LO SCUDO DELLA FEDE (245)

LO SCUDO DELLA FEDE (245)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (14)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO III

IL SACRIFICIO DIVINO

SECONDA PARTE DEL CANONE.

Orazione: Communicantes.

« Noi comunicando, e prima di tutto venerando la memoria di Maria sempre vergine, gloriosa Madre di Dio e nostro Signor Gesù Cristo, come pure dei beati vostri Apostoli e martiri Pietro e Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni, Tommaso, Giacomo, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Simone, Taddeo, Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio, Cipriano, Lorenzo, Grisogono, Giovanni e Paolo, Cosma e Damiano, e di tutti i vostri santi: Deh! pei meriti e le preghiere loro concedete, che noi in tutte le cose veniamo muniti dell’aiuto di vostra protezione (qui giunge le mani e continua): Pel medesimo Gesù Cristo, Signor nostro. Così sia. »

Spiegazione dell’orazione: Communicantes.

La Chiesa in terra e in cielo è una sola famiglia. L’altare toglie via l’abisso che separa il cielo dalla terra, ed è come un ponte, per cui i fedeli dal tempo salgono all’eternità, e si mettono in società coi Beati comprensori del paradiso. Di qui, contemplando i loro fratelli in eterna beatitudine, questi figliuoli della Chiesa in battaglia pigliano conforto nel veder tale porzione del loro corpo già coronato in quella gloria infinita: e come membra della stessa famiglia, partecipano col cuore della beatitudine loro. Dall’altare ricordando poi le vicende della vita, in cui si trovarono anch’essi quei felicissimi, dal loro esempio pigliando conforto, insieme con loro rendono grazie a Gesù, comune Salvatore. Così mentre i fedeli in terra ricordano appié della croce coi meriti di Gesù i meriti dei Santi; i Santi sicuri della propria beatitudine, solleciti della nostra sorte come dice s. Cipriano s’affrettano di chiedere in cielo a Dio, che la virtù del suo Sangue quegli stessi prodigi di grazia, che ha già operato per la loro felicità, rinnovi pei fratelli in via; e questi dal canto loro presentano in questa azione, pei doni, che a quelli ha dato, ringraziamento degno di Dio. – Grande consolazione è questa comunione dei Santi! Per essa i fedeli, quando si sollevano coll’anima in cielo, si trovano in quella così lontana regione in mezzo a protettori ed amici, che si fanno premura di presentarsi con loro al trono di Dio per intercedere insieme: solleciti della nostra sorte, come diciamo con s. Cipriano. Il Sacerdote fra quell’immensa schiera di Beati in tanta gloria, non potendo nominarli tutti, (come si suol fare, quando uom si trova fra moltissimi cari in terra) chiama per nome coloro, che hanno titoli particolari per meritare la nostra confidenza. Deh! fra quei Beati, chi prima d’ogni altro dovrà rimemorare? …… In paradiso più dei Cherubini e dei Serafini, e senza paragone più di tutti i Beati, contempla gloriosa Maria in seno alla Santissima Trinità, e subito le corre innanzi con cuor di figlio, perché Maria è Madre.

Maria è Madre. Oh! qui non sono a dir molte parole, per spiegareperché il Sacerdote in cielo elevato cerca subito la Regina del cielo. Col cuore che batte sìvivo in quella pienezza d’inesprimibili affetti, abbiamobisogno di un cuore che c’intenda, di uncuore che ci voglia il maggior bene ed ami connoi Iddio, come sentiamo di doverlo amare, divinamente.Perciò il nostro cuore si slancia al Cuordi Maria: anche i bambini si gettano in seno allamadre per stringersi al cuore di lei. No, non citroviam meglio che quando noi siam tra le bracciadi Maria a parlare con Dio: perché Maria èMadre. Quando pendeva in croce Gesù, il Sanguepioveva giù dalla testa, grondava giù dalle mani,scorreva giù dai piedi santissimi; e Maria stavasotto la croce, e il caldo Sangue di Gesù cadevasul volto, sulle vesti, sulle mani benedette di MariaSantissima: e Gesù, quando si vide lì sotto allacroce tutta bagnata di Sangue la sua Madre, ce ladiede per Madre nostra (S. Ephrem, Or. de Laur. vir.). Ora Maria dal cielo guarda noi all’altare intorno a Gesù: e da Gesù in Sacramento viene in noi il Sangue, che vorremmo dir Sangue di Lei: perché Gesù è Figlio del suo Sangue…… Ah si, sì senz’altra ragione lo comprendiamo nel cuore, che Maria ci guarda, come figliuoli del suo Sangue! Madre divina! Ella contempla in paradiso nello splendore della Divinità il Figlio suo in seno al Padre, e guarda noi in terra in tante miserie, poverini di figli! lì lì per perderci ad ora ad ora. « Oh! Figliuol mio, gli dice, è Sangue nostro in quei meschinelli. » Contempla poi nel Figlio le Piaghe gloriose, e « Figliuol mio, gli dirà, queste Piaghe vostre io ho sofferte nel mio cuore! » e guarda le piaghe nostre, e gli deve dire: « mi par di sentirle nella mia persona: son Madre vostra, Madre anche di loro », e mirando nel Costato ancora aperto: « mio Gesù, esclama, questa ferita poi l’ho sentita tutta io sola nel cuore mio: salvatemi i figli di tanto dolore! » Pensiamo se in terra una madre fosse così fortunata, che avesse il figlio suo primogenito per ventura diventato re sul più gran trono del mondo; e poi avesse gli altri suoi figliolini, dispersi per la terra, in abbietta miseria; chi, chi vorrà al figlio suo in tanta gloria raccomandare, se non i figliuoli suoi poverini? Ah! consoliamoci, ché abbiamo in cielo la Madre, che è la Madre di Dio (Di Napoleone si racconta (come il buon capitano di Tebe Epaminonda godeva d’ogni vittoria per la consolazione che ne avrebbe avuto la madre) che d’ogni nuova conquista voleva portare egli la novella alla madre sua Letizia; per godere della materna consolazione, e che la madre gli rispondeva sempre con un sospiro: « Ne godo, ma i vostri fratelli ?…..; » e che pur finalmente le dicesse Napoleone: « Mamma, per compiacervi, uno lo farò re di Spagna, poi l’altro re di Portogallo, poi l’altro re di Wesfalia, e regina d’Etruria la sorella » e che allora la madre con un largo sospiro gli rispondesse: La madre vostra è felice! »). Le madri sono sempre madri, anche coi figliuoli che siano stati cattivi: e se mai un figliuolo ravveduto non ardisse di presentarsi al padre, buono sì, ma tanto sdegnato; tra un padre e un figliuolo cattivo, che vuol farsi buono, in sulla soglia, chi si intromette a far pace?… Lasciate fare alla madre. Ella dirà al padre: « avete ragione, fu cattivo quel meschinello…. » Ma intanto va dietro al padre, e mette mano nel forziere, e piglia una manata d’oro (il padre finge di non vederla!) e va sulla porta al figlio e, « to’, gli dice, paga i debiti tuoi, perché ti salvi in onore; » e per giunta lo bacia e gli piange sul volto! Si, veramente l’amor di madre rende immagine dell’amor di Dio! Amor generoso, cresce più quanto è maggiore il dolore che le costa il figlio. Adunque per tutte le ragioni il Cuor di Maria è, dopo il Cuor di Gesù, il rifugio dei peccatori. Ella è Madre! – Il Sacerdote contempla questa Madre in paradiso, l’ama, la benedice; e le si getta in cuore per dirle: « o Maria SS., Madre di Dio, e Madre nostra, da tanta altezza ben conoscerete in questa povera terra i vostri figli! Vedeteci chiamati qui a rinnovare il prodigio, che si operò in voi, Vergine SS., benedetta Madre di Dio. In mezzo a noi deve scendere il vostro Figliuolo divino; ed io Sacerdote devo prestargli in persona quei servigi e ministeri, che voi prestavate a lui Bambino in confidenza di madre; poi tutti noi dobbiamo, come voi, riceverlo in seno ora, che vuole per noi sacrificarsi, come là sulla croce. Santissima Madre, vi avete ben dunque voi il vostro interesse a farci santi, e a darci in prestanza le vostre virtù, per prepararci. » La Regina del paradiso dal trono di Dio, in cui siede coronata di stelle immortali, abbasserà lo sguardo rivolta a noi; e scorgendoci, come siamo, intorno all’altare, rigenerati dal Sangue di Gesù Cristo, penserà quanti le costammo dolori, quando appiè della croce ci ricevette per figliuoli dal Figliuol suo morente. E pare a noi, che dovrà esclamare: « son proprio dessi i miei figliuoli costoro, perché in essi è il Sangue di Voi, o mio Gesù: sì sono essi figliuoli dei miei dolori! » – La Religione cattolica non è una idea astratta, ma è la verità divina, che s’incarna in noi e con noi si umanizza: non distrugge le relazioni che abbiamo tra noi in terra come fratelli della gran famiglia, ma di più santo amor fraterno ci unisce coi fratelli in paradiso. Ah! I  protestanti, quando negano la divozione ai Santi, col voler vantarsi razionalisti cessano di essere umani! Eh! Ci vuol tanto a capire che i Beati in paradiso, così vicini a Dio, hanno da pregare per noi e rispondere alle nostre preghiere con le grazie ottenute! Ecco come la Chiesa prega i Santi. Nell’invocarli ricorda le relazioni particolari ch’ebbero in terra, e mantengono vive in cielo. Questa è la ragione dello sceglierci, che facciamo, i Prottettori particolari dei paesi, delle comunità, delle famiglie, e di ciascuno di noi. Quindi, dopo Maria, invoca il Sacerdote ad uno ad uno i santi Apostoli: Pietro, che della Chiesa è pietra fondamentale; Paolo, il suo gran maestro; gli altri Apostoli, che ne sono colonne. Essi tramandarono a noi questo gran Sacrificio, essi versarono il sangue per innalzare gli altari, su cui offrirlo: essi ce ne fecero precetto (1 Cor. XI, 23) e qui siamo appunto per eseguirlo. Invoca tanti Pontefici e Martiri; i Pontefici, che sostennero colla loro immancabile fede la Chiesa; i Martiri, che la difesero col sangue, lasciando le lor vite appiè della croce, come tanti trofei della Religione divina. Invoca tutti i Santi. E noi così poveri in quella società, preghiamoli, che ci compartano dei loro meriti: e colle preghiere loro all’uopo nostro ci impetrino forza da poter giungere a compiere il numero degli eletti, che faranno corona eterna a Dio in Paradiso. Chiedesi adunque qui, che il sacrificio, già per se stesso accettevole, sia gradito anche per i meriti loro (Bossuet, Expl. de quelq. diffic. sur les priéres de la Messe.). Il Sacerdote invocati i Santi, congiunge le mani, come per attaccarsi alla croce, e dire: « O Santi! da questo divin Redentore viene tutta la vostra giustizia e santità; ai patimenti e meriti suoi uniamo qui i patimenti e meriti vostri; e dallo stesso ancora offerto per noi, speriamo la grazia della vittoria nel tempo, e la corona nell’eternità gloriosa. » Che gaudio pei Beati vedere presentati i meriti loro insieme col Sacrificio divino! Così appiè di Gesù crocifisso si abbracciano coi Beati i fedeli, si bacian dell’animo; e col gaudio di quelli comunican questi le loro speranze, e già all’altare si preparano alle nozze, che celebreranno eterne coll’Agnello immacolato in Paradiso. Il Sacerdote poi stende le mani coi pollici in croce sopra l’offerta, e dice: Hanc igitur oblationem, etc.

Art. II.

Orazione seconda:

Hanc igitur oblationem.

« Quest’oblazione adunque della nostra servitù, e di tutta la famiglia vostra, Vi preghiamo, Signore, di ricevere placato, e di disporre nella vostra pace i nostri giorni, e di scamparci dalla dannazione eterna, e di concedere che veniamo annoverati cogli eletti vostri, (qui giunge le mani) per Cristo Signor nostro: Così sia. »

Esposizione.

Egli è questo forse della Messa il più terribile momento. Ecco il sacerdote, che stende le mani legate coi pollici in croce sopra l’offerta. Per intendere il qual rito, è da ricordare ciò, che si faceva per ordine di Dio nella legge antica in figura. Quando si offriva un sacrificio per i peccati, si conduceva la vittima innanzi al Tabernacolo (Levit, 4, 8.1); ed il sacerdote vi stendeva sopra le mani. Con questo stender le mani, dice Bossuet (De orat. Miss.), S’indicava che il sacerdote s’univa alla vittima per offrirsi con essa a Dio. Il Sacerdote adunque, ad imitazione di tal rito, collo stender le mani sull’offerta, che sta per divenire Corpo e Sangue del Redentore, se stesso col popolo offre, e si mette colle mani legate insieme a Gesù sulla mistica croce, chiedendo per Esso la rimessione dei peccati, la pace per la vita presente e la gloria della futura (Ant. De opt. aud. Miss. orat. pres. — Ben. XIV, lib. 2, cap. 13). Seppure non si vuol accennare ad un rito di più terribile significazione. Giova esporlo qui: fa gran senso! Nel gran tempio del Signore, in Gerusalemme, si menava innanzi all’altare un capro: e sopra quel capro il pontefice degli Ebrei stendeva ambe le mani, e confessando tutte le iniquità dei figliuoli d’Israele, sopra la testa di quello le scaricava tutte, imprecando sopra di esso tutti i castighi e le maledizioni, che si meritavano quei peccatori. Poi si ributtava con ribrezzo dall’altare quel capro, e battendolo si spingeva fuori a morir nel deserto (Lev. XVI, 21). E che poteva mai significare quel capro emissario?… Per poco non ci basta l’animo, e ci trema il cuore nel ricordar la spiegazione, che ne danno alcuni Padri (Teod. h. Hieron. Auct. ep. con Paul. Samos : vedi Dei Sacr. ecc. del Card. Tadini, benché egli creda il capro emissario significhi il genere umano. Noi non concordiamo con lui). Quel capro così maledetto voleva figurare… Gesù Cristo!… Né ardiremmo pronunziarlo, se non avesse detto il profeta Isaia (LIII, 6), che pose in Lui Iddio l’iniquità di tutti noi, e che Egli dovette portare le nostre ingiustizie (LIII, 11): aggiungendo s. Paolo, che Egli diede se stesso a redenzione per tutti (1 ad Tim. II, 6), e s’offrì per togliere i peccati di molti (Hebr. IX, 28) fattosi maledetto Egli stesso (Gal. III, 13), e come tale buttato fuori dalle mura della città a morir per i nostri peccati (Hebr. XIII, 12). Noi qui c’immagineremo di vedere Gesù là nell’ orto di Getsemani per cominciare la sua passione in quella notte, in cui tradide in mortem animam suam et cui sceleratis reputatus est: quando cioè si venne ad offrire alla morte come uomo, che portassei delitti di tutti. Egli si prostrò davanti al Padresuo, e par dicesse: « Con questi meschinelli di uominieccomi uomo anch’io; eglino sono i miei fratellidi sangue…… io sono di loro…… e faccio causacomune con loro… pago io per la mia famiglia…Voi mi avete dato un corpo; ecco che vengo adoffrirvelo per i peccati di tutti….. ricadano sopradi me tutti i peccati… scaricate sopra di mei castighiper lor preparati… Via dall’altare del Diovivente le carni di bestie morte in sacrifizio……..Questi sciagurati in carne e sangue da uomo hannooffeso Voi, Grand’Iddio; ecco Io soddisferò per loroin Carne e Sangue da Dio. » Colla sua mente divinavedendo in ogni tempo di ciascuno ogni peccato,se li raccoglie tutti sul cuore, come se reo nefosse Egli solo: e, misurandone la tremenda enormitàdalla Maestà di Dio offesa, così come se nesentiva gravato Egli stesso, inorridì, fremette; unbrivido gli corse per le vene, e spinse il Sangue alCuore; e il Cuore, stretto in quella pressura ditremendo orrore, respinse il Sangue ancor per levene (Vence Bibl. Sac. Dissert. sul sudor di Sangue di G. C. di Aliot.): e Gesù in quell’angoscia cadeva per terra agonizzante. Fu allora, che in quell’abbandono della vita, cedendo l’eretismo della cute, il Sangue dal Cuore nelle vene respinto, tra i pori di essa s’apri la via, ed esciì di Sangue così profuso sudore, che ne grondava il volto, e la persona, e giù per le vesti scorreva per terra. Deh! Contempliamo Gesù Cristo cogli occhi allargati tutto bagnato di Sangue, boccheggiante in agonia, quasi fissi lo sguardo in volto a noi in quello spasimo e dica: « Intendete che cosa sia il peccato! mi fa sudar Sangue in agonia, e mi spinge a morte. Pregate sempre per non peccar più. » Levossi in piedi e si diede in mano ai Giudei, che lo batterono, e tutto lacero lo spinsero a morir fuori delle mura di Gerusalemme sul Calvario. Noi, picchiandoci il petto col più gran dolore, affrettiamoci di porci tremando coi nostri peccati a piè dell’altare, dove Gesù Cristo se li vuol addossare, affinché Dio si plachi rammentando i colpi, che già per la nostra redenzione e per la punizione e remissione del peccato si scaricarono sul Figlio, o meglio, affinché veda ancora il Figlio suo sacrificato dinanzi; e dal suo sdegno per Esso ci scampi. – Ora conosciuta la mistica significazione del rito, passiamo a considerare il modo eseguito dal Sacerdote protendente le mani in quell’atto, che noi con lui congiunge. Ecco poi perché si congiungono le mani. Siccome le vittime si strascinavano legate ai piedi delle are, dove si dovevano immolare; così il Sacerdote sta col popolo prostrato innanzi all’altare colle mani legate dai due pollici in forma di croce; quale reo dai vincoli stretto si confessa in peccato, e si dà nelle mani di Dio, come vittima sacra alla sua giustizia. In questo atto, di qui d’appié della croce getta uno sguardo nell’abisso d’inferno, che si vede spalancato sotto dei piedi: si slancia ad abbracciarsi alla croce; e mette tal grido di speranza e terrore: « Oh tremendo Iddio! ecco la povera vostra famiglia! Per noi Gesù vi placa coll’offrire se stesso! Vorrete perdere i figli comperati col Sangue del vostro Figlio divino? Deh per Gesù (qui giunge le mani per attaccarsi strettamente a Lui crocifisso) salvateci dalla dannazione meritata dai nostri peccati, e consolateci colla vostra pace; strappateci di bocca all’inferno, e portateci in union con Esso, a farvi, cogli eletti corona in cielo. » Noi passiamo a dare tradotta la terza orazione, prima di commentarla., perché si legga bene: affinché si possano gustare nell’intimo del cuore colla tenerezza della propria pietà, ben più che non possiam noi fare comprendere colle povere nostre parole, i sentimenti al tutto divini ch’essa inspira.

FESTA DELL’ANNUNCIAZIONE (2023)

FESTA DELL’ANNUNCIAZIONE (2023)

MESSA

Doppio di 1° classe – Paramenti bianchi.

Oggi commentiamo il più grande avvenimento della storia: l’Incarnazione di nostro Signore (Vang.) nel seno di una Vergine (Ep.). In questo giorno il Verbo si è fatto carne. Il mistero dell’Incarnazione fa sì che a Maria competa il titolo più bello: quello di « Madre di Dio » (Or.) in greco « Theotocos »; nome, che la Chiesa d’Oriente scriveva sempre in lettere d’oro, come un diadema sulle immagini e sulle statue. « Avendo toccato i confini della Divinità » (Card. Cajetani in 2° – 2æ q. 103, art. 4) col fornire al Verbo di Dio la carne, alla quale si unì ipostaticamente, la Vergine fu sempre onorata di un culto di sopravenerazione e di iperdulia: « Il Figlio del Padre ed il Figlio della Vergine sono un solo ed unico Figlio », dice San Anselmo. Maria è da quel momento la Regina del genere umano e tutti la devono venerare (Intr.). Al 25 marzo corrisponderà, nove mesi più tardi, il 25 dicembre, giorno nel quale si manifesterà al mondo il miracolo che non è conosciuto oggi che dal cielo e dall’umile Vergine. La data del 25 marzo, secondo gli antichi martirologi, sarebbe anche quella della morte del Salvatore.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XLIV: 13, 15 et 16
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

[Ti rendono omaggio tutti i ricchi del popolo: dietro di lei, le vergini sono condotte a te, o Re: sono condotte le sue compagne in letizia ed esultanza.]

Ps XLIV: 2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea Regi.

[Dal mio cuore erompe una fausta parola: canto le mie opere al Re].

Ps 44:2.
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

[Ti rendono omaggio tutti i ricchi del popolo: dietro di lei, le vergini sono condotte a te, o Re: sono condotte le sue compagne in letizia ed esultanza.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, qui de beátæ Maríæ Vírginis útero Verbum tuum, Angelo nuntiánte, carnem suscípere voluísti: præsta supplícibus tuis; ut, qui vere eam Genetrícem Dei crédimus, ejus apud te intercessiónibus adjuvémur.

[O Dio, che hai voluto che, all’annuncio dell’Angelo, il tuo Verbo prendesse carne nel seno della beata Vergine Maria: concedi a noi tuoi sùpplici che, come crediamo lei vera Madre di Dio, così siamo aiutati presso di Te dalla sua intercessione.]

Lectio

Léctio Isaíæ Prophétæ
Is VII: 10-15
In diébus illis: Locútus est Dóminus ad Achaz, dicens: Pete tibi signum a Dómino, Deo tuo, in profúndum inférni, sive in excélsum supra. Et dixit Achaz: Non petam ei non tentábo Dóminum. Et dixit: Audíte ergo, domus David: Numquid parum vobis est, moléstos esse homínibus, quia molésti estis et Deo meo? Propter hoc dabit Dóminus ipse vobis signum. Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium, et vocábitur nomen ejus Emmánuel. Butýrum ei mel cómedet, ut sciat reprobáre malum et elígere bonum.

[In quei giorni: Così parlò il Signore ad Achaz: Domanda per te un segno al Signore Dio tuo, o negli abissi degli inferi, o nelle altezze del cielo. E Achaz rispose: Non lo chiederò e non tenterò il Signore, E disse: Udite dunque, o discendenti di Davide. È forse poco per voi far torto agli uomini, che fate torto anche al mio Dio ? Per questo il Signore vi darà Egli stesso un segno. Ecco che la vergine concepirà e partorirà un figlio, il cui nome sarà Emmanuel. Egli mangerà burro e miele, affinché sappia rigettare il male ed eleggere il bene].

Graduale

Ps 44:3 et 5
Diffúsa est grátia in lábiis tuis: proptérea benedíxit te Deus in ætérnum.
V. Propter veritátem et mansuetúdinem et justítiam: et dedúcet te mirabíliter déxtera tua.


[La grazia è riversata sopra le tue labbra, perciò il Signore ti ha benedetta per sempre,
V. per la tua fedeltà e mitezza e giustizia: e la tua destra compirà prodigi].

Tractus

Ps XLIV: 11 et 12
Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam: quia concupívit Rex speciem tuam.

[Ascolta e guarda, tendi l’orecchio, o figlia: il Re si è invaghito della tua bellezza.]


Ps XLIV: 13 et 10
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: fíliæ regum in honóre tuo.

[Tutti i ricchi del popolo imploreranno il tuo volto, stanno al tuo seguito figlie di re.]
Ps XLIV: 15-16


Adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus afferéntur tibi.
V. Adducéntur in lætítia et exsultatióne: adducéntur in templum Regis.

[Le vergini dietro a Lei sono condotte al Re, le sue compagne sono condotte a Te.
V. Sono condotte con gioia ed esultanza, sono introdotte nel palazzo del Re].

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam
Luc 1:26-38
In illo témpore: Missus est Angelus Gábriel a Deo in civitátem Galilææ, cui nomen Názareth, ad Vírginem desponsátam viro, cui nomen erat Joseph, de domo David, et nomen Vírginis María. Et ingréssus Angelus ad eam, dixit: Ave, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus. Quæ cum audísset, turbáta est in sermóne ejus: et cogitábat, qualis esset ista salutátio. Et ait Angelus ei: Ne tímeas, María, invenísti enim grátiam apud Deum: ecce, concípies in útero et páries fílium, et vocábis nomen ejus Jesum. Hic erit magnus, et Fílius Altíssimi vocábitur, et dabit illi Dóminus Deus sedem David, patris ejus: et regnábit in domo Jacob in ætérnum, et regni ejus non erit finis. Dixit autem María ad Angelum: Quómodo fiet istud, quóniam virum non cognósco? Et respóndens Angelus, dixit ei: Spíritus Sanctus supervéniet in te, et virtus Altíssimi obumbrábit tibi. Ideóque et quod nascétur ex te Sanctum, vocábitur Fílius Dei. Et ecce, Elísabeth, cognáta tua, et ipsa concépit fílium in senectúte sua: et hic mensis sextus est illi, quæ vocátur stérilis: quia non erit impossíbile apud Deum omne verbum. Dixit autem María: Ecce ancílla Dómini, fiat mihi secúndum verbum tuum.

[In quel tempo: L’Angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, ad una Vergine sposata con un uomo della stirpe di Davide che si chiamava Giuseppe, e il nome della Vergine era Maria. Ed entrato da lei, l’Angelo disse: Ave, piena di grazia: il Signore è con te: benedetta tu tra le donne. Udendo ciò ella si turbò e pensava che specie di saluto fosse quello. E l’Angelo soggiunse: Non temere, Maria, perché hai trovato grazia davanti a Dio, ecco che concepirai e partorirai un figlio, cui porrai nome Gesù. Esso sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo; e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre, e regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine. Disse allora Maria all’Angelo: Come avverrà questo, che non conosco uomo ? E l’Angelo le rispose. Lo Spirito Santo scenderà in te e ti adombrerà la potenza dell’Altissimo. Perciò quel santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco che Elisabetta, tua parente, ha concepito anch’essa un figlio, in vecchiaia: ed è già al sesto mese, lei che era chiamata sterile: poiché niente è impossibile a Dio. E Maria disse: si faccia di me secondo la tua parola.]


OMELIA

[B. BOSSUET: LA MADONNA NELLE SUE FESTE – Vittorio Gatti ed. Brescia, 1934]

ANNUNCIAZIONE DELLA VERGINE

Discorso I.

Iddio fece nel mondo una cosa nuova: una donna da sola concepirà un uomo.

(Geremia, XXXI, 22).

Nella spaventosa catastrofe, in cui la ragione umana fece naufragio, perdendo in un istante tutte le sue ricchezze, ed in modo speciale la conoscenza del perché Dio l’avesse creata, nella povera mente umana rimase un segreto e vago desiderio di cercarne conoscerne qualche traccia. Da qui l’amore incredibile che ogni uomo prova per tutto ciò che è novità. Amore che si manifesta in molti modi ed agita gli animi in forme tanto diverse. Per tanti non farà che preoccuparli di raccogliere in gabinetti o musei mille e mille rarità forestiere: animali e cose; mentre altri sono assillati, perché più inventivi, della brama di nuove forme nell’arte; sistemi sconosciuti nella gestione dei grandi affari, o nello strappar segreti alla natura! Per non andar all’infinito, vi dirò che nel mondo non v’è attrattiva più lusinghiera ed universale, curiosità meno limitata che quella della novità. Dio che vuol guarire questa febbre, che sì stranamente divora l’umanità, presenta alla brama degli nomini, nella Sacra Scrittura, novità sante la cui curiosità diventa feconda di bene: il mistero d’oggi ce ne dà una prova luminosa. Il profeta Geremia la presenta con parole che indicano la sua attonita meraviglia, e per eccitare la nostra attenzione a qualcosa di prodigioso, più che mai ci obbliga a chiedere alla Madre l’aiuto del suo Figliuolo, con l’Ave Maria, che in nessun giorno più che in questo è la preghiera adatta a salutare la Vergine. Ave Maria. Nella brama frenetica di grandezza e gloria che agita gente di ogni età e di ogni condizione, dobbiamo confessare, o Cristiani, che la moderazione rappresenterebbe tale novità da farne meravigliare il mondo e farla collocare tra le rarità, che se ne vedon casi così rari che quasi si dimenticano!… Spettacolo d’una rarità meravigliosa il vedere l’uomo contener se stesso nella sua piccolezza… e non sarebbe strabiliante addirittura se vedessimo un Dio spogliarsi della sua grandezza infinita scendere dall’alto del suo trono per nascondersi volontariamente… più ancora per annientarsi? È il mistero del — Verbum caro factum est — il verbo si è fatto carne, che la Chiesa presenta oggi, sublime novità che fa esclamare al profeta: « Dominus creavit novum super terram ». Iddio creò sulla terra cose nuove, quando mandò il suo Figlio umiliato annientato nel mondo. In questo abbassamento di Dio che si fa Uomo Dio, io contemplo due fatti straordinari: Dio, Dominus dominantium, il Signore dei Signori al di sopra del quale nessuno s’innalza… e la cui grandezza infinita si stende immensa senza che grandezza alcuna l’arresti, la limiti e nemmeno l’uguagli! Ecco la novità strabiliante: Colui che non ha né sopra di sé né attorno a sé chi l’eguagli, dà a se stesso chi lo domini, e si fa simile all’uomo ch’Egli stesso ha creato. – Il Verbo uguale al Padre nella eternità si fa suo suddito nel tempo: Egli elevato infinitamente al di sopra degli uomini e degli Angeli stessi si fa uguale all’uomo. Quale strepitosa novità! Ha ragione il profeta di gridare al prodigio! Oh Padre celeste, o uomini della terra, oggi vi si fa onore così grande che io non so parlarne senza esserne sbigottito: il Padre non ebbe mai tal suddito, gli uomini mai simile fratello. Su dunque, e tutti, o fratelli, venite e contemplate il fatto inaudito di questo giorno: ma non dimentichiamo, mentre contempliamo il sublime mistero, l’altra parola che soggiunge il profeta: — Fœmina circumdabit virum — una donna concepirà un uomo — imparando da queste mistiche e misteriose parole una grande e consolante verità: Maria fu chiamata a compagna di Dio in quest’opera meravigliosa! Contempliamola per ben capirla in questa festa in cui ha tanta parte. Il Verbo che si fa suddito, la sceglie perché sia il primo tempio nel quale renderà al suo Padre celeste il primo suo omaggio, e lo stesso Verbo, Dio uguale al Padre, che si fa simile agli uomini la sceglie e destina ad essere il canale per cui si comunicherà ad essi! – Per esser più chiaro: consideriamo attentamente come e quanto il Signore onora questa Vergine quando in Lei si annienta: e questo sarà il primo punto; quando per Lei si comunica a noi e sarà la seconda parte. Eccovi quanto vi dirò pregandovi della vostra attenzione.

