DOMENICA IV DI QUARESIMA (2023)

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Croce in Gerusalemme.

Semidoppio; Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei o rosacei.

In questa settimana la Chiesa, nell’Ufficio divino, legge la storia di Mosè (Le lezioni del 1° Notturno e i responsori della Domenica e della settimana sono presi dal libro dell’Esodo. È un riassunto di quanto si leggeva anticamente). Là si riassumono due idee. Da una parte Mosè libera il popolo di Dio (2a lezione della Domenica) dalla cattività dell’Egitto e gli fa passare il mar Rosso (Idem 4° e 5° Respons.). Dall’altra egli lo nutre con la manna nel deserto (2° respons. di martedì.); gli annunzia che Dio gli invierà « il Profeta » che è il Messia; gli dà la legge del Sinai (6° e 7° respons. della Domenica) e lo conduce verso la terra promessa ove scorrono latte e miele (2° e 3° respons. di lunedì. –  Nelle catacombe troviamo rappresentata l’Eucaristia per mezzo di un bicchiere di latte o di miele, intorno al quale volano delle api simbolizzanti le anime). Là un giorno sarà costruita Gerusalemme (Com.) e il suo Tempio, fatto ad immagine del Tabernacolo nel deserto, là le tribù di Israele saliranno per cantare ciò che Dio ha fatto per il suo popolo (Intr., Grad., Com.). « Lascia andare il mio popolo perché mi onori nel deserto », aveva detto Dio, per mezzo di Mosè, a Faraone. La Messa di oggi mostra la realizzazione di queste figure. Il vero Mosè, difatti è Cristo, che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato (id.) e ci ha fatto passare attraverso le acque del Battesimo; che ci nutre della sua Eucaristia, della quale ne è figura la moltiplicazione dei pani (Vang.), e che ci fa entrare nella vera Gerusalemme, cioè nella Chiesa, figura dei Cielo ove noi canteremo per sempre « il cantico di Mosè e dell’Agnello » (Apocalisse), per ringraziare il Signore della sua bontà infinita a nostro riguardo. È dunque naturale che in questo giorno la Stazione si tenga in Roma a Santa Croce in Gerusalemme. Sant’Elena, madre di Costantino, che abitava sul Celio una casa conosciuta col nome di casa Sessoriana, trasformò questa casa in un santuario per riporvi le insigni reliquie della S. Croce: e questo santuario rappresenta, in qualche modo, Gerusalemme a Roma. Così l’Introito, il Communio e il Tratto parlano di Gerusalemme che S. Paolo paragona nell’Epistola al Monte Sinai. Là il popolo cristiano canterà in mezzo alla gioia « Lætare » (Intr., Epist.) per la vittoria ottenuta da Gesù sulla Croce a Gerusalemme, e sarà evocato il ricordo della Gerusalemme celeste le cui porte ci sono state riaperte da Gesù con la sua morte. Questa è la ragione per cui in altri tempi si benediceva in questa Chiesa e in questo giorno una rosa, la regina dei fiori, perché così la ricordano le formule della benedizione; — uso consacrato dall’iconografia cristiana — essendo il cielo rappresentato da un giardino fiorito. Per questa benedizione si usano paramenti rosacei e così tutti i Sacerdoti possono oggi celebrare coi paramenti di questo colore. Questo uso da questa Domenica è passato alla 3a di Avvento, che è laDomenica Gaudete « Rallegratevi » e che nel mezzo dell’Avvento, viene ad eccitarci con una santa allegrezza a proseguire coraggiosamente la nostra laboriosa preparazione alla venuta di Gesù (Il diacono si riveste della dalmatica e il suddiacono della tunica, segni di gioia. L’organo fa sentire la sua voce armoniosa e l’altare è ornato di fiori.). A sua volta la Domenica Lætare (Rallegratevi) è una tappa in mezzo all’osservanza quaresimale. « Rallegriamoci, esultiamo di gioia », ci dice l’Introito, perché morti al peccato con Gesù durante la Quaresima, presto risusciteremo con Lui mediante la Confessione e la Comunione pasquale. Per questa ragione il Vangelo parla nello stesso tempo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, simbolo dell’Eucaristia e del Battesimo, che si riceveva una volta proprio nel tempo di Pasqua, e l’Epistola fa allusione alla nostra liberazione per mezzo del sacramento del Battesimo (altre volte ricevuto dai catecumeni a Pasqua). E se noi abbiamo avuto la sventura di offendere Dio gravemente, la Confessione pasquale, ci darà la liberazione. Così l’Epistola ci ricorda, con l’allegoria di Sara e di Agar, che Gesù Cristo ci ha liberati dalla schiavitù del peccato.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Is LXVI: 10 et 11

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ.

[Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI: 1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ.

[Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus.

[Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV: 22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”.

“Fratelli: sta scritto che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava, e uno dalla libera. Ma quello della schiava nacque secondo la carne, quello della libera, invece, in virtù della promessa. Le quali cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono le due alleanze. L’una del monte Sinai, che genera schiavi, e questa è Agar. Il Sinai, infatti, è un monte dell’Arabia, che corrisponde alla Gerusalemme presente, la quale è schiava coi suoi figli. Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera, ed è la nostra madre. In vero sta scritto: Rallegrati, o sterile, che non partorisci; prorompi in grida di gioia, tu che sei ignara di doglie, poiché i figli della derelitta son più numerosi che quelli di colei che ha marito. Quanto a noi, fratelli, siamo, come Isacco, figli della promessa. E come allora chi era nato secondo la carne, perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. Ma che dice la Scrittura? Scaccia la schiava e il suo figlio, perché il figlio della schiava non sarà erede col figlio della libera. Perciò, noi, o fratelli, non siamo figli della schiava, ma della libera, in virtù di quella libertà con cui Cristo ci ha affrancati”. (Gal. IV, 22-31) .

LA SCHIAVITÙ DELLA LEGGE E LA LIBERTA’ DI GESÙ CRISTO.

Colla Epistola di questa domenica noi tocchiamo, fratelli, un punto fondamentale nella dottrina di San Paolo, non oserei dire famigliarissimo oggi ai nostri Cristiani. La ragione è, in parte nelle mutate condizioni religiose dell’età nostra di fronte a quella che fu davvero l’età di San Paolo. Fervevano allora le dispute fra i Giudei e i Cristiani, quelli attaccati alla loro legge, la legge di Mosè e questi fieri della Religione nuova, la Religione del Vangelo di Cristo. La Legge era la sintesi del giudaismo, di quella che oggi chiamiamo la sinagoga; essa abbracciava tutto l’insieme, per allora, poderoso di aiuti che per secoli e millenni la religione dei Patriarchi e dei Profeti fornì agli ebrei per portarli a Dio. Per allora, ho detto: perché noi sappiamo che quella economia religiosa era un’economia passeggera, transeunte. Un altro ordine di cose doveva inaugurare Iddio nella pienezza dei tempi. Infatti, quando venne N. S. Gesù, e parlò Lui il Verbo suo nuovo, e operò e patì, allora l’umanità accettò il Vangelo, sentì la povertà (relativa) del precedente regime; come chi riesce ad andare oggi in automobile sente la povertà (relativa) delle vecchie carrozze, anche le più veloci e famose. In Paolo questo sentimento fu acutissimo, quasi spasmodico. Aveva respirata con orgoglio l’atmosfera della legge negli anni del suo bollente nazionalismo religioso; dalla chiusa torre della legge aveva guardato con orgoglio il resto dell’umanità, si era irritato fino alla crudeltà quando degli Israeliti come lui, avevano cominciato a parlare di un’altra cosa che non era più la legge e che la superava e si proponeva di sostituirla. E un bel giorno egli Paolo, fece la esperienza di quella novità che aveva fino allora odiata e bestemmiata. – Amò Gesù, ne accettò il Vangelo, la novella buona: buona e nuova. L’accettò con tutta la sua anima. E fu un senso di liberazione. Non la liberazione da un appoggio, che ti fa cadere più in basso; no; liberazione, invece, da un peso, la vera liberazione che ti fa ascendere più in alto, dal mondo della luce, pura e fredda, la sua anima era passata nel mondo del calore. Il mondo della luce era la legge. Proprio così. – La legge, qualunque essa sia, divina od umana, religiosa e civile, ti fa vedere la strada: ecco tutto. Non ti aiuta a percorrerla. In questo la legge somiglia alla filosofia, antica e moderna, anche la filosofia morale ci fa vedere il bene ed il male, ma l’anima ripete col vecchio sapiente: vedo il meglio e l’approvo come tale con la mente, seguo il peggio con la mia volontà. Mancano le forze, l’energia. Gesù ha portato questo al mondo: l’energia che si chiama amore, carità. Il bene non pesa più. Il giogo, senza cessare di essere severo, anzi essendolo diventato anche di più, si è alleggerito. Gesù aveva detto: Il mio giogo è soave, il peso ne è più leggero… in confronto, si intende, del vecchio giogo legale. Lo aveva detto Gesù e lo ripete sotto altra forma e lo corrobora con ragionamenti adatti a quei Farisei con i quali Egli discuteva: sottili, sofistici, disquisitori, ai quali Paolo tiene testa bravamente. E noi dobbiamo riprendere questo insegnamento di libertà non per liberarci dalla Legge morale, ma per sentirci liberi dalla legge per liberarci dalla perfidia, non per amare meno la legge Divina, ma per amarla di più, per osservarla più generosamente e più liberamente. È  la libertà vera dei figli di Dio.

Graduale

Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis.

[V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus

Ps. CXXIV: 1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem.

[Quelli che confídano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi àbita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum.

[V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VI:1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilææ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.”

 “In quel tempo Gesù se ne andò di là dal mare di Galilea, cioè di Tiberiade; e seguivalo una gran turba, perché vedeva i miracoli fatti da lui a pro dei malati. Salì pertanto Gesù sopra un monte, e ivi si pose a sedere co’ suoi discepoli. Ed era vicina la Pasqua, solennità de’ Giudei. Avendo adunque Gesù alzati gli occhi e veduto come una gran turba veniva da lui, disse a Filippo: dove compreremo pane per cibar questa gente? Lo che Egli diceva per far prova di lui; imperocché egli sapeva quello che era per fare. Risposegli Filippo: Duecento denari di pane non bastano per costoro, a darne un piccolo pezzo per uno. Dissegli uno de’ suoi discepoli, Andrea, fratello di Simone Pietro: Evvi un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che è questo per tanta gente? Ma Gesù disse: Fate che costoro si mettano a sedere. Era quivi molta l’erba. Si misero pertanto a sedere in numero di circa cinquemila. Prese adunque Gesù i pani, e rese lo grazie, li distribuì a coloro che sedevano; e il simile dei pesci, nuche ne vollero. E saziati che furono, disse ai suoi discepoli: Raccogliete gli avanzi, che non vadano a male. Ed essi li raccolsero, ed empirono dodici canestri di frammenti dei cinque pani di orzo, che erano avanzati a coloro che avevano mangiato. Coloro pertanto, veduto il miracolo fatto da Gesù, dissero: Questo è veramente quel profeta che doveva venire al mondo. Ma Gesù, conoscendo che erano per venire a prenderlo per forza per farlo loro re, si fuggì di bel nuovo da sé solo sul monte” (Io. VI, 1-15).

