QUARESIMALE (XXII)

QUARESIMALE (XXII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMASECONDA
Nella Domenica quarta di Quaresima.


Del Purgatorio. In cui si mostrano le pene gravissime per
l’intensione, lunghissime per la durata, accresciute dalla nostra ingratitudine.

Accepit Jesus panes, et cum gratias egisset distribuit discumbentibus. San Giov. cap. 6


Perdonate alla mia lingua, miei UU. se quella mattina mi pubblica bramoso di cambiare questo sacro pergamo in un teatro, ove divenuto di predicatore recitante, possa più facilmente ottenere il mio fine; ed è pur, vero, che se tale io fossi, potrei da voi impetrare ciò che ottengono ogni dì tragici attori, a’ quali, quantunque sappiate che fingono, pagate ad ogni modo vero tributo di compassione, e senza risparmio
di lacrime, gli ponete i cuori in braccio, e gli versate le anime in seno. Rappresentisi in palco una Andromeda, e voi vedrete strepito nell’udienza, sollevati gl’affetti de’ circonstanti. Fingasi legata ad uno scoglio una beltà, per esser preda de’ mostri marini che, già vicini, slarghino le fauci per ingoiarla, non troverete allora in teatro spettatore così codardo, che non desideri sprigionare quella beltà ed uccidere il mostro. Dio immortale, e se io, da questo luogo facro, aprirò scena funesta per mostrarvi milioni d’anime nel Purgatorio, affogate tra’ tormenti, sepolte tra le carneficine, le quali urleranno con grida le più lacrimevoli che possa spremere un immenso dolore; e pure chissà se otterrò, non dico una buona somma di danaro per suffragarle, non dico frequenza de’ Sacramenti per liberarle, ma neppure una interna compassione. O quanto bramerei vedere innalzato in questa vostra patria il tribunale d’Atene in cui, con severità non ordinaria, fu accusato il ricco Gallio, sol perché non sovveniva la povertà d’Aristide suo parente, ma viva il Cielo, che le mancano questi rettissimi giudici a concordare chi più spende, o nelle vanità superflue, o nelle mense troppo laute, v’è Iddio, che siccome assisté a Giovanni allorché erat in Vinculis, così assisterà alle Anime Purganti, non voglio però, con rimettere la causa a Dio, tralasciare di rappresentarvi; e sarà l’assunto del mio discorso, delle pene atrocissime del Purgatorio, accresciute dalla nostra ingratitudine. – Sappiate dunque, UU. Miei, che le anime dei vostri amici, dei vostri parenti, di quelli che più teneramente amavate, vivono tra tormenti sì fieri, che maggiori non furono inventati dalle barbarie di Nerone in Roma, né dalla crudeltà di Dionisio in Siracusa. Figurarevi, dunque, per apprendere bene questa verità, sotto de’ vostri piedi una profonda carcere, la quale per la vicinanza che ha con l’inferno, senza parteciparne niente dell’empio, ne ritragga però il penare tormentoso. Quivi vedrete come la notte domina con nebbie oscure, l’aria lampeggia con baleni funesti, scuote il suolo con orrendi terremoti, e senza mai cessare risuonano quelle caverne per i gemiti inconsolabili di quelle anime, e per i fieri sibili di quei mostri. Quivi i tori
più celebri di Falaride, i cadaveri verminosi di Massenzio, le ruote più spietate di Diocleziano, servirebbero di refrigerio a quell’anime purganti. Miei UU., raccogliete pure in un sol pensiero, le pene più mostruose di questa vita, e poi leggete ciò che San Cirillo lasciò scritto, si omnes, quæ in mundo cogitari possunt pœnæ, pœnis, ac tormentis quæ illic habentur, comparentur, solatia sunt. Ah, che tormenti simili, neppur formano un’ombra di quei che tollerano le anime del Purgatorio. Ma ciò che disse Cirillo con le parole, lo confermò Cristina con i fatti. Attenti! – Appena morta, questa Santa Vergine fa condotta a vedere le pene acerbissime del Purgatorio, ed in esse vide impiegata in orrori, in confusioni, la Giustizia di Dio, indi presentata al Divin Tribunale si sentì interrogare di ciò che aveva veduto patirsi da quell’anime, al che (ah mio Dio) rispose: purtroppo ho veduto gl’orrendi tormenti;  or vedi Cristina, sentissi replicare, mira quella sedia, quel trono ricco d’oro, di perle, di gemme, quello appunto significa l’eterna Gloria che hai da godere nell’eternità beata; dimmi adesso liberamente, se vuoi prender possesso d’un sì gran Bene, pure ritornartene in vita per patire molto a beneficio di quelle anime. Udite ora la risposta di Cristina alla proposta di Cristo. Io ho veduto, dice la Santa Vergine al suo Redentore, le carneficine con le quali sono tormentate quelle misere anime, e son tali, che io volentieri mi eleggo di tornare a vivere per patire a pro loro orrende pene. Sì, sì, mio Dio, per liberar di colaggiù quelle anime, io mi eleggo un inferno di strazi, e rinunzio ad un Paradiso di contenti. Sarei una tigre se pur mi avessero a muover le mie consolazioni, che i loro tormenti. Quando ecco, che Cristina per effettuar quanto disse, s’alzò subito dal cataletto, alla presenza de’ Sacri Ministri, allorché gli celebravano le esequie. Inorridite pure, o miei UU.. Ecco che si pone Cristina dentro fetidi sepolcri per esser divorata da’ vermi, s’inzuppa nelle caldaie bollenti, perché l’acque la disfacciano, e per miracolo n’esce illesa, si tuffa ne’ stagni gelati, acciocché il freddo l’intirizzisca, or si pone alquanto lungi dal fuoco perché le fiamme divoratrici lentamente la distillino, or penetra nelle più orrende selve per essere sbranata dalle fiere, or si caccia nelle fornaci acciò le fiamme l’inceneriscano! No, la si lancia giù dalle rupi, perché le punte de’ sassi la scervellino, qui si mette sotto le macine de mulini perché minutamente la disfarinino. In somma, era Cristina un Purgatorio animato, mentre miracolosamente viveva tra tanti patimenti. Né vi crediate già, che questo suo penare sì fiero fosse di tre giorni, si stendesse a settimane, non passasse il mese, oppur finisse in un anno appunto, fu di più lustri, mentre fu di venticinque anni. Argomentate ora voi UU. qual abissi di pene, che spettacoli orribili dovesse ella vedere nel Purgatorio, mentre eccitarono nel suo cuore una compassione sì smisurata. Negate ora se potete quella d’Agostino, che le pene del Purgatorio sono maggiori di tutte quelle del mondo; ille Purgatorius ignis durior est quam quidquid possit in hoc sæculo poenarum videri possit, aut cogitari. Cristina per quelle anime che non appartenevano né in vigor di sangue, né d’amicizia, patisce tanto, e noi per l’anime de’ nostri congiunti non solo non faremo ciò che ella fece, ma neppure offriremo una limosina a lor suffragio, una corona. una Messa, cadit asinus, piange Agostino et omnes sublevare festinant, clamat in tormentis Fidelis, et non est qui accurat. Cade in un fosso un giumento, e l’aiutano tutti perché risorga; bruciano le anime, e non si trova chi le soccorra per liberarle. Staccate quel quadro di vostro padre, levate di là quello di vostra madre, toglietevi dagli occhi quelli de’ vostri parenti, de’ vostri amici, che meno sarete colpevoli col non vederli, anzi no, mi disdico, e quasi dissi ebbro della vostra ingratitudine, prendete quei quadri e bruciateli, e così sarete contenti in veder di qua bruciare la copia, come di là arde l’originale. Furono grandi i patimenti di Cristina; ma finalmente Cristina si pose a patire per quelle anime, non perché avesse provati i lor tormenti, ma per averli sol veduti; che avrebbe fatto, se gli avesse non sol veduti, ma provati? Udiamo un poco ciò che dice di quelle pene chi e le vide e le provò. San Cirillo Vescovo racconta come, essendo resuscitato per miracolo di San Girolamo un morto, andò egli stesso a vederlo, e trovò che amaramente piangeva e, perché piangi, gli disse, mentre più tosto, per la vita ricuperata dovreste stare allegramente; ah se sapeste o Santo Pastore, quel che ho patito nel Purgatorio anche tu piangeresti con esso me, quales credis pœnas existentibus in Purgatorio præparari, e