I. punto.

È mistero ed è verità indiscutibile questa o fratelli: Dio quantunque nella sua onnipotenza abbia tutti i mezzi per stabilire la sua gloria, è incapace, diciamo così, di aumentarla, se non nell’unirla all’umiltà; cosicché troviamo la sua gloria misteriosamente, ma necessariamente unita coll’umiliazione: verità misteriosa che riceve però grande luce dal mistero che oggi onoriamo. Autore della natura e delle sue leggi, Egli la può sconvolgere a suo piacimento, e spezzando le sue leggi con mille miracoli può manifestare agli uomini la sua potenza: ma non potrà mai spinger più alto la sua grandezza di quando s’abbassa, si umilia, si annienta. – Ecco una novità strepitosa: non so se tutti comprenderanno il mio pensiero, ma le prove che io porto sono molto evidenti e chiare nello stesso mistero che abbiamo davanti. S. Tommaso nella terza parte della sua Somma, provò luminosamente che Dio non può far opera più grande di quando personalmente si unisce alla creatura umana nella Incarnazione. Senza addurre tutte le prove che, più adatte alla scuola, qui assorbirebbero troppo tempo, ognuno però comprende come Dio potenza, anzi potenza infinita, non poteva far opera più sublime del gesto con cui diede al mondo il Verbo incarnato, l’Uomo-Dio! ll profeta Àbacuc la dice: opera di Dio — opus tuum Domine! — e dice: tu o Signore nulla puoi fare di più meraviglioso. È la più grande quest’opera, ne consegue che da essa sgorga la gloria più grande del Signore: poiché il Signore solo gloria se stesso nelle sue opere: « Gloriabitur Deus, canta il Salmista, in operibus suis ». Questo strepitoso miracolo Dio non lo poteva fare che facendo quanto S. Paolo dice con frase scultoria: Exinanivit semétipsum… si annichilì prendendo la figura di schiavo. Nell’umiliazione soltanto, dunque, Dio poteva fare la sua opera più grande… il suo capolavoro. – Il profeta grida, e noi diciamolo con lui: Deus creavit novum!… ma quale novità? Volle portare all’apice la sua grandezza per questo exinanivit  semetipsum! rivelandoci così lo sfolgorìo più abbagliante della sua gloria e maestà! Vestito delle nostre debolezze abitò tra noi, per questo vedemmo la sua gloria di Unigenito del Padre. Mai si conobbe gloria più fulgida perché mai neppure si immaginò umiliazione più profonda. – Non vorrei, fratelli miei, pensaste che io voglia colle mie parole dar pascolo alla vostra mente in una semplice contemplazione, quasi curiosa: per carità scacciate tale idea! Con le mie parole ad altro non miro che a farvi amare l’umiltà, virtù base della vita cristiana, mostrandovi quanto l’ami Iddio stesso: tanto che non potendola Egli, sommo amore e perfezione, trovare in se stesso, la viene a cercare in una natura creata. Sovrana grandezza non può aver in sé l’umiltà: non potendo rinnegare la sua natura deve sempre operare da Dio… sempre infinitamente grande quindi! Ma ecco che la sua natura infinitamente feconda non gli impedisce di ricorrere al prestito: viene a prestito dalla natura umana per arricchirsi delle grandezze dell’umiltà! Queste cerca il Figlio di Dio, per questo si fa uomo, perché in Lui il suo Padre celeste contempli un Dio sottomesso ed obbediente. E che questo sia il suo programma, ce lo dice, fratelli, il sommo suo atto: quello che compie venendo nel mondo colla Incarnazione. – Vorreste, oggi, conoscere quale sia stato questo primo atto, del Verbo, quale il suo primo pensiero il primo movimento della sua volontà? Io rispondo sicuro di non sbagliare: fu un atto di obbedienza. Da chi, dove trovai svelato il segreto il grande mistero?… Oh ve lo dico subito: me lo svela S. Paolo nella sua lettera agli Ebrei al capo X, dove così parla del figlio di Dio che, entrando nel mondo, in quello che disse, svelavaci il suo pensiero. – Disse dunque al suo Padre celeste: « Non volesti, Padre, ostie ed oblazioni, nè ti piacquero (soddisfacevano) gli olocausti per il peccato; quindi a me formasti un corpo; ed allora dissi: andrò io stesso… perché?… per fare o Padre la tua volontà ». – E non ci dicono chiaramente queste parole, che il primo atto del Verbo che scende dal Cielo è un atto di umile obbedienza: « ut faciam, Deus, voluntatem tuam », per obbedirti, o Padre?… Ma noi possiamo andar più avanti nel vedere come Dio ami l’umiltà: Oh sublime atto, atto veramente divino d’obbedienza con cui il Cristo inizia la sua vita!… Sacrificio nuovo di un Dio sottomesso, in quale tempio, su quale altare sarai offerto all’Eterno Padre? Dove vedremo questo strepitoso miracolo d’un Dio umiliato ed obbediente? Saranno, fratelli, le viscere immacolate di Maria, il tempio augusto, sarà il suo seno verginale il fortunato altare su cui il Figlio di Dio, fatto carne, consacrerà al Padre i primi voti di obbedienza. – Ma perché il Verbo incarnato sceglie la Vergine a tempio ed altare del suo sacrificio di umiliazione? È l’umiltà che ve lo induce, perché quel Tempio misterioso è costruito sull’umiltà e dalla umiltà venne consacrato! Ecco che ce lo mostra la Scrittura. Raccogliete nella lettura di questa pagina la vostra attenzione per veder come fu proprio l’umiltà di Maria che diede l’ultimo tocco, atteso dalla divinità, perché il Verbo iniziasse la sua dimora nel mondo. Nel colloquio misterioso, tra la Vergine e l’Arcangelo, che il brano evangelico di questo giorno ci ritrae, osservo che due sole volte Maria parla all’Angelo, ma con quali meravigliose parole, o fratelli! Volle il Signore che in queste frasi, vedessimo brillare due virtù, due virtù capaci di innamorare della loro bellezza lo stesso cuore di Dio: una purezza senz’ombra… una umiltà profondissima. L’Arcangelo dice alla Vergine che concepirà il Figlio dell’Altissimo, il quale sarà Re e Liberatore di Israele! Siamo sinceri: sapremmo immaginare una fanciulla che a tale annunzio si turbi? Un annunzio beato che doveva riempire di speranza di gloria!… una promessa, la più nobile… garantita dalla parola d’un Angelo che parla in nome di Dio: che si poteva non domandare ma neppure immaginare di più grande ed attraente? Eppure, vedetela. Maria si turba… trema esita, e quasi risponde che la cosa non è possibile: « Come avverrà quanto dici? Poiché io non conosco uomo ». È l’amore alla sua purezza verginale che fa tremare Maria, la turba, la rende incerta e quasi le fa rifiutare l’invito divino! Par quasi leggere nella sua mente la discussione: è vero sarà grande gloria il diventare Madre al Figlio di Dio, ma … e della mia verginità che avverrebbe… io non la voglio perdere!… Oh ammirabile purezza, sottoposta alla prova di promesse non d’uomini, ma di promesse e grandi promesse di Dio!… O Verbo del Padre, casto amante delle anime pure, a che tardate? se non v’attira nel mondo questo candore di purezza chi mai potrà attrarvi!? Bisogna attendere ancora: il gran tempio che sarà la sua dimora non ha ancor ricevuto l’ultimo tocco! Infatti l’Angelo risponde a Maria: « Verrà su di te lo Spirito del Signore »: non è dunque ancor sceso. – La prima parola di Maria all’Angelo fu detta dalla sua purità per la sua verginità! Udiamo la seconda: l’Angelo ha parlato ancora e Maria risponde: « Ecce ancilla Domini ». « Sono serva del Signore, si faccia di me secondo quanto mi dici ». La vedete da soli nevvero, senza che ve lo faccia notare io, che è l’umiltà che parla qui, e svela il linguaggio dell’obbedienza? Maria nemmeno si lascia trasportare dalla gioia che pur era tanto santa!… nella sua grandezza trova una sola parola… quella dell’umiltà! – Si spalancano i cieli, torrenti di grazia scendono su Maria, l’onda piena dello Spirito Santificatore l’investe, la penetra tutta…: « Verbum caro factum est — il Verbo si è fatto carne del suo sangue purissimo » l’Altissimo la copre della sua potenza e il Figlio ch’Egli nell’eternità continuamente genera nel suo seno, il solo capace di contenerlo perché immenso… è ora racchiuso nel seno della Vergine Santa. – Come poté avvenire tanto prodigio? Chi poté dilatar le viscere caste della Vergine da farvi trovar dimora all’Immenso? L’umiltà fratelli, fu l’umiltà; essa sola è capace di racchiuder l’immenso! Fu questa virtù, o Maria, che vi fece possedere per prima Colui che si dava al mondo intero, a tutti gli uomini. – Ecco, esclama S. Eusebio, ecco che il Promesso del Signore nei secoli passati, tu prima meriti averlo in te, appena venuto in terra. Eccola, per nove mesi, Tempio del Dio incarnato. È il seno di questa Vergine, che l’umiltà fa dolce e cara dimora al Dio fatto Uomo. Per nove mesi la Vergine possederà e sola il Re e Signore dei secoli, il tesoro immenso speranza dell’umanità tutta. Oh mistero! oh privilegio! — Spes terrarum, Deum sæculorum, comune omnium gaudium peculiari munere sola possides. Tanto è vero che l’umiltà è la sorgente di tutte le grazie ed essa sola è capace di far abitare Dio Gesù tra noi. (S. Eusebio – La Vergine). E allora, o cari, voi con me non potrete meravigliare se Dio ci appare così lontano dagli uomini e se tanto restringe su di essi la sua mano piena di misericordia… l’umiltà è proprio bandita dal mondo! Un uomo veramente umile, lo dissi altre volte e lo ripeto perché fa bene il ripeterlo, un uomo umile modesto è oggi una rarità quasi sconosciuta. Se davvero fossimo noi tutti veramente umili ameremmo tanto follemente gli onori del mondo di cui Gesù non si curò neppure, anzi li disprezzò mentre sono il sogno delle nostre brame!? Non avremmo maggior pazienza in sopportare e non curare le ingiurie dei nostri fratelli? Invece siamo tanto permalosi! Se noi avessimo almeno un poco d’umiltà vera oh non tenteremmo né vorremmo abbassar gli altri per fabbricar sulle loro rovine il trono al nostro Io! Temeremmo fratelli, temeremmo e molto di noi e, né quel luogo, né quella compagnia né quell’incontro in cui la dura nostra esperienza, ci ricorda le nostre cadute, ci potrebbero, non solo portare ma neppure attrarre; invece spavaldi ci buttiamo nell’occasione e nel pericolo come fossimo invulnerabili… impeccabili!… Oh folle cecità… superbia sciagurata!… neppur la visione di un Dio umiliato ti potrà dunque guarire? Oh superbo nulla umano, chi ti abbasserà se non lo può un Dio annientato? Non ha alcuno sopra di sé e si crea un superiore facendosi uomo! – Tu, tu stretto da ogni parte, di sopra e ai piedi serrato dalle catene della schiavitù, tu non sai esser un poco sottomesso! Mi vorrete dire: ma io sono sottomesso, io cedo facilmente, mi adatto di buon animo, e, se occorre, so anche umiliarmi!… No no, fratelli, non è umiltà, è apparenza questa modestia che voi mi esaltate!… Ah io lo vedo bene chiaro… ci sottomettiamo, ma quanto spesso non è l’orgoglio, ed un orgoglio prepotente che ci abbassa!… Ci abbassiamo è vero… ma sotto quelli che sono detti potenti (poveri ciechi) ma perché da loro attendiamo aiuto per dominare gli altri! – Ah bisogna che l’orgoglio abbia sempre profonde radici in queste anime, se non giungono ad umiliarsi che per brama arrogante di potersi subito innalzare!… Superbia nascosta che si svelerà però subito… appena che una piccola onda di favore accarezza questi cuori… e si svelerà in tutta la paurosa sua prepotenza! O cuore umano, più leggero della paglia, che una piccola prosperità inattesa basta a stordire tanto che non riesci neppur più a riconoscerti! Tu non ricordi dunque che vieni dal fango: il fango ti circonda ed un cumulo d’umilianti debolezze vere, torna ed impara dalla Vergine a non lasciarti ubbriacare dal luccichio e dal gaudio d’un piccolo trionfo o d’un inatteso onore. Nella grande, sublime offerta dell’onore di Madre di Dio, Maria non trova via più comoda che d’abbassarsi… Dio innamorato da una profonda umiltà, si umilia Egli stesso e si fa carne nel suo seno. Ma non brilla ancora tutta la sua grandezza! Dio che volle annichilirsi e lo volle in Maria… vuole anche darsi agli uomini… e questo dono di sé all’umanità, lo farà per mezzo di Maria. Ve lo mostrerò nella seconda parte del mio discorso e sarò molto breve.

II° punto.

Signori miei, eccovi una novità non meno sorprendente della prima! Siete rimasti sorpresi nel vedere un Re fatto suddito, ma credo rimarrete attoniti quando lo vedrete, anche Sovrano, unico, incomparabile, far alleanza e abitare tra gli uomini. « Il Verbo si è fatto carne ed abitò fra di noi ». A ben comprendere il nuovo mistero, tentiamo formare nella nostra mente un’idea quanto più esatta di un Dio Uno d’una perfetta unità! Unità perfetta che necessariamente lo fa infinito incomunicabile… unico in ogni sua opera. Egli solo: il Sapiente, il Felice? Egli solo il Re dei re, Signore dei dominatori, unico nella sua maestà da un trono inaccessibile domina colla sua infinita potenza. Noi non abbiamo neppur parole capaci non di parlarne ma neppure di esprimerla degnamente, questa misteriosa unità. Ecco però che Tertulliano ha parole, che mi pare, ci diano una idea, grande quanto può capirla la mente umana: Tertulliano chiama Dio — il grande Sovrano: — Summum magnum — il Sommo grande, più esattamente, Sovrano sommo, dice, in quanto sovra sta a tutti ed a tutto — Summum Victoria sua constat — Non potendo quindi sopportare alcuna eguaglianza, quanto potrebbe tentarlo rimane tanto sotto di lui, e tanto basso che attorno a lui rimane una solitudine in cui sola è la sua Eccellenza. Sono parole dure, quasi strane: ma questo genio avvezzo alle espressioni scultorie, pare vada cercando parole nuove per parlare di una grandezza senza esempio. Nulla di più maestosamente augusto di questa solitudine. – Per me, quando ci penso, mi immagino questa maestà infinita concentrata in se stessa nascosta nei suoi stessi splendori, separata da tutte le cose, perché al di là di tutte si estende: in nulla simile alla grandezza umana in cui c’è sempre debolezza, e che se da un lato s’innalza, dall’altro si sprofonda; maestà che dovunque la si contempli dovunque la si trova egualmente forte, egualmente inaccessibile! Chi allora non spalancherà strabiliati gli occhi vedendo questo Unico incomparabile lasciar la sua maestosa solitudine per aver dei compagni?… e, sta qui la strabiliante novità, quali compagni? Gli uomini, gli uomini peccatori! Non angelos apprehendit… non agli Angeli volse il suo sguardo, che pur erano più vicini alla sua solitudine. Venne, dice la Scrittura, a passi di gigante valicando i monti cioè passando sopra i cori celesti degli spiriti, e cercò la povera natura umana, che per la sua mortalità era relegata molto in basso, anzi all’ultimo grado degli esseri intelligenti dell’universo e che alla ineguaglianza di natura aveva aggiunto, insormontabile ostacolo, la colpa! La cercò e l’unì a sé anima e corpo, prendendo carne umana, una carne simile alla nostra povera carne condannata a morte. Oh misericordia infinita, o bontà di un Dio che si fa uomo per farci stringere alleanza con Lui, e trattò noi da eguali, perché da eguali trattassimo con Lui! esclama Tertulliano contro l’eretico Marcione : Ex æquo agebat Deus cum hominibus, ut homo agere ex æquo cum Deo posset ».Chi mai intese tale prodigio?… qual popolo o nazione della terra ebbe dei che tanto fossero vicini come a noi s’avvicina il nostro Iddio?Questo gesto di infinita misericordia, dovrebbe più a lungo essere oggetto della nostra meditazione: ma il mistero di questo giorno mi fa volgere la mente alla Vergine beata. Un Dio si è dato a noi: felicità grande per la povera natura nostra! Ma qual gloria per la Vergine santa perché per mezzo suo Egli si dona all’umanità! Per Maria Egli entra nel mondo e per Maria stringe con noi questa fortunata alleanza: non gli basta l’averla scelta al grande ministero, ma le manda, apportatore della sua parola, un Angelo tra i più belli, quasi per chiedere il suo consenso.Quale mistero è mai questo o Cristiani? Tentiamo penetrarne il segreto leggendo nel piano dei disegni di Dio, come Dio a noi lo svela. Dalla Scrittura e dall’intero consenso della cristianità di tutti i tempi, io imparo che nel mistero adorabile della redenzione della nostra natura caduta, Dio aveva fissato che alla nostra salvezza dovesse servire tutto ciò che aveva servito alla nostra rovina. Non cercatemene le ragioni, che dovrei dilungarmi troppo spiegandovele; accontentiamoci di ascoltarle tutte in una sola parola: In una misericordiosa emulazione Dio venne a lotta e volle distruggere il nostro nemico, volgendo verso di lui i suoi piani di guerra, sconfiggendolo, a così dire, con le stesse sue armi. Ecco che la fede ci insegna che un uomo ci perde ed un uomo ci salva! La morte regna nella discendenza d’Adamo, ma da questa stessa discendenza sgorga la vita, e la morte, castigo della colpa, ne sarà la riparazione: un albero ci uccide ed un albero ci risuscita. L’Eucaristia sarà cibo di vita, come un cibo avvelenato lo fu di morte. Davanti a questo piano meraviglioso della Provvidenza divina per la nostra salvezza conchiuderemo che i due sessi della creatura umana come operarono la morte devono anche concorrere alla sua salvezza. – Nel suo libro « Della Carne di Cristo » Tertulliano già insegnava ciò fin dai primi secoli della Chiesa, e parlando della Vergine diceva che lo stesso sesso che aveva portato la rovina, era giusto che portasse agli uomini la salute: « ut quod per eius modi sexum abierat in perditionem per eundem sexum redigeretur ad salutem ». Prima di lui lo disse S. Ireneo martire, e dopo lo ripete S. Agostino, e tutti i Padri insegnarono nei secoli che vennero, questa dottrina dalla quale io tiro questa conseguenza: Dio doveva predestinare un’Eva novella come un Adamo nuovo per dare alla terra, al posto dell’antica stirpe condannata, una nuova discendenza santificata dalla grazia. – Se meditiamo i segreti consigli della divina Provvidenza nel mistero della redenzione umana vediamo nella festa d’oggi un esatto parallelo: Eva e Maria, parallelo che ci persuade della forza di questa dottrina dei Padri tanto santa quanto antica. L’opera di morte è cominciata per Eva, quella della risurrezione per Maria: Eva disse la parola di morte, Maria il fiat che ci ridà la vita: Eva vergine ha il suo sposo, e lo ha pure Maria la Vergine delle Vergini: per Eva vi fu la maledizione. Maria fu benedetta: « Benedicta tu inter mulieres ». L’angelo delle tenebre parla ad Eva, ed un Angelo della luce parla a Maria: quello inganna Eva mostrandole la via di una falsa grandezza – « sarete come dei — eritis sicut Dii » le diceva; mentre Gabriele conferma a Maria la sua sublime grandezza e le dice: « Dominus tecum — Dio è con te » L’angelo tentatore eccita Eva alla ribellione « ma perché Dio ti proibì il mangiare un frutto così bello? » . L’Angelo della luce quasi induce Maria all’obbedienza: « Non temere, Maria, a Dio nulla è impossibile! » – Eva crede al serpente, Maria all’Angelo, cosicché, dice Tertulliano, una pia fede cancella il delitto, una temeraria credulità: Maria, credendo, ripara il delitto che Eva aveva compiuto credendo: « quod illa credendo deliquit, hæc credendo delevit ». – Infine per completare il quadro: Eva sedotta dal demonio fugge dalla faccia del Signore, Maria istruita dall’Angelo è fatta degna di portare il Cristo: Eva all’uomo presentò il frutto di morte, Maria offre il frutto delle sue viscere, frutto di vita… Perché, dice qui il Martire Ireneo, Maria Vergine fosse l’avvocata di Eva vergine peccatrice. Questo parallelo, o fratelli, non è frutto di mente umana, e non ci è lecito dubitare che Maria non sia l’Eva fortunata del nuovo patto, la Madre del popolo nuovo avendo essa lavorato alla nostra salute come alla nostra rovina lavorò la prima madre Eva. Essendo Madre del Salvatore, come Eva era stata la madre di tutti i condannati: Maria divenne la madre dei viventi, perché Madre del primogenito dei viventi; Eva lo fu di tutti i morituri! Iddio stesso vuol persuaderci questa verità nell’ordine meraviglioso dei suoi consigli, e nell’economia meravigliosa dei suoi disegni, nell’evidente convenienza di quanto abbiamo esposto, e nel collegamento necessario che esiste nei misteri della riparazione umana. – I poveri nostri fratelli, che si sono staccati dalla madre comune la Chiesa, non possono sopportare la nostra devozione alla Vergine: non vorrebbero che la credessimo, dopo il Cristo, la cooperatrice principale della nostra salute. Ma tentino, se ci riescono, di distruggere gli innegabili rapporti che collegano tra loro i misteri divini: ci dicano per qual ragione Dio manda un Angelo alla Vergine! Non poteva Iddio compiere la sua opera anche senza il suo consenso?… Non appare più chiaro del giorno che il Padre Eterno, abbia voluto espressamente ch’Ella cooperasse alla Incarnazione del suo Verbo, con la sua obbedienza e carità? E allora: se questo affetto materno tanto fece per la nostra felicità nella Incarnazione, sarà diventato sterile ed inerte dopo, e non vorrà più nulla fare a nostro bene? Ah fratelli, io penso che non lo si possa non solo non affermare ma neppure immaginare! Ora se noi aspettiamo l’aiuto suo, che venga in nostra difesa e soccorso, quale delitto commettiamo domandandolo?… Ah è questa dunque la causa per cui, voi fratelli, tanto cari, spezzaste l’unità della fede, rifiutaste quella comunione nella quale e per la quale i padri nostri morirono beati nel bacio del Signor Nostro Gesù Cristo? Ma forse nessuno di loro c’è ad ascoltarmi… – Ed io non posso più dominarmi… i palpiti del mio cuore sono violenti… il mio cuore diventa padrone della mia lingua e vuol gridare con l’intera Chiesa Cattolica apostolica romana: O santa Vergine, o cara Maria, o Madre, noi miseri figli d’Eva, poveri reietti gridiamo gementi a te: « Ad te clamamus exules filii Evæ gementes ». Ma a chi potremmo ricorrere, noi figli schiavi di Eva l’esiliata se non alla Madre dei liberi? E se è questa la dottrina dei Padri tutti, se tale è la fede dei Martiri… che voi siete l’avvocata di Eva… rifiutereste la difesa, la tutela dei suoi figli che nascon nei secoli?… Ah, se qualche altra Eva, ci presenta il frutto avvelenato che ci ammazza… accorrete o Maria… dateci colle vostre mani benedette il frutto del vostro seno… che ci doni la vita eterna! « Et Jesum benedictum fructum ventris tui nobis ostende! » Oh meraviglia, oh prodigio dei segreti divini… oh mirabile armonia della nostra fede… il mistero si spezza: Cristo a noi è dato dalle mani e nelle mani di Maria… lo dà a noi perché noi siamo a Lui fratelli, a lei figli… Oh che la nostra vita sia la vita dei fratelli di Gesù, dei figli della Vergine sua Madre: perché il Cristo venne: « Ut homo divine agere doceretur » perché l’uomo imparasse a vivere ed operare l’opere di Dio.

IL CREDO

Offertorium

Luc 1:28 et 42
Ave, Maria, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

[Ave, María, piena di grazia: il Signore è con te: benedícta tu tra le donne, e benedetto il frutto del tuo ventre].

Secreta

In méntibus nostris, quǽsumus, Dómine, veræ fídei sacraménta confírma: ut, qui concéptum de Vírgine Deum verum et hóminem confitémur; per ejus salutíferæ resurrectiónis poténtiam, ad ætérnam mereámur perveníre lætítiam.

[Conferma nelle nostre menti, o Signore, Te ne preghiamo, i misteri della vera fede: affinché noi, che professiamo vero Dio e uomo quegli che fu concepito dalla Vergine, mediante la sua salvifica resurrezione, possiamo pervenire all’eterna felicità.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admitti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Is 7:14
Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium: et vocábitur nomen ejus Emmánuel.

[Ecco, una vergine concepirà e partorirà un figlio: al quale si darà il nome di Emmanuel]

Postcommunio

Orémus.
Grátiam tuam, quǽsumus, Dómine, méntibus nostris infúnde: ut, qui. Angelo nuntiánte, Christi Fílii tui incarnatiónem cognóvimus; per passiónem ejus et crucem, ad resurrectiónis glóriam perducámur.

[La tua grazia, Te ne preghiamo, o Signore, infondi nelle nostre anime: affinché, conoscendo per l’annuncio dell’Angelo, l’incarnazione del Cristo Tuo Figlio, per mezzo della sua passione e Croce giungiamo alla gloria della resurrezione.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA



QUARESIMALE (XXVII)

QUARESIMALE (XXVII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA VENTESIMASETTIMA
Nella feria sesta della Domenica quarta.


Le tribolazioni sono segni dell’Amore Divino; ci riducono a
Lui e ci danno l’eterna salute.


Domine ecce quem amas infirmatur. San Gio: cap. 11.

Chi professa d’esser seguace del Vangelo, non solo riverentemente deve baciare la mano liberale di Dio, quando piena di benedizioni tutte le sparge a nostro pro; ma ancora, quando armata di flagelli, si fà vedere fulminatrice a’ nostri danni. E chi v’è tra voi uditori che non sappia tutto operarsi da Dio a nostro benefizio, e che le tribolazioni che Egli ci manda, sono finissime dimostrazioni del suo amore.  Stolto, dunque, dicasi colui che detesta i colpi della mano divina, che con mostrarli in apparenza crudele, è in fatti ministra d’ogni nostro bene. Facciano coloro che senza considerare l’utilità grandi, che alla giornata ci apportano le tribolazioni, usano talvolta, anche con bocca sacrilega, lamentarsi di Dio invece di rendergli umilissime grazie, certi che quella destra che li percuote, sol li tormenta per renderli più degni del Paradiso. Ben l’intese questa verità nelle Spagne Teresa Vergine sposa di Cristo, mentre di continuo esclamava … aut mori, aut pati. Signore, diceva ella, o moltiplicate le pene, o troncate la vita, così parlava Santa Teresa. Con questo suo parlare pretendo far capire a’ miei uditori questa verità. Le tribolazioni esser segni dell’Amore divino, queste ridurci a Lui, e darci l’eterna salute. – Prima di dar principio, stabiliamo punti di Fede: sia il primo non v’esser caso, non v’esser fortuna in questo mondo, e questo caso, e questa fortuna, che va per bocca degl’uomini non avere altro essere, che nell’opinione de’ stolti. Iddio solo esser quello che manda, opera, e permette il tutto. Secondo: che Dio nel travagliarci ha comunemente la mira a purgarci da’ vizi, e promuoverci alla virtù, a guisa di un orefice, che nel porre l’oro nel fuoco nulla più pretende, che purgarlo dalla terra, e farlo crescere di splendore, e di stima. Poste queste verità infallibili, dico assolutamente non essere paradosso, no, che le tribolazioni siano segni dell’Amore Divino. Date d’orecchio a David, che parla e con voi discorre, o tribulati, egli si protesta, che sino dalla gioventù imparò sì bella lezione; le tribolazioni esser segni dell’Amore di Dio, mentre lo cavarono dalle miserie del peccato: Deus docuisti me a juventute mea, quantas ostendisti mihi tribulationes multas malas; quasi dir volesse, ecco che appena nato mi convenne strozzar orsi, e sbranar leoni, fatto giovine mi portai a cimento con i giganti; passato che io fui dalla capanna al soglio reale, ebbi trentasette anni di guerra con i Filistei, tollerai le congiure d’un figlio e le maldicenze e le percosse d’un Semei; quantas tribulationes multas, malas; ma il termine di questi travagli mostrò l’Amor di Dio verso di lui mentre egli stesso stesso esclama: Et conversus vivicaste me, o de abyssis terræ, iterum reduxisti me. Sì, sì, le tribolazioni furono a David veri pegni dell’Amor divino. Le tribolazioni lo saranno a voi. Taci, dunque, o tribulato, prendi dalla mano amorosa di Dio le afflizioni, se ti manca roba, se perdi la sanità, quantunque fossi oppresso da turbini di disgrazie,  la tua bocca non esali sospiri di risentimento; ma impara tutto operarsi da Dio per l’amor che ci porta. Confermi le parole di David il Santo Giob, e voi frattanto uditori riflettete che sull’altezza del trono, siedono talora col monarca i precipizi reali. Nacque egli tra le grandezze, fu allevato tra le adorazioni, ebbe tributo da tutte le felicità, ed ora eccolo non più principe nel soglio, ma, mendico nel mondezzaro, si vede ridotto ad estreme miserie; i palazzi son diroccati da’ fulmini, i figli sepolti tra le rovine, i sudditi fono diventati nemici ed egli da capo a piedi si rimira coperto da piaghe verminose, e pure se darete orecchio alle sue voci proferite tra tante calamità, le sentirete espresse su queste parole: Hæc mihi consolatio, ut affligens me, dolori non parcas. Vermi, diceva egli, figli delle mie postemme, rodete pure le mie carni, succhiate il mio sangue tanto io bramo da voi, hæc mihi consolatio: tanto diceva un innocente, un santo, benché si vedesse così piagato, così travagliato perché tutto riconosceva per finezza dell’Amor divino. E voi peccatori macchiati d’ogni vizio non volete riconoscere le tribolazioni per segno dell’amor di Dio! Ben l’intese Maurizio, il quale tolto dal trono, e portato, sul palco, mostrò di ricevere le tribolazioni per pegni dell’Amor divino, rifletté egli, esser asceso da bassa condizione all’altezza del soglio imperiale, e dubitando, per i suoi peccati, che una felicità temporale, gli poteva togliere l’eterna, presa la penna in mano, scrisse un’umilissima fupplica a quanti vivevano religiosi nella Grecia, nella Palestina, nell’Egitto, pregandoli che da Dio gli ottenessero, qualche certo contrassegno di salute. Piacque alla Maestà Divina la preghiera, e per mezzo de’ suoi servi gli fece rispondere: Te, totamque familiam tuam Deus collocat inter electos. Che egli, con tutti di sua casa si sarebbero falvati. Or sentitene di grazia segni di salute, e poi dubitate, se potete, non amarvi Iddio quando vi tribola. Ecco, che per accertar Maurizio d’eterna felicità, si turba a’ suoi danni il Cielo, ode da chiunque ha dono di profezia, minacce orribili; vede uno de’ monaci più modesti portarsi con ferro nudo alla mano in ogni contrada della città, annunziando stragi all’Imperial casa, si sente Maurizio ne’ sogni stessi citato per reo, indi a non molto si vede dal popolo tumultuante tolta di testa l’imperial corona, di dosso l’ammanto reale, e di mano lo scettro regio, ed innalzarsi su’ propri occhi, Foca all’imperio; per ordine di cui, carico Maurizio di catene vien condotto al palco, per assistere, testimonio infelice, alla barbara uccisione di cinque suoi cari figli; assiste ma senza turbarsi; giacché nell’odio di Foca riconosceva mascherato il Divino Amore, e con cuore magnanimo, finché la spada non gli tolse la testa, altro non diceva, che quel di David Justus es Domine, et rectum judicium tuum. Non vorrei già, che tra miei uditori si trovasse chi pietoso compatisse la calamità di questo principe, quasi che troppo travagliato da Dio; poiché mostrerebbe di non conoscere i certi pegni dell’Amor divino. Poveri noi, se rei di gravi peccati, saremo privi di tribolazioni. Noi felici, se a guisa di Maurizio interpreteremo per il meglio le sventure di questo mondo. Intellige, dirò io con Sant’Agostino a chi m’ascolta, medicum esse Deum et tribulationem medicamentum esse ad salutem, non pœnam ad damnationem. Intendetelao Cristiani! Cristo è medico amoroso, e l’amare medicine che ci porge per mezzo delle tribolazioni, son segni certi del suo amore. Contentatevi a questo proposito d’udire un bel fatto accaduto a Crisippo gran filosofo. Vide egli un giorno Ciro re di Persia, il quale de’ due figli che aveva, sol si mostrava crudele verso quello che viveva con tutta bontà ed obbedienza, e pur questo gridava, questo batteva, dove l’altro disobbediente e ritroso, mai era punito. Quando un giorno nuovamente vedutolo sotto la sferza paterna, gli si fece avanti con libertà filosofica, gli tolse la sferza di mano, gli disse: io non l’intendo, voi percuotete il buono, e non castigate il cattivo. Allora Ciro rivolto al filosofo gli disse: or l’intenderai! Sappi che, quem impunitum relinquo nihil est possessurus, quem vero percutio Regni futurus est hæres.  Questo figlio che punisco, questo è l’erede del regno, lo batto per farlo più degno dell’imperial corona. Cari uditori, se saremo tribolati, saremo figli eletti per il Paradiso. Gaude sub flagellis, dice Sant’Agostino, flagellat enim, ut ad bæreditatem erudiat. – Ricordatevi finalmente delle belle parole di Tobia all’Angelo, quia acceptus. eras Deo, necesse fuit ut tentatio probaret te: Non si può, no, esser caro a Dio senza travagli e croci, questi sono i certi segni del suo amore. Né solo son segni dell’Amore divino, ma ci conducono a Lui. Ricordatevi un poco di quei discepoli montati insieme con Cristo nella nave, e sovvengavi che fintanto che l’acque furono tranquille, placido il mare, quieti i venti, mostravano i discepoli di curarsi poco del Maestro che lo lasciarono solitario dormire sopra una sponda; ma quando poi il mare cominciò a turbarsi, motus magnus factus est in mari, quando in un subito gonfiare l’onde s’offuscò il cielo, si scatenarono i venti, e scaricarono le nubi con pioggia talmente dirotta che già temevano di sommergersi, tutti allora ricorsero a Cristo, gli si affollarono d’intorno, e gridavano piangenti: Domine salva nos perimus. Così segue di noi, dice Sant’Agostino, si cessaret Deus et non misceret amaritudines oblivisceremur eum. Se fossimo sempre in calma ed Iddio non ci travagliasse, non si ricorderemmo di Lui. Ah che certamente mai, mai, il figliuol prodigo darebbe ritornato dal padre se egli non si fosse veduto vicino a morir di fame. Allora disse: ibo ad patrem. Così fate voi, andate da Dio, ricorrete alle orazioni, fate limosine, digiuni, pellegrinaggi. Quando? quando dalla sua santa mano siete percossi. Sant’Antonino Arcivescovo di Firenze narra un caso degno, successo a lui medesimo. Racconta dunque, come passando un dì per una strada, gli vennero alzati gli occhi, e vide sopra il tetto d’una povera casa, un coro d’Angeli, che vi stavano con segni di gran giubilo; stupito il Santo volle indagarne la causa: batte all’uscio, gli fu aperto, entrò, salì la misera scala, e giunto ad una piccola stanza, vide una povera madre con due figlie nubili, le quali attente al lavoro procuravano di sollevare la propria miseria con il ristoro di poco pane e di poca acqua. Vi trovò una somma pace, e contentezza, onde mosso a compassione il Santo, gli lasciò una larga limosina, assicurandole che per l’innanzi non sarebbero vissute in tanta miseria ed a tal effetto gli assegnò una certa risposta delle rendite ecclesiastiche: A mala pena entrò questa piccola fortuna in quella casuccia che subito non solo le figlie ma la madre ritirata dal lavoro, principiarono ad ornarsi, a trattenersi alle finestre, ad amoreggiare. Quando ritornato il Santo Arcivescovo per quella strada, vide non più il coro d’Angeli, ma di demoni; attonito a tal aspetto entrò in casa e non vi trovò più né quel ritiro, né quella modestia di prima; sì eh, disse non sia il vero mai, che le entrate ecclesiastiche debbano servire a sollievo de’ demoni; gli levò tutto, tornarono alla povertà di prima, e tornate alla primiera povertà, tornò la stessa devozione a Dio. Non accade altro, le tribolazioni ci riducono a Dio. Così è, così è, bonum mihi, dite pure col santo David, quia humiliasti me. Fortunati noi se saremo tribolati, avremo l’amore di Dio, le tribolazioni ci condurranno a Lui, e ci daranno eterna salute. Ditemi. Per qual causa son a voi sì cari i signori medici? Non per altro, se non perché ne’ nostri mali sono il mezzo di nostra salute. Ma avvertite vi amareggeranno il palato con l’Aloe, v’altereranno lo stomaco con amarissime pillole, vi metteranno in rivolta tutti gli umori con antimonio. Non m’importa, tutto deve conferir salute, e perciò, tutto si abbracci. Perché sono a voi sì cari i cerusici? Perché all’occorrenze o di febbri o di cancrene o di posteme ci guariscano. Ma piano… Voi non considerate quei tanti ferri, che portano seco; con essi vi segheranno le vene, vi staccheranno la carne viva dall’osso, gli ossi stessi ve li segheranno per levarvegli dalla vita. Non importa, voi mi rispondete, e voi ancora alla occorrenza direste loro ciò che Teodorico al suo Medico, se voi, al par di lui stringeste scettro. Udite di grazia con quali belle parole dichiarò questo monarca, suo primo medico un uomo intelligentissimo nella professione. Tu solo, dissegli, fra tanti vassalli che mi obbediscono potrai con lodi, e con mercedi opporti alle mie brame, tormentar le mie voglie, e mortificarmi in ogni parte del mio corpo. S’abbraccino dunque le tribolazioni, non si ributtino, ma si stringano al seno, merceché son segni dell’Amor divino, che ci riducono a Lui e che ci danno vita eterna. Delicati mei ambulaverunt vias asperas. È vero son grandi i travagli, ma questi ci conducono al Cielo. Se vi volle giungere una Liduina, bisogno’ che si contentasse di giacere pazientemente per trent’otto anni in un povero letticciuolo afflitta da paralisi, da convulsioni, da cancrene, a tal segno che era venuta una viva immagine della morte. Ambulavit vias asperas. Se vi volle giungere un Britio convennegli tollerare pazientemente di essere a guisa d’un infame deposto dalla dignità episcopale, per una falsa calunnia … ambulavit vias asperas. Se vi volle giungere una Godolena, le convenne pure tollerare pazientemente di esser come schiava strapazzata con modi orribili dal bestial suo marito. Eh via … delicati mei ambulaverunt vias asperas. Bell’impresa di nobil ingegno fu quella che mostrava un animaluccio, detto Pirale, entro le fiamme d’una fornace, ove esso viveva, prodotto col motto Moriar si evasero; non ha questo insetto altra vita, che quella che gli viene somministrata dalle fiamme del fuoco, da cui, se esce, è certo di morire, come pesce fuori dell’acqua. Somiglianti a questo animale sono gli uomini, i quali se non si trattengono nelle fiamme della tribolazione non vivono vita di grazia, e non conseguono Gloria di Paradiso ma stanno in pericolo di morire, perché privi di quel pane di vita della tribolazione, che li conserva; Moriar, dunque, dica ognuno a se stesso … moriar si evasero. Se io non sarò travagliato, se non avrò persecuzioni, se vivrò vita troppo felice in questo mondo. Ah, che dubito di non morire eternamente. Dica altresì ciascuno: Vivam si sustinuero, se tollererò le fiamme di questo fuoco delle tribolazioni, certo il Paradiso sarà mio, Vivam si sustinuero. Questa è la strada regia e battuta, la quale addirittura conduce alla gloria. Per multas tribulationes oportet intrare in Regnum Dei. Se si compra il Regno de’ Cieli, i patimenti sono il prezzo; se s’ottiene per amicizia, non sono amici se non quelli che patiscono; tutti i predestinati, dice Ezechiele, portano la Croce segnata in fronte; tutti gli eletti del popolo di Dio, dice Mosè, passano per il Mar Rosso delle tribolazioni; tutti gli innocenti, dice Paolo Apostolo, sono soggetti alla continua persecuzione. Quoniam ad requiem, è ragione di Sant’Ambrogio, non ni si per laborem et ad gaudia, non ni si per tristitiam pervenitur. Non troverete, no, che s’arrivi al Cielo, senza fatiche. Non vi sia per tanto tra’ miei uditori, chi di buona voglia non abbracci le tribolazioni; servaci dunque, dirò io con Pier Damiano, per modello del nostro vivere la bella natura dell’incenso; questo voi sapete bene, che non tramanda odore, quando, grondi dal suo ceppo felice, colà nell’Arabia, o pure si conservi in vasi d’oro. Allora solo riempie di non ordinaria fragranza, e Chiese, e case, salendo fino all’Empireo, come in trionfo, quando tormentato dal fuoco, e da esso totalmente disfatto; questa è l’idea che la Maestà divina ha formata per chi vuole l’eternità: non solo non dobbiamo sfuggire ciò, che ci attrista, ma dobbiamo andarci incontro. Ecco le parole del Santo: Sicuti aromata fragrantiam suam non ni si cum incenduntur expandunt, ita et sancti viri. Ogni qualunque volta c’imbatteremo in spine di triboli, benché acutissime, la nostra mano prontamente le colga, se le rivolti al petto, se le conficchi in cuore, benedicendo Dio, che con segni di tanto amore ci tiri a sé, e ci dia caparra del Paradiso, ho finito. Miei Uditori, tra le tribolazioni vi vorrei simili alla conchiglia: questa al riferire di Plinio, nulla patisce ancorché il mare sia agitatissimo dalle tempeste: Possono bene le balene ed ogn’altro pesce versar sopra d’esse fiumi di spume, ma non per questo la conchiglia si turba. Fate, che l’Oceano fino dal profondo si sconvolga, ella però niente si agita; ma se l’aria si rannuvola, e se anche leggermente lampeggia e tuona il cielo, la conchiglia si sconcia, e la perla s’impallidisce. Voi siete in questo mondo e, con essere in questo mondo, siete in un mare, agitati da mille travagli, non vi turbate punto quantunque questi crescano a dismisura, riceveteli con cuore allegro, e volto sereno, già che sono segni dell’Amore divino, ci tirano a Lui, e ci servono di caparra al Paradiso. Allora solo turbatevi, quando sapete d’aver la coscienza macchiata da peccato mortale, perché allora con fondamento potrete temere, che se non vi emenderete con sollecita Confessione, i travagli presenti di questo mondo siano per essere principio de’ futuri nell’altro … che Dio non voglia.