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA TENTAZIONE DI FILIPPO

Oramai tutta la Galilea era piena di prodigi del Signore, tutti ne parlavano, tutti desideravano vederlo e toccarlo perché dalla sua Persona raggiava un’invisibile virtù che sanava ogni malanno: quelli del corpo e quelli dell’anima. Perciò le turbe lo seguivano, di là dal lago di Tiberiade, dovunque andasse. E Gesù salì un monte brullo e deserto, e le turbe dietro. Seduto sulla cima, coi discepoli, il Maestro riguardava quella povera gente che grondante e anelante s’affaticava per i viottoli rupestri fino a raggiungere lo spiazzo dov’Egli era ad aspettarli: erano forse cinquemila uomini senza contarvi i fanciulli e le donne che non dovevano essere pochi. Intanto il sole volgeva al suo tramonto, e le folle, lontane da casa nel deserto, avevano fame. Allora Gesù, per tentarlo nella fede e nell’amore, si chiamò vicino Filippo, quell’Apostolo così semplice che una volta gli aveva chiesto: « Fammi vedere il tuo Padre celeste che poi non ti domanderò più niente » (Giov., XIV, 8). « Filippo — gli disse il Signore, — guarda quanta gente: dove e con che cosa possiamo comprare il pane che basti a sfamarla? » Il buon uomo cominciò a pensarci, a tormentarsi, a non raccapezzarci più. Con voce tremante rispose: « Poveri noi, in quali angustie ci troviamo! Ma nemmeno duecento danari basterebbero a dare a ciascun di costoro un frustolo di pane! ». Il Figlio di Dio sapeva bene che voleva fare. Comandò alle turbe di sedere sull’erba dei pascoli, poi prese da un ragazzo, che li aveva, cinque pani d’orzo e due pesci e li moltiplicò. Tutti mangiarono a sazietà e vi fu un avanzo di dodici canestri di frammenti. Chissà con che grandi occhi Filippo avrà guardato il miracolo, e chissà con che pentimento avrà detto a se stesso: « Dunque, Gesù ha fatto così per tentarmi! ed io ignorante non ho capito, e mi sono lasciato scappare la bella occasione per testimoniargli la mia fede nella sua divinità, per testimoniargli il mio piccolo amore nel suo amore infinito ». O Cristiani! La bella occasione che Filippo, l’Apostolo ingenuo, si è lasciato sfuggire, noi l’abbiamo qui. Che cosa sono le croci, le tribolazioni, le malattie, se non una prova che Gesù vuol fare di noi? Diamogli dunque la testimonianza entusiastica del nostro cuore. Come un giorno Filippo, così oggi anche noi, Gesù viene a tentare, non già per indurci a peccato, — che questo è proprio del demonio, e in questo senso nessuno dica di essere tentato da Dio (Giac., I, 13) — ma per sperimentare la nostra virtù. Gedeone mosse alla guerra con trecento uomini: ciascuno portava una tromba, ciascuno portava un’anfora vuota con dentro una fiaccola accesa. Giunsero sul campo verso la mezzanotte: il capitano ordinò improvvisamente che squillassero le trombe e battessero le anfore, perché rompendole apparisse nella notte il lume svelato. E la vittoria fu grande. Proprio così fa Gesù Cristo con noi, suoi soldati: ci fa talvolta gridare dal dolore e ci fa percuotere in tutto ciò che è caduco e terreno, perché risplenda più lucida la nostra virtù (Giudici, VII). – « Allora, oh beato l’uomo che sopporta la tentazione di Gesù! Perché, una volta provato, riceverà la corona di vita che Dio ha promesso agli amici suoi » (Giac., I, 12 – 1. GESÙ CI TENTA NELLE COSE TEMPORALI. Gesù spesso prova i suoi amici nelle cose temporali: 1) nella roba: per sperimentare la nostra fiducia nella Provvidenza; 2) nella salute: per sperimentare la nostra pazienza nelle malattie; 3) nell’onore: per sperimentare la nostra umiltà. a) Gesù ci tenta nella roba. — Nella vita del Beato Cottolengo, si racconta come un certo Cuvertino, panettiere della « Piccola Casa » si presentò per il saldo della partita, che ammontava già a diciotto mila lire. Il Beato, che aveva nemmeno l’ombra di un quattrino, cercò di condirgli il rifiuto con buone parole, rassicurandolo che la Provvidenza non avrebbe mancato per tutti e due. Giunta la sera, mentre il santo Sacerdote pregava e piangeva davanti al Sacramento chiedendo aiuto, il panettiere nella sua casa si struggeva pensando come avrebbe potuto salvarsi dal fallimento se il Cottolengo non gli saldava la fattura. Quand’ecco qualcuno bussa alla sua porta, ed entra uno sconosciuto: « Ditemi, signor Cuvertino, a quale cifra ammonta il debito del Cottolengo con voi? » « A diciotto mila ». « Prendete: fate una ricevuta che domani porterete al Canonico ». Questa non è un’antica parabola; ma un fatto reale. E simile a questo, tanti altri, ogni giorno, avvengono alla « Piccola casa della Provvidenza ». Talvolta anche le nostre famiglie sono provate nelle strettezze della miseria: ricordiamoci che è Gesù che ci tenta, per provare la nostra fiducia. Quel Dio che provvede agli uccelli e ai gigli, quel Dio che fece cadere la manna agli Israeliti affamati e che moltiplicò i pani nel deserto, ha cura anche di noi. Lavoriamo e preghiamo, sperando. b) Gesù ci tenta nella salute. — Il vecchio Tobia, mentre pranzava in un giorno di festa, seppe che sulla piazza giaceva il cadavere d’un israelita. Tosto balza da tavola, corre a prendere il morto, e lo nasconde in casa sua, per seppellirlo cautamente nella notte, ché una legge iniqua lo proibiva. Proprio un giorno che stanco per una di queste opere di misericordia, riposava sotto un murello, gli cadde negli occhi, dall’alto, un non so che d’immondo e divenne cieco. Allora vennero i suoi parenti e i conoscenti a trovarlo, e lo derisero: « To’, che bel guadagno! Hai messo a repentaglio la vita per fare del bene, abbondavi in elemosine, temevi il Signore sopra ogni cosa, ed ecco come sei stato ripagato ». « Non dite così; — rispondeva il Santo; — noi siamo figli del popolo eletto ed aspettiamo quella vita che Dio è per dare a quelli che sopportano in pazienza ». – Quando le malattie ci affliggono, quando penose infermità colpiscono i nostri cari, ricordiamoci di questi generosi sentimenti. È Gesù che ci prova, e non dobbiamo lamentarci, e nemmeno ripetere le bestemmie che dissero i parenti e i conoscenti di Tobia. c) Gesù ci tenta nell’onore. — L’onore, il buon nome, è forse la cosa a cui l’uomo s’attacca più tenacemente. Si sono visti dei re, che dopo aver perso tutto, si consolavano perché non avevano perso l’onore. Gesù talvolta ci prova in questo orgoglio; per insegnarci che più d’ogni cosa nostra dobbiamo amare Iddio. V’era forse una donna più casta di Susanna, la sposa di Ioachim? Eppure ecco che due scellerati, non avendo potuto vincerla nella virtù, la calunniano di cose infami. Tutto il popolo ne è scandalizzato, tutti accusano quella donna che fin allora aveva rispettato come la più onesta figlia d’Israele. I giudici la condannarono a morte e la costrinsero a levarsi il velo con cui coprivasi gli occhi. Susanna levando gli occhi al cielo sperò in Dio contro la stessa speranza: « Dio eterno, — esclamò piena di confidenza — tu le cose occulte conosci come le palesi, tu sai come costoro m’hanno calunniata: ed ecco ch’io muoio; innocente, ma disonorata ». Mentre Susanna veniva condotta alla lapidazione, Dio suscitò il profeta Daniele a salvarla. Capita quaggiù, e non di rado, di sentirsi calunniati ingiustamente; di vedersi sprezzati dal prossimo, segnati a dito come malfattori, disonorati. È questa una delle prove più dure, ma pur essa è una prova che Gesù ci manda per sperimentare la nostra umiltà. Non disperiamoci, non scagliamoci contro i calunniatori ma sopportiamo; anche per noi, come già per Susanna, verrà il giorno della verità, se non in questa vita nell’altra davanti a Dio. E sarà più bello. 2. GESÙ CI TENTA ANCHE NELLE COSE SPIRITUALI Con le aridità. — Santa Teresa di Gesù per due anni non seppe aprir bocca a pregare. Appena si metteva in ginocchio, appena raccoglieva le mani e la mente, subito un fastidio la tormentava così che doveva alzarsi e attendere ad altro. Perfino nella S. Comunione sentiva la sua anima chiusa e lontana, e non poteva dire una parola. E per due anni, invece di fare il ringraziamento, giacché il suo confessore le imponeva di comunicarsi egualmente, si metteva a spolverare le panche della Chiesa. « O Gesù, — disse una volta addoloratissima, — mi hai Tu proprio abbandonata? » E Gesù le rispose: « In tutta la tua vita non hai fatto tanto bene come in questi due anni ». Anche a molti Cristiani capita di perdere il gusto della preghiera e delle opere buone. Guai a quelli che si lasciano vincere dall’aridità e tralasciano di far bene, di pregare, ubbidire al loro confessore! Dimostrerebbero che nella pietà loro non cercano Dio ma se stessi e la propria consolazione. Invece non bisogna scoraggiarsi, ma seguire il consiglio di Davide: « Aspetta che il Signore ritorni, ma intanto conforta il tuo cuore ad agire fortemente » (Ps., XXVI, 14). E poi ricordiamoci che il bene tanto più vale quanto più costa. – Col permettere che il demonio ci lusinghi al male. — Dopo una giornata di terribili tentazioni, superate vittoriosamente, S. Caterina da Siena vide Gesù Cristo venirle incontro: « Signor mio! — esclamò la vergine — e dov’eri Tu un momento fa quando fantasmi turpissimi tutta mi travagliavano? » « Ero nel tuo cuore, e godevo di assistere a così bella lotta » rispose Gesù. « E come fu possibile che il mio Signore rimanesse in un cuore infestato da pensieri cattivi »? Cristo le soggiunse: « Ogni volta che tu resistevi alla tentazione, compivi il più bell’atto d’amore che tu sai fare; ed ogni vittoria rendeva la tua anima più bella che non l’avrebbero resa molt’anni di penitenze e di preghiere ». – Ecco perché il Signore anche a noi permette le tentazioni del demonio; ecco perché non dobbiamo lamentarci e nemmeno spaventarci se per giorni interi satana rugge intorno alla nostra anima. La lotta ci rende robusti, la lotta ci rende più cari a Dio, la lotta ci acquista il premio in Paradiso. – È scritto nella storia sacra che Giuseppe, elevato alla più alta dignità dell’Egitto. vide arrivare dalla terra di Chanaan colpita dalla carestia i suoi fratelli, quei fratelli che erano stati invidiosi di lui, che l’avevano sepolto nella cisterna, che l’avevano venduto come uno schiavo di poco prezzo. « Donde venite? » disse loro fingendo cipiglio