rispondendogli di non saperlo, sono sì crudi, soggiunse, che qualunque uomo prudentemente operando, eleggerebbe più tosto soffrire tutte le pene che sono state nel mondo dal suo principio finora, che soffrire la minima di quelle pene per un dì, quam uno die minori, quæ illic babetur pœna torqueri. Chi dunque non inorridirà, sentendo che non solo le pene del Purgatorio sono maggiori di quante si possono soffrire nel mondo, ma di più in sentire da un testimonio di prova, che la minima d’esse è incomparabilmente più fiera. O pene, o pene, e chi può mai comprendervi! E pure non mancano cuori sì duri, i quali nulla s’inteneriscono alla rimembranza che quivi penano i loro congiunti più stretti. Non solo le pene del Purgatorio sono gravissime, ma quel che è peggio sono
lunghissime. O Dio! e che può darsi di peggio? Pene acerbissime nella intenzione, pene lunghissime nella durata. Inorridite. Pascasio Cardinale di Santa Chiesa fu veduto patire un’atrocissimo, e lunghissimo Purgatorio per un difetto sol d’ignoranza, leggermente colpevole; ditemi dunque, e quando mai, i nostri parenti finiranno di patire e pagare non un solo, ma tanti e tanti difetti ben leggeri, commessi ad occhi veggenti, o nella cura de’ servitori, o nella educazione e de figli o negl’affari de’ magistrati, o ne’ traffici del denaro? Ahi quanto dovranno penare; quanta fuerit peccandi materia, disse San Bernardo, tanta erit mora perseverandi. – Santa Vitaliana Vergine illustre, per un poco di vanità nei suoi capelli, fu veduta patire un lunghissimo Purgatorio. O Dio! Chi mi dirà quanto tempo dovranno patire laggiù i nostri cari morti per le tante e tante vanità, o per gl’abiti pomposi o per le fogge o per le usanze inventate, quanta fuerit peccandi et … – Se il Vescovo Durano di Tolosa per aver detto alcuni motti galanti, sofferse pena lunghissima, io non so dire quanto Purgatorio siano per avere i vostri morti, che con facezie, e detti pungenti ingiuriavano gl’inferiori, si burlavano degli uguali, mormoravano de’ maggiori, dileggiavano i Sacerdoti, motteggiavano i superbi, applaudivano a’ licenziosi. Ahimè quanto e poi quanto patiranno… quanta fuerit peccandi etc. … – Se un religioso di San Francesco patì tormenti lunghissimi per questo solo difetto di non chinare il capo alla Gloria Patri, che sarà de’ vostri poveri morti che singolarmente dentro le Chiese furono curiosi, distratti, immodesti, loquaci. Ahimè quanto e poi quanto peneranno … Quanta fuerit… O che montagne di colpe, e quando mai finiranno d’esser pagate in quelle pene tremende. Voi credete che esageri, ma v’ingannate, parlo fondatamente: Santi Pontefici, che dispensate il Sangue di Cristo in tante indulgenze, palesate il fine, manifestate i motivi; lo so che Sisto Quinto concesse indulgenza di undicimila anni effettivi a chi recitava certa Orazione a Nostra Signora, e Gregorio Decimoterzo ne pubblicò una di settantaquattromila anni a tutti gli ascritti nel Santissimo Rosario, e per qual cagione Santa Chiesa ammette Messe perpetue, fino alla fine del mondo, non per altro, miei UU., così opera Santa Chiesa ed hanno dispensato i suoi tesori i Sommi Pontefici, se non perché, ben sanno la lunghezza del Purgatorio, che per tante anime non suffragate, durerà fino alla fine del mondo. Eccovi miei UU., esposto un abbozzo delle pene acerbissime e lunghissime, che tollerano i vostri amici e parenti nel Purgatorio. Contentatevi ora, di dare orecchio alle querele per confondere la vostra ingratitudine, Miseremini mei, miseremini: udite parenti, amici udite, così da quelle pene tanto intense, tanto vive, esclamano quelle povere anime: Miseremini mei… abbiate di noi pietà. Alzate più le voci, anime sante, se volete essere intese tra gli strepiti dell’interesse, della ambizione, del fasto, dite il fatto vostro. Vorremo per carità una Messa; udite la risposta, ho da spendere cinquanta scudi per un abito, e cento per una giostra. Ah mio padre, mio fratello, mia consorte, mi struggo nel fuoco! Pazienza, ho bisogno di danaro per fare una nobile comparsa. E come è mai possibile, che siate così crudeli con noi, che tanto facevamo per voi. Deh almeno per noi dispensate pane ai poveri, udite la risposta. E là si governino quei cani, che non patiscano, si satollano. Se bene anime sante, non vi lamentate più perché non vi sovvengano, querelatevi sì, perché vi perseguitano, e dite loro quare persequimini carnibus meis saturamini. Figli, parenti, dissi male, fiere, furie, mostri di crudeltà
