missali Rom.).

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo oratio quotidie per integrum mensem pie iterata fuerit

(S. Paen. Ap., 12 dee. 1936).

Queste sono le feste della Chiesa cattolica del mese di APRILE (2023)

2 Aprile Dominica in Palmis    Semiduplex I. classis

               S. Francisci de Paula Confessoris    Duplex

3 Aprile Feria Secunda Majoris Hebdomadæ    Feria privilegiata

4 Aprile Feria Tertia Majoris Hebdomadæ   

                   S. Isidori Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

5 Aprile Feria Quarta Majoris Hebdomadæ    Feria privilegiata

                    S. Vincentii Ferrerii Confessoris    Duplex

6 Aprile Feria Quinta in Cena Domini   

7 Aprile Feria Sexta in Parasceve    Feria privilegiata

8 Aprile Sabbato Sancto    Feria privilegiata

9 Aprile Dominica Resurrectionis    Duplex I. classis

10 Aprile Die II infra octavam Paschæ    Duplex I. classis

11 Aprile Die III infra octavam Paschæ    Duplex I. classis

12 Aprile Die IV infra octavam Paschæ    Semiduplex

13 Aprile Die V infra octavam Paschæ    Semiduplex

                     S. Hermenegildi Martyris    Semiduplex

14 Aprile Die VI infra octavam Paschæ    Semiduplex

                      S. Justini Martyris    Semiduplex

15 Aprile Sabbato in Albis    Semiduplex

16 Aprile Dominica in Albis in Octava Paschæ    Duplex I. classis

17 Aprile S. Aniceti Papæ et Martyris    Simplex

21 Aprile S. Anselmi Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

22 Aprile SS. Soteris et Caji Summorum Pontificum et Martyrum    Semiduplex

23 Aprile S. Georgii Martyris    Semiduplex

24 Aprile S. Fidelis de Sigmaringa Martyris    Duplex

25 Aprile S. Marci Evangelistæ    Duplex II. classis

26 Aprile SS. Cleti et Marcellini Paparum et Martyrum    Semiduplex

27 Aprile S. Petri Canisii Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex m.t.v.

28 Aprile S. Pauli a Cruce Confessoris    Duplex m.t.v.

29 Aprile S. Petri Martyris    Duplex

30 Aprile Dominica III Post Pascha    Semiduplex Dominica minor *I*

                 S. Catharinæ Senensis Virginis    Duplex

FESTA DEI SETTE DOLORI DI MARIA SANTISSIMA (2023)

FESTA DEI SETTE DOLORI DI MARIA SANTISSIMA (2023)

I SETTE DOLORI DI MARIA SANTISSIMA

(Dom Guéranger: L’Anno Liturgico, vol. I, ed. Paoline, Alba, 1956)

La compassione della Madonna.

La pietà degli ultimi tempi ha consacrato in una maniera speciale questo giorno alla memoria dei dolori che Maria provò ai piedi della Croce del suo divin Figliolo. La seguente settimana è interamente dedicata alla celebrazione dei Misteri della Passione del Salvatore, e sebbene il ricordo di Maria che soffre insieme a Gesù sia sovente presente al cuore del fedele, il quale segue piamente tutti gli atti di questo dramma, tuttavia i dolori del Redentore e lo spettacolo della giustizia divina che s’unisce a quello della misericordia per operare la nostra salvezza, assillano troppo la mente, perché sia possibile onorare come merita il mistero della compassione di Maria ai patimenti di Gesù. Conveniva perciò che fosse scelto un giorno, nell’anno, per adempiere a questo dovere; e quale giorno meglio si addiceva del Venerdì della presente settimana, ch’è di per se stesso interamente dedicato al culto della Passione del Figlio di Dio?

Storia di questa festa.

Fin dal xv secolo, nel 1423, un arcivescovo di Colonia, Thierry de Meurs, inaugurava tale festa nella sua chiesa con un decreto sinodale (Labbe, Conciles, t. XII p. 365. – Il decreto esponeva la ragione dell’istituzione di tale festa: « Onorare l’angoscia che provò Maria quando il Redentore s’immolò per noi e raccomandò questa Madre benedetta a Giovanni, ma soprattutto affinché sia repressa la perfidia degli empi eretici Ussiti ».). Successivamente si propagò, sotto diversi nomi, nelle regioni cattoliche, con tolleranza della Sede Apostolica; fino a che il Papa Benedetto XIII, con decreto del 22 agosto 1727, non l’inserì solennemente nel calendario della Chiesa universale, sotto il nome di Festa dei sette Dolori della Beata Vergine Maria. In tal giorno, dunque, la Chiesa vuole onorare Maria addolorata ai piedi della Croce. Fino all’epoca in cui il Papa non estese all’intera cristianità la Festa, col titolo suindicato, essa veniva designata con differenti nomi: La Madonna della Pietà, La Madonna Addolorata, La Madonna dello Spasimo; in una parola, questa festa era già sentita dalla pietà del popolo, prima che fosse consacrata dalla Chiesa.

Maria Corredentrice.

Per ben comprendere l’oggetto, e meglio compiere in questo giorno, verso la Madre di Dio e degli uomini i doveri che le sono dovuti, dobbiamo ricordare che Dio, nei disegni della sua sovrana Sapienza, ha voluto in tutto e per tutto associare Maria alla restaurazione del genere umano. Tale mistero ci mostra un’applicazione della legge che rivela tutta la grandezza del piano divino; ed ancora una volta ci fa vedere il Signore sconfiggere la superbia di satana col debole braccio di una donna. Nell’opera della salvezza, noi costatiamo tre interventi di Maria, tre circostanze, nelle quali è chiamata ad unire la sua azione a quella stessa di Dio. La prima, ne\l’Incarnazione del Verbo, il quale non assume carne in Lei se non dopo averne ottenuto il consenso con quel solenne FIAT che salvò il mondo; la seconda, nel Sacrificio di Gesù Cristo sul Calvario, ove ella assiste per partecipare all’offerta espiatrice; la terza, nel giorno della Pentecoste, quando riceve lo Spirito Santo come lo ricevettero gli Apostoli, per potere adoperarsi efficacemente alla fondazione della Chiesa. Nella festa dell’Annunciazione esponemmo la parte ch’ebbe la Vergine di Nazaret al più grande atto che piacque a Dio intraprendere per la sua gloria, e per il riscatto e la santificazione del genere umano. In seguito avremo occasione di mostrare la Chiesa nascente che si sviluppa e s’ingigantisce sotto l’influsso della Madre di Dio. Oggi dobbiamo descrivere la parte che toccò a Maria nel mistero della Passione di Gesù, spiegare i dolori che sopportò presso la Croce, ed i nuovi titoli che ivi acquistò alla nostra filiale riconoscenza.

La predizione di Simeone.

Il quarantesimo giorno dopo la nascita di Gesù, la Beata Vergine venne a presentare il Figlio al Tempio. Questo fanciullo era atteso da un vegliardo, che lo proclamò « luce delle nazioni e gloria d’Israele ». Ma, volgendosi poi alla madre, le disse: «(Questo fanciullo è posto a rovina e risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione; anche a te una spada trapasserà l’anima » (Lc.. II, 34-35). L’annuncio dei dolori alla madre di Gesù ci fa comprendere che le gioie natalizie erano cessate, ed era venuto il tempo delle amarezze per il figlio e per la madre. Infatti, dalla fuga in Egitto fino a questi giorni in cui la malvagità dei Giudei va macchinando il più grave dei delitti, quale fu lo stato del figlio, umiliato, misconosciuto, perseguitato e saziato d’ingratitudini? Quale fu, per ripercussione, il continuo affanno e la costante angoscia del cuore della più tenera delle madri? Noi oggi, prevenendo il corso degli eventi, facciamo un passo avanti ed arriviamo subito al mattino del Venerdì Santo.

Maria, il Venerdì Santo.

Maria sa che questa stessa notte suo figlio è stato tradito da un suo discepolo, da uno che Gesù aveva scelto a suo confidente, ed al quale ella stessa, più d’una volta, aveva dato segni della sua materna bontà. Dopo una crudele agonia, s’è visto legare come un malfattore, e la soldatesca l’ha condotto da Caifa, suo principale nemico. Di là l’hanno portato al governatore romano, la cui complicità era necessaria ai prìncipi dei sacerdoti e ai dottori della legge, perché potessero versare, secondo il loro desiderio, il sangue innocente. Maria si trova allora a Gerusalemme, attorniata dalla Maddalena e da altre seguaci del Figlio; ma esse non possono impedire che le grida di quel popolo giungano fino a lei. Del resto, chi potrebbe far scomparire i presentimenti nel cuore d’una tal madre? In città non tarda a spargersi la voce che Gesù Nazareno è stato consegnato al governatore per essere crocifisso. Si terrà forse in disparte Maria, in questo momento in cui tutto un popolo s’è mosso per accompagnare coi suoi insulti fino al Calvario, questo Figlio di Dio che ha portato nel suo seno ed ha nutrito del suo latte? Ben lungi da tale viltà, si leva e si mette in cammino, fino a portarsi al passaggio di Gesù. L’aria risuonava di schiamazzi e di bestemmie. La moltitudine che precedeva e seguiva la vittima era composta da gente feroce od insensibile; solo un gruppetto di donne faceva sentire i suoi dolorosi lamenti, e per questa compassione meritò d’attirare su di sé gli sguardi di Gesù. Poteva Maria, dinanzi alla sorte del suo Figlio dimostrarsi meno sensibile di queste donne, che avevano con lui solo legami di ammirazione o di riconoscenza? Insistiamo su questo punto, per dimostrare quanto abbiamo in orrore il razionalismo ipocrita che, calpestando tutti i sentimenti del cuore e le tradizioni della pietà cattolica ha tentato, sia in Oriente che in Occidente, di mettere in dubbio la verità della Stazione della Via dolorosa, che segna il punto d’incontro del figlio e della madre. Questa setta che non osa negare la presenza di Maria ai piedi della Croce, perché il Vangelo è troppo esplicito al riguardo, piuttosto di rendere omaggio all’amore materno più devoto che mai sia esistito, preferisce dare ad intendere che, mentre le figlie di Gerusalemme si mostrarono intrepide al passaggio di Gesù, Maria si recò al Calvario per altra via.

Lo sguardo di Gesù e di Maria.

Il nostro cuore di figli tratterà con più giustizia la donna forte per eccellenza. Chi potrebbe dire il dolore e l’amore che espressero i suoi sguardi, quando s’imbatterono in quelli del figlio carico della Croce? E dire con quale tenerezza e con quale rassegnazione rispose Gesù al saluto della madre? E con quale affetto Maddalena e le altre sante donne sostennero fra le loro braccia colei che doveva ancora salire il Calvario, per ricevere l’ultimo respiro del suo dilettissimo figlio? Il cammino è ancora lungo sulla Via dolorosa, dalla quarta alla decima Stazione, e se fu irrigato dal sangue del Redentore, fu anche bagnato dalle lacrime della madre sua.

La Crocifissione.

Gesù e Maria sono giunti sulla sommità della collina che servirà da altare al più augusto dei sacrifici; ma il divino decreto ancora non permette alla Madre d’accostarsi al Figlio; solo quando sarà pronta la vittima, s’avanzerà Colei che deve offrirla. Mentre aspetta questo solenne momento, quali scosse per la Vergine ad ogni colpo di martello che inchioda sul patibolo le delicate membra del suo Gesù! E quando finalmente le sarà permesso d’avvicinarsi a Lui col prediletto Giovanni, la Maddalena e le compagne, quali indicibili tormenti proverà il cuore di questa Madre nell’alzare gli occhi e nello scorgere, attraverso il pianto, il corpo lacerato del figlio, stirato violentemente sul patibolo, col viso coperto di sangue e imbrattato di sputi, e col capo coronato da un diadema di spine! – Ecco dunque il Re d’Israele, del quale l’Angelo le aveva preannunziato le grandezze; ecco il Figlio della sua verginità, Colui che Ella ha amato come suo Dio e insieme come frutto benedetto del suo seno. Per gli uomini, più che per sè, Ella lo concepì, lo generò, lo nutrì; e gli uomini l’hanno ridotta in questo stato! Oh, se, con uno di quei prodigi che sono in potere del Padre celeste, potesse essere reso all’amore di sua madre, e se la giustizia alla quale s’è degnato di pagare tutti i nostri debiti volesse accontentarsi di ciò che egli ha sofferto! Ma no, deve morire, ed esalare lo spirito in mezzo alla più crudele agonia.

Il martirio di Maria.

Dunque, Maria è ai piedi della Croce per ricevere l’addio del Figlio, che sta per separarsi da lei; fra qualche istante, di questo suo amatissimo Figlio non le resterà che un corpo inanimato e coperto di piaghe. Ma cediamo qui la parola a S. Bernardo, del cui linguaggio si serve oggi la Chiesa nell’Ufficio del Mattutino: « Oh, Madre, egli esclama, considerando la violenza del dolore che ha trapassata l’anima tua, noi ti proclamiamo più che martire, perché la compassione che hai provato per tuo Figlio, sorpassa tutti i patimenti che il corpo può sopportare. Non è forse stata più penetrante d’una spada per la tua anima quella parola: Donna ecco il figlio tuo? Scambio crudele! In luogo di Gesù, ricevi Giovanni; in luogo del Signore, il servo; in luogo del Maestro, il discepolo; in luogo del figlio di Dio, il figlio di Zebedeo: un uomo, insomma, in luogo d’un Dio! Come poté la tua anima sì tenera non essere ferita, quando i cuori nostri, i nostri cuori di ferro e di bronzo, si sentono lacerati al solo ricordo di quello che dovette allora soffrire il tuo? Perciò non vi meravigliate, fratelli miei, di sentir dire che Maria fu martire nella sua anima. Di nulla dobbiamo stupirci, se non di colui che avrà dimenticato ciò che S. Paolo annovera tra i più gravi delitti dei Gentili, l’essere stati disamorati. Ma un tale difetto è lungi dal cuore di Maria; che sia lungi anche dal cuore di coloro che l’onorano! » (Discorso delle dodici stelle). Nella mischia dei clamori e degl’insulti che salgono fino al Figlio elevato sulla Croce, nell’aria. Maria ascolta quella parola che scende dall’alto fino a lei e l’ammonisce che d’ora in poi non avrà altro figlio sulla terra che quello di adozione. Le gioie materne di Betleem e di Nazaret, gioie così pure e sì spesso turbate dalla trepidazione, sono compresse nel suo cuore e si cambiano in amarezza. Era la Madre d’un Dio, e suo figlio le è stato tolto dagli uomini! Alza per un’ultima volta i suoi sguardi al caro Figlio, e lo vede in preda ad un’ardentissima sete, e non può ristorarlo; contempla i suoi occhi che si spengono, il capo che si reclina sul petto: tutto è consumato!

La ferita della lancia.

Maria non s’allontana dall’albero del dolore, all’ombra del quale è stata trattenuta fino adesso dal suo amore materno; ma quali crudeli emozioni l’attendono ancora! Sotto i suoi occhi, s’avvicina un soldato a trapassare con una lanciata il costato del Figlio suo appena spirato. « Ah, dice ancora S. Bernardo, il tuo cuore, o madre, è trapassato dal ferro di quella lancia ben più che il cuore del Figlio tuo, che ha già reso l’ultimo suo anelito. Non c’è più la sua anima; ma c’è la tua, che non può distaccarsene » (Ivi). L’invitta Madre rimane immobile a custodire i sacri resti del Figlio; coi suoi occhi lo vede distaccare dalla Croce; e quando alla fine gli amici di Gesù, con tutte le attenzioni dovute al Figlio ed alla Madre, glielo rendono così come la morte l’ha ridotto, Ella lo riceve sulle sue ginocchia, che una volta furono il trono sul quale ricevette gli omaggi dei prìncipi dell’Oriente. Chi potrà contare i sospiri ed i singhiozzi di questa Madre, che stringe al cuore la spoglia esamine del più caro dei figli? Chi conterà le ferite, di cui è coperto il corpo della vittima universale?

La sepoltura di Gesù.

Ma l’ora passa; il sole declina sempre più verso il tramonto: bisogna affrettarsi a rinchiudere nel sepolcro il corpo di colui ch’è l’autore della vita. La Madre di Gesù raccoglie in un ultimo bacio tutta la forza del suo amore, ed oppressa da un dolore immenso come il mare, affida l’adorabile corpo a chi, dopo averlo imbalsamato, lo distenderà sulla pietra della tomba. Chiuso il sepolcro, accompagnata da Giovanni suo figlio adottivo, dalla Maddalena, dai due discepoli che hanno assistito ai funerali e dalle altre pie donne, Maria rientra nella città maledetta.

La novella Eva.

Vedremo noi, in tutti questi fatti, solo lo spettacolo delle sofferenze sopportate dalla Madre di Gesù, vicino alla Croce del Figlio? Non aveva forse Dio una intenzione, nel farla assistere di persona alla morte del Figlio? E perché non la tolse da questo mondo, come Giuseppe, prima del giorno della morte di Gesù, senza causare al suo cuore materno un’afflizione superiore a quella di tutte la madri prese insieme, che si sarebbero succedute da Eva in poi, lungo il corso dei secoli? Dio non l’ha fatto, perché la novella Eva aveva una parte da compiere ai piedi dell’albero della Croce. Come il Padre celeste attese il suo consenso prima d’inviare sulla terra il Verbo eterno, così pure richiese l’obbedienza ed il sacrificio di Maria per l’immolazione del Redentore. Non era il bene più caro di questa incomparabile Madre, quel Figlio che aveva concepito solo dopo aver accondisceso alla divina proposta? Ma il cielo non poteva riprenderselo, senza che Lei stessa lo donasse. Quale terribile conflitto scoppiò allora in quel cuore sì amante! L’ingiustizia e la crudeltà degli uomini stanno per rapirle il Figlio: come può Lei, la Madre, ratificare, col suo assenso la morte di chi ama d’un duplice amore, come suo Figlio e come suo Dio? D’altra parte, se Gesù non viene immolato, il genere umano continua a rimanere preda di satana, il peccato non è riparato, ed invano Lei è divenuta la Madre d’un Dio. Per lei sola sarebbero gli onori e le gioie; e noi saremmo abbandonati alla nostra triste sorte. Che farà, allora, la Vergine di Nazaret, dal cuore così grande, la creatura sempre immacolata, i cui affetti non furono mai intaccati dall’egoismo che s’infiltra così facilmente nelle anime nelle quali è regnato il peccato originale? Maria, per la sua dedizione unendosi per gli uomini al desiderio di suo figlio, che non brama che la loro salvezza, trionfa di se stessa: una seconda volta pronuncia il suo FIAT, ed acconsente all’immolazione del Figlio. Non è più la giustizia di Dio che glielo rapisce, ma è lei che lo cede: e, quasi a ricompensa, viene innalzata a un piano di grandezza che mai la sua umiltà avrebbe potuto concepire. Un’ineffabile unione si crea fra l’offerta del Verbo incarnato e quella di Maria; scorrono insieme il sangue divino e le lacrime della Madre, e. si mescolano per la redenzione del genere umano.

La fortezza di Maria.

Comprendete ora la condotta di questa Madre ed il coraggio che la sostiene. Ben differente da quell’altra madre di cui parla la Scrittura, la sventurata Agar, la quale dopo aver cercato invano di spegnere la sete d’Ismaele, ansimante sotto la canicola solare del deserto, fugge per non vedere morire il figlio. Maria inteso che il suo è condannato a morte, si alza, corre sulle sue tracce fin che non lo ritrova e l’accompagna al luogo ove dovrà spirare. Ed in quale atteggiamento rimane ai piedi della Croce di questo figlio? La vediamo forse venir meno e svenire? L’inaudito dolore che l’opprime l’ha forse fatta cascare al suolo, o fra le braccia di quelli che l’attorniano? No; il santo Vangelo risponde con una sola parola a tutte queste domande: « Maria stava (in piedi) accanto alla Croce ». Come il Sacrificatore sta eretto dinanzi all’altare, così Maria, per offrire un sacrificio come il suo conserva il medesimo atteggiamento. S. Ambrogio, che col suo tenero spirito e la profonda intelligenza dei misteri, ci ha tramandato preziosissimi trattati del carattere di Maria, esprime tutto in queste poche parole: « Ella rimase ritta in faccia alla Croce, contemplando coi suoi occhi il figlio, ed aspettando, non la morte del caro figlio, ma la salvezza del mondo » (Comment. su S. Luca. c. XXIII).

Maria, madre nostra.

Così la Madre dei dolori lungi dal maledirci, in un simile momento, ci amava e sacrificava a nostra salvezza perfino i ricordi di quelle ore di felicità che aveva gustate nel figliol suo. Facendo tacere lo strazio del suo cuore materno, ella lo rendeva al Padre come un sacro deposito che le aveva affidato. La spada penetrava sempre più nell’intimo dell’anima sua; ma noi eravamo salvi: da semplice creatura, essa cooperò insieme col figlio alla nostra salute. Dopo di ciò, ci meraviglieremo se Gesù scelse proprio questo momento per eleggerla Madre degli uomini, nella persona di Giovanni che rappresentava tutti noi? Mai, come allora, il Cuore di Maria era aperto in nostro favore. Sia dunque, ormai, l’Eva novella, la vera « Madre dei viventi ». La spada, trapassando il suo Cuore immacolato, ce ne ha spalancata la porta. Nel tempo e nell’eternità, Maria estenderà anche a noi l’amore che porta a suo figlio, perché da questo momento ha inteso da lui che anche noi le apparteniamo. A riscattarci è stato il Signore: a cooperare generosamente al nostro riscatto è stata la Madonna.

Preghiera. Con tale confidenza, o Madre afflitta, oggi noi veniamo con lasanta Chiesa, a renderti il nostro filiale ossequio. Tu partoristi senzadolore Gesù, frutto dal tuo ventre; ma noi, tuoi figli adottivi, siamo penetrati nel tuo Cuore per mezzo della lancia. Con tutto ciòamaci, o Maria, Corredentrice degli uomini! E come potremmo noinon cantare all’amore del tuo Cuore sì generoso, quando sappiamoche per la nostra salvezza ti sei unita al sacrificio del tuo Gesù?Quali prove non ci hai costantemente date della tua materna tenerezza,tu che sei la Regina di misericordia, il rifugio dei peccatori, l’avvocatainstancabile di tutti noi miseri? Deh! o Madre, veglia su noi; fa’ che sentiamo e gustiamo la dolorosa Passione di tuo figlio. Non si svolse, essa, sotto i tuoi occhi? non vi prendesti parte? Facci dunque penetrare tutti i misteri, affinché le nostre anime, riscattate dal sangue di Gesù, e lavate dalle tue lacrime, si convertano finalmente al Signore e perseverino d’ora innanzi nel suo santo servizio.

QUARESIMALE (XXXIII)

QUIARESIMALE (XXXIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711).

PREDICA TRENTESIMATERZA
Nella feria sesta della Domenica di Passione.

Il peccatore disonesto è per verità gran peccatore; grande per la qualità del fallo; grande per il numero de’ peccati; grande per la malizia con cui li commette.

Fornicatio autem, et omnis immunditia, nec nominetur in vobis sicut
decet Sanctos.
L’Apostolo San Paolo, Epist. Eph. 5.

