LO SCUDO DELLA FEDE (243)

LO SCUDO DELLA FEDE (243)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (12)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO III

IL SACRIFICIO DIVINO

Il Canone.

Siamo giunti al terribile momento dell’Azione la più tremenda per cui eseguire con dignità è ordinato il Canone, il qual nome significa la grande regola. In esso sta, come in grandi caratteri, scolpita la legge eterna immutabile della sostanza, dei modi dell’esecuzione del gran Sacrificio da offrirsi per tutto l’universo. S. Gregorio e s. Cipriano chiamano il Canone « la preghiera per eccellenza, » il Pontefice Vigilio « il testo della preghiera canonica, » tanti altri Padri (Ben. XIV.) « l’Azione; » perché in esso si compie l’Azione delle azioni, l’azione più grande, più perfetta, anzi più divina, che per gli uomini sì possa fare nella Chiesa, per virtù di Gesù Cristo; regolare cioè la legittima consacrazione del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, e il sacrificio che si fa di essi a Dio in ricognizione della sua Divinità. –  Fermarci a far questione per trovare l’autore di alcune sue parti particolari, o a cercare chi l’abbia ordinato e così ridotto, né giova, né piace, né abbiam tempo da sprecare in ciò, che non è di grande importanza. Solo osserveremo, che di molte e delle più solenni e più comuni, e pubbliche orazioni, e dei riti più universalmente ricevuti, per lo più s’ignora l’autore. E doveva essere così; perché  l’autore non ebbe poi la parte maggiore nella loro istituzione. Sovente esso interpretava, e traduceva in atto un’idea, che era nel popolo cristiano, e che dove più, dove meno, si manifestava in qualche modo: sicché egli collo stabilire il rito e dar la forma all’orazione, non altro faceva che coglierne la più vera espressione, e la più rispondente all’idea, purgandola da ogni inutile ingombro. Piuttosto a consolazione dei fedeli tradurremo ciò che insegna lo Spirito Santo, per mezzo del Concilio generale di Trento, intorno al Canone stesso. (Sess. XXII, cap. 4). Dice adunque il sacro Concilio: « E conveniente che le cose sante siano santamente amministrate; ed essendo questo (della s. Messa) il santissimo di tutti i sacrifici, la cattolica Chiesa, perché degnamente e con la dovuta riverenza venisse offerto ed adempiuto, già da molti secoli istituì il sacro Canone, d’ogni errore così depurato, che niente in esso si contenga, che non sappia specialmente di certa santità, e pietà, e le menti sollevi in Dio, perocché esso consta, e delle stesse parole del Signore e delle tradizioni degli Apostoli, e delle pie istituzioni dei Pontefici. » E questo basta, perché, derivato a noi da queste fonti così pure e santissime, noi lo veneriamo come cosa tutta celeste, anzi come dono fattoci da Dio, nella sua carità, per alimentarci la divozione. Noi lo teniamo in conto di un misterioso componimento, in cui sono espressi i segreti adorabili dell’amor santo di Dio. Perché ci pare di scorgere nei riti i tratti più espressivi, e nelle parole i più santi affetti, che ci rivelano le ragioni più intime, che legano a Dio la sua sposa, la Chiesa. La Sapienza divina, dice lo Spirito Santo, si ha fatto un talamo nuziale in sulla terra (S. Thom. in Off. SS. Sacram.). Questo talamo è l’altare, vero santuario degli amori divini; ed il canone è l’epitalamio dello sposalizio di Dio coll’umanità. In esso troviam compendiati e spiegati i più reconditi misteri della Natura Divina; in esso appare nella sua grandezza la tremenda giustizia eterna, e si scorge come essa s’accorda in pace colla misericordia, e come questa trionfa. Del qual trionfo della misericordia sulla giustizia di Dio si manifesta quella bontà sua essenziale, che alimenta la beatitudine del paradiso. Così il canone contenendo in sé tanti misteri divini, adombrati nella santità dei riti, è quasi come quella gran nube che involgeva l’uomo eletto a parlar con Dio sul monte Sinai, la quale nella grandezza sua e maestà, e nei baleni di vivissima luce, di che sfolgorava, dava segno della presenza di Dio, che dentro ad essa compariva, e si manifestava a quegli argomenti. – Noi ci avvicineremo tremanti, e coll’anima umiliata, e lasceremo che parli in esso lo Spirito di Dio, e la sua sposa, la Chiesa, e solo ridiremo quel poco che abbiamo imparato da coloro, che furon degni per la loro santità di farsi più dappresso a contemplare. Quali oggetti! quali idee per un credente in questo istante! La terra non fu mai meglio in armonia col cielo. In cielo la Trinità augustissima sul trono d’inaccessibile luce, e intorno intorno le schiere dei Principi angelici, e di tutte le Virtù dei cieli; mentre l’Agnello Divino, sull’altare d’oro si presenta innanzi, e rompe il misterioso sigillo al Libro che contiene i secreti della Divinità, i quali fino agli Angeli eran nascosti; e tutta la Corte celeste si prostra cantando il trisagio dell’eternità. In terra tutti i fedeli genuflessi intorno alla croce vessillo di loro speranza sull’altare: alla loro testa il Sacerdote, che innalza le braccia innanzi al Crocifisso, quasi ponendo la sua testa sotto il Capo di Gesù coronato di spine, le mani su quelle sante Mani insanguinate, il petto sul Petto divino squarciato. Tutto assorto in Gesù Cristo, cogli occhi in cielo, quasi vi cerchi il volto del suo divin Padre, stende le palme, come per slanciarsi a Lui: e contemplando nella SS. Trinità Dio nell’alto della sua intima Vita Divina adora il Padre col Figlio in seno a lui generato ab eterno, e lo Spirito Santo, che dal Padre e dal Figliuolo procede; e insieme col Figlio, che si fa Agnello Divino sull’altare celeste, cade anch’esso sull’altare terrestre per trovare in cielo la redenzione. – Per esprimere quest’atto di adorazione, s’inchina, s’inabissa nel suo nulla, e cadendo colle mani giunte si mette come vittima legata; bacia l’altare, e coll’anima bacia in cielo le soglie dell’eterno trono. – Poi sorge, e comincia a trattare i più cari interessi, per cui Egli quella missione divina ha intrapreso. – Noi qui ci ricorderemo del prefazio, di quel cantico, che lasciò per dir così nell’anime del Sacerdote e dei fedeli quale una certa vibrazione e una eco di armonia celeste, che continua nei movimenti degli affetti, come dopo la scossa continua a vibrare ancora la corda od il metallo sonante. Ben qui a lui ancora nell’estasi dell’armonia di paradiso, fluiranno come espressioni spontanee quei gemiti inenarrabili, che lo Spirito Santo mette in bocca alla sua Sposa divinizzata: e sono queste le orazioni del canone. Buon Dio! Ci voleva proprio lo Spirito del Signore nella Chiesa, per dir quello, che si conviene, in un istante così tenero e così tremendo, così terribile, e così consolante. Prega il Sacerdote in secreto: e questo silenzio esprime il nascondersi che fece Gesù, quando non era ancora venuta l’ora sua. Veramente in questo terribile momento l’anima ha bisogno di non esser da rumore di parole disturbata dal suo raccoglimento con Dio (Innoc. III, lib. 2, Myster. Miss. cap. 54, et lib. 3, c. 1.). Veramente inspira anche grande venerazione il veder il popolo col Sacerdote all’altare pregar segretamente, quando lo Spirito del Signore opera segretamente sotto il velo dei simboli il gran mistero (Bened. XIV. lib. 2, c. 23, 16). Le anime adunque si hanno qui da trovare sole con Dio: e davanti a Dio che si sacrifica vogliono lagrime e non parole. Giova, ripeterlo: noi esitammo qui, se tornasse meglio tentare la spiegazione, o metterci di conserva col lettore a meditare ciascuna parola nel silenzio del labbro, e nella profonda umiltà del cuore. Ma abbiamo sperato di non riuscire inutili, se cercheremo d’inspirarci ai pensieri dei Santi, nell’esporre così sante orazioni. Ecco la prima, che procureremo di spiegare.