crucciato. « Dalla terra di Chanaan per comprare il grano, perché là si muore di fame, risposero tremanti. « Invano; mentite! » ripigliò Giuseppe mostrando di non riconoscerli e di metterli alla prova. « Voi siete spie: siete arrivati in Egitto per conoscere i luoghi meno fortificati del paese ». Essi si prostrarono per terra e supplicarono: « Noi siamo tuoi servi, noì siamo dodici fratelli: il più piccolo, Beniamino, è rimasto a casa col vecchio padre; ne avevamo un altro, Giuseppe… ma adesso non c’è più ». Il Vice Re soggiunse: « La cosa sta come ho detto: voi siete spie! ». Allora pallidi e spauriti si dissero l’un l’altro: « Con ragione soffriamo, abbiamo venduto un fratello, abbiamo disprezzato l’angoscia ch’era nel suo cuore, abbiamo riso sulle sue preghiere: per questo sopra di noi è venuta la tribolazione ». Essi pensavano che Giuseppe non li intendesse, ma egli tutto capiva e voltandosi da una parte pianse per qualche momento. Poi ricompose la faccia scura. Avertit se parumper et flevit… et reversus quasi ad alienos durius loquebatur (Gen., XLII, 1,24). È così che nostro Signore Gesù Cristo tenta anche noi, suoi fratelli, che l’abbiamo perseguitato, che l’abbiamo venduto più volte, che l’abbiamo sepolto nella cisterna dei nostri peccati. Egli finge di non riconoscerci più: e ci parla duramente e ci prova con la miseria, con la malattia, con la calunnia, con l’aridità, col permettere al demonio di tentarci. Ma Egli ci ama, e vedendoci soffrire, come Giuseppe nasconde la sua faccia e piange. Avertit se parumper et flevit. Passata la prova, come Giuseppe l’ebreo, così Gesù si disvelerà ai nostri occhi, ci bacerà sulla fronte, e sarà una gioia senza confine. – – L’USO DEI BENI MONDANI. Questa folla assetata di verità che segue Gesù per aspro cammino fin nel deserto, dimenticando la povera natura con le sue necessità, ci insegna quale conto dobbiamo noi fare dei beni terreni. Quæ sursum sunt quærite! La nostra dimora non è questa, ma è lassù in Paradiso, cerchiamo dunque i beni non di terra, ma del Paradiso. – Ma intanto noi siamo in esilio, a contendere con le dure esigenze della vita materiale, perciò, non possiamo totalmente prescindere dalle cose terrene: poiché alcuni beni sono necessari alla nostra vita; altri, quantunque superflui, possono allietarci l’esistenza e li possiamo veder raffigurati in tutto quel pane che è sopravanzato alla fame della folla; in fine ci sono ancora quaggiù dei beni che ci elevano sopra gli altri uomini dandoci una maggior gloria e potenza. Deduciamo dal santo Vangelo di questa domenica in qual modo dovremo noi diportarci con questi diversi beni terreni e fugaci, se non vogliamo perdere l’unico Bene celeste ed eterno. 1. I BENI NECESSARI ALLA VITA TERRENA. Gesù un giorno, in mezzo ai suoi dodici, disse stupendamente così: « Non crucciatevi per il vitto, e come vi procurerete da mangiare; non crucciatevi per le vesti e di come vi procurerete da vestire. La cosa più importante è l’anima: tutto il resto passa e finisce. Guardate i corvi che non seminano, non coltivano, non mietono, non hanno granai: eppure non muoiono di fame. Guardate i gigli che non hanno niente, non sanno neppur filare: ebbene, non sono nudi, ma hanno un vestito che non ebbe l’eguale neanche Salomone nei giorni della sua gloria. Ma se il Signore ha tanta premura per i corvi e per i gigli, quanta non ne avrà per voi, creati per amarlo in tutta l’eternità!… ». Queste parole infondono nell’anima di ciascuno una quieta fiducia nella divina Provvidenza che dal Cielo ci sorveglia e conosce ogni nostro bisogno. Quærite primus regnum Dei. La nostra premura principale deve essere per ciò che è più importante: la vita eterna. Il resto ci sarà aggiunto, se però non è di impedimento.  E così hanno fatto le turbe: hanno cercato per primo il bene della loro anima senza preoccuparsi del corpo e delle sue necessità, e nel deserto non sono morti né di fame, né di sete. Facite homines discumbere… et distribuit discumbentibus quanmem volebant…. impleti sunt. Quando il popolo di Israele, emigrante dall’Egitto, si trovò affamato nella solitudine del deserto, la Provvidenza di Dio fece piovere per loro la manna. Ci furono degli ingordi che per la gretta paura di non averne abbastanza, ne raccolsero per più giorni. Ma al giorno dopo, protendendo la loro avida mano ai vasi colmi, trovarono che la celeste manna s’era tramutata in vermi schifosi. Cristiani: quegli uomini che dimenticano gli interessi dell’anima. per il cibo materiale e le cose, siano pur necessarie, della vita corporale, dopo la giornata di questa vita, troveranno il frutto dei loro sudori tramutato in vermi. – 2. I BENI SUPERFLUI ALLA VITA TERRENA. Sulla terra non ci sono appena uomini che hanno da sudare per vivere giorno per giorno; ma ci sono anche quelli che vivono in una discreta agiatezza ed alla cui mensa c’è sempre qualche cosa che sopravanza. Ebbene, è per essi la lezione che il divin Maestro c’insegna oggi dal deserto: « Colligite fragmenta, quæ superaverunt, ne pereant ». Nel castello dei signori d’Aquino c’era qualche cosa di più del semplice necessario. Ed era un immenso piacere per il giovanetto Tommaso quando poteva raccogliere un poco di quel superfluo per distribuirlo ai poverelli di Cristo. Il padre suo che vedeva ogni giorno scomparire dalle dispense non poche vivande, rimproverò acerbamente il figliuolo e gli proibì di distribuire ai poveri qualsiasi altra cosa senza il suo permesso. Il giovane però, che non ragionava più con la prudenza degli uomini, ma con la prudenza di Dio, continuò ancora a sfamare i poveri ed a colmare la loro indigenza coll’abbondanza della casa paterna. Ma una volta fu sorpreso dal padre con un grosso fardello sotto il braccio. « Voglio vedere che cosa tieni! » gridò il genitore accigliato, precludendogli la via. Il figliuolo impallidì, quasi tremando. Ma il padre non si piegò: « Voglio vedere!… ». Il piccolo Tommaso guardò il padre con occhi pieni di lagrime, poi aprì il mantello e … lasciò cadere. E apparve, sotto gli occhi attoniti del padre e del figlio, un gran fascio di freschissime rose. Tutto quello che noi diamo ai poveri non è perduto, ma è raccolto: « manus pauperis est gazophilacium Christi », ha detto S. Giovanni Crisostomo. Tutto quelle che noi diamo ai poveri per amor di Cristo, si tramuterà in fiori per la nostra immarcescibile corona del Paradiso. Invece quello che si consuma in esagerati divertimenti, in teatri, nei caffè, nei giuochi, nelle intemperanze, questo non è raccolto e perisce. Colligite fragmenta quæ superaverunt, ne pereant. Quello che si consuma nel seguire le mode pazze e costose, in vesti di seta, in pellicce finissime, in collane, gingilli, questo certo non è raccolto, ma perisce. E talvolta con queste mode sciocche e forse indecenti, si ha il coraggio di presentarsi al tempio di Dio, dove ci sono i poveri che cercano piangendo quello che Dio dà ai corvi e ai gigli: un pane quotidiano e una veste. – 3. IL BENE DELL’ONORE MONDANO. Avendo Gesù conosciuto che il popolo sarebbe accorso per farlo re — ut facerent eum regem — fuggì segretamente sui monti. Questo esempio si ripercosse nella vita di tutti i Santi: leggendo la vita di questi eroi, traspare da ogni loro azione quanto aborrissero da ogni onore, dopo che il loro Maestro aveva preferito fuggire sui monti, piuttosto che lasciarsi proclamare re da quella folla che aveva mangiato il suo pane. E deve essere stato commovente nel palazzo del marchese Gonzaga assistere ad una strana festa. Erano stati invitati tutti i parenti e l’aristocrazia delle corti amiche. Che cosa poteva arridere di più alla mente sognatrice di un giovane che la lusinga dello splendore, della potenza, della corona? Ed ecco: invece, in mezzo a quegli illustri personaggi, apparire il primogenito del marchese Ferrante Gonzaga, che, senza rimpiangere, solennemente respinse da sé lo splendore, la potenza e la corona marchionale. Getta via i suoi abiti preziosi per indossare una tunica nera, e nascondersi nel convento e confondersi coi poveri e coi sofferenti fino a curarne le piaghe infettive. E quando la peste contratta nell’assistere gli ammalati lo condurrà a morte, egli sorridendo chiuderà gli occhi per vedere quale splendore, quale potenza, quale splendida ed eterna corona gli portano gli Angeli, in compenso ai mondani onori che egli ha respinto per imitare Gesù Cristo. Ma perché Gesù è fuggito quando volevano farlo re? perché gli onori del mondo sono falsi e in sé e da parte di chi li offre. Bugiardi in sé. — 1) Perché c’ingannano: ci fanno credere che siamo più degli altri, e forse ne siamo peggiori, « dicis: quod dives sum locupletatus et nullius egeo: et nescis quia tu es miser et miserabilis et pauper et cœcus et nudus » 2) Perché sono fugaci: e lo dimostra il profeta Ezechiele con una similitudine: « Assur si è innalzato come un altissimo cedro. Il cielo l’ha dissetato con la sua rugiada, la terra l’ha nutrito con la sua sostanza. Ed egli si rizzò nella sua superbia: bello nella sua verdura e foltissimo di rondini. Gli uccelli volavano a porre il nido sotto le sue braccia, e i popoli sotto ai suoi rami cercavano ombra ». Ma la fortuna è troppo breve: il Signore lo colpisce dalla radice e cade a terra. Bugiardi da parte di chi ci onora. — Le turbe volevano proclamare Gesù re, non per un affetto puro; ma per egoismo, per il proprio pane. Gesù sapeva moltiplicare il pane, e quelli nella speranza che a’ suoi sudditi non l’avrebbe mai lasciato mancare, lo vogliono per loro re. Amen, amen dico vobis: quæritis me non quia vidistis signa, sed quia manducastis ex panibus. E quando spiegò che Egli portava al mondo il pane delle anime, l’Eucaristia, tutti lo abbandonarono e più nessuno lo gridò re. – La regina Isabella di Spagna aveva ricchezze, regni, onori, bellezza e tutto quanto nel mondo si può desiderare. Tre giorni dopo la sua morte fu vista da un suo ammiratore: senza ricchezze, senza regni, senza onori, schifosa. Ecco dove vanno a finire tutti i beni temporali e gli onori. Non illudiamoci. Operamini non panem qui perit; sed qui permanet in vitam æternam (Giov.,VI, 27). Procuratevi non già il pane per riempirvi; ma un cibo che nutrisce per la vita eterna.