Eccomi su questo pulpito stamane, risoluto di prendermela a faccia scoperta col brutto mostro della disonestà, giacché egli è quello che col piede indegno calpesta il più bel fiore della Cristianità, con l’alito pestilente l’avvelena, e col dente maligno la lacera. È vero, che d’un vizio di tal sorta neppure converrebbe parlarne o nelle contrade egiziane o nelle moschee de’ Turchi. È vero che l’Apostolo ci vieta eziandio il nominarlo, ma come può tacersi, mentre l’ammorbato lago delle sue abominazioni si è talmente dilatato che la povera colomba non ha ormai ove posare innocente il piede, e dappertutto s’incontrano sozzi amori. Entrate nelle case, ecco gli amori; andate nelle piazze, ecco gli amori, portatevi alla campagna … ecco gli amori. Che più? Penetrate i Santuari, le Chiese, e quivi pure troverete indegni amori: che occorre di più? Basti dire che talora le lordure si nascondono sotto gli abiti stessi più sacrosanti. Si, dico dunque, ne parlerò di questo brutto mostro. Ma tu, o sole, intanto nascondi per l’orrore i tuoi raggi. Me la prendo dunque con zelo apostolico contro de’ disonesti, i quali, dopo d’essersi satollati de’ frutti pestiferi di questa pianta infernale, si ricoprono poi con le sue fronde; spacciando che il loro fallo alla fine non è altro che una mera fragilità. Orsù, io voglio strapparvi d’intorno queste fronde d’una scusa del tutto bugiarda, la quale raddoppia più tosto la vostra malizia e farvi veramente toccar con mano, che un uomo disonesto è per verità gran peccatore. Qua, qua, alle strette, alle prese. Che cosa si richiede perché uno possa dirsi gran peccatore? Tre cose: la qualità de’ falli, il numero, la malizia. Vediamo se tutte tre concorrono in un disonesto, e poi negate, se potete, che il disonesto non sia un gran peccatore. Se vogliamo ben conoscere questa verità non bisogna che consideriamo il peccato della disonestà con l’occhio de’ disonesti per una debolezza, per una fragilità, per una quasi necessità di natura alla condizione dell’uomo troppo connaturale; ma bensì come ce lo rappresenta la Fede ed i sacri Dottori. – La Fede ce lo rappresenta per una colpa tale, che basta tenere un’anima sommersa nel fuoco per una eternità per colpa tale, che se Dio fosse capace di dolore, più disgusto gli recherebbe un peccato disonesto che non gli recano di consolazione tutti gli ossequi di quanti regnano in Cielo: colpa tale che mai potrebbe pagarsi adeguatamente da tutte le opere buone di mille mondi; ancorché fossero pieni d’anime sante, ed ognuna di loro fosse più Santa che ora non è la Vergine Santissima. Or io dico, una colpa sì pestifera potrà chiamarsi da gente battezzata il minor male che commetta l’uomo? Ah lingua sacrilega, lingua scomunicata! Taci, taci … E di’ piuttosto che questo peccato è una grandissima iniquità: nefas est, et iniquitas maxima. Né solo è grande in sé stesso il peccato della disonestà, ma è grande anche paragonato con gli altri. L’Angelico San Tommaso insegna che tra quei peccati o che offendono la carità del prossimo o di noi stessi, toltone l’omicidio, il più grave è la disonestà: più grave che non è il furto, che tanto s’odia, privandoci de’ nostri averi; più grande della detrazione della fama, della reputazione che dalle persone onorate si stima più della vita. E la ragione si è, perché i peccati de’ disonesti, sebbene non sono contro la vita d’un uomo già nato, come sono gli omicidi, sono però contro la vita di un uomo che può nascere, o privandolo affatto d’essa vita, o dandogliela con modo disordinato e contrario a quello che intende la natura. Oh che peccato è mai questo della disonestà! E se è tanto male in gente libera, che sarà se vi è parentela d’affinità? Peggio di consanguineità? Peggio, spirituale? Che farà se si manchi di fede al marito, alla consorte, se si manchi di fede a Dio oltraggiando il voto di castità? Che sarà se si irriti il Cielo ad incenerirti con i cittadini delle pentapoli nefande? Sebbene, che dico? I disonesti non sono capaci di prove sì chiare; merceché dalla Scrittura sono paragonati agli ubriachi privi di senno: Fornicatio, ebrietas auferunt cor. È necessario che io per convincerlo mi serva d’argomenti più grossi. Diciamo dunque così: quel peccato che la giustizia Divina ha sempre più severamente perseguitato in terra e più acerbamente punito, convien dire che sia quello che ella più abomina; giacché siccome i benefizi sono manifesti segni d’amore, così i castighi lo sono d’odio. Or se così è, o disonesti, bisogna, che voi affermiate queste due proposizioni: la prima, che niuno eccesso ha Iddio vendicato con pena più universale e più tremenda, di quello che abbia vendicato la disonestà; la seconda, che niuno altro eccesso è solito Egli di vendicare con simil pena. Angeli Santi, che foste ministri della Divina Giustizia; allorché rotte le cataratte del cielo, lasciaste cadere a diluvi le acque sopra la terra. Ecco rotto ogni lido a’ mari, ogni argine a’ fiumi; ecco, che il mondo si sommerge, uomini e donne, grandi e piccioli, nobili e plebei, principi e sudditi, monarchi e vassalli; tutti alla rinfusa restano sommersi sotto dell’acque. E perché, Angeli Santi, un mondo intero affogato sotto dell’acque? Eccone la ragione, rispondono quegli Spiriti Angelici. Dovete sapere, che gli uomini a quel tempo, s’erano ingolfati nelle abominazioni del senso, e però erano divenuti sì odiosi agli occhi divini, che Iddio non potendoli più sopportare ebbe a dire: non permanebit spiritus meus in homine in æternum, quia caro est, che vale a dire, come spiega la Glossa, troppo dato a’ vizi della disonestà; idest nimis implicatus peccatis carnalibus. Onde Iddio affogo’ i colpevoli, perché  infetti nelle disonestà affogò gli innocenti perché  non si infettassero: mostrando in tal forma nella morte degli uni e degli altri, l’odio che porta alle disonestà. Disonesti qua: un’occhiata a questo gran monte di cadaveri: specchiatevi, e nel vederlo dite, se vi dà l’animo, che la disonestà è il minor male che commetta l’uomo. Ditemi: se Iddio per eccessi simili mandasse in rovina tutta la vostra città, ardireste di dire che è poco peccato? E se passasse a mandare in rovina tutta l’Italia, direste che è un male di poco rilievo? No per certo. Ah iniqui! Ed ardirete di dire che l’esser disonesto è poco male, mentre ha tirato seco la rovina del mondo tutto? Da qui avanti, o disonesti, o negate fede alle Divine Scritture, o strappatevi di bocca quella lingua malvagia, prima che torniate a dire che la disonestà è il minor male che si commetta. O che gran male è la disonestà! Basta dire, come osserva San Tommaso di Villanuova, che Iddio non manda certe stragi universali per altro delitto che per questo. È comune opinione degli espositori, che la desolazione intimata già a Ninive, adbuc quadraginta dies, et Ninive subvertetur, non per altro seguisse che per la disonestà. Cari miei UU. se sono infettate da pestilenza le città, date la colpa alle lascivie; se sono scosse da terremoti, sicché non rimanga, quasi dissi, pietra sopra pietra: sia la colpa de’ disonesti. La disonestà porta le carestie, la disonestà arma le milizie, e se mi direte: Padre abbiamo riscontri che questi castighi, e particolarmente i terremoti, siano mandati da Dio, non per le disonestà, ma per il poco rispetto alle Chiese? Io vi rispondo che avete ragione. Ma ditemi, perché si rispettano poco le Chiese? Per parlarci disonestamente, per farci all’amore, come se si stesse ne’ postriboli, contrattandosi l’onor della maritata, la castità della donzella. – Il vizio della disonestà tanto abominevole agli occhi di Dio, è abominato anche da’ Santi in Cielo, dalle bestie in terra, da’ demoni dell’inferno. Era già Maria Maddalena de Pazzi ad abitare tra’ Serafini del Cielo, quando nel suo medesimo cadavere mostrò d’aborrir tanto un giovane impuro venuto a vederla … che così morta gli voltò le spalle. San Francesco di Paola abominò tanto una donna intaccata di questa pece che, essendo ella con le altre venuta in Napoli per baciare un dente del Santo racchiuso in un prezioso cristallo, il dente si ruppe per mezzo. Santa Francesca Romana passando d’avanti la porta d’una donna malvagia, ebbe a venir meno; ed a Santa Caterina di Siena si rendeva intollerabile il fetore di alcuni peccatori disonesti. Ma che gran cosa che sia in odio a’ Santi, mentre è abominato anche dalle bestie? Racconta Tommaso Cantipratense, come una certa femmina data in preda agli amori andava di male in peggio: quando Iddio per ravvederla, mentre ella dormiva gli si fece vedere assiso in trono in forma di giudice, assistito da numerose squadre d’Angeli ed Arcangeli, e da schiere beate di Vergini, Martiri e Confessori, e già stava per udire la sentenza di dannazione. Si raccomandò allora la giovane, ed ottenne la grazia di non esser condannata ma di aver tempo di far penitenza, e sentì dirsi: lascia veglie, lascia balli, lascia amori. Giovò questa visione per qualche tempo; ma perché era tanto invischiata in quei maledetti amori, tornò come prima a vagheggiare, ed a farsi vagheggiare barattando colpe, e con gli occhi, e con fatti. Volete altro? non potendo più Iddio tollerare la di lei disonestà, la buttò ammalata in un letto; indi a poco la mandò la morte, e passò all’altra vita senza Sacramenti. Sollevato il cadavere, secondo il costume, fu posto sopra una tavola in una camera: quando ecco si vedono entrare due cani mastini, che ben mostrarono d’essere avidi di saziarsi di quelle laide carni: s’avventarono, ma ne furono respinti la prima volta, non così nel secondo assalto; poi che addentarono fieramente quel cadavere, che tutto ridussero in pezzi, e con il loro urlo chiamarono quanti erano cani nella città a saziarsene. Né solo i disonesti sono in odio alle bestie, ma agli stessi demoni: sì, sì, a’ diavoli stessi. È certo che vari demoni sono occupati a tentarci, chi d’interesse, chi di vendetta, chi di superbia. A tentare di disonestà, credete voi che siano occupati i compagni di lucifero, che vale a dire, i più nobili? Appunto, i più vili, i più sozzi. Ecco le parole di San Tommaso: dicuntur magistri aliquot dæmones, qui memores antiquæ nobilitatis dedignatur de luxuria tentare. Non occorre altro: siete in odio, o lascivi, anche a’ diavoli; ed appunto uno di questi si lasciò vedere ad una rea femmina, allorché lordava col corpo l’anima e dissegli: ohibò, ohibò! Lasciandola ivi tramortita. – Dite ora, se potete, che il peccatore disonesto non sia un gran peccatore, mentre è in odio fino a’ diavoli. Dite, che la disonestà è il peccato più leggero; che io ve ne do la smentita; soggiungendo che in radice è il maggiore, perché e padre di furti, di risse, di omicidi, d’irriverenze alle Chiese, e di quanti prescrive precetti Dio e ne comanda la Chiesa. Datemi mente: confesserete ancor voi la gravezza della disonestà. E se sono detestabili i disonesti per la gravezza del fallo; niente meno lo sono per il numero delle loro lascivie; certo che con ogni ragione quel demonio che teneva gli uomini di disonestà si chiama nella Scrittura Sacra: Asmodeo che, secondo la forza della lingua santa vuol dire: abbondanza di peccati; perché chi si dà in preda a questo vizio ne commette tanti e tanti, che egli stesso non ne sa rinvenire il numero. O quanto mai cresce la gravezza di questo peccato per la moltitudine che se ne commettono! Sacri confessori se a’ vostri piedi si presenta un ladro, un assassino di strada, un bestemmiatore, è pur vero che sanno ridirvi il numero delle loro colpe: ma se vi viene un disonesto, tanti sono i peccati commessi ne’ pensieri, nelle parole, nell’opere, che non ve ne sa dire il numero, e se voi nuovamente l’interrogate: quanti? Egli vi risponde: non lo so, … ma lo sa il diavolo, se non lo sai tu, che li ha registrati tutti a tua dannazione. Quanto tempo è che divenisti infedele a Dio per osservar la fede di una donna infedele al suo consorte. Sono mesi, sento rispondermi, sono anni, ed i peccati commessi chi può saperli? Quanto tempo è, o femmina, che ti adorni disonestamente per piacere a chi non devi? Quanto tempo è che vivi nelle braccia del diavolo? Sono anni, ed i peccati chi li sa? Quanti, o Dio, a tre peccati mortali il giorno in quindici anni, sono più di sedici mila peccati mortali, e pure vi saranno tanti e tanti, e forse anche in questo luogo, che tra compiacenze malvagie, tra desideri iniquità, tra scandalosi tentativi ed opere consumate, arriveranno … Iddio sa a quanti peccati il giorno, e ciò non per lo spazio solo di quindici anni, ma di venti, ma di trenta e più; e però chi può sommare il conto delle loro colpe? E poi ardite di dire, che non sono nulla i peccati di senso; mentre non cedono, ma superano ogn’altro nel numero.  Aggiungete di più, che ogni peccato disonesto, e ben spesso come quel frutto del Malabar, che ognuno ne racchiude più di trecento; sguardi, cenni, parole,
mezzi malvagi, ond’è che giustamente San Pietro chiamò questo vizio: diletto che non ha fine: oculos habentes plenos adulteri, et incessabilis delicti; perché ben spesso si principia dagli anni più teneri, e non si finisce finché la morte non viene col suo freddo fatale a smorzar quelle fiamme di disonestà; trovandosi ben spesso chi a guisa del mongibello di fuori e bianco per la canizie, di dentro avvampa di lascivia. Prima che la Santa Fede dileguasse nella gran Città del Messico le tenebre della idolatria, ogn’anno si sacrificavano al demonio i cuori di ventimila fanciulli raccolti da tutto il Paese, e miseramente scannati. È bontà del nostro Iddio, che a nostri giorni e ne’ nostri Paesi non si pratichino sacrifici tanto inumani; ma è altresì malizia esecranda di satanasso l’aver tra’ Cristiani addomesticata sì fattamente questa furia infernale della disonestà, che per essa si sacrificano al demonio ogni dì un numero senza numero di Cristiani; e se gli sacrifica non solo il cuore materiale, ma l’anima ed il corpo; ed in ogni luogo, ed in ogni momento s’alza altare e si compisce l’orribile sacrificio. Dissi che gli si sacrifica non solo l’anima, ma tutto il corpo ancora, perché  gli altri peccatori offendono la loro anima; ma i disonesti offendono ancora il corpo: qui fornicatur in corpus suum peccat; di più se gli offre in olocausto perché non si riserba parte alcuna: non gli occhi, che come tante spie vanno sempre in cerca di nuovi oggetti; non le orecchie sempre attente ad udire laide canzoni e ragionamenti disonesti, non la lingua sempre occupata a promuoverli; non le mani, non i piedi tutti ministri d’oscenità. Dissi in ogni tempo ed  in ogni luogo; perché non dirò quale strada, qual piazza, ma qual casa, e qual Chiesa dove l’onestà abbia ai dì nostri un sicuro riparo, e qual tempo, ove ella possa quietamente posare? E non è vero che il sonno stesso non è in costoro innocente abbastanza, mentre aggirandosi per la fantasia quei fantasmi d’impurità che hanno un franco commercio tutta la giornata, espongono anche ad occhi chiusi in vista de’ miserabili disonesti, laide rappresentazioni che, quasi mercanzie di gran pregio, sono da loro comprate con un libero consenso, quando gli svegliano; e pagate allegramente con rinunziar per esse al Paradiso. Una vita dunque così pestifera, il di cui ordito sono perpetui desideri, perpetui incitamenti, ed il ripieno sono perpetui eccessi talora sconosciuti fino alle bestie; una vita, dunque, di tal sorta chiamerete fragilità? Il minor male che si commetta? Eh, che bisogna una volta gettar giù dalla faccia questa maschera che vi sta sì male; non bisogna più dire: che peccato è? Che mal è una fragilità? Bisogna bensì dire che mal è un numero senza numero di migliaia de’ più abominevoli peccati che commetta l’uomo, un numero senza numero di peccati, de’ quali si vergogna lo stesso demonio, un numero senza numero di peccati che allontanano l’anima affatto da Dio, più che comunemente non fanno gli altri; giacché al dire di San Tommaso: Homo per luxuriam maximè recedit a Deo, un numero senza numero di peccati per cui l’uomo è divenuto tutto del diavolo; così asserisce San Cipriano demon totum hominem agit in triumphum libidinis; un numero senza numero di quei peccati per i quali si riempie l’inferno; così attesta San Remigio exceptis parvulis per carnis vitium pauci salvantur. E questo è quel peccato che voi chiamate da nulla, e lo ricoprite col nome di fragilità, che la volete far comparire per una febbre necessaria allo sconcerto della vostra natura e per una necessità di condizione umana. Ah stolti indegni! Ben si vede che non solo siete ciechi, per aver gli occhi chiusi, ma siete ciechi perché ve li cavate, per non vedervi. Piacesse al Cielo che questa nostra cecità bastasse per alleggerire le vostre colpe; appunto non può essere, perché le vostre colpe sì gravi per la qualità, e sì intollerabili per il numero, si rendono gravissime, perché le commettete con una strana malizia. Uditemi. Chi pecca per abito, dice San Tommaso, non pecca per infermità, o fragilità, ma pecca per malizia. Ditemi: evvi ́mai niun peccatore, il quale più pecchi per abito del disonesto? No per certo, il peccatore disonesto, con atti tanto intensi e tante volte replicati, produce in sé un abito fortissimo. Un atto solo vizioso basta talora per formare una dura catena del male costume. O giudicate voi, le basteranno poi tanti e tanti, che vi si aggiungono
alla giornata: questi rinforzeranno ogni dì più quei legami infernali e li renderanno più difficili ogni volta che di a sbrigarsene, aggravabit compedes vestros, ut non egrediamini; ed ecco donde nasce principalmente quella adesione al bene creato, per la quale sebbene il peccator disonesto non è sempre il maggior di tutti secondo la sua specie; diventa il maggior di tutti nel suo individuo; tanto segue ad insegnare l’Angelico: si hoc peccatum secundum speciem non fit majus aliis: est majus in individuo quia fit cum adhæsione maxima. Ad Alessandro Magno furono donati alcuni cani sì bravi, i quali afferrata che avevano una volta la preda, non lasciavano mai più: e per farne la prova; ad un di essi, che aveva addentata una fiera, gli fu tagliata prima una zampa, e poi l’altra, indi le cosce, e poiché tuttavia teneva stretti i denti fu tagliato per il mezzo, e non bastando anche questo, gli fu reciso il collo; credereste, anche col collo reciso, e così morto seguiva a tener stretta la preda. Queste bestie così avide ed indivisibili da quelle fiere alle quali s’attaccano, sono il vero ritratto de’ disonesti, i quali quantunque si vedano della età già cadente fare in pezzi; benché provino la mancanza delle forze; pur seguono a tenersi co’ desideri quel diletto infelice che fugge loro dalle mani, finché tagliati per mezzo dalla morte, lasciano talora un buon legato all’amica; non volendo che neppure la sepoltura abbia tante ceneri da sorpassar l’ardor maledetto del loro amore. E questo operare, voi ardirete chiamare peccar per fragilità; ed il vivere in questa foggia farà commettere il minore de’ mali? Mi meraviglio di voi! Questo è un peccar da demonio vestito d’umane membra: questo è un non volere abbandonar il peccato, finché il peccato non abbandona: fornicati sunt et non cessaverunt. Dite pure, e direte con tutta verità, che il peccatore disonesto è per verità un gran peccatore, ed è pur vero che a tutte queste prove, vi son di quelli che tanto ardiscono dire: che cosa è un peccato di disonestà? Se così è, che posso io far di più: so io quello che farò, verrò a praticare stravaganze; e giacché i disonesti sono ottusi per le loro lascivie, né hanno mente per piegarsi alle ragioni, gli farò vedere con i propri occhi, e toccar con le proprie mani; quanto siano gran peccatori, con esser disonesti. Olà peccatori disonesti, fissate gli occhi in questo Cristo ed in vederlo così maltrattato, ravvisate la grandezza del vostro peccato: udite le parole dell’Eterno Padre, il Quale vi rende la ragione, perché Egli abbia posto su questa Croce il suo Figliuolo: propter scelus populi mei percussi eum, per la scelleraggine del mio popolo; qual è la scelleraggine popolare? Gli amori indegni, le sozze disonestà, le sue grandi lascivie. Eccolo, dunque, per questa scelleraggine popolare, lacero da capo a piedi. Eccolo confitto, e pendente in un legno, ricoperto di sangue, e di piaghe, trapassato da tante spine nel capo: eccolo agonizzante, privo d’ogni conforto. Questo è l’operato da te o disonesto, propter scelus populi mei percussi eum. Tu, dunque, con andare in quella casa, con mantenere quella pratica, col durare in quella occulta corrispondenza hai piagato, hai crocifisso il tuo Signore, il tuo Dio? Ed ardirai di chiamare fragilità un tale eccesso? Taci, e se vuoi apri bocca, aprirla solo per detestare le tue colpe, per domandare misericordia. Sebbene a che riscaldarmi? Merceché ai peccatori disonesti nulla premono i patimenti o la morte di Cristo. Non so pertanto chi mi tenga che io non venga qui a stravaganze. Una onorata fanciulla
vedendosi lungamente perseguitata da un giovine disonesto, tentò tutte le arti per rigettarlo: usò preghiere, adoprò ammonizioni; mischiò minacce; ma tutto invano, perché lo sfacciato giovine avendo un dì osservato esser sola rimasta in casa la donzella; ebbe ardire d’aprir la porta, salir le scale, giungere alla sala e finalmente arrivare alla camera della fanciulla, la quale in vedersi comparir davanti improvviso quel giovine indegno, s’impallidì, intimorì come alla vista d’un orribile serpente; e non sapendo in quello sbigottimento d’animo, in quella contusione di pensieri come difendersi, nel cercar che voleva scampo e nell’alzar che fece gli occhi per domandare aiuto dal Cielo, vide un gran Crocifisso, che ella teneva appeso nella sua stanza, e presolo, corse frettolosa alla porta della camera, e quivi attraversato alla soglia, lo collocò: indi con volto acceso, con guardo fosco, con voce più che femminile ripiena di tanto ardire gridò: vieni pure, vieni e sfogati, o scellerato; ma ecco d’onde ti convien passare: su questo Cristo. Se ti dà l’animo di prima conculcare le sue membra, io sto per dire, avrò pazienza, che poi profani le mie. Restò a tal atto quel giovine ed a quelle voci non so se più stupito per la novità, o se più confuso per la vergogna, cambiò il sembiante in mille colori, e prostrato a’ piedi di quel Cristo, parlò assai più con gli occhi che con la lingua; si disfece in pianto, si dolse dell’ardire; ne domandò il castigo; ne propose l’emendazione; ma se quel giovine miei UU. avesse operato tutto l’opposto, ed avesse posto il piede sulla faccia, sulle piaghe di quel Cristo, voi v’inorridireste al racconto; e se l’aveste potuto aver presente con le vostre, meritatamente l’avreste sbranato. Or sappiate che voi non potete entrare in quella casa; né potete penetrare in quella camera; non potete passare per quella strada, voi m’intendete; senza mettere i piedi sulle piaghe adorate di questo Cristo; se non visibile, almeno certo invisibile. Se così è, disonesti, saziatevi, conculcatelo, strapazzatelo: eccovelo sotto de’ piedi. O Dio! In che modo barbaro bisogna mai predicare! Andate pure, o disonesti, a sfogare i vostri capricci, che Gesù intanto si rimarrà a scontar con le sue pene i vostri delitti: voi andrete a posarvi su morbide piume, egli si rimarrà a spasimare sì duro patibolo: voi andrete ad inghirlandarvi di molli fiori; egli rimarrassi a languire fra spine acute: voi andrete a passar le ore in trastulli libidinosi, e Gesù rimarrà ad enumerarle fra mortali agonie. Voi finalmente a godere, e Cristo a patire. Possibile che ad ogn’altro si abbia da dare l’amore fuorché a Gesù? Qui non amat Dominum Jesum anathema sit; chi non ama Gesù gli sia strappato il cuore dal petto, sia scomunicato. Ma voi singolarmente vorrei l’amaste. Donzelle, voi che andate così perdute dietro a quei vostri innamorati: che pensate, che vogliono? Belle parole, belle promesse: ti piglierò; ti sposerò; ti renderò l’onor tuo, fin tanto che siano giunti a contaminare, a togliervi l’onestà; e dopo poi darvi de’ calci, voltarvi le spalle: non voler più saper nulla di voi. Eh via, siate voi le prime a sprezzarli, non li guardate più; mandateli alla malora. Ecco l’Amante vostro, eccolo, eccolo, donatevi a Lui; consacratevi à Lui! O che bell’Amante è Gesù. Questi errori malnati partano da voi, e tornino ad abitare negli abissi, donde sono usciti. Tra di noi chi ha da regnare? L’amor di Gesù, viva, viva Gesù, viva Gesù! Questo ricolmi i nostri cuori, e vi benedica.

LIMOSINA

Gli antichi Cristiani che ben conoscevano, la limosina esser il vero modo d’ottenere il perdono dei peccati, se non avevano con che far limosina, digiunavano e davano parte del loro cibo a’ poveri. Che dirò io di coloro i quali senza togliersi nulla di bocca hanno tanto che dare, son comodi, son ricchi, e pure non danno un soldo? E gli pare d’aver usato gran atto di carità se dicano al povero: Dio ve ne dia, andate in pace, perché molti li scacciano con le brutte.

SECONDA PARTE.

Voi avete inteso, miseri disonesti, siete gran peccatori, e quel che a me dà pena maggiore, è il vedere che quantunque siate in tante miserie, ad ogni modo non cercate rimedio al vostro male. Ditemi: quando mai si trova un disonesto che cerchi rimedio al suo male, che si raccomandi a Dio, che ricerchi l’aiuto di Maria; che a questo effetto digiuni, faccia limosina; in una parola, ponga qualche mezzo per sfangare dalle disonestà. Eripe me de luto. Sebbene, che dissi? Non pigliano rimedio al loro male? Dissi poco; farebbe meno male: il peggio è che non solo non li cercano, ma quando il confessore a guisa di medico dell’anime loro, gli prescrive il modo che devono tenere di loro vita per guarire; né  meno le ne prevalgono. Fate che un confessore imponga ad uno di questi languidi talora di trentotto anni, che per uscire dal letto delle loro invecchiate miserie, si comunichi per un anno, ogni mese ed ogni giorno per un anno ricorra con alcune poche orazioni alla Santissima Vergine, come rifugio de’ Peccatori. Voi vedrete, che in breve tempo, o se ne scorda; o si attedia; o lascia affatto la medicina preferitagli per guarire. E questi direte voi, che non peccano per somma malizia, mentre subito sposta, ed avvedutamente vogliono? Non occorre altro, il peccare disonesto è il peccare più malizioso di tutti; poiché non solo non cerca i rimedi, non li riceve, quando gli sono offerti; ma egli va sempre studiosamente cercando le occasioni, ed immergendosi in quelle nelle quali sono state maggiori le cadute… e poi direte, che peccano per fragilità! Che l’esser disonesto è il minor de mali? Chi così discorre, può dire d’aver totalmente perduto il senno. Se un nocchiero urta una volta in uno scoglio, e rompe la nave che guida, potrà per avventura darsene la colpa o alla fragilità del legno, o alla forza de’ venti o alla furia del mare: ma se ogni giorno rompesse una nuova barca, e se a bello studio andasse ad investire gli scogli, e se a questo fine spiegasse tutte le vele per andarvi con maggior impeto; chi potrebbe mai scusarlo con la debolezza del legno o con l’imperversare de’ venti? Così è de’ disonesti; vanno ad ogni veglia: si trattengono a guardare: stanno le femmine allo specchio, e poi dicono … fragilità ed arrivano a disprezzare questo peccato come peccato da nulla: rimediate al vostro male or che potete, e pius cum in profundum venerit contemnet ed intanto non si accorgono i meschini, che questo medesimo dipingere loro la disonestà per poco male è un’arte finissima del demonio affinché, non vedendo la rete, v’entrino allegramente, e dopo esservi entrati non ne escano mai più. Che si ha dunque da fare per liberarci da quelle disonestà, che ci costituiscono si gran peccatori? Raccomandarci a Dio, alla Vergine Santissima, ed a Lei a tale effetto ricorrere con qualche particolare devozione, portarsi da qualche buon confessore; scoprirgli tutte le nostre piaghe; pregarlo di rimedio sopra tutto fuggir balli, fuggir veglie, ritirarsi dagli amori, svilupparsi con ogni sforzo da tutti gli effetti peccaminosi, giacché si tratta di troppo, si tratta di perdere in eterno, per un diletto bestiale, quanto ci apparecchio’ Dio di bene in Paradiso, e di addossarci in eterno quanto Dio ci preparò di male nell’inferno. L’uomo disonesto non è, torno a dire, un peccatore ordinario, ma un peccatore grande; sì per la qualità de’ falli, sì per la moltitudine, sì per la malizia con cui il commette. Rimediate al vostro male or che potete, e Dio vi benedica.

QUARESIMALE (XXXII)

QUARESIMALE (XXXII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA TRENTESIMASECONDA
Nella Feria quinta della Domenica di Passione.

Si palesano le finezze di Dio per ridurre il peccatore a penitenza, e le miserie che li sovrastano, abusandosene.

Remittuntur ei peccata multa. San Luca al 7.