LIMOSINA
La maggiore delle miserie che tema un uomo, il maggiore de’ travagli, è la paura d’impoverire, e questa è la cagione, perché molti si ritirano dal far limosine. Non abbiate paura d’impoverire per sovvenire ai poveri. Non abbiate paura, che per questo capo vi venga danno, anzi starete male se non farete limosine; l’aver molto è causa ben spesso del nostro male. Prosperitas multorum perdet illos, dice lo Spirito Santo a guisa di quelle madri che dando a balia i loro figliolini infettano talora se medesime con quella copia di latte che sì utilmente potevano deviare in sostentamento de’ propri parti. Fate dunque limosina abbondante.

SECONDA PARTE.

Quando a voi per motivo di sollievo a’ vostri travagli, e per tollerare pazientemente non bastasse il sapere che sono segni dell’Amor di Dio, che ei tirano a Lui, e ci dà caparra di salute; v’addurrei un altro motivo, il quale, benché basso e vile, ad ogni modo per taluno, sarà efficace. Voi che vi protestate d’esser tanto travagliati, non guardate a chi gode maggiori facoltà, a chi vive con maggior splendore, a chi sta bene di salute, ma voltate gl’occhi indietro, che troverete che tanti e tanti da più di voi per la nascita, da più di voi per la grazia di Dio, che conservano nel loro cuore, stanno peggio di voi. E voi, che state ne’ peccati e che vi continuate, vi lamentate; mi meraviglio di voi! Entrate un poco nelle carceri, e vedrete di quei che vi marciscono anche innocenti, che non vedono mai raggio di luce, privi d’ogni conversazione, e ciò che più li fa inorridire, è che dopo questi tuoni, temono che loro cada in capo il fulmine di sentenza a morte. Entrate un poco negli ospedali, e mirate tanti languenti, quali abbruciati nelle viscere da rabbiose febbri, quali spasimanti per dolori acutissimi; quante bocche vedrete aperte da ferite mortali, che domandano pietà, e quanto volentieri cambierebbero il loro male con voi, che vi dichiarate i più infelici del mondo. Tacete, tacete; Padre? E che volete? Voi siete nobile, comodo, non avete di che lamentarvi. Non voglio sentire le vostre querele. O Padre v’ingannate, sono disgraziatissima, tribolatissima. E perché? Perché non ho la gioia, non ho la veste così sfoggiata, non posso mantenere tanta servitù … Eh tacete, son querele sciocche, e se tutto aveste, tutto servirebbe per ribellarvi a Dio. Alle tribolazioni, uditori miei, vogliamo o no, bisogna starci soggetti. Per tanto io devo avvertirvi, che uno de’ maggiori errori che si commetta da’ tribolati è, che nel tempo delle tribolazioni si lascia Dio, quando più che mai converrebbe cercarlo. O quanto sono mai pusillanimi alcuni, i quali appena tocchi da leggier colpo di fortuna lasciano di frequentare i Sacramenti, trascurano le Orazioni, né più esercitano opera alcuna di pietà cristiana. Se la tempesta deserta il podere, se la vigna un anno non frutta, se il campo non rende, se il negozio va male, subito si sospende la celebrazione di quella Messa, quella limosina, quell’opera buona, che soleva farsi. Ah sciocchi, ah stolti, voi lasciate di ricorrere a Dio, allorché siete più bisognosi del suo aiuto? Questo è l’inganno del diavolo, anzi quanto maggiori sono i travagli, tanto più frequenti devono essere l’opere pie, se volete che cessino i travagli; e poi perché quando i ricolti, o qualche altro accidente rende più scarsa di danaro la vostra casa, subito si mette l’occhio a risecar l’opera pia. E perché più tosto non si dice così: le entrate questo anno non ocorrispondono, dunque meno spesa ne’ teatri, nelle vanità, ne’ giuochi, negli ornamenti; o donne meno spesa in tante cose superflue, nelle quali trovate da buttar tanti danari quanti mai volete. Di più; quando l’entrate sono scarse, volete risecar l’opere pie, e quando sono abbondanti, volete raddoppiare i lussi, ma non il bene. Aprite gl’occhi o miei uditori, all’inganno del diavolo, non cessate dal far bene per qualsisia tribolazione che avvenga alle vostre case, anzi accrescetelo… Che sarebbe però, se quivi fosse taluno, il quale invece di ringraziare il Signore delle tribolazioni che gli manda per sua salute, bestemmiasse sacrilego la sua sorte, e mordesse per così dire quelle mammelle che gli danno nutrimento. Sarebbe costui vero fratello dell’empio Re Acaz, il quale, come un rospo velenoso accrebbe veleno sotto le sassate. Che farà Iddio di quest’anime indegne, che lo maltrattano perché sono tribolate: le getterà da sé come inutili al disegno che aveva d’inserirle in Cielo … Argentum reprobum, dice Geremia, vocate eos quia Dominus projecit illos· Tremiamo, miei uditori, a minaccia sì spaventosa: guai a chi diventa peggiore per le tribolazioni, che Dio gl’invia, io per me credo, che questi tali picchino alle porte dell’inferno per esser ammessi in compagnia di coloro, i quali flagellati da Dio, come dice San Giovanni, si rivoltarono alle bestemmie, e non alla penitenza, Blasphemaverunt Deum Cœli præ doloribus, non egerunt pœnitentiam. Deh per l’amore che portate all’anime vostre imparate a conoscere nelle avversità non solo l’Amor divino, ma le vostre scelleratezze, e ricordatevi, che quando peccaste faceste un debito con Dio. E se lo faceste, perché dunque dolervi, che Dio voglia esser pagato. Prendete per tanto tutto dalla mano divina, e dite con cuor contrito: … iram Domini portabo quoniam peccavi ei. Sentite, è aforismo de’ signori medici, che quæ solent prodesse et non profunt malum, un pessimo segno è, che quei medicamenti che sogliono giovare non giovino: voi siete infermi, siete alterati da tanta malignità, quanti ne racchiudono in se tanti peccati mortali, che avete commessi e con ragione potete dire, sana me Domine, quoniam infirmus sum. Orsù ecco, che Dio, Celeste Medico adopra le tribolazioni, che sono i rimedi delle vostre infermità; ma avvertite, che se queste non vi giovano per farvi tornar a Dio. Malum, malum; pessimo segno, e posso dubitare, che per voi non vi sia più speranza di salute. Date mente voi, che non prendete le tribolazioni con pace per sconto de’ vostri peccati, date mente, è Dio che parla per Geremia, percussi te, castigavi te, t’ho battuto, t’ho flagellato con le tribolazioni ma tu, invece di ravvederti ti sei indurato nel peccato, dura facta sunt peccata tua. Orsù senti, sai che ne seguirà? O Dio, tremate ed inorridite, non vi è salute per te, sarai dannato, insanabilis dolor tuus , etc

QUARESIMALE (XXVIII)

QUARESIMALE (XXVI)

QUARESIMALE (XXVI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMASESTA
Nella feria quinta della Domenica quarta
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Il vero consiglio per bene operare si prenda dalla morte.


Ecce defunctus efferebatur filius unicus matris suæ.
San Luc. cap. 9.


È legge universale convien morire: Statutum est hominibus semel mori. Le porpore delle grandezze non hanno esenzione da questa tignola, gl’allori della sapienza non hanno difesa da questo fulmine; i cedri della santità non sono imbalsamati da questa incorruzione; muore la somma ognun che nasce. Se così è, che faremo per far ben questo passo, da cui dipende l’eternità? Il mio parere sarebbe, giacché l’odierno Vangelo nel figlio estinto della vedova madre ci ricorda la morte, che nulla operassimo per bene operare senza il consiglio della morte. Tal sarà l’argomento mio, e comincio. Quel gran Padre de’ monaci San Basilio, altro ricordo non dava a’ suoi discepoli perché resistessero alle tentazioni, salvo che pensassero e si consigliassero con la morte. Diceva dunque il Santo Padre Cum diluculo surrexeris, ad Vesperam te ambigas pervenire; cum ad quiescendum membra posueris, de lucis adventù noli cogitare. Quando andrete al riposo della notte, pensate che forse non sarete vivi la mattina, e quando vi leverete la mattina, pensate che forse non sarete vivi la sera ed in tal forma sarete lontani da’ vizi: Ut facilius te possis refrenare ab omnibus vitiis. Quanto disse S. Basilio a’ suoi discepoli, tanto dico io a’ miei uditori; quando vi portate al riposo della notte, pensate che forse non sarete vivi la mattina; e quando vi levate la mattina, pensate che forse non sarete vivi la sera. Quanti, quanti, ditemi, da voi conosciuti, li avete veduti la mattina vivi, e morti la sera; vivi la sera, e morti la mattina o affogati da un catarro, o percossi da una goccia, o feriti da un rivale, o caduti da un albero, o sommersi in un fiume. Nella città d’Ancona, allorché nel mille e seicento novanta tre vi si facevano le Sante Missioni venne il sabato sera s sentir la predica un uomo in sanità: vi stette a tutta, e la mattina era in Chiesa morto. Pensate dunque, che il medesimo può intervenire a voi; e però consigliatevi in tutte le vostre operazioni con la morte; perché non vi è freno maggiore per astenersi da’ vizi. Volete vedere quanto sia potente il pensiero della morte per ottener vittoria da’ nemici? Sentite come parla lo Spirito Santo nelle Sacre Carte! Egli ci pone avanti gli occhi un uomo il più scellerato, il più iniquo che possa trovarsi, una donna la più indegna che possa immaginarsi; e poi ci dice: e come mai si potrà ridurre nella buona strada un uomo sì scellerato, una donna sì reproba? Che partito dovrà tenersi? Eccolo: Ad sepulchrum ducetur, et in congerie mortuorum evigilabit. Se volete che quest’uomo, che questa donna sì iniqui si ravvedano, non dovete far altro che condurli sopra d’un sepolcro; alzargli sugli occhi la lapide, fargli vedere quei cadaveri, quei fracidumi, quelle sozzure … in congerie et mortuorum evigilabit; e voi vedrete che allora apriranno gli occhi, conosceranno l’infelice stato dell’anima loro, si convertiranno. Confermi quanto vi dico la seguente storia: una dama di gran nascita e di ricca dote fu maritata in un cavaliere quanto a lei eguale ne’ natali, tanto dissimile ne’ costumi. Era la dama tutta dedita all’opere pie, tutta intenta alle devozioni; il marito per l’opposto dedico alle crapule, a’ giuochi, a’ vizi; e non contento della compagna datale da Dio, ne andava in cerca d’altre. L’afflitta Consorte altamente amareggiata non tanto per il torto che riceveva, quanto per l’offesa di Dio, si buttò un giorno a’ piedi d’un Cristo, e con calde lagrime, e con replicati sospiri lo richiese che con qualche grave malattia percuotesse lo scellerato consorte, con speranza che così travagliato si ravvedesse. Esaudì il Signore le suppliche della devota donna: ecco in letto e con pericolo di morte il marito; si porta al letto la consorte, l’assicura del pericolo, lo esorta ad aggiustare le partite dell’anima, ma fa del sordo il marito; replica le istanze la moglie, e gli pone avanti gli occhi l’infamia della casa, se egli non ammette qualche religioso per assistere alla sua morte; allora lo scellerato marito disse alla consorte che era contento che si chiamasse un religioso, che per pura apparenza venisse al suo letto, ma con patto e condizione, che nulla gli parlasse né di Confessione, né d’anima, né d’altra vita. Considerate voi con quanta afflizione ne ricevesse questa indegna condizione l’addolorata consorte. Ad ogni modo fattasi cuore, raccomandossi al Signore, e trovato uno de’ più accreditati religiosi della città, gli raccontò lo stato infelice del marito, gli espose la brama che aveva, ch’egli v’andasse, ma insieme la diabolica condizione con cui il marito lo voleva ammettere; che però egli si raccomandasse al Signore. Accettò di venire il religioso, e prima d’andare, pregò la Maestà Divina che gli suggerisse qualche stratagemma per mezzo di cui quello scellerato dovesse ravvedersi. Andò dunque il religioso al letto, e quivi cominciò a discorrere delle guerre che allora bollivano per l’Europa. Indi degli interessi di sua casa. Quando, nel più serio del discorso si turbò il religioso, s’impallidì, principiò a lacrimare, a sospirare. L’ammalato, veduta una sì strana mutazione, l’interrogò, perché gliene manifestasse la causa. Mi lasci stare, replicò il religioso; ma perché l’ammalato il vedeva sempre più turbato, e si vedeva rimirato con occhio d’ammirazione compassionevole, costrinse il religioso, se non lo voleva morto prima del tempo, a manifestargli l’origine vera della turbazione. Allora il religioso gli disse: signore, già che volete saperlo, ecco ve lo dico: Dovete sapere, che io nel vedervi su morbide piume, circondato da un padiglione così ricco di seta e prezioso d’oro, e di ricamo, riflettevo alle parole d’Isaia: Super te fernetur tinea et operimentum tuum erunt vermes; e dicevo fra me compassionandovi: fra poco sarà in un sepolcro per averla putredine per suo strato, e per coperta i vermi. Allora l’ammalato pieno di sdegno si lamentò per la mancanza della promessa: perché non aveva osservata la condizione di non parlargli nulla dell’anima. Ma signore, riprese il religioso, io ve ne ho parlato, perché voi avete voluto. Levatevi davanti, replicò l’ammalato ed il religioso partì; ma credete voi, che il pensiero della morte messogli in testa nulla operasse? Non passò un’ora, che l’ammalato rientrato in sé per quel pensiero di morte, mandò a chiamare il religioso, e fece una Confessione delle sue colpe con tal dolore e pentimento che lasciò certa la speranza della sua salute. Or che dite del pensiero della morte? non è egli efficacissimo? Non è ella savia consigliera la morte? Ricorrete dunque al di lei parere, con sicurezza di profitto all’anima. Consigliatevi tutti con la morte, ed in particolare voi, che avete commesso de’ peccati e, per anche colti dalla vergogna, non li avete confessati. La morte vi dice: confessali prima che io venga a toglierti l’anima; e pure ad ogni modo tanti e tanti non li vogliono dire; e temono non solo che il confessore li riprenda, ma che egli sappia i loro errori. O pazzi, che siete! Voi temete d’un uomo che non può che giovarvi; che non può manifestare ad anima vivente il vostro fallo, sotto pena di rendersi degno del fuoco. Come è possibile che temiate di manifestare le vostre colpe ad un uomo che ne ha udite delle peggiori delle vostre, e che può averle commesse anch’esso; e poi non temiate quel Dio Onnipotente che se alla morte vi troverà con quel peccato sull’anima, vi getterà irreparabilmente nel seno de’ diavoli. Ecco il consiglio della morte: dico vobis, hunc timete, temete Iddio, e perciò dite tutti i peccati che finora avete celato; altrimenti vi sovrastano i precipizi dell’anima. Il Collettore racconta come una signora invaghitasi d’un servitore di casa, giunse tanto oltre, che concepì, e quel ch’è peggio, per occultar un peccato, ne commise uno tanto maggiore, quanto fu mandar a male la creatura senza Battesimo. Né vi crediate che questa infelice donna si ravvedesse: appunto. Divenne madre di più creature, ed all’istesso modo privolle tutte del Paradiso, uccidendole con la medesima crudeltà senza battezzarle. Quello poi, che deve rendere meraviglia maggiore, è come una donna tanto sfacciata, che aveva avuto animo per commettere tante scelleratezze, non avesse mai avuto animo di confessarle. È vero, che per acquietare gli stimoli della coscienza, faceva limosine grandi a’ poveri, ma senza frutto, poiché morì e si dannò; e morta comparve tutta cinta di fiamme, manifestando la sua dannazione esser seguita per aver taciuto il suo peccato, con aggiungere, che quelli, i quali non confessano i peccati, ancor che distribuiscano tesori a’ poveri, mai si salveranno. O se costei, miei uditori, potesse tornare al Mondo, ed aver il comodo di confessarsi! che non farebbe? Salirebbe su questo pulpito e manifesterebbe le sue scelleraggini, per ottenerne il perdono. Gli confesserebbe, non solo ad un Confessore, ma quando tanto bisognasse, a tutto il mondo. Imparate voi a spese d’altri; prendete il consiglio dalla morte; portatevi a’ piedi del confessore; dite quel peccataccio, altrimenti vi dirò con Agostino: tacitus damnaberis, qui poteras confessus absolvi. Né minor bisogno di consigliarsi con la morte hanno coloro i quali si caricano di roba d’altri; non pagano mercedi; ritengono le possessioni estorte, non di ragione, ma di potenza, non soddisfano legati pii; vendono e comprano con inganni; aggravano i poveri, gli promettono per i lavori il denaro e poi gli vogliono dar la roba della peggiore ed a sommo prezzo; e poi non trovano mai la via di restituire; promettono sempre, e mai attendono. Se tra’ miei uditori v’è taluno di simil fatta, vada subito a consigliarsi con la morte, e sentirà dirsi: stulte hac nocte, … O pazzo tu, pensi ad accumulare con danno dell’anima, con pregiudizio del prossimo; tu fabbrichi una casa, che tra poco ti rovinerà in capo; tutto dì stai col pensiero in accumulare e nulla pensi a restituire; e poi dici che ti confessi: ma che ti vale la Confessione, se non restituisci? Odi Sant’Agostino: Si res que reddi potest non reddatur, pænitentia non agitur, sed simulatur: la tua Confessione, se non restituisci mentre puoi, non è Confessione, ma un inganno l’assoluzione che ricevi, non scioglie le catene, ma le raddoppia: pœnitentia non agitur, sed simulatur; stulte, stulte, pazzo che sei, tutta quella roba, che ingiustamente ritieni non ti caverà da quelle fiamme nelle quali stai per cadere; e quelli eredi a’ quali la lascerai, appena morto non penseranno più a te. Orsù, non si prometta più la restituzione, ma si faccia perché non v’è altra strada per salvarsi, che a restituire. Si res, que reddi potest non reddatur pœnitentia non agitur, sed simulatur. Sebbene pochi saranno tra miei uditori quelli che debbano o possano restituire; molto maggiore farà il numero de’ disonesti: O questi sì che hanno bisogno e necessità di consigliarsi con la morte. Quanti sono qui tra quelli che m’ascoltano, i quali non hanno maggior negozio sopra la terra che amoreggiare, trovarsi a veglie, trovarsi a balli, e di passarsela allegramente. Eh Dio! Perché non date mente all’Apostolo che dice: tempus flendi et tempus ridendi, in questa vita bisogna piangere, se volete ridere nell’altra; né mi state a dire è vero, si ride, che vale a dire: si va a veglie, a balli, ci tratteniamo negli amori, ma non per questo pecchiamo. Oh quanto è difficile ad avverarsi questo vostro parlare! Cum aliena mulieres ne sedeas omnino, dice lo Spirito Santo nell’Ecclesiastico al nono, con quella donna che non è tua, non ti porre mai accanto, anzi neppur guardarla, ne concupiscas speciem alienam; e perché? Perché se la guarderai, s’accenderà l’amor indegno a guisa di fuoco, a cui sono somministrate molte legna: ex hoc concupiscentia quasi ignis exardescit; e se uno si espone a pericolo sì grande, con solo porsi accanto ad una donna, col solo guardarla: quali rovine, quai precipizi non devono aspettarsi quei giovani, quelle donzelle , che non solo siedono insieme, non sol si guarda ma si prendono per la mano, ma se la discorrono per ore a solo a solo, anche di notte? E questo mestiere sono anni che lo praticano; e talora discorrono di cose sì laide, che non ardirebbe il marito discorrerne con la consorte; di cose sì vergognose che se qui si potessero dire, ne resterebbe appestata tutta d’intorno l’aria… –  Ah giovani infelici che praticate come lecite cose tanto pericolose. Ah, fanciulle sconsigliate che dite questa esser l’usanza, questo il modo d’accasarsi… Ah padri disgraziati! Ah madri svergognate che non solo permettete, anzi talora difendete gli amori delle figlie; anzi di peggio, talora ve le istigate, con la speranza di maritarle con minor dote. Dio immortale! Se foste nemici crudeli de’ vostri figli, voi non potreste trattarli con maggior tirannia; ben si conosce che non vi consigliate con la morte. Ah, che se voi di proposito pensaste che presto la morte verrà per voi per portarvi al Tribunale Divino, voi fanciulle lascereste balli, veglie, feste, amori; e voi madri con ogni premura vigilereste, perché le figlie stessero lontane dalle amorose corrispondenze. Così appunto procurava di fare una savia madre, la quale si ritrovava con una figlia sì disgraziata, che pareva nata alle pompe, alla vanità; non voleva altro che portarsi a feste, che trattenersi tra gli amori, e siccome per sua disgrazia era non meno vaga, che vana, aveva questo indegno costume di specchiarsi, di vagheggiarsi continuamente, appena levata andava allo specchio; allo specchio prima di porsi al lavoro, prima di pranzare, dopo pranzo, in ogni tempo allo specchio. Alla povera madre non era mai bastato l’animo né con le minacce, né con le percosse, di distogliere né dagli amori, né dallo specchio, questa figliuola. Vedendo dunque infruttuosa ogni sua opera, ricorse a Dio, perché l’ispirasse quel modo con cui potesse a ciò rimediare. Ecco, che un dì chiamata per uscir fuori di casa la figlia da certe parenti, la buona Madre chiamò a sé frettolosamente un pittore e così gli disse: Sentite, io voglio un servizio da voi; vedete questo specchio? Si, signora. Voglio, che mi dipingiate quivi una testa di morto; ma avvertite di porvi tutta la perfezione del vostro pennello; fatela dunque orrenda, terribile, spaventosa; terminata l’opera, tirò la madre il drappo, che giusta il solito copriva lo specchio. Ecco, che indi a poco torna a casa la figlia tutta allegra, perché trattenutasi il giorno al ballo; tutta briosa, perché vagamente vestita; sale le scale, giunge alla sala, entra in camera, e subito se ne va allo specchio, tira la tenda e vede non il suo vago sembiante, ma il teschio, ma la testa spaventosa di morto. Considerate qual fosse il suo timore, quale l’orrore? S’impallidì; principiò a tremare, a piangere; restò attonita; restò come fuori di sé. Quando ecco, che la madre, che se ne stava in agguato sotto d’una portiera, si fece vedere, si fece sentire e le disse: figlia, cara figlia, io sempre ti ho gridato, ti ho minacciato, t’ho percossa perché altro non facevi che specchiarti; adesso ti prego, ti supplico, ti scongiuro, specchiati figlia, specchiati: quello è il vero tuo ritratto! Quella l’effigie tua: mirati, vagheggiati. Volete altro? La figlia attonita, per la morte nello specchio, impaurita per le parole della madre, considerando quel che di lei doveva esser tra poco, si pose le mani sulla testa, si guastò le trecce, disfece i ricci, buttò via ogni vanità; dal collo il vezzo, dal petto le gioie, le maniglie da’ polsi; Indi genuflessa avanti la madre, la pregò che volesse vestirla d’abito grossolano da penitente; e così vestita, visse e morì non solo lontana dagli amori, ma con vita esemplare. Ah! che se tu pure, gioventù sconsigliata, ti consigliassi con la morte, non ti cureresti di favorite, detesteresti gli amanti. Ah! Che se quelli che vissero tra gli amori ed ora sono morti, tornassero nuovamente a vivere, io vi assicuro, che avrebbero più paura dell’amore, che voi non avreste ora di cento vipere, se per disgrazia tutte unitamente v’assalissero per infondervi rabbiosamente il loro mortal veleno nelle vene. Specchiatevi tutti con la morte, per che questa vi dirà il vero; a questa solo si può credere. Sentite un pensiero, che forse non vi dispiacerà: Voi ben sapete che una donna, la quale brami veramente di comparire ed essere vagheggiata, tra tutti i suoi corredi di vanità, non ha cosa che più le prema dello specchio; e con ragione, perché quantunque ella sia leggiadra, bella e linda, non è però contenta, se il suo favorito cristallo non glielo dice. Possono ben dire le damigelle, possono affermare esser ella del tutto concia decorosamente che ad ogni modo, fin tanto che ella non si è ben specchiata, sempre sospetta, se ben svolazzino su de’ capelli i nastri; se le trecce siano del tutto composte; se la fronte sia lustra; se il collo ben lavato; se facciano la sua comparsa il vezzo, i pendenti; insomma vuol lo specchio, vuol lo specchio, a questo si crede, e non ad altri. A questo specchio solamente della morte dovete credere, e non ad altri. Non credete alle lusinghe di colui, agli affetti di colei, ma allo specchio. Miratevi, contemplatevi con la morte. Ma se tanto hanno di bisogno del consiglio della morte i giovani, e le fanciulle, che passano le giornate tra gli amori; qual necessità n’avranno del consiglio della morte quei che non solamente vogliono gli amori pericolosi, ma altresì peccaminosi? O Mors, quam bonum est juditium tuum! E non sentite la morte, che vi dice: lascia quei compagni con i quali discorri e pratichi azioni degne di fuoco che incenerì Pentapoli; lascia l’amicizia, abbandona la pratica, scaccia quella serva di casa perché ti dannerai, e senza rimedio dirai ancor tu con Gionata: Gustans gustavi paululum mellis et ecce morior. Per una goccia di miele, diceva Gionata, mi son tirata adosso la morte; per un piacere da nulla, ancor tu dirai: mi son tirato addosso la morte, con questa differenza, che la morte di Gionata fu di corpo, la tua sarà d’anima: quella fu temporale, la tua sarà eterna. Tu vuoi tenere in casa quella donna; vuoi andar da quell’altra sotto mille finti pretesti; tu vuoi cedere alle voglie di colui, bene, vuoi gustare questo poco di miele? Seguita pure, ma sappi che la pagherai con tanto fuoco. Il consiglio, che ti dà la morte non è questo; ma bensì, che tu lasci, e lasci ora l’amicizia, le pratiche, le laidezze, altrimenti sarai di coloro che ducunt in bonis dies suos, et in puncto ad inferna descendunt … sarai di coloro, che doppo una vita condotta tra le amicizie disoneste balzano nel fuoco eterno. Evvi qui per ultimo tra miei uditori, alcuno che racchiuda in cuore brama di vendicarsi per gli oltraggi ricevuti? Se vi è, prima d’effettuare i suoi desideri, prenda il parere dalla morte, la quale gli dirà con lo Spirito Santo: memento novissimorum, et define inimicari; pensa a me, e lascerai gli odi. Tu dici: è vero, non gli parlo, non lo saluto, non gli rispondo, gli volto le spalle, ma non per questo gli voglio male; o questo no; e la morte ti dice che tutto è odio e che quanto prima ti condurrà al Tribunale Divino, ove Judicium tibi fiet fine misericordia, perché non fecisti misericordiam dove non potrai aspettar misericordia da Dio, mentre tu hai avuto un cuore senza misericordia verso del prossimo. Bene, tu dici di non esser obbligato, e neppur Iddio ti risponde che non è neppur Lui obbligato a darla a te. Tu non lo vuoi in paese, e Dio non ti vuole in Paradiso. Or vedi, se ti torna conto così. Un certo villano più di costumi, che di nascita, aveva ricevuta una ingiuria, della quale conservò sempre sì altamente la memoria, che non fu mai possibile ottenere la remissione per mezzo d’una vera pace. Visse l’infelice villano per più anni in questo stato, e così pure se ne morì, e seco portò la sua ostinazione, per la quale venne in tant’odio a Dio che, essendo il corpo di questo infelice esposto in Chiesa, prima di seppellirlo, mentre il Sacerdote, secondo il costume de’ fedeli, pregava nelle solenni esequie, che gli si perdonassero i peccati commessi, con quelle parole: parce ei Domine, un gran Crocifisso nella medesima Chiesa schiodò ambedue le mani, e con esse turatesi le orecchie, proferì queste parole formidabili: non pepercit, non parcam. Considerate qual fosse lo spavento degli astanti che, attoniti e palpitanti non seppero trovare altro partito che strascinare quel cadavere alla campagna, e seppellirlo, secondo il merito, come un giumento. Ecco il termine, ecco il fine di quegli indegni che, dopo aver ricevuto qualche torto, qualche ingiuria, non vogliono perdonare e vogliono vendicarsi. O stolti che siete! voi non sapete conoscere la vostra sorte. Chiunque ha ricevuto qualche ingiuria, si può dire, che abbia in mano la Misericordia Divina per partecipare quella misura o maggiore o minore che gli aggrada; basta, che perdoni di buon cuore, che si scordi dell’ingiuria, che faccia la pace, ed ecco rimesso a lui ogni debito. Così parla, così protesta l’istesso Cristo: dimittite, dimittetur; perdonate, e vi sarà perdonato; ma avvertite che per il contrario, chi non vuole rappacificarsi; chi non vuol salutare, né rendere il saluto; chi indebitamente nega i segni d’una giusta riconciliazione con gli offensori, tenga per certo, che Dio lo pagherà con la stessa moneta: qua mensura mensi sueritis remetietur vobis. Chi sarà dunque sì stolto, che per sfogare quella passione d’odio, per far quella vendetta, voglia tirarsi addosso l’ira di Dio, non voglia la Misericordia di Dio? Cari miei uditori, se non avete bisogno che Iddio vi perdoni, perché non abbiate mai peccato; io mi contento, che ancor voi neghiate la pace, vi vendichiate ma se avete un’estrema necessità, che Dio vi perdoni; perché non perdonate, mentre siete sicuri di non aver il perdono, se non perdonate? Qual fu la sua strada, che tenne la prudentissima Abigaille per raffrenare lo sdegno di David concepito contro del di lei caro marito, sì che lo voleva morto? Molte furono le scuse, molte le ragioni; la più potente però ad abbattere quel cuore, qual fu? Eccola, il dirgli così: e quando vi sarete vendicato, non ve ne avrete voi da pentire per aver disgustato Iddio? Non erit tibi hoc in singultum? Uditori miei cari, ecco quale deve essere il vostro freno da’ peccati: il pensare, che ha da venire un tempo, che ve ne dovrete pentire. Si si erit tibi in singultum, d’aver procurata la rovina di quella donzella; erit tibi in singultum, d’aver tentato l’onore di quella maritata: erit tibi in singultum, d’aver presa la roba al tuo prossimo; e qual sarà? quello della morte, e respiro.


LIMOSINA.
Qui in Nomine Christi, dice il Damasceno, pauperibus subvenit centuplum accipiet.
Chi dà ai poveri per amor di Dio, riceverà il centuplo. Volete vedere se Iddio rende il centuplo? Udite quel che accadde nella città di Livorno in Toscana. Un negoziante di prima riga, intervenuto alla predica, sentendo questo centuplo che Dio promette, diede una Dobla. Torna a casa, vien richiesto di certa cannella ordinaria, la mostra, e la trova cambiata in cannella finissima ed in quel giorno ebbe appunto cento doble di guadagno.

SECONDA PARTE.