IL CREDO

 Offertorium

Orémus Ps CXXXIV: 3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra.

[Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine.

[Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

Orémus. Da nobis, quæsumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus.

[Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (244)

LO SCUDO DELLA FEDE (244)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (13)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO III

IL SACRIFICIO DIVINO

ART. II

LA CHIESA.

La Chiesa è la congregazione di tutti i fedeli, i quali professano la medesima fede e legge di Gesù Cristo, partecipano dei medesimi Sacramenti, sotto la condotta dei legittimi pastori, e l’ubbidienza del sommo Pontefice Romano. È la società degli uomini con Dio riconciliati per Gesù Cristo. Questa società è destinata a compiere il numero degli eletti in Paradiso, essendo ella il mezzo scelto da Dio per far trionfare la sua gloria e la sua bontà. Avendo Iddio creato l’universo pel trionfo della sua gloria e per isfogo della sua bontà, ne consegue, come dice s. Epifanio con energica espressione, che principio di tutte le cose è la Chiesa cattolica; e fine è il numero degli eletti da lei condotti in Paradiso. Ordinata così da Gesù Cristo, è incaricata da Lui di propagare la verità, le grazie, le virtù. La verità, contenendo il deposito dei sacri dogmi ad essa confidati, e predicandoli continuamente, per sempre, in tutte le parti dell’universo: le grazie traendole da Dio coll’oblazione del Sacrificio, e comunicandole agli uomini coll’amministrare loro i Sacramenti: le virtù col condurre gli uomini a far tutto a gloria di Dio, secondo i precetti della dottrina divina. Per questo divino ministero è detta nella Tradizione « ancella del Signore, » (S. August. in Ps. 88, cont. 2.) incaricata che la è del servizio divino: e s. Agostino la chiama tabernacolo della Divinità: vero trono di Dio in sulla terra la dice s. Pietro Damiano (Op. 6, ad Henric. Ar.): tempio e sacrario della Divinità la saluta s. Ambrogio (Lib. 3 Hexam. cap. 1). Così ella, essendo unita con Dio, e Dio affidandole i tesori, che vuol partecipare agli uomini, tiene in mano tutti i sacri carismi, ossia è padrona e dispensiera di tutte le grazie, e forma sulla terra la vera corona di Dio (S. Hier. in Psal. 20.). Tutti questi doni poi derivano nella Chiesa da Gesù Cristo, che non solamente l’ha lavata, e rigenerata col suo Sangue, ma eziandio si è unito a lei come capo di questa società, di cui i fedeli sono le membra, ed ha promesso di star con essa indivisibile, come il capo non si può dividere più dalle altre membra del corpo (S. August. in Ps. 44, con. 2.). Questo gran Capo in cielo, Gesù, sta nella Chiesa, anche in terra sempre personalmente, e realmente frammischiato ai fedeli nel SS. Sacramento. Oggetto delle compiacenze divine in mezzo agli uomini, tira sopra essi tutto il cuor del Padre. Per il che il Padre divino, guardandolo qui, (se ci è permesso di dir cose divine in modo umano) par che dir debba: « Là è il Figliuol mio Unigenito, là fra le membra che si ha formate in terra Io l’amo e per Lui amo tutte le membra che ha seco incorporate.» La Chiesa poi a Gesù tenendosi abbracciata in sull’altare, può dire a Dio in certo qual modo come sposa Divina: « qui siete Voi, mio Dio: e siete Voi carne della mia carne, ossa delle mie ossa, e nessuno mi potrà mai più separare da Voi. » Così a lui unita trae dal suo Costato la virtù di generare dal suo Sangue figliuoli pel paradiso all’eterno Padre. Ecco adunque la Chiesa, vergine casta di corpo, madre feconda di figli, immagine della città eterna (S. August. De unitate Eccl. cap. 4.), vera meraviglia di Dio in sulla terra. Ora il Sacerdote, sollevato in sulla terra fra le braccia di questa sposa, come tutta la famiglia, di cui ella è madre in terra, e padre è Dio in cielo; egli sa che, come le compiacenze del Padre son riposte nel Figlio suo Gesù, così le compiacenze di Gesù sono riposte nei fedeli, che compongono il suo Corpo, anzi il suo più caro corpo (S. Bernard. Serm. 12, in Cant.), che è la Chiesa; e trovandosi così tra le braccia della Chiesa e quelle di Dio, sente il bisogno di raccomandargli cotesta Sposa di Lui e madre sua, e lo supplica, affinché per quei sacrifici accettevoli, che gli vien ad offrire, si degni purificare, custodire, adunare e reggere per tutto il mondo la Chiesa cattolica insieme col suo servo, Papa nostro, col Vescovo e con tutti i fedeli. Raccomanda il romano Pontefice; poiché la Chiesa, nello stato di quaggiù, è fondata sopra una Pietra, contro la quale non possono prevalere le forze d’inferno: cioè sopra il capo degli Apostoli, che è s. Pietro, e sopra i romani Pontefici, suoi successori, supremi vicari di Gesù Cristo in terra. E sapendo per divina rivelazione, che, per beneplacito del divino Fondatore, questa Chiesa del romano Pontefice fu scelta in modo da non venir meno giammai, essendo così diventata per l’elezione come il fondamento e la parte essenziale della Chiesa universale; perciò raccomandando il Pontefice, raccomanda il capo, che è la parte principale del corpo.

(Nell’istante in cui stampiamo queste pagine (prima edizione an. 1855), ci giunge l’infallibile decreto dogmatico del S. P. Pio IX, che dà il Dogma dell’Immacolata Concezione. Con la pienezza del giubilo pel trionfo di Maria SS. noi acclamiamo pure il trionfo del Sommo Pontefice. – Noi pigliavamo ed esporre le nostre idee, quando ci giunse il fascicolo del periodico della Civiltà Cattolica, anno sesto, n. CXVII  seconda serie, vol. 9, in cui troviamo nell’Articolo l’Assemblea Cattolica e le assemblee eterodosse esposto con molta dottrina e lucidezza il meditato nostro concetto. Rimandando a quello il lettore, esponiamo qui brevemente questi pensieri. Il Pontefice pronuncia il Decreto; e la infallibile parola colla rapidità del baleno diffonde la fede in tutte le parti dell’universo. Le luminarie sembrano sull’istante dal telegrafo elettrico trasportate in un attimo dalla cupola di san Pietro per tutte le città, fino nel più piccolo contado al tugurio del povero, che fa festa dinanzi l’immaginetta di Maria Santissima. Dovunque è gioia e tripudio e festa pur non comandata. Il Pontefice ha parlato, e la sua parola è un lampo che rischiara tutte le menti di un medesimo Vero. Ecco ogni ginocchio è piegato, ogni voce è concorde, ogni sospiro unanime, e nell’unità di quei concenti armonici maestosamente dominante l’oracolo del successore di s. Pietro, che quasi non sai se segua il dettato tradizionale della Chiesa, o imponga alla Chiesa il dettato di s. Pietro. Il Pontefice parla ripetendo il domma, che da diciotto secoli si serba per tutte le vie delle generazioni novelle, e la Chiesa è certa di quel domma, perché l’oracolo del Vaticano lo assicura. – È vero, Egli ha consultato le Chiese dell’universo ; e i Vescovi dell’orbe cattolico portaron seco al Pontefice le credenze delle loro Chiese: ma confessavano che a crederlo di fede, aspettavano la parola del Pontefice che lo dichiarasse. L’ha pronunciata la parola infallibile quel labbro, che ha l’impronta della divinità; ogni intelletto crede, come ogni cuore adora. L’universo proclama quella parola come voce di Dio. Noi crediamo evidente questa conseguenza, come è evidente l’assioma, che dal fatto provato deduce la potenza di chi l’ha prodotto; e il fatto ha dimostrato che il Sommo Pontefice col suo oracolo INFALLIBILE dichiara e salda la fede in tutta la Chiesa cattolica. Questa adunque confessa di credere INFALLIBILE questo oracolo. L’infallibilità poi del Papa fu definita come dogma nel Concilio Vaticano.).

 Poi raccomanda i Vescovi, posti dal Signore a reggere le varie altre porzioni e membra, vere, e pastori delle anime, guardie del campo di Dio e duci del suo popolo santo, cui Costantino il Grande chiamava custodi dell’anima sua. Raccomanda, come s. Paolo esorta scrivendo agli Ebrei, ed al suo Timoteo, anche i re col loro nome particolare, dov’è concesso. Ben era edificante la carità dei primi Cristiani, che perseguitati a morte, celebrando nei sotterranei, pregavano, (come attestano Tertulliano, Origene e Dionisio) per la pace e prosperità, per le vittorie dei re tiranni. Ora con egual fervore la Chiesa raccomanda i re cattolici e i potenti della terra; affinché cerchino la felicità dei popoli, e la salute propria come buoni figliuoli in seno alla madre Chiesa; se pur non vogliano tradire i popoli a loro affidati col perdersi insieme con essi, e gettarsi a rovina fuori delle braccia di questa madre celeste. – Finalmente fin qui (dice il Cardinal Bellarmino) il Sacerdote ebbe pregato per tutti questi in modo particolare: convien pur ora che raccomandi tutti i fedeli nell’unità della Chiesa; e lo fa col pregare « per tutti gli ortodossi cultori della Cattolica Apostolica fede. » Poi finalmente passa a raccomandare le persone, verso cui ha particolari doveri, con quest’altra porzione di preghiera, che diamo qui, detta il Memento.

Art. II.

IL MEMENTO E LA COMMEMORAZIONE PEI VIVI.

Orazione.

« Ricordatevi, o Signore, dei vostri servi, e delle vostre serve (qui giunge le mani e prega per le persone che gli preme di raccomandare particolarmente; poi stendendo di nuovo le mani prosegue), e di tutti i circostanti, dei quali conoscete la fede, e vi è nota la divozione, pei quali noi vi offriamo questo sacrificio di lode per sé, per tutti i suoi, per la redenzione delle anime loro, per la speranza della salute e per la liberazione di tutti i mali, e rendono i loro voti a Voi, eterno, vivo, vero Iddio. »

L’ordine della preghiera.

In questa orazione si raccomandano le persone, per cui si ha particolare dovere di pregare. Questo vuol l’ordine della carità. La carità che è quella che spira la vita nell’ordine morale. non ha limiti, né esclude persona; ma tutti abbraccia per riunirli in seno a Dio. Mirando solo a questo fine, ella v’indirizza tutti i suoi atti. Ma essa è come l’ordine universale, con cui Dio tiene insieme tutte le creature, e mantiene l’armonia dell’universo. Quello non distrugge gli ordini particolari, anzi li compone in unità, gli armonizza e li dirige ad eseguire tutti insieme il provvidenziale disegno: ma in modo che ciascuna creatura, aggirandosi nel suo cerchio d’azione con quel movimento che la provvidenza le ha assegnato, ottenga il fine suo proprio, mentre pure concorre ad ottenere il fine universale. Così anche la carità ama tutti, e tutti vorrebbe con Dio: nutre tuttavia particolari affetti, e desidera più vivamente di operare il bene per quelli che ci appartengono più strettamente. Immagine della bontà di Dio, il quale mentre porta in seno e coltiva tutte le creature dell’universo da Lui sostenuto, usa nondimeno di consolare di speciale misericordia quelle anime che predilige per elezione: anche la carità della Chiesa abbraccia tutti i fedeli, e tutti li fa dal Sacerdote raccomandare; ma lascia poi anche alla sua divozione, che con Dio si rammenti in peculiare orazione di coloro, a cui è più strettamente legato, 1° per condizione del proprio stato ; 2° per attinenze, che nascono da particolari circostanze. Quindi dall’ordine della carità nasce l’ordine della preghiera.

L’ordine della preghiera riguardo alle persone da raccomandarsi.

Secondo quest’ordine dobbiamo in particolar modo pregare per coloro verso ai quali abbiamo doveri, prima per condizione di stato: in secondo luogo per casuali attinenze, che possiamo avere con essi. In primo luogo dunque dobbiamo in particolar modo pregare per quelli verso i quali abbiam doveri per condizione di stato. E per questo titolo numeriamo i tre ordini di persone seguenti, che dobbiamo raccomandare.

1° Coloro che sono affidati alle nostre cure; perché, se Dio ci affidò delle anime, il principal nostro dovere è di pregar per quelle; ché questo è il mezzo di tutti più efficace, per fare il loro bene davvero. Perciò appunto la Chiesa impone ai Vescovi ed ai parroci di offrire il santo Sacrificio della Messa, applicandone il frutto in ogni giorno festivo pel popolo alla loro cura commesso. E ciò è conforme all’esempio datoci da Gesù Cristo, il quale pur faceva questa bella orazione (Giov. XVII, 1): « Padre santo, salva nel Nome tuo quelli che hai dato a me; » poi diceva ancora: « non solo per essi prego; ma pure per quelli che sono per credere in me; acciocché tutti siano una cosa sola, siccome tu, o Padre, sei in me ed Io sono in Te; acciocchè essi siano in noi una cosa sola ».

2° Per condizione di stato si deve pregare altresì per coloro, coi quali sì hanno particolari relazioni spirituali . Il Sacerdote deve quindi pregar per coloro, che lo eleggono a fare l’offerta del Sacrificio, e deve applicare il frutto di cui può esso disporre, per loro: e che per tal fine gli offrono la loro elemosina in suo sostentamento, chiedendo che impieghi l’opera del suo ministero a loro vantaggio spirituale.

3° Poi ancora per condizione di stato si deve pregare per coloro, pei quali si hanno particolari e più strette relazioni naturali; cioè pei parenti, amici, benefattori: poi anche per i nemici. Anche Gesù sulla croce, fatto di sé sacrificio, pensò di provvedere alla Madre sua SS. Raccomandandola con tenerezza infinita al discepolo dell’amore: ed in quell’istante pregò in singolar modo per i suoi nemici, che lo crocifiggevano. Anzi ci avvisa il Signore, che se mai avessimo qualche po’ di ruggine nel cuore contro il prossimo, e ce ne ricordassimo sull’altare, piuttosto che far sacrificio coll’odio in cuore, sarebbe meglio lasciar l’offerta a mezz’azione (Matt. V), e correre a riconciliarsi prima col fratello, per venire poi ad offrire col cuore che abbraccia tutti in santo amore e vuole tutti salvi in seno a Dio. – In secondo luogo abbiamo detto, che oltre il dovere di pregare, che nasce dalla condizione dello stato, vi sono altri doveri, che sono prodotti da casuali relazioni, in che ci troviamo cogli altri.

1° E perciò prima si ha da pregare per coloro, che pregano attualmente con noi; giacché questa preghiera, fatta insieme con noi, forma come un legame spirituale ed intimo, per cui davanti a Dio siamo un cuor solo ed un’anima sola; e come una sola voce da un sol corpo da noi s’eleva al trono della divina Maestà. Mentre l’altrui pietà viene in nostro soccorso, le comuni miserie toccano più vivamente il cuor del Padre di tutti. Ne viene quindi essere molto utile la preghiera fatta in comune.

2° Si ha da pregare per quelli, che si raccomandano alle nostre preghiere, perché noi dobbiamo riconoscere nell’istanza, che ci fanno di pregar per loro, come un invito della Provvidenza ad esercitare verso del prossimo la carità delle preghiere. Questo pur ad esempio del Salvatore, che piange sulla tomba di Lazzaro e lo risuscita; compassiona la vedova di Naim, e le ridona a vita il morto figlio. Così l’uom pio stende, diremo la protezione della pietà ed irraggia la sua ordinata carità tutto d’intorno, più viva verso quelli che gli sono più vicini. – Veduto l’ordine delle persone, che si meritano le nostre preghiere, bisogna osservare l’ordine della preghiera riguardo alle grazie da chiedere.

Ordine della preghiera riguardo alle grazie da chiedersi.

Pregando per questi e per tutti, dobbiamo sempre chiedere tutto che torni a gloria di Dio e che giovi alla salute dell’anime, mettendo l’orazione nostra in mano del Padre nostro con grande semplicità e confidenza, affinché Egli esaudisca la nostra preghiera; ma indirizzi nello stesso tempo la nostra ignoranza e grossezza. Sicché, se domandiamo cose inutili, o dannose, ci esaudisca Egli nella sua bontà col « darci altrettanti veri beni; dandoci in tal modo anche più di quello che per noi si domanda; perché Egli è un Padre, il quale sa dare le cose buone ai suoi figliuoli. – Perciò supplichiamo Dio, che si consigli interamente colla sua bontà, e tutti i veri beni ci conceda, pei meriti di Gesù, facendo che la sua misericordia trionfi della divina giustizia, e dei demeriti nostri. Intanto è una consolazione pei cuori ben fatti sentire la Chiesa imporci un dovere di raccomandar le persone, che ci sono più care! Oh la buona Madre! Ella indovina tutti i bisogni del cuore umano e colla Religione santificando gli affetti, gli rende più saldi, più puri, più soavi. Facciam ora di spiegare il Memento, che ci porse occasione a queste osservazioni.

Esposizione dell’Orazione: Memento.

« Ricordatevi, o Signore, dei vostri servi e delle vostre serve ecc. ecc. » Dio non è come gli uomini, soggetto a dimenticarsi; ma questo modo di pregare accenna una gran confidenza, per cui par che si dica a Dio: « Voi li conoscete, o Signore, i vostri servi e le vostre ancelle, a Voi son note le necessità di tutti; pur lasciate che noi vi raccomandiamo il tale ed il tal altro ancora, e quei loro particolari bisogni; » e qui nomina quelle persone, che sente dovere raccomandare con distinzione: e giungendo le mani abbassa il capo in profondo raccoglimento, per far del cuore le sue confidenze intorno ad esse in seno a Dio, quasi dicendo: « esse hanno titoli peculiari verso alla nostra gratitudine: e noi non possiamo meglio mostrar la nostra riconoscenza, che col raccomandarle a Voi, che comandate di così amarle; date loro tutto ciò che è ‘bene per loro. » Anche s. Cipriano domandava nelle sue lettere, lontano che era dal suo gregge in esilio, che gli fossero scritti i nomi di coloro, che facevano del bene alla sua Chiesa ed ai poverelli: per ricordarli co’ loro nomi nel Memento ad uno ad uno. Anticamente usavasi nominare ad alta voce i benefattori, che si raccomandavano: onde san Gerolamo levò la voce, e garri coloro, che offrivano doni per avere il vanto di essere nominati nel tempo del Sacrificio (In cap. XVIII, Ezechiel). Il diacono. portava scritti

sui dittici o tavolette il nome dei benefattori e di coloro che si dovevano raccomandare, e li suggeriva al Sacerdote raccolto in orazione. Il Sacerdote adesso prega in silenzio, affinché i fedeli ricevano da Dio solo la ricompensa di lor carità. – « Dei quali Voi conoscete la fede, e vi è nota la divozione ecc. ecc. » Prega pei circostanti, ma quasi a condizione che sian presenti con viva fede, e con sentimento di devozione verace, come se dicesse: « Noi Vi supplichiamo, o Signore, di degnar d’uno sguardo benevolo questi, che vi adorano nella lor fede, e a voi anelano in carità; ma per quelli, che in quest’ora tremenda, in questo terribile luogo portano gli oltraggi sugli occhi vostri santissimi; ah! per costoro saremmo per dirvi di rivolgere da loro i vostri sguardi, e di non ascoltare preghiere che accompagnate da tante irriverenze, provocan sopra di essi, più che altro, i vostri castighi. »

Poi dice:

« Pei quali Vi offriamo, o che vi offrano questo Sacrificio di lode, ecc, ecc. »

Perchè, dice Innocenzo III (Lib. 3, De Mys. cap. 5, et Tertull. De exhort. cast.), non solamente sono i Sacerdoti coloro, che offeriscono; ma offeriscono pur tutti i fedeli, nel cui nome offerisce il Sacerdote. Finalmente poiché le parole, che seguono, significano che il Sacrificio della Messa è Sacrificio di lode, di adorazione e di ringraziamento, che espia i peccati, e che ottien tutte le grazie da Dio; ne cogliamo occasione di ricordare qui a maggiore chiarezza ciò che abbiamo già altrove toccato quando lo richiedeva l’esposizione nel corso dell’opera, cioè come la santa Messa sia sacrificio Latreutico, Eucaristico, Propiziatorio, Impetratorio; ed ora diremo del frutto (Bened. XIV, De Sacrif. Missae, lib. 2, cap. 13,).

Il Sacrificio.

È imminente l’istante in cui nella Messa si esegue il Sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo in memoria del sacrificio in sulla croce. Ma noi ci riserbiamo di esporre queste qualità del Sacrificio nell’istante più solenne e più terribile, in cui abbiamo bisogno di raccogliere i pensieri più santi; quando contempleremo Gesù, che compie il Sacrificio Divino. Là tendono come raggi al centro tutti gli Articoli della povera Opera nostra ora invece parleremo brevemente del frutto.

Art. IV.

Del frutto del Sacrificio.

Il frutto, che viene dal SS. Sacrificio, è di tre sorta. Il primo è il frutto, che ne vien direttamente dalla redenzione operata da Gesù Cristo; e questo si produce sicuramente dalla parte di Gesù Cristo; e si richiede solo che non si ponga impedimento da chi lo deve ricevere. – Il secondo è il frutto, che ne viene dalla divozione della Chiesa. Questa sposa del Signore, sempre in ogni luogo, pel ministero di tutti i Sacerdoti offrendo sacrifici, acquista continuamente meriti di grazie per la santità, con che esercita le sue funzioni. Siccome per questo si serve del ministero delle membra sue, che sono i Sacerdoti ed anche gli altri fedeli; così, a seconda della maggiore o minor innocenza, e santità, e divozione, può crescere o diminuire questo frutto. Qual tesoro adunque è la santa Messa, posta in nostra mano per fare acquisto di vita eterna; e come possiamo noi aggiungere accrescimento in merito della nostra divozione! – Il terzo frutto nasce dallo zelo e dalla divozione del particolar Sacerdote offerente, la cui pietà in quel momento così prezioso può ottener grazie particolari. Deh quanto è vero che un Sacerdote santo è un vero ministro di benedizioni per la Chiesa (Ben. XIV. De Sac. Miss. lib. 2, cap. 3, n. 20)! Sì però, che le sue miserie non diminuiscano il primo frutto, che vien tutto intero da Gesù Cristo.

QUARESIMALE (XXII)

QUARESIMALE (XXII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMASECONDA
Nella Domenica quarta di Quaresima.


Del Purgatorio. In cui si mostrano le pene gravissime per
l’intensione, lunghissime per la durata, accresciute dalla nostra ingratitudine.