Non aveva ancora Marco Antonio Imperatore ben stretto lo Scettro in pugno nel comando di Roma e dell’Impero, quando la consorte Faustina tentò porgli in cuore sentimenti di vendetta contro Avidio Cassio ed altri suoi e rivali e ribelli. Ma rivoltosi il Monarca alla troppo appassionata consigliera, così rispose: Cassio, è vero, ha offeso un  Imperatore Romano che non è suo pari, e per questo stesso voglio perdonargli, per non farmi pari a lui nelle passioni . Ego ejus liberis parcam, et Genero, et Uxori, nihil enim est, quod Imperatorem Romanum melius commendes gentibus quam clementia; Io stimo che un imperatore di Roma non possa rendersi più glorioso presso le genti, che con la clemenza; sarà sempre mio assioma che per rendersi schiavo un mondo, non avrà Roma le migliori catene della clemenza. Questi erano o miei Uditori i sentimenti cortesi del monarca romano; ma o quanto di gran lurga maggiori sono quelli del Monarca Celeste. Egli pure dice: Nihil est, quod Imperatorem Cælestem magis commendet gentibus, quam clementia, e questa è quella, che oggi appunto pratica con la Maddalena, mentre gli concede il perdono di tutti i suoi peccati, che pur furono molti: remittuntur ei peccata multa. Rallegratevi pure anime peccatrici, se pur qui ve ne è alcuna; siete cadute questa volta in buone mani, in un Dio tutto clemenza, tutto bontà, tutto misericordia; e però altro non brama, che poter dire a ciascuno di voi: Remittuntur tibi peccata, ed acciocché tocchiate con mano, che io non mento, voglio questa mane mostrarvi quanto Dio faccia per ridurre a sé le anime, e potergli poi dire: remittuntur tibi peccata. Sia straordinaria l’attenzione, perché straordinaria riesca la confusione in quel peccatore che ostinato non si volesse arrendere alle finezze d’una tanta clemenza. Contentatevi che io sul bel principio vi spieghi l’operare di Dio con la bella differenza che passa tra due mestieri ambedue ordinati al medesimo fine; e sono la pesca e la caccia; ambedue questi mestieri non hanno altra mira che far preda; ma quanto diversamente operano! Il pescatore si studia di lusingare il pesce con cose dolci, con paste medicate con esche amabili, a procura quanto può di non spaventarlo, onde cerca di non esser veduto, sta in silenzio, e tende le sue insidie tra le tenebre della notte, e l’inganna di modo tale che il pesce, quantunque preso, quantunque prigione, talor non se ne avveda. Non così però fa il cacciatore: esce questi in campagna con gran strepito di cavalli e di cani, dà fiato al corno, e quasi voglia portar guerra alle selve, sfida con le grida a scappar dalla tana gli orsi e dalla grotta i cinghiali, e con lance, con spiedi e con archibugi dà fuga alle fiere, le assale, le trafigge, le ferma, le uccide, e spesso del lor sangue ne porta tinte le mani, macchiati i panni. Da questa diversità d’operare, voi con me ne deducete che uno vuol la preda per amore, l’altro per forza. Così è, ed appunto di queste due forme si serve Dio per guadagnare a sé i peccatori. E prima si serve di quella di pescatore, indi di cacciatore. Uditene Geremia, che apertamente ve l’esprime al 16. Ecce ego mittam eis Piscatores et piscabuntur eos, et post hæc mittam eis venatores, et venabuntur eos. Ponete cura, o miei UU., a quelle paroline post hæc, le quali significano che Dio si vuol valere prima della pesca, che è quanto dire delle dolci chiamate, et post hæc … e se queste non giovano, alla caccia, allo strepito, al sangue, alla morte. E che ciò sia vero, mirate quello che fa. Ecco, che si accorge che quel mercante tutto dedito all’interesse, falsifica pesi, scorta misure, bagna le seti, tiene all’umido i grappi; che quel nobile non paga mercedi, non soddisfa legati pii, e se ne vive pieno d’ambizione, e gonfio di vendette; vede che tanti e tanti, vivendo tra le lascivie si sono slontanati da Lui, recesserunt ab Eo, e però par che gli dica: e perché  avete potuto dare a me le spalle, ed al demonio il cuore? No, no, lo voglio io, Præbe mihi cor tuum, dammi il tuo cuore, ed indirizzalo per la strada del Paradiso, et dirige cor tuum per viam rectam. Ben si avvede che quella femmina tanto vana, va tanto lungi da Lui ed Egli le dice: revertere ad me et ego suscipiam te; lo so benissimo, tu vinta o dalla passione sfrenata dell’amore, o dalla ingordigia dell’interesse, sei caduta, m’hai trafitto il cuore, ad ogni modo son pronto a riceverti nello stesso cuore da te ferito. Dovrei senza altro, per avermi tu sì barbaramente offeso, muoverti guerra, eppure Io ti perdono, e ti chiedo pace. Cari miei uditori, quante volte avete sperimentato questi tratti di finissima dolcezza, usati da Dio per togliervi dal peccato? Egli si è diportato con voi a guisa d’una madre amorosa intorno ad un suo figlio ammalato, insieme e svogliato che, per farlo cibare si protesta di perdonargli ogni strapazzo e gli offre donativi. Tutto è vero, mio Dio, tanto voi praticate col peccatore egli simile a quel fiume colà nella Scitia, che ne’ calori più fervidi si fa gelato: egli, dico, alle vostre divine dolcezze sempre più s’indurisce. Mio Dio, giacché il Peccatore indurisce alle vostre finezze che con tanto amore lo chiamano a penitenza, non ve ne curate, e lasciate, che a briglia sciolta corra tanto che giunga fino all’inferno, ed ivi sprofondi per eternamente dimorarvi. No, no, dice Iddio; a me l’anima del peccatore costa sudori, sudori di sangue sparsi colà nell’orto del Getsemani; a me costa strapazzi, obbrobri e percosse tollerate ne’ tribunali d’Anna, Caifa e Pilato. Troppo mi preme la sua salute che tanto mi costò, e perciò voglio tentare tutti i mezzi per indurlo a lasciare la mala pratica, a deporre gli odii, a staccare il cuore da quell’interesse che l’accieca, e perché veda l’oppressione de’ pupilli, la rovina delle vedove che cagiona, e giacché non basta averlo pregato a vivere secondo i miei voleri, voglio ricordargli, per motivo d’obbedirmi, i benefizi che gli ho fatti. Sentite giovane, uomo o donna che siate, voi m’offendeste tutto dì con quei vostri sì scorretti costumi, con quegli spergiuri, con quelle bestemmie, eppure Io son quello che v’ho dato l’essere, avendovi cavato dal nulla; Io son quello, che v’ho organizzato quel corpo che avete, arricchito di tre potenze, memoria, intelletto e volontà; Io son quello che vi mando ricchezze, Io vi mandai quella eredità, Io vi riempii quelle casse d’argento, quegli scrigni di gioie; per me fruttano quei poderi, per me vi rendono quei censi, per me vi vivono gl’armenti, per me vi giungono in porto felicemente quelle mercanzie che vi sono di tanto guadagno. Io fui che vi conclusi quelle nozze tanto desiderate, che vi concessi quella figliolanza che tanto bramavi; per me godete quei titoli, quelle dignità, quegli onori. Chi vi liberò da quel colpo di quel rivale, se non Io? chi vi scansò da quelle insidie che vi tramava l’inimico? Chi v’esimé dalla voracità di quelle onde che stavano già per sommergere il legno? Chi vi sottrasse in somma da quei tanti pericoli se non Io? e perché dunque, se tanto v’ho beneficato, non solo in quanto spetta al corpo, ma molto più intorno all’anima; mentre v’ho comportato, v’ho tollerato ne’ peccati, acciò venisse a penitenza; perché  dunque rispondete con ingratitudine a’ miei benefizi? E non siete voi quello che più volte avete detto farvi Iddio assai più di quello che meritate? Avete pur confessato di propria bocca che, al pari d’ogn’altro siete stato favorito dalla mia beneficenza? Come è dunque possibile che una tal memoria non v’induca ad arrendervi a mutar vita? Non occorre altro; obblighi pure Iddio certa razza di peccatori con replicati benefici, e li troverà simili a quelli de’ quali scrisse il Martire Sant’Ignazio quibus cum benefeceris pejores fiunt; i benefici li fanno peggiori. Fu penna d’oro la vostra, o Clemente Alessandrino, allorché scriveste: nunc homines, tanto magis impii, quanto Deus benignior est, quanto Dio è dolce con certi peccatori, tanto essi sono amari verso di Lui, sicché possono assomigliarsi a quelle perfide vipere che tanto più si fanno crude, quanto più è dolce il canto che talora sentono. Orsù dunque, se così è, non più benefici, mio Signore, lasciate imperversare questi empi, e giacché vogliono perdersi, si perdano. No, no, dice Iddio, non lo comporta né il mio amore, né lo sborso del sangue fatto per riscattarli. Vuoi tu, che lasci perirli, mentre per loro mi sono sottoposto alla spietata flagellazione nel pretorio di Pilato, ove molti manigoldi, dandosi la muta l’un con l’altro mi flagellarono sì spietatamente, che con ritirare il colpo, ritiravano a brano a brano anche la carne, e ne fondavano i solchi fino alle ossa? Non sia mai vero; li aiuterò, perché si ravvedano; farò che quel lascivo, quell’interessato, quel vendicativo, s’imbatta in quel buon religioso, col quale venendo a discorrere dell’altra vita e della eternità, ne ritragga vivi sentimenti di compunzione, e li vada a confessare; farò che venga alla predica, ed ivi gli toccherò il cuore talmente che, se non sarà più che di sasso, certo s’intenerirà; gli manderò una ispirazione sì gagliarda al cuore, ed una cognizione sì viva dello stato miserabile in cui si trova, trovandosi in peccato mortale, che se non ha cieca affatto la mente, mi darà orecchio; gli farò capitar un libro in mano ove, leggendo la vita d’uno de’ miei Santi, s’arrossisca in vedersi tanto dissimile, e così si converta; farò che oda una Messa per le anime del Purgatorio, che visiti una immagine della Vergine mia Madre, e nel medesimo tempo non lascerò di picchiargli al cuore, e di fargli conoscere che sta con un piede nel mondo ed ormai con tutti due nell’inferno. Cercherò con queste batterie di ridurlo a penitenza. Ditemi, ha pur usati Iddio questi stratagemmi con voi, e voi? Eh, mio Dio, ancorché seguitiate, non vi riuscirà, perché un tal peccatore, per potersi rivoltare tra’ pantani del senso, non farà conto né delle parole de’ religiosi, né  della lettura de’ libri spirituali, di nulla, di nulla, volendo vivere a capriccio nelle proprie soddisfazioni, e così si paleserà sempre più ingrato, e perciò torno a dirvi, Signore: lasciatelo andare. No, no, non lo comporta il mio amore, replica Iddio; oltre di ché l’anima sua costa a me le ferite che tante acutissime spine fecero nella mia testa, e fu sì acerbo il dolore che una sola di quelle spine saria bastante, fissa in testa ad un leone, ad ucciderlo, e vuoi che lasci in abbandono un’anima che a me costa sì caro prezzo? Non sarà mai vero! Terrò bensì altra strada, e giacché né le preghiere, né i benefici, né gli stratagemmi del mio amore possono far breccia nel suo cuore, verrò alle minacce. Porgete le orecchie a quanto vi dico, o peccatori, è Dio che parla, e voi siete da Lui minacciati. Udite, ed inorridite; così si legge nel Levitico al 26: Urbes vestras redigam in solitudinem, disperdamque terram vestram, et evaginabo gladium meum post vos, eritque terra vestra deserta, et civitates vestræ dirutæ; Io, Io, dice Iddio, distruggerò da’ fondamenti, o gente peccatrice, le vostre città, e farò de’ vostri edifici polvere e pietre; Io, Io muterò i chiodi della mia Croce in coltelli, acciò vi fiano strumenti di piaghe orribili, come vi furono di salute, e farò che delle vostre città, terre ed averi, altro non rimanga salvo che la memoria, che vale a dire, carestie che vi affamino; terremoti che vi subissino; malattie che vi uccidano; pestilenze che vi desolino. Non sono queste, o miei uditori, minacce che debbano entrar per un orecchio ed uscire per l’altro, è Dio che parla, ed è quel Dio che, se la sa dire, la sa anche fare, e la farà, come l’ha anche eseguita altre volte; e perché vuole che siano e stimate, e credute, e temute; per questo, non in un solo lungo le intima, ma in molti. Dalle sacre Carte, per Isaia, si fa sentire egualmente formidabile, allorché dice: Veæ, veæ, qui trahitis iniquitatem, guai, guai a voi che principiaste a peccare, né mai la finite; e per Osea non meno spaventoso si fa udire, Veæ eis, cum recessero ab eis, guai a quei peccatori, che m’hanno abbandonato, perché li abbandonerò. Le vostre minacce, o mio Dio, non fanno un colpo al mondo nel cuore di quel peccatore, voi parlate al vento, e gridate al deserto, tanto è risoluto di condursi viva quella pratica alla sepoltura, allorché egli vi andrà morto, allora lascerà di mormorare, allora abbandonerà quei tanti vizi, che gli hanno oppresso il cuore, ed uccisa l’anima. Dunque, mio Dio, mutate modo: vi vuol altro che minacce con costoro, che sono appunto di quelli de quali scrisse San Saverio, isti facere que placent, volunt audire, que displicent non sustinent; dunque abbandonateli, toglieteli la vostra santa mano di testa, dateli in totale potere delle loro passioni; No, dice Iddio, no, non lo comporta il mio cuore amoroso, neppur lo comporta quell’obbrobrio a me sì doloroso di vedermi esposto con una canna in mano, coronato di spine, e schernito a guisa di re da scena, e con un tal patimento sofferto per l’anima del peccatore, vuoi, che l’abbandoni? Non sarà mai vero; farò così, gli farò sentire le minacce più da vicino, cioè nel nuovo testamento, poiché se quelle del vecchio, come troppo lontane, non gli facessero colpo glielo facciano queste. Udite le minacce di Cristo nel nuovo Testamento Veæ vobis, dice per San Luca, qui ridetis nunc, guai a voi che, invece di piangere, perché m’offendete, vi ridete d’avermi offeso, verrà tempo, che piangerete. All’Evangelista si soscrive Santa Brigida con una rivelazione avuta dal suo Gesù. Brigida, dice Cristo, se i peccatori, udite le mie minacce, diranno, aspettiamo ancora un poco, non è ancor tempo di mutar vita, io dico che siccome cacciai Adamo dal Paradiso terrestre, e flagellai Faraone con dieci piaghe, castigherò costoro prima di quello che si credono; giuro che, se non faranno penitenza, io mi vendicherò di loro nell’ira mia. Infelicissimi peccatori, che rispondete a queste voci di Dio? Deh riflettete, che i colpi di Dio saranno pesanti, onde a voi rivolto con San Lorenzo Giustiniano, esclamo: disce quæ peccatoribus Deus comminetur, ut Deum timeas, aprite le orecchie a queste divine minacce, per non ne avere a provare spietati gli effetti. Dio immortale, io so pure che, quando il leone ruggisce dall’alto, gl’animali tutti temono e tremano, e voi alle voci tremende di questo Leone di Giuda non vi atterrite? Dio, Dio, come è possibile che queste orribili minacce non vi atterriscano? Una gran principessa disse ad un gran cavaliere, vi meritereste che io vi facessi gettar la testa a’ piedi; ed è pur vero, che questa, quantunque non fosse minaccia di farlo decapitare, ad ogni modo, atterrito morì in tre dì accorato. E voi che fate che non temete, non tremate, non tramortite? Non occorre altro, Signore, costoro non vi credono, potete minacciare quanto volete, tanto vogliono continuare a peccare; la vera sarebbe lasciarli in impietate sua, voltargli le spalle; o questo no, dice Dio, non lo comporta il mio amore; non lo vogliono queste piaghe, che sono prezzo sborsato per la loro salute; userò loro un altro stratagemma, e dalle minacce della lingua passerò a mostrargli i castighi che sono usciti dal braccio mio onnipotente, a danni di chi non mi ha voluto obbedire. Sentite UU., voi strapazzate quel Dio che fece strage d’innumerabili Amorrei, non solo con le spade, ma per seppellirli anche vivi con grandini di pietre; quel Dio che nella città di Gerico piantò fiero coltello nelle viscere degli abitatori e fece che si troncassero alla rinfusa vene nobili e plebee, che senza riguardo s’immergessero le aste micidiali anche nel petto delle donzelle innocenti e de’ teneri pargoletti. Voi offendete quel Dio che fece sanguinoso sterminio di ventitré mila idolatri per vendicare l’ingiuria venutagli dalla adorazione del vitello d’oro, e ben dovevano cadere morti a’ piedi di quella bestia quelli che tante volte vi si erano inchinati vivi. Quel Dio che ricoprì le campagne empiendo i cuori di formidabile orrore con i tronchi e lacerati cadaveri di cento ottanta mila assiri. Quel Dio, che diede la morte, dopo innumerabili stenti, a seicento mila guerrieri che si portavano alla Terra di Promissione. Peccatori miei, vive, sì, vive anche oggi quel braccio tremendissimo di quel Dio, che farà scempio non inferiore nelle vostre vite, se non vi convertite a Lui con penitenza. Grande Iddio, tanto si teme quel giudice, e tanto si rende formidabile a’ malfattori non con altro che con mostrar loro le veglie, i cavalletti, le verghe, le manette, le funi con cui egli può tormentare, ed è possibile che non si abbia da temer quel Dio il quale ha un apparato immenso di mali che ogni dì Ei fa vedere nelle nostre case, nei nostri parenti, ne’ nostri amici, tormentati chi da dolori intensissimi di viscere, chi da crucio di denti, chi da spasmo di calcoli di pietre, di dolori di testa colici etc…. Nelle nostre città con terremoti, con pestilenze; nelle nostre campagne con tempeste che desertificano, con venti che bruciano; con inondazioni che portan via intere campagne; con mortalità negli armenti. Io non la so intendere; chi ha più strumenti da tormentare quel giudice terreno che voi tanto temete, o questo Giudice Celeste di cui vi ridete? Dico di più, che il giudice terreno ha il termine prescritto dalle leggi nel tormentare, tante ore di corda, e non più; tante di veglia, e non più. Quelli che può dare Iddio a voi, eccedono talora i confini degli anni, ed anni, a segno tale, che molti e molti per non vivere in quei tormenti, si sono dati la morte. Eh, temete questo Dio! Come è possibile che non vi moviate a queste verità? Ditemi, o Grande Iddio della eternità, avete voi forse bisogno, per popolare il Paradiso, di questi iniqui, di questi scellerati? No! Dunque, abbandonateli affatto, giacché si vede che l’ostinazione gli ha chiuso il cuore. Così dici tu, mi replica Iddio, ma non così parlo Io; a me, queste anime, benché perverse, sono costate la vita data sopra d’una Croce in mezzo a due ladri, a guisa d’un infame; il mio amore non comporta che Io li abbandoni fino all’ultimo, e però voglio dare l’ultima batteria a questi cuori ostinati, per vedere se vogliano una volta risolversi ad abbandonare il vizio; voglio che dagli stermini del corpo, si passi a mostrargli le rovine dell’anima. Non farete nulla, mio Dio, perché costoro tanto stimeranno l’anima in altri, quanto in sé, e la stimano sì poco che, quasi dissi, vi chiamano mercadante mal pratico, in aver comprata l’anima con tanto prezzo, mentre loro la danno per poco e niente. Non importa, il mio amore mi spinge a fare questa ultima prova. Ecco dunque, o peccatori, ciò che Iddio vi espone per mezzo di più rivelazioni, vi fa intendere lo sterminio di tante anime perdute, perché vissero come voi. Or trenta, or sessanta mila ne vide in un sol colpo dannate nel tribunale di Dio un’anima santa. Ecco vedersi cader colaggiù nell’inferno da un Servo di Dio, le anime in sì gran numero, che si eguagliavano ai fiocchi della neve, quando cade più folta. Vi confermi questa verità la bocca d’un dannato nella città di Parigi. Venne a morte un nobile cancelliere; era questi amatissimo dell’Arcivescovo, il quale su quell’ultimo andò a visitarlo, e lo pregò, che dopo la sua morte volesse apparirgli per dargli qualche ragguaglio di ciò che gli fosse accaduto all’altra vita. Promise il moribondo, e morì. In capo ad un mese, allorché l’Arcivescovo se ne stava studiando, si vide comparir l’amico già morto, si spaventò alla vista. Indi preso cuore, l’interrogò perché fosse venuto … per mantenervi la promessa, replicò il morto, e che gli faceva sapere esser egli dannato sì per la sua superbia, sì per le sue disonestà. Indi gli soggiunse, che all’inferno vi fioccano le anime del mondo, come le nevi fioccano nell’inverno sopra della terra, … sicut nix ruit de cœlo, ita animæ ruunt in infernum; e ciò detto, dato un strillo orribile, sparì. UU. miei, come fiocchi di neve si va all’inferno; quanta ragione, quanto motivo avete voi di temere se non vi ravvedete, e se ci balzate,  miseri voi, quis ex vobis poterit habitare cum ardoribus sempiternis, rispondete ad Isaia, come potrete stare tra quelle fiamme? Rispondimi donna che tanto accarezzi la tua carne, che la vesti con tanta delicatezza, che non puoi soffrire una punta d’ago, il quale t’insanguini leggermente la pelle, come potrai poi resistere a quelle mannaie, dalle quali ti sentirai smembrare, disossare, e tritare con eterna carnificina? Che dici uomo sì diligente in procacciarti tutti i tuoi comodi, poteris habitare cum ardoribus sempiternis, tu non puoi ora patire la puzza d’un poverino il quale ti si avvicini, come potrai reggere a quelle cloache d’inferno, dove resterai appestato per tutta l’eternità? Che dite voi, Sacerdote sì trascurato in adempire i vostri debiti, poteris habitare cum ardoribus sempiternis, voi, che non potete stare per lo spazio d’un’ora in quel Coro della vostra Chiesa modestamente, senza scomporvi, senza guardare, senza parlare? Come potrete stare per tutti i secoli eterni assiso non sopra un seggio di vita noce, ma bensì stirato negli eculei su letto di fuoco? Che dici vendicativo, che dici disonesto, che dici? poteris, poteris… Sebbene, perdonatemi, più che a voi, debbo io parlare a me. Che sarà di me se io non piango davvero i miei peccati, se cerco la stima, se procuro i comodi? come potrò stare a’ piedi di lucifero per un’intera eternità? Ed è pur vero, così non fosse, che qui vi farà qualche peccatore sì ostinato, che non vorrà arrendersi neppure alla denunzia di castighi sì formidabili, che pur sono il precipizio dell’anima. Si, se così è, che qui sia chi voglia seguitare ad esser empio ad onta di questo ultimo stratagemma di Dio per farlo ravvedere, lo sia, e se ama perire, perisca il misero. Esca, dunque, dalla di lui mente ogni raggio di luce celeste, e si adempia il detto d’Isaia, schiantandosi dalle loro viscere il cuor di carne, in sua vece ve se ne ponga uno di sasso. Vada pur di male in peggio, e così venga a cadere sopra di lui il castigo più spietato di Dio che è il non castigarlo in questa vita; ecco, che lo prendo dal Salmo centesimoquarto, e lo fulmino a danno degli ostinati. Inorridite: exacerbavit Dominum peccator, il peccatore ha esacerbato Iddio, adunque Iddio severamente lo castighi, qual sarà il castigo, secundum multitudinem iræ suæ non queret, lo lascerà con i suoi peccati in cuore e con la briglia sul collo; e da questo che ne verrà? Non quæret, e non curandosi più Iddio, il precipizio sarà indubitato. Eh mio Dio, giacché voi siete il gran Leone di Giuda, fate in pezzi questi capretti presciti, per darli in tutti i secoli a masticar nell’inferno; è dovere che una volta giungano colaggiù, ove già sono tanti anni che vi si incamminano, non vi sia più per loro misericordia, non vi ha più speranza d’emendazione; vadano, vadano colaggiù, ed il più fiero carnefice, che li tormenti, non sia né il fuoco, né i diavoli, né tutto il resto che compone quell’abisso di tormenti, ma la bontà vostra abusata … Or chiudasi l’inferno, mentre v’arde il peccatore ostinato.


LIMOSINA.
Vi sono ancora degli ostinati in non voler far limosine: bene. Or sentite Gedeone agli abitatori di Socoth là nel deserto, perché non vollero sovvenire i poveri suoi soldati affamati: fece questa terribile intimazione, cum reversus fuero conteram carnes vestras cum spinis, tribulisque deserti; al mio ritorno farò una vendetta sì esemplare della vostra crudeltà, che trascinerò i vostri corpi tra le macchie di questo incolto paese, affinché non ne rimanga memoria. UU., quanto è più possente Iddio che Gedeone, tanto sarà più terribile la vendetta che Egli eseguirà contro di quelli che sono ostinati in non sovvenire i poverelli, cum reversus fuero conteram. Farà Iddio un fascio di ricchi e delle ricchezze e di quanti, potendo, non sovvennero i poveri, e darà fuoco a tutto, senza che vi sia mai acqua che possa spegnere un sì grande incendio.

SECONDA PARTE

Io mi stupisco, come mai quelli i quali sanno che Dio ha la spada sfoderata contro di loro e li ferisce, e tanto pecchino, che Dio ha il flagello alla mano in tante disgrazie, che gli manda, e ad ogni modo l’oltraggiano. E prima di me, con occhio attonito si stupì Isaia, allorché disse: Ecce tu iratus peccavimus, tu sei adirato con noi, e tanto noi pecchiamo. Riflettete, ascoltanti, che il Profeta non dice peccavimus et tu iratus es, perché questo lo capirei; ma dice iratus es, peccavimus. O questa sì, che è cosa degna di sommo stupore, sapere che Iddio è adirato con noi, e tanto offenderlo. E non è vero, che taluno di voi è stato più perverso, dopo d’esser stato castigato ed avere conosciuta l’ira di Dio nelle tempeste che v’hanno desertato le campagne, e tanto avete peccato. Avete conosciuta l’ira di Dio nella mortalità dei vostri armenti, e tanto avete seguitato ad una accumular roba con danno del vostro prossimo. Iratus es, peccavimus; o questo sì che non intendo: avete conosciuta l’ira di Dio, allorché vi fu alla vita quel rivale per uccidervi, e tanto avete seguitato ad andare in quella casa. Non più, non più, verrà al castigo, accadrà a voi come all’infelice Nabucco. Sentitene il caso funesto. Si porta Daniele al cospetto di questo superbissimo principe, e con autorità di Profeta gli intima da parte di Dio che egli tra poco sarebbe scacciato dal trono e cambiato in fiera, sarebbe passato alla selva, per ivi vivere; che però l’esortava a ricomprare con limosine i suoi peccati, ad abbassar la sua alterigia, ad alimentar famelici, a vestire ignudi. Voi vi crederete, che l’empio regnante alle parole del Profeta balzasse giù dal trono, e buttatoglisi a’ piedi offrisse tutti i suoi tesori per ricattarsi dall’imminente castigo. Appunto, appunto; nulla perciò intimorito nonché compunto, seguitò a vivere più empiamente che mai. Un anno intero gli concesse Iddio di tempo per ravvedersi; quando ecco, che dalle minacce passò al castigo. Ecco che un dì, mentre se ne passeggiava orgoglioso per la sua sala, ammirando la sua reggia, esaltando la sua potenza… vox de Cœlo ruit, calò una voce precipitosa dal Cielo, la quale gridò: alle selve, alle selve; tibi dicitur Nabuchodonosor Rex, cum bestiis erit habitatio tua. Appena udite queste voci, si sentì subito l’empio Re cambiare e sembianza, e voglia e costumi; si squarciò le vesti sul petto, e mandando per voce un alto muggito, tutto apparve a guisa di bestia, e buttatosi per terra, se ne fuggì alla selva per viver da bestia. Cari miei uditori, quanto tempo è che Dio v’intima castighi, non un anno come a Nabucco, ma tre, ma quattro. Quanto tempo è che vi dice, che mutiate vita, che lasciate la pratica, etc.. E voi? Verrà al castigo, vi cambierà in bestia, e vi metterà ad abitar tra’ diavoli. – Racconta Plutarco, che a tempo suo cadde in Roma un fulmine, e non fece altro male, che sciogliere ad un soldato una scarpa. Li peccatori si figurano che i fulmini della Divina Giustizia siano di questa tempra; sicché, dopo il tuono di tante minacce, non debbono mai cadere, e pur cadendo, poco o nulla di male abbiano a fargli. Si figurano costoro un Dio simile a loro, che non odii il peccato, giacché essi non l’odiano; existimasti inique, quod ero tui similis, e quando pure credano che Egli abborrisca le ingiurie fatteli, se lo figurano come il re delle api, sempre col miele d’una misericordia continuata, e senza pungolo da vendicare i suoi oltraggi. Dio è misericordioso, sì, ma è anche giusto. È benigno tra noi quel principe, che piangendo soscrive la sentenza di morte contro il malfattore, ma non per questo lascia di soscriverla, perché  così vuole il giusto. È misericordioso Iddio e si duole d’avere a condannare quell’anima da lui creata per esser Stella del Cielo, alle fiamme dell’inferno; ma non resta però di condannarla, richiedendo così la sua Divina Giustizia, per la di lui ostinazione nel male. Lasciate, o peccatori, la mala vita, perché Iddio non potendo più soffrire la vostra ostinazione, lascerà di far con voi le amorose parti di Padre e si vestirà di quelle di Giudice, ed allora siete spediti. Che si ha dunque da fare? Ritornare a Dio, e ritornarvi sollecitamente con un’ottima Confessione, abbandonando col peccato l’occasione del peccato, altrimenti io vi dico, che Dio vi volterà le spalle, e vi dannerete. Non vi negherà mai la grazia sufficiente con cui vi potreste salvare, ma non vi salverete, perché non ve ne valerete. Pensate a’ casi vostri.

QUARESIMALE (XXXI)

QUARESIMALE (XXXI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA TRENTESIMAPRIMA

Nella Feria quarta della Domenica di Passione.


Si mostra la nostra predestinazione esser congiunta con le nostre opere.

Oves meæ vocem meam audiunt, et ego cognosco eas, et sequuntur et ego vitam æternam do eis. San Gio: cap. 10.