Non vi è passo più terribile in tutto l’Oceano dello stretto di Magalianes posto tra l’Affrica, e la Terra di fuoco, perché quivi le acque sono urtate insieme, e respinte da due mari contrari, i quali con il loro flusso e riflusso vi mantengono le tempeste come paesane. Hanno i nocchieri trovato modo di scansare quel passo così terribile e mortale, tenendosi più basso, e passando per un altro stretto meno burrascoso. Non v’è passo più spaventoso della morte; ella è uno stretto combattuto dall’impeto di due mari totalmente diversi: tempo ed eternità; e quel che è peggio, il passo è unico; e non vi pensate e non dite … che farà di me, se v’affondo? Sapete perché non ci fissiamo in questa morte? Perché la miriamo da lontano, e ci pare che abbiano da passare mari di secoli prima che giunga. Così appunto da lontano la rimirò la madre di Nerone Agrippina. Uditene il fatto. Desiderava Agrippina di vedere lo scettro di Roma in mano al figlio, e per ciò che non fece? Fece quanto le permise l’astuzia d’una donna appassionata. Gl’indovini Caldei chiamati da essa a consulta sopra questo affare, gli dissero unitamente che desistesse dall’innalzamento al trono del figlio, poiché il figlio, divenuto Imperatore, gli avrebbe data la morte. Qual pensate che fosse la risposta della donna ambiziosa? Occidat dum imperet; a me non importa, muoia Agrippina, purché Nerone comandi. Ma quando poi si venne all’effetto, e principiò a vedere i preludi della sua morte; oh come subito si dié a’ pentimenti di quello che aveva tanto sospirato! Eccola rinchiusa, eccola in carcere come leonessa in serraglio e tigre in catena. Interrogatela, e ditegli … serenissima, non siete voi quella che apertamente dicevate: muoia Agrippina purché Nerone comandi? Eccovi contenta! Nerone è nel trono, già riscuote i tributi delle provincie straniere, gli ossequi delle milizie obbedienti, morite contenta? Quanto bramavate, avete ottenuto; appunto, appunto, tutto l’amore si voltò in odio, e disperata, al centurione, che gli venne incontro col ferro ignudo, o per segarle la gola o per trafiggerle il seno, ella gli si portò d’avanti, e gli disse: qui, qui ferisci questo ventre che diede ricetto ad un mostro di crudeltà: ventrem ferire exclamavit. Che sarà di voi peccatori, che ora andate dicendo a chi vi riprende de’ vostri vizi, e vi dice: avvertite, vi verrà la morte, e voi rispondete: occidat dum imperet. Muoia l’anima, purché si giunga a quella vendetta: … occidat, vada l’anima, purché si ottenga quella roba; si perda l’anima, purché si sfoghi quella passione. Non direte così no, quando vi troverete al capezzale. Ora ve la figurate lontana, e perciò gli fate testa.

QUARESIMALE (XXVII)

QUARESIMALE (XXV)

QUARESIMALE (XXV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDIC A VENTESIMAQUINTA
Nella feria quarta della Domenica quarta.

La conversione procrastinata si rende difficile, e quasi moralmente impossibile; sì per la parte del demonio, sì per la nostra, come per quella di Dio.

Vade lava in natatoria Siloe. San Giov.: cap. 9

Vedonsi ben spesso non senza stupore, dentro i Sacri Templi, o ne’ superbi cortili, rozzi marmi, così al vivo da industrioso scalpello animati, che per compire le illustri azioni, o l’eroiche imprese che rappresentano, altro non sembra mancargli che il moto. Quivi si fa vedere il pastorello David, che afferrate con ambe le mani ad un feroce leone le zanne par che or ora lo sbrani. La si mira l’ubbidiente Abramo che con generoso braccio, alzato il coltello, sta per tagliare all’innocente Isacco la vita. Da una parte la vedova di Bettulla scarica sul collo ad Oloferne la spada; dall’altra il legislatore Mosè, acceso il di lui giusto zelo, sta per spezzare le tavole della legge: ne toglie già, dall’arte il pregio, dallo spettatore il contento il sapersi che, anche dopo il corso di più secoli, resteranno intatte le tavole della Legge. Giuditta non avrà reciso il capo ad Oloferne, non sarà sacrificato Isacco, non sbranato il leone. Tutto ciò, che da periti nell’arte de’ marmi non solo non si riprende, anzi si ammira: non può già tollerare ne’ suoi allievi la grazia, ne’ quali il non risolversi di mutar vita non è difetto di potenza, ma colpa di volontà. Voglio dire, che pessimo è lo stato di quei Cristiani, i quali non dando orecchie alle divine chiamate, procrastinano il pentirsi, stanno sempre sul fare, e mai si risolvono; sicché giungono alla morte, con una vita condotta tra peccati. Guai all’odierno cieco dell’Evangelio, se avesse tardato ad eseguire i divini comandi: guai a voi, se non ubbidirete prontamente alle voci divine; poiché quella conversione, che ora v’è più facile ad ottenersi, se procrastinerete, vi si renderà più difficile e quasi moralmente impossibile. Io per me non ho mai trovato uomo sì stolto, il quale aggravato da qualche male non ne abbia cercati gli opportuni rimedi: mai ho letto, che niuno chiuso fra quattro mura in orrida prigione per la vita, mentre possa facilmente trovarsi l’adito alla fuga, volontariamente si trattenga fra quelle miserie. Ah, che certo un simile stolto non s’è mai trovato. Solo il peccatore è sì pazzo, che essendo in miserie le maggiori, che si possano mai dire, cioè a dire in peccato mortale, aggravato da un male immenso, stretto da’ lacci del diavolo; ad ogni modo, quantunque facilmente possa liberarsi, non ne fa nulla, e mostra di godere felicità in mezzo alle somme infelicità. Datemi mente per cortesia, acciò mi diciate il vostro parere circa l’operato di Faraone; né dubito punto, che non siate per decidere, che operò da mentecatto. Questo re s’imperversò, come sapete, fra le spaventose piaghe d’Egitto. Guardati, gli dice Mosè, o Faraone, guardati, perché, se non lasci libere le mie genti, la pagherai. Non ti credere già che a tua rovina sia per armare poderosi eserciti, non t’immaginare che per incenerirti sia per chiamare fulmini dal Cielo, no: ma per tua maggior vergogna farà che dalle paludi scappino fuori eserciti di rane, e queste bestiole così piccole prenderanno contro di te le mie difese. Queste assedieranno le tue case, occuperanno le tue sale, ti discacceranno dagli appartamenti delle tue camere. Sorrise l’empio Faraone alla minaccia; ma non andò molto, che il riso tramutossi in amarissimo pianto. Ecco, ad un cenno imperioso di Mosè scappano fuori di subito da pantani, da fiumi, da fonti, eserciti innumerabili di strepitose ranocchie: si spargono per la città, ed guisa di furibondi nemici corrono a darne il sacco. S’impadroniscono de’ posti, chiudono le strade, penetrano le case, e già trionfanti avanzandosi nella reggia, assaliscono Faraone nel proprio trono. Or qual pensate, miei UU. che fosse il cuore di quell’empio, quando si vide posto un assedio sì pertinace alla vita? Chiama frettoloso Mosè, e quasi tutto dolente del suo fallire, compunto del suo errore: ecco, disse, o Mosè, che mi arrendo; mi dichiaro per reo; prega, ti supplico, il tuo Dio, che da me tolga questo flagello, ed io ti compiacerò: orate Dominum, ut auferat ranas a me, a populo meo, dimittam populum ut facrificet Domino. Mosè, come quello, che voleva l’emendazione, e non la perdizione dell’empio: orsù, disse, son contento: dì, quando vuoi, che si preghi per la tua liberazione: Constitue mihi tempus, quando deprecer pro te. Stette allora Faraone alquanto sospeso a deliberare; e poi: domani, rispose, voglio che preghi per me qui respondit cras. Pazzo Faraone! Ti trovi stretto da nemici tanto più fieri quanto più inevitabili, e con tutto ciò frapponi indugi, tessi dimore, e rispondi cras? Domani, domani; e perché non oggi? Grida Ambrogio: insensato risponde cras, cum deberet in tanta positus necessitate rogare ut jam oraret. Certo, che niuno v’è tra voi, che non deplori una sì fatta stolidità d’uno che, potendo uscire da gravi miserie oggi, indugi a domani; orsù, se tanto sciocco, a parer vostro, deve riputarsi chi si mostri sì poco sollecito di salvare la vita del corpo, che dovrà dirsi di quei miseri peccatori che stando continuamente assediati, non da rane, ma da demoni ansiosi di strapparli a gara dal petto lo spirito scellerato; con tutto ciò non sanno ancora risolversi a svilupparsi da sì imminenti pericoli: Constitue mibi tempus; quando o lascivo, si ha da lasciare quella pratica, che ti toglie la sanità, ti ruba le sostanze, t’invola la reputazione, ti priva della grazia di Dio? Quando? Ah, che sento rispondermi: inoltrato che io già un poco più negli anni, allora muterò vita. Constitue mihi tempus; quando verrà quel tempo di lasciar quelle corrispondenze; quando vi risolverete d’allevare le figlie più per Dio, che per il Mondo? Voi le tollerate libere nello sguardo senza riflettere, che tra gli occhi ed il cuore vi sta quella segreta corrispondenza che dicono passare tra quei monti che gettano fuoco; quando, ditemi volete mutar vita e, deposto da voi e dalle figlie ogni ornamento superfluo volete comparire nelle Chiese, alle feste, ne’ corsi con la dovuta modestia, chiuse nel seno, coperte nelle braccia? Quando, quando volete desistere di dare tutto il tempo al mondo, al diavolo senza farne punto di parte a Dio? Allora, sento rispondermi, allora, che sarò più avanzata nella età lascerò quegli ornamenti di vanità scandalose, quelle mode che conosco nocive a me, dannose agli altri. Constitue mihi tempus. Signori, quando volete invigilare sopra l’educazione de’ figli? Mercanti, quando si lasceranno i traffici illeciti? Nobili, quando si soddisferanno le mercedi, i legati pii? Quando, o mormoratori, cesseranno le vostre lingue malediche d’intaccare l’onestà delle fanciulle, il decoro delle vedove, l’onore delle migliori aritate? Quando, o bestemmiatori, lascerete d’oltraggiare col nome de’ Santi, quello della Vergine e di Dio? Quando, quando? Domani, domani. Domani dovete liberarvi dalla pestifera febbre del peccato, mentre potete oggi? O che pazzia! Potere uscire da una miseria sì grande oggi e volere indugiare a domani; hodie, hodie si vocem ejus audieritis, nolite obdurare corda vestra; oggi si ha da fare questa conversione, fin d’adesso si ha da lasciare il peccato? Sì, perché ora è più facile; sì, perché con la tardanza si renderà più difficile, e quasi moralmente impossibile. Adesso, miei UU. La vostra conversione è più facile, che sortisca sì per la parte vostra, sì per quella risguarda il demonio, sì per la parte di Dio; dove che se indugerete si renderà più difficile, e materialmente impossibile;
sì per la parte vostra, quanto per quella e del demonio, e di Dio. Vi dissi che è più facile che se darete orecchio alle voci di Dio, adesso vi convertiate per quel che risguarda la parte vostra, perché certo è che in tanta commozione, alla vista di tanto popolo penitente è molto probabile che concepiate un vero dolore de’ vostri peccati, un vero proposito di non volerli più commettere, e così per mezzo d’una vera, d’una sincera, d’una real confessione ritorniate nel seno del vostro Dio; più facile altresì farà adesso la vostra conversione, perché in questo tempo sentendo la gravezza del peccato, udendo i gran mali, che seco porta, meglio ne concepirete la di lui malizia, e perciò più facilmente la detesterete. E più facile finalmente adesso la vostra conversione, perché il male non è tanto invecchiato, la piaga non è del tutto incancherita, onde può sperarsi che la parola divina possa avere la sua efficacia, per portarvi salute. Su dunque: ne tardes converti ad Dominum, non tardate no, ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis; questo è il tempo da convertirsi; questo è il giorno di salute. Il demonio non v’ha ancora ben fermato; non v’ha legati sì fortemente in quegli amori, in quegli odii ed interessi che non possiate scappargli; non vi ha per anche messi a piedi ceppi sì fieri che non possiate spezzarli; converrà che egli ceda, mentre tanti si uniranno a torvegli dalle branche per mezzo di frequenti orazioni. Su, dunque, fatevi animo e sappiate che il demonio combattuto dalle orazioni, dalle penitenze, dalle lacrime, da sospiri resterà talmente abbattuto nelle sue forze, che la vostra fuga dai suoi artigli è quasi che certa. E che forse ne potete dubitare per la parte di Dio? E non è questo Cristo quello che v’invita a ritornare a Lui? E se Egli è quello, che per mezzo mio v’invita, potrete dubitare, che Egli non sia per darvi tutto l’aiuto necessario per una buona e santa conversione? Che Egli non sia per assistervi con quella grazia, che vince ogni protervia, che abbatte ogni ostinazione con la grazia efficace? Certo che sì! Egli sta con le braccia aperte per accogliervi nel suo seno, correte dunque, e non tardate: Ne tardas converti; perché so dirvi che quanto ora è più facile, tanto poi si renderà più difficile, se tarderete. Sarà più difficile per la parte del demonio, per la parte vostra, per la parte di Dio. Per la parte del demonio, perché quanto più egli tiene il possesso dell’anima vostra, tanto più se ne fa padrone, e tanto più difficilmente gli scapperete di mano. Quanto più l’anima sta in peccato, tanto più s’indebolisce, e le sue debolezze sono accrescimento di forza al demonio. Quante sono le vostre perdite, tante sono le sue vittorie; e quante più sono le vittorie tanto maggiore è l’accrescimento delle di lui forze; sicché assai più difficilmente gli scapperete dalle mani, se non vi convertite adesso. Hodie si vocem, etc.. Che sia poi più difficile anche per la parte vostra, e chi ne dubita? Le spinose quanto più indugiano a dare alla luce i loro parti tanto più penano; mercè che quanto più crescono quelle spine, tanto più poi danno di tormento alle viscere materne. Quanto più indugerete a convertirvi, tanto più stenterete a farlo; mercè che crescendo sempre più l’abito, sempre più radicherà e si renderà difficilissimo lo sradicarlo. Portatevi nelle vostre campagne, e quivi dopo aver piantato un albero indi a due dì tentate sradicarlo, voi vedrete che vi sarà facilissimo lo sbarbarlo; non così, se indugerete un mese, molto più indi a sei: arriverà quell’albero, se tarderete a sradicarlo, a porre radici sì forti, sì ferme e si profonde, che non basterà né la mano, né il ferro: vi vorrà il fuoco per incenerirlo. Se voi indugerete a sradicare quella amicizia, quella invidia, quella avarizia, quelle bestemmie, metteranno radici sì alte, che sarà quasi impossibile svellerle. Geremia ci rappresenta una sorte di peccato, la di cui effigie non è forma dal peccatore col pennello sulla tela, ma con lo scalpello nel sasso: peccatum Juda scriptum est stylo ferreo; voi ben sapete, che tra la pittura e scultura vi passano molte differenze; benché ambedue contrastino per imitare al vivo la natura, la scultura fabbrica statue, rompendo selci; la pittura forma figure spargendo colori; ciò che fa a mio proposito è, che un errore di pittura si scancella con acqua pura; ma se lo scultore vuol riformare ad una statua un membro, è necessario, che rotto il primo, ne formi un altro. Che voglio dire? Voglio esprimere, che il peccato ancor fresco è una pittura; bastano lacrime penitenti a scancellarlo; ma se egli è invecchiato, non è dipinto ma scolpito, scriptum est stylo ferreo, id est per sculpturam, glosa il Lirano, et in boc peccati indebilitas designatur, presto, presto non tardate; perché vi si renderà difficilissima la vostra conversione. Non v’è chi non sappia, che ogni peccatore è simile ad un morto: Omnis qui peccat, son parole di Sant’Agostino, moritur. Or sentite, io osservo, che di tre morti resuscitati da Cristo, in due poco vi faticò; per resuscitare la figlia di Jajro, bastò che dicesse, non est mortua, sed dormit; merceché appena era morta; per ravvivare il secondo, che di poche ore era morto, nulla più fece, che toccare il Cataletto. Non così per il terzo, che fu Lazzaro, che era morto più giorni avanti; poiché per rendere la vita a questo, si turbò, pianse, gridó ad alta voce e con assoluto impero: Lazare veni foras. Non vi meravigliate, dice Sant’Agostino, che dimostrasse di faticar tanto per resuscitar Lazzaro, lo fece per mostrarci quanto è difficile che risorga chi indugia la sua conversione: Difficile surgit quem moles consuetudinis premit. Io resto stordito alla pazzia di costoro, che vogliono indugiare a convertirsi, mentre si tratta d’anima. Dio immortale! Se nella casa un trave minaccia, non aspettate un mese a mettergli un puntello; se l’acqua del fiume entra nella vigna non indugiate a far l’argine; se oggi vi viene la febbre non aspettate un mese a chiamare il medico; se vi svoltate un braccio, un piede, non differite a chiamare il cerusico; se per disgrazia prendete veleno, non aspettate un mese a prender la triaca; se oggi si attacca fuoco alla casa non aspettate a domani portar l’acqua per estinguerlo. Sentite Avicenna medico arabo: Qui bibit venenum in dormire non debet, chi ha preso il veleno presto se ne liberi. Cristo Medico Celeste dice: chi ha il peccato presto se ne scappi, se no morte eterna; perché quando vorrà non potrà. Ah, che se voi indugerete a convertirvi s’indurerà talmente il vostro cuore, che vi vorrà fuoco per incenerirlo: non basterà la parola divina; sarà quasi impossibile che vi convertiate. Sentite caso orribile, registrato nel Cristiano Instruito ed inorridite. Un cavaliere chiaro di nascita, ma sordido di costumi, invaghitosi d’una certa fanciulla, benché moresca, se la teneva già da molti anni senza prezzario né  le riprensioni degl’amici né le ammonizioni de’ Sacerdoti; e a chiunque l’esortava a lasciarla rispondeva con modi austeri e sdegnosi, non posso, quasi che pretendesse persuadere, essere necessità di natura ciò che era elezione di libidine: non volendo egli dunque staccarsi dalla perfida compagnia, venne, come accade, la morte per distaccarlo. S’ammala dunque lo sfortunato nel fiore degli anni, s’abbandona e pone in letto, e ben presto si dà da’ medici per disperata la sua salute. Fu pertanto chiamato un religioso per disporre il giovane in quell’estremo; giunto il religioso al letto saluta cortesemente l’infermo, e con modi assai dolci e prudenti principia ad insinuarsi dicendogli: signore, non può negarsi, che il male non sia grave: ad ogni modo voglio credere che vi sia più da sperare che da temere. Ella è fresca di età, vigoroso di forze, sincero di complessione, molti d’un male simile al suo sono campati, molti però ne son morti; e benché speri che ella sia per camparla, ad ogni modo, che nuoce l’apparecchiarsi come se dovesse morire? Allora l’infermo rivolto al religioso dissegli: insinuatemi Padre ciò che devo fare, che son pronto ad ubbidire. Ancor io conosco il pessimo stato, in cui mi trovo e quantunque io abbia menata cattiva vita, desidero però al pari d’ogn’altro una buona morte. Non potete credere quanto di giubilo arrecassero al cuore del religioso queste parole; bramava egli di venir subito al taglio di quella pratica scellerata che con tanta sua pena vedeva nella camera stessa del moribondo; il quale or sotto il pretesto d’un servizio, or d’un altro, la voleva sempre efficacemente vicina. Nondimeno la prudenza gli persuase di disporlo prima con richieste più facili ad una più difficile; orsù dissegli, giacché vi scorgo per grazia di Dio sì bene animato, voglio parlarvi con quella libertà che richiedono sì la santità dell’abito che porto, come lo zelo della vostra salute. La vostra vita è disperata: bisogna morire; e perché poche sono le ore che vi restano, conviene aggiustar le partite con Dio. Eccomi pronto, ripigliò il moribondo: che devo fare? Avreste, riprese il Padre, roba d’altri? L’avevo, ma ho soddisfatto. Racchiudete in cuore livore verso del prossimo? Ho perdonato a tutti. Volete per ultimo ricevere li Santissimi Sacramenti per armarvi al gran passaggio? Certo, Padre, se voi avrete la bontà d’amministrarmeli. Io son pronto, ripigliò il Padre, ma voi sapete che questo non si può fare se prima non licenziate la rea femmina! O questo non posso Padre, non posso. Ahimè! che dite? E perché non potete? E potete e dovete, se volete salvarvi. Ed io vi dico che non posso; ma sentite, tanto di qui a poche ore bisognerà lasciarla; e perché non vi risolvete a far per elezione ciò, che vi converrà fare per necessità? Non posso, Padre non posso; guardate questo Cristo per voi in croce; Egli vi dice, che la licenziate; non posso, torno a dirvi, non posso. Ma uditemi, perderete il Cielo; non posso; andrete all’inferno: non posso; e come è possibile, che non vi debba cavare altra parola di bocca, che questo ostinato non posso? Ma non è meglio perdere la donna, che perdere la donna, la reputazione, il corpo, l’anima, l’eternità, i Santi, la Vergine, Cristo, il Paradiso, e dopo morte esser sepolto da scomunicato e da bestia in mezzo alla compagna? Che pensate, che facesse allora questo sfortunato? Gettò un crudo sospiro dal petto, e tornando a replicare quelle orrende parole: non posso, non posso; raccolte quelle deboli forze, che gli restavano, afferra all’improvviso quella perfida femmina, e con volto acceso e con voce alta in queste voci proruppe: questa è stata la gloria mia in vita; questa la sarà in morte. Indi per forza stringendola ed abbracciandola, sì per la veemenza del male, come per la violenza del moto e l’agitazione dell’affetto le esalò sulle sozze braccia lo spirito scellerato. – Cristiani miei non indugiate più a convertirvi, a lasciare quella pratica, quell’odio, quella roba altrui, non indugiate a fare una buona Confessione, perché è molto probabile, che anche dalla parte vostra vi si renda quasi impossibile convertirvi, e dire ancor voi con costui: non posso, non posso. Non perché non siate per potere in ogni tempo, se vorrete; perché la grazia sufficiente non è mai negata a veruno il quale almeno la chieda ma perché ad uno sì male abituato vi vuole altro, che grazia sufficiente, ci vuole quella grazia che da Sant’Agostino vien chiamata trionfatrice; quella che abbatte ogni perfidia; quella che atterra ogni protervia, quella, che doma ogni ostinazione; la grazia efficace voi dovete sapere che Iddio non è tenuto a darla a niuno, né per legge di provvidenza, né per legge di Redenzione, e non vi par giusto, che la neghi  a coloro i quali tante volte che la poterono conseguire, non la curarono? Dixerunt Deo recede a nobis scientiam tuarum viarum nolumus: certo che sì! Son pur stolti quei peccatori che con tanta franchezza dicono, se non mi pento adesso, in questa Quaresima, in questa Missione, mi pentirò un’altra volta, verrà un Giubileo, una Solennità; quasi che il pentirsi, il ravvedersi, il convertirsi stesse totalmente nelle loro mani, in loro potere. Sappiate, miei UU, che siccome è vero, che niun peccatore, che di cuore si penta, vien mai rigettato dalla Divina Misericordia, così niun peccatore può mai convertirsi di cuore, se Dio con la sua misericordia non l’aiuta; che cosa è quello che dà il colore al mare? voi mi dite: il fondo del medesimo: è vero; ma è altresì vero, che glielo da anche il Cielo; anzi dovete sapere, che a dar quel colore vi concorre più il Cielo, che il fondo medesimo di tante acque. Così appunto cammina nel caso nostro:
quello che fa volere il nostro pentimento, la nostra conversione, non è solamente la nostra volontà, ma anche la volontà di Dio; anzi più quella di Dio, che la nostra. Come dunque avere ardire di dire: mi pentirò un’altra volta; se ciò non sta solamente nelle mani nostre; ed ora che Iddio ve ne dà l’impulso, rifiutate di farlo? Sentitemi bene: con le nostre sole forze naturali possiamo si bene cadere in peccati gravissimi; ma caduti che siamo, con le nostre sole forze non possiamo uscire e risorgere; può bensì un orologio da per sé scomporsi, e guastarsi; ma guastato che sia, da sé non si può raggiustare; vi vuole la mano maestra dell’artefice. Come dunque vi compromettete della conversione a vostro capriccio? Non indugiate a tornare a Dio, mentre ora Egli vi chiama, vi assisterà con i suoi aiuti; che se non risponderete, è probabile vi abbandoni. Intendetela una volta: senza Dio non possiamo niente; sentite San Paolo: Non sumus sufficientes cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis, sed sufficientia nostra ex Deo est; e chi dicesse il contrario direbbe un’eresia; Archita ingegnere celeberrimo fabbricava alcune sue colombe mirabili, e con tale arte, che volavano per l’aria, avendo compaginato dentro di esse alcune soste e ruote segnate, le quali dessero impulso al volo, ma quando l’impulso mancava, le colombe cadevano a terra; e la ragione si è perché per sollevarsi al volo avevano bisogno d’aiuto estrinseco di strumenti, e di soste; ma per cadere bastava il loro proprio peso: così siamo noi; per precipitarci ne’ peccati basta il peso d’una nostra natura; ma per fare una buona Conversione abbiamo necessità di Dio; e come volete, che Egli ci dia mano, mentre noi non gli diamo orecchie or che ci chiama? Ah che Egli per verità adirato con noi, è molto probabile, che non voglia più sentirci. Voi ben sapete, che ogni ribellione di città è il maggior delitto di violata fede: con tutto ciò il principe non vien subito al castigo: la chiama ad arrendersi, con ricordarle i benefici e favori compartiti. Quando ella persista nella disobbedienza viene alle minacce: e quando queste non bastino, vien a dar segno de suoi gravissimi sdegni; ma quando poi la trovi ostinata, e pertinace nella ribellione, allora il principe sdegnato non la chiama più alla resa, a ritornare all’obbedienza giurata, come la prima e seconda volta; ma con poderoso esercito, si porta fotto le mura, la costringe ad arrendersi, e poi severamente la castiga. Tanto seguirà col soprano Principe Iddio: voi vi ribellaste perché ammetteste il demonio nel cuor vostro col peccato, vi chiamò a tornare a Lui, ricordandovi i benefici compartiti di roba, di nascita, di talenti e voi ostinati, vi chiamò per mezzo delle minacce de’ sacri oratori, e voi pertinaci, vi ha chiamato a voce di castighi, con carestie, con terremoti con mortalità d’armenti, con inondazioni di fiumi, con morte di figli, di consorti, di padre, e voi persistete? Ah! se ormai non vi arrendete, io posso temere, che sia l’ultima chiamata: e però non vi fidate di star ostinati a queste voci, con la speranza di poterlo avere a voi propizio quando vi piaccia; questo è un inganno grandissimo, che vi mette in cuore il demonio, per potervi con più sicurezza rovinare. Il dipingere le navi, l’indorar la poppa, l’intagliar la prora, il fregiare di bizzarri arabeschi tutte le sponde è stata un’arte finissima per ricoprire i pericoli a chi naviga, e per torli dal pensiero d’osservarli: Pericula expingimus juvatque ad mortem speciose vehi, disse colui. Tanto fa il demonio con noi, procura di nascondere i pericoli della dannazione, con inserire ne’ nostri cuori una certa speranza di salute con un futuro pentimento; con questa speranza ci fa navigare in alto mare: ci fa immergere fino a gli occhi nelle disonestà, nelle crapule, negli odii, nelle bestemmie e negli interessi peccaminosi, e quando siamo in alto mare, e bene ingolfati nelle scelleraggini, ci suscita una tempesta, viene una malattia inaspettata, un accidente non previsto, e si resta estinti nel corpo, affogati nel fuoco con l’anima. Peccatori miei amatissimi, aprite ora per tempo gli occhi per conoscere le astuzie del demonio, il quale vi va lusingando con la speranza che vi convertirete per avervi con più sicurezza nell’inferno. Si, si miei UU. quelle speranze di pentimento fondate sull’avvenire, altro non producono che aborti di dannazione. Sentite, o mal consigliati Cristiani, con voi parla Salviano: Usurpata absolutio damnationem parit; il troppo presumerci di poter aver con pentimento la conversione quando pare e piace, fa che ci precipiti l’anima, e per renderci certi di questa verità, egli ci chiama, e ad alta voce ci dice, venite: ecco, che io vi schiudo con la chiave dell’eternità la porta dell’inferno. Orsù vedete, mirate, osservate. O che orrore! oh che spettacolo! che disperazioni! Non vi paventate, non vi ritirate: vedete voi, dice Salviano, colaggiù quei sensuali, che tra quelle fiamme ardono di continuo, ed arderanno per tutta un’eternità? Saprete, che finché vissero mai disperarono di salvarsi; anzi più volte con sperare un vero pentimento, ne concepirono una ferma speranza, e si figurarono di vedersi un giorno preparato un trono di gloria, come fu già veduto da’ discepoli del grande Antonio per Taide la peccatrice. Vedete là in quel cantone quei vendicativi, che l’un l’altro in quello stagno di zolfo ardono, ed a vicenda rabbiosamente si lacerano? siate pur certi che anche essi finché vissero ebbero pensiero di pentirsi, e si crederono a guisa di Giov. Gualberto stampare in fronte all’inimico un bacio di pace, e nell’anime loro un certo contrassegno di salute: ma perché troppo lo sperarono, e perciò si dilungarono la conversione, ed or si trovano dannati. Non vi lusingate o peccatori, con dire: mi pentirò, mi convertirò. Iddio vi chiama ora, se non vi arrendete è probabile che stanco vi volti le spalle, e con la briglia sul collo vi lasci correre tanto, finché giungete all’inferno. Non si dica più farò, farò; ma si metta la mano all’opera, perché procrastinando di giorno in giorno la conversione, v’assicurerete nel pericolo, dormirete sul precipizio e vi sveglierete dannati.

LIMOSINA.
Quelle fontane, che la natura fa sorgere in cima de’ monti non son fatte, perché ne godano i soli monti, ma perché tosto che i monti sono inzuppati, passino in pro delle valli. Così pure è delle facoltà date da Dio ai ricchi, ai comodi: non le ha date loro perché si stagnino, e si putrefacciano in loro, ma perché dopo il loro bisogno, passino a benefizio de’ poveri. Fate dunque parte di ciò ch’avanza ai miserabili, che si raccomandano per aiuto alle loro necessità, e questo atto di compassione, vi disporrà il cuore ad un salutare pentimento.

SECONDA PARTE

Non indugiate più à convertirvi, perché  Iddio adirato vi volterà le spalle, giacché tante volte finora v’ha chiamato, e voi non avete corrisposto. Il Tamberlano, quel soldato sì generoso che ha fatto più volte patire, e dissi anche doloroso, alla luna ottomana; quando andava all’assedio d’una piazza, subito spiegava bandiera bianca, con cui faceva intendere alle milizie nemiche, che voleva la resa, trovandole restie, inalberava nel secondo giorno la bandiera, rossa; e quando non si arrendessero, faceva, che si esponesse una bandiera nera, acciò intendessero, che non avendo voluto cedere agl’inviti, sarebbero stati tutti preda di morte. Così appunto farà Iddio con voi: ha spiegato bandiera bianca, chiamandovi ad una vera conversione con ispirazioni per mezzo di Sacerdoti e Predicatori; ha spiegata la rossa, mandandovi delle tribolazioni: ecco che spiegherà la terza nera, che altro non vuol dire che morte, e morte eterna. Cari UU. qua si tratta del maggior negozio di tutti. Voi sapete che Eliezer, come si narra nella Genesi, famoso servo d’Abramo, dopo un disastroso viaggio arrivò a Nacor città di Mesopotamia, per cercar sposa di conto al giovane Isacco. Subito giunto, fu cortesemente ricevuto, ed ognuno diedegli segni di non ordinario affetto, compatendolo del lungo viaggio ed offrendogli ristoro: Et appositus est panis in conspectu ejus: Eliezer però rivolto verso di coloro che gli ammannirono la tavola, gli disse: non vi affrettate no, perché vi giuro che non prenderò boccone, se prima non vi avrò esposte le mie ambasciate: non comedam donec loquar sermones meos: e così in piedi prima di deporre gli abiti di campagna, non solo espose i desideri di Abramo, le preminenze d’Isacco, le ricchezze, e che so io, ma volle interamente concludere il parentado e fermar le nozze, e così ne ritrasse risposta concludente: eh Rebecca, En tolle eam, fit uxor domini tui; gran fretta, direte voi, di questo servo, gran furia? Poteva riposare, poteva cibarsi, e poi parlare, e poi concludere; e non è così; chi ha negozi grandi di premura, non ammette dimore, non comedam, non comedam donec loquar sermones. In hoc ostendit, dice il Lirano, babere negotium sibi impositum cordi; così appunto avete da far voi dove si tratta di anima. Siete caduti in peccato? Dite ancor voi non comedam, finché non abbia vomitato a’ piedi del Sacerdote il mio misfatto; avete fraudata la mercede al povero? Non comedam, finché io non gli abbia appieno soddisfatto; avete infamata quella fanciulla, quella maritata, quella vedova, quel Sacerdote? Non comedam, finché non li ho riposti nel suo onore, perché so, che se tarderò, questa mia conversione mi si renderà difficile dalla parte mia, dalla parte del diavolo, dalla parte di Dio. Queste tre difficoltà esperimentò quella rea femmina nella città di Viterbo, alla di cui morte si trovò uno de’ nostri Padri che a me ha narrata la funesta tragedia. Si ridusse alla morte questa empia; da’ parenti fu chiamato un nostro Padre per assisterla; andò, e vedutala le disse: vi conosco moribonda; eccomi in aiuto dell’anima vostra, per assolvervi da’ vostri peccati. Non voglio assoluzione, arrabbiata rispose la donna. Come, e non volete riconciliarvi con Dio? No, che Egli non mi vuol più! Non è così; sperate… appunto e non vedete, che la mia camera è piena di diavoli che mi vogliono strozzare? Dite almeno queste parole: credo; non posso … perché? Non credo; dite: spero … non posso, perché? Son disperata; dite amo: questo no, no, che non l’amo. E voi siete fuori di voi… non è così, sono in me, non deliro; voi siete il Padre tale, e quella è la mia comare; conosco tutti, non v’è più rimedio per me; è impossibile la mia salute per la parte mia, che ho il cuore indurato; per la parte de’ diavoli, che mi circondano come sua, per la parte di Dio, che mi ha voltato le spalle, ed in così dire apparve come strozzata da’ diavoli, e divenne nera come un carbone,
pestilente come una sozza cloaca. Peccatori non tardate a convertirvi per non trovarvi in questi frangenti. Ricordatevi, che gli Apostoli agitati dalla tempesta del mare non conobbero Cristo, ma lo stimarono fantasma; e la ragione si è perché: erat quarta vigilia noctis. Questo interverrà a voi, se indugerete a convertirvi; non conoscerete il Redentore… putabitis phantasma. Vi porrà il confessore avanti gl’occhi il Crocifisso, e voi inorridito, striderete, fantasme … mirate vi dirà, quei chiodi, son chiavi per aprirvi il Paradiso: fantasme … Queste Piaghe son porte per le quali si entra in Cielo: fantasme … Questo Sangue è il prezzo che riscatta dall’inferno: fantasme. In somma perché indugiaste a convertirvi, abbandonato da voi, da Gesù, darete nelle mani de’ demoni vostri nemici, che Iddio ve ne scampi.