allevati da tigri, nutriti con carni d’aspidi e con sangue di pantere, perché mi
perseguitate? Quare me persequimini, o carnibus meis faturamini; e quel che è
peggio vi pascete delle nostre carni, carnibus meis saturamini. Chi vi lasciò quei palazzi, quei giardini, quelle gioie, quelle vesti, quelle ricchezze, se non io; sono mie quelle sostanze, che godete, e voi crudeli scordati di me, e de’ miei tormenti, così barbaramente vi saziate delle mie carni, e quel che più altamente mi
crucia, e mi rende più tormentoso il Purgatorio, e che voi godete delle mie miserie; né mi state a dire, che non ne godete, perché vi si può rispondere col Morale: … qui non vetat vetare cum possit jubet, mentre che voi con poco, potete sollevarmi, e non lo fate, è segno che godete del nostro penare. Voi parenti, voi figli, voi figlie, tenete acceso nel fuoco che tormenta i vostri congiunti, mentre non recate acqua per estinguerlo, voi tenete stretti quei ferri, mentre non stendete la mano per disciorli. Voi siete, che impedite a quei buoni morti la grazia che otterrebbero d’uscire dalla loro cruda schiavitudine, mentre non volete prestarli nemmeno un soldo. Miseremini mei saltem vos amici mei. Che voci sono queste, non si parla più con parenti, ma con amici, e con ragione, perché i parenti non odono. Voi dunque amici sovveniteci, giacché nel cuor di mio padre, di mio figlio, non v’è più amore. Voi amici, giacché mia madre, mia figlia, non ha cuore che per odiarmi, mentre mi lasciano penar qua giù. – Voi amici, voi soccorretemi, giacché quanti ho fratelli e parenti tutti si sono scordati di me, che ardo in queste fiamme; ah, che se ci soccorrete con una Indulgenza presa con una Messa celebrata, con un poco di limosina distribuita a’ poveri, noi trionferemo rivestite d’oro, risplenderemo coronate di raggi, e c’ingolferemo nel godimento di un bene immenso non limitato da tempo, non amareggiato da tribolazioni, che più scientemente ne andremo a godere Dio. Ma che se non udirono i parenti, meno sentono gl’amici. Orsù parenti, amici, se non avete più cuore per sovvenire i vostri congiunti, o per sangue, o per fedeltà, e non volete aiutarli. Almeno per rimprovero della vostra ingratitudine, quando entrate in Chiesa, date mente a quelle voci, che da quelle tombe vi risuonano alle orecchie, e sentirete dirvi così: sai chi giace sotto questo sasso? Qui vi giace quel povero tuo padre, che ti lasciò tant’oro in cassa, che visse da povero per arricchirti. Egli è quello, o figlio, che stentò il vivere per farti lautamente vivere, parcamente bevve per estinguer la tua sete. Odi, sai chi giace sotto questo sasso? Qui vi giace quella infelice tua madre a cui tu stesso, avanti di nascere desti penosissima infermità nella nascita tua, gli faceste provar la morte, quella saziò la tua fame col proprio sangue, con le sue lagrime asciugotti le guance bagnate dal pianto, e finalmente morendo ti fissò in fronte lo guardo, quasi pietosa volesse dire: porgimi la mano, o figlio; buttata, che io sarò nella tomba per divenir cibo de’ vermi, ricordati di sovvenir colei che in questa vita per la tua vita avrebbe provata la morte. Alza quel sasso, o mio Uditore, e vedrai, che sotto d’esso coperto da putredine vi giace quel tuo caro amico, che sempre fu fido compagno delle tue azioni, che non dubitò espor la vita ad evidente morte per salvarla