Segretissimo agli uomini è il lavoro dell’eterna predestinazione, seguendo in ciò la grazia operare ordinario della natura, cui il più prezioso delle sue opere ed il più nascosto. Non lavora ella all’aperto de’ campi il tesoro de’ ricchi metalli, e delle pietre più preziose, ma gelosa intorno a fabbriche sì nobili, le perfeziona nell’occulto delle miniere, nel profondo de’ mari, celandole agl’occhi della curiosità. Or del pari, riveriti UU., ci avvisa Sant’Agostino: segue nell’affare di nostra predestinazione, Prædestinatio vocationis nostræ fit in occulto; occulto è in noi il bel lavoro della predestinazione eterna, occulta, la stabilità de’ divini decreti, occulto lo stato della grazia. Seminiamo, ma chi può assicurarci della raccolta? Combattiamo, ma chi può promettersi della corona? Corriamo, ma senza sapere se giungeremo alla conquista del Pallio. È vero, non v’ha dubbio, quanto io vi dico, ma è altresì vero potersi da noi arrivare alla certezza di questa incertezza. Si non es predestinatus fac ut prædestineris, potete sì, assicurarvi la beatitudine eterna, con l’incertezza della predestinazione. Attenti. Con le vostre opere va congiunta la vostra predestinazione, il vostro salvarvi. Vivete bene, miei UU., e poi aspettatevi pure che Dio si dichiari che voi, come sue pecorelle, bene udite la sua voce, Oves meæ vocem meam audiunt, e che, come a tali, vi conferisca la vita eterna, et ego vitam æternam do eis. Ecco il mio assunto. Se sarete predestinati, le vostre opere saranno buone, perirete quando siano cattive. Tanto vi dice la terra, tanto vi conferma il Cielo, anzi lo stesso inferno. Alessandro il Grande sospirava un chiodo, con cui fermare il giro alla ruota della fortuna incostante, suspiro clavum. A noi per inchiodare l’eterna fortuna in un regno di beatitudine, ci porge un sicuro strumento Sant’Agostino, allorché ci dice: Qui fecit te sine te, non salvabit te sine te.Tu venisti alla luce del mondo senza tuo aiuto. Non ti pensare però di potere arrivare al Paradiso senza la tua cooperazione, perché Iddio, non salvabit te sine te. Bestemmi pure quanto vuole dalle taverne di Ginevra, Calvino, e dalle bettole della Germania, Lutero che ora a costo di fiamme nell’inferno, sono costretti a confessar questa verità, che per acquistare il Paradiso ed essere nel numero de’ predestinati, vi vuol l’opera nostra cagionata dalla Grazia. Vi confermi questa verità quel gran Re e Profeta David, che per esser secondo il cuor di Dio potrà decifrarci quest’arcano, se vi vogliano le nostre opere per salvarci. Or sentite come egli parla. Dopo aver io saputo, dice, il coronato Re, che in Dio v’era podestà di riprovare e castigare, e v’era misericordia per eleggere e predestinare, non andrò investigando se son predestinato mi salverò, se son prescito mi dannerò; appunto, ma soggiunse quel che io considero, mio Dio, quel che io tengo per certo è, che Voi, mio Signore, siete così giusto, che darete a ciascheduno quello che con le sue opere buone o male avrà meritato, e se io vi servirò mi pagherete con premio
eterno, se io vi offenderò mi castigherete come è di giustizia. Quia tu reddes unicuique juxta opera sua. David, dunque, che era secondo il cuor di Dio, così parlava, e voi temerari, che siete giusta il cuor del diavolo, perché siete inviluppati in mille laidezze, nelle quali volete seguire la vostra vita, avrete ardir di dire che vi perdete, vi dannate, perché Dio v’ha riprovato. Né mentite scellerati, che non è iniquitas apud Deum, grida l’Apostolo. Rispondete: è Dio che vi fa camminare la strada della disonestà, che vi fa star tra quei vizi, con quel cuore pieno di sdegno, che arde di vendetta? Vi comanda forse Dio, che andiate ad uccidere l’inimico, che pratichiate quell’usura, succhiate il sangue a quei poverelli, spogliate quelle vedove, quei pupilli? È forse Iddio, che vi fa bestemmiare il suo santo Nome, e v’induce a mettervi sotto de piedi quanti precetti contiene il Decalogo, quanti ne prescrive la Chiesa? No, no; ma voi siete quelli che li trasgredite, e non volete salvarvi, perché volete vivere con la briglia sul collo, libero ad ogni vizio, dite dunque, e confessate, a vostro marcio dispetto, che non vi salvate perché non volete salvarvi. Se il sole bastasse da se medesimo a produrre l’oro nelle montagne, tutte le miniere ne sarebbero colme, ma perché, oltre gl’influssi del sole, si richiedono ancora le disposizioni della terra, per questo l’oro è sì raro, voglio dire, che se per salvarvi bastasse la sola volontà del Signore, tutti ci salveremmo, ma perché Egli richiede che alla sua Grazia si congiungano le nostre opere buone, per mancanza di queste tanti e tanti periscono. Orsù, miei UU., sollevatevi dalle bassezze di quella terra, per indagare anche dal Cielo questa verità. Su, portatevi sino alle stelle, ma prima di penetrare più addentro, sentite le parole di Paolo, giunto al terzo Cielo, giacché egli audivit arcana verba. Ego igitur, cosi dice, sic curro, non quasi in incertum, sic pugno, non quasi aerem verberans, pur soggiunge, castigo corpus meum, in servitutem redigo, ne cum aliis prædicaverim, ipse reprobus efficiar. È vero, dice Paolo, che Dio per sua infinita misericordia, e non per i miei meriti, mi ha eletto alla gloria in intenctione, ma non per questo m’ha dispensato in executione, di guadagnarmela con le mie opere, che però quando io non cooperi alla sua grazia, reprobus, reprobus efficiar. Intendila, o Cristiano, quantunque tu tenessi per certo d’essere predestinato, ad ogni modo non otterrai il Paradiso, se non te lo guadagni con le buone opere. Ditemi, Paolo giunto al terzo Cielo, ove pure poté avere qualche notizia di sé, ad ogni modo opera per ottenere il Cielo, e voi, o peccatori, che sempre state con la mente, col cuore, e con l’opere in terra, avrete ardir di dire: se son predestinato mi salverò, se son prescito, mi dannerò? Egli fu dottore delle genti ed affermò la salute esser congiunta con le nostre opere, e voi ammaestrati solo nella scuola dell’iniquità, avete ardir di dire, se son predestinato mi salverò etc… Via su, passate avanti a penetrare fin all’Empireo. Vedete voi là quel coro d’Angeli apparecchiati, con le ali sempre allestite al volo? Ditegli un poco perché discendono sì frequenti, ora ad illustrarvi la mente perché offuscata non acconsenta al peccato, ora v’inteneriscono il cuore perché produca affetti più devoti verso di Dio, perché vanno frapponendo intoppi ai santi vostri disegni, che se riuscissero, vi sarebbero di danno. Or io dico: perché o Angeli Santi vi prendete tanto incomodo, e lasciando quelle vostre sedie dorate, vi prendere santa sollecitudine di noi, e non sapere voi dove sia il gran catalogo, in cui a caratteri d’oro, stanno registrati i nomi delli eletti, e non vi dà l’animo d’aprirlo, e vedere se in esso siano scritti i nomi di quelli che con tanta efficacia voi custodite, perocché quando mai non vi fossero, farebbero male impiegate le vostre industrie. Eh che quelli Spiriti Beati quantunque vicini al Trono di Dio conoscono benissimo, che per esser ammesso alla loro compagnia vi vuole la nostra cooperazione; eppure sento, che dalla bocca di qualche scellerato esce quella indegna proposizione: se son predestinato mi salverò, etc. etc. Convien dunque dire, che chi così parla sia stato più degl’Angeli vicino al gabinetto più segreto della Divinità. Ah, sciocchi voltate gli occhi alla vostra vita scandalosa e poi fissateli nell’inferno, e sappiate che se in quel catalogo de’ dannati v’è il vostro nome, la vostra dannazione è provenuta dalle vostre opere. Ma io torno a dirvi, miei UU., che costoro così parlano, perché vogliono seguitare in quelle usure, in quei giuochi, in quegli odii, in quelle maledette amicizie, e per questo dicono: se sono predestinato mi salverò, se … etc…. Tacete, tacete, e se volete avere più chiare e certe notizie di questa verità accostatevi, né vi spaventate da quell’abisso di luce, accostatevi per interrogare lo stesso Dio sopra d’un affare canto rilevante. Ma ahimè, che restano abbagliate le nostre pupille e non siamo degni di parlare con l’eterno Monarca, onde Egli scoprendo le nostre brame ci rimette ad uno de’ suoi segretari. Voi ben sapete, UU. che i segretari, sono quelli che sanno i segreti de’ principi; quali sono i segretari di Dio? I Santi Profeti: ecco dunque, che uno di questi, Ezechiele, dice, Convertimini, et agite pænitentiam. Convertitevi a penitenza, operate bene; ma santo Profeta, noi vi riconosciamo per segretario veridico dell’Altissimo, ad ogni modo noi non sappiamo intendere il vostro parlare, quando ci dite … convertimini; sentite, o voi parlate agli eletti, o ai reprobi; se agli eletti, che importa loro convertirsi, mentre o presto o tardi andranno in Cielo; se ai reprobi, che importa loro convertirsi, mentre infallibilmente andranno all’inferno; No, non dico così io, replica Ezechiele, son segretario di Dio e so molto bene che dalle vostre opere dipenderà la vostra salute. Che dite, che rispondete, che risolvete? In somma il nostro salvarci è congiunto con le nostre operazioni, e pure tanto vi è chi sta ostinato e dice con le opere peccando, se non con le parole bestemmiando: se sono predestinato mi salverò, se prescito mi dannerò. Or via, per indagare questa verità mi contento che lasciate in disparte e David, quantunque fosse secondo il cuor di Dio, e Paolo Apostolo, benché giunto al terzo Cielo, ove sentì quæe non licet homini loqui, e gl’Angeli vostri custodi, che pur sono Principi del Soglio eterno, e quei Santi Profeti, che ebbero il segreto del gabinetto più recondito della Divinità. Consolateci, che, se invano tentaste i colloqui con la semplice Divinità, gli potete avere col Verbo, che, se sino dalla Stalla di Betlem si soggettò alle comuni miserie, Egli vi compatirà, e si compiacerà ascoltarvi. Parlate pure animosi, parlate, domandategli, se per salvarvi, ci vogliono le vostre operazioni, e non dubitate, che Egli non sia per darvi giusta la risposta, e dirvi sincera la verità, perché Egli al pari del Padre suo Eterno, sa i profondi Decreti della vostra predestinazione. Or sentite ciò che risponde alle vostre interrogazioni, e se date, dice, una volta questi vostri tumultuanti pensieri, e per portar calma al vostro cuore, vi basti riflettere a ciò che dissi, allorché fui interrogato da quel dottor di Legge di ciò che doveva far per salvarsi. In lege quid scriptum est: hoc fac, et vives, se tu vuoi salvarti, osserva i Divini Comandamenti, lascia il peccato, fa penitenza, vivi a Dio, hoc fac et vives. Giovine, che pensiero è il vostro, volete essere nel numero de predestinati? Lasciate quell’amicizia, quella pratica maledetta, che col precipizio della vostra casa, con danno della vostra roba, vita e reputazione vi fa correre all’inferno. Nobili, volete essere fra gl’eletti: pagate quelle mercedi ritenute, quei legati non soddisfatti; hoc fac, et vives; donne, se volete salvarvi, desistete dagl’amori, dagl’ornamenti immodesti, deponete quelle vanità scandalose che son lacci d’inferno, raffrenate quelli occhi, che non guardano senza ferire il cuore di colpa mortale, hoc fac et vives; non più crapule, non più mormorazioni, non più bestemmie UU. ecco il modo di salvarvi: si lascino le usure, o mercanti, si depongano gl’odi o vendicativi, ed ecco il modo vero d’assicurare la vostra predestinazione e tra tanta incertezza, rendervi certo il possesso del Cielo; hoc fac, et vives, così disse Cristo al dottor di Legge, serva mandata, osserva i Comandamenti, e sarai salvo. Non occorre dunque più fantasticare col vostro cervello, miei UU. e non predestinato mi salverò, se prescito mi perderò, poiché Cristo stesso vi dice che la salvezza è congiunta con le vostre opere e inoltre non sentite replicarvi dal Redentore, qui bona egerunt ibunt in vitam æternam, qui vero mala in ignem æternum, chi farà bene si salverà, chi male si dannerà etc. etc.. E pur vi son di quelli che, senza dar retta a’ detti di Cristo, replicano, se son predestinato mi salverò, se prescito mi perderò, a costoro così grossolani, voglio apportare un caso avvenuto in Atene, per veder di smentire la loro cecità. Un certo indovino, portatosi un giorno nella piazza di quella città, vantava un segreto commercio con le stelle e tutto indovinava a suo pro. Era questi, un dì cinto d’ogn’intorno da popolo curioso, e da tutti riportava con gl’applausi, quantità di denaro, quando, accostatosi uno de’ circonstanti per gabbarlo con una passera chiusa in pugno, gli chiese che indovinasse se ella era viva oppur morta, dicendo dentro di sé: se l’astrologo mi dirà che sia morta, io lascerò che ella voli, e così lo svergognerò, se viva, io con stringerla più, la farò morire, e tale la mostrerò; ma l’arte questa volta restò delusa da un’arte più fina, imperocché l’indovino, accortosi della trama, rispose con gran prontezza: la passera, tale è quale voi la volete, se viva, viva; se morta, morta. E così riportò duplicato il plauso schernendo lo schernitore stesso. Contentatevi ora che io mi valga di questa narrazione a mio proposito. Se sarà predestinata, o prescita l’anima vostra, io non sono per certo tanto stolto, che m’arroghi di poter dare un’accertata sentenza sopra d’una tanta e sì grande interrogazione, ma via per uscirne anche io con la mia, dirò che l’anima vostra è qual la volete. Con l’aiuto della grazia: fra’ vivi, se la volete viva e predestinata; tra’ morti se la volete morta e prescita. Anima vestra in manibus vestris. Intendiamola o Cristiani, vi salverete se opererete bene, vi dannerete se cattive saranno le opere vostre. Tutto bene Padre, ma noi sappiamo per fede che Dio sin ab æterno ha preveduto quello che sarà di noi, e quello appunto seguirà. Io non nego quanto mi dite, ma vi rispondo con San Vincenzo Ferrerio. Rappresentatevi, dice egli, un gran signore, il quale avendo proposto un nobil Palio a tutti coloro che se lo guadagneranno con correre velocemente ad una meta prescritta, salga di poi sulla cima d’un’alta torre per rimirarne i loro sforzi, le loro prove. Certo che da quel posto sublime egli scorge ad un tempo quei che, invece di correre al palio prendono una via del tutto opposta, quelli che, dopo avere cominciato bene, escono di strada senza più ritornarvi, e quelli altresì che ne uscirono, e poi vi ritornarono e finalmente quelli che dall’intrapresa carriera verso il suo termine mai cessarono di correre finché non vi giunsero. Or così Iddio ha proposto a chi osserva i suoi Divini Comandamenti il Paradiso per Palio, ed Egli pure vede con la sublimità della sua sapienza, a cui sono presenti, ad un modo, sì il passato, come il futuro; vede dico, che alcuni senza cominciare a correre per le vie segnate dalla sua legge, prendono una strada del tutto opposta, cominciando a peccare sin dalla fanciullezza, e non terminando fino alla morte; vede altri che cominciano bene e finiscono male; vede chi, uscito di strada vi ritorna per la penitenza; vede chi direttamente cammina sempre verso il suo fine, con una continuata innocenza; ma che siccome la vista di quel Re non è cagione che erri chi erra e che non giunga al palio chi non vi giunge. Così il prevedere Iddio, fin ab æterno, che i reprobi non giungeranno alla Gloria, non è cagione che essi non vi pervengano. Fate che i concorrenti giungano al palio, ed il Re li vede giunti. Fate che gli uomini muoiano in stato d’amicizia e di grazia, e Dio fin ab æterno li avrà veduti giunti alla corona. Concludiamo, dunque, che questo dire che cammina per le bocche scellerate: già è decretato quel che ha da essere di me, altro non ha per conseguenza, che voler vivere pessimamente; del resto ben conoscete ancor voi, che quæ seminaverit homo, hac metet. Tutto bene Padre, ma in tanto se son predestinato mi salverò, se prescito mi dannerò. O che voci d’inferno, e che potrò dir io di più, per levar questa pazzia di capo a più d’uno, e far che si creda questa irrefragabile verità: che l’opere sono quelle che salvano, e così, se colui vuol salvarsi, convien che lasci l’amicizia, lasci l’odio lasci l’interesse, le mormorazioni, le bestemmie, e colei d’esser sì scandalosa e voler la venerazione d’ogni cuore, altrimenti non vi salverete. Ho finito, non so più che dirmi, andate in pace: senza opere buone non vi salverete. Sebbene piano, odimi o peccatore, se tu non hai voluto credere che per essere predestinato vi vogliano le opere buone. Né a David secondo il cuor di Dio; né a San Paolo che giunse al terzo Cielo; né ai santi Profeti segretari della Divinità; né alle parole di Dio medesimo, ho trovato un soggetto a cui tu crederai, perché egli è tuo grande amico, e ben spesso si dà più fede all’asserzione d’un amico che all’autorità d’un grande. Questo è certo tuo grande amico perché fai quanto egli vuole, chi è? Il diavolo. Interroga dunque il demonio, se ci vogliano le opere per salvarti, e sentirai risponderti a forza di fatti, che sì! Sentite di grazia UU. È certo, che il demonio sa meglio di noi l’immutabilità de’ Divini Decreti; perché in Lui naturalia remanserunt, e senza dubbio sa meglio di noi che si salverà il predestinato e si dannerà il prescito, e pure quello che egli meno pensa è questo, ma solo attende a tentare indifferentemente tutti. Discorriamola un poco col demonio: tu sai, dico io, o spirito infernale, che Dio ha già determinato quello che ha d’essere; perché dunque tentare gl’uomini? Se quello è predestinato, certo si salverà benché tu lo tenti; se quello è reprobo si dannerà, senza che tu t’affatichi a tentarlo. Sì, tutto è vero, dice il demonio ma non per questo desisto dal tentare, perché so che l’uomo è libero, ed ha l’arbitrio assoluto, ed ognuno per santo che sia può divenir tristo e dannarsi; sì come ognuno per scellerato che sia, può farli santo e salvarsi; e so di più, che Dio: reddet unicuique juxta opera sua; tento perciò tutti, o buoni o cattivi, o predestinati o presciti che siano, e nulla lascio di fare perché si dannino. Ah peccatore! Il demonio benché sappia più di te, non lascia di tentarti, o prescito o predestinato che tu sia, e non guarda a’ decreti divini, ma alla libertà del tuo arbitrio, alla Giustizia Divina che ha da premiare il buono e castigare il reo, e tu vuoi andare perdendo il cervello con cercare se sei predestinato o prescito, averti che, se non operi bene ti troverai dannato.


LIMOSINA.
Uno de’ segni di predestinazione è l’essere elemosiniere. Cristo nel Giudizio Universale dà nome di benedetti ai predestinati … Venite Benedicti, e di maledetti a’ reprobi, … discedite maledicti, non per altro se non perché quelli furono, e questi non furono elemosinieri, a quelli dirà: esurivi, et dedistis, a questi: esurivi  et non dedistis mihi manducare.

SECONDA PARTE.

O per me, esco fuori di me, ogni qual volta considero che l’uomo nelle sue azioni mondane non si governa con pensar ciò che Dio ha decretato. Ditemi: chi pretende in questo mondo onori, dignità, cariche, ed offizi, chi cerca accumular ricchezze, ed ammassar tesori, non ha la mira a quello che Dio ha decretato ab æterno; non dice: se Dio ha determinato che io sia ricco, lo farò senza affaticarmi; no! Ma s’ingegna ed applica con diligenza a tutti i mezzi possibili per giungere a quello, che pretende. Deh sentitemi signor tale, lasciate pur li scrigni aperti, ove sono i vostri denari, e voi o signora non chiudete lo stipo delle vostre gioie, perché, se Dio, ab æterno, ha stabilito che non vi sia rubato non vi sarà tolto. Che direste a questo mio parlare? Padre, mi rispondereste non mi do pensiero di questi decreti divini che non fanno per me, quel che so di certo è che, se non guardo bene i miei denari, se non custodisco bene le mie gioie, si perderanno, mi saranno rubate. Quanto voi UU. direste con ragione a me in materia di gioie e di denari, tanto io dico a voi in materia d’anima. Se voi non custodirete l’anima, fortificandola di buone opere, non vi salverete; se voi la lascerete in abbandono vi sarà rubata dal diavolo. Dio immortale! Almeno si praticasse ne’ mali dell’anima la metà di quello; fino ed il medico avesse la bella sorte pratica ne’ mali del corpo; s’ammali l’uno tanto più pericoloso dell’altro, quanto l’anima è superiore al corpo. Piacesse a Dio, che a me fosse concessa una simile fortuna, e che col mio rappresentare a chi m’ode la necessità delle buone opere per salvarsi, l’inducesse a lasciare quei tanti vizi che gl’opprimono l’anima e ad abbracciar le virtù, che la conducano al Cielo. Miei UU. sumus adhuc in via, non è ancora terminata la carriera del nostro vivere, voglio dire che possiamo ottenere il premio del Paradiso; siamo ancora in battaglia, possiamo assicurar la vittoria, e già che contro di noi non è ancor pubblicata la sentenza, vi resta luogo alla grazia, satagite, dunque vi dirò con l’Apostolo Pietro: operate bene … ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis; eseguite dunque i consigli di San Pietro: vivete bene e vi salverete.

QUARESIMALE (XXXII)

QUARESIMALE (XXX)

QUARESIMALE (XXX)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA TRENTESIMA

Nella feria terza della Domenica di Passione

La mormorazione vizio detestabile, perché nello stesso tempo contamina chi mormora, di chi si mormora, e chi ode mormorare.


Et murmur multum erat in Turba.
San Gio: al cap. 7.

Sono ormai sei mila settecento e più anni, che a rovina del mondo tutto, ebbero principio i delitti della lingua, e fu allora che il serpente mormoratore d’inferno cacciò Eva dal Paradiso terrestre, e con le sue cadute ne derivano i nostri precipizi, quando susurrans serpens, scrisse un moderno, Evam de Paradiso excussit. Dalla lunghezza del tempo gran forza ha preso il vizio della lingua, che peggiore d’ogni altro si fa conoscere nella bocca del mormoratore perché, come dice San Bernardo, coll’arma pestifera della sua lingua ferisce nello stesso tempo in un sol colpo tre persone … tres lætaliter inficit et uno. Inficit colui, di cui mormora; inficit coloro con cui mormora; inficit finalmente quello, che mormora. Vediamo ad una ad una queste tre rovine per evitarle, e son da capo. – Non ha il diavolo ministro né più fedele, né più accurato nel servirlo del mormoratore, poiché non restringe le sue mormorazioni a sesso, mormorando con egual libertà e d’uomini, e di donne; non le limita ad età, poiché tanto si mette a lacerar la fama d’una piccola donzella, d’un innocente garzoncello, quanto d’una vecchia decrepita, e d’un uomo canuto. Non guarda a condizione, poiché la sua lingua è egualmente pronta ad imbrattarsi nella reputazione d’un grande, d’un Pastor sacro, come d’un vil plebeo. Arriva sino a lacerar la fama delle vergini, o legate con voto o consacrate ne’ chiostri, e de’ Ministri anche più accreditati degli Altari. Non ha, torno a dire, ministro il diavolo né più fedele, né più accurato, poiché anche in ogni luogo alza il suo trono. Andate alla campagna, agli orti, alle vigne, agli oliveti, e qui si fan largo le lingue mormoratrici. Entrate nei castelli, terri, città e qui nelle strade, nelle case, che più? Ne’ Templi, ed … o che ministri diabolici! A ministri sì fedeli, conviene che il diavolo assista con le sue astuzie, poiché non cessano di portargli guadagni d’inferno; ed il Santo David in più luoghi de’ suoi Salmi ne palesa il diabolico loro operare, … os tuum abundavit malitia. Vi sono alcuni, che se non s’empiono la bocca di mormorazioni non son quieti a guisa di quei parassiti che, non contenti di nutrirsi, voglion sempre piena la bocca. Né qui si ferma il santo David, poiché non solo asserisce che abbonda la malizia nella bocca del mormoratore, ma passa a mostrarne gl’inganni, onde dice: Lingua tua concinnabat dolos. Costoro furono appunto come lo scorpione, il quale finge d’accarezzare con le branche per ferire con la coda, mentre lodando talora uccidono il credito e scemano l’onore. Lingua tua concinnabat dolos … che vale a dire che mormorando adorna inganni, ed abbellisce infamie. Principiano questi dalle lodi, e nell’atto stesso di ambire, sanno cavar sangue. Lodano un giovine, ma con esprimerlo o libero nel parlare, o licenzioso nel guardo, sicché quel misero avrebbe avuto per meno male d’esser maledetto che lodato da quelle lingue che lodando vituperano, e celebrando infamano, simili appunto a quelle lodi di certe streghe sacrileghe, le quali assaturano le piccole creature col solo lodarle. Penderà dal petto d’un amante madre un caro figliolino, quando una di queste streghe messasi a lodarlo, gli dirà: o come è vago, o come è vezzoso il vostro figliolino; ed appena ciò detto, la creatura si ammala, principia a languire, ed a consumarsi come una candela di misture aromatiche, che si consuma senza sapersi come bruci. Lingua tua concinnabat dolos. Di tal sorta pure sono quelle lingue che principiano il discorso dalla compassione, e lo finiscono in crudeltà, mostrando dispiacere, ch’una persona, per altro di talenti, commetta poi certi errori; possono questi assomigliarsi ad un certo serpente, di cui dicono i naturalisti, che ha il capo candido, ma non ha denti in bocca, dalla quale però versa una spuma sì velenosa, che attossica quanti tocca; mostrano questa razza di mormoratori d’esser candidi, e sinceri di parlar per puro zelo, e di non aver denti in bocca da mordere; ma in verità sarebbe meglio che gl’avessero, giacché la spuma che gettano dalle labbra è più nociva, perché guidata con più artificio. Peggio, passa avanti il santo Profeta, e lo dichiara uomo di più lingue, Vir linguosus. Io per me non ho mai veduto persona che abbia più lingue in bocca, e se due ne avesse, so che non potrebbe parlare neppur con una; come dunque il santo David dice, un uomo di più lingue? Perché il mormoratore di tutto se stesso, forma lingue nefande. Voi vi troverete in una conversazione, ove per lode d’una donna, si dirà che ella è un vero ritratto della modestia, quando uno di coloro per ironia rivolto all’amico abbassa il capo, eccolo detrattore con la testa, la loda un altro, come specchio di cristiana pietà, ed un di quei serra l’occhio sinistro, e si fa mormoratore con gl’occhi. Si dichiara quello che la donna è un esemplare di ritiratezza, e che alla nobiltà della nascita accoppia l’onor della vita, quando s’osserva che uno del circolo o fa un cenno con la mano, o preme col suo il piede del vicino, sicché col piede senza strepito altamente si parla. Vir linguosus, uomo di più lingue è il mormoratore; ben ravvisato per tale da Salomone allorché scrisse: annuit oculis, terit pede, loquitur digito. E di lingue di serpente avvelenato d’un aspide, venenum aspidum sub labiis eorum, per additarci, che siccome il morso ed il veleno dell’aspide è insanabile, così la piaga che fa il mormoratore è irrimediabile. O quanto difficile è render la fama, è quasi impossibile. Vi aiuterete per restituirla, ma indarno. Mosè voleva far conoscere che egli era vero ministro del suo Signore, onde gettata la sua verga in terra, la fece subito trasformare in un orribile serpente, ma che? Appena la ritolse in mano, che subito la fece di serpe ritornare verga. Vollero gl’incantatori di Faraone far anch’essi una prova eguale, ma non gli riuscì; fecero, è vero cambiar le verghe in serpi, ma quelle serpi mai ritornarono all’esser di verghe. La virtù diabolica, miei UU., può arrivare a far del male, a cambiar le verghe in serpi, ma non può già rifare dal male, bene. Tanto succede ai mormoratori: vi riuscirà di far comparire quell’uomo da bene per un usurario, per un maledico, per un vendicativo; vi riuscirà di far credere che quella devozione sia una ipocrisia, che quella fanciulla sia macchiata, che quella maritata non sia fedele, ma non vi riuscirà di farli ritornare nel loro essere, e di reintegrarli di quel che gli avete levato. Calumniare, calumniare, diceva quell’infame politico, semper aliquid remanet. E se è irrimediabile, darà la morte, così è, così è, dice l’Angelico San Tommaso: Qui occidit fratrem suum, qui detrabit, pariter homicida esse monstratur. Che però la Sacra Scrittura alla lingua maledica dà il nome or di rasoio, or di saetta, or di spada per denotare le gravi piaghe che ella fa nel cuore del prossimo; e se la lingua de’ mormoratori non giunge per sé stessa a privare il prossimo di vita, giunge a privarlo per mezzo d’altri, mentre una gran parte delle più sanguinose fazioni sono causate dalle mormorazioni. Non ha il demonio, no, ministra più fedele della lingua, poiché se tante volte sono perite nobili casate, e belle prosapie, son caduti i regni più floridi, e le  regalità più gloriose, tutto è stato effetto, al dir di Plutarco, della lingua: Unius lingua dolo, proditione, urbes conciderunt, regna, res publica; così è, dice lo Spirito Santo: Os lubricum operatur ruinas. Voi vi crederete, che il mormoratore abbia finito d’adoperar l’arma terribile della sua lingua, mentre non solo con essa ha ferito, ma ucciso, come parla l’Angelico; appunto, appunto, sentite il Profeta, che segue: Lingua eorum transivit in terra, che è quanto dire che talora penetra la terra, fino alle ossa de’ poveri morti, di questi ancora mormora, anzi più, talora salgono in Cielo. Os suum posuerunt in Cœlum. Il leone, se trova una bestia uccisa, la mira e poi passa avanti, né la tocca. Non fanno già così questi indegni, mentre con la loro perfida lingua s’inoltrano fino all’ossa de’ trapassati, e sono sì temerari, che non considerano che, con dir male de’ morti, chiamano al lor sindacato come rei, quei che facilmente sono beati in Cielo. Né vi crediate, segue il santo Profeta, che queste loro mormorazioni siano rare, appunto, hoc opus eorum, questo è il mestiere che fanno dalla mattina alla sera, non già di passaggio, ma di proposito: Sedens adversus fratrem tuum loquebaris; sedens nell’anticamera di quel personaggio; sedens avanti l’uscio di quella bottega; sedens sopra le panche di quella Chiesa, mentre si aspettava la predica; sedens a quella mensa, a quella veglia, a quel fuoco; insomma hoc opus eorum qui detrabunt mihi; ecco l’occupazione degli uomini e delle donne dalla mattina alla sera: dir male degli altri. Gran cosa! Quelle persone ancora che non sanno dire tre parole in fila, sapranno durare tutto dì a mormorare simili a quelle rane che non hanno altra voce che per gracchiare. – Sinora ho detto del mal che fa il mormorare a quello, a quella, di cui mormora. Or vediamo adesso il mal che fa a quello, che sente mormorare: grandissimo, perché lo ponete in pericolo di dannarsi. Non me lo credete? Uditemi. Coloro alla presenza de’ quali mormorate, o son buoni o son cattivi: se son cattivi come voi, si compiaceranno d’aver compagni, e prenderanno un animo molto maggiore per seguitare con la loro maledica lingua a trinciare la riputazione di chi che sia. Voi ben sapete che il Profeta Reale, udita ch’ebbe la morte dello sventurato Saul pregò coloro che gliela significarono, a non palesar questo successo agli abitatori di Get, per non dargli occasione di parlare sulle calamità d’Israele, ne exultent filii incircumcisorum; ma voi mormoratori, che fate? Quando in quel circolo vi lavate la bocca di quel chierico, di quel religioso, di quella donna, di quella dama, fate che chi vi sente, prenda motivo di seguitarvi, di far lo stesso, anzi d’accrescere etc… Un empio solo che mormori, sveglia in chi sente, un insopprimibile talento di mormorare, a guisa di quell’importuna cicala che, col suo garrire, sveglia allo strepito quant’altre gli son vicine, etc. .. –  Quando poi questi che vi sentono mormorare non siano uomini empii, ma pii, ma da bene, o quanto è male, che voi fate all’anima loro; è facilissima cosa, che voi mormoriate di quelle cose, che essi non sapevano, come d’amori, d’onestà, etc… e così voi gl’insegnate le indegnità, e gli fate e pensar ed imparar quei mali a loro ignoti. Di più li ponete in pericolo di divenir mormoratori come voi, più, che dispregino quelle persone, delle quali mormorate, e se non altro, li ponete in stato di vanagloriarsi, e di dire col Fariseo, non sum, non sum sicut cæteri bominum. O quanti mali quanti mali! Voi poi, che talora vi trovate ne’ circoli ove si mormora, se non volete avere nelle orecchie quel diavolo, che ha nella lingua chi mormora, avete a seguire il consiglio del Boccadoro: habes, quod laudes, aures aperio, si vero malum velis dicere, obturo aures non enim stercus et cænum accipere sustine. Fratello, signore, signora, se volete parlar bene del prossimo, io v’ascolto, se male, chiudo le orecchie, perché non voglio sozzure di maldicenze. E quando la vostra condizione tanto non vi permetta, servitevi della proprietà del delfino, di cui narrano i naturali, che ode, ma par che non oda, giacché non appariscono le sue orecchie. Se voi non potete impedire che non si mormori, mostrate di non udire, non apparisca in voi né gradimento, né approvazione. Or che v’ho mostrato il danno che riceve quello di cui si mormora, e quello in presenza di cui si lacera, resta il terzo punto del male, che ne viene a quello che mormora. Primieramente dovete sapere, che siete in odio agli uomini: abominatio hominum detractor, i quali, benché vi ridano in faccia, v’abominano nel cuore, perché quel tradimento, che fate agli altri in presenza loro, lo farete di loro in presenza d’altri, e vi riconoscono per quei cani da macello, i quali godono d’imbrattarsi egualmente in ogni sangue le loro labbra; ma questo è un nulla; il peggio è, che siete odiati da Dio: detractores Deo odibiles, così parla l’istesso Dio. Siete odiati da Dio, dunque permetterà Iddio che vengano nella vostra casa quei vituperi, che ora scoprite in quella del vostro prossimo; impius, dice lo Spirito Santo, confundit, confundetur. Guai a questi mormoratori, guai a questi detrattori: Vir detractor, seguita a parlar Dio, non prosperabitur in terra. Siete odiati da Dio; dunque andranno sempre di male in peggio i vostri interessi, resteranno sterili i vostri campi, fulmini spietati inceneriranno i vostri armenti, orride tempeste termineranno le vostre campagne, orribili terremoti scuoteranno da’ fondamenti le vostre case. Siete nemici di Dio, dunque periranno le vostre consorti, i vostri mariti; si estinguerà la vostra casa con la morte immatura de’ figli, e voi, perché mormorate, vi ridurrete a tal miseria, che per sostentar la misera vita, vi converrà mendicare un tozzo di pane di porta in porta, Vir detractor non prosperabitur in terra, diluvieranno le disgrazie, le infermità, le morti sopra la vostra casa, la vostra famiglia, la vostra persona. Girate, girate pure le strade tutte di questa vostra città, voi che conoscete ogni famiglia, e troverete molti di questi detrattori, che prima vivevano con comodità nelle loro case, ed ora sono ridotti a stato tanto infelice così permettendolo Iddio per castigo della loro maldicenza. Ma che sarebbe, quasi dissi, poco il castigo narratovi; il peggio è, che qui non si ferma il giusto sdegno di Dio; non basta a Dio che i mormoratori siano miserabili nel corso della loro vita, li vuol tali anche nella morte, perché li vuole morti di morte improvvisa! O Dio! Cosa vuol dire essere odiati da Dio, o Dio! che disgrazie porta seco la mormorazione; ecco le parole delle sacre carte: Time Dominum fili mi, cum detractoribus ne commiscearis, quoniam repente consurget perditio eorum; mormoratori, la vostra morte sarà subitanea, repente, repente, può mentire Iddio, amplifica Dio, burla Dio? Se credete, che mentisca, burli, o amplifichi, non parlo con voi, perché butterei il tempo, predicando ad infedeli; ma se non mentisce, voi perirete di morte subitanea, o colpiti da una goccia, come il mormoratore Alcimo, che tanto sparlò di Giuda Macabeo, o inghiottiti dalla terra, come gl’empi detrattori di Mosè, repente consurget perditio eorum, vi troverete colti da quella morte che sola al mondo è bastevole a far tacere le vostre lingue sacrileghe. Riflettete dentro di voi a quanti fin’ora son morti di morte subitanea; e toccherete con mano, ch’erano per lo più detrattori. Temete dunque uomini e donne, temete, perché se mormorerete, morirete di morte improvvisa senza poter neppur proferire quel Santissimo Nome: Gesù! Gran castighi sono questi, non lo nego, morire di morte improvvisa, ma pure sarebbero comportabili se non ve ne fossero de’ maggiori. Chi è in odio a Dio, creda pure essergli dovuto ogni castigo. Ecco, che lo stesso Profeta passa a castighi molto maggiori, e più severi; Virum injustum idest detractorem,
spiega la Glossa, mala capient in interitu, al capezzale sì, alla candela benedetta, a quegli ultimi fiati, alla morte proverete ciò che voglia dire esser stato mormoratore, e come tale in odio a Dio. Vi sbatterete per quel letto agitati, come furie, vi lacererete con le vostre mani, come arrabbiati, le carni; morirete senza l’assistenza de’ Sacerdoti, passerete all’altra vita senza Sacramenti, tutto per divina permissione, perché foste mormoratori: Virum detractorem mala capient in interitu; O Dio saranno pur finiti i castighi contro i detrattori, mentre ora li vediamo morti; finiti? Mi risponde la glossa morale, spiegando le sopracitate parole, appunto, no, no! Quia mala gehenne eum capient, no, no, che non sono finiti i castighi divini, ve ne sono ancora, mala gehennæ, vi è la perdita irreparabile dell’anima, vi è l’eternità dell’inferno, vi è l’ardere ed il bruciare per sempre fin che Dio sarà Dio. Tu, o mormoratore in tutto il tempo di tua vita non la perdonaste mai ad alcuno, ma ti dilettasti sempre di detrarre, e di biasimare chiunque ti veniva in bocca, così Dio per tutta l’Eternità ti farà provare la sua eterna maledizione, se non fermerai quella lingua, che scocca saette nell’altrui fama, il tuo premio in fin di vita farà un’eterna morte: dilexisti, dice David, omnia verba præcipitationis lingua dolosa, ecco quello che ne seguirà … propterea Deus destruet te in finem, e vuol esprimere, secondo San Bernardo, idest irrevocabiliter per destructionem eternalem, quæ sine fine erit. Tanto appunto intervenne ad uno di questi mormoratori, il quale ridotto alla morte, sentendosi esortare ad avere fiducia nella Divina Misericordia, gridò con voce spaventevole: che misericordia? non vi è misericordia per me di Dio, già che io sì poca n’ebbi verso il mio prossimo; indi, orribil cosa, tratta fuori la lingua, accennò col dito, che la mirassero, e poi questa lingua … soggiunse, m’ha condannato, questa, con la quale m’avete sentito si spesso condannar altri; questa sa, che disperato io mi danni; così disse, e perché manifestamente apparisse, aver egli per giusto giudizio di Dio così parlato, se gli gonfiò tutta in un subito la lingua, sicché non potendola più ritirare a sé, cominciò a muggire come un toro, e così dopo penosissima agonia, morì nelle braccia del diavolo. Volete voi evitar simili castighi? ubbidite al Profeta Reale: Benedicite Dominum omni tempore, Iddio vi ha dato la lingua, non per mormorare, ma perché semper fit laus ejus in ore vestro, dirò io, risolvetevi dunque d’abbandonare vizio si mostruoso, benedicendo Dio nel vostro prossimo con la vostra lingua, acciocché Egli benedica voi in punto di morte.