QUARESIMALE (XXVI)

QUARESIMALE (XXIV)

QUARESIMALE (XXIV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMAQUARTA
Nella Feria terza della Domenica quarta


II tesoro scoperto a’ peccatori nella preziosità dell’anima.

In die Festo mediante ascendit Jesus in Templum. San Giov.: cap. 7

Considerò Giovanni Crisostomo, con le pupille attonite per lo stupore, quel maestoso tempio di Gerosolima in cui nihil erat quod auro non tegeretur, ed in esso nulla più ravviso’, salvo che l’ombra d’un’anima, Unicum Templum diruit Dominus Jerosolymis, et innumerrabilia erexit illo longe venerabiliora, vos inquit, Templum estis Dei viventis. Or se così splendida è l’ombra, che deve essere la vera luce, l’anima! Ah, che ella è sì preziosa, che non v’è cosa creata, che la superi, e basti dire che è abitazione di Dio, e che qui veramente ascendit Jesus, come in suo Tempio. Diamo dunque un’occhiata al gran tesoro, che è l’anima, ed alla poca stima che taluno ne fa; acciò risolva una volta, renderla abitazione di Dio. E son da capo … – Non v’è giocatore, che senta meno d’afflizione nel perdere il suo, di chi si pone a giuocare sulla parola. Quel non vedere ciò che si perde, riesce un impoverire tanto più dolce, quanto meno osservato. Ecco la maniera con la quale giuocano tutto il giorno i peccatori. L’anima col diavolo giuocano come per polliza, senza numerare, o pensare ciò che essi perdono. M’indurrei, sto per dire, a perdonarli questa gran pazzia, se almeno e’ ricordassero, che giuocano da davvero, e non da burla. La maniera, a mio credere, più efficace per emendare un tal uomo è porli avanti gli occhi quella ricchezza medesima, che egli troppo facilmente perdendo, disprezza. Così Agrippina bramò correggere il suo figlio Nerone, che in un sol giorno arrivò a sborsare ad uno ottocento mila scudi. Fece ella adunare insieme in monte quella gran somma d’oro; e poi: questo, disse, o Figlio è quel poco, che voi ieri buttaste. Voglio anche io valermi di questa regola; e vedendo tanti che per nulla giuocano, e perdono l’anima loro, voglio porli avanti gli occhi il gran tesoro che buttano, la gran perdita che fanno. Non v’ha dubbio, che la preziosità dell’anima non può conoscersi qual ella sia qua giù fra noi; e che solo ben si conoscerà quando farà nel suo proprio lume in Paradiso. L’anima finché è chiusa nel nostro corpo non mostra il suo bello a guisa della conchiglia, che serrata non palesa la bellezza della perla che racchiude. Non è però che io non voglia darvene al meglio, che so qualche notizia. Sentite come parlano dell’anima anche coloro che non avevano bagnata la fronte d’acque battesimali. Aristotile ci dice che l’Anima è un ristretto virtuale di tutte le creature: est quodammodo omnia. Parli Seneca, che quantunque privo del vero lume della Fede, asserì ad ognuno, che quanto ha di buono è l’anima, cogita in te præter animam nihil esse mirabile; ed il padre della romana eloquenza giudicò sconvenevole ogni paragone alla sua grandezza, attribuendoli solo il Divino, con dire: Humanus animus excerptus ex mente Divina cum nullo alio, ni si forte cum ipso Deo, si hoc est fas dictu, comparari potest, il che quantunque fosse un iperbolico trascorso di lingua, non deviò però dalle Cattoliche verità. Sebbene, a che cercarne la preziosità da Aristotele, da Seneca, da Cicerone? E non è forse la Fede che ci dice esser l’anima una sostanza spirituale spirata in faccia all’uomo dalla bocca di Dio? Spiravit in faciem ejus spiraculum vita. Dunque l’anima nostra è d’origine celeste, benché cittadina terrena; e come tale, se ebbe principio, non avrà mai fine. Ella è degna d’esser stimata per la sua preziosità intrinseca; essendo una vera immagine di Dio; e perciò l’opera più bella che sia uscita dalle mani della Onnipotenza Divina. Manus tua, Domine, fecerunt ed o quanto stimabile per la sua preziosità estrinseca! Avendomi Dio fatta stima sì alta, che ha voluto mandare il suo Figlio in terra a’ ludibri, a’ flagelli, alla corona di spine, alla croce, alla morte per ricomperarla dalla schiavitù di satanasso: Magna res est anima, quæ Christi Sanguine redempta est. Erigete, dirò io pertanto con Agostino, a chiunque m’ode, erigete anima tanti vales; gloriati pure, o anima di te stessa; perché tu sei di prezzo senza prezzo. O anima quanto sei stimabile! E pure sì poco conosciuta dagli uomini, mentre la pospongono ad ogni più succido piacere, e l’oltraggiano con i peccati; sicché bisogna dire, nescit homo pretium ejus. E perché non ho io qui un paio di bilance, ma non già quelle del mondo, le quali fanno apparire di più peso la terra che il Cielo: Mendaces Filii bominum in stateris: Le vorrei simili a quelle di Teodorico il Savio, il quale intendendo che con pesi falsificati si riscotevano i pubblici pagamenti della plebe ed i tributi esorbitanti de’ principi, comandò subito che le bilance si riformassero ad libram cubiculi regii, alla misura delle regie bilance; che vale a dire bilance perfettissime, bilance di tutta sincerità; poiché con queste spererei di farvi conoscere in parte l’inestimabile prezzo d’un anima. Poniamo dunque su queste, da una parte l’anima, dall’altra quanto v’è di prezioso nel mondo di gioie. Qua presto tutti i carbonchi de’ Garamanti, tutti i coralli della Sicilia, tutti gli smeraldi della Scitia, tutti i diamanti dell’Arabia, tutte le perle della Pescheria: né qui mi fermo. Aggiungete a questo gran tesoro di gemme quanto di danaro conservano ne loro erari tutti i principi d’Italia; passo avanti, quanto ne possiede ogni monarca del mondo. Or pesiamo. Ah che troppo vi corre: assai più, e di gran lunga pesa l’anima sola del più vile uomo che viva sopra la terra. Che dite? Credete voi veramente che l’anima vostra sia più preziosa di tutti i tesori e di tutte le gemme preziose del mondo? Padre sì, Padre no, perché tu o donna hai dato il tesoro dell’onor tuo, mancando di fede al consorte per un poco d’argento. Ma perché tu o fanciulla deste la più preziosa gioia che ne avessi, la pudicizia, la verginità, per un lucro vilissimo, per un brillo, per un dono di fiera? No, che non stimi l’anima, o mercante, più preziosa di tutti i tesori, perché tu per avere quel piccolo guadagno non curi l’anima oltraggiandola con bugie, con falsità, con giuri, spergiuri e bestemmie, no, che non la stimi più preziosa o nobile d’ogni gemma; perché tu per avere maggior facoltà non curi l’anima; sottoponendola alle ingiustizie, alle frodi, agl’inganni. Ma diamo di nuovo un altro peso per eguagliare almeno, se non altro, il peso e prezzo dell’anima. Ecco, che la pongo dall’una parte della bilancia, e dall’altra vi si ponga il valore di quante sono le gloriosissime città d’Italia. Dissi poco; di quante ne domina la Spagna, ne comanda la Francia, ne regge l’Impero Cristiano. Più; se vi si ponga l’Europa tutta con la grandezza de’ suoi monarchi; l’Asia con la sontuosità de’ suoi coronati; l’America con la nobiltà de’ suoi principi; l’Africa con la magnificenza de’ suoi Imperi. Alza ora uditori miei, che tengo su la bilancia, il valore d’un mondo. Ah, che di gran lunga supera il valore d’un’anima; né sono paragone proporzionato i regni della terra con la preziosità d’un’anima. Dico bene o dico male? Dico il vero oppure il falso? Voi mi rifpondete, che dico il falso, se non con le parole, certo co’ fatti; perché voi per possedere non una parte del mondo, non un regno, non una provincia, non una città, ma talora un piccolo feudo, un’entrata maggiore, un misero guadagnuccio non vi curate di perder l’anima con frodi indegne, con instrumenti falsi. No, perché per aver un dominio maggiore non guardate a precipitare intere famiglie. Diasi dunque l’ultimo peso, e si faccia l’ultimo confronto, ponendo sull’altra parte a dirimpetto dell’anima un tesoro maggiore di tutto il mondo. Eccolo, vi si pongano degli uomini sì regi, come imperatori e pontefici, non solo stati e che saranno, ma ancora possibili a tutte quelle vite di monarchi sì grandi, e non è forse un’anima assai più preziosa? Mercè che ella è immortale, e tutte le vite degli uomini hanno da finire. Ah, che sento chi mi dice: presso di me è più preziosa la vita di quella dama a cui servo, di quel cavaliere a cui corrispondo, che non é l’anima. Avete ragione, dite il vero; perché per questi fare getto dell’anima?Tacete, v’intendo, presso di voi val più la vita dell’innamorato, del padrone, della serva, che tutta l’anima vostra. Ah miseri! che nulla stimate il gran tesoro, che dentro di voi racchiudete. Che farò io dunque per indurvi à prezzarlo? Io non posso far altro, che porvi avanti gli occhi la stima, che hanno fatta dell’anima vostra, quei che se ne intendono, e che ne hanno più cognizione di voi. Diteci dunque o voi che vivete a Dio, o nel mezzo del mondo, o ne’ chiostri religiosi: e perché passate la vita in digiuni, in asprezze, in vigilie, in orazioni? Perché, Figli riveriti del Serafico Padre S. Francesco, vi vedo vestiti di ruvido sacco, cinti di rozza corda, sempre con piede nudo anche ne maggiori rigori del verno, perché vi nutrite sempre di cibo vile e mendicato? Ditemi perché? Ecco la risposta: perché vogliamo mettere in sicuro il bel tesoro che abbiamo, l’anima nostra. Perché, o Vergini consacrate a Dio nel chiostro, vi siete ritirate dal mondo; avete abbandonato parenti, amici, e quanti avevate del vostro sangue? Perché avete lasciate le ampie facoltà, date le spalle alle pompe; ed abbracciata col disprezzo la povertà? Dite: perché vogliamo assicurare l’anima nostra. Cari UU. questi, che sono veri intendenti del prezzo dell’anima così operano; e voi, e voi alle crapole, a’ lussi, agli spassi, a’ giuochi, a’ balli, a veglie, agli amori per annichilare il bel tesoro che avete dell’anima vostra. Io non vi dico che a guisa d’Alessio abbandoniate le spose; rinunciate alle comodità; vi poniate in stato mendico. Mi basta, che non contaminiate l’altrui letto; che abbandoniate quell’amicizia; che non amoreggiate con vampe indegne; lo non vi dico, che a similitudine di Francesco di Assisi dispensate a’ poveri quanto avete: ma che non succhiate il lor sangue mendico. Eh via, principiate a far la stima dovuta dell’anima vostra, già che vedete, che gli uomini da bene, che ne conoscono il prezzo, tanto la stimano. E l’anima quando non vogliate credere a questi intendenti; date fede a quelli che ne sono più periti, e che vedono l’anima nel suo lume. Tali sono i Santi, che regnano in Cielo. Io, vi dirà quel gran Patriarca Domenico, or che vedo nel suo proprio lume la bellezza d’un’anima, conosco, che pochi furono i patimenti che tollerai per fondare la mia Religione, acciò tutta impiegasse a salute dell’anime. Pochi furono, vi dirà Francesco Saverio, i miei stenti, i miei sudori per salvar anime. Li dieci anni che spesi per la salute di tante erano ben impiegati per un’anima sola: tanto ella è stimabile. E pure una gioia tanto stimata dagli uomini da bene nel mondo, da’ Santi in Cielo sì poco si prezza da tanti peccatori; anzi si strapazza con odi, con bestemmie, con spergiuri, con amori, con laidezze. Come è possibile, che un’anima così preziosa da voi sì poco si prezzi? Orsù, giacché le mie voci col testimonio de’ buoni e de’ Santi al vedere, non bastano per farvi conoscere la preziosità dell’anima, lo saranno forse quelle dell’inferno, ed essendo queste a voi più amiche, avranno forse maggior forza da persuadervi. Tanto più, che dimorando colaggiù gente peritissima, potranno darvene certe le informazioni. Interrogate, miei UU., uno di quegli spiriti ribelli che precipitosi caddero dal Cielo nel più cupo profondo degli abissi, che cosa sia anima; e sentirete rispondervi: io, che pur sono più d’ogn’altra creatura superbo ed altero; io, che gareggiar volevo col mio Creatore, e farmi simile all’Altissimo; io, io per l’acquisto d’un’anima pur volentieri m’abbasso, m’umilio, e mi soggetto all’uomo, con servirlo, con ubbidirlo. lo, che fui annoverato tra le angeliche squadre, benché tumido, e gonfio per alterigia, ad ogni modo desideroso di acquistar un’anima servii per lo spazio di sei anni ne’ più vili ministeri che immaginar si possano, un vilissimo Fantaccino, fino a farmi sgabello de’ suoi piedi con le spalle del corpo, che avevo assunto; ogni qual volta voleva montare a cavallo, e speravo ben impiegate le mie umiliazioni, la mia servitù; perché so quanto sia preziosa un’anima; ed altrove costretto il demonio a forza d’esorcismi ebbe a dire per bocca d’un energumeno, che per un’anima tutti i diavoli, se fosse possibile, che a guisa d’uomini potessero patire nel corpo, volentieri si lascerebbero precipitare dal Cielo in terra per una scala ripiena tutta di rasoi, di coltelli e di ferri pungentissimi. Non ci partiamo ancora dall’inferno per bene intendere la preziosità d’un’anima, chiede un dì il demonio licenza a Dio d’esercitare la pazienza di Giob con tutto il suo diabolico talento condiscende Iddio, con questo però che non tocchi anima: Verumtamen animam illius serva. Sfoga dunque il demonio le maggiori rabbie d’inferno, ma in vano; perché Giob quanto più combattuto, tanto più si rende forte, onde è, che tornato lo spirito infernale da Dio, sente dirsi: or che ti pare della pazienza del mio servo Giob? Ah che egli prontamente: e chi non sa, che l’uomo per salvar l’anima porrà ricchezze, figli, sanità, e vita? Cuncta, quæ babet homo dabit pro anima sua. Ah peccatori, grida qui contro di voi Origene, udite. Lo stesso demonio dice ed asserisce esser l’anima sì preziosa, che deve preferirsi a figli, a moglie, a’ mariti, reputazione, a roba, a tutti i beni del mondo: satan ipse omnia pro anima daturum hominem dicit; e voi con strapazzo più che diabolico la posponete a quel ballo, ove con piè leggero gravemente calpestate la modestia; a quella amica che con la morte dell’anima v’appresta il corpo; a quell’interesse, che vi renderà povera la vita, e mendico lo spirito; a quella nemicizia, che partorirà a voi un colpo che fermi il corpo in mezzo ad una strada e butti l’anima nell’inferno. Lasciate, deh lasciate, che io, o miseri peccatori, esclami con Salviano, e me la prenda contro di voi, che sì poco fate conto dell’anima; lasciate pure che io gridi fino alle stelle, che ne ho ben ragione, quis furor viles a vobis animas vestras haberi, quas et diabolus putat esse pretiosas? Che furore è mai questo, o Cristiani, che pazzia è mai la vostra, stimar si poco quell’anima creata da Dio, redenta da Dio  mentre tanto la stimano i diavoli e la prezza l’inferno. Ma passiamo agli altri periti, che sono gli Angeli. Spiriti Angelici Santi, voi che state custodi al nostro fianco, diteci, che cosa è un’anima? Udite la risposta: io, dice uno di loro, benché Principe del Soglio Celeste, benché di natura superiore all’umana, benché sempre beato; con tutto ciò non sdegno di servire all’uomo per vile ed abietto che sia: l’ammonisco con esortazioni e lumi interiori; lo consiglio, l’aiuto, mai l’abbandono, io, io son quello, che mi umiliai in forma di chirurgo per sanare le piaghe di Cristina; che mi feci cameriere scopando la stanza d’Aurelio; m’abbassai fino al vil mestiere di bifolco, e di marinaro, guardando gli armenti d’Isidoro, e guidando la barca di Basilide. Or io replico adesso  … ditemi, per qual motivo una sì nobile creatura, un purissimo spirito, un Principe del Soglio Celeste soggettarsi a tante bassezze? Ah, che non per altro al certo, se non perché l’anima è preziosa sopra quanto può trovarsi di prezioso. Tutto è vero; ma ad ogni modo non vogliono i peccatori stimar l’anima, benché gli Angeli la stimano, la vogliono morta tra quelle lascivie, tra quelle mormorazioni, tra quelli odi, tra quei maledetti interessi. E che posso dunque fare io? Io non posso far altro se non che gli confermi il valore lo stesso Dio. Egli dunque, che è eterna Verità, che è infinita Sapienza, che conosce il giusto peso di tutto il creato vi dia la notizia accertata della preziosità d’un’anima. Cristiani date orecchio alle parole, attenzione al discorso: è un Dio che parla, audiat terra verba onis mei. Per l’Anima, dice Iddio nostro Redentore, scesi dal seno dell’Eterno Padre; per l’anima nacqui in una stalla, tra due animali; per l’anima vissi in miserie, tollerai patimenti, soffersi ingiurie, mi sottoposi a fieri strapazzi per l’anima in somma diedi il corpo ai flagelli, il capo alle spine, le mani ed i piedi a’ chiodi, per esser confitto in una croce ove per l’anima ignominiosamente fra due ladri come capo d’assassini spirai la vita in braccio a dolorosissima morte. Gridi pur Bernardo dal suo eremo di Chiaravalle magna res est anima, qua Christi Sanguine redempta est; gran cosa è l’anima, mentre per ricomperar la vi è voluto il Sangue di Cristo. Io non ho che dir di vantaggio, o peccatori; e se non arrivate à conoscere il prezzo dell’anima vostra e la sua preziosità, mentre vedete esser costata il sangue e la vita d’un Dio, che posso io fare? O cosa invero deplorabile! Vede apertamente il peccatore che l’anima sua, costata a Dio tanto sangue, va in rovina, ed ad ogni modo non vi pensa; vede che già sta con un piede nell’inferno, e non riflette: sa di certo, che egli è in disgrazia di Dio, e che ad ogni momento lo può coglier la morte e mandarlo in eterna dannazione ed egli, come se non fosse fatto suo, come se non gli importasse niente, ne vive totalmente spensierato; e quel che è peggio, ride, scherza, burla. Deh aprite gli occhi al ricordo di Santa Teresa, lasciato a’ suoi figli e figlie: Memento unicam esse animam, unicam esse gloriam, pensate e seriamente pensate, che avete un’anima sola, e che se la perdete, è perduta per sempre. Peccatore, peccatrice, rispondi alle interrogazioni di San Giov. Crisostomo, il quale sopra quelle parole: Quam dabit homo commutationem pro anima sua? Così dice: si non aliam habes animam, quam possis pro anima tua dare? Dimmi, o tu, che sì poco prezzi l’anima tua: quante Anime hai? Perduta che ne abbi una, te ne rimane forse un’altra, con cui tu possa riparare la perdita della prima? Certo che se hai fede, confesserai di non aver che un’anima. Un’anima sola dunque ti trovi, e ne vivi sì trascurato? E la vedi andare in rovina, in perdizione, e non ci rimedi? Io per me so che di quelle cose delle quali l’uomo non ha più che una, ne tiene cura straordinaria. Fate che quel padre di famiglia non abbia più d’un figlio, voi vedrete che se ne prende un grandissimo pensiero. Oh come l’accarezza! Quanto amore gli porta! E se per disgrazia gli si ammala, voi vedrete che il buon padre non trova quiete, gli porge a tempo prefisso i medicamenti; e se mai morisse quel figlio, o che pianti! O che sospiri! Non vi sarebbe voce o di amico o di congiunto presente, non vi sarebbe penna d’assente che lo potesse consolare. Perdonatemi Angeli Santi, che assistete al Trono di Dio; se scendo a paragoni assai più vili. Lo fo per più confondere il peccatore. Fate che quella dama abbia per suoi onesti sollievi un cagnolino, che compagno fedele la segua ovunque ella si porti; s’ammali questa bestiola; non si perdona a spesa; si fa talora vegliare chi v’assista per vedere i combattimenti del male; s’adoperano medicamenti, e sol si desiste dal chiamar medico per sicurezza o di negativa, o di riprensione. Se poi a forte morisse l’amato cagnolino, sono sì copiose le lagrime dell’addolorata padrona, che non cessano per giorni, e forse per mesi. Or, se tanta cura si ha d’un figlio … che d’un figlio? D’un animale, d’una bestia, che la lor perdita tanto ci affligge, perché una sola ne abbiamo; è possibile, che dell’anima, che non solo non ne abbiamo più d’una, ma neanche ne possiamo aver più, così poco ce ne prendiamo cura e così poco ci duole il perderla? Voglio finire a pro dell’anima con quella gran sentenza la quale ben ruminata ha partorito a tanti il Paradiso. ́ Ah Dio, che se perdete l’anima, avete perduto il tutto; e se salvate l’anima, avete posto in sicuro il tutto: Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? Quid prodest? Rispondete o cavalieri; che vi gioverà aver atterrato l’inimico, accresciute le facoltà con mercedi ritenute, con estorsioni praticate; in una parola, con roba altrui? che vi gioverà l’applauso riportato in quella giostra, in quella barriera, in quell’azione cavalleresca, se avete danneggiata l’anima vostra, sicché resti eternamente dannata? Quid prodest? che gioverà? Tutto vanità, tutto nulla. Quid prodest? Parlate o dame: che vi gioveranno quelle giornate felici delle vostre nozze concluse, l’allegrezza del banchetto nuziale, che vi gioverà la pompa del corteggio, l’esser voi stato l’oggetto di tutti gli occhi, quando tutta vaga nelle ricche e capricciose vesti eri ne’ corsi da tutti ammirata, e con profondi inchini riverita? Che vi gioverà tutto questo, se l’anima vostra si perderà per tutta l’eternità? Quid prodest? Che vi gioverà? Nulla! Tutto è dato vanità, vanitas. O ecclesiastici, o regolari, o secolari che siate, dite: Quid prodest? che vi gioverà l’esser stati esaltati a gradi sublimi; l’aver ricevuto le maggiori acclamazioni? Quid prodest? Se per questi motivi voi avrete resa l’anima vostra degna d’inferno; Quid prodest e a che gioverà? Nulla! Tutto è vanità, che dura finché arrivi al sepolcro, vanitas, etc.. A che giovano o letterati le vostre cattedre, i vostri plausi, le vostre glorie? A che, o mercanti, le vostre fortune negli interessi, la prosperità ne’ vostri negozi, l’abbondanza d’ogni danaro? Quid prodest che, o giovani, l’esservi sempre ricreati ne’ piaceri, a che le conversazioni, i giuochi, a che le veglie, i canti, i balli, gli amori? A che quelle commedie rappresentate agli occhi del corpo; mentre i peccati, facevano tragedia nell’anima? A che? Quid prodest? Che gioverà tutto questo, o giovani, o mercanti, o letterati, se in fine fra pochi giorni stesi sul cataletto col corpo, avrete l’anima nell’inferno? Quid prodest? o Peccatori dopo, che vi farete ben bene satollati nelle vostre laidezze prendendovi le vostre felicità bestiali dopo che avrete saziata la vostra avarizia, la vostra vendetta, le vostre crapule, che vi gioveranno tutti questi falsi beni? Se in fine perderete totalmente l’anima vostra, che vi gioverà? Nulla! morto voi, tutto morendo con voi mostrerà, che tutto fu vanità, vanitas vanitatum. Donne, che peccaste senza punto pensare all’anima, dopo che avrete appagate le vostre voglie, e vi sarete soddisfatte negli amori; dite a voi stesse: Quid prodest? Che mi giovano tutte le mie allegrezze, contenti e vanità, mentre io mi danno? Nulla! Tutto sarà stato vanità; perché l’anima sarà perduta, vanitas. Quid prodest? In somma, che vi gioverebbe aver avuto i tesori di Salomone, le fortune d’Alessandro, l’imperio d’Augusto, le delizie di Sardanapalo, la dottrina d’Aristotele? che vi gioverebbe, o donne l’aver avuti gli amanti di una Taide, ed i piaceri d’una Venere, se poi, perduta l’anima, precipitate nelle fiamme ad ardere per tutta l’eternità … a nulla; tutto finisce; e l’anima sarebbe dannata: vanitas, et cogita itaque, mi rivolto a voi, de Anima, noli de alienis curare te, ac tua negligere. Deh rivoltate, o Cristiani, il vostro pensiero all’anima: pensate di proposito a questo; e già che ella è di tal prezzo, che per redimerla vi è voluto il Sangue di Cristo; non vogliate voi venderla per nulla, ucciderla con i peccati. Non vogliate esser più trascurati nelle cose che appartengono alla vostra salute di quello siate in quelle cose che poco, o nulla importano. Noli, noli de alienis curare et te, ac tua negligere; non vi scordate di voi stessi, dell’anima vostra, della vostra salute; per non aver a piangere tal dimenticanza finché Dio sarà Dio, ed imparare a tener conto dell’anima …


LIMOSINA
Uno de’ maggiori contrassegni di prezzar l’anima è la limosina ai poveri, e se la farete partorirà a voi, ed ai vostri discendenti la salute eterna. Udite; mi ricordo aver letto come Eutichio Senatore Romano, uomo nobilissimo e ricchissimo, allorché si ritrovava al governo della provincia di Borgogna, venne colà tanta penuria di viveri, che i poveri ne morivano di fame. Eurichio, che veramente aveva viscere di pietà, mantenne con le sue entrate in quella dolorosa carestia, più di quattro mila poveri. Terminata la penuria rimandò Eurichio tutti i poveri alle proprie case, ringraziando il Signore, che l’avesse inspirato ad una tal opera, e n’ebbe per risposta, da una voce del Cielo che gli disse: Eurichio perché tu nel tempo della fame m’hai sostentato ne’ miei poveri, ti fò sapere, che alla tua discendenza non mancherà mai la mia grazia. Tanto io dico a voi, a nome di questo Cristo. Slargate dunque la mano.

SECONDA PARTE.

I popoli dell’America tenevano da principio l’oro in più vile stima del ferro; ma osservando a poco a poco che gli Europei navigavano con tante pene e pericoli per averlo, che vi lavoravano attorno con tanto studio e che lo difendevano anche con la vita, cominciarono anche essi a farne più conto, ed a servirsene come di mezzo per supplire con quello a’ propri bisogni. Per l’addietro, miei Uditori, siamo vissuti in somma ignoranza, senza conoscere l’anima, ma ora che abbiamo avuta qualche luce della di lei preziosità, bisogna farne la dovuta stima. Ei è pur vero che con tutte queste cognizioni della preziosità dell’anima, ad ogni modo si conculcherà. E qual è la ragione? Perché più si stima il corpo, ed a questo si pospone l’anima. Pianse questa disgrazia, quasi dissi comune, d’anteporsi indegnamente il corpo all’anima quel santo Vescovo Nonno, quando incontratosi a caso nella pubblica peccatrice Pelagia, poiché vedutala tutta intenta alla cultura del corpo, e del tutto scordata dell’anima, considerolla con occhio santo da capo a piedi; e tutto pieno di confusione esclamò: Mira o Nonno, mira costei, come attende di proposito a farsi bello quel palmo di viso, che ella ha; quanto vi studia d’intorno, quanto tempo vi spende; sai a che fine indirizza tanto lavoro? A fine di piacere agli uomini, a’ suoi innamorati da’ quali all’ultimo non ne ritrarrà che assenzio amarissimo di disgusti: quantas horas facit in cubiculo suo hac mulier, ne turpis videatur esse amatoribus suis, qui hodie sunt et crastine non sunt; indi tratto dal più cupo del cuore un profondo sospiro, seguì a dire: tanto dunque fa Pelagia per piacere agli amanti, tanto coltiva il suo corpo; ed io per piacere al mio Dio Sposo dell’anima mia, che fo? Sì, che fo per l’anima mia? ed in così dire, rinnovando le lagrime, e i gemiti, rivolto a’ Vescovi astanti, e compagni: Posuit faciem suam super genua sua sie omnem sinum suum replevit lacrymis et suspirans graviter dixit ad Episcopos: costei, fratelli miei, ci griderà nel dì del Giudizio, e ci metterà contro Dio, mentre noi non avremo fatta la minima parte per l’anima di quel che ella fece per il corpo, intorno a cui consumò doti e dissipò patrimoni. Quanto disse il santo Vescovo, tanto io dico a voi: che sarà di voi nel dì del Giudizio, che tutto faceste per il corpo, e quasi nulla per l’anima? Esclamate pure, o gran maestro di Carlo Magno, e dite:  En quod corrumpitur tanta diligentia amatur quod permanet tanta socordia negligitur. Terrenum colitur, et colesie non curatur Dei imago vilescit, terræ species bonoratur.  Eppure è vero, Dio immortale! Dove è il giudizio, o Cristiani? dove è la Fede, o Cattolici? Che cosa è anima? Che cosa è corpo? L’anima è eterna, il Corpo
fra quattro dì fracido nel sepolcro per ingrassar rospi e vermi. Tutto si fa per il corpo, nulla per l’anima; e questo è quello che con lagrime di dolore amaramente deplorava San Giovanni Crisostomo: Si corpus patitur, medicos vocamus, et herbas inquirimus; Sì, sì, per purgare il corpo non si guarda a fatica, a stento, a spesa di più se dirà talora il medico all’infermo: signore, per non morire convien pigliare una buona dose d’amarissime pillole, che si prendano. Dice il confessore: per esser più certo di vostra salute convien domare la vostra carne ribelle con qualche colpo di disciplina … O questo no! C’è la pietra nella vescica (così parla il cerusico) ci vuole il taglio; son prontissimo; io stesso affilerò i rasori; replica il confessore, bisogna dare un taglio, e slontanar da sé colei … Padre non è possibile, e si dice in fatti: più tosto l’anima, che l’amica; ma Signore, replica il medico, per guarire questa cancrena vi vuol fuoco: bruciate pure; esorta il Confessore per placare Iddio bisogna fare qualche limosina; Padre non ne parlate, ho troppe spese: e pure talora la fai a quella poverella per darla al disonore, e toglierla a Dio. Per il corpo in somma si trangugia ogni più amaro boccone, si tollera ferro, e fuoco; tutto si fa per il corpo, nulla per l’anima, Animam vero vitiis laborantem negligimus, grida il Boccadoro; dove si tratta d’anima lacerata da’ vizi, neppure un poco d’impiastro per risanarla. Mutate vita; fate più conto dell’anima, se non volete perdere anima e corpo. Come appunto intervenne a quel cavaliere, il quale viveva nella corte di Corrado Re de’ Merci. Questi quanto amava il corpo, altrettanto strapazzava l’anima; il re, che era piissimo, e molto l’amava, l’ammoniva di quando in quando, e l’esortava a pensare all’anima, acciò sopravvenendogli d’improvviso la morte non fosse colto in disgrazia di Dio. Il cavaliere con sorrisi di riverenza ringraziava il re e l’assicurava, che l’avrebbe fatto a suo tempo. Avvenne intanto che sopraffatto da una malattia gli convenne darsi al letto; il re allora spinto più dalla pietà che dalla cortesia si portò a visitarlo ed instantemente pregollo che avanti si aumentasse l’infermità si confessasse. Udite diabolica risposta: sacra maestà non è questo tempo da confessarsi, mostrerei a’ miei soldati d’aver avuto paura della morte, come se fosse prodezza da capitano non temere né morte, né inferno. Non dubiti però vostra maestà, perché guarito che io sia voglio confessarmi. Invece di guarire gli crebbe il male; fu disperato della salute. Tornò il re a più fervorose esortazioni, perché si confessasse; non dava retta l’infermo; finché, quasi annoiato delle sante parole del suo re, tutto pieno di sdegno, verso di lui rivolto gli disse: sire non vi stancate perché voi non mi potete portar salute né al corpo né all’anima; non è vero replicò il re, l’anima si può salvare, se si perde il corpo. No, no, ripigliò il moribondo, per me non v’è più tempo … v’è tempo … non v’è; e se volete sapere il perché, ecco che ve lo dico. Poco prima che voi entraste in questa camera vennero qui da me due giovani d’aspetto vaghissimo ed uno di essi cavatosi dal seno un nobile libretto, me lo diede a leggere, ed in esso vidi espresso quel poco o nulla di bene da me fatto; indi ritiratosi da parte diede luogo ad un esercito di demoni, che riempirono questa camera ed uno di essi m’aprì il libro delle tante mie scelleratezze e rivolto a quei due bellissimi giovani, che erano due Angeli, disse loro: che fate qui? Costui non è vostro, ma nostro; così è, così è, replicarono gli Angeli, ve lo cediamo, prendetelo pure, e conducetelo al baratro dell’inferno. Allora gli spiriti nemici mi vennero alla vita, e due di loro, che tenevano uno spiedo per uno in mano, me li ficcarono nella vita uno per la testa, e per i piedi l’altro, ed ora mentre parlo lentamente mi vanno trafiggendo con spasimo terribile delle mie viscere, ed allorché questi ferri si uniranno insieme, io morirò dannato; ah che già mi trapassano il cuore, ah già mi pigliano, ah che già mi seppelliscono nel fuoco. Così dicendo sospirò, anima infelice, portata, come dice il Venerabile Beda, da’ demoni nella eternità delle pene; questo è quel che fa chi non pensa all’anima.

QUARESIMALE (XXV)

QUARESIMALE (XXIII)

QUARESIMALE (XXIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMATERZA
Nella feria seconda della Domenica quarta


Si fa palese che quanto Dio  benefica chi rispetta le Chiese, altrettanto castiga chi le profana con irriverenza.


Ascendit Jesus Jerosolymam, et invenit in Templo ementes,
et vendentes.
San Gio: cap. 2.