a te. Or che fai? Chi giace sepolto in queste tombe? Attendi alle altre voci, che da quelle fredde ceneri rimbombano. Pietà figlio pietà; madre, consorte, fratelli pietà, non ti domando il valsente d’un patrimonio, non le gioie di tua moglie, non gl’avanzi di tua casa, ma un sol calice per estinguere una sì eccessiva arsura; negherai dunque un sacrificio per quello che si sarebbe lasciato svenar vittima per te? Odi, e non mentisco, l’amor troppo tenero che ti portai mi tiene tra queste fiamme, e tu ingrato non mi accorri? Ah crudo, ah finto amico, ah figlio traditore! Che serve a me che tu ostenti il mio ritratto, mentre lasci arder me nel Purgatorio, tu per ornamento della casa, e per splendore della famiglia vuoi la mia immagine appesa ad un chiodo, e non ti curi di schiodare il mio spirito da quelle pene? Come è possibile che a queste verità, a queste querele, o miei UU., non vi risolviate suffragar quelle anime per non tenerle più lungamente tra quelle angosce di morte. – Dio Immortale, e chi è tra voi, che non giubili d’allegrezza, quando intende di poter con poco danaro ricuperare dalle mani de barbari un figlio, un fratello, e talora un amico, tenuto da loro in vergognose catene, certo, che se non avesse in pronto la moneta richiesta’ per la liberazione, se n’andrebbe subito ad importunare i parenti, a negoziare co’ mercanti, a costringere i debitori, ad impegnar le gioie, a vendere i beni e se oggi potesse mandarli il riscatto, certo non indugerebbe a domani, se non per altro, che per aggiungerli un giorno di libertà. Ah fede, fede, ben si conosce che le vostre menti altro non hanno di sé che le tenebre; ditemi un poco UU. con quel denaro di cui vi vorreste servire per liberare l’amico, il parente dalla barbara servitù, non potreste voi, per così dire, spopolar mezzo il Purgatorio? E pure, o Dio, quanto stentate a dare talora per i vostri morti un poco di moneta, a far cantar un Offizio, a far celebrare una Messa, quanto stentate, anzi dico di più, piacesse pure al Cielo, che non vi mostraste di viscere più inumane, quando anche salva del tutto la vostra borsa, voi li potreste sovvenire, e non lo fate? E quante volte con visitare una Chiesa, con acquistare un’Indulgenza, con fare una Comunione voi mettereste insieme il prezzo bastante al riscatto d’un’anima imprigionata nel Purgatorio, e voi per non abbandonar quel giuoco, per non differir quel negozio, lasciate che ella incallisca sotto quei ceppi, mentre, con sì leggera fatica li si potreste o spezzare perché subito volassero in libertà, o almeno alleggerire, perché non sentissero tanto quella dura prigionia, e non è questo un eccesso di crudeltà? Di tirannia, di barbarie? Tacete, istorie, tacete, voi narrate per singolare una tal peste, di cui chi fosse tocco perdeva tutta la memoria, fino a non ricordarsi più, guarito che fosse, né di padre, né di madre, or sappiate, che d’una simil peste sono infettati molti de’ miei UU. mentre non
si ricordano più né di padre, né di madre, lasciandoli star nel fuoco senza soccorso, e di loro ben si avvereranno le parole del Profeta Reale: Dum superbit impius, incenditur pauper. Voi alle feste, e vostro padre nella carcere, dunque voi alle crapole, e vostro padre e vostra madre a’ digiuni, dunque voi agl’amori tra le delizie e vostro padre tra’ tormenti: egli brucia e voi ridete, e voi solazzate; Dum superbit impius, cenditur pauper. – Voglio esprimere la vostra crudeltà con quel fatto che si narra da San Giovanni nel cap. 5, in persona di quel povero paralitico. Erano già trent’otto anni che egli giaceva addolorato, ed assiso là sulle sponde della Probatica, che però
non poteva non esser notissimo a quanti vi venivano, o per rimedio o per curiosità. Se voi aveste veduto quel miserabile, l’avreste altresì osservato macilento e scaduto di forze, senza colore in volto, ed in tale stato che avrebbe mosso ogni cuore ancorché duro a compassione, ed è pur vero, che un uomo in stato sì miserabile mai ebbe neppur uno che stendesse una mano per tuffarlo in quelle acque, giacché nulla di più vi voleva … Hominem non habeo. Dio immortale, se a sollevar quel meschino da quella lunga infermità vi fossero volute centinaia di scudi, o per i medicamenti più eletti, o per i medici di primo grido, io l’intendo, ma mentre non vi voleva più, che una stesa di mano, io inorridisco alla crudeltà; se si fossero dovute cercare dalle montagne più remote erbe incognite, e del tutto salubri, mi rimetterei; ma quando so che bastava trovarsi al tempo prefisso della volata dell’Angelo, e che non vi voleva altro che tuffarlo, non posso non infierirmi con quanti comparvero, e dichiararli con cuor di tigre in petto. Così dico, che compatirei chiunque avesse veduto lo stato infelicissimo
del paralitico, e non l’avesse sovvenuto quando a lui fossero bisognate le perle
più pellegrine per macinarle in polvere e porgerle al miserabile in rimedio di sua salute, ma mentre non vi voleva di più che correre a suo tempo e dargli soccorso con cui sbalzarlo nelle acque, non l’intendo, non la capisco, e dichiaro per crudeli quanti lo videro, e non l’aiutarono, e voi miei UU. con me vi unireste a deplorarne le barbarie; ma non dubitate, che voi per verità non avete in petto, cuor meno crudele, mentre sapete d’aver l’anime de’ vostri amici, de vostri parenti, de vostri padri e madri colaggiù nelle fiamme del Purgatorio, che sono anni ed anni che patiscono, e pure quantunque per liberarle nulla più si richieda d’una stesa di mano in poca limosina, d’un Sacrificio celebrato, d’un Offizio recitato, quantunque nulla di più vi voglia, salvo che d’un poco diי scomodo in una Comunione, ed una Indulgenza presa, non fate nulla, anzi fate che dolenti abbian da dire: Hominem non habeo, non vi son per me nel mondo più amici, più parenti, più figli, Hominem non habeo, o che crudeltà, o che barbarie! Venga in questo pulpito a ricoprirvi di rossore un Dandamide privo di fede, che per liberar l’amico dalle catene nemiche, si sottopose alla perdita degli occhi. Fu fatto prigione di guerra alle foci del Boristene un cavaliere per nome Amizzoca; questi impaziente, e della cattura e de’ ferri, gridò ad alta voce verso gl’amici che non l’abbandonassero in sì disperata disavventura, l’udì Dandamide suo amicissimo, ed a lui totalmente eguale in chiarezza di sangue, subito per ciò si mise a nuoto del fiume per raggiungere le squadre nemiche, e ricuperare l’amico; accortasi la retroguardia del tragitto, voltò gl’archi per ferirlo prima che approdasse; allor Dandamide chiese quartiere, e si protestò, non per altro avvicinarsi, che per professione d’amicizia; a queste voci, mitigati i barbari trattenero le saette, finché, giunto Dandamide alla riva, sentironsi interrogare del dove, e sotto qual tenda dimorasse un certo cavaliere Amizzoca; quando condotto dall’amico, e vedutolo tra’ ceppi rivolto al Generale delle Armi, supplicollo che si compiacesse restituirgli il caro compagno. Non mostrò questi alieno della grazia, purché fosse pronto il riscatto. Dandamide allora, perché volonteroso, ma impotente al riscatto: sappi disse, o Sire, che Amizzoca è assai a me più caro degli occhi, onde di buona voglia vi consegnerei la metà del patrimonio, per liberarlo quando voi di tutto non m’aveste svestito.  Allora il Generale l’assicurò, che quando volesse perdere gl’occhi per ricuperar l’amico, lo scioglierebbe dalle catene, lo porrebbe in libertà; accettò Dandamide prontamente la condizione, e lasciato accecare da pugnali de’ Sarmazi, ebbe il sospirato Amizzoca. Or che dite Uditori? Con quanto meno potreste voi liberare non gl’amici, ma i parenti più stretti, non da catene di ferro, ma di fuoco ardentissimo, e pur neppure vi movete a compassione, ah che purtroppo è vero il detto del Savio, Amicus est socius mense, et non permanebit in die ne cessitatis. Così appunto segue di voi anime Sante, giacché i vostri congiunti si sono totalmente scordati di voi; furono vostri amici finché viveste, e con voi banchettarono; ma ora che voi siete bisognosi non pensano punto a voi; la lor amicizia è stata a guisa di quella che passa tra l’oro, e l’argento vivo, detto con ragione, Mercurio, perché ladro, ruba il danaro alla borsa, ed il cervello alle teste; or di questo sentirete la proprietà, egli è sì amico giurato dell’oro, che tirato da un assetto simpatico, sempre lo segue, e trovandosi sparso, quando lo giunge, raccoglie tutto sé  stesso sull’amata moneta; ma che? Venga l’oro posto in mezzo alle braci per esser purgato, appena l’amico bugiardo sente gl’ardori che se ne fugge per l’aria, e lascia il compagno nel fuoco: eccoci al punto, socius mense, furono vostri amici allorché poterono sollazzarsi con voi, ma ora che voi bruciate tra le fiamme vi lasciano ardere, né più si curano di voi con una ingratitudine sì alta, che maggiore non so immaginarmi, e finisco di spiegarvela con il seguente racconto. – Narra Diodoro, che tre figli d’un re de Gimeri, morto il loro padre, contesero del regno, mercecché ben spesso la ragione di stato, cangia l’amor di fratello, in rabbia di nemico, vero però è, che quantunque agitati da interessata passione, ebbero nondimeno quei tre signori di tanto di lume, che per decidere senz’armi la contesa, scelsero per giudice del loro litigio, il re della Francia Ariofarne. Io per me non so, se giammai s’udisse in tal contingenza, altra più trana decisione, Comandò il re, che si cavasse il morto principe della sepoltura, alzato in alto a bersaglio, i tre figliuoli lo saettassero, e quello di loro,
che l’avesse colpito nel cuore  quello regnasse; lasciò dunque la saetta il primogenito, e colpì nel capo, scaricò il secondo, e colse nel petto sì, ma senza toccarne il cuore. Quando ecco, che tutto acceso di sdegno afferra con ambe le mani, il terzogenito, arco e saette, e mentre tutti aspettavano che egli prendesse di mira il cuor paterno, egli invece, ruppe l’arco, infranse i strali; eh non sia mai vero, dispettoso, gridò,
che io più fiero delle fiere incrudelisca contro il morto mio Padre: abbia sì de’
miei fratelli il regno, chiunque lo vuole, purché il mio capo sia coronato di
pietà punto non m’importa, che le corone d’oro lo circondino: Supererat, ecco l’autore, supererat minimo spes regni vicit pietas, ed oh giustissima sentenza d’Ariofarne, udite: io consegno, le ragioni della reale primogenitura al terzogenito; abbia lo scettro paterno quella mano che ricusò saettare il cuor del padre; viva, viva re, chi al morto re e padre, come degno figlio portò onore, e riverenza; mio Dio, quando giungo a questo termine, m’accendo d’uno zelo straordinario. Quanti figli ingrati incrudeliscono non contro i corpi, ma contro l’anime de’ loro parenti, e trafiggono con barbare saette i loro cuori; ben si adatta a costoro il detto d’Ambrogio: Si non pavisti, occidisti; Hai tu figlio compita l’ultima volontà di tuo padre? No, occidisti, hai fatto celebrare quelle Messe? No, occidisti, hai soddisfatto a quei Legati pii? No … occidisti; quei testamenti sono nella tua cassa degl’avi e bisavi coperti nella polvere, morti nella memoria, e non punto eseguiti, occidisti; Tu sei più crudele di Caino; poiché questo, dopo d’aver tolta la vita al fratello non incrudelì punto, che io sappia, contro il morto Abele, ma tu sei più spietato, mentre incrudelisci contra de’ Morti, non pavisti, occidisti, non gli sovvenga, dunque, l’uccidi. Se cosi è, ascolta, io ti fo con le parole di Cristo un funesto ma non fallace pronostico: qua mensura mensi fueritis remetietur, et vobis. Sappi che, balzato che sarai nel Purgatorio, quando pur non ti tocchi l’Inferno, permetterà Iddio, che ognuno si scordi di te, e che tu arda fino al dì del Giudizio in quelle pene, mercecché tu non avesti pietà verso de’ tuoi morti.


LIMOSINA
Ignem ardentem extinguit aqua, et eleemosyna resistit peccatis. La limosina
fatta per l’anime del Purgatorio è un’acqua, che lava le loro fiamme. Immaginatevi questa mattina d’aver qui presente una di quelle anime a voi più care in mezzo al fuoco, e che ciascun di voi abbia alle mani un gran secchio d’acqua ed in tal caso, io son certo, che la vostra pietà verserebbe sopra di quel fuoco tutta l’acqua, e non bastando, si porterebbe a prenderne altra. Io non voglio tanto, basta a me, che per le anime sante, diate quello che vi troviate, non tutto …

SECONDA PARTE

Già vi ho rappresentati UU. miei, la terribilità di quelle pene del Purgatorio, le querele di quelle anime, e l’ingratitudine di chi non le sovviene; la qual è, quasi dissi, cosa comune; che si ha dunque da fare per non essere nel numero di quelle povere anime, scordate da’ loro parenti Sapete, che non avete d’aspettare, che vi si faccia il bene, ma fatevelo da voi, e se l’aspetterete da loro, potrò con fondamento temere, che starete lungamente tra quelle fiamme. Alessandro Magno morendo lasciò a’ suoi capitani in eredità la sua monarchia da dividersi in tante parti, e pure è vero, morto che fu, ebbe da stare trenta dì insepolto a causa contrastarsi la divisione; ed ognuno procurava di tirare a sé un squarcio più bello della porpora del defunto, ma niuno si curava di vedere quel cadavere insepolto: Dum ejus presecti, ecco le parole d’Eliano, de regno per seditiones contenderent, ille triginta diebus inumatus, et carens sepulcro relictus est. Così appunto faranno i vostri eredi, appena sarete morti, che subito daranno di mano alle gioie più preziose, ai mobili più ricchi, subito si susciteranno le liti tra fratelli, tra madri e figli, tra mariti e mogli, e a pagar que’ legati, a far celebrar quelle Messe, a dispensar quelle limousine, a far del bene per voi, non vi si penserà. Sicché miei UU. convien dire le parole di Dio, Maledictus homo, qui confidit in homine. Maledetto quell’uomo che confida nell’uomo. Ricordatevi miei UU. del trito proverbio che fa più lume un candeliere avanti, che una torcia alle spalle; voglio dire che bisogna vi provvediate mentre vivete. Un gran mercante, detto Onofrio, nella Riviera di Genova, s’era arricchito per via di mare, venuto a morte, benché pregato da’ figli, non lasciò nel testamento obbligo alcuno per suffragio dell’anima sua; morto che fu, tra le sue scritture si trovarono registrate più partite di questo tenore: per maritar zitelle, mille scudi, per Messe, duecento, per cera in onore del tal Santo, cento, ed in fondo della scrittura erano queste parole: chi vuol bene se lo faccia in vita, e non si fidi di chi resta. Non vi fidate dunque, ma fatevi del bene. Oh io costringerò, voi dite, legherò in modo i miei eredi che certo faranno. V’ingannate. Sentite: aveva un certo padre tre figli, e già vicino a morte, domandò ad uno di loro: dimmi un poco figlio mio che cosa pensi di farmi per liberarmi dal Purgatorio? Io, signor padre vi voglio erigere una cappella
ed ivi far celebrare per voi. E voi, rivolto all’altro figlio, disse, che farete? Io pure, rispose, farò una cappella, ma con più sacrifici; così pure richiese il terzo, il quale pronto rispose: io signor padre farò quanto faranno questi due. Loro niente faranno di quello che v’hanno promesso ed io pur niente, provvedetevi finché vivete e ricordatevi della rivelazione fatta da Dio a Sant’Alberto Carmelitano, allorché gli disse: valer più un quattrino dato in vita che migliaia dopo morte. Voi vi volete quietare con dire, lascerò de’ legati, e non considerate che quanti sono i legati, tanti sono i legami perché non soddisfatti, come spesso avviene: legano al Purgatorio il testatore ed all’inferno gli eredi, e come è vero quel primo, altrettanto è vero questo secondo, come ora v’esprimo con una storia. Un contadino venuto a morte volle fare il suo ultimo testamento, e non avendo altro di proprio, che un agnelletto ed un cavallo, lasciò questo al figlio, con obbligo stretto che lo vendesse, e del prezzo gli facesse dire tante Messe, e l’agnelletto poi restasse a lui. Il villanello che aveva callose le mani ma non l’ingegno, fece così: andò una mattina al mercato con tutte e due le bestie, e cominciò a gridar forte, chi vuol l’agnello ed il cavallo? Un massaro gli disse: io comprerò il cavallo se saremo d’accordo, ed il villanello rispose, io non voglio venderlo senza l’agnello; bene, rispose l’altro, comprerò anche questo, e che vi ho da dare? Non posso darvelo a meno di trenta scudi, e del cavallo, che ne volete? Mezzo scudo; stabilitasi la vendita, si ricevette il danaro, il mezzo scudo, prezzo del cavallo, impiegò in Messe, ed i trenta scudi dell’agnello, ritenne per sé. Che voglio dire con questa storia? voglio significarvi che non commettiate ad altri quel che potete e dovete far voi stessi, perché nel mondo non v’è di chi fidarsi; ma quando pure vogliate lasciar legati per l’anima vostra, lasciateli, ma con obbligo strettissimo a’ vostri eredi, che se non soddisferanno puntualmente, la roba vada al principe al sovrano etc…

QUARESIMALE (XXIII)

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.