Accepit Jesus panes, et cum gratias egisset distribuit discumbentibus. San Giov. cap. 6


Perdonate alla mia lingua, miei UU. se quella mattina mi pubblica bramoso di cambiare questo sacro pergamo in un teatro, ove divenuto di predicatore recitante, possa più facilmente ottenere il mio fine; ed è pur, vero, che se tale io fossi, potrei da voi impetrare ciò che ottengono ogni dì tragici attori, a’ quali, quantunque sappiate che fingono, pagate ad ogni modo vero tributo di compassione, e senza risparmio
di lacrime, gli ponete i cuori in braccio, e gli versate le anime in seno. Rappresentisi in palco una Andromeda, e voi vedrete strepito nell’udienza, sollevati gl’affetti de’ circonstanti. Fingasi legata ad uno scoglio una beltà, per esser preda de’ mostri marini che, già vicini, slarghino le fauci per ingoiarla, non troverete allora in teatro spettatore così codardo, che non desideri sprigionare quella beltà ed uccidere il mostro. Dio immortale, e se io, da questo luogo facro, aprirò scena funesta per mostrarvi milioni d’anime nel Purgatorio, affogate tra’ tormenti, sepolte tra le carneficine, le quali urleranno con grida le più lacrimevoli che possa spremere un immenso dolore; e pure chissà se otterrò, non dico una buona somma di danaro per suffragarle, non dico frequenza de’ Sacramenti per liberarle, ma neppure una interna compassione. O quanto bramerei vedere innalzato in questa vostra patria il tribunale d’Atene in cui, con severità non ordinaria, fu accusato il ricco Gallio, sol perché non sovveniva la povertà d’Aristide suo parente, ma viva il Cielo, che le mancano questi rettissimi giudici a concordare chi più spende, o nelle vanità superflue, o nelle mense troppo laute, v’è Iddio, che siccome assisté a Giovanni allorché erat in Vinculis, così assisterà alle Anime Purganti, non voglio però, con rimettere la causa a Dio, tralasciare di rappresentarvi; e sarà l’assunto del mio discorso, delle pene atrocissime del Purgatorio, accresciute dalla nostra ingratitudine. – Sappiate dunque, UU. Miei, che le anime dei vostri amici, dei vostri parenti, di quelli che più teneramente amavate, vivono tra tormenti sì fieri, che maggiori non furono inventati dalle barbarie di Nerone in Roma, né dalla crudeltà di Dionisio in Siracusa. Figurarevi, dunque, per apprendere bene questa verità, sotto de’ vostri piedi una profonda carcere, la quale per la vicinanza che ha con l’inferno, senza parteciparne niente dell’empio, ne ritragga però il penare tormentoso. Quivi vedrete come la notte domina con nebbie oscure, l’aria lampeggia con baleni funesti, scuote il suolo con orrendi terremoti, e senza mai cessare risuonano quelle caverne per i gemiti inconsolabili di quelle anime, e per i fieri sibili di quei mostri. Quivi i tori
più celebri di Falaride, i cadaveri verminosi di Massenzio, le ruote più spietate di Diocleziano, servirebbero di refrigerio a quell’anime purganti. Miei UU., raccogliete pure in un sol pensiero, le pene più mostruose di questa vita, e poi leggete ciò che San Cirillo lasciò scritto, si omnes, quæ in mundo cogitari possunt pœnæ, pœnis, ac tormentis quæ illic habentur, comparentur, solatia sunt. Ah, che tormenti simili, neppur formano un’ombra di quei che tollerano le anime del Purgatorio. Ma ciò che disse Cirillo con le parole, lo confermò Cristina con i fatti. Attenti! – Appena morta, questa Santa Vergine fa condotta a vedere le pene acerbissime del Purgatorio, ed in esse vide impiegata in orrori, in confusioni, la Giustizia di Dio, indi presentata al Divin Tribunale si sentì interrogare di ciò che aveva veduto patirsi da quell’anime, al che (ah mio Dio) rispose: purtroppo ho veduto gl’orrendi tormenti;  or vedi Cristina, sentissi replicare, mira quella sedia, quel trono ricco d’oro, di perle, di gemme, quello appunto significa l’eterna Gloria che hai da godere nell’eternità beata; dimmi adesso liberamente, se vuoi prender possesso d’un sì gran Bene, pure ritornartene in vita per patire molto a beneficio di quelle anime. Udite ora la risposta di Cristina alla proposta di Cristo. Io ho veduto, dice la Santa Vergine al suo Redentore, le carneficine con le quali sono tormentate quelle misere anime, e son tali, che io volentieri mi eleggo di tornare a vivere per patire a pro loro orrende pene. Sì, sì, mio Dio, per liberar di colaggiù quelle anime, io mi eleggo un inferno di strazi, e rinunzio ad un Paradiso di contenti. Sarei una tigre se pur mi avessero a muover le mie consolazioni, che i loro tormenti. Quando ecco, che Cristina per effettuar quanto disse, s’alzò subito dal cataletto, alla presenza de’ Sacri Ministri, allorché gli celebravano le esequie. Inorridite pure, o miei UU.. Ecco che si pone Cristina dentro fetidi sepolcri per esser divorata da’ vermi, s’inzuppa nelle caldaie bollenti, perché l’acque la disfacciano, e per miracolo n’esce illesa, si tuffa ne’ stagni gelati, acciocché il freddo l’intirizzisca, or si pone alquanto lungi dal fuoco perché le fiamme divoratrici lentamente la distillino, or penetra nelle più orrende selve per essere sbranata dalle fiere, or si caccia nelle fornaci acciò le fiamme l’inceneriscano! No, la si lancia giù dalle rupi, perché le punte de’ sassi la scervellino, qui si mette sotto le macine de mulini perché minutamente la disfarinino. In somma, era Cristina un Purgatorio animato, mentre miracolosamente viveva tra tanti patimenti. Né vi crediate già, che questo suo penare sì fiero fosse di tre giorni, si stendesse a settimane, non passasse il mese, oppur finisse in un anno appunto, fu di più lustri, mentre fu di venticinque anni. Argomentate ora voi UU. qual abissi di pene, che spettacoli orribili dovesse ella vedere nel Purgatorio, mentre eccitarono nel suo cuore una compassione sì smisurata. Negate ora se potete quella d’Agostino, che le pene del Purgatorio sono maggiori di tutte quelle del mondo; ille Purgatorius ignis durior est quam quidquid possit in hoc sæculo poenarum videri possit, aut cogitari. Cristina per quelle anime che non appartenevano né in vigor di sangue, né d’amicizia, patisce tanto, e noi per l’anime de’ nostri congiunti non solo non faremo ciò che ella fece, ma neppure offriremo una limosina a lor suffragio, una corona. una Messa, cadit asinus, piange Agostino et omnes sublevare festinant, clamat in tormentis Fidelis, et non est qui accurat. Cade in un fosso un giumento, e l’aiutano tutti perché risorga; bruciano le anime, e non si trova chi le soccorra per liberarle. Staccate quel quadro di vostro padre, levate di là quello di vostra madre, toglietevi dagli occhi quelli de’ vostri parenti, de’ vostri amici, che meno sarete colpevoli col non vederli, anzi no, mi disdico, e quasi dissi ebbro della vostra ingratitudine, prendete quei quadri e bruciateli, e così sarete contenti in veder di qua bruciare la copia, come di là arde l’originale. Furono grandi i patimenti di Cristina; ma finalmente Cristina si pose a patire per quelle anime, non perché avesse provati i lor tormenti, ma per averli sol veduti; che avrebbe fatto, se gli avesse non sol veduti, ma provati? Udiamo un poco ciò che dice di quelle pene chi e le vide e le provò. San Cirillo Vescovo racconta come, essendo resuscitato per miracolo di San Girolamo un morto, andò egli stesso a vederlo, e trovò che amaramente piangeva e, perché piangi, gli disse, mentre più tosto, per la vita ricuperata dovreste stare allegramente; ah se sapeste o Santo Pastore, quel che ho patito nel Purgatorio anche tu piangeresti con esso me, quales credis pœnas existentibus in Purgatorio præparari, e rispondendogli di non saperlo, sono sì crudi, soggiunse, che qualunque uomo prudentemente operando, eleggerebbe più tosto soffrire tutte le pene che sono state nel mondo dal suo principio finora, che soffrire la minima di quelle pene per un dì, quam uno die minori, quæ illic babetur pœna torqueri. Chi dunque non inorridirà, sentendo che non solo le pene del Purgatorio sono maggiori di quante si possono soffrire nel mondo, ma di più in sentire da un testimonio di prova, che la minima d’esse è incomparabilmente più fiera. O pene, o pene, e chi può mai comprendervi! E pure non mancano cuori sì duri, i quali nulla s’inteneriscono alla rimembranza che quivi penano i loro congiunti più stretti. Non solo le pene del Purgatorio sono gravissime, ma quel che è peggio sono
lunghissime. O Dio! e che può darsi di peggio? Pene acerbissime nella intenzione, pene lunghissime nella durata. Inorridite. Pascasio Cardinale di Santa Chiesa fu veduto patire un’atrocissimo, e lunghissimo Purgatorio per un difetto sol d’ignoranza, leggermente colpevole; ditemi dunque, e quando mai, i nostri parenti finiranno di patire e pagare non un solo, ma tanti e tanti difetti ben leggeri, commessi ad occhi veggenti, o nella cura de’ servitori, o nella educazione e de figli o negl’affari de’ magistrati, o ne’ traffici del denaro? Ahi quanto dovranno penare; quanta fuerit peccandi materia, disse San Bernardo, tanta erit mora perseverandi. – Santa Vitaliana Vergine illustre, per un poco di vanità nei suoi capelli, fu veduta patire un lunghissimo Purgatorio. O Dio! Chi mi dirà quanto tempo dovranno patire laggiù i nostri cari morti per le tante e tante vanità, o per gl’abiti pomposi o per le fogge o per le usanze inventate, quanta fuerit peccandi et … – Se il Vescovo Durano di Tolosa per aver detto alcuni motti galanti, sofferse pena lunghissima, io non so dire quanto Purgatorio siano per avere i vostri morti, che con facezie, e detti pungenti ingiuriavano gl’inferiori, si burlavano degli uguali, mormoravano de’ maggiori, dileggiavano i Sacerdoti, motteggiavano i superbi, applaudivano a’ licenziosi. Ahimè quanto e poi quanto patiranno… quanta fuerit peccandi etc. … – Se un religioso di San Francesco patì tormenti lunghissimi per questo solo difetto di non chinare il capo alla Gloria Patri, che sarà de’ vostri poveri morti che singolarmente dentro le Chiese furono curiosi, distratti, immodesti, loquaci. Ahimè quanto e poi quanto peneranno … Quanta fuerit… O che montagne di colpe, e quando mai finiranno d’esser pagate in quelle pene tremende. Voi credete che esageri, ma v’ingannate, parlo fondatamente: Santi Pontefici, che dispensate il Sangue di Cristo in tante indulgenze, palesate il fine, manifestate i motivi; lo so che Sisto Quinto concesse indulgenza di undicimila anni effettivi a chi recitava certa Orazione a Nostra Signora, e Gregorio Decimoterzo ne pubblicò una di settantaquattromila anni a tutti gli ascritti nel Santissimo Rosario, e per qual cagione Santa Chiesa ammette Messe perpetue, fino alla fine del mondo, non per altro, miei UU., così opera Santa Chiesa ed hanno dispensato i suoi tesori i Sommi Pontefici, se non perché, ben sanno la lunghezza del Purgatorio, che per tante anime non suffragate, durerà fino alla fine del mondo. Eccovi miei UU., esposto un abbozzo delle pene acerbissime e lunghissime, che tollerano i vostri amici e parenti nel Purgatorio. Contentatevi ora, di dare orecchio alle querele per confondere la vostra ingratitudine, Miseremini mei, miseremini: udite parenti, amici udite, così da quelle pene tanto intense, tanto vive, esclamano quelle povere anime: Miseremini mei… abbiate di noi pietà. Alzate più le voci, anime sante, se volete essere intese tra gli strepiti dell’interesse, della ambizione, del fasto, dite il fatto vostro. Vorremo per carità una Messa; udite la risposta, ho da spendere cinquanta scudi per un abito, e cento per una giostra. Ah mio padre, mio fratello, mia consorte, mi struggo nel fuoco! Pazienza, ho bisogno di danaro per fare una nobile comparsa. E come è mai possibile, che siate così crudeli con noi, che tanto facevamo per voi. Deh almeno per noi dispensate pane ai poveri, udite la risposta. E là si governino quei cani, che non patiscano, si satollano. Se bene anime sante, non vi lamentate più perché non vi sovvengano, querelatevi sì, perché vi perseguitano, e dite loro quare persequimini carnibus meis saturamini. Figli, parenti, dissi male, fiere, furie, mostri di crudeltà
allevati da tigri, nutriti con carni d’aspidi e con sangue di pantere, perché mi
perseguitate? Quare me persequimini, o carnibus meis faturamini; e quel che è
peggio vi pascete delle nostre carni, carnibus meis saturamini. Chi vi lasciò quei palazzi, quei giardini, quelle gioie, quelle vesti, quelle ricchezze, se non io; sono mie quelle sostanze, che godete, e voi crudeli scordati di me, e de’ miei tormenti, così barbaramente vi saziate delle mie carni, e quel che più altamente mi