Non fu detto arguto de’ savi, fu grave sentimento de Santi, essere i Sacri Templi
piccoli Cieli della Terra, Ecclesiam non secus, ac Cælum frequenta, disse Sant’Ilo. Locus est Angelorum, regia Domus Dei, ac Cælum ipsum definì il Crisostomo; e n’ebbero ragione. Presiede nelle Chiese, miei Uditori, quel medesimo Monarca che regna in Cielo; ivi beatifica i Comprensori che, svelato lo contemplano; qui
benefica i mortali, che in enigma l’adorano; né minor gelosia ha del Cielo che dei Templi; in quello perché reperit pravitatem, ordinò ad un Arcangelo, che con spada di fuoco, fulminasse chi lo contaminava con colpe; in questi, perché vi vede ementes, et vendentes, Dio medesimo flagella chi l’oltraggia con irriverenza, et cum fecisset quasi flagellum de funiculis omnes ejecit de Templo. Or datemi licenza che io, lasciata ogn’altra superfluità d’esordio in materia di tanta importanza, sì per incitamento della pietà de’ devoti, come per correggimento della sfacciataggine de’ dissoluti, vi faccia vedere Dio quanto liberale sia in beneficare chi nelle Chiese l’adora, tanto severo in fulminare chi le profana. – Folle e temerario fu il consiglio di quel regnante persiano, il quale avendo udito dagli astrologi non essere egli rimirato con volto benefico dalle stelle, fece subito architettare nella sua regia un Cielo con tal positura di pianeti, che non solo gli volgessero benigno l’aspetto, ma gli presagissero felicissimo l’impero. Quanto tardi, tanto male avvedutosi, la temerità non fabbricar grandezze, ma precipizi. Savia però e pia è la consuetudine de’ Cattolici nell’ergersi Cieli in terra, non ad onta, ma alla venerazione di Dio, per quivi fabbricarsi la propria fortuna, e quasi dissi, mutare Dio di severo in piacevole, di sdegnato in amante, di Giudice in Padre, bene intendendo essere la pietà poco meno che l’arbitra della Onnipotenza. E che ciò sia vero, che favori, che grazie, che benefici non impetrano i fedeli da Dio ne’ Templi? – Te chiamo in testimonio o Roma, che presso al seicento, prima soffocata dalla inondazione del tuo Tevere, poi quasi estinta dalla infezione di contagiosa pestilenza, allora risorgesti a nuova vita, quando t’incurvasti nella Basilica Liberiana cessando in quel medesimo tempo la strage dell’Angelo percussore, in cui principiarono le preghiere del tuo popolo supplichevole. Te pure voglio in conferma del mio dire, o Verona, quando, come narra San Gregorio, il tuo Adige gonfio per le piogge, e per l’influsso di numerosi torrenti che in sé riceve, superando ogni sponda, rompendo ogn’argine uscì e si stese facendo d’ogni via un ben grosso fiume, della piazza un lago, della città tutta, e delle campagne un piccol mare, e degli uomini averia fatto un comune naufragio, se il popolo ritiratosi dalle case non si raccoglieva nel Tempio ad orare come in arca di salute contro quel domestico diluvio, ed infatti nel fuggire i pericoli del diluvio trovarono i privilegi del Mare Eritreo. Cresciute per ogni lato a dismisura le acque, s’alzavano alle porte, alle finestre, aperta all’ingresso ogni via; ma il non trascorrere, il non entrare, il far di sé argini e sponda fu forza d’un miracolo, che le congelò, le impietrì, e le fermò in soliditatem parietis. Cinto dunque il popolo da tanti miracoli, quante erano le acque, ebbe necessità d’un altro miracolo, perché le acque fatte già un muro non si facessero un sepolcro a quanti starebbero quivi imprigionati, penuriando e morendo di fame e sete. Eccole pertanto alla sodezza sasso, alla fluidezza fonti, scorrere per le strade, e disfarsi, liberando quel Popolo contrito. Voi vi stupite, miei UU., in udire prodigi sì belli della Onnipotenza Divina: Roma liberata da fierissima peste; Verona sottratta dalle inondazioni funeste del suo Adige; non vi stupirete però, se rifletterete tutto essere effetto di somma riverenza alle Chiese. Che meraviglia, che le Chiese partorissero sì gran bene, quando tanto erano riverite non pure dall’infima plebe, ma da’ monarchi. Leggete le Storie antiche, e troverete che Teodosio il Giovane, Imperatore di sì gran nome e stima, a cui servivano riverenti più nazioni, al di cui comando obbedivano numerose province, ed al balenar della di cui spada anche i regi s’intimorivano. Or questi, prima di por piede nella soglia adorata della Chiesa, non solo licenziava da sé quante l’attorniavano milizie, e quanti lo corteggiavano cavalieri; ma scintasi la spada, si spogliava del regio ammanto, deponeva l’imperial diadema, e tutto lasciando nei liminari della Chiesa quivi stava in atto d’ogni ordinario cavaliere con gli occhi fissi al sacro altare, ed in portamento sommamente modesto. Che meraviglia, torno a dire, che le Chiese partorissero sì gran prodigi, mentre in quei tempi era somma la riverenza de’ fedeli alle Chiese. Celebrava il Santo Vescovo Ambrogio nella Basilica maggiore della città di Milano ogni giorno i Divini Offizi con gran frequenza di gente. Si stimò offesa l’Imperatrice eretica da esercizio sì devoto, e sì pubblico. Scelte pertanto delle sue guardie due compagnie d’uomini d’arme, spietati di natura, idolatri di setta, ed inviolli alla Chiesa con ordine che trucidassero quanti sacrificavano col Prelato o assistevano al Sacrifizio. Giunta la Soldatesca alla porta della Chiesa, con urti violenti la sforzò; indi entrati i barbari fino ai liminari del Santuario, già calavano le lance per investire chi cantava; ma che? in vedere il silenzio del popolo, in udire la melodia de’ cherici, in considerare quel bell’ordine de’ ministri, in riflettere alla maestà d’Ambrogio, che celebrava, in rimirare finalmente i raggi di predestinazione che rilucevano in fronte de’ supplicanti, talmente si commossero che deposte le armature, e gettate le aste, disarmati e piangente, chiedessero ad alta voce il Battesimo; e tale e tanto fu il lume ed il fervore che concepirono per la modestia di quel popolo, e per la maestà di quel clero, che dopo breve istruzione ne’ Misteri di nostra Fede, vollero lavarsi nel sacro fonte e rinascere a Cristo. Quanto in tal congiuntura fosse il giubilo di quel santo prelato e di quel popolo, chi può mai esprimerlo? Questo però venne non poco amareggiato, quando videro che i soldati appena ricevuto il carattere di Cristo con più furia di prima si rivestirono delle armature, si cinsero le spade al fianco, ed impugnarono con mano ardita l’alabarde, sicché in quel subito stima ognuno che quei barbari avessero chinate le teste al sacro fonte non per altro, che per beffare i riti della Chiesa Cattolica; quando ben presto tornarono alle prime e maggiori alle grezze, poiché quella nova squadra di Cristo, preso posto alle porte del Tempio, giurarono tutti di difender la Chiesa da chiunque tentasse d’oltraggiarla, protestandosi di non conoscere in ciò l’augusta regnante, e minacciando animosamente, che quando ella non rispettasse quella vera casa di Dio, l’avrebbero assediata nel proprio palazzo. Eccovi le parole del Santo Vescovo nell’Epistola 33 ad Sororem: Venerunt cum armis, et circumfusi occupaverunt Ecclesiam; qui enim venerunt facti sunt Christiani, defensores habeo quot hostes putabam, socios teneo quot adversarios existimabam. Voi esclamate: o che Prodigi son questi veder barbare milizie, che venute per far strage de’ Cattolici, depongono l’armi, si fanno Cristiane, e difensori della Santa Fede. Non vi stupite, perché son tutti effetti prodotti dalla riverenza alle Chiese. Tali e sì prodigiosi effetti non si potrebbero vedere oggidì, poiché se entrassero nelle nostre Chiese i gentili, qual riverenza scorgerebbero nella plebe? Qual modestia nella nobiltà? Qual ritiramento nel clero? Ditemi; ammirati dalla devozione, chiederebbero forse d’esser prontamente battezzati? Eh Dio! Lasciate che io lo dica, eh Dio! Sarebbe tale lo scandalo che riceverebbero per la profanità de’ discorsi, per l’irriverenza di chi volta le spalle al venerabile Sacramento a titolo di compiacere o al prurito della lingua o alla curiosità degl’occhi, che stomacati volterebbero. Sì, dico, volterebbero le spalle, perché vedrebbero le Chiese di Cristo posposte alle anticamere de’ principi, ove per riverenza del monarca, o non si parla o se si parla, appena si articolano le parole; e nelle Chiese si articolano le parole? non solo si articolano, ma si proferiscono talora le più insolenti, le più sconce, le più laide, quelle che talora per gran timore non avrebbe ivi ardire di pronunciare un diavolo d’inferno; né solo non si tace, ma vi si fa strepito tale, di riverenze, di saluti, d’inchini, che spesse volte son costretti a fermarsi nel Sacrifizio i Sacerdoti, ed ad interrompere da pergami le prediche fatte. Oratore. Se bene, che parli? mi rimprovera San Gio. Crisostomo; dovevi dire che le Chiese si pospongono non alle anticamere, ma ai teatri stessi di commedie, ove par che le scelleraggini abbiano porto di franchigia. Piacesse a Dio che si rispettassero i tempi, come si rispettano i saloni delle commedie. Basterebbe, per così dire, che in tal guisa si trattassero i Sacerdoti, quando alzano l’Ostia consacrata, come son trattati gl’istrioni quando rappresentano in palco o le frenesie di Didone, o le mascherate di Giove. Basterebbe che alle scene si eguagliassero gli Altari; può mai chiedersi cosa inferiore a questa? E non impallidite a paragoni simili? Udite ciò che dice Crisostomo: si nega a Cristo ne’ Templi, ciò che si concede a’ commedianti ne’ palchi; non v’è, dice il Santo, non v’e giovinastro sì scorretto, né femmina sì dissoluta, che al calar della tenda non si acquieti e non oda con somma attenzione ciò che espone la favola, eppure l’autore di essa è il demonio, ed il contenuto sono sciocchissimi sacrilegi. Ad ogni modo, se in tanta moltitudine alcuno si scomponesse con i gesti, o si strepitasse con le parole, l’udienza tutta lo sgriderebbe, ed a forza di bastoni lo caccerebbe fuori: Cum in Theatro Chori canunt Satanici, summa quies, et magnum silentium. Per l’opposto, nella Chiesa, ove si leggono gli Evangeli di Cristo, si cantano Salmi di David, si vedono talora circoli scandalosi, ove non manca chi con ciarle moleste offenda le orecchie di chi ora; Hæc ne grida il Grisostomo, sunt tollerabilia hæc ne ferenda? Son cose queste da tollerarsi, da sopportarsi? Non è lecito per ricreazione innocente d’un popolo in alzare un teatro in quel luogo, ove sta collocata la statua dell’Imperatore; e nella Chiesa, ove sta il Re del Cielo, non rappresentato, ma vero e vivo, alzano molti Cristiani dentro de’ loro cuori indegni, teatri di amor profano, sicché se si hanno da tendere insidie all’onestà, il sito più opportuno è la Chiesa di Dio! Peggio, sì, v’è di peggio ed è che da molti, e molti si trattano al pari de’ luoghi infami. Ah, che mi sento serrare il cuore in pensare a’ peccati che si commettono nelle Chiese davanti a Dio talora Sacramentato. – Voleva l’empio Caligola profanare il Tempio di Gerosolima con porvi la sua statua; Quando Filone a lui Ambasciatore, per dissuaderlo, dissegli: Monarca, al nostro impero sono suddite tante città, tante isole, tante Province, e tanti Regni. Deh, riflettete esser troppo non voler lasciar a Dio neppur il Tempio elettosi in terra per sua abitazione: … Non contentus Imperio tot Provinciarum, Insularum, Gentium Deo in terra nihil vis relinquere, ne Fanum quidem? Tanto io dico a quelli indegni che, dato un calcio al Paradiso, a Dio, cambiano le Chiese in lupanari, trafficando, comprando e vendendo l’altrui onestà; mancano piazze, mancano case, mancano abitazioni, mentre volete profanare le Chiese di Dio? Ah Paolo Apostolo, voi, che pieno ed acceso di santo zelo, rimproveraste coloro, solo perché mangiavano in Chiesa gridando: Numquid Domos non babetis ad manducandum, et bibendum. Rinfacciate, rimproverate la sacrilega sfacciataggine di non pochi Cristiani, e dite loro: Numquid Domos non habetis; Oh Dio! lo dovrò dire? già m’intendete; non mancano camere, non mancano sale, che profanate ancor la Casa di Dio. O Dio! Lupanar ergo vobis videtur Ecclesia, griderò anch’io inorridito col Boccadoro. Hai ben ragione o santo Profeta Geremia mentre tutto addolorato al riflesso di queste verità vai esclamando: Quid est quod dilectus meus in Domo mea fecit scelera multa? quasi dir volesse: pur troppo mi duole che i gentili ed i Turchi strapazzino le mie Chiese; che gli eretici e gl’Ebrei disprezzino i miei Templi; ma pure il sapere, che questi mi sono nemici, m’è d’alleggerimento al dolore; quello che mi trapassa il cuore, è che dilectus meus, che il popolo Cristiano a me diletto, da me ricomprato col mio Sangue abbia ardire in casa mia, nelle mie Chiese, alla mia presenza Sacramentale commettere scelleraggini! Questo è quello che non posso né capire, né sopportare, in Domo mea scelera multa; e quali sono queste iniquità? Quali lo stesso Cristo l’esprime in quelle parole: Vos autem fecistis illam speluncam latronum; avete resa la Chiesa una spelonca di ladri, che vale a dire voi fate nelle Chiese, ciò che gli assassini nelle pubbliche strade: questi, preso il passeggero, per potere senza timore spogliarlo di tutto, lo conducono alla vicina spelonca, e quivi commettono quella scelleraggine, che temono di commettere nella pubblica strada. Così fate voi, o scellerati, che cambiando le Chiese in scellerati ridotti, poiché ardite di farvi ciò che non ardireste nelle più frequenti contrade. Non vi stancate o Girolamo che non è più tempo di dire a chi patisce o incendi di sdegno, o fiamme d’avarizia, o lordure di senso: entra, entra in quella Basilica di Martire, od Apostolo, e subito a’ riverberi della santità che esce da’ marmi stessi de’ santuari, ricupererai e pace e luce, e temperanza. Do consilium ingredere Basilicas Martyrum, et aliquando purgaberis; non parlereste, no, così a’ tempi nostri, perché scorgereste regnare nelle nostre Chiese la sfacciataggine a tal segno, che molti entrano ne’ Templi meno rei di quel che n’escano. Riveriti ministri del Tempio, cessate vi prego di più solennizare con sacra pompa la memoria di chi regna in Cielo; non vestite né di preziosi addobbi le sacre mura, non cercate no musici che con voce angelica allettino la gente ad udirli, no no, mutate parere, spogliate i sacri altari, celebrate con ordinario apparecchio le vostre feste, perché pietas vestra contumeliam suscitabit, la vostra pietà sarà cagione di maggiori irriverenze. E voi sacri Sacerdoti, nelle solennità di vostre Chiese, non esponete a pubblica udienza l’adorato Signore nell’Ostia consacrata, perché pietas vestra, grida Ugon Cardinale, contumeliam suscitabit, perché sarete cagione di maggiori peccati, non verranno per adorar Cristo, ma per ucciderlo con più sacrilega cospirazione; non per placare l’ira di Dio, che già stringe fulmine per incenerirli, ma bensì con più insolente petulanza la provocheranno a vendicarsi. Voi salmeggerete ed essi cicaleranno, voi con affetti castissimi porgerete preghiere a Dio ed essi, con ragionamenti lascivi, con cuor impuro l’offenderanno. Sacri Pastori della Chiesa Cattolica piangete pure amaramente la profanazione de’ vostri Santuari, e se sarete interrogati da Dio, come già, Ezechiele, di quello che vedete praticarsi ne’ vostri Templi, dite pure ancor voi con singulti: video, video abominationes … vedo i Santuari divenuti postriboli, ove sono ementes, vendentes con ardire da ateo e con sfacciataggine da barbaro l’onestà, la continenza. Video abominationes magnas, vedo uomini, che immersi in pensieri laidi, somigliano non a Cristiani nel Tempio, ma ad animali nel bosco: Et ecce similitudo reptilium animalium. Passate avanti col Profeta e, col custode del tempio, pronunziate: video abominationes majores, vedo donne idolatrate con occhi impuri, ed incensate con sospiri d’incontinenze, idola domus depicta, ed a ragione, perché molte donne han la faccia dipinta a fresco; veggo stantes ante picturas, unusquisque habebat turibulum. Né qui fermatevi, ma esclamate col Profeta, e col custode del tempio: Video abominationes majores, vedo uomini, che stanno in Chiesa con ginocchia piegate, ma subito che entra colei, ecco che voltate le spalle all’altare si rivoltano ad adorar quel viso, dorsum habentes contra templum Domini, et adorabant ad ortum solis; mentisce forse il Profeta, miei UU.? Mentiscono i sacri Pastori con i custodi del tempio? Mentisco io con dire che si fanno le Chiese postriboli? No! Ditemi: perché venite alla Chiesa molti e molte di voi? Per sozzi amori, per esser rimirate e vagheggiate; negate ciò, se potete, voi giovani, che state sulla vita amorosa, e molto più voi donne, e dame, che con tanta boria venite ed ascoltate a questo proposito un bel racconto. – Un gran titolato, benché cavaliere di gran nascita, si portò con pompa anche superiore a’ suoi natali alla corte di Carlo Quinto, a solo titolo, come egli diceva, di vedere quel grande imperatore. Non è vero disse Cesare, allorché seppe l’addotto motivo. Questo cavaliere non è venuto per vedere né la corte, né me, ma è venuto per farsi vedere e dalla corte e da me; non son venuti alla Chiesa quei giovani tutti profumati e nell’abito e nella persona per riverire la Vergine Santissima, Iddio, ma per amoreggiare; non si sono portate al tempio quelle donne tutte vane nell’abito e tanto più leggere nella testa, quanto più la caricano d’ornamenti, che sollevati in alto mostrano nell’agitarsi ad ogni vento l’incostanza del cervello che le inventò; non sono venute, dico, per impetrare grazie da’ Santi, da Maria, da Cristo, ma per farsi vedere scollate, sbracciate, spettorate, e così tirarsi addosso l’ira de’ Santi, della Vergine, e di Dio; e non è questo trattar le Chiese da postriboli? mentre quivi si va senza riserba a caccia libera d’ogni sorte di disonestà. Platone nelle sue leggi proibì la pesca dentro i porti del mare, parendogli crudeltà, che dove gli uomini trovavano la sicurezza, i pesci incontrassero i pericoli; non così fanno gli empi profanatori de’ templi mentre neppur ne’ porti de’ Santuari, nelle Chiese vogliano sicura delle loro reti l’innocenza, l’onestà. E dove siete ministri de’ sacri altari, che non gli chiudete le porte in faccia e non gridate ancor voi con i custodi del Cielo foris canes? Almeno sottentrate voi all’offizio Angeli tutelari. Deh ruotate quella spada, al di cui folgoreggiare inorridì una volta Costantinopoli, e tra gli empi soldati di più empia imperatrice, ad alcuni inaridirono le braccia, a tutti il cuore. Ma se, non i custodi, né gli Angeli si risentono degli oltraggi di questi Cieli terreni delle Chiese sacrosante, se ne risente Iddio, e se da esse tramanda benefiche le influenze in quelli che le rispettano, sa altresì senz’ombra di pietà scaricar fulmini severissimi sopra le teste di quegli iniqui che le strapazzano fino a farle divenire postriboli. Ricordatevi, miei UU., che il Tempio di Salomone si stringeva in forma di leone per additare agli irriverenti nelle Chiese, che Dio contro di loro si sarebbe fatto implacabile e spietato leone, li avrebbe assaliti, uccisi e sbranati. Li altri delitti si scrivono nella polvere, perché facilmente restano scancellati dall’aria d’un fiato penitente; ma i commessi nella Chiesa si scrivono, come dice il Profeta, ne’ corni dell’altare con l’ugna di Diamante, come quasi impossibili a scancellare: Domus mea, Domus orationis, questa è casa di santità, non di lascivie; Domum tuam decet sanctitudo, così parla il Salmista, non occorre altro, è delitto di lesa Maestà offender Dio in sua Casa. La testa di chi sguaina la spada, nonché alla presenza del Principe, ma nel suo palazzo, ne paga il delitto; e non volete che Dio si palesi terribile contro chi uccide nelle Chiese alla sua presenza e l’anima propria, e quella de’ prossimi? Volete voi vedere quanto grave delitto sia portar poco rispetto alle Chiese? Negate, se potete, che ogni qual volta un principe voglia eseguir la giustizia di sua mano, non vi venga tirato per un eccesso de’ più enormi; scorrete dunque le sacre carte, e non troverete che Iddio abbia mai castigato i delinquenti di sua mano. Peccarono i nostri primi Padri tra le delizie del Paradiso Terrestre, Iddio, che li volle puniti, vi spedì un’Angelo che gl’intimasse l’esilio. Peccò Erode superbo affettator d’onori anche divini, e fu da Dio percosso, ma per mano d’un Angelo. Mai, mai Iddio ha steso la sua mano divina al castigo de’ peccatori salvo che nel profanamento delle sue Chiese; chi può dunque negare, che non sia un grand’eccesso portar poco rispetto alle Chiese; e qual castigo non si può aspettare chi le profana con pensieri, con parole, con discorsi, e talora con opere indegne? Aspettatevi pure i più fieri castighi, che possano uscire dalla mano sua onnipotente. E che credete voi, che Iddio o non possa, o non voglia, o non li usi? V’ingannate.  Dicalo Arnolfo imperatore, che per esser stato irriverente nel Tempio si vide il corpo ridotto in cadavere, tenuto però lungamente vivo in corte, perché i Cortigiani imparassero a meglio vivere nelle Chiese. Dicalo quell’infelice nel Settentrione, che nel Secolo passato fu scannato sopra quella medesima pietra sacrata da lui vilipesa. Dicalo quel giovane a cui, pochi anni orsono, dolendosi avanti l’Immagine della Vergine per la morte d’alcuni suoi Compagni, seguita nell’età più florida, sentissi rispondere dalla Madre di Dio che erano morti in pena del poco rispetto portato alla Chiesa, e però da sua parte ne avviasse il predicatore, che ne intimasse al popolo. Voi ve la ridete in sentir quelle mie minacce, perché le stimate spari d’artiglieria sì, ma senza palla; tuoni sì, ma senza fulmini; non sarà così, non sarà; interverrà a voi come alla infelice città di Gerico, che cambiò le risa in amarissimo pianto. Aveva Giosuè dato ordine che per sette mattine si portasse l’Arca in giro delle mura, che precedessero le truppe armate, e che appresso seguisse il popolo, ed i Sacerdoti intanto facessero risuonare suono di trombe; fu eseguito l’ordine del generale, con gran terrore della città assediata, la quale nel veder quell’ordinanza, ed udir quelle trombe guerriere, già si aspettavano la rovina della patria; ma quando poi s’accorsero, che a tanto strepito non seguì niuno effetto, si sollevarono da timori concepiti, i quali del tutto svanirono. La seconda mattina, mentre videro che con eguale ordinanza, accompagnamento e suono si circondarono nuovamente le mura. Non così seguì la terza mattina, perché nel vedersi girar le milizie attorno alle mura, non solo non ne ebbero spavento, ma cambiarono tutto il terrore in deriso, vedendo che tutto il loro assalto terminava in apparenza di milizie, ed in vano strepito di trombe. Lascio ora a voi, miei UU., il considerare quali dovettero essere i beffeggiamenti e le risa del popolo di Gerico verso le milizie di Giosuè, nel vederle girar la quarta, quinta e sesta mattina, certamente dovevan dirgli e con le voci e col cuore: suonate pure allegramente, che noi al suono delle vostre trombe faremo le nostre danze, i nostri balli. E che vi credete di poterci sbalordir con lo strepito, già che non potete col valore? E se tanto probabilmente dissero in questi giorni, che dovettero dire allorché le rimirarono la settima mattina? Dovettero a dismisura crescer le beffe ed i risi. Ma che! Ecco che in quella mattina succede l’universale ruina delle muraglie. Septimo circuitu clangentibus tubis muri illico corruerunt, … cadono le cortine, rovinano i torrioni, entrano gl’Israeliti e senza riguardo né a sesso, né a condizione, né ad età svenano quanti trovano ed allagano la città di sangue, seminando ogni via, ogni piazza di cadaveri. Or che voglio io dire? Ecco cari miei UU., Iddio minaccia, Iddio grida per mezzo de’ suoi ministri, suonano le trombe evangeliche: si rispettino le Chiese, modestia nella Casa di Dio. E voi che fate la prima volta? Concepite qualche terrore, come i popoli di Gerico, e per ciò entrate con più modestia nella Chiesa. Ma nel sentir poi strepitar la seconda volta: rispetto alle Chiese! Cambiate il timore in meraviglia, e cominciaste a dire dentro di voi: che pretendono con questi schiamazzi che ogn’anno replicano su’ pulpiti? E la terza volta? La terza volta ve la rideste apertamente con i compagni nelle esse Chiese, dicendo: io non vedo quel colpo, questa spada; non vedo castighi, benché amoreggi nelle Chiese: bene, verrà la rovina a voi come venne a Gerico; non è giunto ancora il tempo, come venne a quel misero giovane, di cui ne fu stampato il funesto accidente accaduto in una città del Piceno. Se ne stava questo giovine alla predica del rispetto alle Chiese; ma egli avvezzo a strapazzare Dio in Casa sua più che mai in quella mattina lo vilipendeva; poi nell’atto della predica stessa stava con uno stile facendo un foro a quelle tavole che servono di divisorio tra gli uomini e le donne per mirare lascivamente certa femmina. Se ne accorse il predicatore e dall’alto sgridò con parole ben capite da lui, benché non intese dal resto dell’udienza; minacciò il predicatore che quel ferro che adoperava a servizio sì indegno gli avrebbe data la morte. Cieco costui d’amore, chiuse il cuore a quelle voci, che ben presto si verificarono, poiché non passarono giorni che venuto a rissa con un rivale a causa di quella stessa femmina, non avendo quegli armi, tolse al nemico quello stilo, glielo piantò in petto, gli schiantò l’anima dal seno. Gran caso è questo; ma non minore è il seguente. Udite, irriverenti alle Chiese, profanatori de Templi. Una Chiesa in Roma, non ha molto, che fu per più giorni scena aperta alle impudicizie di sguardi, di cenni, e d’imbasciate d’un giovane scapestrato, e d’una sfacciata donna. S’inoltrarono tanto i reciproci affetti, che dagli sguardi si giunse alle parole, e riuscì da stabilire un lungo congresso da farsi nella medesima Chiesa, in cui si sarebbe determinato il modo e l’ora per giungere all’adempimento della loro disonestà. Si portò dunque alla Chiesa l’indegna femmina nel giorno ed ora accordata, e dopo aver con cuor immondo, e con sozza mente recitate poche Ave, si pose ad aspettare l’amico; passò l’ora prescritta ed il giovane non si vedeva; penava la donna, ma pur sperava, che dovesse venire quando vedendo farsi l’ora tarda, ecco che si alzò per partirne; ma fu fermata da una turba di popolo, e dal canto flebile del clero, che portava in quella Chiesa a seppellirvi un morto; interrogò, curiosa la donna, chi fosse defunto, e sentissi dire, il tale di tale, cioè il nome e cognome di quello appunto che ella ivi aspettava per concluder con esso il giorno e l’ora della vendita dell’onore e dell’anima. Considerate qual fu l’orrore; ma non potendosi persuadere, replicava … ma chi? Ora il vedrete, gli fu risposto, ed ecco che scopre telo, fu ‘l cataletto lurido, lercio, squallido, per esser tra poco cacciato in una fossa, quello con cui in quella Chiesa si doveva stabilir l’ora del peccato. – Queste sono le risposte de’ peccati che si commettono in Chiesa, la morte! Non ci volete credere? Seguitate pure con cenni disonesti, con occhiate lascive, con discorsi laidi, con opere nefande a contaminar le Chiese, ma poi aspettatevi la morte temporale in castigo, per preludio della eterna.

LIMOSINA

Un povero padre, carico di dodici figli, non avendo più che un piccolo podere da lasciargli, fece una scrittura autentica, nella quale cedeva a Dio tutto quel podere in benefizio de’ poveri, e postala nella punta d’una saetta, la scoccò in aria per mandarla al Cielo, né mai più la vide. Morto poco dopo e salito al Cielo, vide dal Paradiso tutti quei suoi figli con la lor discendenza straordinariamente beneficati. Intendetela con Agostino  che chi dà a Dio, non può di meno di non arricchire, poiché Egli è quello di cui dice il Santo, et aliud dabo, plus dabo, et melius dabo, e quel che più importa, in æternum dabo.


SECONDA PARTE.

Gran castighi son questi, ma in essi non vi apparisce, salvo che la perdita della vita. Eh che a chi è irriverente nelle Chiese son preparati castighi eterni; ecco le voci d’Isaia, che mi risuonano alle orecchie, abili ad atterrire ogni protervo: iniqua gessit in terra Sanctorum, non videbit gloriam Dei; Non siete castigati di qua, lo sarete di là nell’inferno: profanatori de’ templi, irriverenti nelle Chiese, non vi è Paradiso per voi; non vi punisce Iddio di quà, perché per voi la pena temporale è poca. Iddio, perché non può darvi pena proporzionata in questo mondo, ve la riserva nell’altro … gessit iniqua in terra Sanctorum non videbit gloriam Dei. Cristiani miei, se per farvi mutar vita, ed essere riverenti nelle Chiese non basta il dirvi per bocca di Dio, che non v’è Paradiso per voi, non so più che dirmi, e pure ci son di quelli che hanno orecchie sì sorde, onde seguiranno a parlare, a contar novelle, e ridere, amoreggiare, a discorrere con tal temerità, come se fossero non nella Reggia d’un Dio sensitivissimo di un sì fatto disprezzo, ma ne’ giardini d’Eliogabalo, che rimunerava l’irriverenza. Se così è, mio Dio, non più pazienza, fulmini, fulmini per incenerire questi empi, e per sotterrarli nelle fiamme eterne. Ecco che ve l’intima l’Apostolo a nome di Dio, … si quis violaverit Templum Domini perdet illum Dominus; a guisa di Giuda sarà figlio di perdizione, sarà dannato l’irriverente nelle Chiese; ma dove piomberà? Dove appunto sprofondò quella nobildonna in Calabria a solo titolo delle sue irriverenze nelle Chiese fatte da lei teatri d’amori e scene di vanità. Uditene… Questa riconoscendosi pur troppo vaga di sembiante, abusandosi d’un tal dono, ad onta del donatore, in ogni luogo, ma specialmente nelle Chiese interveniva per essere idolatrata. Fu più volte, ma indarno ammonita; ond’è che Dio stanco di tollerarla venne al castigo. Stavasene ella di sera ad una gran festa; quando sorpresa improvvisamente da fiere doglie di viscere’ fu costretta a strani lamenti, a smanie, Giacché scompigliata la testa, fu ella più morta che viva e portata alla casa paterna. Quivi chiamati i medici, ogni rimedio fu vano, ond’è che disperata di salute, fu consegnata a’ Sacerdoti, uno de’ quali ingegnandosi di ridurla ad una buona Confessione, altro non ritrasse dalla bocca di quella rea femmina, che difese de’ suoi peccati, senza mostrar principio di pentimento, e perché il Sacerdote neppur si quietava per farla ravvedere del suo errore, la sentì prorompere come una furia in queste parole: se Iddio mi vuole qual io mi sono, mi pigli, se no, lasciami stare; e rivoltate le spalle, cominciò rabbiosamente a muggire, né più parlò. Frattanto il padre della giovane che l’aveva veduta trattenersi molto col Confessore, credette che si fosse confessata, e perciò mandó ad avvisare il curato, che senza indugio portasse il Santissimo Viatico. Ecco, che se ne viene il buon curato con grandissimo accompagnamento di gente stordita al caso di morte tanto inaspettata. Deh mio Dio, datemi, vi prego ora una energia, una efficacia pari al successo, che mi rimane a raccontare. Non prima il Sacerdote comparve con la sacra pisside in mano avanti la stanza ove giaceva la rea femmina, che subito dalla finestra di rimpetto si levò un furiosissimo vento che gli serrò con impeto dispettoso la porta in faccia; corsero i servitori per riaprirla, ma spaventati fuggirono, giacché cominciossi subito a sentire entro la camera un tal fracasso di strascinate catene, una confusione di voci tartaree che ben pareva essersi quivi racchiuso un piccolo inferno. Si scompiglio’ a questo rumore tutto impaurito quel popolo che colà si era adunato, ed il Sacerdote, dopo aver per qualche tempo aspettato, deliberò tornarsene col Santissimo Sacramento alla Chiesa. Partito che egli fu, tra pochissimo d’ora cessò lo strepito, si mitigò lo spavento e così riuscì aprir con somma facilità la porta. Pareva che tutta la camera fosse stata messa a ruba, spezzata la lettiera, sconvolto il letto, abbattuto il bel padiglione, tutte per terra le vesti, disperse le anella, le ambre, sparse le acque odorose; ma quello che soprattutto metteva orrore era la donna, la quale del tutto spogliata, giaceva sul pavimento già morta, e con volto sì spaventoso a rimirarsi che ben vi si leggeva sulla fronte descritta la dannazione. Lascio a voi il considerare qual fosse l’afflizione di quel povero padre, scongiurò tutti i domestici a non voler per riputazione svelare il fatto, e poi fatte in tutta fretta private esequie alla defunta la fece di notte seppellire in sagrato; ma che? Credete voi, che la Chiesa volesse in seno ricever morta colei dalla quale aveva ricevuti tanti oltraggi, con tante irriverenze d’amori, di vanità? Appunto, ecco, che la mattina seguente vien data nuova all’afflitto padre, che la figlia giaceva all’aria insepolta, egli la fece allora seppellire in diversi luoghi, ma vedendo che da per tutto da terra l’escludeva, e non poteva trovar modo da levarsi davanti agli occhi quell’obbrobrioso cadavere tutto pieno di furore, esclamò: se così è, vengano dunque i diavoli, e via si portino nell’Inferno anche il corpo di mia figlia, dacché v’hanno l’anima. Non tardarono questi, gradirne il dono … Venne uno stuolo di demoni, quasi stormo avidissimo d’avvoltoi, e come è fama anche grande in quella città, si portò seco con una festa propriamente infernale quell’infelice cadavere, né mai più comparve. Rispetto alle Chiese, miei Uditori, rispetto alle Chiese, perché tali castighi si preparano ancor per voi, se profanerete con sguardi lascivi, con amori impuri, con vanità scandalose con discorsi laidi i Templi di Dio.

QUARESIMALE (XXIV)

FESTA DI SAN GIUSEPPE (2023)

FESTA DI SAN GIUSEPPE 2023

Sancta Missa

San Giuseppe, Sposo della B. V. Maria, Conf.

Doppio di 1* classe. – Paramenti bianchi.