LIMOSINA.
San Giacomo Apostolo chiama la lingua mormoratrice con questo vocabolo: universitas iniquitatis, quasi voglia dire, che chi è mormoratore, può dire d’aver in sé ogni vizio, merceché la mormorazione equivale a tutti. Cosa dovrà fare dunque il mormoratore per liberarsi da questa universalità di peccati? Una  buona limosina, giacché la limosina, dice Dio ne’ Proverbi, è quella, che operit universa delicta, universa delicta operit charitas! Anche tra gli uomini la liberalità ricopre i vizi, che però Filippo Re de’ Macedoni era solito di dire, che stava in sua mano cambiar le mormorazioni de’ sudditi verso di lui in lodi, perché bastava ch’aprisse la mano a donare.

SECONDA PARTE.

Siate pur benedetto, o Padre, Dio vi renda il merito di questa Predica. Tale appunto era necessaria in questa nostra patria, ve ne era un estremo bisogno, non si fa altro che mormorare ed udir mormorazioni; sicché godo dunque d’averla affrontata con speranza di frutto. Ma ditemi, chi siete voi, che così parlate? Io vi credo uomo da bene, donna d’ogni onore. Ma se voi poi foste nel numero di quelli e di quelle che tanto godono che si predichi contro chi mormora, perché vorrebbero vivere a lor modo secondo i loro capricci con ogni libertà, e che di loro non si parlasse, non si fiatasse, io contro di voi mi rivolterei, e con santo zelo v’imporrei un perpetuo silenzio. Come? Voi volete far tutto e far di tutto, e con ciò dar motivi continui che di voi si sparli, e poi volete che ognuno taccia? Tacete voi più indegni di loro. Vi sarà una donna, un Sacerdote che diranno: non siamo rispettati, si sparla di noi … ditemi, rispondo io, buona donna, reverendo Sacerdote, ne date occasione? Se ne date occasione, fanno male essi e peggio voi, e però prima a voi e poi a loro è dovuto il castigo. Voi vivete non da Sacerdote, ma da secolare, non avendo che la veste da religioso, la quale non basta per occultare le inimicizie, il trafficare, il mercantare, vi fate conoscere per puntiglioso, e si sa che la castità promessa non si osserva, e vi dolete poi che si mormori? Tacete e non ne date i motivi sì gagliardi. Già voi vedete, che una parte del mondo mormora dell’altra, né mai si cessa. Sentiamo le scuse che adducono molti per liberarsi dalla colpa. Padre, io non ho tanta malignità; se qualche volta parlo, parlo per zelo! … Non vorrei vedere ciò che non sta bene, lo zelo eh? Non siete già voi come le rane, le quali giacendo nel fango, gridano poi sempre, quasi rimproverando agli altri la loro sordidezza. Avvertite, che non vi senta il lupo di Plutarco che a voi farà il rimprovero che fece a certi guardiani d’armenti; udite: introduce Plutarco un lupo che, costretto dalla fame, passa alla mandria, addenta un agnello, quando destati i cani e svegliati i pastori, fu tale la fierezza di questi ed il latrar di quelli, che il povero lupo, per non perder la vita, lasciò la preda; tornato però la notte appresso la caccia, e giunto con la scorta dell’odore di carne cotta alla stessa capanna, quivi da una apertura dell’uscio, riconobbe che quegli stessi cani e quegli stessi pastori stavano banchettando chi con le ossa, e chi con le carni del più grasso vitello di tutto il gregge. Oh addio galantuomini, gridò meglio che poté con gli urli il lupo, così guardate gli armenti? Quantus tumultus si hoc ego fecissem, bel zelo abbaiare contro degli altri e far peggio degli altri, salvare un agnello, e rubare un giovenco. Se io rubai, lo feci per fame, ma voi per ingrassarvi tradite i padroni, sfiorate la greggia e scandalizzate etc… . Voi avete zelo di quella, etc. . dirò io, donna, e voi, che fate? Padre, non son nel numero di questi, ne dico salvo quel ch’è vero. Adagio, e da quando in qua si possono pubblicar i difetti, benché veri? Dunque, se un povero ecclesiastico, una povera donna cadono, potrà pubblicarsi? E da quando in qua, quello che succede in una camera si ha da dire per una Piazza? Quel che accade in una casa, si ha da pubblicare per la città? Quel che succede in un vicinato, si ha da scriver per tutto? Mi meraviglio di voi, chi ha peccato, tiene tuttavia della sua fama, giustamente il possesso … Io non trascorro tant’oltre, dice un altro, ma sol quello che so, lo confido a mio marito, all’amico; no, neppure ad uno dovete dirlo, audisti verbum adversus fratrem tuum, dice lo Spirito Santo, commoriatur in te; hai udito qualche fallo del prossimo, non lo dire a niuno; ma pensate voi se vogliono ubbidire? Appunto a guisa d’una donna di parto, par che si trovi in angosce, finché non trova a chi comunicare ciò ch’ha udito. Via, via, si muti linguaggio. Se così farete, sarà santificata la lingua di chi mormora, l’orecchio di chi ascolta, la vita di chi opera, ed in tal forma si giungerà da tutti a lodar Dio.

QUARESIMALE (XXXI)

QUARESIMALE (XXIX)

QUARESIMALE (XXIX)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMANONA
Nella feria seconda della Domenica di Passione.

Si mostra la stolta presunzione d’offendere Iddio sulla speranza della Divina Misericordia.

Si quis sitit veniat ad me, et bibat. San Gio: cap. 7.

Il premio e la pena sono le due basi che tengono il mondo in regola. Che meraviglia dunque se Cicerone, principe dell’eloquenza, colà nel terzo de Natura Deorum, apertamente dicesse, che non solo una repubblica, ma neppure una casa poter durare, mentre in quella non si tema il castigo per il vizio, non si speri il premio per la virtù; nec domus, nec respublica stare potestà, si in ea nec recte factis præmia extent ulla, nec supplicia peccatis. Del pari dunque camminano al reggimento del pubblico premi e pene; ma o quanto è male e quante turbolenze partorisce il non punire le colpe. Guai a noi se non si punissero i rei, si vedrebbero in breve tempo le città divenute selve di lupi depredatori. Stupisco però come gli uomini siano così stolti, che dalla clemenza d’un principe che perdona, ne ritraggano motivi di seguitare vita licenziosa; sarebbe tuttavia, quasi dissi, poco male, se così passassero le cose con i soli principi della terra. Anche con Cristo Re si pratica in tal modo, poiché gli uomini, quanto più lo considerano misericordioso, tanto più l’offendono, e perché Egli si dichiara, si quis sitis veniat ad me, per questo sperano aver aperte sempre le fonti delle Divine Misericordie, per affogarvi le loro colpe e seguono a peccare. Seguitate pure, dirò io, perché (e sarà l’assunto del mio discorso) se pretendete d’offendere Dio sulla speranza delle Divine Misericordie e sul fondamento delle vostre stravolte idee, vi troverete e castigati e perduti. – Perdonatemi o dotti: convien che io stamane me la prenda con i peccatori ignoranti, i quali discorrendo da pari loro, formano sciocchissimi sofismi, e su questi vogliono innalzare la fabbrica della loro salute. Dio è buono, dicono essi, ha sparso tutto il sangue per noi, è tutto misericordia, il Paradiso non è fatto per i Turchi, si salvò un ladrone, dunque, anche io porrò piede in Cielo. Poveri peccatori, che sì fattamente discorrendo continuate a menar vita licenziosa senza accorgervi che pretendete stringer l’ombra in pugno, la vostra speranza sulla bontà Divina, mentre continuiate a peccare, è giusto come l’arcobaleno, che altro non ha salvo l’apparenza. Voi dite, Dio è buono, e poi ne cavate per infallibile conseguenza: dunque si può peccare, questo è un discorrere da sciocchi; dunque, perché Dio è buono voi volete esser empi, poiché Dio riceve i penitenti voi volete continuare a peccare; perché Egli vi benefica come Padre, voi lo volete trattar da nemico. Dio immortale, ed è pur vero che neppur le vipere impastate di tossico, offendono se non sono offese, solo voi offendete Iddio non solo quando non vi offende, ma quando tutto bontà vi benefica. Voi temerari così dite: Dio è buono, quindi si passino i giorni negli amori, le notti nelle veglie scandalose! Dio è buono; dunque, irriverenze nelle Chiese, dunque si mormori in ogni circolo, si sparli in ogni piazza, si pecchi in ogni luogo. O che pazze conseguenze! Deducetene piuttosto un’altra, e dite: Dio è buono, dunque s’ami, s’onori, si adori, si osservino i suoi precetti. Fermatevi, che fate, e perché oltraggiate quel cavaliere sì buono con le parole, e perché percuoterlo con schiaffi vergognosi? È un peccato il solo pensare ad offenderlo, e non sapete la sua bontà perché dunque strapazzarlo? Per questo stesso sento rispondermi: perché è buono voglio strapazzarlo, maltrattarlo; questo è un parlar da pazzo, non è vero miei UU.? Orsù a noi. Dunque, un uomo vil fango della terra, perché è buono merita ossequi, e Iddio che è bontà infinita merita dispregi? Neppure un cane, quando sia buono deve strapazzarsi ed è pur vero che il privilegio d’un cane, d’un animale non l’ha Cristo, perché quantunque buono si vilipende, e si conculca con i peccati. Dio è buono! Ah che mi si spezza il cuore, dunque si bestemmi alla peggio il suo nome Santo, dunque s’inalberi uno stendardo, e vi si arruoli sotto un esercito di maritate sedotte, di vergini contaminate, e con una tal milizia si tenti di cacciarlo dal suo trono per costringerlo a nuovamente vivere in una stalla. O che conseguenza bestiale è mai quella… Dio è buono, dunque pecchiamo. Dite piuttosto, bonus es tu, in bonitate tua doce me justificationes tuas. – Non cavò già conseguenze sì storte Giuseppe il casto, casto ancorché giovane come abbiamo nella Genesi al cap. 36. Fu questi più volte tentato dalla padrona che era una di quelle maritate a cui pareva che il vincolo coniugale non servisse di freno, ma di stimolo alla incontinenza, fu dico tentato Giuseppe con quelle infame parole dormi mecum, al che gli rispose: ecce dominus meus omnibus mihi traditis, con quello  che segue. Il mio padrone, disse Giuseppe, è sì buono verso di me che mi ha quasi costituito padrone di tutto il suo, e come potrò io contaminare il suo letto: Quomodo potero peccare in Dominum meum, non sia mai vero no; così si discorre e così si opera. Deh mutate sin quaggiù o peccatori e dite: Iddio è buono, dunque non lo devo offendere, ma amare, perché il buono fu sempre amabile, e riflettete che se Egli è buono, come voi dite, tanto peggio sperate se non l’amate: Certe si talis est, qualem putas tanto iniquius agis, si non amas… non vi seguite a guisa di vipere di fiori per formar veleni. Ah Vergine amabilissima, mi si apre il petto per il dolore; dunque la bontà del vostro Figlio che dovrebbe essere stimolo acutissimo per amarlo, serve a’ peccatori di crudo carnefice per crocifiggerlo. O iniquità, o stoltezza insensata e crudele! – Da questa conseguenza così pestifera … Dio è buono, dunque si può peccare, si passa ad altra non meno indegna: Dio è misericordioso, dunque si può offendere. Confesso di vero, che io non so capire la sfacciataggine di questi peccatori, i quali fanno a Dio il maggior de’ mali, qual è l’offenderlo, e da Lui sperano il maggior de’ beni, qual è la sua misericordia per salvarsi. Tu dici: Dio è misericordioso, e per questo mi salverà, ed io ti rispondo che con tutta la Divina Misericordia, se seguirai a peccare probabilmente ti dannerà. È misericordioso Iddio, non è vero? … Padre sì, eppure lascia piombare nell’inferno tanti Turchi, tanti idolatri; ma questi Padre non hanno il Santo Battesimo, bene … è misericordioso, eppure ha lasciato cader nell’inferno tanti Cattolici … ma Padre perché vissero peggio di me; peggio di te non lo so, perché tu neppur stavi lontano da quei vizi che chiamano fuoco dal Cielo, e ne vuoi complice talora chi ti consegnò Iddio per indivisibile compagnia. Vissero peggio di te, hai tu fatto un sol peccato mortale? Appunto de’ soli pensieri ne conterai le centinaia; e pure Iddio con tutto che sia misericordioso lasciò pur piombare nell’inferno quell’infelice giovinetto della città d’Ingolstadio in Germania, il quale morto che fu per esserglisi rotta una vena del petto, ed averlo affogato mentre dormiva, comparve ad un suo maestro, che per lui voleva celebrare la Messa, e glielo vietò dicendogli che era dannato. Come dannato? Replicò il Padre, sapendo che era vissuto innocente. Ieri appunto, rispose lo scolaro, un cattivo compagno m’allettò alla colpa, commisi il peccato, me ne andai a letto con pensiero di confessarmi la mattina, ma rottamisi una vena del petto, restai soffocato e morto, e per un sol peccato mortale mi trovo dannato. Ditemi, la Misericordia di Dio è punto scemata con la condanna di questo miserabile per un sol peccato mortale? Certo che no, or vedi, se scemerà punto con lasciarvi piombar te, che de’ peccati mortali ne hai a centinaia, tu, che sei pieno d’usure, d’odio, d’amori indegni … noli contemnere misericordiam, dice San Bernardo, si non vis sentire justitiam. Pur sento chi temerariamente mi replica: E non volete che io speri di salvarmi ancorché continui a peccare, mentre Gesù per salvarmi ha sparso tutto il suo Sangue? Cristo ha sparso il suo sangue per noi, dunque pecchiamo! O che diabolico argomentare è mai questo, mentre dovreste piuttosto dedurre, Dio ha sparso il suo sangue per noi, dunque, noi spargiamolo per Lui; Dio ha sparso il suo sangue per liberarmi dalla morte, dunque, uccidiamolo! Che conseguenza!? sentite caso orribile, che si racconta nel Cristiano Istruito. – Si affronta a passare un soldato da un patibolo, di dove pendeva già impiccato un uomo, e veduto che si moveva, stimò, come di fatto era, che ancor non fosse morto, andò, lo staccò, lo ristorò, e levatoselo in groppa del suo cavallo seco lo conduceva per aiurarlo; quando colui, che aveva ricevuta la vita, immaginandosi che quel soldato portasse denari, gli tolse dal fianco lo stile, glie lo piantò più volte nella schiena, e l’uccise. Che dite? Così fate voi: Dio mi ha data la vita spargendo il suo sangue, ed io gli voglio dar la morte con i peccati. Se si è lasciato crocifiggere per voi, non dovete voi ribattergli i chiodi con nuove colpe, altrimenti sarebbe un pretendere che Cristo fosse a guisa di quelle piante che danno balsamo per ferire. Seguite pure a peccare sul fondamento d’aver sparso per voi il suo Santissimo Sangue, ed io v’assicuro, che questi chiodi saranno un giorno a voi fierissimi pugnali al cuore, queste spine serviranno di siepe alle porte del Paradiso perché non vi entriate; i flagelli e strumenti della sacra passione cacceranno voi all’inferno e si avvererà in voi quel di Salviano che: nullus difficilius evadit, quam qui se evasurum presumpserit, niuno più difficilmente scampa la dannazione, che chi troppo presuntuoso spera la Gloria. Padre, voi ci vorreste far disperare della Divina Misericordia, ma tanto vogliamo sperarci sul fondamento che questa è giunta a salvare un assassino di strada, quel buon ladrone. Orsù, già che siete ricorso al rifugio degli ostinati con dirmi, che uno scellerato ladrone nel Calvario con un memento Domine si salvò, e perché non potrete salvarvi ancora voi? Son dalla vostra; ma fo un passo più avanti, e vi dico, che nell’ultimo dì di vostra vita è troppo presto a far penitenza, a convertirvi a sperare nella Divina Misericordia. Piano, Padre. E che dite? Voi volete dir troppo tardi … No, no, troppo presto, perché io vi consiglio aspettare dopo morte; non vi meravigliate del mio discorso, perché io così argomento: Cristo risuscitò Lazzaro, chiamò a vita la figlia di Jajro, il figliuolo della vedova, dunque, morti che sarete resuscitati ancor voi, e vi userà questa misericordia che resuscitati facciate penitenza. Il mio argomento è più forte del vostro. Voi argomentate da uno ed io da tre. Ma via, già che mi avete nominato il buon ladrone discorriamola. Ditemi, sperereste voi, divenuto reo di qualche grave delitto, nella misericordia d’un principe che avesse perdonato ad un solo, e giustiziatene le migliaia? Certo che no; sì bene memini, dice San Bernardo, in toto cannone unum inveniri sic, salvatum, in tutta la Divina Scrittura si trova solamente questo ladro in tal forma salvato; sia pur vero, che fuori delle Divine Scritture se ne trovi qualche altro. Ma dall’altra parte si trovano milioni di dannati; come, dunque, potrete voi più sperare che temere, mentre de’ vissuti male taluno si salva, e tanti si dannano? Dice San Geronimo: Vix de centum millibus unus appena uno di centomila, che son vissuti male, se ne salva. Dio immortale io così la discorro, e dico, che quando anche de’ peccatori simili a voi avessero i più da salvarsi, tanto dovrebbe il timore farvi mutar vita. Sentite: Arnolfo Conte di Fiandra era travagliato da acutissimi dolori di pietra, determinarono i periti di venire al taglio, ma egli ne volle prima la prova in altri; fu eseguito il comando, e trovati venti che pativano del medesimo male, si venne con essi al taglio, e di venti uno solo ne morì. Se ne portò con allegrezza la nova ad Arnolfo, ma egli nel sentire che pur uno era morto, invece di rallegrarsi s’impallidì, sicché disse, può anche essere che io resti sul colpo, e perciò più timido per la morte d’uno, che speranzoso per la salute di diciannove, non volle sottoporsi al taglio. Or io dico, se così risolse essendone campati diciannove e morto uno, che avrebbe fatto se diciannove fossero stati i morti, ed uno il vivo? Via via medici, via chirurghi, a che m’esortate se la maggior parte muoiano? Ah Dio, ciò che nella cura del corpo, neppur si sognerebbe, nell’anima tutto dì si pratica, e si va dicendo: si è salvato il buon ladrone, mi salverò anche io. O che parlar da pazzo, si è salvato un ladrone, mi salverò anche io dopo una pessima vita. Qua voi sapete che a Giuseppe, la prigionia gli portò i primi onori dell’Egitto; andate a mettervi in ceppi, che così vi renderete illustri ed acquisterete il dominio de’ regni; Mardocheo fu calunniato e per mezzo della calunnia salì alle prime grandezze della Persia. Su presto, procacciatevi delle calunnie, e diverrete ricchi e potenti. Contentatevi che ad esempi sacri mescoli una relazione profana. Racconta Plinio d’un tal infermo, ch’aveva speso tutto il suo in medici e medicine per guarire da una ostinata cancrena; disperato si portò alla guerra, e messosi fra la mischia, da un colpo che gli volò su, la postema gli fu aperta e guarì. Se per disgrazia patite un simil male, su andate o alla guerra, o quando sentite qualche rissa nella vostra patria mettetevi tra quelle spade per esser feriti. Eh, che gli esempi rari non devono servire per regola. Se un empio si salva, è un miracolo, muta vita! Gridate pur quanto volete, che finalmente il Paradiso non è fatto per i Turchi, ma per noi; son con voi, per i Turchi che moriran da Turchi non è fatto il Paradiso; ma se non è fatto per i Turchi, molto meno sarà fatto per le bestie come sei tu, che sei un aspide, che vomiti veleno di pestiferi spergiuri; che sei una vipera, che con la tua lingua mormoratrice uccidi la fama del prossimo; che sei un rospo che non hai in bocca altro che tossico di bestemmie; che sei un drago velenosissimo, che getti spuma di laidi discorsi, di disoneste canzoni; che sei un basilisco, che con occhi avvelenati d’amori indegni uccidi l’anima di chi ti mira; che sei un cane mastino pieno di livore, e di brama di vendette; che sei un’animale immondo, perché stai nel fango delle disonestà fino alla gola: dunque se il Paradiso non è per i Turchi, molto meno per te, perché sei una bestia ne’ costumi; per tale appunto ti riconobbe San Girolamo, allorché commentò le parole d’Ezechiele, bæc dicit Dominus homo homo de domo Israel; sapete quello vuol dire con replicare la sacra Scrittura, homo homo, quasi che vi fossero uomini vuole che non fossero uomini? Asserire esservi uomini che non son uomini ma bestie, multi enim homines, ecco le parole del santo, habentes hominis faciem corporalem diversarum bestiarum assumunt imagines, e con prendere i peccatori immagini di bestie, ne prendono altresì i costumi, sicché vivono non più con la testa volta verso il Cielo, ma col capo chino alla terra. Voi ora non avete occhi per riconoscere ciò che in voi è di brutale, ma aspettate, non andrà molto, che al lume della candela benedetta accesa nella vostra agonia, aprirete gli occhi, e temo senza frutto. Quei che lavorano i tappeti, li tessono al rovescio, sicché, se esprimono un mostro non lo vedono sin tanto che, compita l’opera non si volti dall’altra banda, e non si esponga al suo lume. Con un’arte simile lavorate voi peccatori la vostra vita, mentre quantunque intrecciate orribilissimi mostri d’iniquità nella tela de’ vostri giorni, tuttavia lavorando alla rovescia non li vedete, e si può dire di voi come di quei miseri Giudei, nesciunt quid faciunt; sappiate, or vi dico, che voi, peccando, lavorate sulla tela della vostra vita ed alla cieca, mostri tali che hanno da essere distruggitori dell’anima vostra. Alla morte si rivolterà il tappeto, ed allora comparendo i bei lavori che faceste, vi ravviserete per quei che siete, e vostro malgrado confesserete che: se il Paradiso non è per i Turchi che vivono e muoiono da Turchi, molto meno è per chi potendo viver da uomo, ama piuttosto vivere da animale. Da questi sciocchi sofismi passano i peccatori a proposizioni indegne ed ardiscono di dire: se pecchiamo, non pecchiamo per fare ingiuria a Dio! Primieramente io vi dico, che questa vostra scusa prova tanto, che non prova niente, perché prova in sostanza che niuno de’ peccatori si dannerebbe, perché  niuno di loro, se non è divenuto un diavolo offende Dio per offenderlo; chiunque l’offende ha puro fine, comunemente, di scapricciarsi; in secondo luogo io vi rispondo che, siccome voi nel peccare non avete per scopo l’ingiuria che fate a Dio, ma le vostre soddisfazioni, così Iddio nel castigarvi severamente, o in questa vita o nell’altra, non pretenderà far danno a voi, ma pretenderà con la vostra pena far contrappeso alla deformità de’ vizi vostri. Padre, se voi chiamate debole scusa questa addottavi, certo non afferirete per tale la seguente: Or sentite è vero, si peccò, ma non ci disperiamo, perché fu necessità; e come si può di meno di non obbedire al padrone, se vuole gli assista di notte, se vuole che gli serva di guardia. Bisogna pure che io obbedisca, se voglio mantenermi la grazia di lui e vivere. Tacete, tacete bocche d’inferno, che asserite peccare per necessità, perché in così dire mostrate di stimar fallita la Divina Providenza, mentre non credete che ella possa fare le spese convenevoli a chi la serve. Deh aprite gli occhi, dice Agostino ed intendete, che chi v’à finora pasciuti ribelli a sé, con più ragione, vi pascerà riverenti e buoni, pascet te Deus contemnentem se, et deseret timentem? Non è possibile. Tacete adunque, e non adducete queste scuse, che appunto sono scuse per continuare nel vostro peccato che, se oggi vi alletta, domani vi tradirà. Ma se voi o Padre mi sbattete tutte le mie scuse non potrò dirvi altro se non che è vero, che pecco, né vedo modo di svilupparmi da’ peccati, e la causa di ciò bisogna riferirla a Dio. Che dici? Che bestemmi? A Dio? … Padre sì, a Dio: pecco, perché Dio m’ha fatto così, così m’ha impastato, e d’irascibile e di concupiscibile. A Dio, dunque, dai la colpa della tua mala vita? Dio dunque vuole le tue iniquità? Dio mi ha fatto così! dunque Dio per te non è quel sommo Bene che veramente Egli è, ma è per te un fiero tiranno, un fiero carnefice, perché avendoti fatto per peccare, t’ha fatto necessariamente per dannarti. O che bestemmie! Tali che dalla bocca di lucifero non possono uscir simili. Se così è, che Dio ti ha fatto così e, secondo il tuo dire sei necessitato a peccare, così discorro anch’io. Dio ha fatto così te, dunque non ti offendere quando sei ingiuriato, maltrattato, percosso, tradito, perché quelli che contro di te operano, son fatti così da Dio. Scancellate pure i vostri ordini o magistrati, o sovrani … non più leggi, non più statuti. Gli uomini al dire di questi empii son fatti da Dio in modo che bisogna che operino anche il male; dunque non servono i vostri ordini. Dio mi ha fatto così, questa è la natura che Dio m’ha data! Tacete temerari, non è questo modo di parlare, non è scusa che valga, è una difesa da stolto. Ditemi, se un orologio si ferma, se lentamente cammina, se talora non suona, o suona fuor di proposito, voi non dite già il maestro l’ha lavorato così, ma dite l’orologio è guasto. Ne mai vi potete dar a credere, che sia uscito guasto dalle mani di chi lo fece. Dunque, come ardite dire di voi stessi, che se siete cattivi, lo siete perché Dio v’ha fatti così e di tal natura, quasi che dalle mani di Dio siate usciti scellerati. Dite, e direte bene, l’orologio è guasto, io mi sono rovinato da me con darmi a’ vizi: convien pertanto che io mi ponga nelle mani di quell’Artefice stesso che mi fece, col mezzo d’una santa Confessione … Deus fecit hominem rectum: Iddio non mi ha fatto cattivo, da per me mi son fatto tutto il male. Questa vostra scusa dunque o peccatori, di dire Iddio m’ha fatto così, voi ben vedete, che non sussiste, e perciò non passerà al Divino Tribunale: sicché vi perderete. O che sarà mai, se ci perderemo, se ci danneremo, che volete dire? … vogliamo dire, che non saremo soli nell’inferno. Principi Cristiani per punire i delinquenti non ordinate che si fabbrichino carceri oscure, cittadelle penose, orride torri, due sole prigioni bastano nel mondo Cristiano, quella del Sant’Offizio, de’ pazzi l’altra, così disse un servo di Dio, e disse bene, perché o il peccatore crede che vi sia inferno, o non lo crede; se non lo crede, come eretico al Sant’Offizio, se lo crede e pecca, e dopo il peccato non si pente, egli è pazzo, vada alla prigione de’ stolti. Se andrò all’inferno non sarò solo … e che sciocco parlare… non sarai solo, dunque tanto peggio per te. In un chiostro sacrosanto di capuccini satresti solo? No, perché in tanti religiosi avreste tanti Angeli per compagni, e pur non ti dà l’animo d’andarviti a richiudere; come, dunque, ti figuri tollerabile l’inferno, perché non sarai solo? Tra di noi in questo mondo è qualche conforto aver compagni nelle miserie, perché, o ci soccorrono, o ci compatiscono; non così nell’inferno, dove ognuno coopera al mal dell’altro. Senti, dice Naum Profeta, nell’inferno stanno i dannati a guisa d’un gran fascio di spine, che così strette insieme l’una con l’altra si pungono, sicut spine se invicem complectuntur. La moltitudine nell’inferno non serve per sollievo, ma per tormento e perciò meglio sarebbe esser solo; ma non dubitare non sarai solo, perché con te vi sarà quel compagno complice nel tuo misfatto, quel sacerdote che ti assolve francamente, quel tuo padre che non ti castigò, certo non sarai solo, vi saranno quelle femmine con le quali ballaste, sparlaste, lo so, non sarai solo, perché avrai la compagnia di tanti diavoli, di tanti dannati. Pazzo che sei, dunque va’, e gettati da quella torre, perché altri vi si son gettati; va’ butta il tuo perché non sarai solo ad esser povero; va cacciati un pugnale in petto, perché non sarai solo ad aver commesso un simile sproposito; se vado all’inferno non sarò solo… hai ragione, affacciati a quella bocca d’inferno, e dà d’occhio a quelle anime disperate, rimirale tormentate da fiamme inestinguibili, e sappi che anche esse, mentre vissero fra noi seppero dire ad ogni aperta di bocca: Dio è buono, Dio è misericordioso, Dio ha sparso il suo Sangue per noi, il Paradiso non è per i Turchi, dunque ci salveremo; ma perché discorrevano senza lasciare il peccato, si sono dannati; anche essi dissero più volte io non ho intenzione d’offender Dio, ma di scapricciarmi, se pecco, pecco per necessità, ma queste scuse non gli furono ammesse, perché non buone anche molti si lasciarono uscir di bocca cose sacrileghe. Dio m’ha fatto così, non so che farmi, se andrò all’inferno, non sarò solo, ed or pagano le lor bestemmie con eternità di fuoco. Io non so più che dirmi, sol finisco con assicurarvi, che se sollecitamente non mutate vita, né più vi abusiate della Divina Misericordia con questi vostri sofismi, e sciocche conseguenze si verificherà in voi quel tremendo aforisma, in peccato vestro moriemini, morirete in peccato mortale, che vale a dire senza la grazia, e perciò rei di fiamme; dalle piume del letto passerete al fuoco dell’inferno, Dio non lo voglia!


LIMOSINA
Conduceva un gran limosiniero i mercanti al suo granaio, e… quanto mi darete, diceva loro, di questo monte di grano? Essi rispondevano, tanto danaro, conforme a ciò che pareva doversi ed egli replicava: sappiate, che io trovo chi me ne dà più assai. Se io vendo il grano a voi, voi mi date poco di più di quello mi costi; se io lo do a Cristo ne’ poveri, egli mi raddoppia sempre l’entrate, e mi dà per cumulo il Paradiso. E così li licenziava compunti, e distribuiva allegramente la sua raccolta tra mendici, come tra i più fruttuosi corrispondenti. Attendete ancor voi miei UU. ad un sì bel traffico, depositate nelle mani di Dio tutti i vostri averi. Il banco divino non è fallito, può mantenervi il centuplo già promessovi nel Vangelo; fate elemosina e ricordatevi che lo Spirito Santo dice: Elemosina non patitur animas ire ad tenebras, chi fa la limosina non va all’inferno.


SECONDA PARTE

Poveri noi, ci avete sbattuti tutti quei motivi che ci davano speranza di salute, sicché potremo disperare di salvarci. O questo no, perché il maggiore de’ peccati è disperare della Misericordia Divina. È ben vero che chi vuole questa Divina Misericordia convien che cessi da’ peccati, perché il voler far peccati sotto la coperta della Divina Misericordia è un volere che la Divina Misericordia serva quasi di fomento al peccato, e questo non sarà mai! Sapete chi può sperare nella Divina Misericordia con fondamento? Prima quelle persone che vivono senza peccato mortale e molto più se fanno ogni possibile per astenersi da’ veniali. Secondo quelle persone, che dopo aver corso la strada de’ vizi, pur pentiti una volta, più non peccano. Terzo: quelle persone che quantunque immerse ne’ peccati, desiderano ad ogni modo di emendarsi e sfangare da vizi. Queste tre sorti di persone sperano con fondamento; non così però quelli che vivono immersi nelle scelleraggini e sono anni che stanno allacciati con quella pratica, sicché i loro peccati sono senza numero, come le loro sfrenatezze senza ritegno. Pure così chi vive tra gli odii, tra le vendette, tra gli interessi etc…. Questi non accade, che sperino misericordia se non mutano vita. La Misericordia di Dio non si può sperare con far de’ peccati, ma con far del bene, spera in Domino, fac bonitatem, spera, dice il Santo David, ma fa del bene. Se ci è poi che desideri sapere perché la gente diviene ogni dì peggiore, eccolo: perché Dio non castiga subito. Se quando qualcheduno prorompe in qualche bestemmia gli si venisse subito ad inverminire la lingua, se quando uno commette un furto gli si seccassero le mani; se quando uno commette una frode gli si instupidisse la mente; se quando uno trascorre in qualche sorte di enorme disonestà, venisse subito ad esser ricoperto di schifosissima lebbra, vogliamo noi credere, che sarebbero tanti al mondo i bestemmiatori, i furbi, i fraudolenti, i lascivi? Ma perché Dio non ci castiga subito, perché talora par che taccia, perché talvolta prospera alcuni nelle enormità, per questo la gente prende animo ad oltraggiarlo, per questo imperversa, per questo insolentisce, per questo divien finalmente ogni dì peggiore, quasi che Iddio come esercita la pietà, così non sappia ancora a suo tempo esercitar la giustizia; no, no … senti ecclesiastico: dixeris peccavit, et quid mihi accidit triste? Altissimus enim patiens est reditor. Non dire è tanto tempo che io vivo a mio modo, e con tutto ciò le mie cose vanno molto prosperamente, godo un’ottima sanità, ho delle facoltà e mi crescono, ho de’ figli, e mi vivono, ho degli amici, e mi stimano, e se ho de’ nemici mi rispettano. No, ne dixeris…: è vero, che il Signore spesso tarda, ma sempre arriva. T’arriverà quando non te lo credi. Tu prendi animo dal vedere che Dio finora non ti ha mai castigato nelle tue colpe, ed io ti dico, che tu da ciò hai da prendere non animo, ma spavento. Vuoi che te lo dimostri? Il non averti Iddio castigato finora, come tu meritasti peccando, non può procedere se non da uno dei due capi, o dall’averti perdonato il castigo, ovvero dall’avertelo differito. Fingi però che Egli abbia perdonato; adunque ora hai da temer più, perché quanto più ti ha Egli perdonato per il passato, tanto meno è probabile che voglia perdonarti per l’avvenire, non si ritrovando mai principe sì melenso, che mai punisca, sempre perdoni. Che se Dio non ti ha perdonato il castigo, come è certissimo, ma te l’ha differito perché lo sconti dopo, o nella vita presente, o nella futura, tanto più hai da temere, perché: questo è segno che Dio ti vuol castigare tutto in una volta, e però tanto sarà più terribile il castigo tutto raccolto insieme sopra del tuo capo. Riflettete dunque che l’avervi Dio tollerato finora, non solo non ha da rendervi più arditi, ma più timidi!

QUARESIMALE (XXX)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO – S.S. LEONE XIII – “INSIGNES”

“Ho dedicato me stesso e il mio regno interamente alla Santa Romana Chiesa e alla vostra Beatitudine. Il Vicario di Dio in terra, anzi Dio stesso, non può comandare alcuna azione così difficile per me, o così pericolosa, che io non ritenga doveroso e salutare intraprendere, che io non tenti senza timore, soprattutto quando si tratta di rafforzare la fede cattolica e di schiacciare la perfidia degli empi …. Qualunque nemico della Religione sia necessario incontrare in battaglia, ecco che Mattia insieme all’Ungheria… rimangono devoti alla Sede Apostolica e alla vostra Beatitudine e lo rimarranno per sempre”. Stupenda testimonianza del Re d’Ungheria Mattia, resa al Romano Pontefice ed alla Chiesa Cattolica tutta ricordata in questa lettera Enciclica inviata da S.S. Leone XIII ai Vescovi della Nazione ungarica, tenacemente legata alla fede Cattolica ed al suo reggente, il Vicario in terra di N. S. Gesù Cristo. Questa fede rimane ancora unica oggi nel panorama della nazioni europee tutte vergognosamente apostate dalla fede dei loro padri, fede che ne ha reso possibili progressi civili, materiali e spirituali. Tra tutte le nazioni apostate dal Cattolicesimo ed immerse in un terrificante paganesimo di stampo liberal-massonico anticristiano, effettivamente ancor oggi l’Ungheria resta un baluardo piccolo, se vogliamo, ma resiliente allo strapotere demoniaco dei satrapi globalisti luciferini disseminati in tutti i governi mondiali e nelle istituzioni sovranazionali. Ma si sa, a Dio bastano dodici uomini rozzi per diffondere la sua dottrina evangelica in tutto il mondo, trecento uomini male armati per sbaragliare eserciti agguerriti di migliaia di uomini, per cui non c’è da temere per la barca di Pietro anche se combattuta e quasi affondata dalle tempeste suscitate dai nemici di Dio, della sua Chiesa unica e vera, e di tutti gli uomini… se stessi compresi.

INSIGNES

ENCICLICA DI PAPA LEO XIII SU

IL MILLENNIO UNGHERESE

Ai Vescovi dell’Ungheria.

Avete giustamente decretato che un ringraziamento speciale e gioioso sia offerto all’eterno Dio dell’Ungheria. Infatti, la vostra nazione, al di là di tutte le altre, è tenuta a ricordare la grande abbondanza di benefici che ha ricevuto da Dio, il più provvido costruttore e preservatore di regni, nel corso di molti secoli e di prove difficili. L’anniversario del vostro Paese, come felicemente ritorna, è un momento molto adatto per “ricordare e celebrare queste benedizioni”, poiché ricorre il millesimo anno da quando i vostri antenati stabilirono le loro case e residenze in quelle terre e iniziò la storia dell’Ungheria.

Celebrazione del millesimo anniversario dell’Ungheria

2. Non abbiamo dubbi che le celebrazioni previste avranno un esito degno dell’occasione e saranno produttive dei più nobili vantaggi. Infatti, non ci può essere cittadino con un amore puro che non sia colpito dalle glorie del Paese di cui fa parte e a cui le antiche glorie del passato ricordate pubblicamente suscitino un vivo desiderio di imitarle. A tutto questo si aggiungerà l’approvazione unanime di tante nazioni civili che, mentre si rallegrano in amicizia, si congratuleranno sicuramente con un regno fondato su leggi e istituzioni appropriate, preservato dalla sua prudenza civile e dal suo valore in guerra e portato da molte azioni di eccellenza alla sua attuale longevità e crescita.

3. La vostra prosperità ci colpisce nel modo più piacevole possibile e non desideriamo altro che essere presenti con voi tra il vostro popolo, Venerabili Fratelli, e dimorarvi con la mente e lo spirito. Questo Nostro desiderio è motivato principalmente dalla Nostra speciale attrazione e dalla Nostra amorevole cura per l’Ungheria cattolica e dai loro sentimenti devoti verso questa Sede Apostolica e verso Noi stessi. Tra le altre indicazioni di devozione, negli ultimi anni Roma ha visto un gran numero di ungheresi venire, sotto la vostra guida, a venerare le tombe dei Principi degli Apostoli. Hanno presentato belle testimonianze di fede, obbedienza e amore a nome di tutti i loro connazionali. Hanno ottenuto la nostra benevolenza e un discorso esortativo per rafforzare il loro spirito nei doveri della loro santa professione. In effetti, avevamo manifestato di proposito questa Nostra benevolenza a tutta la nazione nella prima e nella seconda lettera che vi abbiamo inviato. Ora, però, ricordando la modestia e il favore con cui il clero e tutti gli uomini di buona volontà hanno accolto le Nostre istruzioni, ancora una volta questa lettera trasmetta il Nostro amore e accresca la gioia della celebrazione secolare e ne raddoppi i frutti.

4. Nella preparazione delle vostre celebrazioni, risplende la forza della Religione cattolica come eccellente promotrice della sicurezza pubblica e come fonte o sostegno del bene tra i popoli. Certamente, come affermano i vostri storici più saggi, la nazione ungherese non avrebbe tenuto a lungo o con grande prosperità le zone occupate se il Vangelo non l’avesse portata, liberata dal giogo della superstizione, ad accettare questi noti principi: rispettare la legge naturale, non fare del male a nessuno, essere misericordiosi, perseguire la pace, essere soggetti ai Principi come a Dio e praticare la fratellanza in patria e all’estero.

Gli inizi del Cattolicesimo in Ungheria

5. In modo meraviglioso, gli inizi della fede cattolica nel vostro Paese sono stati consacrati nelle persone del principe Geza e dei condottieri della nazione, soprattutto grazie agli sforzi del santo vescovo Adalberto, un uomo famoso per le sue fatiche apostoliche ed infine per la sua corona di martire. Questi inizi, tuttavia, erano tanto più notevoli in quanto, considerando i tempi e la posizione dei loro territori, si trovavano pericolosamente esposti alla deplorevole separazione dalla Chiesa romana che stava scoppiando tra gli orientali. Stefano, Principe cristiano esemplare, continuò e portò a termine ciò che suo padre aveva iniziato. Egli è quindi giustamente celebrato come il principale pilastro e la luce della vostra nazione; non solo la istruì nel raggiungimento della salvezza eterna, ma ne aumentò anche l’estensione e la fama.

Importanza di Stefano

6. Sotto questo stesso Principe, che offrì e dedicò il suo scettro alla Madre di Dio e al beato Pietro, iniziò quello scambio di atti di zelo e di dovere tra i Pontefici romani e i Re ed il popolo d’Ungheria, che abbiamo già lodato. Simbolo permanente di questo legame fu la corona reale ornata con le immagini di Cristo Salvatore e degli Apostoli che il nostro predecessore Silvestro II inviò in dono a Stefano, quando gli conferì il titolo di Re perché “aveva molto diffuso la fede di Cristo”(Clemente XIII nel discorso Si qui militari, I ottobre 1758.) nel vostro Paese. Questo famoso episodio dimostra la costanza degli ungheresi nell’obbedienza a Pietro, perché questa corona ha sopportato indenne le burrasche mutevoli e pericolose dei tempi critici, risplendendo ancora dell’antico onore; di conseguenza è sempre stata considerata come la grande gloria e la difesa del regno, e quindi protetta religiosamente.

7. Così accadde che l’Ungheria, man mano che cresceva nelle sue risorse, imboccò le stesse strade che percorrevano i popoli della giovane Europa cristiana; grazie al carattere eccezionale della razza, raggiunse più rapidamente la virtù e l’umanità. Per questo motivo, nacquero molti uomini che portarono vera fama al loro Paese ed a loro stessi grazie alla santità di vita, all’insegnamento, alla letteratura, alle arti e all’adempimento dei loro doveri.

La Chiesa come custode della libertà

8. Abbiamo saputo che è stato intrapreso un progetto che approviamo pienamente per l’attuale celebrazione. Si prevede di pubblicare le antiche testimonianze dimenticate dei servizi conferiti dalla Religione. Inoltre, le lettere, sia quelle che provengono da voi sia quelle che si trovano nei nostri archivi apostolici, testimoniano concordemente che la Religione ha portato benefici all’umanità. È di grande importanza riflettere su questo, soprattutto nel momento attuale. Considerate quali funzioni ha svolto la Chiesa per i vostri antenati nell’istituire e amministrare il diritto pubblico; certamente la sua saggezza, l’ordine e l’equità hanno permeato ovunque, su richiesta di tutte le classi. Inoltre, i Pontefici romani si sono dimostrati custodi e difensori della libertà civile ogni volta che è stata messa in pericolo, sia su richiesta che di propria iniziativa. Anche il vostro popolo non ha mai smesso di lottare per questa libertà. Questo è accaduto molte volte in passato, soprattutto quando si sono dovuti respingere gli attacchi degli acerrimi nemici della santa fede. Quando i Turchi invasero, tutti, senza eccezione, concordano sul fatto che la terribile sconfitta che minacciava la maggior parte dei popoli occidentali fu evitata dal coraggio inespugnabile degli Ungheresi. Tuttavia, i Nostri predecessori contribuirono notevolmente al successo degli eventi fornendo denaro, inviando rinforzi, organizzando trattati di alleanza e pregando efficacemente per ottenere il sostegno del cielo.

Innocenzo XI

9. Innocenzo XI, in particolare, diede il suo aiuto in questa lotta. Il suo nome è famoso in relazione a due azioni straordinarie: la liberazione di Vienna dall’assedio nemico e la grande liberazione di Buda, il vostro capoluogo, dopo una lunga oppressione.

Gregorio XIII

10. Allo stesso modo Gregorio XIII rese un servizio imperituro alla vostra nazione quando la vostra Religione era pericolosamente afflitta dall’influenza dei movimenti rivoluzionari che si diffondevano dai popoli vicini. Egli intraprese per l’Ungheria la sana misura che aveva già portato a termine per altri Paesi. Ci riferiamo naturalmente al Collegio che istituì per voi a Roma e che poi unì al Collegio tedesco, nel quale gli studenti prescelti sarebbero stati istruiti a fondo nell’apprendimento e nelle virtù degne del sacerdozio. Poi, in seguito, avrebbero lavorato con maggiore efficacia nelle vostre chiese. E questo fu il risultato più fruttuoso, poiché molti di coloro che furono istruiti lì ricoprirono anche il grado episcopale e portarono uguale gloria alla Chiesa e allo Stato.

Giovanni Hunyadi

11. Questi e altri benefici derivanti dal continuo favore della Chiesa non sono tanto ricordati nei libri di storia quanto impressi profondamente nella mente dei vostri cittadini. Un testimone la cui credibilità è pari a tutti gli altri è il famoso Giovanni Hunyadi nel XV secolo, la cui strategia e il cui coraggio l’Ungheria ricorderà e loderà sempre. Egli dichiarò in modo gradito ed eloquente: “Questo Paese non sarebbe mai rimasto saldo sulle sue risorse, credo, se non fosse rimasto saldo nella sua fede”. E mentre lo stesso uomo era governatore del regno, tutte le classi in una lettera comune a Nicola V professarono: “Qualunque sia la nostra condizione, è soprattutto grazie al sostegno del vostro favore apostolico che ci reggiamo”. Lungi dal ridurre l’importanza di queste testimonianze, le epoche successive le hanno chiaramente aggiunte in modo sostanziale, man mano che i loro benefici aumentavano.

Re Mattias

12. Gli ungheresi si sono sempre sforzati di mantenere il loro regno legato il più possibile alla Sede Apostolica come “proprio e devoto possesso”. Il registro degli atti pubblici ne riporta molte prove, sia sotto forma di lettere scritte da Re e nobili ai Pontefici romani, sia sotto forma di esempi di virtù eroica ed energica che hanno aiutato la Chiesa a proteggere i suoi diritti o a vendicare la perdita dei diritti sui suoi nemici. Questo prima ancora che iniziasse la lotta contro le forze d’invasione dei musulmani. Il rapporto di reciproco servizio tra il re Luigi il Grande e Innocenzo VI e Urbano V lo dimostra. E quando Paolo II chiese con urgenza che la causa cattolica fosse fortemente aiutata contro l’attacco degli Hussiti in Boemia, il re Mattia rispose: “Ho dedicato me stesso e il mio regno interamente alla Santa Romana Chiesa e alla vostra Beatitudine. Il Vicario di Dio in terra, anzi Dio stesso, non può comandare alcuna azione così difficile per me, o così pericolosa, che io non ritenga doveroso e salutare intraprendere, che io non tenti senza timore, soprattutto quando si tratta di rafforzare la fede cattolica e di schiacciare la perfidia degli empi …. Qualunque nemico della Religione sia necessario incontrare in battaglia, ecco che Mattia insieme all’Ungheria… rimangono devoti alla Sede Apostolica e alla vostra Beatitudine e lo rimarranno per sempre”. L’evento non venne meno alle parole del re né alle aspettative del Papa e rimane una prova di grande importanza per i tempi successivi.

Maria Teresa

13. Inoltre, la collaborazione tra Nazione e Chiesa è dimostrata da quegli encomi, né pochi né deboli, con cui questa Sede Apostolica ha onorato il vostro popolo, e anche dagli straordinari titoli d’onore e privilegi che ha conferito ai vostri re. Desideriamo, tuttavia, ed è del tutto adatto alla presente celebrazione, produrre una pagina gloriosa del lungo documento ufficiale con cui Clemente XIII, in conformità al suo potere, ha confermato a Maria Teresa, regina d’Ungheria, e ai suoi successori nello stesso regno, il titolo di Re Apostolico. Tale titolo sostituiva i privilegi e le consuetudini precedenti. Così come hanno già fatto i loro padri e i loro nonni, anche i nipoti si rallegrano di questa proclamazione papale: “Il fiorente Regno d’Ungheria è stato accuratamente considerato il più adatto di tutti ad estendere i confini dell’autorità e della gloria cristiana, sia per il coraggio di una nazione intrepidissima che per la natura dei suoi territori. In effetti, tutti conoscono le numerose azioni eccezionali compiute dagli ungheresi per la protezione e l’espansione della nostra Religione. Hanno spesso ingaggiato battaglia con nemici terribili; bloccando come con il proprio corpo l’avanzata degli stessi nemici, che erano intenzionati a distruggere lo Stato cristiano, hanno strappato loro grandi vittorie. Questi famosi eventi sono stati pubblicati in note opere letterarie. Ma non possiamo assolutamente passare sotto silenzio Stefano, quel santissimo e coraggioso Re d’Ungheria, consacrato con onori celesti e posto tra il numero dei Santi. L’impronta della sua virtù, della sua santità e del suo coraggio sopravvive nel vostro Paese a lode eterna del nome ungherese. E tutti i suoi successori nella regalità hanno sempre imitato i suoi splendidi esempi di virtù. Non dovrebbe quindi sembrare strano che i Pontefici romani abbiano sempre onorato con grandi elogi e privilegi la nazione ungherese e i suoi capi e Re per i loro eccellenti servizi alla fede cattolica e alla Sede romana. Il principale segno di onore, naturalmente, è il diritto di far portare la Croce davanti ai Re in processione pubblica come il simbolo più splendente dell’Apostolato; questo per mostrare che la Nazione ungherese e i suoi Re si gloriano solo della Croce di Nostro Signore Gesù Cristo e che in questo segno sono abituati a combattere sempre per la fede cattolica e ad essere vittoriosi”(Epistola Quum multa alia, 19 agosto 1758).

Esortazioni all’Ungheria

14. Ci piace molto abbellire le vostre feste religiose con questi ricordi di uomini famosi e delle loro gesta. Ma questo evento stesso ci spinge a compiere qualche azione supplementare, che porterà un reale miglioramento per il bene comune. L’Ungheria dovrebbe riflettere su se stessa e, ispirata dalla coscienza della nobiltà dei suoi antenati più religiosi e dalla conoscenza del tempo presente, dedicare i suoi sforzi a fini degni. L’esortazione dell’Apostolo vi chiama certamente in causa, qualunque sia il vostro rango: “Rimanete saldi nella fede, agite virilmente e siate forti”(1 Cor XVI,13). A questo tutti dovrebbero rispondere con una sola mente e una sola voce: “Manteniamo salda la confessione della nostra speranza senza vacillare”(44. Eb X, 23.) “Non abbiamo motivo di mettere in dubbio il nostro onore”(1 Mc IX, 10.).

15. Se osserviamo la tendenza di quest’epoca nel suo complesso, è deplorevole che alcuni uomini cattolici non pratichino la Religione Cattolica come dovrebbero, né nel pensiero né nell’azione. È anche deplorevole che gli uomini rendano il Cattolicesimo quasi uguale alla forma di qualsiasi altra religione e, di fatto, nutrano persino sospetto e odio per la prima. Non serve a nulla dire che tipo di atto sia rifiutare con spirito degenerato questa eccezionale eredità dei loro antenati. Né serve a nulla notare quanto sia segno di una mente ingrata e inconcussa, sia il non voler riconoscere i benefici di lunga data della Religione Cattolica, sia il trascurare quelli previsti. Nella saggezza e nella dottrina cattolica sono insiti un potere e un’efficacia assolutamente meravigliosi, che operano in molti modi per il bene della società umana. Poiché non svanisce con il passare del tempo, è sempre la stessa e vigorosa; allo stesso modo, è probabile che sia benefica anche nei tempi moderni, purché non venga soffocata.

16. Per quanto riguarda ciò che riguarda più da vicino il vostro popolo, in lettere precedenti e in pronunciamenti analoghi, abbiamo denunciato pericoli da cui la Religione dovrebbe essere protetta e abbiamo proposto aiuti che portassero più adeguatamente alla sua libertà e dignità. E poiché gli affari civili non possono essere separati da quelli religiosi, siamo stati estremamente desiderosi di prestare la nostra attenzione e il nostro aiuto anche ai primi, poiché ciò è chiaramente parte integrante del nostro dovere apostolico. Infatti, i frequenti consigli e comandi che vi abbiamo dato a seconda delle circostanze, hanno contribuito non poco, come giustamente ricordate, anche alla sicurezza e alla prosperità pubblica. Ma se, proprio in questo popolo, le azioni degli uomini buoni si conformano ogni giorno di più ai Nostri consigli e ai Nostri avvertimenti, perché non dovremmo accogliere la speranza che fiorisce più abbondantemente in occasione di questa commemorazione secolare e che prelude a un rapido adempimento delle preghiere di tutti gli uomini? Perché sicuramente tutti i buoni cittadini pregano affinché, eliminando le cause di disaccordo, non venga negato alla Chiesa il suo giusto onore. Allora anche il giusto onore dello Stato risplenderà più brillantemente in alleanza e sotto la guida della Religione ancestrale. Questo farà sì che l’autorità dei governi, i doveri reciproci delle classi, l’educazione della gioventù e molte altre questioni come queste si mantengano nella verità, nella giustizia e nell’amore: perché soprattutto da questi fondamenti e sostegni gli Stati dipendono e prosperano.

Risultati attesi

17. Non il mezzo meno efficace per farvi godere di questa combinazione di cose buone, come fecero i vostri famosi antenati, è permettere che il vostro sentimento di pietà verso la Chiesa romana sia ispirato dal loro esempio, come sotto nuovi auspici. La corona più onorevole di Stefano sarà portata in un giorno stabilito attraverso la capitale in una processione insolitamente solenne; ciò avverrà nel corso dei festeggiamenti pubblici per la dedicazione della Casa dell’Assemblea. In effetti, nulla è più strettamente legato alla gloria della vostra Nazione e dei vostri Re, nulla è così adatto alla giusta organizzazione degli affari civili, di questo sacro simbolo del potere reale. Ma prevediamo che da questa occasione scaturirà senza difficoltà un duplice risultato permanente: innanzitutto che tra la nobiltà e il popolo comune si rafforzerà l’obbediente e fedele fedeltà all’augusta Casa d’Asburgo. Questa Casa ha sempre portato questa stessa corona, che le è stata conferita dai vostri antenati di loro spontanea volontà. Il secondo risultato atteso è che il conseguente ricordo delle strettissime relazioni dei vostri antenati con la Cattedra di Pietro, chiaramente approvate e consacrate da questo dono papale, possa aggiungere fermezza e forza a questi stessi legami.

18. Sappiano però gli illustri ungheresi che possono e devono affidarsi completamente all’Autorità e al favore della Sede Apostolica. Questa Sede non dimenticherà mai le loro celebri gesta per la causa cattolica; conserva e continuerà a conservare la sua antica disposizione di lungimiranza e di materna benevolenza nei loro confronti.

19. Se finora vi abbiamo aiutato, Dio vi aiuti a prosperare ancora di più. In particolare, durante questa celebrazione, si preoccupi per il vostro Re Apostolico, per la nobiltà, per il clero e per tutto il popolo, e li faccia abbondare di quei beni che Egli stesso ha promesso alle Nazioni e ai Regni che conservano la giustizia e la pace. Anche la vostra grande signora Maria si preoccupi per tutti voi, insieme a Stefano e Adalberto, che sono apostoli e Patroni celesti del vostro Regno. Sotto la loro salutare protezione, che i vostri antenati hanno sperimentato, gioite di frutti sempre più abbondanti con il passare dei giorni. Aggiungiamo una preghiera speciale con il più grande amore: possano tutti i cittadini che un unico amore per questo Paese ispira, e che questa occasione di pubblico ringraziamento unisce in modo fraterno, essere un giorno legati da una stessa fede nell’abbraccio benedetto della Madre Chiesa.

20. Voi, invece, Venerabili Fratelli, continuate come state facendo in modo vigile e attento per meritare il bene del vostro popolo e dello Stato: ricevete, come auspicio di ricompense divine e come testimonianza della Nostra speciale benevolenza, la Benedizione apostolica che impartiamo con grande amore a ciascuno di voi e a tutta l’Ungheria nella sua gioia.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 1° maggio 1896, nell’anno diciannovesimo del Nostro Pontificato.

LEO XIII

DOMENICA DI PASSIONE (2023)

DOMENICA DI PASSIONE (2023)

Stazione a S. Pietro;

Semidoppio, Dom. privit. di I cl. • Paramenti violacei.

« Noi non ignoriamo, dice S. Leone, che il mistero pasquale occupa il primo posto fra tutte le solennità religiose. Durante tutto l’anno, col cercare di migliorarci sempre più, noi ci disponiamo a celebrare questa solennità in maniera degna e conveniente, ma questi ultimi e grandissimi giorni esigono ancor più la nostra devozione, poiché sappiamo che essi sono vicinissimi al giorno in cui celebriamo « il mistero cosi sublime della misericordia divina » (II Notturno). Questo mistero è quello della Passione del Salvatore di cui è ormai prossimo l’anniversario. Pontefice e mediatore del Nuovo Testamento, Gesù salirà ben presto sulla Croce e presenterà al Padre, il sangue, che Egli verserà entrando nel vero Sancta Sanctorum che è il Cielo (Ep.). « Ecco, canta la Chiesa, brilla il mistero della Croce, dove la Vita ha subito la morte e con la Sua morte ci ha reso la vita » (Inno dei Vespri). E l’Eucaristia è frutto dell’amore immenso di un Dio per gli uomini, poiché istituendola, Gesù ha detto: « Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi. Questo è il calice della nuova alleanza nel sangue mio. Fate questo in memoria di me » (Com.). Cosa fecero gli uomini in risposta a tutte queste bontà divine? « I suoi non lo ricevettero » dice S. Giovanni, parlando dell’accoglienza fatta a Gesù dai Giudei: » Gli fu reso il male per il bene » (4 Ant. della Laudi) e gli furono riservati solamente gli oltraggi « Voi mi disonorate » dirà loro Gesù. Il Vangelo ci mostra in fatti l’odio sempre crescente del Sinedrio, Abramo, [Dopo la festa dei Tabernacoli che ebbe luogo il terzo anno del suo ministero pubblico, Gesù pronunciò nel Tempio le parole del Vangelo d’oggi. Una parte dell’atrio era stata trasformata in deposito perché il Tempio non era ancora interamente ricostruito. I Giudei vi raccolsero delle pietre per lapidare Gesù che si nascose ai loro sguardi, la sua ora non essendo ancora, venuta.] il padre del popolo di Dio, aveva fermamente creduto alle promesse divine che gli annunciavano Cristo futuro e nel Limbo la sua anima che, avendo avuto fede in Gesù, non è stata colpita da morte eterna, si è rallegrata nel vedere il realizzarsi di queste promesse, con la venuta del Salvatore. I Giudei che avrebbero dovuto riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, più grande di Abramo e dei profeti perché  eterno, misconobbero il senso delle sue parole e, dopo averlo insultato trattandolo da invaso dal demonio e bestemmiatore, lo vollero lapidare (Vang.). « Non temere davanti ad essi, gli dice Dio in persona di Geremia, poiché io farò che tu non tema i loro volti. Poiché oggi Io ti ho reso come una città fortificata, come una colonna di ferro, come un muro di bronzo contro i re di Giuda, i suoi principi, i suoi sacerdoti ed il suo popolo. Essi combatteranno contro te, ma non prevarranno: perché Io sono con te, dice il Signore, per liberarti (I Notturno). « Io non cerco la mia gloria, dice Gesù; vi è qualcuno che la cerca e giudica » (Vang.). E per bocca del salmista, Egli continua: « Giudicami, Signore, e discerni la mia causa da quella della gente empia: liberami dall’uomo iniquo ed ingannatore ». Questo popolo «bugiardo» (Vang.) afferma Gesù, è il popolo Giudeo. « Liberami dai miei nemici, continua il Salmista; mi strapperai dalle mani dell’uomo iniquo » (Grad.). « Il Signore è giusto. Egli decapiterà i peccatori » (Tratto). Dio infatti, non permise agli uomini di mettere la mano su Gesù prima che la sua ora fosse giunta (Vang.) e quando l’ora dell’immolazione fu suonata, Egli strappò il Suo Figlio dalle mani dei malvagi, risuscitandolo. Questa morte e questa resurrezione erano state annunciate dai Profeti ed Isacco ne era stato il simbolo, allorché, mentre per ordine di Dio, stava per essere immolato da Abramo, suo padre, fu salvato da Dio stesso e sostituito da un ariete, che rappresentava l’Agnello di Dio sacrificato per il genere umano. Gesù doveva dunque nel suo primo avvento essere umiliato e soffrire; soltanto dopo Egli apparirà in tutta la Sua potenza: ma i Giudei, accecati dalle passioni, non ammisero che una sola venuta: quella che deve prodursi nella gloria e, scandalizzati dalla Croce di Gesù, lo respinsero. Per questo motivo, Dio li respinse a sua volta, mentre accolse con benevolenza coloro che hanno poste le loro speranze nella redenzione di Gesù, ed uniscono le loro sofferenze alle Sue. « Giustamente e per ispirazione dello Spirito Santo, dice S. Leone, i SS. Apostoli hanno ordinato digiuni più austeri durante questi giorni; affinché, con una comune partecipazione alla Croce di Cristo, noi pure facciamo qualche cosa che ci unisca a quello che Egli ha fatto per noi. Come dice l’Apostolo S. Paolo: « Se soffriamo con Lui, saremo anche glorificati con Lui ». Certa e sicura è l’attesa della promessa beatitudine là dove vi è partecipazione alla passione del Signore (IV Lezione). — La Stazione si tiene nella Basilica di S. Pietro, innalzata sull’area dove prima sorgeva il Circo di Nerone, dove il Principe degli Apostoli morì, come il suo Maestro, sopra una Croce. – In ricordo della Passione di Gesù, di cui si avvicina l’anniversario, pensiamo che, per risentirne gli effetti benefici, bisogna, come il Divin Maestro, saper soffrire persecuzioni per la giustizia, e quando, membri della «famiglia di Dio », siamo perseguitati con e come Gesù Cristo, chiediamo a Dio che « custodisca i nostri corpi e le nostre anime » (Or.).

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

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Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XLII: 1-2.

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea.

[Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Ps XLII:3

Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me de duxérunt et adduxérunt in montem sanctum tuum et in tabernácula tua.

[Manda la tua luce e la tua verità: esse mi guídino al tuo santo monte e ai tuoi tabernàcoli.]

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea.

[Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, familiam tuam propítius réspice: ut, te largiénte, regátur in córpore; et, te servánte, custodiátur in mente.

[Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, guarda propízio alla tua famiglia, affinché per bontà tua sia ben guidata quanto al corpo, e per grazia tua sia ben custodita quanto all’ànima.]

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebræos.

Hebr IX: 11-15

Fatres: Christus assístens Pontifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum, et cinis vítulæ aspérsus, inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ideo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem eárum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

“Fratelli: Cristo, essendo venuto come pontefice dei beni futuri, attraverso un tabernacolo più grande e più perfetto, non fatto da mano d’uomo, cioè non appartenente a questo mondo creato, e mediante non il sangue di capri e di vitelli, ma mediante il proprio sangue, entrò una volta per sempre nel santuario, avendo procurato una redenzione eterna. Poiché se il sangue dei capri e dei tori e l’aspersione con cenere di giovenca santifica gli immondi rispetto alla mondezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, il quale, mediante lo Spirito Santo, ha offerto se stesso immacolato a Dio, monderà la nostra coscienza dalle opere morte, perché serviamo al Dio vivente? E per questo Egli è il mediatore del nuovo testamento, affinché, essendo intervenuta la sua morte a redimere dalle trasgressioni commesse sotto il primo testamento, quelli che sono stati chiamati conseguono l’eterna eredità loro promessa, in Gesù Cristo Signor nostro”. (Ebr. IX, 11-15).

Ci avviciniamo ai grandi misteri della Settimana Santa. La Passione di N. S. Gesù Cristo e la nostra Redenzione — la Redenzione nostra per mezzo della Passione sua — mistero centrale della nostra fede. Il valore del sacrificio di N. S. per noi ce lo illumina S. Paolo nel passo dell’Epistola agli Ebrei che oggi la Chiesa ci fa leggere. Sono poche parole, misurate, contate, direbbe Dante, ciascuna delle quali ha il suo peso e merita la sua attenzione. Eccovele nel loro contesto. Se il sangue degli animali (nella vecchia Legge, nell’economia religiosa ch’essa rappresentava) santifica quelli che sono macchiati d’una purificazione carnale, quanto più non monderà la nostra coscienza il Sangue di Gesù Cristo, che per lo Spirito Santo offrì se stesso immacolato a Dio. Offrì Gesù se stesso. Il Suo fu un sacrificio volontario. Gesù ha voluto soffrire, ha voluto fare la volontà del Padre, fino alla morte; a costo della morte. Nessuno lo costrinse. Volle. Il profumo d’ogni nostro sacrificio, qualunque  esso sia, per qualunque causa (buona, s’intende) sia fatto, è nella sua spontaneità. La bellezza di questo fiore che si chiama il sacrificio è in questa sua freschezza di volontà. « Oblatus est quia ipse voluit: » le parole profetiche di Gesù meravigliosamente si adempiono. Il Vangelo sottolinea questa bella libertà in Gesù, nei momenti in cui le apparenze di una violenza usatagli sono più accentuate: quando gli sgherri credono di essere venuti nel Getzemani a prenderlo di viva forza, quando Pilato crede di avere lui nella sua mano onnipotente di funzionario dell’Impero, la vita di Gesù. Libertà intiera, completa, profonda. E offrì se stesso. Ah fratelli miei! che differenza dai redentori o salvatori umani! e che rilievo ne ridonda per questo Salvatore Divino! Quanto è facile e frequente immolare gli altri: pagare con moneta altrui, versare l’altrui sangue! – Gesù ha versato il suo ed ha ardentemente desiderato si spargesse questo solo. Lo ha versato tutto. Il Suo sacrificio è stato un olocausto, senza riserva. La generosità della spontaneità si compie colla generosità, starei per dire, quantitativa del dono. Dà sempre molto chi dà tutto. E offrì se stesso immacolato. Senza macchia. Le vittime, simboliche, del V. T. vittime materiali dovevano essere materialmente così: pure senza macchia, senza macchia l’agnello, senza difetto il bove. Gesù non ebbe peccati suoi da espiare; ed ecco perché ha potuto così largamente espiare i peccati altrui. Le sofferenze, anche del peccatore sono sante, sono, a lor modo, belle. Ma quel sacrifizio sa di espiazione personale. È una giustizia, non una generosità. Il martire delle cause più alte doveva essere purissimo, lo fu. Gesù è l’agnello immacolato. Ci ha tenuto in modo particolare. « Chi di voi potrà convincermi di colpa? » ha detto, ha gridato ai suoi avversari. E offrì, liberamente se stesso (generoso olocausto) immacolato a Dio per « Spiritum sanctum ». A Dio. La causa che Gesù è venuto a difendere, che ha difeso da buon soldato col valore e la morte, colla predicazione, la passione, col Vangelo, con la Croce, è la causa di Dio, la causa religiosa. Perché sulle rovine degli Dei falsi e bugiardi regnasse il Dio vero e vivo, perché sulle rovine della Sinagoga sorgesse la grande, universale Chiesa, per questo che significava la maggior gloria di Dio, la maggiore, la vera felicità del genere umano. Egli è caduto martire, Egli si è offerto vittima del più grande sacrificio del mondo.

 [G. Semeria: Le Epistole delle Domeniche O. N. M.- d’I. Roma-Milano, 1939 – nihil obs. P. De Ambrogi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Cur. Arch.]

Graduale

Ps CXLII: 9, 10

Eripe me, Dómine, de inimícis meis: doce me fácere voluntátem tuam

Ps XVII: 48-49

Liberátor meus, Dómine, de géntibus iracúndis: ab insurgéntibus in me exaltábis me: a viro iníquo erípies me.

Tractus

Ps CXXVIII: 1-4

Sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

Dicat nunc Israël: sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

Etenim non potuérunt mihi: supra dorsum meum fabricavérunt peccatóres.

V. Prolongavérunt iniquitátes suas: Dóminus justus cóncidit cervíces peccatórum.

[Mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.

Lo dica Israele: mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.

Ma non mi hanno vinto: i peccatori hanno fabbricato sopra le mie spalle.

Per lungo tempo mi hanno angariato: ma il Signore giusto schiaccerà i peccatori.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VIII: 46-59

“In illo témpore: Dicébat Jesus turbis Judæórum: Quis ex vobis árguet me de peccáto? Si veritátem dico vobis, quare non créditis mihi? Qui ex Deo est, verba Dei audit. Proptérea vos non audítis, quia ex Deo non estis. Respondérunt ergo Judæi et dixérunt ei: Nonne bene dícimus nos, quia Samaritánus es tu, et dæmónium habes? Respóndit Jesus: Ego dæmónium non hábeo, sed honorífico Patrem meum, et vos inhonorástis me. Ego autem non quæro glóriam meam: est, qui quærat et jdicet. Amen, amen, dico vobis: si quis sermónem meum serváverit, mortem non vidébit in ætérnum. Dixérunt ergo Judaei: Nunc cognóvimus, quia dæmónium habes. Abraham mórtuus est et Prophétæ; et tu dicis: Si quis sermónem meum serváverit, non gustábit mortem in ætérnum. Numquid tu major es patre nostro Abraham, qui mórtuus est? et Prophétæ mórtui sunt. Quem teípsum facis? Respóndit Jesus: Si ego glorífico meípsum, glória mea nihil est: est Pater meus, qui gloríficat me, quem vos dícitis, quia Deus vester est, et non cognovístis eum: ego autem novi eum: et si díxero, quia non scio eum, ero símilis vobis, mendax. Sed scio eum et sermónem ejus servo. Abraham pater vester exsultávit, ut vidéret diem meum: vidit, et gavísus est. Dixérunt ergo Judaei ad eum: Quinquagínta annos nondum habes, et Abraham vidísti? Dixit eis Jesus: Amen, amen, dico vobis, antequam Abraham fíeret, ego sum. Tulérunt ergo lápides, ut jácerent in eum: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo.” Laus tibi, Christe!

“In quel tempo disse Gesù alla turbe dei Giudei ed ai principi dei Sacerdoti: Chi di voi mi convincerà di peccato. Se vi dico la verità, per qual cagione non mi credete? Chi è da Dio, le parole di Dio ascolta. Voi per questo non le ascoltate, perché non siete da Dio. Gli risposero però i Giudei, e dissero: Non diciamo noi con ragione, che sei un Samaritano e un indemoniato? Rispose Gesù: Io non sono un indemoniato, ma onoro il Padre mio, e voi mi avete vituperato. Ma io non mi prendo pensiero della mia gloria; vi ha chi cura ne prende, e faranno vendetta. In verità, in verità vi dico: Chi custodirà i miei insegnamenti, non vedrà morte in eterno. Gli dissero pertanto i Giudei: Adesso riconosciamo che tu sei un indemoniato. Abramo morì, e i profeti; e tu dici: Chi custodirà i miei insegnamenti, non gusterà morte in eterno. Sei tu forse da più del padre nostro Abramo, il quale morì? e i profeti morirono. Chi pretendi tu di essere? Rispose Gesù: Se io glorifico me stesso, la mia gloria è un niente; è il Padre mio quello che mi glorifica, il quale voi dite che è vostro Dio. Ma non l’avete conosciuto: io sì, che lo conosco; e se dicessi che non lo conosco, sarei bugiardo come voi! Ma io conosco, o osservo le sue parole. Abramo, il padre vostro, sospirò di vedere questo mio giorno: lo vide, e ne tripudiò. Gli dissero però i Giudei: Tu non hai ancora cinquant’anni, e hai veduto Abramo? Disse loro Gesù: In verità, in verità vi dico: prima che fosse fatto Abramo, io sono. Diedero perciò di piglio a de’ sassi per tirarglieli: ma Gesù si nascose, e uscì dal tempio” (Jo. VIII, 46 59).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

NON ASPETTATE A CONVERTIRVI

Era il giorno dopo la festa dei Tabernacoli, in Gerusalemme. Sotto il cielo arioso di ottobre, già ferveva la vendemmia che avrebbe dato il vino all’ultima cena e nelle anime maligne dei Giudei già ferveva l’odio che avrebbe versato tutto il sangue del Figlio di Dio. Gesù era nel cortile della tesoreria del tempio. In giro a Lui stavano le tredici porte con davanti le tredici casse che l’elemosina delle recenti feste aveva colmato di monete: qualcuno, passando, vi gettava un cupido sguardo. Egli allora si proclamò l’unico tesoro del mondo. Gli si fece subito attorno un cerchio di Farisei, che Gesù andava man mano smascherando, fino a chiamarli figli del diavolo, bugiardi come il diavolo. Cominciò allora un dibattito serrato dall’una e dall’altra parte. Le parole del Maestro, — come acqua gelida sul ferro rovente — cadevano sugli ascoltatori che rispondevano aspro e selvaggio. « Chi di voi mi convincerà di peccato? ». Più volte l’avevano accusato di violare il sabato, di mangiare coi peccatori, di sovvertire il popolo, di operare i miracoli per incantamento del demonio; ma queste accuse nessuno poi era riuscito a sostenerle. Ma Gesù li sfidava: « Chi di voi è capace di mostrare in me anche un peccato solo, venga fuori! ». La sfida divina passò tremenda davanti alla loro faccia e nessuno la raccolse: tutti digrignavano in silenzio. « Se adunque — esclamò vittorioso Gesù — voi stessi ammettete che sono impeccabile, se ammettete voi stessi che dico la verità, perché non mi credete? ». Scoppiò un ululo rabbioso come di cani che abbaiassero insieme: « Samaritano! Eretico sei! Hai indosso il demonio! ». Non potendolo vincere con le ragioni, s’illudevano di abbatterlo con gli oltraggi Il Maestro lasciò placare il tumulto, e poi proseguì con voce lenta e serena. « Ingiuriatemi pure. Non me ne importa; a difendermi l’onore ci pensa il Padre mio, che voi dite essere vostro Dio. Lo dite; in realtà però non lo conoscete perché non ascoltate la sua parola. Io sì, che lo conosco; e se vi dicessi di non conoscerlo, sarei un bugiardo come voi. Lo conosco, sì; e osservo la sua parola ». Alcuni sussurravano: « Cosa pretende di essere costui? Forse da più del nostro padre Abramo? ». « Sappiate che Abramo, padre vostro, sospirò di vedere i giorni della mia vita, li vide e tripudiò ». Fu uno scroscio di risa. « Non hai neppure cinquant’anni, e dici di aver veduto Abramo? Non sai che è morto da migliaia d’anni?… ». Gesù approfittò della loro beffa, per proclamarsi solennemente Dio eterno, che sempre era e sempre sarà. « In verità, in verità, uditemi! Prima che Abramo venisse al mondo, io sono ». Non gli risposero più, non l’ingiuriarono più. Egli aveva bestemmiato e, per la legge di Mosè, bisognava lapidarlo. Si buttarono sulle pietre, ammassate nel cortile della tesoreria per la fabbrica del tempio, e si sollevarono a scagliarle. Gesù era sparito. – Questo è il Vangelo del cuor duro. Cristiani, guardate se non somigli a quello dei Giudei anche il vostro cuore. In queste settimane di quaresima Gesù ha parlato in mezzo a voi con numerose prediche: avete sentito che al mondo non c’è tesoro fuori che Lui; vi siete persuasi che Egli solo ha parole di verità e di vita eterna, e allora perché non gli credete? Perché non decidete di cambiar vita e di convertirvi? – In questi giorni Gesù batte al vostro cuore: vuol entrare trionfalmente nella Santa Comunione pasquale. E forse c’è qualcuno che non ha ancor deciso di accostarsi ai Sacramenti; forse c’è qualcuno che, anche l’anno scorso, a sassate ha fatto fuggire il Signore dalla propria anima. Udite la maledizione di S. Agostino: « Væ illis quorum cordibus lapideis Deus fugit! ». Sventura a quelli che dal loro cuore, duro come il macigno, scacciano Dio. « Il predicatore della quaresima — pensano alcuni — ha mille ragioni. Ma non è questo il tempo d’ascoltarle: più tardi, quando la morte sarà vicina, farò una buona confessione e a tutto rimedierò. Adesso son giovane, sono sano, sono ricco… » — Sei un Giudeo dal cuor duro! — risponderò io a chi la pensa così. Adesso in questa Pasqua, è il momento giusto di convertirci. Per carità, non rimandiamo al letto di morte, perché allora la conversione sarà difficile e da parte nostra e da parte di Dio. – 1. DA PARTE NOSTRA. Un levita che abitava sul fianco della montagna di Efraim andò a Betlem in casa del padre di sua moglie. Fu accolto allegramente e vi rimase tre giorni, mangiando e bevendo, senza fastidi. Al quarto giorno il levita si leva, che era ancor notte, e vuol partire. Ma il suocero, tirandolo per un braccio, gli disse: « Prendi un po’ di pane per ristorarti lo stomaco; poi te ne andrai ». Sedettero insieme a far colazione. Mentre mangiavano e bevevano, il padre della donna gli disse: « Te ne prego resta qua tutto oggi! Staremo allegri ». L’altro voleva andarsene e già era sull’uscio, quando il suocero con grandi istanze lo fece restare, presso di sé. Il mattino seguente, balza dal letto il levita prima dell’aurora; e appena si fa chiaro egli s’accinge a partire. « Vuoi fare la strada digiuno? — gli diceva il suocero. — Che furia è mai la tua? Fa’ colazione e poi partirai ». Ed anche questa volta non gli seppe resistere e sedette ancora a mangiare e a chiacchierare. Quando fece per andarsene davvero col suo servo e con la sua moglie, il sole già declinava, « Guarda! — gli diceva il suocero. — Il giorno è ormai vicino al tramonto, e l’ombre si allungano di già. Resta con me anche stasera; un’ora di più d’allegria non ti farà male. Domani, a tuo bell’agio, tornerai a casa ». Questa volta il levita era deciso, e con la donna e con il servo partì. Ahimè! Era già sera. E la notte oscura lo costrinse a fermarsi nella città di Gaba; dove fu assaltato da una compagnia di ribaldi che gli uccisero la moglie (Giudici, XIX). Il levita di Efraim è una figura di quei Cristiani che rimandano sempre, a sera, a domani, a dopodomani il loro proposito, fintanto che non sono più in tempo. Venit nox quando nemo potest operari. Prolungare la vostra conversione fino alla vecchiaia o fino al letto di morte, vi dico che è una pazza imprudenza. a) Anzitutto, chi vi assicura che la vostra fine non sarà improvvisa? Un muro che crolla, un fulmine, un treno, un’automobile, una polmonite violenta, un nonnulla vi può strappare nel baratro eterno proprio dal bel mezzo dei vostri giorni. Vi hanno forse detto che la morte discenderà da voi lentamente e vi chiamerà da lontano prima che arrivi? O forse credete d’essere altrettanti Giosuè da comandare al sole della vostra vita e dirgli: « Fermati, che non ho ancora vinto la mia battaglia? ». Ricordatevi che già sono contati anche i vostri minuti secondi: non uno di meno vi sarà dato da campare. b) E poi, supposto che il tempo di chiamare un prete al vostro capezzale vi sia accordato, la violenza del male che starà per uccidervi sarà così indulgente da lasciarvi fare le vostre cose per bene? Mio Dio, e che cosa può fare un’anima peccatrice in quei momenti quando gli spasimi ed i rimorsi tutta la travagliano? La mente si annebbia; la lingua si fa grossa; la memoria va in confusione; il cuore si spegne; e voi pretendete di convertirvi allora? c) Ed infine, tenete a mente che quelle difficoltà che ora ostacolano la vostra conversione non diminuiranno in punto di morte. Dopo una vita intera sciupata nelle impurità, come pretendere che pochi giorni di malattia vi abbiano a rendere casti? I ricordi, i fantasmi, le persone stesse dei vostri peccati attornieranno il letto dell’agonia con più lusinghe; Il demonio non abbandonerà la sua preda al momento buono. La santa Scrittura lo dice: « L’ossa dell’impudico saranno riempite coi peccati della sua giovinezza, e nella fossa le sue disonestà scenderanno a dormire con lui » (Giobbe, XX, 11). Fate pure il caso di un avaro che ha faticosamente ammassato danaro e roba per vie ingiuste e odiose. Dove troverà la forza d’imporre agli eredi quelle restituzioni che egli non si è mai deciso a fare, quando lo poteva senza disonore alcuno? Anche questo è detto nella santa Scrittura: « L’avaro con la sua anima vomiterà le ricchezze inghiottite; il Signore gliele strapperà dal suo seno » (Giobbe, XX, 15). Cor durum male habebit in novissimo die. Non illudetevi: il cuore duro che non si lascia ammollire neppure dalla santa Pasqua, troverà sciagura nell’ultimo giorno (Eccl., III, 27). – 2. DA PARTE DI DIO. Antioco il Re, fuggiasco e vinto, cadde ammalato per male interno e per cupa malinconia. Le cose non erano andate come egli aveva previsto: allora, smontato dalla sua grande superbia, conobbe il castigo di Dio che lo faceva morire. Chiamò dunque tutti i suoi amici e disse loro: « Il sonno se n’è fuggito dagli occhi miei. Sono pieno d’acre amarezza. Oh in quale tribolazione sono venuto mai! Io che ero così lieto e riverito nella mia potenza! Adesso ripenso ai mali da me fatti a Gerusalemme, da dove ricchezze d’oro e d’argento e di bronzo asportai, e fin anche la gente ho disperso di là »; e cominciò a far propositi: dichiarò libere le città che voleva radere al suolo per farne sepolcro d’ammucchiati cadaveri; promise di dare la cittadinanza a tutti gli Ebrei mentre prima li voleva uccidere ed insepolti lasciarli ai pasti degli uccelli e delle fiere; pensò d’offrire arredi preziosi e molte rendite al tempio santo già da lui depredato.  Ma dopo d’aver narrato tutto questo, la Storia Sacra aggiunge una frase che mette addosso un brivido di paura: « Così dunque quello scellerato pregava il Signore, dal quale però non avrebbe ricevuto misericordia » (II Macc., 1X, 13). Disgraziato Antioco! era troppo tardi. Quel suo pentimento fatto solo davanti alla minaccia della morte non era sincero. Perciò io mi rivolgo a quei Cristiani di cuor duro, che le prediche quaresimali non valgono a disgelare, e dico: « Anche per voi il Signore ha lasciato scritto l’esempio di Antioco. Chi vi assicura che Dio sarà a vostra disposizione quando lo cercherete? ». So bene che la Bontà infinita ha così larghe braccia che accoglie chiunque a lei si rivolga per pentimento. Ma so pure che per pentirsi ci vuol la grazia del Signore, e chi vi ha detto che questa grazia vi sarà accordata in punto di morte? La misericordia di Dio ha un limite: questo limite può essere dopo dieci, dopo cento peccati e può essere dopo questa quaresima. Noi non lo sappiamo; sappiamo però che Gesù a quei Giudei dal cuor duro che lo misero in fuga a sassate, ha detto così: « Io me ne vado. Mi cercherete un giorno, ma invano: dovrete morire nel vostro peccato. (Giov., VIII, 21). – Questa è la domenica di Passione. Ormai, da oggi per quattordici giorni, tutta la liturgia non ha che una parola sola: la passione del Salvatore. Le prediche non parlano che di essa; i canti, le preghiere, la santa Messa non sono che un gemere lungo sui dolori del nostro Dio; nella chiesa ogni immagine, ancor che devota, è velata, sola campeggia la croce. Recolitur memoria passionis eius. Guai all’uomo peccatore che senza un fremito, senza un proposito fermo, senza un rimorso efficace guarderà alla morte di Gesù Cristo. Verrà anche per lui il momento di morire; fallito ogni rimedio, gli metteranno nelle mani già l’ultimo l’unico rimedio, il Crocifisso. Ma il Crocifisso lo guarderà con occhi minacciosi e gli dirà: « Tu non hai avuto pietà nessuna per la mia passione e per la mia morte e nei giorni melanconici della quaresima te ne ridevi di me e dei miei Sacramenti. Ora tocca a me ridere della tua morte ». Ego quoque in interitu vestro ridebo subsannabo (Prov., I, 26). — LA PAROLA DI DIO. Poche sono le pagine della storia che possono suscitare in noi tanta pietà, come quella che narra la fine di Luigi XVI. L’infelice re, sorpreso dalla rivoluzione mentre fuggiva, fu costretto a salire la ghigliottina. Dall’alto del palco ferale, pallido come se già lo coprisse l’ala della morte, guardò tutto il suo popolo e desiderò di porger il saluto estremo. « Popolo mio… ». Ma i tamburi rullarono disperatamente a seppellire la voce. Non lo volevano sentire. Una scena simile avvenne attorno a Gesù, nei giorni in cui viveva in Palestina. … Non fremiamo di sdegno contro i Giudei, perché di gente che non vuol ascoltare la parola di Dio ce n’è anche oggi, e non poca, e tra gli stessi Cristiani. E se non è col rullo dei tamburi, se non coi sassi, si sono trovati però più facili ripieghi per non essere disturbati dalla voce salutare del Sacerdote che annuncia la parola di Dio. Consideriamo noi invece l’importanza della parola di Dio e i motivi per cui la parola divina è resa infruttuosa. Lo spirito Santo diffonda il lume nella nostra mente e l’amore nel nostro cuore, poiché si tratta di valorizzare la sua parola.  – LA PAROLA DI DIO È ONNIPOTENTE. Il grande Salomone chiamò la parola di Dio «omnipotens sermo ». E disse egregiamente: a) La parola di Dio è onnipotente nell’ordine naturale. In principio, quando ancora e cielo e terra non erano che un ammasso informe e tenebroso come la bocca d’un abisso, echeggiò la parola di Dio. «Sia fatta la luce! » E fuori dal buio balzò magnifica la luce a rischiarare il giovane mondo. E così, dietro al grido di Dio che le chiamava fuori dal nulla, uscirono tutte le creature, e il velo azzurro del firmamento e le acque e la terra: e nel firmamento gli astri; e nelle acque i pesci; e sulla terra le piante con la virtù di produrre il seme, e gli uccelli, e l’uomo. È questa parola che un giorno placò la furia del mar di Genezaret e la raffica di vento che minacciava di travolgere una barca con dodici pescatori. È questa parola che snodò la lingua e riaprì l’udito ad un giovane sordo e muto. È per la virtù di questa parola che il paralitico, da trentotto anni languente sotto il portico della piscina, poté rizzarsi ancora, prendersi il pagliericcio e camminare verso casa sua. A questa parola, i poveri lebbrosi sentivano rifarsi i tessuti corrosi e piagati, sentivano una nuova onda di vita risalir per le vene. E quando questa parola echeggiò imperante sulla tomba d’un amico, perfin la morte inesorabile dovette ascoltarla: e il morto quatriduano balzò fuori alla vita. b) Onnipotente è questa parola nell’ordine soprannaturale. Gesù trova un uomo immerso negli affari e nelle esosità, che — forse — non aveva mai saputo sollevare d’un palmo il suo cuore sopra l’interesse materiale e gli disse: « Veni, sequere me! ». Quell’uomo è sconvolto: si sente un altro uomo e comincia ad amare ciò che prima aveva odiato, ad odiare ciò che prima aveva amato. C’era una donna, scandalo della città. Il suo cuore era in tumulto: la passione impura l’aveva bruciacchiato, l’aveva lordato come nelle brutture d’un trogolo, ed ora lo sbatteva come un vento di furiosa tempesta. Le dice Gesù: « Donna, va in pace e non peccare ancora ». E quel cuore si spense di ogni fuoco terreno e brutale e solo arse d’un amore purificante verso il Signore. E divenne santa e meritò di veder Gesù appena risorto. « Vox Domini confrigentis cedros » (Ps., XXVIII): è la voce di Dio come una scure che atterra ogni superbia degli uomini. « Vox Domini intercidentis flammam ignis »: è la voce di Dio come un’onda che sgorga da recondite scaturigini a spegnere nei cuori la fiamma delle passioni. « Vox Domini concutientis solitudinem » : è la voce di Dio che sa scuotere l’uomo intorpidito da lunghi anni nella colpa. «Vox Domini, in virtute! Vox Domini in magnificentia! ». c) Non crediate però che la parola di Dio diminuisca di virtù se a noi giunge attraverso la voce di un uomo. Appena uscì dalla bocca di Giosuè, il sole si arrestò nella sua corsa di fuoco. Appena uscì dal labbro di Mosè, le acque si divisero, ergendosi come una muraglia; e tutto il popolo traversò il Mar Rosso. Adoperata da Elia, il cielo si aperse o chiuse. Annunciata da pochi pescatori, si fece udire in tutto il mondo, fortificò i martiri nell’ora suprema, dissipò i falsi sillogismi dei filosofi, rovesciò la lussuria di Roma, e innalzò sul mondo rigenerato la purezza della croce. La parola di Dio non perde la sua efficacia anche se annunciata da indegni, indegnamente: ella è parola di Dio e prescinde dall’ingegno e dalla santità dei predicatori: opera per virtù propria come i Sacramenti, anzi — sotto questo aspetto – meglio dei Sacramenti, perché in questi si richiede alla validità l’intenzione del ministro, mentre la predicazione ne prescinde. Ecco la virtù della parola di Dio! Ma perché allora ai giorni nostri, in cui ella è annunciata così largamente, non produce quei mirabili effetti? Perché si ascolta male, o peggio, perché non si ascolta più. – 2. RESISTENZA UMANA ALLA PAROLA DIVINA. a) Gli uomini ascoltano male la parola di Dio. Al tempo delle eresie, Dio suscitò un magnifico annunciatore del Vangelo: S. Antonio da Padova. La gente accorreva da ogni parte al suo passaggio, così che le chiese erano troppo anguste, ed il Santo doveva predicare nelle piazze. Il demonio non poté darsi pace. E talvolta, per distrarre gli uditori, incendiava una casa vicina, tal altra faceva comparire un’invasione di lucertole che strisciavano sui piedi degli ascoltanti. Un giorno, mentre, tutti tacevano e ascoltavano con molto frutto, ecco sopraggiungere numerosi cavalieri a tutta corsa: e distribuivano lettere e plichi alle donne. E tutte incuriosite aprono e leggono e intanto perdono il frutto della divina parola. – Non crediate che il nemico delle anime oggi stia tranquillo: solo che non ha più bisogno di ricorrere a mezzi straordinari, perché i Cristiani troppo facilmente sono disposti ad abusare delle parole di Dio. Alcuni ascoltano la parola di Dio, come fosse parola dell’uomo. Ricercano i pensieri peregrini, e l’armoniosità dello stile che blandisca l’orecchio. Altri l’ascoltano come parola di Dio, ma quello che ricevono, tutto distribuiscono: « Questo accenno è proprio per la tal persona… questo difetto è caratteristico per quell’altra… oh, se ci fosse il tale a sentir queste parole! quadrano per lui… E per sé non tengono nulla: mentre tutta la predica era per loro. Altri ascoltano con spirito di malignità: e vanno a cercare in ogni frase delle maligne o personali allusioni. Altri l’ascoltano con spirito di mondanità: e mentre il ministro di Dio parla, essi volgono gli occhi in giro per vedere ed essere veduti. Altri ancora sembrano ascoltarla: ma il loro pensiero va e va… dietro, forse, dietro ad invisibili dispacci portati dagli invisibili cavalieri del demonio. Altri infine l’ascoltano, ma con mala voglia, con sbadigli e pisolini. b) Molti non ascoltano più la parola di Dio. « Non di solo pane vive l’uomo: ma di ogni parola che viene da Dio ». Dunque la parola di Dio è il nostro cibo sostanziale, e chi lo rifiuta si condanna a morire. Qualche pomeriggio di primavera, nella dolce stagione in cui pare che un palpito muovo di vita trascorra, fluttuando, nel mondo, vi accadde senza dubbio di vedere, seduto sulla soglia di casa, o per qualche viottolo solitario, qualche giovane malato di tisi. Vi cammina dolorosamente davanti: ha negli occhi dilatati l’ombra misteriosa della morte, ha le guance scarne, ha un tossire secco come colpetti all’uscio di uno che chiede d’entrare. Il medico scrolla la testa e dice: « Non vedrà le spighe mature. E il padre con un singhiozzo lacerante: «Ma perché, dottore?… ». « Non vedete? il cibo gli fa nausea: non mangia più ». E fa spavento pensare come ai nostri tempi, quest’etisia dell’anima fa stragi in mezzo agli uomini. Entrate in una chiesa, nei pomeriggi delle domeniche durante la spiegazione della dottrina: che solitudine! Pochi vecchi tremolanti e panche vuote. Ma perché? Se proprio volessimo indagare fino a fondo lo troveremmo il motivo: in alcuni un attacco vergognoso ai piaceri del senso, in altri l’insaziabile ingordigia dei beni terreni. Come possono costoro gustare una parola che è tutta austerità ed evangelica povertà? – Il re Artaserse si nutriva con cibi squisitissimi. Ma venuta la guerra, sconfitto, fuggiva ramingo ed affamato per le montagne. Vide una capanna: bussò ma per la sua fame trovò solo un ruvido pan d’orzo. Divorando però lo trovò gustosissimo e cominciò a lamentarsi con gli dei che fino a quel giorno gli avevano tenuto nascosto quel delizioso piacere. Così sarà di noi: quando avremo ascoltato con fede, con umiltà, con docilità la parola di Dio, vi sentiremo tanta dolcezza e tanto sapore spirituale, da esclamare con meraviglia: « Come mai non mi ero accorto prima? ».

IL CREDO

 Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 17, 107

Confitébor tibi, Dómine, in toto corde meo: retríbue servo tuo: vivam, et custódiam sermónes tuos: vivífica me secúndum verbum tuum, Dómine.

[Ti glorífico, o Signore, con tutto il mio cuore: concedi al tuo servo: che io viva e metta in pràtica la tua parola: dònami la vita secondo la tua parola.]

Secreta

Hæc múnera, quaesumus Dómine, ei víncula nostræ pravitátis absólvant, et tuæ nobis misericórdiæ dona concílient.

[Ti preghiamo, o Signore, perché questi doni ci líberino dalle catene della nostra perversità e ci otténgano i frutti della tua misericórdia.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

 Communio

1 Cor XI: 24, 25

Hoc corpus, quod pro vobis tradétur: hic calix novi Testaménti est in meo sánguine, dicit Dóminus: hoc fácite, quotiescúmque súmitis, in meam commemoratiónem.

[Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi: questo càlice è il nuovo patto nel mio sangue, dice il Signore: tutte le volte che ne berrete, fàtelo in mia memoria.]

Postcommunio

Orémus.

Adésto nobis, Dómine, Deus noster: et, quos tuis mystériis recreásti, perpétuis defénde subsidiis.

[Assístici, o Signore Dio nostro: e difendi incessantemente col tuo aiuto coloro che hai ravvivato per mezzo dei tuoi misteri.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

QUARESIMALE (XXVIII)

QUARESIMALE (XXVIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMAOTTAVA
Nella Domenica di Passione.


Il Peccatore ha per nemici il Cielo, la Terra, l’inferno. È
nemico crudele di sé stesso, nemico di Gesù Cristo, ha per
nemico Iddio.

Quis ex vobis arguet me de peccato. San Gio: cap. 8.


È legge stabilita tra’ Persiani, che morto il loro re, si viva per cinque giorni senza legge; onde è, che cresciute le insolenze, ne seguono con mille inconvenienti, anche spietati omicidi. Ciò si permette per far conoscere al popolo la necessità d’un capo, e le gran calamità in cui si vive, mentre si vive senza legge. È legge stabilita nel cuore de’ peccatori vivere senza capo, privo di Dio, quantunque vedano che da ciò ne derivino rovine al corpo, precipizi all’anima. Anzi pare che vadano dicendo: Quis ex vobis arguet me? E che cosa è il peccato? Mio Redentore, e che cosa posso far io perché ne conoscano la gravezza? Altro non posso fare, che rivoltarmi verso di loro e con le parole d’Eliseo a quei facinorosi ladroni, dirvi: aperi Domine oculos istorum: Deh aprite gli occhi a chi vive cieco, e non conosce ciò che sia peccato mortale … Sapete ciò, che vuol dire commettere un peccato mortale? Vuol dire tirarsi addosso l’inimicizia più fiera che possa mai darsi. Sapete quello vuol dire vuol dire tirarsi addosso l’inimicizia del Cielo, della terra dell’inferno; più, vuol dire esser nemico spietato di sé stesso … peggio: esser nemico di Dio. V’è più male? certo, vuol dire avere per nemico Dio, e son da capo … Non v’ha dubbio, che chi commette un peccato mortale tira addosso la inimicizia di tutte le creature Celesti, poiché al pari del figliuol prodigo, dopo aver gettato via tutti i tesori della Grazia divina, ed essersi ridotto ad un’estrema mendicità, poté dire col medesimo peccavi in Cœlum, ho peccato contro del Cielo; e con aver peccato contro del Cielo vi siete nemicato quanti sono colassù Angeli e Beati. E che non potete temere, mentre tutti i Grandi del Paradiso vi son contrari? Né vi crediate, che il loro sdegno contro di voi sia ordinario: perché siccome in Cielo si fa straordinaria festa per la conversione di un peccatore: Gaudium erit in Cœlo super uno peccatore pœnitentiam agente… ogni ragion vuole, che tutta quella allegrezza che si fa in Cielo per un peccatore pentito, tutta si converta in odio contro di quell’indegno che oltraggia il Cielo con nuovi peccati. Ecco, dunque, che avete aperta nimicizia col Cielo, che vale a dire con gli Angeli e con i Santi. E tu, o peccatore, a questa verità non ti riscuoti? Come è possibile che tu voglia continuare ad aver nemici, quanti sono Beati in Paradiso, e perciò voglia continuare in quell’odio, in quell’interesse, in quella maledetta inimicizia? Ah misero peccatore! Hai inimicizia col Cielo: che farai? Chiama, se puoi, a tua difesa la terra; appunto non puoi, perché anche con la terra, con gli uomini hai aperta nimicizia per il peccato mortale, che covi in seno. Che il peccatore, miei UU., sia nemico di tutti gli uomini, che stanno sopra la terra, basta riflettere quanto di male faccia all’uomo il peccato. Tutte le disgrazie, tutte le miserie, tutte le infermità, tutti i dolori, tutte le agonie, tutti gli spasimi, tutte le carestie, tutti i fulmini, i terremoti, le pestilenze, le guerre, le morti, è di fede, miei UU., son vere figlie del peccato mortale. Dunque, il peccatore commettendo i peccati, arma tutte queste miserie contro degli uomini e così si rende loro nemico. Il seguente racconto vi faccia toccar con mano quanta nimicizia abbia il peccatore con gli uomini. Riferisce Sofronio d’una certa donna per nome Maria, la quale non contenta di essere iniquamente vissuta nella propria patria, se ne partì per portarsi in lontani paesi a far pubblico mercato di se stessa. Montò per tanto sopra di una nave presa alla vela, quand’ecco che il legno, quantunque avesse il vento in poppa, si ferma immobile a guisa di scoglio. Attoniti del successo, i naviganti ricorrono alle orazioni, ai voti, ed odono una voce del Cielo che grida: getta in mare Maria, gettala, gettala. Si cerca Maria, che più disobbediente di Giona mette in pericolo tutto il vascello, e ritrovatala si getta non in mare, ma si ripone sul battello per assicurarsi del volere divino; volete altro, appena la meschina fu posta su quel picciolo legno che girando tre volte intorno intorno, s’affondò, quasi non potesse reggere al peso delle colpe della sfortunata femmina. O quante volte si rinnovano queste prove benché tanto sensibili però male intese. Quella casa ha un capo molto assegnato e diligente, eppure le possessioni non rendono; i debiti s’aumentano, insorgono le liti, le malattie, le disgrazie tutte par che l’abbiano presa di mira. Sapete perché? Perché in quella famiglia v’è qualche peccatore: qualche figlio lascivo, qualche servo bestemmiatore, qualche donna impudica. O se si potesse sgravare quella casa di questo peso, voi vedreste cessare le liti, le nimicizie, le malattie. Finché tu continuerai in peccato, cresceranno le miserie, non saranno fertili i poderi, non corrisponderanno i censi: perché il peccato è nemico di tutte le creature, sempre le travagliata ed affligge. È indubitato che i peccati d’un solo talora mandano in rovina le famiglie e popoli interi. Di tanto ci assicura Origene. Uno peccante, ira super omnem populum venit. Che dissi Origene? Le Sacre Carte, Iddio. Portatevi in Giosuè al settimo, e sentitene il fatto. Avevano gl’Israeliti espugnata con rara felicità la città di Gerico, e però volendo seguire animosi il corso delle vittorie, s’incamminarono alla conquista di Hai, città senza paragone inferiore a Gerico e di grandezza e di forze: ma che? Giunti colà a fronte dell’inimico, furono sì vergognosamente respinti, che gli convenne voltar le spalle. A questa inaspettata fuga, immaginatevi che nel popolo si sollevò un bisbiglio non ordinario ed un pianto universale non sapendosi a che attribuir l’avergli Iddio sottratta la sua protezione; mentre dallo stesso Iddio erano colà stati chiamati per mieter palme e per raccogliere allori vittoriosi. Per indagarne dunque la cagione, ecco che Giosuè prostrato avanti all’Arca, prega, piange, si umilia ed intende che la cagione di tanta sciagura era stato un peccato commesso non già da tutti, ma da uno solo, e fu appunto quello che commise l’infelice soldato Acan, allorché vedendo andare a fuoco ed a fiamme Gerico, veduta una ricca sopravveste di porpora tra le spoglie, se ne invaghi’, la tolse contro gli ordini dati dal capitano, la preservò dall’incendio, e la nascose sotto il padiglione. Or per questo malfattore, benché occulto, Iddio tanto si adirò, che protestò di abbandonarli in eterno, se tutti non si univano a levarlo di vita: non ero ultra vobiscum, nisi conteretis eum: tanto è vero, soggiunge qui Salviano, che leditur scelere personali causa cunctorum. – Disgraziato peccatore, come nemico del Cielo e della terra, sei in odio agli Angeli, a’ Santi, ed a tutto il mondo, e sei sì infelice, che hai l’odio insino de’ diavoli: ma come può essere, che il peccatore sia nemico del diavolo, mentre il diavolo altro non brama se non che sia peccatore? È vero che il diavolo brama che il peccatore sia peccatore, e perciò lo tenta e gode che pecchi. Ma ne gode per quel male che l’uomo peccando fa a se stesso, dove che dall’altra parte gli dispiace il suo peccare, perché quel suo peccato, dovrà esser una volta allo stesso diavolo di maggior tormento, e sarà allora quando il peccatore sarà all’inferno. Volete la ragione, perché sarà di maggiore tormento al diavolo? Eccola: molti carboni insieme fanno più fuoco, e più si bruciano l’uno con l’altro. Così sarà nell’inferno: quanti più dannati vi saranno, tanto più tormenteranno i diavoli ed ecco il peccatore nemico anche de’ diavoli; perché tormentandoli diverranno loro nemici. E per non esser parziali di niuno, eccolo nemico anco de’ dannati stessi per la medesima ragione, perché l’uno con l’altro a guisa di tizzoni accenderanno maggiormente quelle fiamme nelle quali stanno sepolti: anzi i dannati saranno nemici più arrabbiati de’ diavoli, perché non avranno l’acerbo conforto tra loro tormenti d’esser carnefici, come l’hanno i demoni. Sebbene, come potrò credere, che il peccatore stimi questa inimicizia, mentre egli peccando diviene nemico ancora di sé medesimo? Si può sentir di peggio esser nemico di sé stesso con fare a se stesso ogni gran male. Sì, i peccatori sono nemici di sé stessi. Così li chiama Tobia: Hostes sunt animæ suæ. Sentite: un nemico, per quanto sia crudele, non vi spoglia mai d’altro che o delle ricchezze, o della libertà, o della vita: ed appunto di tutti tre questi beni spogliano i peccatori con i peccati l’anima loro. La spogliano di ricchezze, togliendole il bel tesoro della grazia, di cui un grado solo val tanto che se il mondo tutto fosse d’oro e di diamanti, non sarebbe sì ricco. La spogliano di tutti i meriti della buona vita passata. Sicché sentite ed inorridite. Quanto per l’addietro operaste di virtuoso, di cristiano, di pio, tutto perdete col peccato mortale; tanto denunciò Iddio per Ezechiele: Si avertit se justus a justitia sua, et fecerit iniquitatem secundum omnes abominationes, quas operari solet impius, numquid vivet? Signori no che non vivet. Ma che? omnes justitia ejus, quas fecerat non recordabuntur. Oh protesta da far raccapricciare anche un’anima di macigno! Tutte quelle opere buone, dice Iddio, le quali per l’addietro avete fatto, rimangono già sepolte in sì alta dimenticanza, che se una morte improvvisa vi togliesse dal mondo, mai mai per tutta l’eternità ne godreste alcun premio. Chi mai, Cristiani miei, potrebbe crederlo? Dunque, dirò io: se taluno di voi per l’addietro avesse, come un Domenico Loricato, afflitte sempre con stranissime guise di penitenze, le proprie carni, sicché le avesse ogni dì sminuite con digiuni, piagate con cilici, lacerate con flagelli, sbranate con catene ed ora morisse in quel peccato del quale a sorte è reo … cotante austerità non gli gioverebbero niente niente. Dunque, se taluno per l’addietro avesse qual altra Melania Romana distribuito in alimento de’ poveri tutte le sue sostanze, sicché avesse continuamente vestito i nudi, ricomprati schiavi, serviti infermi, sostentati i pupilli, ed ora morisse in quel peccato mortale: tante limosine non gli frutterebbero niente, niente, niente. E se voi tutti miei UU., aveste convertiti a Cristo più popoli con Francesco Xaverio; se aveste superato un’Alessio nel disprezzo del mondo; un Francesco d’Assisi nella povertà, umiltà, e poi moriste in peccato mortale: niente vi gioverebbero tante virtù, niente tanti meriti, niente tante penitenze, niente tanta santità? No, omnes justitiæ ejus, quas fecerat non recordabuntur. Ah peccatori, quanto siete nemici di voi stessi, mentre spogliate l’anima vostra di sì ricchi tesori; né contenti di quanto avete, le togliete la libertà; vendendola al diavolo, per un capriccio o d’odio o di senso o d’interesse: venundati sunt, ut facerent malum. E finalmente passano avanti con darle cruda morte. E che altro è alla fine il peccato mortale, che la morte dell’anima; mentre le toglie Iddio, che è la sua vita? Anima emissa, dice Agostino, mors corporis: Deus amissus, mors anima. Se si parte l’anima dal corpo … muore il corpo, se si parte Iddio dall’anima, ecco morta l’anima; che resta al corpo, quando è uscita l’anima? Il sepolcro! Che resta all’anima perduto Iddio? L’Inferno. Come dunque può negarsi che i peccatori non siano nemici di se stessi? Si, si, hostes sunt animæ fuæ, e nemici tali che tolgono tal ricchezza, tal libertà, tal vita. Qual fiera, qual tigre, qual pantera fu mai sì crudele contro se stessa, che giungesse a perdere volontariamente la libertà, dandosi nelle mani de’ cacciatori? E qual mai si trovò, che da se stessa, si svenasse, si uccidesse, si desse la morte? Solo il peccatore è quella fiera così spietata contro di sé. Miseri peccatori, nemici crudeli di voi stessi, mentre a voi stessi causate il maggior de’ mali che possa mai accadervi .. Sentite: Caligola il più fiero mostro che regnasse giammai fra gli uomini, desiderava che tutto il popolo Romano si riducesse ad avere una sola testa per poterla troncare in un sol colpo; io per me mi persuado però, che quando bene avesse potuto sortire effetto il desiderio bestiale d’un tal tiranno in alzare la mano a sì gran taglio, si sarebbe commosso, quel cuor di pietra, si farebbe ammollito; e riposta nel fodero la spada, benché assettata di sangue umano, non avrebbe saputo arrivare tant’oltre. Or miei uditori, tutte le volte, che acconsentite al peccato mortale fate di voi stessi scempio più atroce: privando di vita l’anima vostra, anima quæ peccaverit ipsa morietur. E tuttavia non tremate? E non solamente non vi cadde di mano il ferro per l’alto orrore; ma eseguite un colpo sì lagrimevole e si funesto! Passo avanti e dico che fate un scempio sì grande di voi stessi, che se tornasse di nuovo ad inondar il mondo nel diluvio, la strage di tutti gli uomini ora viventi sarebbe per se stessa infinitamente più leggera di quel che sia la morte che voi date all’anima vostra col peccato mortale, giacché la vita soprannaturale d’un’anima val più che non vale la vita naturale di tutti gli uomini possibili. Sentite se siete veramente nemici spietati di voi stessi. Se Dio desse licenza, ma senza limitazione, non ad un solo demonio, ma a tutti di rivoltarsi contro di voi ed essi a gara vi facessero quel più di male che potessero; sappiate che tutti insieme non potrebbero mai farvi tanto di male, quanto da voi stessi ve ne fate peccando. Dirò di più: se la Divina Giustizia con la spada sua onnipotente, volesse sopra di voi scaricare un colpo degno del suo braccio divino, certo con tutta la sua forza non potrebbe fare all’anima vostra quel male che voi stessi fate con acconsentire ad un peccato mortale; perché alla fine non potrebbe farvi altro male, che male di pena, là dove a voi stessi fate maggior male, perché è male di colpa. Oh Dio! quanto mai deve giubilare l’inferno, allorché voi peccate? Mentre vede che fate a voi stessi quel male che non può Egli con la sua onnipotenza. Chi può dunque negarvi il titolo che vi dà lo Spirito Santo di nemici delle anime vostre qui faciunt peccatum hostes sunt animæ suæ. Ti compatisco, o peccatore, perché ti ravviso nemico di te stesso, ma molto più, perché sei, oh Dio! Nemico di Dio … Ecco la figura, che di te mi rappresenta il santo Giobbe: mi ti fa vedere armato da capo a piedi col collo gonfio, e superbo, con la mano stesa in atto di voler combattere con l’onnipotenza: tetendit adversus Deum manum suam: contra Omnipotentem roboratus est. Non vi è pertanto perfezione in Dio, contro di cui non si armi con la sua iniquità il peccatore. Disprezza l’onnipotenza, vilipende la Sapienza, non teme la giustizia, conculca la Divina Misericordia. Ecco, ecco a quello che vi conduce quella passione di odio, d’amore d’interesse, ecco gli scogli ne’ quali date, mentre siete irriverenti nelle Chiese, disprezzatori de’ parenti, mormoratori, bestemmiatori; voi con oltraggiare le perfezioni Divine siete simili a quegli sciocchi popoli dichiarati nemici del sole, giacché contro di lui lanciavano nembi di saette. Certo non arrivavano a ferirlo; ciò però non procedeva dalla loro volontà, ma dalla sublimità del sole superiore a qualunque dardo; del resto, se il sole fosse stato loro vicino, e fosse stato capace di ferite mortali, chi non vede che, per quanto stava a quei perfidia, sarebbe stato ferito così fate voi, peccatori: per quanto è dal canto vostro, procurate di ferire Dio; e se non vi riesce, non è che resti dalla vostra malizia; resta perché Egli è quel Dio che è. Chi, dunque, negherà che veramente non siate nemici di Dio, sicché lo siete peccatori indegni, peccatrici scellerate; e giacché non volete confessarvi tali con la lingua, ecco che vi svergogno, e vi paleso per nemici di Dio con l’autentica irrefragabile de’ vostri fatti; e quel che è peggio non siete stati nemici di Dio con odio rimesso e moderato, ma con odio il più spietato, il più crudele, il più barbaro, che possa aversi. Ecco, ecco l’autentica della vostra inimicizia. Fissate gli occhi in questo Cristo, e negate se potete, che non siate nemici di Dio. Domandagli, o peccatore, un poco col Profeta: quid sunt plage iste? Che piaghe son queste, che avete nella vostra vita? E sentirai risponderti: queste son piaghe fattemi da’ peccatori miei nemici, queste piaghe de’ piedi me le facesti crudele quando ti portasti a quei balli, a quelle veglie, a quei corsi, a quei festini, a quelle conversazioni dalle quali sempre ne uscivi col peccato mortale. Queste piaghe delle mani me le hanno fatte quei memoriali indegni, che stendesti, quelle lettere cieche che mandasti a danno ora di questo, or di quello; quelle carte, che maneggiasti con tante frodi, con tant’inganni, con tanto pregiudizio della famiglia. Tu mi ponesti la corona di spine nelle tempie quando macchinasti la rovina del tuo prossimo; quando ordisti nella mente tua quelle insidie alla onestà di quella donzella, all’onore di quella maritata. Tu mi porgesti fiele per bevanda, allorché ti lasciasti uscir di bocca tanti giuramenti, tanti spergiuri, tante laidezze, tante bestemmie, tante mormorazioni; tu in somma, da vero nemico mi hai aperto questo costato, quando nel tuo cuore covasti gli odii, i rancori, le inimicizie; quando sì lungamente vi racchiudesti gli amori indegni? Tu insomma m’hai posto in questa croce con le tue scelleraggini; e con le tue indegnità mi ci hai fatto morire. Sarai contento; son morto per le tue mani; eppure ad ogni modo altro non bramo, che darti vita. Voi inorridite a questo mio parlare? Vi ho mostrato la nemicizia, che avete avuto con Dio, mentre gli avete ucciso il Figlio, e pur questo è nulla a paragone di quello che rimane. Voi siete nemici di Dio: gran parola! E pure è il lampo del tuono, è la folgore del fulmine, ecco il colpo. Atterritevi … ecco la saetta. Voi nemici di Dio; ecco la conseguenza, e Iddio è vostro nemico. Iddio è tuo nemico, va’ dove vuoi, che non hai sicurezza. Hai per nemico Iddio, o tu dorma, o tu vegli, o tu mangi. Avete Dio per nemico, e tanto ridete, non cadete a terra morti per lo spavento? Come è possibile? Un antico romano, di cui dovevasi trattar la causa in senato, sentendo che Tullio, oratore sì temuto, gli era contrario, s’accorò tanto che per disperazione s’uccise; ed a voi non par nulla aver un Dio per contrario! Poveri voi, che con aver nemico Dio, avete altresì nemiche tutte le creature; perché tutte insorgono alla difesa del suo Padrone; così seguì appunto allorché Semei ingiuriava di lontano il Re David; giacché subito i cortigiani s’offersero a gara di andar ciascuno di mano propria a staccargli la testa dal busto: Ego vadam, amputabo caput ejus. Ecco, dunque, che contro di voi, che avete Dio per nemico, grida la terra ego vadam, e lo subisserò nel mio fondo: ego vadam, grida l’acqua, e l’assorbirò ne’ miei gorghi: ego vadam, grida l’aria, e lo sconquasserò con i miei turbini: ego vadam, grida il fuoco, e lo consumerò con le mie fiamme: ego vadam, gridano i fiumi, inonderò le sue campagne. Che sarà dunque di te; se non levi di casa colei, se non perdoni, se non restituisci, se non ti penti di cuore? Ah! che mi pare, che i demoni gridino ad alta voce: questo è nostro… presto: Deus dereliquit eum; persequimini, et compræhendite eum, e sepellitelo nelle fiamme eterne d’inferno.

LIMOSINA.
Chi visse in peccato faccia limosina, per non tornarvi; chi lo covò lungamente la faccia maggiore; perché ha più bisogno di misericordia; chi non peccò slarghi la mano, per non tirarsi addosso la inimicizia di Dio.

SECONDA PARTE.

Voi, o peccatori siete nemici di Dio: bene avete inteso. Iddio è vostro nemico altresì e sappiate che questa inimicizia, che ha Dio contro di voi porta seco un odio tale di Dio verso di voi, che tale non l’hanno i demoni tutti dell’inferno verso un’anima dannata. Quando gli Ateniesi si ribellarono a Dario Re della Persia, lo toccarono talmente sul vivo con un tal disprezzo, che diede ordine ad un suo cameriere, che ogni mattina nel svegliarlo li dicesse così: Sire, ricordatevi degli Ateniesi; e ciò richiedeva a solo oggetto, che il tempo non gli diminuisse punto del suo sdegno, e della vendetta, che disegnava prendere contro de’ suoi ribelli. Iddio, o peccatori, non ha bisogno di sì fatta invenzione per ricordarsi che è vostro nemico; e perciò per mantenere sempre
accesa contro di voi l’ira sua giustissima, sappiate che il vostro peccato sta sempre presente al suo guardo; e non può cancellarsi, perché è scritto con filo di ferro, inciso nel diamante: Peccatum Juda scriptum est stylo ferreo, et ungue adamantino. Or io vorrei che i peccatori mi dicessero come mai fanno a vivere allegri, mentre sanno d’avere una inimicizia sì formidabile; ancor io son costretto ad entrare ne’ sentimenti dell’Angelico San Tommaso, il quale si protestava di non capire due cose: la prima come un Cristiano, che sa per fede che peccando diventa nemico di Dio, pure ardisca peccare. La seconda, come essendo già col suo peccato diventato nemico di Dio, possa poi passarsela allegramente, ed abbia passatempi per ricrearsi, abbia facezie per ridere, abbia sonni per riposare. Come farete dunque, o peccatori a vivere sì tranquilli nelle vostre iniquità? Scopritemi di grazia questo segreto ignoto anche alla mente dei maggiori savi che mai vedesse la terra. Tu donna infelice, infedele al tuo marito, come ti riesce a star quieta, mentre sei nemica di Dio? Tu giovine miserabile che tanto t’affliggi se quella amica ti guarda bieco, come fai a vivere sì allegramente, mentre sei tanto in odio a Dio? Tu, che se il tuo principe non ti volesse mai più vedere moriresti di cordoglio, e pure adesso con l’inimicizia formidabile del tuo Creatore non solo non muori di cordoglio, ma giungi fino a vantarti d’averlo offeso, giungi ad insuperbirtene, giungi per questo capo a reputarti più degli altri. Io per me, credo che non crediate, scusatemi … queste verità Cattoliche. Se non credete rinunziate al Battesimo e cancellate dal ruolo de’ fedeli il vostro nome. Credere d’aver nemico Dio e ridere e urlare e scherzare? Peccatore vien qua, dimmi un poco: con qual timore staresti, se sapessi d’aver per nemico un gran cavaliere, un principe, un re? quanto maggiore sarebbe il timore, se tu sapessi che egli assolutamente si vuol vendicare? Grandissimo; tu non me lo puoi negare. Or tu sai che sei nemico non d’un principe ma di Dio, in cujus manu funt omnium potestates: e non temi, e non tremi? Tanto più che sai, che assolutamente vuol vendicare con castigarti. Temilo, o peccatore; e tanto più temilo quanto, che non te lo sei reso nemico con avergli fatto una sola offesa: l’hai offeso tante volte, e sfacciatamente in più luoghi, per le strade, per le piazze, nelle case, nelle stesse Chiese; or se egli vorrà castigarti per una sola offesa, che gli abbia fatta, quanto più per tante! Temilo dunque, e molto più temilo, perché ti può raggiungere ovunque tu sia. Se hai un nemico in una città, puoi andar in un’altra; se in un regno, in un altro; ma Dio ti arriverà per tutto; quo ibo a Spiritu tuo, quo a facie tua fugiam? E dove andrò,
dice il Profeta, che tu non mi giunga? Si descendero in infernum ades; se mi nasconderò nel centro della terra, ivi tu sei: si ascendero in Cœlum, tu illic es; se mi porterò all’altezza de’ Cieli, quivi ti troverò: si sumpsero pennas meas diluculo, et habitavero in extremis maris; ancorché io mi porti di là da’ mari, tanto tu mi raggiungerai! Temilo dunque, o peccatore, perché hai un nemico che da per tutto può raggiungerti. E temilo molto più; perché già tu vedi che contro di te ha sfoderata la spada; e ti fa vedere i lampi del suo sdegno. Spada di Dio, che ti minaccia castighi maggiori, sono quella lite suscitata; lampo dell’ira di Dio è quella malattia, quella grandine, quella morte. Temilo insomma, perché è un Signore di sì alta potenza, che postquam occiderit corpus, babet potestatem mittere in gehennam; che dopo d’aver posto il corpo estinto in terra, ha potestà di seppellire l’anima nell’inferno. Temilo, o peccatore, e non voler più questa inimicizia col tuo Creatore. Ah no, no, no non è dovere; bisogna concludere questa pace ed ora a’ piedi di Cristo si ha da stabilire per sempre. Amor mio non più peccati, diceva la Beata Caterina da Genova; quanto dobbiamo dire ancor noi: non più peccati, non più bestemmie, non più ingiustizie, non più rancori, non più disonestà, purtroppo siamo stati ciechi per il passato a non temer questo Signore; ve ne chiediamo perdono. Eccoci pentiti, eccoci contriti. Evvi nessuno, UU., che ricusi domandare questo perdono? Se vi è si dichiari, e se vuol continuare la inimicizia con Dio; egli si protesta, che gli sarà nemico in vita, e gli pianterà la dannazione in cuore la morte. No no mio Dio; tutti con Voi vogliamo amicizia, e perciò tutti vi domandiamo misericordia, e pace; pace e misericordia. Se così è, miei UU., questo Cristo vi concede il perdono; vi dà la pace, con questa condizione però, che non torniate ad offenderlo.

QUARESIMALE (XXIX)