Art. I.

PRIMA PARTE DEL CANONE.

Orazione I: Te Igitur.

« Voi adunque, o clementissimo Padre, per Gesù Cristo Figliuol vostro e Signor nostro, supplichevoli preghiamo, e vi chiediamo che vi degniate di aver per accettevoli, e benedir questi, (qui fa tre segni di croce sull’offerta colla destra stesa nel pronunciare le seguenti parole) questi + doni, questi presenti, questi sacrifici santi, illibati, che noi vi offriamo in prima per la Chiesa vostra, santa, cattolica; cui vi preghiamo che vi degniate di purificare, custodire, adunare, e reggere per tutto il mondo universo, insieme col vostro servo, il Papa nostro (e qui nomina il sommo Pontefice) ed il nostro Vescovo (nomina il Vescovo), e con tutti gli ortodossi cattolici adoratori dell’apostolica fede. »

Esposizione di quest’orazione.

Pertanto il canone comincia colle parole: « Te igitur, Clementissime Pater, Voi adunque, o Padre,la cui clemenza è infinita, ecc. ecc. »Alcuni autori con bizzarria piuttosto, che conacume e solidità di ragione vorrebbero, che laChiesa avesse incominciata questa importantissimapreghiera col T; perché la lettera T ha forma dicroce.Ma noi avvertiamo ora per sempre, che le pratiche della Chiesa sono semplici, ma piene di maestà,e non bisognose di fantastiche interpretazioni,che pendano all’inezia, come è questa, di che noinon ci cureremo. La quale nacque forse dal vedere il pio uso di mettere, di fianco alla prima preghiera del canone, stampata l’immagine del Crocifisso: pratica suggerita dalla pietà dei fedeli, che spiega essere intenzione della Chiesa, che noi accompagniamo questa tremenda azione colla mente tutta piena delle idee della passione e della morte del Salvatore benedetto. « Voi adunque o clementissimo Padre, noi preghiamo supplichevoli ecc. ecc. » Questa congiunzione adunque fa intendere, che questa preghiera, come abbiam detto, è una continuazione del prefazio. In esso, reso omaggio di profonda umiltà al Signore dei cieli gli abbiam detto: « Egli è giusto e ragionevole e salutare di rendere grazie a Voi, Signore santo, Padre onnipotente, eterno Iddio ; » continuiamo ora qui la preghiera: Voi adunque, o clementissimo Padre, noi preghiamo supplichevoli ecc. Ammiriamo tratto di confidenza devota, in cui il Sacerdote parla a Dio come a tenerissimo Padre. E per giustificarsi di tal atto, che dovrebbe sembrar ardimento, gli mette dinanzi, per ossequiosa scusa, che il figlio suo Gesù ci acquistò il merito, e ci ottenne il diritto di chiamar Padre Iddio, soggiungendo subito: « Per Gesù Cristo, Figlio vostro, e Signor nostro preghiamo, e vi chiediamo di avere bene accetti, e di benedire questi doni, questi presenti, ed officiose offerte, questi sacrifici santi. » – Li segna di croce perché siano bene accolti dal Padre, vedendoli sotto la croce del suo Figliuolo. I tre segni poi esprimono che questo gran mistero si verrà compiendo dalla santissima Trinità ( Marsebius, Sum. Christ. 3 p.). È pure devota e commovente la spiegazione di questi tre segni di croce, che dà il Serafico Bonaventura (Esp. Miss. c. 4, 1. 7). Il primo segno, dice egli, significa 1’atto della carità del Padre verso di noi, che il proprio Figlio non risparmiò, come c’insegna l’Apostolo: ma ce lo diede per la salute di tutti. Onde possiam dire: «questo è dono vostro, perché da Voi ci fu dato. » Il secondo esprime quell’atto, in cui Gesù si abbandonò nella morte l’anima sua, e coi scellerati venne riputato: e qui possiam dire: « queste offerte sono nostre; perché il Redentore, che ci fu donato, è nostro. » Il terzo par voglia esprimere il tradimento di Giuda, con cui diede Gesù col bacio in mano ai nemici; e qui noi ancora possiamo dire nell’offrire « ma questo ora è santo sacrificio illibato , in cui non ha più parte umana malvagità. » – Giova qui osservare, che queste tre diverse espressioni di doni, presenti, santi sacrifizi illibati, non sono già una semplice ripetizione della stessa cosa; ma contengono tre idee diverse. Chiamasi l’offerta in prima doni, e sono doni la sostanza del pane e del vino presentata a Dio per essere trasmutata nel Corpo e nel Sangue di Gesù. No! l’oblazione non poteva essere fatta di una sostanza più conveniente. Dovendo noi rendere a Dio tutto che abbiam ricevuto, scegliamo una porzione di quella cosa, che maggiormente concorra al nostro sostentamento: e nell’offrirgliela preghiamo Dio di aggradire ciò ch’Egli ha posto nelle nostre mani (Paralip. XXIX, 14.). Così confessandogli con umiltà, che i doni che gli offriamo, come ogni cosa, sono già suoi, è un atto di giustizia che noi esercitiamo, essendo l’umiltà vera giustizia: poiché l’umiltà è virtù, che di tutto il bene rende l’onore a Dio. Ora, come tutto ciò che è bene, viene da Dio; (così conviene intenderla), la prima giustizia è rendere a Dio del tutto almen l’onore, come dice il Salmo: « Non a noi, non a noi, o Signore, ma al nome vostro date gloria » (Psal. CXIII.). Ci si perdoni di questo che ripetiamo qui: perché crediamo dover ripetere con Ss. Agostino che il primo, il secondo, il terzo fondamento della santificazione delle anime è sempre questa primiera giustizia, l’umiltà. Chiamansi poi questi doni col nome di presenti, cioè di offerte officiose, presentate da noi come un regalo nostro: così dicendogli doni, si confessa che sono cosa, che viene direttamente da Dio; dicendogli offerte officiose, o presenti, si dice in certo qual modo, che in essi si offerisce anche qualche cosa del nostro (Ugo, De sanct. Vict.). E qui nel modo più delicato diamo gloria alla bontà di Dio che benignamente alla nostra povertà ha provveduto, rendendo proprii di noi, o personali questi doni suoi. Invero il pane ed il vino sono doni suoi materiali, ma e’ sono anche nostri: perché la terra, che li produce per comando di Dio, ce li somministra rispondenti alle nostre fatiche. Sicché sono doni di Dio, e frutto del nostro lavoro. Ma elevando poi il nostro pensiero, sentiamo nella fede di poter dire, che sono doni e presenti nostri anche il Corpo e il Sangue SS., in che il pane ed il vino verranno trasmutati. E questo è il più gran trovato della divina bontà, che la mostra veramente infinita, e vince di lunga mano le più grandi speranze dei Profeti. Dio pagò egli stesso la divina giustizia per noi: e, si veda raffinamento di carità! ci volle anche risparmiare la vergogna di fare per noi il pagamento gratuito, senza nulla metterci del nostro, ma il prezzo del riscatto ci pose in mano, lo fece nostro, e di vera nostra ragione: e poi disse: « pagate. » Ci risparmia così quella naturale timidità di comparire debitori, e colle mani vuote ((3) Cesar. Oraz. del S. Natal.). Esso ci ha provvista la vittima; ma l’ha fatta nostra. L’infinito debito noi pagheremo, sì noi veramente pagheremo, e con valsente di nostra proprietà !… Qual sarà adunque questo presente di nostra ragione?….. Qual sarà?… Forse Gesù Cristo in Persona?! Sì proprio il Corpo e il Sangue di Gesù, che essendo Dio fatto uomo, si è fatto porzione di nostra natura; fratello nostro, a noi donato dal Padre: Ah! noi siamo d’avviso che neppure gli Angioli vanno al fondo di tanto mistero, vero Subisso d’amore divino! Chiamansi infine santi sacrifici illibati: santi, perché sono riservati a Dio solo, ed a Lui solo vengono offerti in ricognizione del suo supremo dominio: sacrifizi, perché rendono al gran Monarca dell’universo l’onor dovutogli da tutto il creato. In essi il supremo suo dominio è riconosciuto. In essi lasciando noi nelle mani di Lui l’offerta dei frutti della terra e dei nostri sudori, Dio trasmuta il dono terreno in un santo Sacrificio mondissimo, che sarà il vero olocausto per l’intera consumazione della vittima a gloria di Dio; e sacrificio eucaristico, offerto in ringraziamento; come pure vera ostia pacifica e sacrificio propiziatorio, che riconcilierà gli uomini a Dio, ed otterrà la remissione dei peccati; sacrificio accettevole impetratorio, che impetrerà tutte le grazie a favore degli uomini. Il che tutto già abbiam toccato, ed avremo occasione di esporre ancora con maggiore chiarezza. Da ultimo sacrifizi illibati, integerrimi, siccome li ha fatti Dio, senza che né uomo, né spirito immondo vi possa metter sopra la mano ad usurparli, o profanarli. Illibati, dice anche Innocenzo III (1), cioè immacolati; perché senza macchia e di cuore e di corpo devono essere offerti, sicché niente vi sia frammesso, che degno non sia dello sguardo santo di Dio. Essendo questo, pertanto, il santo Sacrificio illibato, affrettiamoci, che questa è l’occasione più bella, di presentar con esso le nostre suppliche, e chiedere ciò che più ci sta a cuore. Quindi continua l’orazione. « I quali sacrifici, vi offeriamo per la Chiesa vostra santa, cattolica. » Anche Gesù Cristo faceva per essa la sua preghiera, e raccomandava di porre gl’interessi di essa in cima di tutti i nostri voti. « Cercate, dice Egli, prima il regno di Dio e la sua giustizia », ed il regno e la sua giustizia sta nel trionfo della Chiesa Cattolica. Quindi il Sacerdote la raccomanda subito in prima.

QUARESIMALE (XVI)

QUARESIMALE (XVI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMASESTA
Nella Domenica terza di Quaresima

Confessione, vuol dire conversione. Convertirsi a Dio con la lingua, dicendo tutti i peccati mortali. Convertirsi a Dio col cuore, avendo vero dolore. Convertirsi a Dio con le opere, avendo un fermo proposito di non peccare e di lasciare l’occasione prossima.


Erat Jesus ejiciens dæmonium, et illud erat mutum. San Luca cap. 11.

Nei tribunali del mondo la confessione del delitto tira seco la morte; nel sacro
tribunale della Penitenza, la confessione del peccato porta seco salute d’anima, e vita di grazia. Eppure un effetto sì prodigioso più d’uno non l’esperimentano. Sapete perché? Non si fa come si deve, non si fa sincera, schietta, reale, severa; e per questo molti che si confessano, non ricevano né perdono di colpa, né vita di Grazia. – La Confessione non è qual molti se la figurano, non è un negozio di sole parole nate sulle labbra, ma altresì di sensi usciti dal cuore; non risiede solamente nella punta della lingua, ma principalmente nel profondo della volontà. Confessarsi vuol dire convertir a Dio: Convertere ad Dominum relinque peccata, et minue offendicula. In queste brevi parole detteci dallo Spirito Santo sta racchiusa la norma d’una vera, perfetta, e santa Confessione, perché contiene in sé: convertirsi a Dio con la lingua, convertirsi col cuore, convertirsi con l’opere. Convertirsi a Dio con la lingua, dicendo tutti i peccati. Convertir a Dio col cuore, avendo un vero dolore. Convertir a Dio con le opere, avendo ferma risoluzione, non solo di non peccare, ma altresì di fuggire ogni occasione prossima di peccato. Cominciamo dal primo. – È da piangersi a lacrime di sangue la miseria infelicissima di tanti e tanti, che dopo avere anche diligentemente esaminata la loro coscienza, tanto si perdano e si dannano tacendo qualche peccato non perché non se ne ricordano, giacché in tal caso non sarebbe peccato, salva la negligenza nell’esame, ma perché hanno timore a manifestarlo, si vergognano di palesarlo. Mi meraviglio di voi. E da quando in qua deve stimarsi vergogna palesare il suo peccato? Vergogna fu il farlo. No, no, vi dico non deve stimarsi vergogna palesar quel peccato, né dalla parte vostra, né dalla parte della Confessione, né dalla parte del confessore. Non è dalla parte vostra perché mai è stato, né mai sarà vergogna alcuna mostrare al cerusico una ferita mortale acciò la guarisca; mai è stato, né mai sarà vergogna palesare al medico una febbre acuta perché ci risani; mai sarà vergogna vomitare alla presenza del medico, che vi dà l’antidoto a quel veleno che racchiudete nelle viscere. Or non è vergogna scoprir la piaga al cerusico, palesar la febbre al medico, ed alla presenza sua render quel veleno che ci toglieva la vita temporale. Come ha da stimarsi vergogna scoprire quelle piaghe incancherite al cerusico spirituale di quei peccatacci, palesare al medico spirituale quelle febbri ardenti di tante laidezze, rendere alla presenza sua quel veleno che dava morte all’anima vostra? mentre così operando si ricuperava la salute dell’anima? Eh mi meraviglio di voi! Non deve stimarsi vergogna dalla vostra parte, ma neppure dalla parte della Confessione. Voi, quando siete in peccato, siete mostri orribili; non siete punto dissimili al diavolo nella deformità mostruosa. Or, qual è il modo di ritornare allo stato primiero? Ecco, dice Sant’Agostino, la Confessione: Fœdus eras confitere, ut fis pulcher; e se non vi basta l’autorità d’Agostino, sentitelo dalla bocca stessa del Profeta Reale, che apertamente si protesta: Confessionem, et decorem induisti; Iddio ha posto vicino alla Confessione la bellezza, per il peccatore allor che s’umilia d’avanti a lui e davanti a’ suoi ministri ricopre le sue colpe di tal maniera che par che sopra loro ponga un prezioso ricamo, in virtù del quale, rimane nascosta ogni laidezza passata. Confessionem, et decorem induisti. Confessio, pulchritudo in conspectu ejus; al cospetto di Dio tanto è dire confessarsi bene con dire tutti i peccati, quanto è vestir d’una bellezza celeste. Sarà dunque vergogna manifestar chiaramente le sue colpe, se manifestandole vi rendete belli agli occhi di Dio. – Un certo scolaro di Socrate in Atene, entrato in una casa di cattivo nome, vedendo passar di là il suo maestro, corse per vergogna a nascondersi, ma Socrate fatto sulla porta, tutto piacevole e grave, vien fuori, e dice: o figlio, poiché l’uscir da questa casa non  è  vergogna, vergogna fu l’entrarvi. Lo stesso dico io a quelli che tacciono i peccati per vergogna: non è vergogna uscir dal peccato per mezzo della Confessione, vergogna fu peccare. Mi meraviglio di voi, dirò con Sant’Agostino che pazzia è la vostra non vergognarsi di peccare, e vergognarsi di far penitenza? Questo è un vergognarsi della fascia, e non arrossirsi della ferita. O crudelis insania de vulnere non erubescit, et de ligatura vulneris erubescit. Neppure deve stimarsi vergogna dalla parte del confessore. O che pazzia! Vergognarsi di palesare un brutto peccato per temenza che il confessore si scandalizzi? E da quando in qua avete trovato medico, il quale si turbi per avere alle mani una persona gravemente inferma mentre sa, che può risanarla s’ella l’obbedirà? E da quando in qua avete trovato un cerusico che si rammarichi per aver alla sua cura una piaga pestifera; mentre sa, che può guarirla, purché l’infermo voglia? Ah, che il medico, ah, che il cerusico godono in simili cure, perché devono ridondare in loro utile, in loro gloria. – Era solito di dire un confessore gran Servo di Dio, che mai più tanto si rallegrava, quanto che, quando aveva a’ suoi piedi a guisa d’un San Michele Arcangelo, un dragone d’inferno, e voleva dire, che allor godeva, quando aveva un gran peccatore a’ suoi piedi. Come dunque volete che sia vergogna dalla parte del confessore? Non dovete vergognarvi per la parte del confessore, perché egli, quanto siete maggior peccatore, tanto più gode. Confessavasi un dì da San Luigi Beltrando un dissolutissimo giovane, il quale ad ogni peccato che diceva, dava un’occhiata al santo confessore, ed osservò, che stava con volto tutto ridente. Finita la Confessione: Padre, disse, ho un altro peccato da accusarmi, ed è un giudizio fatto adesso, che anche voi siate un tristo come me, perché ridendo nell’assolvermi, mi sono immaginato che vi consoliate nel vostro cuore con dire: manco male che al mondo vi sono degl’altri ribaldi al pari di me. Allora il Santo rispose: fratello, son peccatore anch’io, benché non sappia d’aver mai fatti peccati simili a’ vostri, ma gioisco nell’udire la vostra confessione, considerandovi non più peccatore, ma penitente glorioso, che fuggendo dalle mani del diavolo, si butta in quelle di Dio. Cari Uditori, non temete mai che il confessore si scandalizzi, anzi assicuratevi che, quanto più gravi saranno i peccati, tanto più godrà, giacché egli allor gode, quando acquista anime a Dio. Non dovete dunque stimar vergogna manifestare il peccato né per vostra parte, né della confessione, né del confessore. Su, dunque, ditelo e non lo covate più in cuore a tanto danno dell’anima vostra. Eh Padre, dite bene, ma è troppo grande il rossor che provo a sol pensarvi di doverlo dire; ma se poi volete, che ci sta questa vergogna, sarò con voi e dirò ancor io, che è vergogna; ma vergogna, o non vergogna, bisogna confessarlo. È vergogna sù, sì, è vergogna, ma qual è più vergogna, dirlo ad un uomo, come voi soggetto a miserie, oppure farlo sapere a tanti uomini da bene? Certo che è minor vergogna dirlo ad un uomo impastato di carne come voi così, vi dice Sant’Agostino: O homo vir confiteri erubescis peccata tua? Peccator sum sicut es tu; altrimenti, se non li dite ad un uomo solo, nel confessore, l’hanno poi da sapere i vostri peccati tutti gl’uomini del mondo nel giorno estremo. Su via, è vergogna dirlo ad un uomo impastato di miserie come voi? Su via, son con voi, e giacché il diavolo vi ha restituita per confessarvi quella vergogna che vi tolse perché peccaste; su, voglio che fa vergogna; ma quale è più vergogna? Che ora lo sappia un uomo solo, oppure, che poi quel vostro brutto peccato sia manifestato per bocca de’ diavoli a suono di tromba per tutto il mondo? Se voi non lo confessate adesso per la vergogna ad un uomo in segreto, con sì alto segreto, che maggiore non può essere, s’avrà poi da manifestare con tanto maggior vituperio al marito, alla moglie, al padre, ai figli, alla madre; quel vostro peccataccio ha da essere manifestato a quanti furono uomini nel mondo, quanti regnano Beati in Cielo, ed a quanti penano tra’ diavoli, e dannati nell’inferno. E tu peccatore, e tu peccatrice non vorrai ora soggiacere a questa piccola vergogna per esser poi svergognato presso il mondo tutto per tutta l’eternità? Sappiate, Uditori, che il confessore ha tal segreto di quanto gli dite, che v’andasse la salute del genere umano, non può palesar le vostre colpe. Sogliono i principi farsi servire volentieri da mutoli affinché le loro azioni non si risappiano. Dieci di questi ne aveva Solimano re dei Turchi, eppure, se questi non parlavano con la lingua, potevano certamente parlare con i cenni; ma il nostro Iddio ci fa servire nelle Confessioni da Sacerdoti talmente mutoli, che nemmeno con un gesto, benché minimo, possono scoprire i nostri peccati. E voi ad ogni modo con tanta certezza che nulla si saprà, con tanta sicurezza del vostro eterno vituperio, se ora non dite il peccato, ad ogni modo, per un piccolo rossore presente vorrete tacerlo? Orsù, se così è, io non posso far altro, salvo, che intimarvi con Agostino la dannazione. Elige quod vis, si non confessus lates, inconfessus damnaberis, o confessarsi, o dannarsi; o confessione, o dannazione. Una tal verità provò a suo gran costo quella infelice giovine riferita da autor moderno. Fu questa allevata con gran cura da’ suoi maggiori, i quali affine di levarla affatto dai pericoli che corre la gioventù, la collocarono per educazione in un monastero, consegnandola ad una zia vergine di gran pietà; e pure, in questo giardino sì chiuso trovò l’antico serpente la sua entrata: imperocché un giovinastro, sotto pretesto di volerla chiedere a’ parenti per sua consorte, le inviò una lettera piena di sensi affettuosi, per cui si mostrava tutto appassionato per lei, e tutto preso dalle sue belle maniere. Or queste lodi, e questa grande affezione, sebbene potevano parere non più che poche scintille, bastarono per un gran fuoco, poiché la giovane incauta si accese tutta di desiderio di corrispondenza; e perché chiusa in quel luogo aveva comodità di parlare, fomentava l’ardore concepito con lo scrivere, manteneva per via di lettere una continua corrispondenza, non d’altro al principio, che d’una semplice benevolenza col fine di maritarsi, se non che quella febbre che da principio pareva effimera, crebbe a segno di divenire affatto putrida; dietro all’amore cominciarono i cattivi pensieri e le suggestioni impure, e sotto pretesto di matrimonio l’inimico s’inoltrò tanto nel suo cuore, che la meschina diede il consenso. È vero che questo consentimento non passò a niuna opera cattiva, ristagnando nel cuore; ma che importa, fu peccato mortale; quello però, che compì l’infelicità della giovane, fu che ella per vergogna non manifestò mai al confessore né la tresca col giovane, né l’assenso al peccato, né  pure i continui sacrilegi che faceva nell’accostarsi a’ divini Sacramenti. Perseverò lungamente in questo stato, e così sacrilega fu colta da fiera malattia, per cui se ne morì senza essersi confessata di quel peccato. Volle Iddio servirsi della disgrazia di costei per ammaestramento di tante che si danno in preda agli amori, e di quelle che non vogliono dire i lor peccati, e perciò permise, che la morta giovine comparisse alla zia cinta di fiamme, in atto di metter compassione fino alle pietre. Ed ecco, disse, quella che voi avete allevato con tanto studio, eccola dannata per aver taciuto un peccato mortale di solo pensiero; così detto, disparve, e lasciò più morta che viva la sconsolata zia. O quanto pagherebbe questa giovane infelice non aver mai fatto l’amore! Quanto bramerebbe d’aver detto quel peccato che ora la tiene nell’inferno. Intendetela cari Uditori, o confessarsi, o dannarsi. Annibale doppo aver passato il mare fece dar fuoco alle navi, e poi, rivolto a’ soldati, disse loro ad alta voce: soldati miei, qui non v’è più speranza di ritornare indietro; convien vincere, o morire: Aut vincendum, aut moriendum milites est. Lo stesso dico ancor’io, o convien vincere quella maledetta vergogna, che vi leva la lingua, o convien morire eternamente; o confessione, o dannazione; non occorre altro. – O Padre, già che questa vergogna m’ha preso si altamente, non vi farebbe altro modo per ritornare in grazia di Dio? Digiuni, pellegrinaggi, stenti, limosine? No, Quot ignorat, medicina non curat. V’entri una spina in un piede; finché la spina non è cavata, non è possibile saldar la piaga, ponetevi pure unguenti, e balsami; cavate la spina, e guarirete. – Racconta Sant’Antonino Arcivescovo di Firenze, come un santo confessore, mentre se ne stava al confessionario, vide venire una sua penitente al solito tutta modesta, tutta devozione; ma vide che intorno a lei v’era un brutto demonio che con grande allegrezza gli saltava d’intorno. Restò stupito il Santo, e chiamato a sé, con comando di Dio, quel demonio, gli disse: e perché  con tanta allegrezza intorno ad una donna sì pia, che digiuna, che fa limosine, che frequenta i Sacramenti? Per questo, disse il diavolo, sto allegramente. Quomodo non rideam, si hæc jejunans et plorans descendit ad inferos? E non volete che rida, mentre costei con tutte le sue penitenze e devozioni viene all’inferno? Ve  lo dirò, rispose il diavolo: questa donna commise già un peccato di pensiero, v’acconsentì.  È vero che stagnò nel cuore, ma vi diede perfetto l’assenso e non se ne è mai confessata; onde faccia quante penitenze vuole, che mai mai, si salverà. Intendetela, finché la spina non è cavata, non v’è rimedio. Portatevi dunque a piedi d’un buon confessore e dite ciò che avete celato. – Se bene a che tanto stancarmi, mentre la maggior parte non fa le confessioni male per lasciare i peccati e li dicono tutti? Pensate, se quella donna si vergogna di dire i peccati, mentre ne discorre con le compagne? Pensate se ne vergogna quel giovane che se ne vanta. Peggio, pensate, se si vergognerà di dire i peccati che ha fatto quell’uomo che si gloria di quelli, che non ha fatti, con perdita della riputazione di quella povera donna. Appunto la maggior parte fa un diligente esame, e dice tutti i peccati, anzi per non se ne scordare li scrivono e pure, come dice Santa Teresa, la maggior parte si danna per non far bene la Confessione. Da che deriva? Deriva, perché confessarsi, non vuol dire pagare una gabella; gl’ho fatti, gl’ho detti, dunque sono assolto, … È necessità dirgli, ma non basta; bisogna aver dolore, e se non avete questo dolore, la confessione non vale. – Quando si dice che avete d’aver dolore, non s’intende del dolore sensibile, il quale, quantunque fosse buono, non è però necessario per una buona Confessione; è il dolore della volontà, cioè quel dolore, con cui si detesta il peccato, come il maggior di tutti i mali, e si abbomina sopra ogn’altra cosa, che meriti odio; Qui diligitis Dominum, odite malum, dice il Profeta Reale. Or io sento taluno, che mi dice: come ho da fare per aver questo dolore, che mi faccia odiare il peccato da me commesso. Io mi pento, dice quella donna, del mio peccato, perché mi trovo tradita dall’amante e svergognata. Io mi pento, dice colui, perché quel fallo da me commesso m’ha portato tante disgrazie. Questo è dolore naturale, il quale non giova nel Sacramento della Confessione, e queste lacrime sono per appunto come le lacrime d’una pianta potata, la quale non per altro geme, se non perché ha perduta la pompa de’ suoi rami. Il dolor naturale, non basta, vi vuole il soprannaturale! E qual è questo dolore soprannaturale? Eccolo, dolersi d’aver offeso Dio o per timore d’inferno o per perdita di Paradiso, o per bruttezza di peccato; meglio però sarebbe, se voi vi doleste de’ vostri peccati con dolore perfetto, che vuol dire, non con altro motivo, che per avere offeso Dio sommo Bene, che merita d’essere infinitamente amato. E se volete conoscere la differenza di questi due dolori, d’Attrizione, e di Contrizione, immaginatevi una Figlia così maledetta la quale, in collera dato un pugno a sua madre si fosse fatta male nel percuoterla. Questa si potrebbe dolere e per il male fatto a se, e per il disgusto dato alla madre. Così voi, se vi pentite e vi dolete per timore d’inferno, bruttezza di peccato, perdita di Paradiso, vi pentite per il male che fate a voi, e questa è Attrizione. Se voi vi pentite solo per il disgusto dato a Dio Sommo Bene, questa è Contrizione e dolor perfetto , ed uno di questi due dolori sono necessarii per Confessarsi bene, altrimenti la Confessione non val nulla. – Intendetela bene questa verità. Confessate pur tutti i vostri peccati, non ne lasciate niuno. Comunicatevi, prendete l’Olio Santo, tutti i Sacramenti, se non avrete uno di questi due dolori, siete dannati: Nisi pœnitentiam egeritis omnes simul peribitis. Ma sento chi mi dice: come potrò fare ad avere questo dolore soprannaturale? Prima raccomandarsi a Dio, da cui ha da venire questo dolore. Mettetevi dunque in ginocchioni avanti d’entrare al confessionario e dite: Signore, giacché volete che mi penta di cuore, datemi voi questo dolore, che è dono vostro. In secondo luogo, considerate tutta la vostra vita iniqua, e non vi fermate in quei soli peccati, de’ quali volete allora confessarvi, e vedrete, che a quella moltitudine concepirete dolore. Considerate chi siete voi, chi è Dio, e queste considerazioni v’ecciteranno a pentimento. Basta dire tutti i peccati? Basta il dolore per ben confessarsi? No, convien salire un gradino più sù, vi vuole un proposito risoluto di mutar vita. Qui sta il punto, Uditori miei, non basta odiare il peccato passato, vi vuole anche una vera risoluzione di non peccar mai più per l’avvenire, altrimenti la Confessione non è buona. Sovvengavi di quello, che San Remigio disse a Clodoveo Re di Francia prima di battezzarlo: signore, se volete godere i frutti del Battesimo, bisogna che di cuore adoriate ciò che abbruciaste, cioè le Croci; e che abbruciate ciò, che adoraste, cioè gl’idoli . Tanto io dico a voi: se volete far buona Confessione, bisogna fuggire quel peccato che amaste; bisogna seguir quel Dio a cui voltaste le spalle. E se io avrò questo proposito di mai più peccare, sarò poi ben confessato? tornerò in grazia di Dio? No, no, non siete ancora in cima alla scala. Non basta per molti, se voglian fare la pace con Dio, che propongano di non voler più peccare, ma bisogna che propongano di voler levare l’occasione prossima di peccare; e la ragione è chiara, perché chi vuole una cosa che moralmente è connessa con la colpa, è convinto di voler ancora la medesima colpa. Bisogna dunque proporre di voler levare l’occasione prossima, che è quel pericolo di peccare, nel quale, quando uno si pone frequentemente, cade. Non basta dunque che quel giovane, il quale, quando discorre con quella donzella frequentemente offende Dio con pensieri, con discorsi, dica al confessore: Padre, prometto di non consentire un’altra volta; ma bisogna dire: Padre, prometto di lasciar questa conversazione, che m’è occasione di tante colpe. Quella donna, che nel servire, o nell’andare in quella casa a lavorare frequentemente cade in peccato, deve dire: non andrò più a lavorare in quella casa; ed il padrone della casa deve dire non chiamerò più quella donna a fare i fatti di casa, ne chiamerò un’altra, che non mi serva d’inciampo. Così chi giocando frequentemente bestemmia Dio, o inganna il compagno, deve promettere di non maneggiar più le carte. Chi passa il tempo con un compagno scandaloso per l’anima sua, deve promettere di cambiar compagni, o di non trattarvi a solo a solo. Chi frequentemente s’ubriaca, deve promettere di non andare alla bettola, o almeno di non trattarvi, andarvi in compagnia d’altri, ma da sé solo, per evitar quel prossimo pericolo d’ubriachezza. Se non fate questi propositi, la Confessione non vale. Ditemi, se voi foste cascato quattro, o cinque volte giù per una scala, e vi foste rotto quando una gamba, quando una spalla, quando la testa, che proposito fareste, di non salire, o di non ricadere? Il vostro proposito farebbe di non salire mai più. Perché dunque si ha da stimar sì poco l’anima? Che sapendo d’averla uccisa tante volte in quei luoghi con quei compagni, vogliate di nuovo tornarvi? Dio immortale, se un cavallo sia caduto in qualche malpasso, dategli quanto volete, non vuol passarvi. E voi caduti tante volte, vi ritornate e poi credete di far buona Confessione, senza proposito di levar l’occasione prossima? Un padrone tiene una serva in casa con la quale di tanto in tanto cade, la può mandar via e non la manda, non può essere assolto, e dir il contrario è una delle Proposizioni condannate dalla Santità d’Innocenzo Undecimo. O’ fà per la mia casa. Se la trovate a rubare alla cassa, subito la caccereste, vi ruba l’anima e si tiene? Chi dicesse che costui si confessa bene, è scomunicato. Una serva si trattiene in una casa e spesso pecca, può lasciar quel pericolo ed andare altrove, chi dicesse, che questa donna in tale stato si confessa bene, sarebbe scomunicato. E se si trovassero de’ confessori che assolvessero chi sta nell’occasione prossima si dannerebbero col penitente. Udite a questo proposito un avvenimento referito da gravi autori. Un certo cavaliere dato in preda alle disonestà aveva per sua disgrazia trovato un confessore che, senza riprenderlo, e senza costringerlo a lasciare l’occasione prossima, l’assolveva ogni volta con grande amorevolezza; e benché la moglie di questo cavaliere, signora di gran pietà, riprendesse frequentemente il marito e gli dicesse spesso: chi v’assolve? Mentre i predicatori replicano tante volte nel pulpito che chi non lascia l’occasione prossima non può assolversi da niuno. Il cavaliere rispondeva ridendo: voi, signora, volete fare del teologo, se il confessore non mi potesse assolvere, non mi assolverebbe, badate all’anima vostra, ed io baderò alla mia. Seguitò dunque a viver nella pratica ed a confessarsi. Venne la morte, la quale fu somigliante alla vita. Poco doppo la morte essendo la signora rimasta vedova, standosene ritirata a fare orazione, vide in mezzo ad un gran fuoco un uomo spaventoso, che portava su le spalle un altro uomo tormentato dalle medesime fiamme. S’intimorì grandemente la signora, e tanto più crebbe l’affanno, quanto che udì dirsi da quello che stava sulle spalle dell’altro: io son l’anima del tuo marito, non accade pregar per me, son dannato; questo che mi porta sulle spalle è il mio confessore; io perché malamente mi son confessato, ed egli perché malamente m’ha assolto, siamo condannati, e ciò detto disparve. Capitela dunque: se voi senza proposito di lasciare non solo il peccato, ma l’occasione prossima del peccato andrete a confessarvi, e troverete chi v’assolva, non andrete a casa del diavolo con i vostri piedi, ma con quelli di chi vi assolve. Il confessore dice io t’assolvo, ed Iddio, che vede che non avete vero dolore e vero proposito, dice, ed io ti condanno. Fate dunque buon proposito di lasciar l’occasione prossima del peccato, e così vi confesserete bene; ma levatela, se no, la confessione è invalida, anzi sacrilega. – Un certo giovane allacciato malamente dall’amore d’una femmina se n’andò per sua buona sorte a confessarsi da un Sacerdote, il quale gli mise sì bene avanti gl’occhi la gravezza del suo peccato, e la necessità di fuggire l’occasione, che il giovane compunto gli promise non solamente di non tornar più in quella casa, ma di partirsi anche da quella città ed andarsene tanto lontano che la donna non sapesse più nuova di lui, perché diceva: ella è tanto scellerata, che se io mi rimanessi in queto luogo, mi tirerebbe di nuovo a mal fare. Il Confessore vedendolo sì ben risoluto, l’assolse, ed il giovine ritornato a casa dette ordine alle cose sue e se ne partì. In tanto la mala donna, aspetta la prima sera, aspetta la feconda, la terza, e l’amante non tornava. Ah traditore, disse, m’ha abbandonato; Che fece? Così donna com’era cominciò a girare d’intorno intorno a paesi vicini, e tanto fece, che lo vide in una piazza, e tutta allegra gli s’accostò di nascosto, come per gioco, e presolo per il mantello glielo tirò. Voltossi allora il giovane e, benché riconoscesse subito quella malvagia, non gli corrispose. Onde la donna soggiunse: non mi conosci? Son quella; se tu sei quella, rispose il giovane, non son quello io, e guardandola con occhio bieco le voltò le spalle. Or confessatevi così, miei Uditori, e non dubitate, che le vostre confessioni non siano buone, saranno ottime, perché piene di vero dolore, e di fermo proposito. – Deh miseri voi aprite gl’occhi, e non v’accorgete dell’inganno che vi tesse il demonio, affinché non facciate una buona confessione? Ite sacrificate Domino, oves tantum vestræ remaneant. Così disse Faraone al Popolo d’Israele, dopo esser costretto, a forza di castighi e di prodigi, lasciarli partire; giacché volete andare nel deserto a sacrificare al vostro Dio, mi contento, purché rimangano qui nell’Egitto tutte le vostre bestie; ma che rispose Mosè a questa richiesta così ingannevole? Non remanebit ex eis ungula. Questo fa a proposito per voi o peccatori; non solo non avete a lasciare, dice Mosè, nell’Egitto le vostre mandrie, ma nemmeno un’ugna d’esse, non remanebit ex eis ungula. Ecco l’astuzie del Faraone d’inferno, il demonio: quando s’accorge , che avete detto tutti i peccati, e che ne avete concepito buon dolore, si rivolta agl’inganni con procurare che non abbiate un vero proposito e dice, confessatevi, purché non lasciate, né quella amicizia, né quel passatempo, né quella casa, ove frequentemente avete perduta l’anima, fate proposito d’andarvi, ma di non peccarvi mai più: Oves tantum vestræ remaneant! No dilettissimi, non acconsentite a questo partito, è troppo ingiusto; rispondete francamente con Mosè: Non remanebit ex eis ungula; non solo non tornerò in quella casa, non solo non manterrò più quella amicizia sì dannosa, ma brucerò tutti i doni che ne ricevei, m’asterrò di mirarla, non manderò più imbasciate, ne toglierò dalla mente ogni memoria, come se mai non l’avessi conosciuta, non remanebit ex eis ungula. Fate così miei Uditori, e le vostre confessioni, come ottimamente fatte, vi torranno dall’inferno, e vi porteranno in Paradiso.

LIMOSINA
Siccome la Confessione dà la salute all’anima, così la limosina la dà al corpo. Eleemosina est ars, dice San Giovanni Grisostomo, omnium quæstuosissima;
è un’arte, che con i beni di fortuna, porta anche la sanità. Ben s’accorge di questa verità il poverello di cui si racconta nelle vite dei santi Padri che quanto guadagnava tutto dava per limosina e così si manteneva sano; ma volendo poi adunare per i bisogni delle malattie, e resecando la limosina ai poveri, subito s’ammalò con una piaga, in cui logorò tutti i danari, ma senza utile, e già si pensava di venire al taglio della gamba. Quando una Notte lagnandosi, si vide comparire fra la luce un Angelo che gli disse, che il modo di mantenersi sano era la limosina; poi lo guarì, dicendogli, che seguitasse. Che cosa bella è esser sani, questo è il maggior tesoro; sta nelle vostre mani: fate limosina!

SECONDA PARTE

Eccovi mostrato il modo di fare un’ottima, e santa Confessione; convertirsi a Dio con la lingua, dicendo tutti i peccati; convertirsi a Dio col cuore, concependo un vero dolore e pentimento d’aver offeso Dio; convertirsi a Dio con le opere, facendo un fermo proposito di lasciare non solo il peccato, ma l’occasione prossima del peccato. Ma o che miseria del Cristianesimo, mentre una gran parte de’ fedeli si serve male del Sacramento della Penitenza cavando veleno dall’antidoto. Così fate voi, quando andate alla Confessione senza le dovute preparazioni, v’andate per usanza, v’andate per rispetto umano, v’andate senza volontà risoluta di lasciare il peccato. Se un buon confessore non v’ha voluto assolvere, ne andate a cercare uno che sia ignorante, o almeno non curante né della sua, né della vostra anima, e così v’assolva, benché l’occasione sia prossima, e si possa rimediare. Talora vi sono di quelli che vanno cercando confessori che non sentano. Se così fate, voi uscite peggiori dalla Confessione di quello v’andaste. Poveri voi. Un inganno grande per i penitenti è che, quantunque vadano indisposti a questo Sacramento, ad ogni modo non hanno altra mira che ad avere l’assoluzione, quando con finzioni l’hanno strappata dalle mani del confessore, senza riflettere che se veramente non hanno la disposizione necessaria, ricevono dal Sacerdote quella materiale assoluzione, e da Dio l’eterna condannazione. – Poveri penitenti, mentre non vi servite bene d’un tanto rimedio alla vostra salute. Più poveri però, quando andate da medici che, invece di risanarvi, vi rovinano. Ma se sono infelici i penitenti, infelicissimi sono i confessori, che male amministrano il Sacramento della Penitenza. Ricordatevi o Sacri Ministri della penitenza, che siete padri del penitente, che non merita nome di padre, quello che, vedendo il figlio o piagato, o sull’orlo del precipizio, non gli porge rimedio, non l’avvisa con maniere da padre. Fate però conoscere la gravezza del peccato, riprendete ma con dolcezza; di grazia, nel sentire le colpe, quantunque enormissime, fatela da padre amoroso, che mira le piaghe del figlio per curarle; e però non date segno né con gesti, né con parole, d’impazienza, perché il penitente non scoprirà il suo male, e così non avrà rimedio. Finita la Confessione, con dolcezza di padre direte quanto v’occorre. Uno degli avvertimenti che danno i sapienti medici nella cura degli infermi si è, che quando l’ammalato fa crisi non si muova punto, non si sbatta, né si alteri; ma che scopertolo, non ad altro si badi, che a tenerlo caldo. Questo avvertimento danno i Dottori ai confessori, che quando il penitente butta fuori le sue colpe, non s’interrompa, non si alteri. Né solo siete padre, ma medico. Or che direte d’un medico che arrivato dall’ammalato sentisse il suo male, e poi non interrogasse, non ordinasse? Voi lo stimereste indegno della vostra cura. Come medici, se volete risanar l’infermo, convien che interroghiate quanto tempo è che quell’odio si cova, che quell’amicizia si frequenta, e poi diate i rimedi di penitenze salutari. Siete padri, siete medici, e siete cerusici. Che direste di quel cerusico, il quale medicasse la piaga, e poi non la fasciasse? Così siete voi, se veduta la piaga del peccato, in cambio di medicarla con attenzione e con applicamento di consigli, di riprensioni, vi mettete un impiastro: se così farete, ecco che il penitente affolto in tal forma s’alza dal confessionario, gli cade l’impiastro dalla ferita e torna subito a versar sangue, come se mai fosse stato medicato; appena finita la confessione si ripiglia l’amicizia. Poveri confessori, io vi vedo in un gran pericolo, se non amministrate bene il Sangue di Cristo. Quando vi viene a’ piedi uno di questi avaroni, ricco, potente, e sentite ch’egli è pieno di roba altrui, buscata per via di donazioni sforzate, di testamenti falsi, di mercedi ritenute, ditegli liberamente: pretium Sanguinis est, non licet mittere in corbonam. Non ammettete le scuse che non può, che vedrà, etc. Se vi capita a’ piedi un lascivo attaccato a una carogna che tiene in casa, oppur la va a trovare, ditegli francamente con Giovanni: Non licet tibi babere uxorem fratris tui, proximi tui; lasciate la rea femmina, altrimenti non v’è assoluzione. Quel figlio di famiglia, quel giovinastro ha il comodo di peccare in casa, parlategli chiaro: Eice ancilla de domo tua, esca la donna di casa; non crediate subito al non si può, non tocca a me. Se viene per confessarsi quel cuore che cova odii e nemicizie, ed è molto tempo, che non parla col prossimo, non vi lasciate ingannare con vari pretesti di politica del mondo, ma ditegli: Vade prius reconciliari, fate pace, riconciliatevi, parlatevi, e poi vi confesserò.

QUARESIMALE (XVIII)