La Chiesa onora sempre, con Gesù e Maria, San Giuseppe, specialmente nelle feste di Natale; ecco perché il Vangelo di questo giorno è quello del 24 dicembre. La Chiesa diede a questo Santo fin dall’VIII sec, secondo un calendario copto, un culto liturgico nel giorno 20 luglio. Alla fine del XV sec. la sua festa fu fissata al 19 marzo e nel 1621 Gregorio XV l’estese a tutta la Chiesa. – 1870 Pio IX proclamò San Giuseppe protettore della Chiesa universale. Questo Santo, « della stirpe reale di Davide », era un uomo giusto (Vang.) e per il suo matrimonio con la Santa Vergine ha dei diritti sul frutto benedetto del seno verginale della Sposa. Una affinità di ordine legale esiste tra lui e Gesù, sul quale esercitò un diritto di paternità, che il Prefazio di San Giuseppe designa delicatamente con queste parole « paterna vice ». Senza aver generato Gesù, San Giuseppe, per i legami che l’uniscono a Maria, è, legalmente e moralmente, il padre del Figlio della Santa Vergine. Ne segue che bisogna con atti di culto riconoscere inquesta dignità o eccellenza soprannaturale di San Giuseppe. Vi erano nella famiglia di Nazareth le tre persone più grandi ed eccellenti dell’universo; il Cristo Uomo-Dio, la Vergine Maria Madre di Dio, Giuseppe padre putativo del Cristo. Per questo al Cristo si deve il culto di latria, alla Vergine il culto di iperdulia, a San Giuseppe il culto di suprema dulia. Dio gli rivelò il mistero dell’incarnazione (ìd.) e « lo scelse tra tutti gli uomini » (Ep.) per affidargli la custodia del Verbo incarnato e della Verginità di Maria [Toccava al padre imporre un nome al proprio figlio. L’Angelo, incaricando da parte di Dio di questa missione, Giuseppe, gli mostra con ciò che, nei riguardi di Gesù, ha gli stessi diritti che se egli ne fosse veramente il padre.]. – L’inno delle Lodi dice che: « Cristo e la Vergine assistettero all’ultimo momento San Giuseppe il cui viso era improntato ad una dolce serenità ». San Giuseppe salì al cielo per godere per sempre faccia a faccia la visione del Verbo di cui aveva contemplato cosi lungamente e da vicino l’umanità sulla terra. Questo santo è dunque considerato giustamente come il patrono ed il modello delle anime contemplative. Nella patria celeste San Giuseppe conserva un grande potere sul cuore del Figlio e della sua Santissima Sposa (Or.). Imitiamo in questo santo tempo la purezza, l’umiltà, lo spirito di preghiera e di raccoglimento di Giuseppe a Nazaret, dove egli visse con Dio, come Mosè sulla nube.

Incipit

In nómine Patris,et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XCI : 13-14.


Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.

 [Il giusto fiorisce come palma, cresce come cedro del Libano: piantato nella casa del Signore: negli atrii della casa del nostro Dio.]

Ps XCI: 2.
Bonum est confiteri Dómino: et psállere nómini tuo, Altíssime.
[É bello lodarTi, o Signore: e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.

[Il giusto fiorisce come palma, cresce come cedro del Libano: piantato nella casa del Signore: negli atrii della casa del nostro Dio.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Sanctíssimæ Genetrícis tuæ Sponsi, quǽsumus. Dómine, méritis adjuvémur: ut, quod possibílitas nostra non óbtinet, ejus nobis intercessióne donétur:

[Ti preghiamo, o Signore, fa che, aiutati dai meriti dello Sposo della Tua Santissima Madre, ciò che da noi non possiamo ottenere ci sia concesso per la sua intercessione]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XLV: 1-6.

Diléctus Deo et homínibus, cujus memória in benedictióne est. Símilem illum fecit in glória sanctórum, et magnificávit eum in timóre inimicórum, et in verbis suis monstra placávit. Glorificávit illum in conspéctu regum, et jussit illi coram pópulo suo, et osténdit illi glóriam suam. In fide et lenitáte ipsíus sanctum fecit illum, et elégit eum ex omni carne. Audívit enim eum et vocem ipsíus, et indúxit illum in nubem. Et dedit illi coram præcépta, et legem vitæ et disciplínæ.

[Fu caro a Dio e agli uomini, la sua memoria è in benedizione. Il Signore lo fece simile ai Santi nella gloria e lo rese grande e terribile ai nemici: e con la sua parola fece cessare le piaghe. Lo glorificò al cospetto del re e gli diede i comandamenti per il suo popolo, e gli fece vedere la sua gloria. Per la sua fede e la sua mansuetudine lo consacrò e lo elesse tra tutti i mortali. Dio infatti ascoltò la sua voce e lo fece entrare nella nuvola. Faccia a faccia gli diede i precetti e la legge della vita e della scienza].

Graduale

Ps XX :4-5.
Dómine, prævenísti eum in benedictiónibus dulcédinis: posuísti in cápite ejus corónam de lápide pretióso.

[O Signore, lo hai prevenuto con fauste benedizioni: gli ponesti sul capo una corona di pietre preziose.]

V. Vitam pétiit a te, et tribuísti ei longitúdinem diérum in sæculum sæculi.

[Ti chiese vita e Tu gli concedesti la estensione dei giorni per i secoli dei secoli].

Ps CXI: 1-3.
Beátus vir, qui timet Dóminum: in mandátis ejus cupit nimis.
V. Potens in terra erit semen ejus: generátio rectórum benedicétur.
V. Glória et divítiæ in domo ejus: et justítia ejus manet in sæculum sæculi.

[Beato l’uomo che teme il Signore: e mette ogni delizia nei suoi comandamenti.
V. La sua progenie sarà potente in terra: sarà benedetta la generazione dei giusti.
V. Gloria e ricchezza sono nella sua casa: e la sua giustizia dura in eterno].

Evangelium

Sequéntia + sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt 1: 18-21.

Cum esset desponsáta Mater Jesu María Joseph, ántequam convenírent, invénta est in útero habens de Spíritu Sancto. Joseph autem, vir ejus, cum esset justus et nollet eam tradúcere, vóluit occúlte dimíttere eam. Hæc autem eo cogitánte, ecce, Angelus Dómini appáruit in somnis ei, dicens: Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est. Páriet autem fílium, et vocábis nomen ejus Jesum: ipse enim salvum fáciet pópulum suum a peccátis eórum.

[Essendo Maria, la Madre di Gesù, sposata a Giuseppe, prima di abitare con lui fu trovata incinta, per virtù dello Spirito Santo. Ora, Giuseppe, suo marito, essendo giusto e non volendo esporla all’infamia, pensò di rimandarla segretamente. Mentre pensava questo, ecco apparirgli in sogno un Angelo del Signore, che gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, cui porrai nome Gesù: perché egli libererà il suo popolo dai suoi peccati].

Sermone di san Bernardo Abbate
Omelia 2 su Missus, verso la fine


Chi e qual uomo sia stato il beato Giuseppe, argomentalo dal titolo onde, sebbene in senso di nutrizio, meritò d’essere onorato così da essere e detto e creduto padre di Dio; argomentalo ancora dal proprio nome, che, come si sa, s’interpreta aumento. Ricorda in pari tempo quel gran Patriarca venduto altra volta in Egitto; e sappi ch’egli non solo ha ereditato il nome di quello, ma ne ha imitato ancora la castità, ne ha meritato l’innocenza e la grazia. E se quel Giuseppe, venduto per invidia dai fratelli e condotto in Egitto, prefigurò la vendita di Cristo; il nostro Giuseppe, fuggendo l’invidia d’Erode, portò Cristo in Egitto. Quegli per rimaner fedele al suo padrone, non volle acconsentire alle voglie della sua padrona: questi, riconoscendo vergine la sua Signora madre del suo Signore, si mantenne continente e fu il suo fedele custode. A quello fu data l’intelligenza dei sogni misteriosi; a questo fu concesso d’essere il confidente e cooperatore dei celesti misteri. Il primo conservò il frumento non per sé, ma per tutto il popolo: il secondo ricevé la custodia del Pane vivo celeste e per sé e per tutto il mondo. Non v’ha dubbio che questo Giuseppe, cui fu sposata la Madre del Salvatore, sia stato un uomo buono e fedele. Voglio dire, « un servo fedele e prudente»

Omelia di san Girolamo Prete
Libr. 1 Commento al cap. 1 di Matteo


Perché fu concepito non da una semplice vergine, ma da una sposata? Primo, perché dalla genealogia di Giuseppe si mostrasse la stirpe di Maria ; secondo, perch’ella non fosse lapidata dai Giudei come adultera: terzo, perché fuggitiva in Egitto avesse un sostegno. Il martire Ignazio aggiunge ancora una quarta ragione perché egli fu concepito da una sposata : affinché, dice, il suo concepimento rimanesse celato al diavolo, che lo credé il frutto non di una vergine, ma di una maritata. Prima che stessero insieme si scoperse che stava per esser madre per opera dello Spirito Santo» Malth. 1, 18. Si scoperse non da altri se non da Giuseppe, al quale per la confidenza di marito non sfuggiva nulla di quanto riguardava la futura sposa. Dal dirsi poi: « Prima che stessero insieme », non ne segue che stessero insieme dopo: perché la Scrittura constata ciò che non era avvenuto.

Omelia di sant’Ambrogio Vescovo
Lib. 4 al capo 4 di Luca, verso la fine


Guarda la clemenza del Signore Salvatore: né mosso a sdegno, né offeso dalla grave ingratitudine, né ferito dalla loro ingiustizia abbandona la Giudea: anzi dimentico dell’ingiuria, memore solo della clemenza, cerca di guadagnare dolcemente i cuori di questo popolo infedele, ora istruendolo, ora liberandone (gl’indemoniati), ora guarendone (i malati). E con ragione san Luca parla prima di un uomo liberato dallo spirito malvagio, e poi racconta la guarigione d’una donna. Perché il Signore era venuto per guarire l’uno e l’altro sesso; ma prima doveva guarire quello che fu creato prima: e non bisognava omettere (di guarire) quella che aveva peccato più per leggerezza di animo che per malvagità.

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

GRANDEZZA E BONTÀ DI SAN GIUSEPPE

Il piccolo figliuolo di Giacobbe, una mattina svegliandosi, diceva ai suoi fratelli e a suo padre: « Io ho sognato una bellissima cosa. Mi trovavo sospeso non so per quale virtù, in mezzo all’azzurro del cielo: ed ecco il sole, la luna e undici stelle fermarsi in giro a me; e adorarmi ». Dopo averlo ascoltato, tutti sgranarono gli occhi e non compresero il significato: quel bambino sarebbe un giorno diventato il Viceré d’Egitto, e suo padre e sua madre e i suoi undici fratelli si sarebbero prostrati a’ suoi piedi implorando un po’ di pane e di misericordia. Il fanciullo sognatore narrò ancora un’altra visione: « Si era nel campo in una giornata ardente di mietitura. Io mieteva ed anche voi mietevate: quand’ecco il mio covone levarsi da solo e starsene ritto mentre i vostri, curvi attorno ad esso, l’adoravano ». I fratelli, tra invidiosi e irosi, scoppiarono a ridere. « Forse che tu sarai il nostro Re? Forse che noi saremo i sudditi della tua minuscola potestà? ». Essi non sapevano come l’avvenire avrebbe dato ragione a quei sogni. Noi invece lo sappiamo dalla storia sacra. Ma noi sappiamo anche come Giuseppe figlio di Giacobbe non è che un’immagine profetica di Giuseppe, il padre putativo di Gesù, lo sposo della vergine Maria. È per lui che in modo più grande e più vero si realizzarono i sogni dell’antico Giuseppe. Vidi quasi solem et lunam et stellas undecim adorare me. Il sole di giustizia e di verità che illumina ogni uomo che viene al mondo è Gesù Cristo. La luna di grazia e di candore è Maria che nella Scrittura è detta splendida più che la luna. Ebbene, nella quieta dimora di Nazareth, Gesù e Maria si curvavano ubbidienti al cenno di Giuseppe, capo della santa famiglia, e lo veneravano affettuosamente. Vidi consurgere manipulum meum et stare; vestrosque manipulos circumstantes adorare. La Chiesa è simile ad un’ampia campagna pronta per la mietitura: S. Giuseppe, patrono della Chiesa universale, vi sta ritto in mezzo a custodirla e a benedirla; mentre intorno a lui accorrono i fedeli da ogni parte. Oh come è grande, come è buono San Giuseppe! Della sua grandezza e della sua bontà dobbiamo parlare quest’oggi, ch’è la sua festa. – GRANDEZZA DI GIUSEPPE. Un retore famoso tesseva un giorno nell’aeropago l’elogio di Filippo il Macedone. Decantate le nobili origini del suo eroe, le ricchezze, la potenza, il coraggio, le vittorie, tacque un istante come se non avesse più nulla d’aggiungere. Ma poi subitamente gridò: « Tutto questo è nulla. Egli fu il padre d’Alessandro, il conquistatore del mondo; ecco la sua gloria immensa ». Anch’io, se vi facessi passare ad una ad una le virtù di S. Giuseppe, potrei infine concludere: « Tutto questo è nulla, la sua gloria eterna è di essere stato il padre custode di Gesù, Salvatore del mondo, e d’essere stato il casto sposo della Vergine Maria, Madre di Dio. Per ciò egli è al disopra dei santi. Questi sono i suoi titoli di nobiltà: consideriamoli singolarmente. a) Sposo di Maria. — Benché Giuseppe e Maria rimanessero per tutta la vita vergini, vivendo insieme come vivrebbero gli Angeli, tuttavia contrassero un legittimo matrimonio; e così S. Giuseppe fu suo sposo vero. Ora, la sposa — come dice anche S. Paolo — è soggetta allo sposo: Maria quindi fu soggetta a S. Giuseppe. Pensate, quanto onore! Sposo di Maria significa essere sposo della creatura più grande che vi fu mai in cielo e in terra, della creatura che fu Madre di Dio. – Sposo di Maria significa essere sposo della Regina degli Angeli, degli Arcangeli, dei Patriarchi, dei Profeti, degli Apostoli, dei martiri; della Regina senza macchia; della Regina di pace. b) Padre di Gesù. — Giuseppe non fu, è vero, il padre naturale di Gesù, perché il Figlio di Dio si fece uomo incarnandosi nel seno purissimo di Maria Vergine per opera dello Spirito Santo. Eppure nel Vangelo più volte è chiamato col nome di padre. Dopo d’aver descritto il mistero della presentazione al tempio, dopo d’aver ricordato le profezie di Simeone, l’Evangelista aggiunge: « Erano suo padre e sua madre meravigliati » (Lc, II, 33). E la Madonna stessa nella gioia di ritrovare il Bambino tra i dottori ricorda S. Giuseppe col nome di padre: « Tuo padre ed io, piangendo, t’abbiamo molto cercato ». Perché, se non cooperò alla sua generazione, S. Giuseppe fu chiamato Padre di Gesù? Per due motivi: perché fu sposo di Maria, e perché di padre ebbe tutta l’autorità e la responsabilità. – Il primo motivo è spiegato da S. Francesco di Sales. « Supponete che una colomba, volando dal suo becco lasci cadere un dattero in un giardino. Il frutto caduto dall’alto s’interra, e sotto l’azione dell’acqua e del sole germoglia, cresce, e diventa una bella palma. Questa palma di chi sarà? Evidentemente del padrone del giardino, come ogni altra cosa è sua che in esso vi nasca. Ora: quella colomba raffigura lo Spirito Santo che lasciò cadere il dattero divino, — il Figlio di Dio, — nel giardino conchiuso dove ogni virtù è fiorita, — il seno di Maria. — E Gesù nacque da Maria; ma appartenendo essa di pieno diritto al castissimo suo sposo, anche Gesù, — palma celeste, — almeno in qualche modo appartiene a Giuseppe ». – Il secondo motivo è spiegato da S. Giovanni Damasceno: « Non è appena la fecondità nel generare che ad alcuno dà il diritto di chiamarsi padre, ma anche l’autorità nel governare, e la responsabilità della vita ». E fu S. Giuseppe che lo sottrasse ad ogni pericolo, che lo allevò in casa sua, che lo fece crescere. Fu S. Giuseppe che insegnò un mestiere al Figlio di Dio, che comandò a Lui come a un garzone. E chissà come tutto tremava in cuore, e come gli si inumidivano gli occhi, quando Gesù gli diceva: « Padre! ». c) Più grande dei Santi. — Se Iddio destina una persona a qualche sublime ufficio, lo riveste di tutte le virtù necessarie per bene adempirlo. Così avendo eletto Maria ad essere sua Madre, la riempì di grazia sopra ogni creatura. Allo stesso modo, in proporzione, avendo eletto S. Giuseppe alla dignità di suo padre putativo e di sposo della Vergine, lo colmò di grazie immense, come nessun altro santo. – Il Vangelo chiama Giuseppe « uomo giusto ». E S. Girolamo spiega che quella parola « giusto » significa che egli possedeva tutte le virtù. Mentre gli altri santi si segnalarono particolarmente chi nell’una chi nell’altra virtù, egli fu perfetto egualmente in tutte le virtù. Per questo il 31 dicembre 1926, nella Basilica di S. Pietro, Pio XI cantando solennemente le litanie dei Santi, immediatamente dopo l’invocazione alla Madonna soggiunse quella a S. Giuseppe : — Sante Joseph intercede prò nobis. – 2. BONTÀ DI GIUSEPPE. Re Assuero, una notte che non poteva prendere sonno, si fece leggere gli annali del suo regno. Il lettore nella quietudine notturna rievocava le gesta del re insonne: le battaglie sanguinose, le vittorie sonanti di grida, i movimenti più trepidi di gioia, e quelli spasimanti di pericolo, ed arrivò ad una congiura. Una congiura ordita da due ufficiali nella stessa reggia: fatalmente il re sarebbe caduto sotto le lame dei cospiratori, se la sagacia vigilante del primo ministro non fosse giunta a svelare la trama iniqua a tempo opportuno. «Fermati!» esclamò Assuero balzando sul letto d’oro… « Chi dunque mi ha salvato? ». « Il primo ministro, sire ». « E quale ricompensa si ebbe? ». « Finora nessuna ». Allora ordinò che al levar del sole il primo ministro fosse rivestito con abiti regali, e cavalcasse il suo cavallo più bello e girasse per le strade di tutta la città, mentre un araldo gridasse davanti a lui: — Così è onorato colui che il re vuol esaltare. — Questi ordini furono eseguiti: e chiunque aveva bisogno di grazia si rivolgeva al primo ministro, sicuro d’essere esaudito dal re. – Ma anche S. Giuseppe, o Cristiani, ha salvato la vita del Re del Cielo, — di Gesù Bambino, — quando la congiura d’Erode ha cercato di soffocarlo nel sangue. E pensate voi che verso il suo salvatore il Re del Cielo sia meno generoso di Re Assuero? Come potrà Iddio negare una grazia quando colui che gliela chiede è San Giuseppe? Si capisce allora come S. Teresa poteva dire: « Non si è mai sentito che alcuno abbia ricorso alla bontà di S. Giuseppe e non sia stato esaudito. Se non mi credete, per amor di Dio vi supplico a farne la prova, e mi crederete ». Gesù predicando alle turbe insegnava: « Chi avrà dato anche solo un bicchier d’acqua chiara all’ultimo povero di questo mondo in Nome mio, avrà gran mercede ». Quale mercede non avrà dunque in Paradiso S. Giuseppe che, non appena un bicchier d’acqua all’ultimo poverello, ma per trent’anni ha nutrito e protetto in casa sua il Figlio di Dio? Rallegriamoci: presso il trono dell’Altissimo abbiamo un protettore onnipotente e buono, che può e desidera soccorrerci in tutti i travagli della vita. La vita è un peso, ha detto S. Paolo, e noi lo esperimentiamo ogni giorno: peso per i dolori, peso per i lavori, peso per la morte. a) Ricorriamo a S. Giuseppe nel dolore. — Tutta la vita non la passò forse in patimento? Ricordate la notte di Natale: nell’albore del verno bussò invano di porta in porta, e fu costretto a porre nella greppia delle bestie il Figlio di Dio. Ricordate la sua fuga, lontano dai parenti, dal paese, dalla bottega, da’ suoi affari. Ricordate i tre giorni di affannosa ricerca, quando lo smarrì in Gerusalemme. Oh! insegni anche a noi a far la volontà di Dio quando siamo tribolati; ci dia la pazienza di vivere in questa valle di lacrime; ci conforti. h) Ricorriamo a S. Giuseppe nel lavoro. — Ci sono alcune volte in cui gli affari vanno male, ed il guadagno manca; in cui ci sembra d’andare in rovina, noie la nostra famiglia. Alziamo lo sguardo a lui: queste angustie egli le ha provate. Chi sa quante volte nella bottega nazarena si sarà sentito accasciato sotto la fatica,e quante volte anch’egli avrà visto i suoi modesti affari prendere una cattiva piega, e forse avrà pianto nel timore di far duramente soffrire la Vergine e il Figlio, dicui aveva la custodia e la responsabilità. Questo Santo che prima di noi ha provato quello che soffriamo noi, non ci negherà nulla. Ma avanti d’esigere che ci ascolti, bisogna sforzarci sull’orma delle sue virtù. Siamo onesti nel lavoro come onesto era lui? c) Ricorriamo a S. Giuseppe per una buona morte. — Morir bene è la cosa più importante di questo mondo. Eppure non è cosa facile: i progressi della civiltà, automobili, treni, velivoli, navi, hanno segnato un crescendo di morti improvvise; la corruzione dei costumi ha segnato un crescendo di morti impenitenti. Occorre il protettore per una morte buona: è S. Giuseppe. Ed invero nessuno ha fatto una morte buona come la sua. Quando Gesù non ebbe più bisogno di chi lo nutrisse e lo allevasse, egli si sentì male ed entrò in agonia. Da una parte aveva la Madonna che piangeva e pregava; dall’altra aveva Gesù che gli sosteneva la testa languida e gli sussurrava: « Grazie di tutto quello che mi hai fatto; ora muori in pace. Muori nel mio bacio, e discendi al Limbo ove annunzierai che l’ora della redenzione è ormai giunta. Pochi anni, e passerò di là a prenderti per sollevarti nel Paradiso che dischiuderò con le mie mani che saranno trafitte ». S. Giuseppe non risponde che non ha più la forza: solo accenna a sorridere e muore. – « Oh che anch’io possa morire così! » sospira ognuno di noi, pensando a quelle beata fine. Questa sarebbe la grazia più bella e più grande che S. Giuseppe ci possa fare. Ma la morte del Giusto, o Cristiani, l’otterrà soltanto chi nella vita l’avrà imitato ed invocato.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps LXXXVIII: 25.


Véritas mea et misericórdia mea cum ipso: et in nómine meo exaltábitur cornu ejus. [La mia fedeltà e la mia misericordia sono con lui: e nel mio nome sarà esaltata la sua potenza].

Secreta

Débitum tibi, Dómine, nostræ réddimus servitútis, supplíciter exorántes: ut, suffrágiis beáti Joseph, Sponsi Genetrícis Fílii tui Jesu Christi, Dómini nostri, in nobis tua múnera tueáris, ob cujus venerándam festivitátem laudis tibi hóstias immolámus.

[Ti rendiamo, o Signore, il doveroso omaggio della nostra sudditanza, prengandoTi supplichevolmente, di custodire in noi i tuoi doni per intercessione del beato Giuseppe, Sposo della Madre del Figlio Tuo Gesù Cristo, nostro Signore, nella cui veneranda solennità Ti presentiamo appunto queste ostie di lode.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

Præfatio
  de S. Joseph

… Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beáti Joseph débitis magnificáre præcóniis, benedícere et prædicáre. Qui et vir justus, a te Deíparæ Vírgini Sponsus est datus: et fidélis servus ac prudens, super Famíliam tuam est constitútus: ut Unigénitum tuum, Sancti Spíritus obumbratióne concéptum, paterna vice custodíret, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Coeli coelorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti júbeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno: noi ti glorifichiamo, ti benediciamo e solennemente ti lodiamo di S. Giuseppe. Egli, uomo giusto, da te fu prescelto come Sposo della Vergine Madre di Dio, e servo saggio e fedele fu posto a capo della tua famiglia, per custodire, come padre, il tuo unico Figlio, concepito per opera dello Spirito Santo, Gesù Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus:

Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt 1: 20.


Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est.

[Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo].

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, quǽsumus, miséricors Deus: et, intercedénte pro nobis beáto Joseph Confessóre, tua circa nos propitiátus dona custódi.

[Assistici, Te ne preghiamo, O Dio misericordioso: e, intercedendo per noi il beato Giuseppe Confessore, propizio custodisci in noi i tuoi doni].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XII – ” LITTERAS A VOBIS”

Anche in questa Lettera Enciclica, indirizzata ai Vescovi brasiliani, si coglie la preoccupazione del Santo Padre per l’educazione dei Sacerdoti in primis, e poi dei giovani ed ignoranti affinché con la conoscenza acquisita e l’esempio dei Pastori, possano camminare lungo la via della salvezza. Saggio era e rimane ancor oggi il proposito di una formazione cattolica che modelli i costumi dei popoli in senso cristiano e faccia fiorire le virtù cristiane tra i fedeli e la santità eccellente tra i Prelati. Il “chiodo” del Pontefice romano resta sempre la formazione dei Seminari affinché preparino Sacerdoti autenticamente diffusori delle verità evangeliche, del messaggio salvifico, e della meta da raggiungere in Cielo. Era quello che avevano compreso bene anche i nemici della Chiesa di Cristo, i settari ipocriti pseudofilantropi guidati dall’angelo decaduto negli inferi, che hanno provveduto per tempo a diffondere la “zizzania” della vana e falsa filosofia, della teologia rinnovata da uno spirito modernista paganeggiante, per sfociare poi nello gnosticismo più abietto, come oggi vediamo nell’antichiesa insediata in Vaticano dal 26 ottobre del 1958, che ha messo in scena in falso concilio guidato da un “Illuminato” capo delle logge più infernali per ribaltare la dottrina cristica del culto divino, sostituendola con una ideologia umanista che nega i diritti di Dio per attribuirli all’uomo, la creatura che detronizza il Creatore e rivendica tutti i vizi ed i libertinaggi, anche i più vergognosi ed innominabili, come “diritti dell’umanità”. Dio misericordioso e giusto li fa procedere riservandosi poi ogni diritto nell’esercizio della sua giustizia eterna … e là sarà pianto e stridor di denti..

S. S. LEONE XIII

LITTERAS A VOBIS

Agli Arcivescovi e ai Vescovi del Brasile.

L’anno scorso abbiamo ricevuto la vostra lettera che annunciava con gioia l’aggiunta di una nuova provincia ecclesiastica e la fondazione di quattro nuovi vescovati. – Questo nuovo segnale di sollecitudine apostolica nella vostra nazione è stato certamente motivo di gioia. Infatti, tra le molte cause del declino del Cattolicesimo tra di voi, c’è il fatto che il numero dei Vescovi è troppo esiguo per le dimensioni smisurate della regione e per la distribuzione ineguale dei suoi abitanti. Di conseguenza, i Vescovi non hanno potuto esercitare la vigilanza che desideravano sul clero e sulle greggi a loro affidate. Non erano in grado né di allontanare gli inadatti né di promuovere la forza e la dignità del nome cattolico. Perciò avete dato prova del vostro zelo pastorale quando, riuniti a San Paolo, avete chiesto al Romano Pontefice di allargare la Gerarchia episcopale. Abbiamo accettato volentieri di accogliere la vostra richiesta. – Ora c’è speranza di un fecondo incremento del patrimonio cristiano, dal momento che avete più Vescovi; tuttavia, ognuno di voi deve applicare i rimedi opportuni ai mali che si stanno diffondendo ovunque. A questo proposito, desideriamo raccomandarvi alcune idee utili per incrementare la fede e la pietà cristiana.

Responsabilità dei Sacerdoti

2. In primo luogo, fate insegnare agli uomini che si preparano agli Ordini sacri le cose migliori, quelle di cui c’è più bisogno e che li metteranno in grado di insegnare le verità cattoliche e di difenderle strenuamente contro tutti gli attacchi. Troppo spesso l’esperienza quotidiana rende evidente che laddove i ministri mancano di un’adeguata conoscenza dottrinale, il loro popolo soffre generalmente di ignoranza della fede e della Religione. Infatti, è dalla bocca del Sacerdote che i fedeli dovrebbero apprendere la legge: Egli è l’angelo del Signore. Per questo leggiamo l’annuncio: le labbra del Sacerdote custodiranno la conoscenza.(Mal II.6. ). Anche l’Apostolo menziona la conoscenza tra le altre ragioni per dimostrarsi vostro servo in Gesù.( 2 Cor IV. 6.) E dove manca questa conoscenza, ne consegue un male anche per i Sacerdoti: essi sono condannati dal popolo, e Dio esige anche una pena per la loro negligenza. Perciò vi ho anche resi spregevoli e infimi davanti a tutti i popoli”. (Mal II.9.) – Ma l’abbellimento del sapere e la sua difesa non portano mai alla meta se sono separati dalla santità di vita e dai costumi. Infatti, la conoscenza senza amore non costruisce, ma gonfia.(1 Cor VIII. 1.) Questa è la pratica abituale dell’uomo. Sebbene Cristo abbia insegnato che l’apprendimento debba essere accettato dai sacri Ministri senza tener conto delle loro azioni non conformi alla dottrina, tuttavia gli uomini sono più influenzati da ciò che vedono che da ciò che sentono. Per questo motivo leggiamo la chiara testimonianza di Dio Salvatore, che non solo fu il Maestro dei pastori ma divenne anche il loro modello, che iniziò a fare e a insegnare. Pertanto, le azioni del Sacerdote devono confermare la dottrina che predica e raccomanda. Prima di ogni altra cosa, colui che è incaricato di governare una parrocchia non deve essere insofferente al lavoro. Chiamato alla vigna del Signore, la coltivi diligentemente, consapevole di dover rendere un giorno o l’altro conto delle anime che gli sono state affidate. E non lavora invano se in ogni momento e in ogni cosa si mantiene fedele all’apprendimento. Dobbiamo sì combattere strenuamente per Cristo, ma solo per volontà e autorizzazione di coloro che Cristo ha scelto come leader.

Seminari e insegnanti

3. Formare questi aiutanti per voi stessi, Venerabili Fratelli, è il vostro compito. L’esperienza insegna infatti che i futuri Sacerdoti saranno quelli che avete avuto cura di formare. Avete il luogo, i Sacri seminari, dove potete formare Ministri per i vostri desideri e per quelli della Chiesa, come approvati da Dio, operai che non hanno bisogno di vergognarsi.(2 Tm II. 15.) Il nome stesso di Seminario dice per quale grande scopo sono stati eretti. Perciò incoraggiate la crescita e la prosperità dei Seminari ecclesiastici che già avete, sia per lo studio del sapere sacro che per la formazione delle anime. Affinché questa formazione proceda in modo adeguato, sono necessari i migliori insegnanti, che non solo devono essere dotati di una solida cultura, ma devono anche insegnare la dottrina in modo corretto e fedele secondo i Nostri precetti. Affinché il giovane clero si impregni del vero spirito della Chiesa e coltivi la virtù, le guide spirituali devono essere scelte con cura. Inoltre, il loro lavoro deve essere aiutato e perfezionato con tutta la sollecitudine delle vostre fatiche. Ma nelle diocesi in cui non ci sono ancora Seminari, i Vescovi usino ogni mezzo per istituirne al più presto di eccellenti. Il Concilio di Trento si è occupato di questo, e anche Noi lo abbiamo considerato nella Nostra lettera apostolica del 27 aprile 1892. La libertà di educazione che prevale ora nel vostro Paese vi dà una maggiore facilità nel fare ciò che abbiamo raccomandato riguardo all’organizzazione degli studi. – A questo scopo avete anche un grande aiuto nel collegio per chierici che Pio IX si è impegnato a fondare per la comodità del Sud America e che anche Noi abbiamo promosso e favorito. Il suo esito soddisfa felicemente le nostre aspettative. Ricordiamo con gioia che molti di voi si sono laureati in questo collegio. Vi incoraggiamo a inviare a Roma giovani particolarmente promettenti per i loro studi, e a utilizzarli in seguito in modo appropriato come insegnanti o per qualsiasi altro scopo.

Ordini religiosi soggetti all’autorità dei Vescovi

4. È difficile esprimere a parole i vantaggi per il vostro ministero sacro che la comunità degli Ordini religiosi vi porterà. Con la Nostra provvidenza apostolica abbiamo deciso di ripristinare l’osservanza originale dei loro istituti dalle perdite dei tempi passati. A tal fine, il 3 settembre 1890 abbiamo stabilito che le comunità religiose autoctone siano soggette all’autorità dei Vescovi. – In una questione così utile e importante confidiamo che la vostra collaborazione non mancherà. Sono stati ottenuti risultati piacevoli, operati a questo scopo sotto la direzione del Venerabile Fratello Girolamo [Gotti], Arcivescovo di Petra, Internunzio della Sede Apostolica presso il vostro governo. Affinché questi inizi possano progredire sempre di più ed essere portati al fine desiderato, vi esortiamo a lavorare diligentemente in questa materia per la Religione e soprattutto per le vostre greggi. Nel frattempo, le comunità religiose, sia maschili che femminili, si congratulano per aver accolto di buon grado i Nostri comandi e per essersi mostrate pronte alla restituzione dell’istituto originario di ciascuna.

Esigenze dei fedeli

5. Questi argomenti riguardano la corretta educazione e applicazione del clero al sacro Ministero. Ma le esigenze dei fedeli richiedono il vostro impegno non meno di quelle dei fedeli. Nei loro confronti, ciò che ha la precedenza è che i bambini e gli ignoranti siano adeguatamente istruiti sugli elementi della nostra santissima Religione; ciò richiede l’incessante diligenza dei Pastori. Poi, dove è pubblicamente permesso, si deve organizzare l’istruzione per i giovani, in modo che non siano costretti a frequentare le strutture sportive degli eretici o a frequentare scuole in cui la disciplina cattolica non sia menzionata se non per essere calunniosamente derisa, con grande danno per la fede e i buoni costumi. – Inoltre, poiché le menti siano rafforzate e stimolate dal consiglio e dall’esempio reciproco a fare e a soffrire grandi cose per la Religione, avrete un buon merito se incoraggerete e convincerete i laici, soprattutto i giovani, a unirsi alle società cristiane. Le abbiamo spesso elogiate nelle esortazioni come istituzioni che si sforzano di prendersi cura dei bisogni della Religione e di migliorare i vantaggi dei poveri; allo stesso tempo, diminuiscono l’attrattiva di quelle associazioni che abusano del titolo di pubblica carità, poiché si oppongono molto al benessere della Chiesa e dello Stato.- Inoltre, non mancate di rendervi conto di quanta influenza nel bene e nel male, soprattutto in questi nostri tempi, abbiano acquisito le riviste e simili scritti popolari. Usate queste armi in difesa del nome cristiano, con la guida dell’Episcopato adeguatamente preservata e con tutto il rispetto dovuto al potere civile. Infine, tutti i Cattolici dovrebbero ricordare che per la Chiesa è di estrema importanza il tipo di uomini che vengono eletti al potere legislativo. Pertanto, preservando i diritti della legge civile, tutti devono sforzarsi di eleggere coloro che uniscono lo zelo per la Religione a quello per gli affari pubblici. Ciò avverrà più facilmente se ciascuno obbedirà all’autorità suprema che governa lo Stato e se ciascuno sosterrà costantemente ciò che abbiamo pubblicato non molto tempo fa nelle Lettere Encicliche sulla costituzione cristiana dello Stato.