crucia, e mi rende più tormentoso il Purgatorio, e che voi godete delle mie miserie; né mi state a dire, che non ne godete, perché vi si può rispondere col Morale: … qui non vetat vetare cum possit jubet, mentre che voi con poco, potete sollevarmi, e non lo fate, è segno che godete del nostro penare. Voi parenti, voi figli, voi figlie, tenete acceso nel fuoco che tormenta i vostri congiunti, mentre non recate acqua per estinguerlo, voi tenete stretti quei ferri, mentre non stendete la mano per disciorli. Voi siete, che impedite a quei buoni morti la grazia che otterrebbero d’uscire dalla loro cruda schiavitudine, mentre non volete prestarli nemmeno un soldo. Miseremini mei saltem vos amici mei. Che voci sono queste, non si parla più con parenti, ma con amici, e con ragione, perché i parenti non odono. Voi dunque amici sovveniteci, giacché nel cuor di mio padre, di mio figlio, non v’è più amore. Voi amici, giacché mia madre, mia figlia, non ha cuore che per odiarmi, mentre mi lasciano penar qua giù. – Voi amici, voi soccorretemi, giacché quanti ho fratelli e parenti tutti si sono scordati di me, che ardo in queste fiamme; ah, che se ci soccorrete con una Indulgenza presa con una Messa celebrata, con un poco di limosina distribuita a’ poveri, noi trionferemo rivestite d’oro, risplenderemo coronate di raggi, e c’ingolferemo nel godimento di un bene immenso non limitato da tempo, non amareggiato da tribolazioni, che più scientemente ne andremo a godere Dio. Ma che se non udirono i parenti, meno sentono gl’amici. Orsù parenti, amici, se non avete più cuore per sovvenire i vostri congiunti, o per sangue, o per fedeltà, e non volete aiutarli. Almeno per rimprovero della vostra ingratitudine, quando entrate in Chiesa, date mente a quelle voci, che da quelle tombe vi risuonano alle orecchie, e sentirete dirvi così: sai chi giace sotto questo sasso? Qui vi giace quel povero tuo padre, che ti lasciò tant’oro in cassa, che visse da povero per arricchirti. Egli è quello, o figlio, che stentò il vivere per farti lautamente vivere, parcamente bevve per estinguer la tua sete. Odi, sai chi giace sotto questo sasso? Qui vi giace quella infelice tua madre a cui tu stesso, avanti di nascere desti penosissima infermità nella nascita tua, gli faceste provar la morte, quella saziò la tua fame col proprio sangue, con le sue lagrime asciugotti le guance bagnate dal pianto, e finalmente morendo ti fissò in fronte lo guardo, quasi pietosa volesse dire: porgimi la mano, o figlio; buttata, che io sarò nella tomba per divenir cibo de’ vermi, ricordati di sovvenir colei che in questa vita per la tua vita avrebbe provata la morte. Alza quel sasso, o mio Uditore, e vedrai, che sotto d’esso coperto da putredine vi giace quel tuo caro amico, che sempre fu fido compagno delle tue azioni, che non dubitò espor la vita ad evidente morte per salvarla a te. Or che fai? Chi giace sepolto in queste tombe? Attendi alle altre voci, che da quelle fredde ceneri rimbombano. Pietà figlio pietà; madre, consorte, fratelli pietà, non ti domando il valsente d’un patrimonio, non le gioie di tua moglie, non gl’avanzi di tua casa, ma un sol calice per estinguere una sì eccessiva arsura; negherai dunque un sacrificio per quello che si sarebbe lasciato svenar vittima per te? Odi, e non mentisco, l’amor troppo tenero che ti portai mi tiene tra queste fiamme, e tu ingrato non mi accorri? Ah crudo, ah finto amico, ah figlio traditore! Che serve a me che tu ostenti il mio ritratto, mentre lasci arder me nel Purgatorio, tu per ornamento della casa, e per splendore della famiglia vuoi la mia immagine appesa ad un chiodo, e non ti curi di schiodare il mio spirito da quelle pene? Come è possibile che a queste verità, a queste querele, o miei UU., non vi risolviate suffragar quelle anime per non tenerle più lungamente tra quelle angosce di morte. – Dio Immortale, e chi è tra voi, che non giubili d’allegrezza, quando intende di poter con poco danaro ricuperare dalle mani de barbari un figlio, un fratello, e talora un amico, tenuto da loro in vergognose catene, certo, che se non avesse in pronto la moneta richiesta’ per la liberazione, se n’andrebbe subito ad importunare i parenti, a negoziare co’ mercanti, a costringere i debitori, ad impegnar le gioie, a vendere i beni e se oggi potesse mandarli il riscatto, certo non indugerebbe a domani, se non per altro, che per aggiungerli un giorno di libertà. Ah fede, fede, ben si conosce che le vostre menti altro non hanno di sé che le tenebre; ditemi un poco UU. con quel denaro di cui vi vorreste servire per liberare l’amico, il parente dalla barbara servitù, non potreste voi, per così dire, spopolar mezzo il Purgatorio? E pure, o Dio, quanto stentate a dare talora per i vostri morti un poco di moneta, a far cantar un Offizio, a far celebrare una Messa, quanto stentate, anzi dico di più, piacesse pure al Cielo, che non vi mostraste di viscere più inumane, quando anche salva del tutto la vostra borsa, voi li potreste sovvenire, e non lo fate? E quante volte con visitare una Chiesa, con acquistare un’Indulgenza, con fare una Comunione voi mettereste insieme il prezzo bastante al riscatto d’un’anima imprigionata nel Purgatorio, e voi per non abbandonar quel giuoco, per non differir quel negozio, lasciate che ella incallisca sotto quei ceppi, mentre, con sì leggera fatica li si potreste o spezzare perché subito volassero in libertà, o almeno alleggerire, perché non sentissero tanto quella dura prigionia, e non è questo un eccesso di crudeltà? Di tirannia, di barbarie? Tacete, istorie, tacete, voi narrate per singolare una tal peste, di cui chi fosse tocco perdeva tutta la memoria, fino a non ricordarsi più, guarito che fosse, né di padre, né di madre, or sappiate, che d’una simil peste sono infettati molti de’ miei UU. mentre non
si ricordano più né di padre, né di madre, lasciandoli star nel fuoco senza soccorso, e di loro ben si avvereranno le parole del Profeta Reale: Dum superbit impius, incenditur pauper. Voi alle feste, e vostro padre nella carcere, dunque voi alle crapole, e vostro padre e vostra madre a’ digiuni, dunque voi agl’amori tra le delizie e vostro padre tra’ tormenti: egli brucia e voi ridete, e voi solazzate; Dum superbit impius, cenditur pauper. – Voglio esprimere la vostra crudeltà con quel fatto che si narra da San Giovanni nel cap. 5, in persona di quel povero paralitico. Erano già trent’otto anni che egli giaceva addolorato, ed assiso là sulle sponde della Probatica, che però
non poteva non esser notissimo a quanti vi venivano, o per rimedio o per curiosità. Se voi aveste veduto quel miserabile, l’avreste altresì osservato macilento e scaduto di forze, senza colore in volto, ed in tale stato che avrebbe mosso ogni cuore ancorché duro a compassione, ed è pur vero, che un uomo in stato sì miserabile mai ebbe neppur uno che stendesse una mano per tuffarlo in quelle acque, giacché nulla di più vi voleva … Hominem non habeo. Dio immortale, se a sollevar quel meschino da quella lunga infermità vi fossero volute centinaia di scudi, o per i medicamenti più eletti, o per i medici di primo grido, io l’intendo, ma mentre non vi voleva più, che una stesa di mano, io inorridisco alla crudeltà; se si fossero dovute cercare dalle montagne più remote erbe incognite, e del tutto salubri, mi rimetterei; ma quando so che bastava trovarsi al tempo prefisso della volata dell’Angelo, e che non vi voleva altro che tuffarlo, non posso non infierirmi con quanti comparvero, e dichiararli con cuor di tigre in petto. Così dico, che compatirei chiunque avesse veduto lo stato infelicissimo
del paralitico, e non l’avesse sovvenuto quando a lui fossero bisognate le perle
più pellegrine per macinarle in polvere e porgerle al miserabile in rimedio di sua salute, ma mentre non vi voleva di più che correre a suo tempo e dargli soccorso con cui sbalzarlo nelle acque, non l’intendo, non la capisco, e dichiaro per crudeli quanti lo videro, e non l’aiutarono, e voi miei UU. con me vi unireste a deplorarne le barbarie; ma non dubitate, che voi per verità non avete in petto, cuor meno crudele, mentre sapete d’aver l’anime de’ vostri amici, de vostri parenti, de vostri padri e madri colaggiù nelle fiamme del Purgatorio, che sono anni ed anni che patiscono, e pure quantunque per liberarle nulla più si richieda d’una stesa di mano in poca limosina, d’un Sacrificio celebrato, d’un Offizio recitato, quantunque nulla di più vi voglia, salvo che d’un poco diי scomodo in una Comunione, ed una Indulgenza presa, non fate nulla, anzi fate che dolenti abbian da dire: Hominem non habeo, non vi son per me nel mondo più amici, più parenti, più figli, Hominem non habeo, o che crudeltà, o che barbarie! Venga in questo pulpito a ricoprirvi di rossore un Dandamide privo di fede, che per liberar l’amico dalle catene nemiche, si sottopose alla perdita degli occhi. Fu fatto prigione di guerra alle foci del Boristene un cavaliere per nome Amizzoca; questi impaziente, e della cattura e de’ ferri, gridò ad alta voce verso gl’amici che non l’abbandonassero in sì disperata disavventura, l’udì Dandamide suo amicissimo, ed a lui totalmente eguale in chiarezza di sangue, subito per ciò si mise a nuoto del fiume per raggiungere le squadre nemiche, e ricuperare l’amico; accortasi la retroguardia del tragitto, voltò gl’archi per ferirlo prima che approdasse; allor Dandamide chiese quartiere, e si protestò, non per altro avvicinarsi, che per professione d’amicizia; a queste voci, mitigati i barbari trattenero le saette, finché, giunto Dandamide alla riva, sentironsi interrogare del dove, e sotto qual tenda dimorasse un certo cavaliere Amizzoca; quando condotto dall’amico, e vedutolo tra’ ceppi rivolto al Generale delle Armi, supplicollo che si compiacesse restituirgli il caro compagno. Non mostrò questi alieno della grazia, purché fosse pronto il riscatto. Dandamide allora, perché volonteroso, ma impotente al riscatto: sappi disse, o Sire, che Amizzoca è assai a me più caro degli occhi, onde di buona voglia vi consegnerei la metà del patrimonio, per liberarlo quando voi di tutto non m’aveste svestito.  Allora il Generale l’assicurò, che quando volesse perdere gl’occhi per ricuperar l’amico, lo scioglierebbe dalle catene, lo porrebbe in libertà; accettò Dandamide prontamente la condizione, e lasciato accecare da pugnali de’ Sarmazi, ebbe il sospirato Amizzoca. Or che dite Uditori? Con quanto meno potreste voi liberare non gl’amici, ma i parenti più stretti, non da catene di ferro, ma di fuoco ardentissimo, e pur neppure vi movete a compassione, ah che purtroppo è vero il detto del Savio, Amicus est socius mense, et non permanebit in die ne cessitatis. Così appunto segue di voi anime Sante, giacché i vostri congiunti si sono totalmente scordati di voi; furono vostri amici finché viveste, e con voi banchettarono; ma ora che voi siete bisognosi non pensano punto a voi; la lor amicizia è stata a guisa di quella che passa tra l’oro, e l’argento vivo, detto con ragione, Mercurio, perché ladro, ruba il danaro alla borsa, ed il cervello alle teste; or di questo sentirete la proprietà, egli è sì amico giurato dell’oro, che tirato da un assetto simpatico, sempre lo segue, e trovandosi sparso, quando lo giunge, raccoglie tutto sé  stesso sull’amata moneta; ma che? Venga l’oro posto in mezzo alle braci per esser purgato, appena l’amico bugiardo sente gl’ardori che se ne fugge per l’aria, e lascia il compagno nel fuoco: eccoci al punto, socius mense, furono vostri amici allorché poterono sollazzarsi con voi, ma ora che voi bruciate tra le fiamme vi lasciano ardere, né più si curano di voi con una ingratitudine sì alta, che maggiore non so immaginarmi, e finisco di spiegarvela con il seguente racconto. – Narra Diodoro, che tre figli d’un re de Gimeri, morto il loro padre, contesero del regno, mercecché ben spesso la ragione di stato, cangia l’amor di fratello, in rabbia di nemico, vero però è, che quantunque agitati da interessata passione, ebbero nondimeno quei tre signori di tanto di lume, che per decidere senz’armi la contesa, scelsero per giudice del loro litigio, il re della Francia Ariofarne. Io per me non so, se giammai s’udisse in tal contingenza, altra più trana decisione, Comandò il re, che si cavasse il morto principe della sepoltura, alzato in alto a bersaglio, i tre figliuoli lo saettassero, e quello di loro,
che l’avesse colpito nel cuore  quello regnasse; lasciò dunque la saetta il primogenito, e colpì nel capo, scaricò il secondo, e colse nel petto sì, ma senza toccarne il cuore. Quando ecco, che tutto acceso di sdegno afferra con ambe le mani, il terzogenito, arco e saette, e mentre tutti aspettavano che egli prendesse di mira il cuor paterno, egli invece, ruppe l’arco, infranse i strali; eh non sia mai vero, dispettoso, gridò,
che io più fiero delle fiere incrudelisca contro il morto mio Padre: abbia sì de’
miei fratelli il regno, chiunque lo vuole, purché il mio capo sia coronato di
pietà punto non m’importa, che le corone d’oro lo circondino: Supererat, ecco l’autore, supererat minimo spes regni vicit pietas, ed oh giustissima sentenza d’Ariofarne, udite: io consegno, le ragioni della reale primogenitura al terzogenito; abbia lo scettro paterno quella mano che ricusò saettare il cuor del padre; viva, viva re, chi al morto re e padre, come degno figlio portò onore, e riverenza; mio Dio, quando giungo a questo termine, m’accendo d’uno zelo straordinario. Quanti figli ingrati incrudeliscono non contro i corpi, ma contro l’anime de’ loro parenti, e trafiggono con barbare saette i loro cuori; ben si adatta a costoro il detto d’Ambrogio: Si non pavisti, occidisti; Hai tu figlio compita l’ultima volontà di tuo padre? No, occidisti, hai fatto celebrare quelle Messe? No, occidisti, hai soddisfatto a quei Legati pii? No … occidisti; quei testamenti sono nella tua cassa degl’avi e bisavi coperti nella polvere, morti nella memoria, e non punto eseguiti, occidisti; Tu sei più crudele di Caino; poiché questo, dopo d’aver tolta la vita al fratello non incrudelì punto, che io sappia, contro il morto Abele, ma tu sei più spietato, mentre incrudelisci contra de’ Morti, non pavisti, occidisti, non gli sovvenga, dunque, l’uccidi. Se cosi è, ascolta, io ti fo con le parole di Cristo un funesto ma non fallace pronostico: qua mensura mensi fueritis remetietur, et vobis. Sappi che, balzato che sarai nel Purgatorio, quando pur non ti tocchi l’Inferno, permetterà Iddio, che ognuno si scordi di te, e che tu arda fino al dì del Giudizio in quelle pene, mercecché tu non avesti pietà verso de’ tuoi morti.


LIMOSINA
Ignem ardentem extinguit aqua, et eleemosyna resistit peccatis. La limosina
fatta per l’anime del Purgatorio è un’acqua, che lava le loro fiamme. Immaginatevi questa mattina d’aver qui presente una di quelle anime a voi più care in mezzo al fuoco, e che ciascun di voi abbia alle mani un gran secchio d’acqua ed in tal caso, io son certo, che la vostra pietà verserebbe sopra di quel fuoco tutta l’acqua, e non bastando, si porterebbe a prenderne altra. Io non voglio tanto, basta a me, che per le anime sante, diate quello che vi troviate, non tutto …

SECONDA PARTE

Già vi ho rappresentati UU. miei, la terribilità di quelle pene del Purgatorio, le querele di quelle anime, e l’ingratitudine di chi non le sovviene; la qual è, quasi dissi, cosa comune; che si ha dunque da fare per non essere nel numero di quelle povere anime, scordate da’ loro parenti Sapete, che non avete d’aspettare, che vi si faccia il bene, ma fatevelo da voi, e se l’aspetterete da loro, potrò con fondamento temere, che starete lungamente tra quelle fiamme. Alessandro Magno morendo lasciò a’ suoi capitani in eredità la sua monarchia da dividersi in tante parti, e pure è vero, morto che fu, ebbe da stare trenta dì insepolto a causa contrastarsi la divisione; ed ognuno procurava di tirare a sé un squarcio più bello della porpora del defunto, ma niuno si curava di vedere quel cadavere insepolto: Dum ejus presecti, ecco le parole d’Eliano, de regno per seditiones contenderent, ille triginta diebus inumatus, et carens sepulcro relictus est. Così appunto faranno i vostri eredi, appena sarete morti, che subito daranno di mano alle gioie più preziose, ai mobili più ricchi, subito si susciteranno le liti tra fratelli, tra madri e figli, tra mariti e mogli, e a pagar que’ legati, a far celebrar quelle Messe, a dispensar quelle limousine, a far del bene per voi, non vi si penserà. Sicché miei UU. convien dire le parole di Dio, Maledictus homo, qui confidit in homine. Maledetto quell’uomo che confida nell’uomo. Ricordatevi miei UU. del trito proverbio che fa più lume un candeliere avanti, che una torcia alle spalle; voglio dire che bisogna vi provvediate mentre vivete. Un gran mercante, detto Onofrio, nella Riviera di Genova, s’era arricchito per via di mare, venuto a morte, benché pregato da’ figli, non lasciò nel testamento obbligo alcuno per suffragio dell’anima sua; morto che fu, tra le sue scritture si trovarono registrate più partite di questo tenore: per maritar zitelle, mille scudi, per Messe, duecento, per cera in onore del tal Santo, cento, ed in fondo della scrittura erano queste parole: chi vuol bene se lo faccia in vita, e non si fidi di chi resta. Non vi fidate dunque, ma fatevi del bene. Oh io costringerò, voi dite, legherò in modo i miei eredi che certo faranno. V’ingannate. Sentite: aveva un certo padre tre figli, e già vicino a morte, domandò ad uno di loro: dimmi un poco figlio mio che cosa pensi di farmi per liberarmi dal Purgatorio? Io, signor padre vi voglio erigere una cappella
ed ivi far celebrare per voi. E voi, rivolto all’altro figlio, disse, che farete? Io pure, rispose, farò una cappella, ma con più sacrifici; così pure richiese il terzo, il quale pronto rispose: io signor padre farò quanto faranno questi due. Loro niente faranno di quello che v’hanno promesso ed io pur niente, provvedetevi finché vivete e ricordatevi della rivelazione fatta da Dio a Sant’Alberto Carmelitano, allorché gli disse: valer più un quattrino dato in vita che migliaia dopo morte. Voi vi volete quietare con dire, lascerò de’ legati, e non considerate che quanti sono i legati, tanti sono i legami perché non soddisfatti, come spesso avviene: legano al Purgatorio il testatore ed all’inferno gli eredi, e come è vero quel primo, altrettanto è vero questo secondo, come ora v’esprimo con una storia. Un contadino venuto a morte volle fare il suo ultimo testamento, e non avendo altro di proprio, che un agnelletto ed un cavallo, lasciò questo al figlio, con obbligo stretto che lo vendesse, e del prezzo gli facesse dire tante Messe, e l’agnelletto poi restasse a lui. Il villanello che aveva callose le mani ma non l’ingegno, fece così: andò una mattina al mercato con tutte e due le bestie, e cominciò a gridar forte, chi vuol l’agnello ed il cavallo? Un massaro gli disse: io comprerò il cavallo se saremo d’accordo, ed il villanello rispose, io non voglio venderlo senza l’agnello; bene, rispose l’altro, comprerò anche questo, e che vi ho da dare? Non posso darvelo a meno di trenta scudi, e del cavallo, che ne volete? Mezzo scudo; stabilitasi la vendita, si ricevette il danaro, il mezzo scudo, prezzo del cavallo, impiegò in Messe, ed i trenta scudi dell’agnello, ritenne per sé. Che voglio dire con questa storia? voglio significarvi che non commettiate ad altri quel che potete e dovete far voi stessi, perché nel mondo non v’è di chi fidarsi; ma quando pure vogliate lasciar legati per l’anima vostra, lasciateli, ma con obbligo strettissimo a’ vostri eredi, che se non soddisferanno puntualmente, la roba vada al principe al sovrano etc…

QUARESIMALE (XXIII)