6. Per il resto, che fioriscano tra voi l’amore e la concordia degli animi, pensando allo stesso modo con un’anima sola e una sola mente. (Phil 2.2.) Per questo motivo vi raccomandiamo vivamente di condividere spesso i vostri progetti tra di voi e di tenere sinodi episcopali in vari luoghi per soddisfare gli obblighi del vostro sacro ufficio. Avete con voi il Legato della Sede Apostolica, che vi dirà il Nostro pensiero e i Nostri consigli. Inoltre, per l’amore paterno con cui vi abbracciamo, avete Noi in ogni momento pronti a prestare aiuto al vostro lavoro.

7. Dio vi conceda molto benevolmente i doni delle sue benedizioni celesti, che forniscono la forza necessaria per ricoprire l’ufficio pastorale in modo santo e corretto. Come promessa di questi doni, Venerabili Fratelli, impartiamo con grande amore la Benedizione Apostolica a voi, al vostro clero e al popolo che è stato affidato alle vostre cure.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 2 luglio 1894, nel diciassettesimo anno del Nostro pontificato.

LEO XIII

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2023)

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Croce in Gerusalemme.

Semidoppio; Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei o rosacei.

In questa settimana la Chiesa, nell’Ufficio divino, legge la storia di Mosè (Le lezioni del 1° Notturno e i responsori della Domenica e della settimana sono presi dal libro dell’Esodo. È un riassunto di quanto si leggeva anticamente). Là si riassumono due idee. Da una parte Mosè libera il popolo di Dio (2a lezione della Domenica) dalla cattività dell’Egitto e gli fa passare il mar Rosso (Idem 4° e 5° Respons.). Dall’altra egli lo nutre con la manna nel deserto (2° respons. di martedì.); gli annunzia che Dio gli invierà « il Profeta » che è il Messia; gli dà la legge del Sinai (6° e 7° respons. della Domenica) e lo conduce verso la terra promessa ove scorrono latte e miele (2° e 3° respons. di lunedì. –  Nelle catacombe troviamo rappresentata l’Eucaristia per mezzo di un bicchiere di latte o di miele, intorno al quale volano delle api simbolizzanti le anime). Là un giorno sarà costruita Gerusalemme (Com.) e il suo Tempio, fatto ad immagine del Tabernacolo nel deserto, là le tribù di Israele saliranno per cantare ciò che Dio ha fatto per il suo popolo (Intr., Grad., Com.). « Lascia andare il mio popolo perché mi onori nel deserto », aveva detto Dio, per mezzo di Mosè, a Faraone. La Messa di oggi mostra la realizzazione di queste figure. Il vero Mosè, difatti è Cristo, che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato (id.) e ci ha fatto passare attraverso le acque del Battesimo; che ci nutre della sua Eucaristia, della quale ne è figura la moltiplicazione dei pani (Vang.), e che ci fa entrare nella vera Gerusalemme, cioè nella Chiesa, figura dei Cielo ove noi canteremo per sempre « il cantico di Mosè e dell’Agnello » (Apocalisse), per ringraziare il Signore della sua bontà infinita a nostro riguardo. È dunque naturale che in questo giorno la Stazione si tenga in Roma a Santa Croce in Gerusalemme. Sant’Elena, madre di Costantino, che abitava sul Celio una casa conosciuta col nome di casa Sessoriana, trasformò questa casa in un santuario per riporvi le insigni reliquie della S. Croce: e questo santuario rappresenta, in qualche modo, Gerusalemme a Roma. Così l’Introito, il Communio e il Tratto parlano di Gerusalemme che S. Paolo paragona nell’Epistola al Monte Sinai. Là il popolo cristiano canterà in mezzo alla gioia « Lætare » (Intr., Epist.) per la vittoria ottenuta da Gesù sulla Croce a Gerusalemme, e sarà evocato il ricordo della Gerusalemme celeste le cui porte ci sono state riaperte da Gesù con la sua morte. Questa è la ragione per cui in altri tempi si benediceva in questa Chiesa e in questo giorno una rosa, la regina dei fiori, perché così la ricordano le formule della benedizione; — uso consacrato dall’iconografia cristiana — essendo il cielo rappresentato da un giardino fiorito. Per questa benedizione si usano paramenti rosacei e così tutti i Sacerdoti possono oggi celebrare coi paramenti di questo colore. Questo uso da questa Domenica è passato alla 3a di Avvento, che è laDomenica Gaudete « Rallegratevi » e che nel mezzo dell’Avvento, viene ad eccitarci con una santa allegrezza a proseguire coraggiosamente la nostra laboriosa preparazione alla venuta di Gesù (Il diacono si riveste della dalmatica e il suddiacono della tunica, segni di gioia. L’organo fa sentire la sua voce armoniosa e l’altare è ornato di fiori.). A sua volta la Domenica Lætare (Rallegratevi) è una tappa in mezzo all’osservanza quaresimale. « Rallegriamoci, esultiamo di gioia », ci dice l’Introito, perché morti al peccato con Gesù durante la Quaresima, presto risusciteremo con Lui mediante la Confessione e la Comunione pasquale. Per questa ragione il Vangelo parla nello stesso tempo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, simbolo dell’Eucaristia e del Battesimo, che si riceveva una volta proprio nel tempo di Pasqua, e l’Epistola fa allusione alla nostra liberazione per mezzo del sacramento del Battesimo (altre volte ricevuto dai catecumeni a Pasqua). E se noi abbiamo avuto la sventura di offendere Dio gravemente, la Confessione pasquale, ci darà la liberazione. Così l’Epistola ci ricorda, con l’allegoria di Sara e di Agar, che Gesù Cristo ci ha liberati dalla schiavitù del peccato.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Is LXVI: 10 et 11

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ.

[Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI: 1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ.

[Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus.

[Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV: 22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”.

“Fratelli: sta scritto che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava, e uno dalla libera. Ma quello della schiava nacque secondo la carne, quello della libera, invece, in virtù della promessa. Le quali cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono le due alleanze. L’una del monte Sinai, che genera schiavi, e questa è Agar. Il Sinai, infatti, è un monte dell’Arabia, che corrisponde alla Gerusalemme presente, la quale è schiava coi suoi figli. Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera, ed è la nostra madre. In vero sta scritto: Rallegrati, o sterile, che non partorisci; prorompi in grida di gioia, tu che sei ignara di doglie, poiché i figli della derelitta son più numerosi che quelli di colei che ha marito. Quanto a noi, fratelli, siamo, come Isacco, figli della promessa. E come allora chi era nato secondo la carne, perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. Ma che dice la Scrittura? Scaccia la schiava e il suo figlio, perché il figlio della schiava non sarà erede col figlio della libera. Perciò, noi, o fratelli, non siamo figli della schiava, ma della libera, in virtù di quella libertà con cui Cristo ci ha affrancati”. (Gal. IV, 22-31) .

LA SCHIAVITÙ DELLA LEGGE E LA LIBERTA’ DI GESÙ CRISTO.

Colla Epistola di questa domenica noi tocchiamo, fratelli, un punto fondamentale nella dottrina di San Paolo, non oserei dire famigliarissimo oggi ai nostri Cristiani. La ragione è, in parte nelle mutate condizioni religiose dell’età nostra di fronte a quella che fu davvero l’età di San Paolo. Fervevano allora le dispute fra i Giudei e i Cristiani, quelli attaccati alla loro legge, la legge di Mosè e questi fieri della Religione nuova, la Religione del Vangelo di Cristo. La Legge era la sintesi del giudaismo, di quella che oggi chiamiamo la sinagoga; essa abbracciava tutto l’insieme, per allora, poderoso di aiuti che per secoli e millenni la religione dei Patriarchi e dei Profeti fornì agli ebrei per portarli a Dio. Per allora, ho detto: perché noi sappiamo che quella economia religiosa era un’economia passeggera, transeunte. Un altro ordine di cose doveva inaugurare Iddio nella pienezza dei tempi. Infatti, quando venne N. S. Gesù, e parlò Lui il Verbo suo nuovo, e operò e patì, allora l’umanità accettò il Vangelo, sentì la povertà (relativa) del precedente regime; come chi riesce ad andare oggi in automobile sente la povertà (relativa) delle vecchie carrozze, anche le più veloci e famose. In Paolo questo sentimento fu acutissimo, quasi spasmodico. Aveva respirata con orgoglio l’atmosfera della legge negli anni del suo bollente nazionalismo religioso; dalla chiusa torre della legge aveva guardato con orgoglio il resto dell’umanità, si era irritato fino alla crudeltà quando degli Israeliti come lui, avevano cominciato a parlare di un’altra cosa che non era più la legge e che la superava e si proponeva di sostituirla. E un bel giorno egli Paolo, fece la esperienza di quella novità che aveva fino allora odiata e bestemmiata. – Amò Gesù, ne accettò il Vangelo, la novella buona: buona e nuova. L’accettò con tutta la sua anima. E fu un senso di liberazione. Non la liberazione da un appoggio, che ti fa cadere più in basso; no; liberazione, invece, da un peso, la vera liberazione che ti fa ascendere più in alto, dal mondo della luce, pura e fredda, la sua anima era passata nel mondo del calore. Il mondo della luce era la legge. Proprio così. – La legge, qualunque essa sia, divina od umana, religiosa e civile, ti fa vedere la strada: ecco tutto. Non ti aiuta a percorrerla. In questo la legge somiglia alla filosofia, antica e moderna, anche la filosofia morale ci fa vedere il bene ed il male, ma l’anima ripete col vecchio sapiente: vedo il meglio e l’approvo come tale con la mente, seguo il peggio con la mia volontà. Mancano le forze, l’energia. Gesù ha portato questo al mondo: l’energia che si chiama amore, carità. Il bene non pesa più. Il giogo, senza cessare di essere severo, anzi essendolo diventato anche di più, si è alleggerito. Gesù aveva detto: Il mio giogo è soave, il peso ne è più leggero… in confronto, si intende, del vecchio giogo legale. Lo aveva detto Gesù e lo ripete sotto altra forma e lo corrobora con ragionamenti adatti a quei Farisei con i quali Egli discuteva: sottili, sofistici, disquisitori, ai quali Paolo tiene testa bravamente. E noi dobbiamo riprendere questo insegnamento di libertà non per liberarci dalla Legge morale, ma per sentirci liberi dalla legge per liberarci dalla perfidia, non per amare meno la legge Divina, ma per amarla di più, per osservarla più generosamente e più liberamente. È  la libertà vera dei figli di Dio.

Graduale

Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis.

[V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus

Ps. CXXIV: 1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem.

[Quelli che confídano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi àbita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum.

[V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VI:1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilææ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.”

 “In quel tempo Gesù se ne andò di là dal mare di Galilea, cioè di Tiberiade; e seguivalo una gran turba, perché vedeva i miracoli fatti da lui a pro dei malati. Salì pertanto Gesù sopra un monte, e ivi si pose a sedere co’ suoi discepoli. Ed era vicina la Pasqua, solennità de’ Giudei. Avendo adunque Gesù alzati gli occhi e veduto come una gran turba veniva da lui, disse a Filippo: dove compreremo pane per cibar questa gente? Lo che Egli diceva per far prova di lui; imperocché egli sapeva quello che era per fare. Risposegli Filippo: Duecento denari di pane non bastano per costoro, a darne un piccolo pezzo per uno. Dissegli uno de’ suoi discepoli, Andrea, fratello di Simone Pietro: Evvi un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che è questo per tanta gente? Ma Gesù disse: Fate che costoro si mettano a sedere. Era quivi molta l’erba. Si misero pertanto a sedere in numero di circa cinquemila. Prese adunque Gesù i pani, e rese lo grazie, li distribuì a coloro che sedevano; e il simile dei pesci, nuche ne vollero. E saziati che furono, disse ai suoi discepoli: Raccogliete gli avanzi, che non vadano a male. Ed essi li raccolsero, ed empirono dodici canestri di frammenti dei cinque pani di orzo, che erano avanzati a coloro che avevano mangiato. Coloro pertanto, veduto il miracolo fatto da Gesù, dissero: Questo è veramente quel profeta che doveva venire al mondo. Ma Gesù, conoscendo che erano per venire a prenderlo per forza per farlo loro re, si fuggì di bel nuovo da sé solo sul monte” (Io. VI, 1-15).

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA TENTAZIONE DI FILIPPO

Oramai tutta la Galilea era piena di prodigi del Signore, tutti ne parlavano, tutti desideravano vederlo e toccarlo perché dalla sua Persona raggiava un’invisibile virtù che sanava ogni malanno: quelli del corpo e quelli dell’anima. Perciò le turbe lo seguivano, di là dal lago di Tiberiade, dovunque andasse. E Gesù salì un monte brullo e deserto, e le turbe dietro. Seduto sulla cima, coi discepoli, il Maestro riguardava quella povera gente che grondante e anelante s’affaticava per i viottoli rupestri fino a raggiungere lo spiazzo dov’Egli era ad aspettarli: erano forse cinquemila uomini senza contarvi i fanciulli e le donne che non dovevano essere pochi. Intanto il sole volgeva al suo tramonto, e le folle, lontane da casa nel deserto, avevano fame. Allora Gesù, per tentarlo nella fede e nell’amore, si chiamò vicino Filippo, quell’Apostolo così semplice che una volta gli aveva chiesto: « Fammi vedere il tuo Padre celeste che poi non ti domanderò più niente » (Giov., XIV, 8). « Filippo — gli disse il Signore, — guarda quanta gente: dove e con che cosa possiamo comprare il pane che basti a sfamarla? » Il buon uomo cominciò a pensarci, a tormentarsi, a non raccapezzarci più. Con voce tremante rispose: « Poveri noi, in quali angustie ci troviamo! Ma nemmeno duecento danari basterebbero a dare a ciascun di costoro un frustolo di pane! ». Il Figlio di Dio sapeva bene che voleva fare. Comandò alle turbe di sedere sull’erba dei pascoli, poi prese da un ragazzo, che li aveva, cinque pani d’orzo e due pesci e li moltiplicò. Tutti mangiarono a sazietà e vi fu un avanzo di dodici canestri di frammenti. Chissà con che grandi occhi Filippo avrà guardato il miracolo, e chissà con che pentimento avrà detto a se stesso: « Dunque, Gesù ha fatto così per tentarmi! ed io ignorante non ho capito, e mi sono lasciato scappare la bella occasione per testimoniargli la mia fede nella sua divinità, per testimoniargli il mio piccolo amore nel suo amore infinito ». O Cristiani! La bella occasione che Filippo, l’Apostolo ingenuo, si è lasciato sfuggire, noi l’abbiamo qui. Che cosa sono le croci, le tribolazioni, le malattie, se non una prova che Gesù vuol fare di noi? Diamogli dunque la testimonianza entusiastica del nostro cuore. Come un giorno Filippo, così oggi anche noi, Gesù viene a tentare, non già per indurci a peccato, — che questo è proprio del demonio, e in questo senso nessuno dica di essere tentato da Dio (Giac., I, 13) — ma per sperimentare la nostra virtù. Gedeone mosse alla guerra con trecento uomini: ciascuno portava una tromba, ciascuno portava un’anfora vuota con dentro una fiaccola accesa. Giunsero sul campo verso la mezzanotte: il capitano ordinò improvvisamente che squillassero le trombe e battessero le anfore, perché rompendole apparisse nella notte il lume svelato. E la vittoria fu grande. Proprio così fa Gesù Cristo con noi, suoi soldati: ci fa talvolta gridare dal dolore e ci fa percuotere in tutto ciò che è caduco e terreno, perché risplenda più lucida la nostra virtù (Giudici, VII). – « Allora, oh beato l’uomo che sopporta la tentazione di Gesù! Perché, una volta provato, riceverà la corona di vita che Dio ha promesso agli amici suoi » (Giac., I, 12 – 1. GESÙ CI TENTA NELLE COSE TEMPORALI. Gesù spesso prova i suoi amici nelle cose temporali: 1) nella roba: per sperimentare la nostra fiducia nella Provvidenza; 2) nella salute: per sperimentare la nostra pazienza nelle malattie; 3) nell’onore: per sperimentare la nostra umiltà. a) Gesù ci tenta nella roba. — Nella vita del Beato Cottolengo, si racconta come un certo Cuvertino, panettiere della « Piccola Casa » si presentò per il saldo della partita, che ammontava già a diciotto mila lire. Il Beato, che aveva nemmeno l’ombra di un quattrino, cercò di condirgli il rifiuto con buone parole, rassicurandolo che la Provvidenza non avrebbe mancato per tutti e due. Giunta la sera, mentre il santo Sacerdote pregava e piangeva davanti al Sacramento chiedendo aiuto, il panettiere nella sua casa si struggeva pensando come avrebbe potuto salvarsi dal fallimento se il Cottolengo non gli saldava la fattura. Quand’ecco qualcuno bussa alla sua porta, ed entra uno sconosciuto: « Ditemi, signor Cuvertino, a quale cifra ammonta il debito del Cottolengo con voi? » « A diciotto mila ». « Prendete: fate una ricevuta che domani porterete al Canonico ». Questa non è un’antica parabola; ma un fatto reale. E simile a questo, tanti altri, ogni giorno, avvengono alla « Piccola casa della Provvidenza ». Talvolta anche le nostre famiglie sono provate nelle strettezze della miseria: ricordiamoci che è Gesù che ci tenta, per provare la nostra fiducia. Quel Dio che provvede agli uccelli e ai gigli, quel Dio che fece cadere la manna agli Israeliti affamati e che moltiplicò i pani nel deserto, ha cura anche di noi. Lavoriamo e preghiamo, sperando. b) Gesù ci tenta nella salute. — Il vecchio Tobia, mentre pranzava in un giorno di festa, seppe che sulla piazza giaceva il cadavere d’un israelita. Tosto balza da tavola, corre a prendere il morto, e lo nasconde in casa sua, per seppellirlo cautamente nella notte, ché una legge iniqua lo proibiva. Proprio un giorno che stanco per una di queste opere di misericordia, riposava sotto un murello, gli cadde negli occhi, dall’alto, un non so che d’immondo e divenne cieco. Allora vennero i suoi parenti e i conoscenti a trovarlo, e lo derisero: « To’, che bel guadagno! Hai messo a repentaglio la vita per fare del bene, abbondavi in elemosine, temevi il Signore sopra ogni cosa, ed ecco come sei stato ripagato ». « Non dite così; — rispondeva il Santo; — noi siamo figli del popolo eletto ed aspettiamo quella vita che Dio è per dare a quelli che sopportano in pazienza ». – Quando le malattie ci affliggono, quando penose infermità colpiscono i nostri cari, ricordiamoci di questi generosi sentimenti. È Gesù che ci prova, e non dobbiamo lamentarci, e nemmeno ripetere le bestemmie che dissero i parenti e i conoscenti di Tobia. c) Gesù ci tenta nell’onore. — L’onore, il buon nome, è forse la cosa a cui l’uomo s’attacca più tenacemente. Si sono visti dei re, che dopo aver perso tutto, si consolavano perché non avevano perso l’onore. Gesù talvolta ci prova in questo orgoglio; per insegnarci che più d’ogni cosa nostra dobbiamo amare Iddio. V’era forse una donna più casta di Susanna, la sposa di Ioachim? Eppure ecco che due scellerati, non avendo potuto vincerla nella virtù, la calunniano di cose infami. Tutto il popolo ne è scandalizzato, tutti accusano quella donna che fin allora aveva rispettato come la più onesta figlia d’Israele. I giudici la condannarono a morte e la costrinsero a levarsi il velo con cui coprivasi gli occhi. Susanna levando gli occhi al cielo sperò in Dio contro la stessa speranza: « Dio eterno, — esclamò piena di confidenza — tu le cose occulte conosci come le palesi, tu sai come costoro m’hanno calunniata: ed ecco ch’io muoio; innocente, ma disonorata ». Mentre Susanna veniva condotta alla lapidazione, Dio suscitò il profeta Daniele a salvarla. Capita quaggiù, e non di rado, di sentirsi calunniati ingiustamente; di vedersi sprezzati dal prossimo, segnati a dito come malfattori, disonorati. È questa una delle prove più dure, ma pur essa è una prova che Gesù ci manda per sperimentare la nostra umiltà. Non disperiamoci, non scagliamoci contro i calunniatori ma sopportiamo; anche per noi, come già per Susanna, verrà il giorno della verità, se non in questa vita nell’altra davanti a Dio. E sarà più bello. 2. GESÙ CI TENTA ANCHE NELLE COSE SPIRITUALI Con le aridità. — Santa Teresa di Gesù per due anni non seppe aprir bocca a pregare. Appena si metteva in ginocchio, appena raccoglieva le mani e la mente, subito un fastidio la tormentava così che doveva alzarsi e attendere ad altro. Perfino nella S. Comunione sentiva la sua anima chiusa e lontana, e non poteva dire una parola. E per due anni, invece di fare il ringraziamento, giacché il suo confessore le imponeva di comunicarsi egualmente, si metteva a spolverare le panche della Chiesa. « O Gesù, — disse una volta addoloratissima, — mi hai Tu proprio abbandonata? » E Gesù le rispose: « In tutta la tua vita non hai fatto tanto bene come in questi due anni ». Anche a molti Cristiani capita di perdere il gusto della preghiera e delle opere buone. Guai a quelli che si lasciano vincere dall’aridità e tralasciano di far bene, di pregare, ubbidire al loro confessore! Dimostrerebbero che nella pietà loro non cercano Dio ma se stessi e la propria consolazione. Invece non bisogna scoraggiarsi, ma seguire il consiglio di Davide: « Aspetta che il Signore ritorni, ma intanto conforta il tuo cuore ad agire fortemente » (Ps., XXVI, 14). E poi ricordiamoci che il bene tanto più vale quanto più costa. – Col permettere che il demonio ci lusinghi al male. — Dopo una giornata di terribili tentazioni, superate vittoriosamente, S. Caterina da Siena vide Gesù Cristo venirle incontro: « Signor mio! — esclamò la vergine — e dov’eri Tu un momento fa quando fantasmi turpissimi tutta mi travagliavano? » « Ero nel tuo cuore, e godevo di assistere a così bella lotta » rispose Gesù. « E come fu possibile che il mio Signore rimanesse in un cuore infestato da pensieri cattivi »? Cristo le soggiunse: « Ogni volta che tu resistevi alla tentazione, compivi il più bell’atto d’amore che tu sai fare; ed ogni vittoria rendeva la tua anima più bella che non l’avrebbero resa molt’anni di penitenze e di preghiere ». – Ecco perché il Signore anche a noi permette le tentazioni del demonio; ecco perché non dobbiamo lamentarci e nemmeno spaventarci se per giorni interi satana rugge intorno alla nostra anima. La lotta ci rende robusti, la lotta ci rende più cari a Dio, la lotta ci acquista il premio in Paradiso. – È scritto nella storia sacra che Giuseppe, elevato alla più alta dignità dell’Egitto. vide arrivare dalla terra di Chanaan colpita dalla carestia i suoi fratelli, quei fratelli che erano stati invidiosi di lui, che l’avevano sepolto nella cisterna, che l’avevano venduto come uno schiavo di poco prezzo. « Donde venite? » disse loro fingendo cipiglio crucciato. « Dalla terra di Chanaan per comprare il grano, perché là si muore di fame, risposero tremanti. « Invano; mentite! » ripigliò Giuseppe mostrando di non riconoscerli e di metterli alla prova. « Voi siete spie: siete arrivati in Egitto per conoscere i luoghi meno fortificati del paese ». Essi si prostrarono per terra e supplicarono: « Noi siamo tuoi servi, noì siamo dodici fratelli: il più piccolo, Beniamino, è rimasto a casa col vecchio padre; ne avevamo un altro, Giuseppe… ma adesso non c’è più ». Il Vice Re soggiunse: « La cosa sta come ho detto: voi siete spie! ». Allora pallidi e spauriti si dissero l’un l’altro: « Con ragione soffriamo, abbiamo venduto un fratello, abbiamo disprezzato l’angoscia ch’era nel suo cuore, abbiamo riso sulle sue preghiere: per questo sopra di noi è venuta la tribolazione ». Essi pensavano che Giuseppe non li intendesse, ma egli tutto capiva e voltandosi da una parte pianse per qualche momento. Poi ricompose la faccia scura. Avertit se parumper et flevit… et reversus quasi ad alienos durius loquebatur (Gen., XLII, 1,24). È così che nostro Signore Gesù Cristo tenta anche noi, suoi fratelli, che l’abbiamo perseguitato, che l’abbiamo venduto più volte, che l’abbiamo sepolto nella cisterna dei nostri peccati. Egli finge di non riconoscerci più: e ci parla duramente e ci prova con la miseria, con la malattia, con la calunnia, con l’aridità, col permettere al demonio di tentarci. Ma Egli ci ama, e vedendoci soffrire, come Giuseppe nasconde la sua faccia e piange. Avertit se parumper et flevit. Passata la prova, come Giuseppe l’ebreo, così Gesù si disvelerà ai nostri occhi, ci bacerà sulla fronte, e sarà una gioia senza confine. – – L’USO DEI BENI MONDANI. Questa folla assetata di verità che segue Gesù per aspro cammino fin nel deserto, dimenticando la povera natura con le sue necessità, ci insegna quale conto dobbiamo noi fare dei beni terreni. Quæ sursum sunt quærite! La nostra dimora non è questa, ma è lassù in Paradiso, cerchiamo dunque i beni non di terra, ma del Paradiso. – Ma intanto noi siamo in esilio, a contendere con le dure esigenze della vita materiale, perciò, non possiamo totalmente prescindere dalle cose terrene: poiché alcuni beni sono necessari alla nostra vita; altri, quantunque superflui, possono allietarci l’esistenza e li possiamo veder raffigurati in tutto quel pane che è sopravanzato alla fame della folla; in fine ci sono ancora quaggiù dei beni che ci elevano sopra gli altri uomini dandoci una maggior gloria e potenza. Deduciamo dal santo Vangelo di questa domenica in qual modo dovremo noi diportarci con questi diversi beni terreni e fugaci, se non vogliamo perdere l’unico Bene celeste ed eterno. 1. I BENI NECESSARI ALLA VITA TERRENA. Gesù un giorno, in mezzo ai suoi dodici, disse stupendamente così: « Non crucciatevi per il vitto, e come vi procurerete da mangiare; non crucciatevi per le vesti e di come vi procurerete da vestire. La cosa più importante è l’anima: tutto il resto passa e finisce. Guardate i corvi che non seminano, non coltivano, non mietono, non hanno granai: eppure non muoiono di fame. Guardate i gigli che non hanno niente, non sanno neppur filare: ebbene, non sono nudi, ma hanno un vestito che non ebbe l’eguale neanche Salomone nei giorni della sua gloria. Ma se il Signore ha tanta premura per i corvi e per i gigli, quanta non ne avrà per voi, creati per amarlo in tutta l’eternità!… ». Queste parole infondono nell’anima di ciascuno una quieta fiducia nella divina Provvidenza che dal Cielo ci sorveglia e conosce ogni nostro bisogno. Quærite primus regnum Dei. La nostra premura principale deve essere per ciò che è più importante: la vita eterna. Il resto ci sarà aggiunto, se però non è di impedimento.  E così hanno fatto le turbe: hanno cercato per primo il bene della loro anima senza preoccuparsi del corpo e delle sue necessità, e nel deserto non sono morti né di fame, né di sete. Facite homines discumbere… et distribuit discumbentibus quanmem volebant…. impleti sunt. Quando il popolo di Israele, emigrante dall’Egitto, si trovò affamato nella solitudine del deserto, la Provvidenza di Dio fece piovere per loro la manna. Ci furono degli ingordi che per la gretta paura di non averne abbastanza, ne raccolsero per più giorni. Ma al giorno dopo, protendendo la loro avida mano ai vasi colmi, trovarono che la celeste manna s’era tramutata in vermi schifosi. Cristiani: quegli uomini che dimenticano gli interessi dell’anima. per il cibo materiale e le cose, siano pur necessarie, della vita corporale, dopo la giornata di questa vita, troveranno il frutto dei loro sudori tramutato in vermi. – 2. I BENI SUPERFLUI ALLA VITA TERRENA. Sulla terra non ci sono appena uomini che hanno da sudare per vivere giorno per giorno; ma ci sono anche quelli che vivono in una discreta agiatezza ed alla cui mensa c’è sempre qualche cosa che sopravanza. Ebbene, è per essi la lezione che il divin Maestro c’insegna oggi dal deserto: « Colligite fragmenta, quæ superaverunt, ne pereant ». Nel castello dei signori d’Aquino c’era qualche cosa di più del semplice necessario. Ed era un immenso piacere per il giovanetto Tommaso quando poteva raccogliere un poco di quel superfluo per distribuirlo ai poverelli di Cristo. Il padre suo che vedeva ogni giorno scomparire dalle dispense non poche vivande, rimproverò acerbamente il figliuolo e gli proibì di distribuire ai poveri qualsiasi altra cosa senza il suo permesso. Il giovane però, che non ragionava più con la prudenza degli uomini, ma con la prudenza di Dio, continuò ancora a sfamare i poveri ed a colmare la loro indigenza coll’abbondanza della casa paterna. Ma una volta fu sorpreso dal padre con un grosso fardello sotto il braccio. « Voglio vedere che cosa tieni! » gridò il genitore accigliato, precludendogli la via. Il figliuolo impallidì, quasi tremando. Ma il padre non si piegò: « Voglio vedere!… ». Il piccolo Tommaso guardò il padre con occhi pieni di lagrime, poi aprì il mantello e … lasciò cadere. E apparve, sotto gli occhi attoniti del padre e del figlio, un gran fascio di freschissime rose. Tutto quello che noi diamo ai poveri non è perduto, ma è raccolto: « manus pauperis est gazophilacium Christi », ha detto S. Giovanni Crisostomo. Tutto quelle che noi diamo ai poveri per amor di Cristo, si tramuterà in fiori per la nostra immarcescibile corona del Paradiso. Invece quello che si consuma in esagerati divertimenti, in teatri, nei caffè, nei giuochi, nelle intemperanze, questo non è raccolto e perisce. Colligite fragmenta quæ superaverunt, ne pereant. Quello che si consuma nel seguire le mode pazze e costose, in vesti di seta, in pellicce finissime, in collane, gingilli, questo certo non è raccolto, ma perisce. E talvolta con queste mode sciocche e forse indecenti, si ha il coraggio di presentarsi al tempio di Dio, dove ci sono i poveri che cercano piangendo quello che Dio dà ai corvi e ai gigli: un pane quotidiano e una veste. – 3. IL BENE DELL’ONORE MONDANO. Avendo Gesù conosciuto che il popolo sarebbe accorso per farlo re — ut facerent eum regem — fuggì segretamente sui monti. Questo esempio si ripercosse nella vita di tutti i Santi: leggendo la vita di questi eroi, traspare da ogni loro azione quanto aborrissero da ogni onore, dopo che il loro Maestro aveva preferito fuggire sui monti, piuttosto che lasciarsi proclamare re da quella folla che aveva mangiato il suo pane. E deve essere stato commovente nel palazzo del marchese Gonzaga assistere ad una strana festa. Erano stati invitati tutti i parenti e l’aristocrazia delle corti amiche. Che cosa poteva arridere di più alla mente sognatrice di un giovane che la lusinga dello splendore, della potenza, della corona? Ed ecco: invece, in mezzo a quegli illustri personaggi, apparire il primogenito del marchese Ferrante Gonzaga, che, senza rimpiangere, solennemente respinse da sé lo splendore, la potenza e la corona marchionale. Getta via i suoi abiti preziosi per indossare una tunica nera, e nascondersi nel convento e confondersi coi poveri e coi sofferenti fino a curarne le piaghe infettive. E quando la peste contratta nell’assistere gli ammalati lo condurrà a morte, egli sorridendo chiuderà gli occhi per vedere quale splendore, quale potenza, quale splendida ed eterna corona gli portano gli Angeli, in compenso ai mondani onori che egli ha respinto per imitare Gesù Cristo. Ma perché Gesù è fuggito quando volevano farlo re? perché gli onori del mondo sono falsi e in sé e da parte di chi li offre. Bugiardi in sé. — 1) Perché c’ingannano: ci fanno credere che siamo più degli altri, e forse ne siamo peggiori, « dicis: quod dives sum locupletatus et nullius egeo: et nescis quia tu es miser et miserabilis et pauper et cœcus et nudus » 2) Perché sono fugaci: e lo dimostra il profeta Ezechiele con una similitudine: « Assur si è innalzato come un altissimo cedro. Il cielo l’ha dissetato con la sua rugiada, la terra l’ha nutrito con la sua sostanza. Ed egli si rizzò nella sua superbia: bello nella sua verdura e foltissimo di rondini. Gli uccelli volavano a porre il nido sotto le sue braccia, e i popoli sotto ai suoi rami cercavano ombra ». Ma la fortuna è troppo breve: il Signore lo colpisce dalla radice e cade a terra. Bugiardi da parte di chi ci onora. — Le turbe volevano proclamare Gesù re, non per un affetto puro; ma per egoismo, per il proprio pane. Gesù sapeva moltiplicare il pane, e quelli nella speranza che a’ suoi sudditi non l’avrebbe mai lasciato mancare, lo vogliono per loro re. Amen, amen dico vobis: quæritis me non quia vidistis signa, sed quia manducastis ex panibus. E quando spiegò che Egli portava al mondo il pane delle anime, l’Eucaristia, tutti lo abbandonarono e più nessuno lo gridò re. – La regina Isabella di Spagna aveva ricchezze, regni, onori, bellezza e tutto quanto nel mondo si può desiderare. Tre giorni dopo la sua morte fu vista da un suo ammiratore: senza ricchezze, senza regni, senza onori, schifosa. Ecco dove vanno a finire tutti i beni temporali e gli onori. Non illudiamoci. Operamini non panem qui perit; sed qui permanet in vitam æternam (Giov.,VI, 27). Procuratevi non già il pane per riempirvi; ma un cibo che nutrisce per la vita eterna.

IL CREDO

 Offertorium

Orémus Ps CXXXIV: 3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra.

[Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine.

[Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

Orémus. Da nobis, quæsumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus.

[Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA