LO SCUDO DELLA FEDE (244)

LO SCUDO DELLA FEDE (244)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (13)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO III

IL SACRIFICIO DIVINO

ART. II

LA CHIESA.

La Chiesa è la congregazione di tutti i fedeli, i quali professano la medesima fede e legge di Gesù Cristo, partecipano dei medesimi Sacramenti, sotto la condotta dei legittimi pastori, e l’ubbidienza del sommo Pontefice Romano. È la società degli uomini con Dio riconciliati per Gesù Cristo. Questa società è destinata a compiere il numero degli eletti in Paradiso, essendo ella il mezzo scelto da Dio per far trionfare la sua gloria e la sua bontà. Avendo Iddio creato l’universo pel trionfo della sua gloria e per isfogo della sua bontà, ne consegue, come dice s. Epifanio con energica espressione, che principio di tutte le cose è la Chiesa cattolica; e fine è il numero degli eletti da lei condotti in Paradiso. Ordinata così da Gesù Cristo, è incaricata da Lui di propagare la verità, le grazie, le virtù. La verità, contenendo il deposito dei sacri dogmi ad essa confidati, e predicandoli continuamente, per sempre, in tutte le parti dell’universo: le grazie traendole da Dio coll’oblazione del Sacrificio, e comunicandole agli uomini coll’amministrare loro i Sacramenti: le virtù col condurre gli uomini a far tutto a gloria di Dio, secondo i precetti della dottrina divina. Per questo divino ministero è detta nella Tradizione « ancella del Signore, » (S. August. in Ps. 88, cont. 2.) incaricata che la è del servizio divino: e s. Agostino la chiama tabernacolo della Divinità: vero trono di Dio in sulla terra la dice s. Pietro Damiano (Op. 6, ad Henric. Ar.): tempio e sacrario della Divinità la saluta s. Ambrogio (Lib. 3 Hexam. cap. 1). Così ella, essendo unita con Dio, e Dio affidandole i tesori, che vuol partecipare agli uomini, tiene in mano tutti i sacri carismi, ossia è padrona e dispensiera di tutte le grazie, e forma sulla terra la vera corona di Dio (S. Hier. in Psal. 20.). Tutti questi doni poi derivano nella Chiesa da Gesù Cristo, che non solamente l’ha lavata, e rigenerata col suo Sangue, ma eziandio si è unito a lei come capo di questa società, di cui i fedeli sono le membra, ed ha promesso di star con essa indivisibile, come il capo non si può dividere più dalle altre membra del corpo (S. August. in Ps. 44, con. 2.). Questo gran Capo in cielo, Gesù, sta nella Chiesa, anche in terra sempre personalmente, e realmente frammischiato ai fedeli nel SS. Sacramento. Oggetto delle compiacenze divine in mezzo agli uomini, tira sopra essi tutto il cuor del Padre. Per il che il Padre divino, guardandolo qui, (se ci è permesso di dir cose divine in modo umano) par che dir debba: « Là è il Figliuol mio Unigenito, là fra le membra che si ha formate in terra Io l’amo e per Lui amo tutte le membra che ha seco incorporate.» La Chiesa poi a Gesù tenendosi abbracciata in sull’altare, può dire a Dio in certo qual modo come sposa Divina: « qui siete Voi, mio Dio: e siete Voi carne della mia carne, ossa delle mie ossa, e nessuno mi potrà mai più separare da Voi. » Così a lui unita trae dal suo Costato la virtù di generare dal suo Sangue figliuoli pel paradiso all’eterno Padre. Ecco adunque la Chiesa, vergine casta di corpo, madre feconda di figli, immagine della città eterna (S. August. De unitate Eccl. cap. 4.), vera meraviglia di Dio in sulla terra. Ora il Sacerdote, sollevato in sulla terra fra le braccia di questa sposa, come tutta la famiglia, di cui ella è madre in terra, e padre è Dio in cielo; egli sa che, come le compiacenze del Padre son riposte nel Figlio suo Gesù, così le compiacenze di Gesù sono riposte nei fedeli, che compongono il suo Corpo, anzi il suo più caro corpo (S. Bernard. Serm. 12, in Cant.), che è la Chiesa; e trovandosi così tra le braccia della Chiesa e quelle di Dio, sente il bisogno di raccomandargli cotesta Sposa di Lui e madre sua, e lo supplica, affinché per quei sacrifici accettevoli, che gli vien ad offrire, si degni purificare, custodire, adunare e reggere per tutto il mondo la Chiesa cattolica insieme col suo servo, Papa nostro, col Vescovo e con tutti i fedeli. Raccomanda il romano Pontefice; poiché la Chiesa, nello stato di quaggiù, è fondata sopra una Pietra, contro la quale non possono prevalere le forze d’inferno: cioè sopra il capo degli Apostoli, che è s. Pietro, e sopra i romani Pontefici, suoi successori, supremi vicari di Gesù Cristo in terra. E sapendo per divina rivelazione, che, per beneplacito del divino Fondatore, questa Chiesa del romano Pontefice fu scelta in modo da non venir meno giammai, essendo così diventata per l’elezione come il fondamento e la parte essenziale della Chiesa universale; perciò raccomandando il Pontefice, raccomanda il capo, che è la parte principale del corpo.

(Nell’istante in cui stampiamo queste pagine (prima edizione an. 1855), ci giunge l’infallibile decreto dogmatico del S. P. Pio IX, che dà il Dogma dell’Immacolata Concezione. Con la pienezza del giubilo pel trionfo di Maria SS. noi acclamiamo pure il trionfo del Sommo Pontefice. – Noi pigliavamo ed esporre le nostre idee, quando ci giunse il fascicolo del periodico della Civiltà Cattolica, anno sesto, n. CXVII  seconda serie, vol. 9, in cui troviamo nell’Articolo l’Assemblea Cattolica e le assemblee eterodosse esposto con molta dottrina e lucidezza il meditato nostro concetto. Rimandando a quello il lettore, esponiamo qui brevemente questi pensieri. Il Pontefice pronuncia il Decreto; e la infallibile parola colla rapidità del baleno diffonde la fede in tutte le parti dell’universo. Le luminarie sembrano sull’istante dal telegrafo elettrico trasportate in un attimo dalla cupola di san Pietro per tutte le città, fino nel più piccolo contado al tugurio del povero, che fa festa dinanzi l’immaginetta di Maria Santissima. Dovunque è gioia e tripudio e festa pur non comandata. Il Pontefice ha parlato, e la sua parola è un lampo che rischiara tutte le menti di un medesimo Vero. Ecco ogni ginocchio è piegato, ogni voce è concorde, ogni sospiro unanime, e nell’unità di quei concenti armonici maestosamente dominante l’oracolo del successore di s. Pietro, che quasi non sai se segua il dettato tradizionale della Chiesa, o imponga alla Chiesa il dettato di s. Pietro. Il Pontefice parla ripetendo il domma, che da diciotto secoli si serba per tutte le vie delle generazioni novelle, e la Chiesa è certa di quel domma, perché l’oracolo del Vaticano lo assicura. – È vero, Egli ha consultato le Chiese dell’universo ; e i Vescovi dell’orbe cattolico portaron seco al Pontefice le credenze delle loro Chiese: ma confessavano che a crederlo di fede, aspettavano la parola del Pontefice che lo dichiarasse. L’ha pronunciata la parola infallibile quel labbro, che ha l’impronta della divinità; ogni intelletto crede, come ogni cuore adora. L’universo proclama quella parola come voce di Dio. Noi crediamo evidente questa conseguenza, come è evidente l’assioma, che dal fatto provato deduce la potenza di chi l’ha prodotto; e il fatto ha dimostrato che il Sommo Pontefice col suo oracolo INFALLIBILE dichiara e salda la fede in tutta la Chiesa cattolica. Questa adunque confessa di credere INFALLIBILE questo oracolo. L’infallibilità poi del Papa fu definita come dogma nel Concilio Vaticano.).

 Poi raccomanda i Vescovi, posti dal Signore a reggere le varie altre porzioni e membra, vere, e pastori delle anime, guardie del campo di Dio e duci del suo popolo santo, cui Costantino il Grande chiamava custodi dell’anima sua. Raccomanda, come s. Paolo esorta scrivendo agli Ebrei, ed al suo Timoteo, anche i re col loro nome particolare, dov’è concesso. Ben era edificante la carità dei primi Cristiani, che perseguitati a morte, celebrando nei sotterranei, pregavano, (come attestano Tertulliano, Origene e Dionisio) per la pace e prosperità, per le vittorie dei re tiranni. Ora con egual fervore la Chiesa raccomanda i re cattolici e i potenti della terra; affinché cerchino la felicità dei popoli, e la salute propria come buoni figliuoli in seno alla madre Chiesa; se pur non vogliano tradire i popoli a loro affidati col perdersi insieme con essi, e gettarsi a rovina fuori delle braccia di questa madre celeste. – Finalmente fin qui (dice il Cardinal Bellarmino) il Sacerdote ebbe pregato per tutti questi in modo particolare: convien pur ora che raccomandi tutti i fedeli nell’unità della Chiesa; e lo fa col pregare « per tutti gli ortodossi cultori della Cattolica Apostolica fede. » Poi finalmente passa a raccomandare le persone, verso cui ha particolari doveri, con quest’altra porzione di preghiera, che diamo qui, detta il Memento.

Art. II.

IL MEMENTO E LA COMMEMORAZIONE PEI VIVI.

Orazione.

« Ricordatevi, o Signore, dei vostri servi, e delle vostre serve (qui giunge le mani e prega per le persone che gli preme di raccomandare particolarmente; poi stendendo di nuovo le mani prosegue), e di tutti i circostanti, dei quali conoscete la fede, e vi è nota la divozione, pei quali noi vi offriamo questo sacrificio di lode per sé, per tutti i suoi, per la redenzione delle anime loro, per la speranza della salute e per la liberazione di tutti i mali, e rendono i loro voti a Voi, eterno, vivo, vero Iddio. »

L’ordine della preghiera.

In questa orazione si raccomandano le persone, per cui si ha particolare dovere di pregare. Questo vuol l’ordine della carità. La carità che è quella che spira la vita nell’ordine morale. non ha limiti, né esclude persona; ma tutti abbraccia per riunirli in seno a Dio. Mirando solo a questo fine, ella v’indirizza tutti i suoi atti. Ma essa è come l’ordine universale, con cui Dio tiene insieme tutte le creature, e mantiene l’armonia dell’universo. Quello non distrugge gli ordini particolari, anzi li compone in unità, gli armonizza e li dirige ad eseguire tutti insieme il provvidenziale disegno: ma in modo che ciascuna creatura, aggirandosi nel suo cerchio d’azione con quel movimento che la provvidenza le ha assegnato, ottenga il fine suo proprio, mentre pure concorre ad ottenere il fine universale. Così anche la carità ama tutti, e tutti vorrebbe con Dio: nutre tuttavia particolari affetti, e desidera più vivamente di operare il bene per quelli che ci appartengono più strettamente. Immagine della bontà di Dio, il quale mentre porta in seno e coltiva tutte le creature dell’universo da Lui sostenuto, usa nondimeno di consolare di speciale misericordia quelle anime che predilige per elezione: anche la carità della Chiesa abbraccia tutti i fedeli, e tutti li fa dal Sacerdote raccomandare; ma lascia poi anche alla sua divozione, che con Dio si rammenti in peculiare orazione di coloro, a cui è più strettamente legato, 1° per condizione del proprio stato ; 2° per attinenze, che nascono da particolari circostanze. Quindi dall’ordine della carità nasce l’ordine della preghiera.

L’ordine della preghiera riguardo alle persone da raccomandarsi.

Secondo quest’ordine dobbiamo in particolar modo pregare per coloro verso ai quali abbiamo doveri, prima per condizione di stato: in secondo luogo per casuali attinenze, che possiamo avere con essi. In primo luogo dunque dobbiamo in particolar modo pregare per quelli verso i quali abbiam doveri per condizione di stato. E per questo titolo numeriamo i tre ordini di persone seguenti, che dobbiamo raccomandare.

1° Coloro che sono affidati alle nostre cure; perché, se Dio ci affidò delle anime, il principal nostro dovere è di pregar per quelle; ché questo è il mezzo di tutti più efficace, per fare il loro bene davvero. Perciò appunto la Chiesa impone ai Vescovi ed ai parroci di offrire il santo Sacrificio della Messa, applicandone il frutto in ogni giorno festivo pel popolo alla loro cura commesso. E ciò è conforme all’esempio datoci da Gesù Cristo, il quale pur faceva questa bella orazione (Giov. XVII, 1): « Padre santo, salva nel Nome tuo quelli che hai dato a me; » poi diceva ancora: « non solo per essi prego; ma pure per quelli che sono per credere in me; acciocché tutti siano una cosa sola, siccome tu, o Padre, sei in me ed Io sono in Te; acciocchè essi siano in noi una cosa sola ».

2° Per condizione di stato si deve pregare altresì per coloro, coi quali sì hanno particolari relazioni spirituali . Il Sacerdote deve quindi pregar per coloro, che lo eleggono a fare l’offerta del Sacrificio, e deve applicare il frutto di cui può esso disporre, per loro: e che per tal fine gli offrono la loro elemosina in suo sostentamento, chiedendo che impieghi l’opera del suo ministero a loro vantaggio spirituale.

3° Poi ancora per condizione di stato si deve pregare per coloro, pei quali si hanno particolari e più strette relazioni naturali; cioè pei parenti, amici, benefattori: poi anche per i nemici. Anche Gesù sulla croce, fatto di sé sacrificio, pensò di provvedere alla Madre sua SS. Raccomandandola con tenerezza infinita al discepolo dell’amore: ed in quell’istante pregò in singolar modo per i suoi nemici, che lo crocifiggevano. Anzi ci avvisa il Signore, che se mai avessimo qualche po’ di ruggine nel cuore contro il prossimo, e ce ne ricordassimo sull’altare, piuttosto che far sacrificio coll’odio in cuore, sarebbe meglio lasciar l’offerta a mezz’azione (Matt. V), e correre a riconciliarsi prima col fratello, per venire poi ad offrire col cuore che abbraccia tutti in santo amore e vuole tutti salvi in seno a Dio. – In secondo luogo abbiamo detto, che oltre il dovere di pregare, che nasce dalla condizione dello stato, vi sono altri doveri, che sono prodotti da casuali relazioni, in che ci troviamo cogli altri.

1° E perciò prima si ha da pregare per coloro, che pregano attualmente con noi; giacché questa preghiera, fatta insieme con noi, forma come un legame spirituale ed intimo, per cui davanti a Dio siamo un cuor solo ed un’anima sola; e come una sola voce da un sol corpo da noi s’eleva al trono della divina Maestà. Mentre l’altrui pietà viene in nostro soccorso, le comuni miserie toccano più vivamente il cuor del Padre di tutti. Ne viene quindi essere molto utile la preghiera fatta in comune.

2° Si ha da pregare per quelli, che si raccomandano alle nostre preghiere, perché noi dobbiamo riconoscere nell’istanza, che ci fanno di pregar per loro, come un invito della Provvidenza ad esercitare verso del prossimo la carità delle preghiere. Questo pur ad esempio del Salvatore, che piange sulla tomba di Lazzaro e lo risuscita; compassiona la vedova di Naim, e le ridona a vita il morto figlio. Così l’uom pio stende, diremo la protezione della pietà ed irraggia la sua ordinata carità tutto d’intorno, più viva verso quelli che gli sono più vicini. – Veduto l’ordine delle persone, che si meritano le nostre preghiere, bisogna osservare l’ordine della preghiera riguardo alle grazie da chiedere.

Ordine della preghiera riguardo alle grazie da chiedersi.

Pregando per questi e per tutti, dobbiamo sempre chiedere tutto che torni a gloria di Dio e che giovi alla salute dell’anime, mettendo l’orazione nostra in mano del Padre nostro con grande semplicità e confidenza, affinché Egli esaudisca la nostra preghiera; ma indirizzi nello stesso tempo la nostra ignoranza e grossezza. Sicché, se domandiamo cose inutili, o dannose, ci esaudisca Egli nella sua bontà col « darci altrettanti veri beni; dandoci in tal modo anche più di quello che per noi si domanda; perché Egli è un Padre, il quale sa dare le cose buone ai suoi figliuoli. – Perciò supplichiamo Dio, che si consigli interamente colla sua bontà, e tutti i veri beni ci conceda, pei meriti di Gesù, facendo che la sua misericordia trionfi della divina giustizia, e dei demeriti nostri. Intanto è una consolazione pei cuori ben fatti sentire la Chiesa imporci un dovere di raccomandar le persone, che ci sono più care! Oh la buona Madre! Ella indovina tutti i bisogni del cuore umano e colla Religione santificando gli affetti, gli rende più saldi, più puri, più soavi. Facciam ora di spiegare il Memento, che ci porse occasione a queste osservazioni.

Esposizione dell’Orazione: Memento.

« Ricordatevi, o Signore, dei vostri servi e delle vostre serve ecc. ecc. » Dio non è come gli uomini, soggetto a dimenticarsi; ma questo modo di pregare accenna una gran confidenza, per cui par che si dica a Dio: « Voi li conoscete, o Signore, i vostri servi e le vostre ancelle, a Voi son note le necessità di tutti; pur lasciate che noi vi raccomandiamo il tale ed il tal altro ancora, e quei loro particolari bisogni; » e qui nomina quelle persone, che sente dovere raccomandare con distinzione: e giungendo le mani abbassa il capo in profondo raccoglimento, per far del cuore le sue confidenze intorno ad esse in seno a Dio, quasi dicendo: « esse hanno titoli peculiari verso alla nostra gratitudine: e noi non possiamo meglio mostrar la nostra riconoscenza, che col raccomandarle a Voi, che comandate di così amarle; date loro tutto ciò che è ‘bene per loro. » Anche s. Cipriano domandava nelle sue lettere, lontano che era dal suo gregge in esilio, che gli fossero scritti i nomi di coloro, che facevano del bene alla sua Chiesa ed ai poverelli: per ricordarli co’ loro nomi nel Memento ad uno ad uno. Anticamente usavasi nominare ad alta voce i benefattori, che si raccomandavano: onde san Gerolamo levò la voce, e garri coloro, che offrivano doni per avere il vanto di essere nominati nel tempo del Sacrificio (In cap. XVIII, Ezechiel). Il diacono. portava scritti

sui dittici o tavolette il nome dei benefattori e di coloro che si dovevano raccomandare, e li suggeriva al Sacerdote raccolto in orazione. Il Sacerdote adesso prega in silenzio, affinché i fedeli ricevano da Dio solo la ricompensa di lor carità. – « Dei quali Voi conoscete la fede, e vi è nota la divozione ecc. ecc. » Prega pei circostanti, ma quasi a condizione che sian presenti con viva fede, e con sentimento di devozione verace, come se dicesse: « Noi Vi supplichiamo, o Signore, di degnar d’uno sguardo benevolo questi, che vi adorano nella lor fede, e a voi anelano in carità; ma per quelli, che in quest’ora tremenda, in questo terribile luogo portano gli oltraggi sugli occhi vostri santissimi; ah! per costoro saremmo per dirvi di rivolgere da loro i vostri sguardi, e di non ascoltare preghiere che accompagnate da tante irriverenze, provocan sopra di essi, più che altro, i vostri castighi. »

Poi dice:

« Pei quali Vi offriamo, o che vi offrano questo Sacrificio di lode, ecc, ecc. »

Perchè, dice Innocenzo III (Lib. 3, De Mys. cap. 5, et Tertull. De exhort. cast.), non solamente sono i Sacerdoti coloro, che offeriscono; ma offeriscono pur tutti i fedeli, nel cui nome offerisce il Sacerdote. Finalmente poiché le parole, che seguono, significano che il Sacrificio della Messa è Sacrificio di lode, di adorazione e di ringraziamento, che espia i peccati, e che ottien tutte le grazie da Dio; ne cogliamo occasione di ricordare qui a maggiore chiarezza ciò che abbiamo già altrove toccato quando lo richiedeva l’esposizione nel corso dell’opera, cioè come la santa Messa sia sacrificio Latreutico, Eucaristico, Propiziatorio, Impetratorio; ed ora diremo del frutto (Bened. XIV, De Sacrif. Missae, lib. 2, cap. 13,).

Il Sacrificio.

È imminente l’istante in cui nella Messa si esegue il Sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo in memoria del sacrificio in sulla croce. Ma noi ci riserbiamo di esporre queste qualità del Sacrificio nell’istante più solenne e più terribile, in cui abbiamo bisogno di raccogliere i pensieri più santi; quando contempleremo Gesù, che compie il Sacrificio Divino. Là tendono come raggi al centro tutti gli Articoli della povera Opera nostra ora invece parleremo brevemente del frutto.

Art. IV.

Del frutto del Sacrificio.

Il frutto, che viene dal SS. Sacrificio, è di tre sorta. Il primo è il frutto, che ne vien direttamente dalla redenzione operata da Gesù Cristo; e questo si produce sicuramente dalla parte di Gesù Cristo; e si richiede solo che non si ponga impedimento da chi lo deve ricevere. – Il secondo è il frutto, che ne viene dalla divozione della Chiesa. Questa sposa del Signore, sempre in ogni luogo, pel ministero di tutti i Sacerdoti offrendo sacrifici, acquista continuamente meriti di grazie per la santità, con che esercita le sue funzioni. Siccome per questo si serve del ministero delle membra sue, che sono i Sacerdoti ed anche gli altri fedeli; così, a seconda della maggiore o minor innocenza, e santità, e divozione, può crescere o diminuire questo frutto. Qual tesoro adunque è la santa Messa, posta in nostra mano per fare acquisto di vita eterna; e come possiamo noi aggiungere accrescimento in merito della nostra divozione! – Il terzo frutto nasce dallo zelo e dalla divozione del particolar Sacerdote offerente, la cui pietà in quel momento così prezioso può ottener grazie particolari. Deh quanto è vero che un Sacerdote santo è un vero ministro di benedizioni per la Chiesa (Ben. XIV. De Sac. Miss. lib. 2, cap. 3, n. 20)! Sì però, che le sue miserie non diminuiscano il primo frutto, che vien tutto intero da Gesù Cristo.

QUARESIMALE (XXII)

QUARESIMALE (XXII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMASECONDA
Nella Domenica quarta di Quaresima.


Del Purgatorio. In cui si mostrano le pene gravissime per
l’intensione, lunghissime per la durata, accresciute dalla nostra ingratitudine.

Accepit Jesus panes, et cum gratias egisset distribuit discumbentibus. San Giov. cap. 6


Perdonate alla mia lingua, miei UU. se quella mattina mi pubblica bramoso di cambiare questo sacro pergamo in un teatro, ove divenuto di predicatore recitante, possa più facilmente ottenere il mio fine; ed è pur, vero, che se tale io fossi, potrei da voi impetrare ciò che ottengono ogni dì tragici attori, a’ quali, quantunque sappiate che fingono, pagate ad ogni modo vero tributo di compassione, e senza risparmio
di lacrime, gli ponete i cuori in braccio, e gli versate le anime in seno. Rappresentisi in palco una Andromeda, e voi vedrete strepito nell’udienza, sollevati gl’affetti de’ circonstanti. Fingasi legata ad uno scoglio una beltà, per esser preda de’ mostri marini che, già vicini, slarghino le fauci per ingoiarla, non troverete allora in teatro spettatore così codardo, che non desideri sprigionare quella beltà ed uccidere il mostro. Dio immortale, e se io, da questo luogo facro, aprirò scena funesta per mostrarvi milioni d’anime nel Purgatorio, affogate tra’ tormenti, sepolte tra le carneficine, le quali urleranno con grida le più lacrimevoli che possa spremere un immenso dolore; e pure chissà se otterrò, non dico una buona somma di danaro per suffragarle, non dico frequenza de’ Sacramenti per liberarle, ma neppure una interna compassione. O quanto bramerei vedere innalzato in questa vostra patria il tribunale d’Atene in cui, con severità non ordinaria, fu accusato il ricco Gallio, sol perché non sovveniva la povertà d’Aristide suo parente, ma viva il Cielo, che le mancano questi rettissimi giudici a concordare chi più spende, o nelle vanità superflue, o nelle mense troppo laute, v’è Iddio, che siccome assisté a Giovanni allorché erat in Vinculis, così assisterà alle Anime Purganti, non voglio però, con rimettere la causa a Dio, tralasciare di rappresentarvi; e sarà l’assunto del mio discorso, delle pene atrocissime del Purgatorio, accresciute dalla nostra ingratitudine. – Sappiate dunque, UU. Miei, che le anime dei vostri amici, dei vostri parenti, di quelli che più teneramente amavate, vivono tra tormenti sì fieri, che maggiori non furono inventati dalle barbarie di Nerone in Roma, né dalla crudeltà di Dionisio in Siracusa. Figurarevi, dunque, per apprendere bene questa verità, sotto de’ vostri piedi una profonda carcere, la quale per la vicinanza che ha con l’inferno, senza parteciparne niente dell’empio, ne ritragga però il penare tormentoso. Quivi vedrete come la notte domina con nebbie oscure, l’aria lampeggia con baleni funesti, scuote il suolo con orrendi terremoti, e senza mai cessare risuonano quelle caverne per i gemiti inconsolabili di quelle anime, e per i fieri sibili di quei mostri. Quivi i tori
più celebri di Falaride, i cadaveri verminosi di Massenzio, le ruote più spietate di Diocleziano, servirebbero di refrigerio a quell’anime purganti. Miei UU., raccogliete pure in un sol pensiero, le pene più mostruose di questa vita, e poi leggete ciò che San Cirillo lasciò scritto, si omnes, quæ in mundo cogitari possunt pœnæ, pœnis, ac tormentis quæ illic habentur, comparentur, solatia sunt. Ah, che tormenti simili, neppur formano un’ombra di quei che tollerano le anime del Purgatorio. Ma ciò che disse Cirillo con le parole, lo confermò Cristina con i fatti. Attenti! – Appena morta, questa Santa Vergine fa condotta a vedere le pene acerbissime del Purgatorio, ed in esse vide impiegata in orrori, in confusioni, la Giustizia di Dio, indi presentata al Divin Tribunale si sentì interrogare di ciò che aveva veduto patirsi da quell’anime, al che (ah mio Dio) rispose: purtroppo ho veduto gl’orrendi tormenti;  or vedi Cristina, sentissi replicare, mira quella sedia, quel trono ricco d’oro, di perle, di gemme, quello appunto significa l’eterna Gloria che hai da godere nell’eternità beata; dimmi adesso liberamente, se vuoi prender possesso d’un sì gran Bene, pure ritornartene in vita per patire molto a beneficio di quelle anime. Udite ora la risposta di Cristina alla proposta di Cristo. Io ho veduto, dice la Santa Vergine al suo Redentore, le carneficine con le quali sono tormentate quelle misere anime, e son tali, che io volentieri mi eleggo di tornare a vivere per patire a pro loro orrende pene. Sì, sì, mio Dio, per liberar di colaggiù quelle anime, io mi eleggo un inferno di strazi, e rinunzio ad un Paradiso di contenti. Sarei una tigre se pur mi avessero a muover le mie consolazioni, che i loro tormenti. Quando ecco, che Cristina per effettuar quanto disse, s’alzò subito dal cataletto, alla presenza de’ Sacri Ministri, allorché gli celebravano le esequie. Inorridite pure, o miei UU.. Ecco che si pone Cristina dentro fetidi sepolcri per esser divorata da’ vermi, s’inzuppa nelle caldaie bollenti, perché l’acque la disfacciano, e per miracolo n’esce illesa, si tuffa ne’ stagni gelati, acciocché il freddo l’intirizzisca, or si pone alquanto lungi dal fuoco perché le fiamme divoratrici lentamente la distillino, or penetra nelle più orrende selve per essere sbranata dalle fiere, or si caccia nelle fornaci acciò le fiamme l’inceneriscano! No, la si lancia giù dalle rupi, perché le punte de’ sassi la scervellino, qui si mette sotto le macine de mulini perché minutamente la disfarinino. In somma, era Cristina un Purgatorio animato, mentre miracolosamente viveva tra tanti patimenti. Né vi crediate già, che questo suo penare sì fiero fosse di tre giorni, si stendesse a settimane, non passasse il mese, oppur finisse in un anno appunto, fu di più lustri, mentre fu di venticinque anni. Argomentate ora voi UU. qual abissi di pene, che spettacoli orribili dovesse ella vedere nel Purgatorio, mentre eccitarono nel suo cuore una compassione sì smisurata. Negate ora se potete quella d’Agostino, che le pene del Purgatorio sono maggiori di tutte quelle del mondo; ille Purgatorius ignis durior est quam quidquid possit in hoc sæculo poenarum videri possit, aut cogitari. Cristina per quelle anime che non appartenevano né in vigor di sangue, né d’amicizia, patisce tanto, e noi per l’anime de’ nostri congiunti non solo non faremo ciò che ella fece, ma neppure offriremo una limosina a lor suffragio, una corona. una Messa, cadit asinus, piange Agostino et omnes sublevare festinant, clamat in tormentis Fidelis, et non est qui accurat. Cade in un fosso un giumento, e l’aiutano tutti perché risorga; bruciano le anime, e non si trova chi le soccorra per liberarle. Staccate quel quadro di vostro padre, levate di là quello di vostra madre, toglietevi dagli occhi quelli de’ vostri parenti, de’ vostri amici, che meno sarete colpevoli col non vederli, anzi no, mi disdico, e quasi dissi ebbro della vostra ingratitudine, prendete quei quadri e bruciateli, e così sarete contenti in veder di qua bruciare la copia, come di là arde l’originale. Furono grandi i patimenti di Cristina; ma finalmente Cristina si pose a patire per quelle anime, non perché avesse provati i lor tormenti, ma per averli sol veduti; che avrebbe fatto, se gli avesse non sol veduti, ma provati? Udiamo un poco ciò che dice di quelle pene chi e le vide e le provò. San Cirillo Vescovo racconta come, essendo resuscitato per miracolo di San Girolamo un morto, andò egli stesso a vederlo, e trovò che amaramente piangeva e, perché piangi, gli disse, mentre più tosto, per la vita ricuperata dovreste stare allegramente; ah se sapeste o Santo Pastore, quel che ho patito nel Purgatorio anche tu piangeresti con esso me, quales credis pœnas existentibus in Purgatorio præparari, e rispondendogli di non saperlo, sono sì crudi, soggiunse, che qualunque uomo prudentemente operando, eleggerebbe più tosto soffrire tutte le pene che sono state nel mondo dal suo principio finora, che soffrire la minima di quelle pene per un dì, quam uno die minori, quæ illic babetur pœna torqueri. Chi dunque non inorridirà, sentendo che non solo le pene del Purgatorio sono maggiori di quante si possono soffrire nel mondo, ma di più in sentire da un testimonio di prova, che la minima d’esse è incomparabilmente più fiera. O pene, o pene, e chi può mai comprendervi! E pure non mancano cuori sì duri, i quali nulla s’inteneriscono alla rimembranza che quivi penano i loro congiunti più stretti. Non solo le pene del Purgatorio sono gravissime, ma quel che è peggio sono
lunghissime. O Dio! e che può darsi di peggio? Pene acerbissime nella intenzione, pene lunghissime nella durata. Inorridite. Pascasio Cardinale di Santa Chiesa fu veduto patire un’atrocissimo, e lunghissimo Purgatorio per un difetto sol d’ignoranza, leggermente colpevole; ditemi dunque, e quando mai, i nostri parenti finiranno di patire e pagare non un solo, ma tanti e tanti difetti ben leggeri, commessi ad occhi veggenti, o nella cura de’ servitori, o nella educazione e de figli o negl’affari de’ magistrati, o ne’ traffici del denaro? Ahi quanto dovranno penare; quanta fuerit peccandi materia, disse San Bernardo, tanta erit mora perseverandi. – Santa Vitaliana Vergine illustre, per un poco di vanità nei suoi capelli, fu veduta patire un lunghissimo Purgatorio. O Dio! Chi mi dirà quanto tempo dovranno patire laggiù i nostri cari morti per le tante e tante vanità, o per gl’abiti pomposi o per le fogge o per le usanze inventate, quanta fuerit peccandi et … – Se il Vescovo Durano di Tolosa per aver detto alcuni motti galanti, sofferse pena lunghissima, io non so dire quanto Purgatorio siano per avere i vostri morti, che con facezie, e detti pungenti ingiuriavano gl’inferiori, si burlavano degli uguali, mormoravano de’ maggiori, dileggiavano i Sacerdoti, motteggiavano i superbi, applaudivano a’ licenziosi. Ahimè quanto e poi quanto patiranno… quanta fuerit peccandi etc. … – Se un religioso di San Francesco patì tormenti lunghissimi per questo solo difetto di non chinare il capo alla Gloria Patri, che sarà de’ vostri poveri morti che singolarmente dentro le Chiese furono curiosi, distratti, immodesti, loquaci. Ahimè quanto e poi quanto peneranno … Quanta fuerit… O che montagne di colpe, e quando mai finiranno d’esser pagate in quelle pene tremende. Voi credete che esageri, ma v’ingannate, parlo fondatamente: Santi Pontefici, che dispensate il Sangue di Cristo in tante indulgenze, palesate il fine, manifestate i motivi; lo so che Sisto Quinto concesse indulgenza di undicimila anni effettivi a chi recitava certa Orazione a Nostra Signora, e Gregorio Decimoterzo ne pubblicò una di settantaquattromila anni a tutti gli ascritti nel Santissimo Rosario, e per qual cagione Santa Chiesa ammette Messe perpetue, fino alla fine del mondo, non per altro, miei UU., così opera Santa Chiesa ed hanno dispensato i suoi tesori i Sommi Pontefici, se non perché, ben sanno la lunghezza del Purgatorio, che per tante anime non suffragate, durerà fino alla fine del mondo. Eccovi miei UU., esposto un abbozzo delle pene acerbissime e lunghissime, che tollerano i vostri amici e parenti nel Purgatorio. Contentatevi ora, di dare orecchio alle querele per confondere la vostra ingratitudine, Miseremini mei, miseremini: udite parenti, amici udite, così da quelle pene tanto intense, tanto vive, esclamano quelle povere anime: Miseremini mei… abbiate di noi pietà. Alzate più le voci, anime sante, se volete essere intese tra gli strepiti dell’interesse, della ambizione, del fasto, dite il fatto vostro. Vorremo per carità una Messa; udite la risposta, ho da spendere cinquanta scudi per un abito, e cento per una giostra. Ah mio padre, mio fratello, mia consorte, mi struggo nel fuoco! Pazienza, ho bisogno di danaro per fare una nobile comparsa. E come è mai possibile, che siate così crudeli con noi, che tanto facevamo per voi. Deh almeno per noi dispensate pane ai poveri, udite la risposta. E là si governino quei cani, che non patiscano, si satollano. Se bene anime sante, non vi lamentate più perché non vi sovvengano, querelatevi sì, perché vi perseguitano, e dite loro quare persequimini carnibus meis saturamini. Figli, parenti, dissi male, fiere, furie, mostri di crudeltà
allevati da tigri, nutriti con carni d’aspidi e con sangue di pantere, perché mi
perseguitate? Quare me persequimini, o carnibus meis faturamini; e quel che è
peggio vi pascete delle nostre carni, carnibus meis saturamini. Chi vi lasciò quei palazzi, quei giardini, quelle gioie, quelle vesti, quelle ricchezze, se non io; sono mie quelle sostanze, che godete, e voi crudeli scordati di me, e de’ miei tormenti, così barbaramente vi saziate delle mie carni, e quel che più altamente mi
crucia, e mi rende più tormentoso il Purgatorio, e che voi godete delle mie miserie; né mi state a dire, che non ne godete, perché vi si può rispondere col Morale: … qui non vetat vetare cum possit jubet, mentre che voi con poco, potete sollevarmi, e non lo fate, è segno che godete del nostro penare. Voi parenti, voi figli, voi figlie, tenete acceso nel fuoco che tormenta i vostri congiunti, mentre non recate acqua per estinguerlo, voi tenete stretti quei ferri, mentre non stendete la mano per disciorli. Voi siete, che impedite a quei buoni morti la grazia che otterrebbero d’uscire dalla loro cruda schiavitudine, mentre non volete prestarli nemmeno un soldo. Miseremini mei saltem vos amici mei. Che voci sono queste, non si parla più con parenti, ma con amici, e con ragione, perché i parenti non odono. Voi dunque amici sovveniteci, giacché nel cuor di mio padre, di mio figlio, non v’è più amore. Voi amici, giacché mia madre, mia figlia, non ha cuore che per odiarmi, mentre mi lasciano penar qua giù. – Voi amici, voi soccorretemi, giacché quanti ho fratelli e parenti tutti si sono scordati di me, che ardo in queste fiamme; ah, che se ci soccorrete con una Indulgenza presa con una Messa celebrata, con un poco di limosina distribuita a’ poveri, noi trionferemo rivestite d’oro, risplenderemo coronate di raggi, e c’ingolferemo nel godimento di un bene immenso non limitato da tempo, non amareggiato da tribolazioni, che più scientemente ne andremo a godere Dio. Ma che se non udirono i parenti, meno sentono gl’amici. Orsù parenti, amici, se non avete più cuore per sovvenire i vostri congiunti, o per sangue, o per fedeltà, e non volete aiutarli. Almeno per rimprovero della vostra ingratitudine, quando entrate in Chiesa, date mente a quelle voci, che da quelle tombe vi risuonano alle orecchie, e sentirete dirvi così: sai chi giace sotto questo sasso? Qui vi giace quel povero tuo padre, che ti lasciò tant’oro in cassa, che visse da povero per arricchirti. Egli è quello, o figlio, che stentò il vivere per farti lautamente vivere, parcamente bevve per estinguer la tua sete. Odi, sai chi giace sotto questo sasso? Qui vi giace quella infelice tua madre a cui tu stesso, avanti di nascere desti penosissima infermità nella nascita tua, gli faceste provar la morte, quella saziò la tua fame col proprio sangue, con le sue lagrime asciugotti le guance bagnate dal pianto, e finalmente morendo ti fissò in fronte lo guardo, quasi pietosa volesse dire: porgimi la mano, o figlio; buttata, che io sarò nella tomba per divenir cibo de’ vermi, ricordati di sovvenir colei che in questa vita per la tua vita avrebbe provata la morte. Alza quel sasso, o mio Uditore, e vedrai, che sotto d’esso coperto da putredine vi giace quel tuo caro amico, che sempre fu fido compagno delle tue azioni, che non dubitò espor la vita ad evidente morte per salvarla a te. Or che fai? Chi giace sepolto in queste tombe? Attendi alle altre voci, che da quelle fredde ceneri rimbombano. Pietà figlio pietà; madre, consorte, fratelli pietà, non ti domando il valsente d’un patrimonio, non le gioie di tua moglie, non gl’avanzi di tua casa, ma un sol calice per estinguere una sì eccessiva arsura; negherai dunque un sacrificio per quello che si sarebbe lasciato svenar vittima per te? Odi, e non mentisco, l’amor troppo tenero che ti portai mi tiene tra queste fiamme, e tu ingrato non mi accorri? Ah crudo, ah finto amico, ah figlio traditore! Che serve a me che tu ostenti il mio ritratto, mentre lasci arder me nel Purgatorio, tu per ornamento della casa, e per splendore della famiglia vuoi la mia immagine appesa ad un chiodo, e non ti curi di schiodare il mio spirito da quelle pene? Come è possibile che a queste verità, a queste querele, o miei UU., non vi risolviate suffragar quelle anime per non tenerle più lungamente tra quelle angosce di morte. – Dio Immortale, e chi è tra voi, che non giubili d’allegrezza, quando intende di poter con poco danaro ricuperare dalle mani de barbari un figlio, un fratello, e talora un amico, tenuto da loro in vergognose catene, certo, che se non avesse in pronto la moneta richiesta’ per la liberazione, se n’andrebbe subito ad importunare i parenti, a negoziare co’ mercanti, a costringere i debitori, ad impegnar le gioie, a vendere i beni e se oggi potesse mandarli il riscatto, certo non indugerebbe a domani, se non per altro, che per aggiungerli un giorno di libertà. Ah fede, fede, ben si conosce che le vostre menti altro non hanno di sé che le tenebre; ditemi un poco UU. con quel denaro di cui vi vorreste servire per liberare l’amico, il parente dalla barbara servitù, non potreste voi, per così dire, spopolar mezzo il Purgatorio? E pure, o Dio, quanto stentate a dare talora per i vostri morti un poco di moneta, a far cantar un Offizio, a far celebrare una Messa, quanto stentate, anzi dico di più, piacesse pure al Cielo, che non vi mostraste di viscere più inumane, quando anche salva del tutto la vostra borsa, voi li potreste sovvenire, e non lo fate? E quante volte con visitare una Chiesa, con acquistare un’Indulgenza, con fare una Comunione voi mettereste insieme il prezzo bastante al riscatto d’un’anima imprigionata nel Purgatorio, e voi per non abbandonar quel giuoco, per non differir quel negozio, lasciate che ella incallisca sotto quei ceppi, mentre, con sì leggera fatica li si potreste o spezzare perché subito volassero in libertà, o almeno alleggerire, perché non sentissero tanto quella dura prigionia, e non è questo un eccesso di crudeltà? Di tirannia, di barbarie? Tacete, istorie, tacete, voi narrate per singolare una tal peste, di cui chi fosse tocco perdeva tutta la memoria, fino a non ricordarsi più, guarito che fosse, né di padre, né di madre, or sappiate, che d’una simil peste sono infettati molti de’ miei UU. mentre non
si ricordano più né di padre, né di madre, lasciandoli star nel fuoco senza soccorso, e di loro ben si avvereranno le parole del Profeta Reale: Dum superbit impius, incenditur pauper. Voi alle feste, e vostro padre nella carcere, dunque voi alle crapole, e vostro padre e vostra madre a’ digiuni, dunque voi agl’amori tra le delizie e vostro padre tra’ tormenti: egli brucia e voi ridete, e voi solazzate; Dum superbit impius, cenditur pauper. – Voglio esprimere la vostra crudeltà con quel fatto che si narra da San Giovanni nel cap. 5, in persona di quel povero paralitico. Erano già trent’otto anni che egli giaceva addolorato, ed assiso là sulle sponde della Probatica, che però
non poteva non esser notissimo a quanti vi venivano, o per rimedio o per curiosità. Se voi aveste veduto quel miserabile, l’avreste altresì osservato macilento e scaduto di forze, senza colore in volto, ed in tale stato che avrebbe mosso ogni cuore ancorché duro a compassione, ed è pur vero, che un uomo in stato sì miserabile mai ebbe neppur uno che stendesse una mano per tuffarlo in quelle acque, giacché nulla di più vi voleva … Hominem non habeo. Dio immortale, se a sollevar quel meschino da quella lunga infermità vi fossero volute centinaia di scudi, o per i medicamenti più eletti, o per i medici di primo grido, io l’intendo, ma mentre non vi voleva più, che una stesa di mano, io inorridisco alla crudeltà; se si fossero dovute cercare dalle montagne più remote erbe incognite, e del tutto salubri, mi rimetterei; ma quando so che bastava trovarsi al tempo prefisso della volata dell’Angelo, e che non vi voleva altro che tuffarlo, non posso non infierirmi con quanti comparvero, e dichiararli con cuor di tigre in petto. Così dico, che compatirei chiunque avesse veduto lo stato infelicissimo
del paralitico, e non l’avesse sovvenuto quando a lui fossero bisognate le perle
più pellegrine per macinarle in polvere e porgerle al miserabile in rimedio di sua salute, ma mentre non vi voleva di più che correre a suo tempo e dargli soccorso con cui sbalzarlo nelle acque, non l’intendo, non la capisco, e dichiaro per crudeli quanti lo videro, e non l’aiutarono, e voi miei UU. con me vi unireste a deplorarne le barbarie; ma non dubitate, che voi per verità non avete in petto, cuor meno crudele, mentre sapete d’aver l’anime de’ vostri amici, de vostri parenti, de vostri padri e madri colaggiù nelle fiamme del Purgatorio, che sono anni ed anni che patiscono, e pure quantunque per liberarle nulla più si richieda d’una stesa di mano in poca limosina, d’un Sacrificio celebrato, d’un Offizio recitato, quantunque nulla di più vi voglia, salvo che d’un poco diי scomodo in una Comunione, ed una Indulgenza presa, non fate nulla, anzi fate che dolenti abbian da dire: Hominem non habeo, non vi son per me nel mondo più amici, più parenti, più figli, Hominem non habeo, o che crudeltà, o che barbarie! Venga in questo pulpito a ricoprirvi di rossore un Dandamide privo di fede, che per liberar l’amico dalle catene nemiche, si sottopose alla perdita degli occhi. Fu fatto prigione di guerra alle foci del Boristene un cavaliere per nome Amizzoca; questi impaziente, e della cattura e de’ ferri, gridò ad alta voce verso gl’amici che non l’abbandonassero in sì disperata disavventura, l’udì Dandamide suo amicissimo, ed a lui totalmente eguale in chiarezza di sangue, subito per ciò si mise a nuoto del fiume per raggiungere le squadre nemiche, e ricuperare l’amico; accortasi la retroguardia del tragitto, voltò gl’archi per ferirlo prima che approdasse; allor Dandamide chiese quartiere, e si protestò, non per altro avvicinarsi, che per professione d’amicizia; a queste voci, mitigati i barbari trattenero le saette, finché, giunto Dandamide alla riva, sentironsi interrogare del dove, e sotto qual tenda dimorasse un certo cavaliere Amizzoca; quando condotto dall’amico, e vedutolo tra’ ceppi rivolto al Generale delle Armi, supplicollo che si compiacesse restituirgli il caro compagno. Non mostrò questi alieno della grazia, purché fosse pronto il riscatto. Dandamide allora, perché volonteroso, ma impotente al riscatto: sappi disse, o Sire, che Amizzoca è assai a me più caro degli occhi, onde di buona voglia vi consegnerei la metà del patrimonio, per liberarlo quando voi di tutto non m’aveste svestito.  Allora il Generale l’assicurò, che quando volesse perdere gl’occhi per ricuperar l’amico, lo scioglierebbe dalle catene, lo porrebbe in libertà; accettò Dandamide prontamente la condizione, e lasciato accecare da pugnali de’ Sarmazi, ebbe il sospirato Amizzoca. Or che dite Uditori? Con quanto meno potreste voi liberare non gl’amici, ma i parenti più stretti, non da catene di ferro, ma di fuoco ardentissimo, e pur neppure vi movete a compassione, ah che purtroppo è vero il detto del Savio, Amicus est socius mense, et non permanebit in die ne cessitatis. Così appunto segue di voi anime Sante, giacché i vostri congiunti si sono totalmente scordati di voi; furono vostri amici finché viveste, e con voi banchettarono; ma ora che voi siete bisognosi non pensano punto a voi; la lor amicizia è stata a guisa di quella che passa tra l’oro, e l’argento vivo, detto con ragione, Mercurio, perché ladro, ruba il danaro alla borsa, ed il cervello alle teste; or di questo sentirete la proprietà, egli è sì amico giurato dell’oro, che tirato da un assetto simpatico, sempre lo segue, e trovandosi sparso, quando lo giunge, raccoglie tutto sé  stesso sull’amata moneta; ma che? Venga l’oro posto in mezzo alle braci per esser purgato, appena l’amico bugiardo sente gl’ardori che se ne fugge per l’aria, e lascia il compagno nel fuoco: eccoci al punto, socius mense, furono vostri amici allorché poterono sollazzarsi con voi, ma ora che voi bruciate tra le fiamme vi lasciano ardere, né più si curano di voi con una ingratitudine sì alta, che maggiore non so immaginarmi, e finisco di spiegarvela con il seguente racconto. – Narra Diodoro, che tre figli d’un re de Gimeri, morto il loro padre, contesero del regno, mercecché ben spesso la ragione di stato, cangia l’amor di fratello, in rabbia di nemico, vero però è, che quantunque agitati da interessata passione, ebbero nondimeno quei tre signori di tanto di lume, che per decidere senz’armi la contesa, scelsero per giudice del loro litigio, il re della Francia Ariofarne. Io per me non so, se giammai s’udisse in tal contingenza, altra più trana decisione, Comandò il re, che si cavasse il morto principe della sepoltura, alzato in alto a bersaglio, i tre figliuoli lo saettassero, e quello di loro,
che l’avesse colpito nel cuore  quello regnasse; lasciò dunque la saetta il primogenito, e colpì nel capo, scaricò il secondo, e colse nel petto sì, ma senza toccarne il cuore. Quando ecco, che tutto acceso di sdegno afferra con ambe le mani, il terzogenito, arco e saette, e mentre tutti aspettavano che egli prendesse di mira il cuor paterno, egli invece, ruppe l’arco, infranse i strali; eh non sia mai vero, dispettoso, gridò,
che io più fiero delle fiere incrudelisca contro il morto mio Padre: abbia sì de’
miei fratelli il regno, chiunque lo vuole, purché il mio capo sia coronato di
pietà punto non m’importa, che le corone d’oro lo circondino: Supererat, ecco l’autore, supererat minimo spes regni vicit pietas, ed oh giustissima sentenza d’Ariofarne, udite: io consegno, le ragioni della reale primogenitura al terzogenito; abbia lo scettro paterno quella mano che ricusò saettare il cuor del padre; viva, viva re, chi al morto re e padre, come degno figlio portò onore, e riverenza; mio Dio, quando giungo a questo termine, m’accendo d’uno zelo straordinario. Quanti figli ingrati incrudeliscono non contro i corpi, ma contro l’anime de’ loro parenti, e trafiggono con barbare saette i loro cuori; ben si adatta a costoro il detto d’Ambrogio: Si non pavisti, occidisti; Hai tu figlio compita l’ultima volontà di tuo padre? No, occidisti, hai fatto celebrare quelle Messe? No, occidisti, hai soddisfatto a quei Legati pii? No … occidisti; quei testamenti sono nella tua cassa degl’avi e bisavi coperti nella polvere, morti nella memoria, e non punto eseguiti, occidisti; Tu sei più crudele di Caino; poiché questo, dopo d’aver tolta la vita al fratello non incrudelì punto, che io sappia, contro il morto Abele, ma tu sei più spietato, mentre incrudelisci contra de’ Morti, non pavisti, occidisti, non gli sovvenga, dunque, l’uccidi. Se cosi è, ascolta, io ti fo con le parole di Cristo un funesto ma non fallace pronostico: qua mensura mensi fueritis remetietur, et vobis. Sappi che, balzato che sarai nel Purgatorio, quando pur non ti tocchi l’Inferno, permetterà Iddio, che ognuno si scordi di te, e che tu arda fino al dì del Giudizio in quelle pene, mercecché tu non avesti pietà verso de’ tuoi morti.


LIMOSINA
Ignem ardentem extinguit aqua, et eleemosyna resistit peccatis. La limosina
fatta per l’anime del Purgatorio è un’acqua, che lava le loro fiamme. Immaginatevi questa mattina d’aver qui presente una di quelle anime a voi più care in mezzo al fuoco, e che ciascun di voi abbia alle mani un gran secchio d’acqua ed in tal caso, io son certo, che la vostra pietà verserebbe sopra di quel fuoco tutta l’acqua, e non bastando, si porterebbe a prenderne altra. Io non voglio tanto, basta a me, che per le anime sante, diate quello che vi troviate, non tutto …

SECONDA PARTE

Già vi ho rappresentati UU. miei, la terribilità di quelle pene del Purgatorio, le querele di quelle anime, e l’ingratitudine di chi non le sovviene; la qual è, quasi dissi, cosa comune; che si ha dunque da fare per non essere nel numero di quelle povere anime, scordate da’ loro parenti Sapete, che non avete d’aspettare, che vi si faccia il bene, ma fatevelo da voi, e se l’aspetterete da loro, potrò con fondamento temere, che starete lungamente tra quelle fiamme. Alessandro Magno morendo lasciò a’ suoi capitani in eredità la sua monarchia da dividersi in tante parti, e pure è vero, morto che fu, ebbe da stare trenta dì insepolto a causa contrastarsi la divisione; ed ognuno procurava di tirare a sé un squarcio più bello della porpora del defunto, ma niuno si curava di vedere quel cadavere insepolto: Dum ejus presecti, ecco le parole d’Eliano, de regno per seditiones contenderent, ille triginta diebus inumatus, et carens sepulcro relictus est. Così appunto faranno i vostri eredi, appena sarete morti, che subito daranno di mano alle gioie più preziose, ai mobili più ricchi, subito si susciteranno le liti tra fratelli, tra madri e figli, tra mariti e mogli, e a pagar que’ legati, a far celebrar quelle Messe, a dispensar quelle limousine, a far del bene per voi, non vi si penserà. Sicché miei UU. convien dire le parole di Dio, Maledictus homo, qui confidit in homine. Maledetto quell’uomo che confida nell’uomo. Ricordatevi miei UU. del trito proverbio che fa più lume un candeliere avanti, che una torcia alle spalle; voglio dire che bisogna vi provvediate mentre vivete. Un gran mercante, detto Onofrio, nella Riviera di Genova, s’era arricchito per via di mare, venuto a morte, benché pregato da’ figli, non lasciò nel testamento obbligo alcuno per suffragio dell’anima sua; morto che fu, tra le sue scritture si trovarono registrate più partite di questo tenore: per maritar zitelle, mille scudi, per Messe, duecento, per cera in onore del tal Santo, cento, ed in fondo della scrittura erano queste parole: chi vuol bene se lo faccia in vita, e non si fidi di chi resta. Non vi fidate dunque, ma fatevi del bene. Oh io costringerò, voi dite, legherò in modo i miei eredi che certo faranno. V’ingannate. Sentite: aveva un certo padre tre figli, e già vicino a morte, domandò ad uno di loro: dimmi un poco figlio mio che cosa pensi di farmi per liberarmi dal Purgatorio? Io, signor padre vi voglio erigere una cappella
ed ivi far celebrare per voi. E voi, rivolto all’altro figlio, disse, che farete? Io pure, rispose, farò una cappella, ma con più sacrifici; così pure richiese il terzo, il quale pronto rispose: io signor padre farò quanto faranno questi due. Loro niente faranno di quello che v’hanno promesso ed io pur niente, provvedetevi finché vivete e ricordatevi della rivelazione fatta da Dio a Sant’Alberto Carmelitano, allorché gli disse: valer più un quattrino dato in vita che migliaia dopo morte. Voi vi volete quietare con dire, lascerò de’ legati, e non considerate che quanti sono i legati, tanti sono i legami perché non soddisfatti, come spesso avviene: legano al Purgatorio il testatore ed all’inferno gli eredi, e come è vero quel primo, altrettanto è vero questo secondo, come ora v’esprimo con una storia. Un contadino venuto a morte volle fare il suo ultimo testamento, e non avendo altro di proprio, che un agnelletto ed un cavallo, lasciò questo al figlio, con obbligo stretto che lo vendesse, e del prezzo gli facesse dire tante Messe, e l’agnelletto poi restasse a lui. Il villanello che aveva callose le mani ma non l’ingegno, fece così: andò una mattina al mercato con tutte e due le bestie, e cominciò a gridar forte, chi vuol l’agnello ed il cavallo? Un massaro gli disse: io comprerò il cavallo se saremo d’accordo, ed il villanello rispose, io non voglio venderlo senza l’agnello; bene, rispose l’altro, comprerò anche questo, e che vi ho da dare? Non posso darvelo a meno di trenta scudi, e del cavallo, che ne volete? Mezzo scudo; stabilitasi la vendita, si ricevette il danaro, il mezzo scudo, prezzo del cavallo, impiegò in Messe, ed i trenta scudi dell’agnello, ritenne per sé. Che voglio dire con questa storia? voglio significarvi che non commettiate ad altri quel che potete e dovete far voi stessi, perché nel mondo non v’è di chi fidarsi; ma quando pure vogliate lasciar legati per l’anima vostra, lasciateli, ma con obbligo strettissimo a’ vostri eredi, che se non soddisferanno puntualmente, la roba vada al principe al sovrano etc…

QUARESIMALE (XXIII)

QUARESIMALE (XXI)

QUARESIMALE (XXI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA VENTESIMAPRIMA

Nella Feria sesta della Domenica terza.

Del Giudizio particolare
che si farà d’un’anima considerato
nel processo, nelle difese, nella sentenza.


Cum venerit ille, nobis annunciabit omnia.

San Gio.: cap. 4.

Non vi predico miei R. A. cose lungi dalla nostra età, da’ nostri secoli, ben sapendo non avere i sacri oratori, più difficile impresa per eccitare nelle udienze cristiane il timor de mali futuri. So che Aristotele al secondo de suoi libri, m’insegna, che l’apprensione delle calamità future, ma lontane, non è potente ad indur la paura in cuor degli uomini: Remota namque nimium, non timent. I dolori, i crepacuori, gli spasimi vicini del Giudizio particolare, e non dell’universale v’annuncio; e con questo v’affogo le vostre parole in gola, e vi schiaccio in bocca quel baldanzoso parlare… Eh, che prima d’arrivare a quel dì tanto terribile, si ha da passare un mare lungo e largo di più secoli. V’affogo, dico, le parole in bocca per additarvi, come il dì del Giudizio per ciascheduno di noi, non è più lontano del dì fatale della nostra morte. A questo giudizio, dunque, particolare che segue subito dopo la morte, presento questa mattina il peccatore, perché ne senta il processo, ne faccia le difese, e ne oda la sentenza, giacché queste tre cose devono concorrere in ogni giudizio ben formato. Figuratevi miei UU. il processo formato, steso già per mano de’ diavoli, e sappiate che per molti di voi si considera cominciato fino dalla puerizia, perché sin d’allora principiaste a peccare, e pare che facessero a gara per introdursi dentro di voi malizia e uso di ragione, sicché si  può dire che molti di voi furono simili a quei serpi, i quali hanno tossico prima d’aver denti per diffonderlo. Orsù state attenti al contenuto del vostro processo, poiché uditene le accuse, possiate prepararvi alle difese, per evitare quella sentenza d’eterna dannazione, che vi sovrasta. Nello spaventoso processo si contiene come voi peccaste in pensieri, parole ed opere. I delitti dell’adolescenza fono stati discorsi lascivi, parole sporche, giuramenti falsi, roba tolta di casa o per crapule o per giuochi, o per offendere Dio con detrimento della famiglia, con perdita della reputazione nella servitù; peggio: sono stati omicidi d’uomini, se non nati che potevano nascere, vizi che non si possono nominare, e sol s’esprimono con i carboni delle incenerite Pentapoli, e poi tanti pensieri laidi che non hanno numero, finiscono di colmare l’enormità della vostra adolescenza alla quale non volle cedere punto la vostra gioventù, mentre non contento di seguitare ancor da giovane le medesime laidezze, che commetteste nella adolescenza, v’aggiungeste le brame incessanti delle donne altrui; di queste andaste in cerca nelle strade, per le case, nelle Chiese, i vostri occhi, non guardavano che per incenerire l’altrui anima; non la perdonaste né a condizione, né a stato, né alle spirituali parentele, né tampoco al proprio sangue. – La virilità non fu inferiore alla gioventù. E che non faceste cresciuti all’esser d’uomo? Non cessaste punto dalle iniquità già dette ed a queste accompagnaste gl’odi, i rancori, gli sdegni, ma chinaste la ruina di quella famiglia, tramaste, alla vita altrui, sfregiaste con indegne mormorazioni l’onestà delle fanciulle, l’onor delle maritate, foste spergiuri ne’ giuochi, bestemmiatori nelle bettole, sacrileghi nelle Chiese. La vostra vecchiaia poi portò seco quanti vizi ho narrato, e v’aggiungeste la sordida avarizia, l’indegno interesse che vi fece perdere talmente di vista il Cielo, onde più neppur per ombra, pensaste né a limosine dovute, né a soddisfazione de legati pii. Ecco formato il processo ed i peccatori. Queste fono le accuse ancora, contro di voi o donne, con l’aggiunta della vostra superbia, della vostra dissoluta vanità, della vostra sfacciataggine nel farsi vedere scoperte nel seno, scoperte nelle braccia. Negate, se potete queste accuse, e ributtate come falso questo processo; bisogna a vostro marcio dispetto, che confessiate esser vero quanto s’è narrato. Padre di famiglia, madre di famiglia, v’è di peggio per voi. Sapevi che i vostri figliuoli versavano marcia di disonestà, e non vi rimediavi; sapevate che le vostre figlie si disfacevano contemplate alle finestre, sulle porte, nelle Chiese, non solo non le gridavate, anzi facevate loro animo. Che confusione sarà la vostra alla veduta d’un sì formidabile processo. Ma respirate, poiché qui termina. Qui termina, finito il processo! Mi meraviglio di voi, vi sono altri delitti. Vi sono quei peccati commessi dal vostro prossimo, ma con la vostra cooperazione. Sentitemi: in tre modi si coopera agli altrui peccati. Prima che si commettono, quando si commettono, e dopo commessi. Prima che si commettano, vi si concorre con l’esempio: padre di famiglia, madre di famiglia contro di voi contiene il processo, quei cattivi esempi che date a’ figli bestemmiando, mormorando, giuocando, spergiurando, perché tanto v’adornavi, vi specchiavi, perché discorrevi con tanta libertà con gl’uomini altrui. Padrone, quante volte siete concorso al peccato degl’altri, con istigare or questo ed or quello al male, quante volte avete mandate quelle imbasciate, quei biglietti, quei regali, avete fatto lavorare le feste, e vi siete fatto assistere per difesa nelle vostre iniquità. Sacerdote, Curato, confessore, quante volte col male esempio, siete concorsi ne’ peccati altrui, mentre vi siete fatti vedere maneggiare meglio le carte da giuocare che quelle del Divino Officio, vi siete fatti vedere ridere per le Chiese, immodesti nel coro, discorrere con libertà secolaresca con le donne, anche voi ne festini, anche voi, perdonatemi se lo dico, negli amori. Oh che processo formidabile è mai questo! E questo vuol dire concorrere al peccato prima che si commetta. Or vediamo ciò che dica il processo di quei peccati, ai quali siete concorso quando si commettono. E non è forse vero che volete complici nelle vostre iniquità? Voi chiamaste quel giovinetto, e con chiamarlo, chiamaste fuoco dal Cielo per incenerirvi; Voi seduceste quella donzella, per altro sì buona. Voi faceste mancar di fede a quella maritata. Voi poneste il ferro in mano di quel tale, perché foste complice nelle vostre vendette. Voi lo chiamaste per compagno ne vostri furti. Oh che processo formidabile è mai quello! E non vi spaventa? Spaventatevi dal riflettere, che vi sono notati anche quei peccati a’ quali siete concorso dopo che si sono commessi con approvarli, con lodarli, con esaltare le scelleraggini de’ perversi. Voi v’inorridite ad un processo sì formidabile! Ed è pur vero che non è ancor terminato, perché vi sta registrato tutto il Bene che non si fece; bene s’udì Messa, ma standovi con irriverenza, mescolandovi discorsi non solo impropri, ma talora indegni; si dissero le devozioni, si recitò la Corona, ma piene di distrazioni, ma col cuore sugli amori, negl’interessi, alle vendette; vi confessaste, ma senza dolore, ma senza proposito; vi comunicaste, ma senza preparazione, senza rendimento di grazie. O poveri peccatori, e non inorridite ad un processo sì formidabile fabbricato contro di voi? Spaventatevi; perché non è ancor finito; non solo vi sta registrato il bene che non si fece, ma il bene che si poteva fare e non si fece. Si poteva slargar la mano alle limosine, ma per far quelle commedie, quei teatri, quei festini, per trattenersi in quei giuochi, per comparir con più fasto, per non dir con più scandalo, nelle vanità del vestire, non se ne fece altro. Si poteva visitare quell’infermo, far quell’opera pia, ma per trattenersi a quel ballo, a quella veglia, a quel ridotto di mormorazioni, non si fece. V’ingannate, o peccatori, se credete chiuso il processo, dopo tante accuse, poiché vi resta il male che potevi evitare e non evitaste; potevi con l’autorità che avevi in reprimere la sfrenatezza de’ dissoluti, e non lo faceste; potevi con una riprensione far tacere quella lingua mormoratrice, con un castigo frenar quella bestemmiatrice, una limosina mandata a tempo teneva in piedi quell’onestà, un sussidio caritativo impediva quell’offesa di Dio; ma voi nulla faceste. Io per me confesso di restar sbalordito ad un processo di tal sorte, e voi peccatore, e voi peccatrice, che dite? Voi tacete; così è, perché … iniquitas oppilabit os suum: voi tacete? Voi, voi che avanti il confessore stesso gettavate in altri la colpa con dire d’essere stati violentati; voi che la gettavate fino in Dio con dire che eravate stati fatti in quel modo, che eravate nati sotto quel pianeta, che non sapevate che farvi, voi tacete? Voi che travestivate il peccato per una leggerezza, per una facezia, per un bel garbo. Voi che non solo scusavate i vostri eccessi, ma li giustificavate; voi, dici, tacete? Così è, perché …iniquitas oppilabit os suum. Sovvengavi, che quel convitato infelice, che non portò alla Mensa Reale un vestimento da nozze, allorché fu interrogato dal Re medesimo: Quomodo huc intrasti, non habens Vestem nuptialem? Come ardiste d’entrare qua, sì mal vestito? Avrebbe questi potuto dire per sua discolpa: io come povero non potevo far queste spese, e rivestirmi alla grande, poteva afferire che, indebitato, non aveva danaro con cui riscuotere gl’abiti da festa, che aveva un impegno. Io, poteva soggiungere, sono stato colto all’improvviso da’ vostri messaggeri, e la fretta, non m’ha dato tempo di procurarmi miglior arredo; poteva insomma dire: Sire, la mira che ebbi ben grande d’ubbidire prontamente agl’ordini di Vostra Maestà, la tema di non mostrar poca stima de’ vostri favori con farvi aspettare, sono stati la cagione di comparire al vostro cospetto sì male all’ordine. Tutto questo, e molto più, poteva dire l’infelice convitato, e pure non disse nulla, e perdette di subito la parola At ille obmutuit. Or se costui nulla rispose restando attonito, pure poteva addurre molte scuse … che risponderete voi peccatori, allorché subito morti sarete condotti al Tribunale Divino? Converrà con silenzio approvare il processo. Non avrete scuse che valgano. Sebbene, non essendo dovere, che in questo giudizio manchi ciò che non deve mancare mai ad ogni altro, che vale a dire, dare ai rei un avvocato, convien darglielo. Ed io appunto voglio assumermi questo ufficio. Il fatto non può negarsi, i peccati si commisero, al processo nulla può opporsi. Ecco dunque che m’accingo a difendervi o peccatori. Grande Iddio nelle di cui mani sta posta la vita, e la morte, non si nega che questi poveri peccatori non abbiano rotta la vostra santa Legge: ma se a tanto eccesso si condussero, fu o per ignoranza o per necessità, non capirono mai quanto gran male fosse contravvenire a’ vostri ordini, mai capirono che l’odio del vostro cuore, fosse così grande verso il peccato, non poterono mai comprendere, che la pena stabilita contro di loro nel vostro tribunale fosse tanto eccessiva. Ma che dico! Mentre invece di sminuire i vostri delitti, così difendendovi li accresco, invece d’allegerirveli, li aggravo, mercé che sento rispondermi: se non capirono queste verità fu tutta loro colpa; fu perché immersi nell’affetto delle crapule, delle lascivie, de’ beni caduchi di questo mondo, a guisa di brutti insensati tenevano sempre gl’occhi in terra senza mai volerli alzare alla considerazione attenta de’ beni, e de’ mali che ne scopriva loro la fede. Oculos suos statuerunt declinare in terram. Dicano, se possono, che loro non parlasse il cuore, la coscienza, l’Angelo Custode, non ce lo dicevano in privato i confessori, i predicatori in pubblico; se ciò volessero negare, le mura stesse di questa Chiesa, i confessionari, nonché i Sacerdoti, li smentirebbero, e seppur non l’udiste fu vostra colpa, perché a bella posta voleste star lontani da quella scienza di vita che sola poteva darvi salute, e perciò invece, nei giorni festivi, di frequentare le devozioni, i Sacramenti, le prediche, attendevi a spendere il tempo in bestemmie, in amori, in passatempi, in ubriachezze e disonestà. La scusa adunque dell’ignoranza, non la posso più addurre. Deplorerò per tanto la vostra disgrazia con lo Spirito Santo, dicendo: Ignorans ignorabitur. Ma perché non voglio abbandonarvi, finché posso per difendervi, dirò al vostro e mio Giudice Iddio: le colpe descritte nel processo sono vere, le confessiamo, non le neghiamo; sol diciamo che se peccammo non si poté di meno, non fu malizia di volontà, fu colpa di necessità; più volte l’oltraggiammo il vostro Santissimo Nome con replicate bestemmie, è vero: ma à ciò ci costrinse l’insolenza de’ nostri figliuoli, la consorte sì impaziente, fu l’impeto della collera, che ci suggerì ad un tratto quelle orrende parole alla lingua. Ma Signore! Come era mai possibile mantenere la famiglia senza quelle frodi nel vendere, senza quelle bugie, senza quegli spergiuri? Come si poteva praticare con gl’altri compagni senza apprendere i loro costumi, e senza lasciarsi persuadere da’ loro perversi esempi e più perversi consigli? Ah miei Uditori, ho fatto quanto ho potuto per difendervi, ma le scuse son frivole, e le difese non bastano a ricoprirvi, neppur quanto bastarono a ricoprir la Confessione de’ nostri primi Padri nella loro disubbidienza, che necessità, sento rispondermi … che violenza? che non potere? Peccarono, perché vollero peccare e peccarono mentre altri simili a loro non peccarono; peccarono, mentre io, dice Iddio, gl’offrivo il mio braccio per sostenersi; non v’è dunque scusa che vi discolpi; vi dirò con l’Apostolo: Inescusabilis es o homo, inescusabilis es.. – Peccatori, voi sentite; le vostre difese sono dalla verità buttate per terra, onde a mio credere, non vi è altro scampo per evitare la sentenza terribile, che buttarsi al patrocinio di qualche grande in Cielo. Su, ricorrere a quel servo di Dio, Giovanni di Dio. Egli può molto, perché con l’eccessiva carità verso de’ poveri si guadagnò gran posto in Paradiso; ahimè, che egli non vuole aiutarvi, perché sempre disprezzaste i poverelli, e foste verso di loro un tiranno; Francesco Saverio apostolo dell’Indie asserì di sua bocca di poter qualche cosa in Cielo: egli è amato da Dio, perché con zelo indefesso procurò la salute delle anime; ma no: non vuole patrocinarvi, perché voi del tutto dissimili a lui, andate sempre in cerca di farle perdere. O Dio! E che farete? Non vi perdete di speranza; Giovanni Gualberto è Principe del Soglio Celeste per quel perdono sì generoso dato all’inimico, allorché poteva saziare la sua spada sitibonda del di lui sangue; ma no, neppure egli vuole aiutarvi, perché voi sempre fomentaste nel vostro cuore odii, sdegni, vendette; mai voleste perdonare. Stanislao Koska giovane tutto pietoso della minima Compagnia, fu sì caro a Dio per la sua purità, che per saziare la sua fame del Pane di Vita, glielo fece porgere per mani Angeliche: ah che neppur egli vuole assistere a vostri bisogni, perché viveste sempre impuri; v’aiuterà Francesco d’Assisi, che per avere lasciato tutto il suo nel mondo, gode sì gran posto in Cielo… non già, sento rispondermi; perché per succhiare il sangue de’ poveri foste sanguisughe spietate. Non so più che suggerirvi, miei Uditori, se non vi aiuta il vostro Custode destinato alle vostre difese; appunto non è dovere, mentre sempre sprezzaste e le sue difese, ed i suoi consigli. Ecco l’ultimo rifugio: ricorrete a Maria, rifugio vostro, perché de’ peccatori. Ah che non è più tempo. Luna non dabit lumen suum; non ne vuole saper niente, troppo spesso con i peccati gli trafiggeste in seno il suo Figliuolo Gesù. Che sarà dunque di voi o peccatori? Le accuse del processo son vere, le difese non valgono, la protezione de’ Santi, né della Vergine non si possono avere. Dunque? Dunque alla sentenza, Dio ci aiuti! Ecco che sopra quel medesimo letto, che forse più volte servì all’infelice morto per trono d’incontinenza, s’alza il Tribunale Divino, e quivi a Cristo in Maestà terribile si conduce l’anima miserabile, cinta non di catene, ma di peccati, e quivi ferma ed attonita mira quella Faccia del Redentore adirata, che porta seco tale spavento, che considerata, fece dire al Crisostomo: Satius est mille fulmina sustinere, quam adverso Deo stare. Vorrei più tosto mille fulmini piombati sopra di me dal Cielo, che vedere il volto di Dio irato. Ed è pur vero, che questo è un principio de’ terrori. Assiso poi Cristo nel Trono ordina agli Angeli suoi, che si ponga sopra la testa di quell’anima infelice la corona, che si poteva competere per la ragione che aveva alla gloria; ma che? Subito gli vien tolta da’ demoni, che gli dico no: il Paradiso non è per te, giacché lo vendesti per odii, per crapule, per interessi, per vanità, per lascivie. O che terrori, o che spaventi! Ed a questi succede la sentenza, che a guisa di fulmine esce dalla bocca di Cristo, allorché rivolto all’anima gli dice: Recede a me maledicte in ignem æternum; va’ maledetto nel fuoco eterno: ed in così dire, rivolto a’ diavoli, dirà loro: ecco che Io vi consegno quest’anima, tormentatela, laceratela, sbranatela, giacché Io gl’ho scagliato in faccia col mio Sangue l’eterna dannazione. S’apre allora nella stanza del morto un invisibile foro per cui quell’anima non scende, ma precipita all’inferno tre mila miglia sotto del suo letto. Così termina l’anima infelice in quell’istesso luogo, ove lasciò il corpo estinto, condannata, dannata. Sacerdoti Ministri di Dio qual sarà la vostra sentenza in quel Tribunale Divino? Voi che parlate di laidezze, che mangiate il Pane d’Angeli peggio che non fareste quello de’ cani. Sacerdoti che assolvete chi non lo merita, dando veleno, invece d’antidoto. Donne, dame, anche voi comparirete al Tribunale di Cristo, che per trattarvi come meritate vi darà vesti di fiamme con le quali coprite la vostra immodestia, vezzi di serpi che v’adornino il collo, conciature di rospi, che v’abbiglino la testa. Cavalieri uomini, finiranno i vostri odii, le vostre superbie, a fronte di Cristo adirato. Mercadanti i guadagni di tanti traffici illeciti, di tante sacrileghe usure non valgono per placarlo; anche a voi dirà: all’inferno, all’inferno, e con voi stia in eterno chi visse e morì peccatore. Che rispondete ad una sì formidabile sentenza di vostra eterna morte? Niente! Così è; ma tutti come avverte Sant’Agostino: Ecce nihil respondere potero, sed demisso capite præ confusione coram te stabo confufus. Non risponderete con parole, ma con silenzio piomberete tra’ diavoli.

LIMOSINA
Vorrei che i miei Uditori riflettessero per ridurli a far limosina, a ciò che l’Angelo disse a Tobia: Bonum est eleemosynas magis, quam thesauros auri recondere; è meglio assai dispensare il danaro a poveri, che accumularlo; la ragione sembra un paradosso , e pure è verità infallibile. Sentite! Voi di tutto il vostro, altro non ritenete per voi, se non quello che date a’ poveri; quel che avete e non lo date non è vostro; solamente è vostro quello che date; E la ragione si è, perché tutto ciò che possedete e non lo date, un altro l’acquisterà dopo la vostra morte; ma quello che date a’ poveri, voi stessi ne sarete in terra i testatori, per efferne in Cielo gl’eredi: Quod Pauperi non dederis, dice San Pier Crisologo, habe bit alter, tu solum quod Pauperi dederis, hoc habebis.

SECONDA PARTE.

Orsù ditemi (contentatevi che lo gran predicatore moderno, a gran parte di voi noto, per le sue stampe) orsù ditemi, che vi pare di questa bella favola, che io v’ho raccontata questa mattina del futuro Giudizio? Oh Padre, voi mi rispondete, e che dite favola? Voi burlate… no; dico da senno, come favola? Ricordatevi che parlate con chi ha fronte bagnata d’acque sacrosante Noi crediamo il Divino Giudizio, è istoria Evangelica, è verità eterna. Se così è, dunque mi consolo; confesso il vero, che mi credeva che, non dico tutti, ma buona parte teneste per favola il mio racconto; come per favola lo tiene una gran parte del mondo cristiano; sì cristiano; cattolico? Si Cattolico: perché dunque voi mi replicate non si riempiono le carceri della Sacrosanta Inquisizione? Perché l’Inquisizione terrena non condanna se non quei che appaiono increduli. V’è però l’Inquisizione Celeste, che condanna ancor quelli che non appaiono increduli, ma lo sono. Se bene che sto io a slongarmi, veniamo al punto per vedere se si, o no, tenete per favola il Divino Giudizio. Non voglio parlare io in adunanza sì degna. Parli a voi il sapientissimo Vescovo Salviano: Che dite o savissimo prelato, tra miei Uditori v’è chi stimi per favola il Divino Giudizio? Ecco, che egli risponde, e per non offendervi così parla: Niuno crede di dover esser giudicato, se non procura evitar la sentenza di dannazione. Nemo est qui se judicandum a Deo certus fit, qui non præstet, ut pro bonis operibus præmia capiat. Bene bene, credete favola il Divino Giudizio? No, dunque, che fate per rendervi benevole il Giudice? Io vedo che quando pende una vostra causa in un tribunale, voi cercate avvocati, pagate procuratori, stentate, spendete lettere commendatizie, che non fate? E per avere favorevole Cristo? Nulla! Se vi chiede frequenza de Sacramenti? Nulla. Una piccola devozione? Nulla. Una limosina? Nulla. Una mortificazione? Nulla. Si lasci quell’amicizia? Nulla. Si perdoni? Nulla. Mi meraviglio di voi che così operate ed a voi dico che tenete per mera favola il Divino Giudizio. Non creditis, no, et licet velitis asseverare verbis crudelitatem vestram; torno a dirvi, non creditis; altrimenti converrà che vi dica che voi teniate il Tribunal di Cristo per tribunal di ciarle, e Cristo per un Dio di stucco, non creditis : Non me lo credete? Vel fo toccar con mano: ecco, perché non solo non procurate l’amicizia di questo Giudice, ma la nemicizia, strapazzandolo. Voi lo credete Giudice, e Giudice vostro, e lo maledite in ogni giuoco? Voi lo credete vostro Giudice, e lo bestemmiate? Voi lo credete vostro Giadice, e francamente contravvenite a ‘ suoi Comandamenti? Non creditis. Ma a vostro marcio dispetto quello non credete, toccherete con mano. Il Santo Vescovo Corrado allorché nella sua camera stava preparandosi alla predica, che nella mattina seguente doveva fare al popolo, si vide aprire su gl’occhi scena funesta: vide venire un signore d’alta maestà, che assiso in gran trono, era assistito da gran numero di personaggi, i quali tutti stavano in atto d’assistere ad un gran giudizio. Quand’ecco che per mano de’ diavoli fu condotto uno ben vestito ma con benda sul volto, e fu presentato avanti quel tribunale, con esporre che quello era uno vissuto tra l’ambizione e la crapula, onde si doveva all’inferno; ciò sentitosi dal Giudice, disse a quel misero, che si difendesse; ma egli disperato, rispose, è vero, è vero … merito l’inferno. Se così è, dunque, portatelo, disse Cristo, alle fiamme eterne; tanto bastò, perché quei diavoli seppellissero subito nel fuoco quell’anima infelice. Stava, come potete credere tutto attonito, e fuori di se il santo Vescovo, a questa orribile visione, quando alzatosi Cristo Giudice in piedi, se ne partì, e dietro ad esso seguirono tutti quei Santi Assessori, i quali nel passare avanti a Corrado, gli dicevano: Reliquum est, dum tempus habemus, operemur bonum; Non resta altro o Corrado, dicevano quei Santi, se non che mentre v’è tempo, far del bene. Non vi è altro miei Uditori. A questo Tribunale s’ha da venire, non v’è altro, salvo che vivere bene, purgar l’anima dalle colpe ed inserirvi delle opere buone.

NOVENA DELL’ANNUNCIAZIONE

NOVENA PER L’ANNUNCIAZIONE

(inizia il 16 marzo, festa 25 marzo )

(G. Riva: Manuale di Filotea – XXX ed. Milano, 1988)

Questa festa in cui si commemora la incarnazione del Verbo nel seno verginal di Maria, fu celebrata fino dai tempi apostolici, ond’è che si hanno su di essa due Omelie di San Gregorio il Taumaturgo, il quale nell’anno 246 fu fatto Vescovo di Neocesarea.

1. Immacolata Maria, che specialmente per la vostra umiltà e verginità meritaste di essere, a preferenza di tutte le donne più famose, eletta a Madre del vostro Creatore, ottenete a noi tutti la grazia di sempre amare, e di sempre praticare come Voi queste due sì belle virtù, onde meritarci a Vostra somiglianza, l’aggradimento del nostro Signore. Ave.

II. Immacolata Maria, che vi turbaste nel sentire celebrate da un Angelo le vostre lodi, ottenete a noi tutti la grazia di avere anche noi, a somiglianza di Voi, un sentimento così basso di noi medesimi, che, disprezzando le lodi della terra, attendiamo solo a meritarci l’approvazione del Cielo. Ave.

III. Immacolata Maria, che preferiste il pregio di Vergine alla gloria di Madre di Dio, quando questa non si fosse potuto conciliare coi vostri angelici proponimenti, ottenete a noi tutti la grazia di essere, a costo di qualunque sacrifizio, sempre fedeli nell’osservanza della Legge santa di Dio e delle nostre buone risoluzioni. Ave.

IV. Immacolata Maria, che con umiltà non più udita, Vi chiamaste ancella di Dio quando l’Arcangelo Gabriele vi preconizzava per di Lui Madre, ottenete a noi tutti la grazia che non c’insuperbiamo giammai per qualunque dono più singolare ci venga fatto da Dio, ma che anzi ci serviamo di tutto per più avanzarci nella via della virtù, ed unirci più strettamente al vero Fonte di felicità. Ave.

V. Immacolata Maria, che per la salute degli uomini non ricusaste l’incarico di divenir Madre del Redentore, quantunque conosceste con chiarezza il dolorosissimo sacrifizio che ne avreste dovuto fare un giorno sopra la croce, quindi la passione amarissima che avreste dovuto Voi medesima sostenere con Lui,  ottenete a noi tutti la grazia che non ci rifiutiamo giammai a qualunque sacrificio che da noi richieda il Signore per la gloria del suo Nome, e la salute dei nostri fratelli. Ave.

VI. Immacolata Maria, che col fiat da Voi proferito nell’accettare l’incarico di divenir Madre del Verbo, rallegraste il cielo, consolaste la terra, e spaventaste l’inferno, ottenete a noi tutti la grazia d’aver sempre una gran confidenza nel vostro santo patrocinio, affinché per Voi veniamo noi pure a godere il frutto di quella Redenzione così copiosa di cui foste, o gran Vergine, la sospirata cooperatrice. Ave.

VII. Immacolata Maria, che con un miracolo tutto nuovo diveniste Madre del Verbo, senza macchiare menomamente la Vostra illibatissima purità, ottenete a noi tutti la grazia di essere sempre così riservati e modesti negli sguardi, nelle parole e nel tratto, che non veniamo mai a macchiare la  castità conveniente al nostro stato. Ave.

VIII. Immacolata Maria, che contraeste una relazione così intima con tutta la SS. Trinità da diventar nel tempo stesso Figlia del Divin Padre, Madre del Divin Figlio, e Sposa dello Spirito Santo, ottenete a noi tutti la grazia di tener sempre l’anima nostra così monda, che meritiamo di essere con verità il tempio vivo del Padre che ci ha creati, del Figliuolo che ci ha redenti, e dello Spirito Santo che ci ha santificati. Ave.

IX. Immacolata Maria, che aveste la gloria singolarissima di portare nel Vostro verginal seno Colui che i cieli e la terra non sono capaci di contenere, ottenete a noi tutti la grazia di esercitarci continuamente, a somiglianza di Voi, nell’umiltà, nella penitenza, nella carità e nell’orazione, onde ricevere degnamente e con frutto lo stesso vostro divin Figliuolo, quando sotto le specie sacramentali si degna di venire dentro di noi; e fate ancora che siamo graziati di questa visita al punto della nostra morte, onde potere svelatamente contemplarlo, amarlo e possederlo con Voi in compagnia degli Angeli e dei Santi in Paradiso. Ave, Gloria.

QUARESIMALE (XX)

QUARESIMALE (XX)

DI FULVIO FONTANA
Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA
DI GESÙ

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMA
Nella Feria quinta della Domenica terza.


Il peccato mortale, traditore in Cielo, traditore in terra,
traditore sotterra.

Socrus autem Simonis tenebatur magnis febribus.
San Luca cap. 25


Ecco che questa mattina voglio scoprirvi a vostro gran vantaggio chi sia quello che vi tenga oppressi da febbri maligne, da febbri pestilenziali. Guardate gli tolgo la maschera d’in sul volto, eccolo: egli è il peccato mortale. Olà, uditemi; poche parole: Non è il peccato mortale qual molti se lo figurano un fiore con cui deliziarsi, ma una febbre pestifera che uccide. Apprendetelo, per sempre evitarlo, per quello che è ed è appunto qual io ve lo farò vedere traditore in Cielo, traditore in terra, traditore sotterra .. – O vive senza fede, o campa senza cervello chi non riconosce il peccato mortale per il maggior traditore del mondo. Al Cielo, al Cielo, per vederne i primi tradimenti. E voi portinai celesti contentatevi d’aprirci un sol piccolo cancello, per cui miriamo non la Gloria che vi fa beati; non siamo degni, che neppur uno de’ vostri splendori scintilli sulle nostre fronti; non pretendiamo con una tal veduta restar colmi di gloria, ma di spavento. Su, dunque, affacciatevi, il cancello celeste è spalancato; vedete voi colà quelle immense sedie d’oro tempestate tutte di zaffiri e diamanti? Queste furono preparate per gli Angeli, ed in quella sì risplendente a mano dritta doveva star lucifero, ed in quella a questi più prossima, Belzebud; ed ora quegli Spiriti celesti, che cavati dal seno del niente, furono collocati nel Cielo Empireo, dotati di sommo ingegno, di somma bellezza, immortali, capaci di vedere Dio, ora dico, stanno sopra sedie di fuoco giù nell’inferno. E d’onde mai, voi mi direte, mutazione sì strana? Non per altro, io vi rispondo, gemono, e gemeranno nell’inferno creature sì nobili, se non perché si collegarono col peccato mortale, s’opposero superbi al mistero loro proposto dell’Incarnazione, e ricusarono d’adorare il Figlio d’una Vergine. Voi ben sapete esser proprio di quei traditori che vogliono fare strani tradimenti, insinuarsi per via d’amicizia. Così appunto fece la scaltrita Semiramide, la quale domandò in grazia e con finta di scherzo amoroso a Nino suo marito, di concederle che lei un giorno solo sedesse nel trono come regina, e padrona assoluta. Si contentò l’incauto re. Si diede l’ordine d’obbedienza alle guardie. Ed ecco che la regina con apparenza d’affettuoso giuoco fece toglier di capo al marito il diadema, di poi la spada dal fianco, poscia il manto reale d’indosso, e finalmente ordinò che spietatamente gli si troncasse la testa. Cosi fa con voi il peccato mortale, s’insinua come se voglia scherzare, ma vuole uccidere. Così appunto fece con gli Angeli, se gli mostrò l’amico più caro che potessero avere, mentre gli disse che ribellandosi a Dio, sarebbero stati simili a Lui, similis ero Altissimo, e poi tradendoli, gli fece tutti piombar negli abissi. Ora io dico, se il peccato mortale, accolto una sola volta in un solo pensiero nel seno di quegli Spiriti che stavano per stabilirsi Principi del Soglio eterno, sì enormemente li tradì; come non tradirà voi, che l’ammettete nel cuore con pensieri, con parole, e con opere? Ah peccato, maledetto peccato ed è pur vero, quantunque ognuno ti conosca per traditore, non tutti però come tale ti sfuggono. E se fu traditore nel Paradiso Celeste, non lasciò d’esserlo ancor nel terrestre. Date d’occhio a quel bel recinto di mura sì ben disposto; quelle colonne di marmo finissimo che sostengono la gran machina, quei simulacri d’alabastro formati così al vivo, son lavoro di Dio. Questo è il Paradiso terrestre, miratelo pure al di fuori, perché l’entrarvi non è possibile. Sta sull’atrio un Cherubino del Cielo, il quale con una fiamma di fuoco nella destra, minaccia incendio a chi ardisce sol d’accostarsi. Non ha però questo Cherubino Celeste potuto tener lontano il peccato mortale; egli v’è entrato da traditore, poiché sotto specie d’amicizia si è insinuato con Adamo, ed Eva con le finte parole: Eritis sicut Dii … Voi sarete come Dei, se trascurando il precetto divino, gusterete del pomo vietato. Volete altro? Li ha traditi, ed oltre ad averli scacciati da un delizioso possesso, ha partorito a noi posteri quel gran fascio di mali che assedia la nostra vita: povertà, malattie, ignoranze, nemicizie, carestie, pestilenze, tempeste, liti, guerre e stragi. – Ora io replico, se il peccato mortale tradì Adamo, che pur era sì savio, per la trasgressione d’un sol precetto, come non tradirà voi tanto trascurati e che trasgredite e conculcate, quasi dissi, ogni precetto, senza rispetto né alla Chiesa né a Dio? Ah peccato, maledetto peccato, conviene esclamare, quantunque conosciuto per traditore, ad ogni modo vi è chi t’ama, t’accarezza. Sovvengavi che il mondo fece già lega ed amicizia col peccato, e fu allorquando … omnis caro corruperat viam suam, onde non fu meraviglia che soggiacesse a tradimenti. Fabbrica pure, poteva dire a Noè, l’arca; devi però sapere che le tue fatiche serviranno più per animali che per uomini, giacché il peccato della disonestà ha chiamate al tradimento le acque. Ecco che si aprirono le cataratte del Cielo, si ruppe ogni argine a’ fiumi, ogni lido al mare, il mondo si sommerse, e naufragarono alla rinfusa uomini e donne, nobili e plebei, poveri e ricchi, e tutti vi restarono miseramente sepolti. Salite pure, poteva dire, nella parte più alta delle case, portatevi sulla cima dell’Alpi; più fabbricate, se avete tempo, torri che superino d’altezza i monti più sublimi dell’Armenia, tanto le acque vi giungeranno; avete fatto lega col peccato, il peccato v’ha tradito, tanto basta, perché restiate sommersi. Immaginatevi pure tutto il mondo sepolto sotto le acque del diluvio e poi col vostro pensiero formate un monte di tutte le ossa di questo mondo sepolto sotto le acque del diluvio alzando gli occhi, attoniti sopra le alte rovine, esclamate, l’iniquo traditore che ha fatto macello di tanti uomini è stato il peccato mortale, e pur vi è al mondo chi l’accarezza. – Così è, l’accarezza quel giovane che non fa altro che sfogare gli appetiti, e contentare il senso; l’accarezza quel coniugato che, scordato della fede giurata alla consorte, alla Chiesa, a Dio, contamina l’altrui letto; l’accarezza quella femmina vana che sbracciata, scollata e spettorata si fa vedere per le strade, per le piazze, e nelle Chiese  con tal portamento di vita, che par cerchi far copia di sé; l’accarezza quell’ecclesiastico che non si vergogna lordare un abito sì sacrosanto con le sozzure, di strapazzare la M D. ne’ pubblici ridotti, tra giuochi, tra balli, tra le crapule; non è così? Così non fosse! Dunque, rientrate in voi stessi, e perché più sollecitamente dobbiate farlo, ve lo pongo sotto gli occhi in altri tradimenti. – Vedete colà quella statua di sale; sappiate che qui furono cinque Città nobili, popolate ed amene, ed è pur vero che ora neppur v’apparisce vestigio, anzi il fetore che esala quel terreno ricoperto da un lago bituminoso, non può tollerarsi. Anche queste città, ed è pur vero, si lasciarono tradire dal peccato mortale, il quale sorto specie d’amicizia gli promise ogni piacer di senso, e poi gli diede un diluvio di fuoco. Avreste veduto scendere dalla sua sfera quell’elemento ed a guisa di spaventosa pioggia, piombar sopra delle case, non accadeva, che i miseri fuggissero all’aperto, perché ivi giungeva il fuoco, se si ritiravano ne’ gabinetti, vi penetrava; se rintanavansi nelle cantine, anche colaggiù correva il fuoco portatovi per mano del peccato. Quel che a me spiace, è che a queste fiamme delle città incenerite per tradimento del peccato, molti e molti si riscaldano senza temer d’essere bruciati, come se fosse fuoco di paglia. E quali strumenti non ha mai adoprato il peccato per tradire il peccatore? Non fu contento di prender l’acque dalle nuvole nel diluvio, il fuoco dal cielo, che anche il mare volle ministro de’ suoi tradimenti. Giungete meco col pensiero fino al Mar Rosso, e quivi vedrete un orribile tradimento in persona di Faraone, perché fece lega col peccato, perseguitando il Popolo eletto: vide Faraone una strada in mezzo all’acque, per cui passava il popolo di Dio, si crede anch’egli poter passare con egual felicità, ma il peccato traditore … Equum , et Ascensorem dejecit in Mare, sommerse Faraone con tutto l’esercito, giacché quella strada sicura agl’Israeliti tornò a rimaner coperta dall’onde, sicché vedeanli divorare dall’acque soldati, armi e cavalli, e galleggiar piume, e bandiere di quella barbara gente. Peccato, intendetela, tradì Faraone ostinato; tradirà voi peccatori ostinati, voi, che volete morto l’inimico, non vi succederà, il peccato tradirà voi, e resterete sommersi nel Mar Rosso del vostro sangue. Voi siete ostinati come Faraone, non volete palesar quel peccato, potreste risanare passando per il Mar Rosso del Sangue di Gesù nella Confessione. Bene, non volete, resterete sommersi in un mare di fuoco. Quando voi non foste abbastanza persuasi da questi sì enormi tradimenti per fuggire il peccato, voglio mostrarvene de’ maggiori. Uscite dal nostro mondo, e dopo averlo conosciuto traditore in Cielo ed in terra, osservatelo traditore spietato sotterra. Quivi in quei cupi abissi lo conoscerete per tale in quelle profonde caverne che furono stanze d’esilio doloroso ai Santi Patriarchi ed a tanti giusti che non ebbero ingresso al Cielo, finché Cristo non l’apri loro col suo Sangue preziosissimo. Che sono abitazione di tanti morti senza Battesimo e d’innumerabili anime purganti. Sebbene, a che trattenermi in queste carceri, per conoscere come spietato carnefice il Peccato mortale? Basta che diate d’occhio a quella carcere la più orribile, la più spaventosa, la più spietata, che possa mai immaginarsi: Aprite, dunque, quella voragine profondissima, mirate che caligini, che fuoco, che fetore di cloaca pestifera, udite che strida di disperati. Vedete là tante anime immerse in stagni di fuoco e zolfo, che si dibattono rabbiosamente, che disperatamente bestemmiano; immaginatevi che sono di quelli, i quali simili a qualcheduno di voi, fecero lega ed amicizia col peccato mortale, ed il peccato li tradì da carnefice spietato, contentarono anch’essi, come voi, gli appetiti della carne con piaceri infami, sfogarono i rancori del cuore con crudi risentimenti, Fornicatoribus et Omicidis pars eorum in stagno ardentis ignis, sulfuris. Osservate quelle che stanno con la bocca arsa, con la lingua nera, con gli occhi spaventati e che fan forza per rompere quelle catene di fuoco, con le quali sono strettamente legate. Sapete chi furono? furono certe anime timide, che non si vergognarono di commettere il peccato, ma bensì di confessarlo, e furono sì sfacciate, che ardirono di comunicarsi in peccato mortale ed ora il peccato che le tradì si porta con esso loro da vero carnefice. Volgete lo sguardo a quelle truppe d’anime, che sono colà legate insieme e che sono circondate da tanti neri demoni, i quali soffiano in quei carboni, perché più penetranti facciano sentire i loro ardori … colligata est iniquitas in fascicules ad comburendum. Quei sono tutti Cristiani che di quando in quando ancor’essi andavano alla predica e tornando a casa, qualche volta dicevano: veramente il predicatore ha ragione, ma frattanto seguivano a tenersela con il peccato mortale che ora da lui sono stati traditi. – O Dio! E perché mi stanco nel narrarvi i passati tradimenti, o nel riflettere a’ futuri, mentre ogni peccatore lo può riconoscere traditore di se medesimo? E non è forse stato il peccato, che vi ha tradito nella reputazione, nella roba, nella sanità, nella vita? Certo che sì, crediatelo Tertulliano, il quale asserisce, che il peccare è appunto fondare un censo, nel quale, oltre al capitale della pena eterna, a cui soggiace il peccatore rimane anche sottoposto agl’annuali frutti, a’ quali và soddisfacendo con le calamità e perdite temporali; sopra di che scrisse a meraviglia. Idelberto attende miserias hominum intuere cineres, vectigalia peccati sunt; e che altro sono le perdite della riputazione, della fama, se non che peccati census, et vectigalia, interessi e frutti che da noi esige il peccato traditore. Non voglio che crediate a Tertulliano, ma a voi o peccatori. Se io domandassi a quella fanciulla: perché tanto amaramente piangete? … o Padre che volete dire? Ben v’intendo voi siete pianta giovine, ed il frutto è già maturo; Padre sì, non ho faccia da comparire; ma sorella, vi risponderò: quando vi fu detto, non trattate così alla domestica con quel vostro padrone, non andate in quella casa, non scherzate con quel servitore, non amoreggiate con chi non è vostro pari … se voi aveste obbedito, non sareste in questi cimenti; avete voluto accarezzare il peccato, ed egli v’ha tradito. – Il Peccato tradisce anche nella riputazione e non vuole intendere, così l’avesse inteso quella donna, la quale, perché volle anticipar le nozze, scoperta prima da’ domestici e svergognata nel pubblico, fu costretta a pianger prima vedova, che maritata. Così l’avesse inteso quella maritata, che mancando di fede al marito, a Dio, mancò di credito nella Patria. Così l’avesse inteso quell’avaro, che credendo di poter sempre celare i suoi traffici illeciti, le sue usure, finalmente scoperto, ne riportò l’infamia dovuta. Quell’uomo peraltro savio ed accreditato, ha perduta da reputazione, perché non sa staccarsi da quella rea femmina. Così pure quel Sacerdote, quel religioso, perché non si ritirano da quella casa, in cui si manca di fede a Dio, contaminando la castità promessa. Né solo è traditore, perché toglie la riputazione, ma perché invola anche la roba, quando pertanto le liti vi tolgono le ricchezze, i tribunali vi levano i danari, quando la vostra casa vi par divenuta casa di miserie, non date la colpa a’ vicini perché v’odiano, ai parenti perché v’invidiano, non mi state a dar la colpa alla fortuna che questa mai non fu né mai farà che nel cervello de’ pazzi: dite pure, ed allora direte la verità: la vera cagione della sterilità ne’ miei campi, della mortalità ne’ miei armenti, dello scapito ne’ miei traffici, della perdita delle liti, di tutte le mie disavventure, non è altro che quel traditore del peccato mortale, miseros facit populos peccatum; dite pure, le mie ingiustizie, le mie usure, quelle bestemmie, tante mormorazioni, tanti odii che ho covato in cuore, questi sì, questi sono i traditori della mia casa, della mia famiglia, della mia persona. Ed è pur vero che, quantunque questo maledetto peccato sia a suon di tromba dal lume della ragione dichiarato per un acquedotto avvelenato, e per una sorgente di tutti i mali, tuttavia sempre si trova chi va alle sue sponde, chi assedia le sue rive e beve come nettare il velenoso fondaccio de’ suoi stomachevoli umori. –  Racconta Niceforo, che Foca imperatore vedendosi altamente odiato da’ suoi, e dubitando di tradimenti, per assicurarsi la vita, fece ridurre il suo palazzo a modo di Cittadella inespugnabile ad ogni assalto, ma mentre s’alzavano le mura, nel più buio della notte dalla parte del mare s’udì una voce spaventosa che gridò: ferma, ferma imperatore! Che pretendi? Alza pur le mura fino al cielo che tanto saranno basse se non ne scacci il peccato. Si vel ad cœlum muros educas, intus cum sit malum, urbs captu facilis est. Così per appunto seguì, già che nello stesso giorno che fu compita la fabbrica, l’imperatore fu tradito … urbs captu facilis est ed io dirò: Domus vestra captu facilis est. Vi sono nemicizie nella vostra casa, vi sono trame di vendette, dunque io la vedo in rovina … Domus vestra captu facilis est. Se nella vostra famiglia vi sono disonestà, mormorazioni, bestemmie, la vostra casa sta per cadere; se siete profanatori delle Chiese, disturbatori della pace, la vostra casa non può durare, vi è dentro chi presto la tradirà. – Vedete là 8nel vostro paese quell’uomo? egli era comodo, ora è miserabile, perché? Perché il peccato l’ha tradito; prese una nemicizia, e v’ha logorato tutto il suo; ebbe poi una amicizia, e gli ha succhiato quanto avea; si diede al giuoco, alle crapule, e si rovinò; e pure voi altri stolti, benché abbiate sugli occhi questi esempi, tanto volete l’amicizia di questo traditore. Ah, peccato maledetto, com’è possibile che ognun non ti fugga, mentre sì bruttamente tradisci ancor nella sanità? Volete vedere se sia vero che tradisca anche nella sanità? Mirate quei giovani senza colore in viso, senza fiato sulle labbra, senza forze nella vita, pieni di quel male, che dicono venir di là da’ monti, il peccato li ha traditi. Venite col vostro pensiero agli ospedali per vedere i tradimenti del peccato. Osservate quel ferito, or sappiate ch’egli andò per dare, e ricevette: il peccato dell’odio l’ha posto in letto; mirate là quell’altro con la testa spaccata, ne fu causa il peccato dell’amore indegno, un suo rivale lo percosse; su, passate ora alle carceri, e dite: chi vi tiene miseri quelle catene al piede, chi quei ceppi? Il peccato del furto! Chi vi stende sugli eculei? Le false testimonianze, le accuse a torto. Dove va colui, condotto con tanta comitiva? Al patibolo, alla forca, chi ve lo conduce? La Giustizia, ma il tradimento l’ha avuto dal peccato; dite pure: Ah peccato, maledetto peccato, vero traditore, mentre non sazio di tradire nella reputazione, nella roba, nella sanità, tradisci ancor nella vita, e dopo aver lasciato il corpo estinto sopra la terra, seppellisci l’anima nell’inferno. Volete vedere che sia vero? Udite: s’amavano con indegno amore in una città della Sicilia un indegno giovane ed una sfacciata donzella; quando un dì si abbatté a passare dalla casa dell’amica il giovane, e fu appunto quello in cui a causa di purga s’era cavato sangue, invitato dunque dalla rea compagna a salire le scale, le salì l’infelice, ma per traboccare da più alto nell’inferno. Si cenò allegramente, ed allegramente pieni di vino e di disonestà, si diedero in preda al sonno, che questa volta non fu immagine di morte, ma vera morte: dormiva il giovine quando, scioltasi la fascia del salasso, s’allargò di nuovo la ferita, ed apertasi la vena, il sangue agitato e commosso da’ passati disordini, uscì in sì gran copia, che l’infelice morì prima di risvegliarsi; destatasi frattanto la rea femmina, trovando il letto allagato di sangue, tenta destar l’amante, che già vegliava tra’ tormenti d’inferno; indi, acceso il lume, mirò e vide con orrore il funesto tradimento del suo peccato; pianse, e con egual dolore deplorava la morte dell’amante ed il pericolo della propria vita, se dalla Corte se gli si fosse trovato in casa il cadavere; onde consigliatasi con la madre, anch’ella vituperosamente intrigata in questa tresca diabolica, deliberarono di strascinarlo ambedue avanti della porta d’una vicina Chiesa; seguì tutto prosperamente, ed apertasi sul far del dì la Chiesa, fu collocato quel morto nella bara a vista d’ogn’uno. Era riuscito alla madre ed alla figlia celar con felicità la loro ignominia, cavandosi di casa il cadavere, ma non era soddisfatta la Divina Giustizia, che voleva vittima della propria disonestà anche la femmina. Impazzita dunque questa e d’amore e di dolore, non sapea trovar luogo, non poteva raffrenare né pianti né sospiri; sicché la madre pensando di poterla alquanto quietare, con condurla, come una del vicinato alla Chiesa, per vedere lo spettacolo, la condusse, ma con esito assai più funesto, poiché la giovane a vista dell’amante steso su quella bara, diede in sì alta disperazione, che tratto prestamente un coltello di tasca, e gridando in pubblica Chiesa: io son quella che ho dato morte a costui; son io, son io, io merito di morire; ed accompagnando a queste voci il colpo che si vibrò nel cuore, si diede la morte, volando ad abitar nell’inferno con chi visse nel mondo lasciva. Intendetela, così tradì quest’indegni il peccato; così tradirà voi, se non mutate vita, lasciando il vostro corpo ai vituperi del mondo, e l’anima al fuoco eterno.

LIMOSINA
I campi innaffiati dall’Indo sono sì fertili, che in un anno medesimo danno due raccolte ed i pascoli de’ prati vicini al Nilo sono sì ubertosi, che gl’armenti ivi partoriscono due volte. Per noi, RR. AA., fecondissime terre sono le mani de’ poveri, nelle quali ci consiglia sì spesso la Divina Scrittura a seminare le nostre sostanze, assicurandoci del centuplo in questa vita, e della salute eterna: Promissionem vitæ, quæ nunc est, futuræ.


SECONDA PARTE

Il Profeta Reale, voglio per ultimo vi confermi di propria bocca se veramente sia traditore il peccato; voi ben sapete, che quando si sollevò nel popolo quell’orribile pestilenza, che in poche ore fece uno scempio di sessanta mila persone, se se ne fosse domandata la cagione agli astrologi, avrebbero subito ritrovato nel cielo qualche capo di medusa ed addottolo per autore di tante stragi; ed i naturali avrebbero risposto, che un alito contagioso, uscito all’improvviso da qualche apertura insolita della terra, avesse con tanto danno infettato quel popolo; e tra’ politici non farebbe mancato chi avesse dubitato di peste fatta a mano con polveri e porcheria, sparse a bello studio da’ popoli confinanti, loro nemici, per rovinar quel Reame allora si florido d’Israele. David però senza tanti discorsi ed interpretazioni ne assegna la vera cagione, attribuendo scempio sì grande al suo peccato. Questo riconobbe per stella maligna, per alito pestilente, per nemico persecutore: Ego, ego sum qui peccavi, ego qui malum feci. Egli è purtroppo vero, il peccato è la vera cagione di tutti i mali; il peccato si è quel ribaldo in Cielo, quel traditore in terra, nel mondo, quel Carnefice spietato sotto terra. Egli è quello che toglie reputazione, roba, sanità e vita. Voi, lo so, v’opponete al mio discorso, e dite: Padre, io non so tante cose, io ho il peccato in me, lo sopporto nei figli e talor lo voglio nella moglie, o almeno chiudo gli occhi, e non vedo che questo peccato mi tradisca, anzi la mia casa è in buona stima, sto bene di facoltà, di sanità e se ho da dire il vero, il peccato me le accresce, perché tengo corte le misure, e scarsi i pesi; ho fatto instrumenti falsi, ho gabbato vedove, ho ingannato pupilli, e pur le cose vanno di bene in meglio; ho anche qualche omicidio sulle spalle, non mantengo la fede alla consorte e non vedo questi tradimenti. Non v’ha dunque tradito il peccato mortale? No? Dunque non vi tradirà? O questo non lo potete dire. È ben vero che sommamente mi condolgo con voi, giacché non siete stati traditi dal peccato finora, con cui avete fatto lega, perché vuol dire, che per voi macchina un tradimento molto maggiore, vi vuol tradir di là con pena eterna. Datemi mente. È vero che la pena è l’ombra della colpa, in questo però non imita la natura dell’ombra, perché d’ordinario ella va distante dal corpo che la produce. Che voglio dire, per parlar più chiaro, che Dio non paga né in contanti, né ogni sabato, ma scrive al libro i peccati l’un sopra l’altro e quando sono arrivati ad un certo segno, allora vibra fulmini per incenerire e roba e case e persone. Voi che avete fatto lega col peccato mortale, perché non vi vedete castigati subito, vi date ad intendere che Dio dorma, e perché lo vedete tardare, stimate che non sia più per venire; v’ingannate, verrà, e verrà di certo, e se tarda, sarà più risentita la sua venuta.  L’arciere, quanto più tien teso l’arco, tanto più scocca risoluta la sua saetta: Dio vi liberi, che Dio non vi castighi, che il peccato non vi tradisca in questo mondo, perché potreste stimar certa la dannazione. O di qua, o di là bisogna infallibilmente pagarla. Orsù dunque, si lasci l’amicizia di questo peccato mortale che, se alletta, domani vi tradisce. Sentite questo caso. Dormiva una smisurata serpe in una selva, stesa per lungo in terra quando abbattutosi un infelice viandante a passarvi vicino, la crede un albero di quel bosco buttato a terra, e vi sipose su a sedere per riposarsi: ma ché, la serpe premuta, si risentì, ed accesa di sdegno, cinse con la lunga sua corporatura l’infelice passeggero, e tiratolo nella sua tana, a membro a membro, lo divorò. Voi tutto dì volete porre i vostri riposi, le vostre consolazioni, i vostri sollievi nel peccato mortale. Volete amicizia con lui, orsù non dubitate, sarete traditi, praticherà con voi le sue benevolenze, i suoi amori ed i suoi abbracciamenti saranno indirizzati a condurvi in una caverna, dove in eterno abbiate da penare tra gl’incendi. Pensate, e risolvete se vi torna conto d’avere quest’amicizia col peccato mortale, che fu ribaldo in Cielo, traditore nel mondo e carnefice spietato sotto terra.

QUARESIMALE (XXI)

QUARESIMALE (XIX)

QUARESIMALE (XIX)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile, 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMANONA
Nella Feria quarta della Domenica terza.


Gli spasimi del peccatore moribondo; per il mondo che lascia; per la severità del Giudizio che gli sovrasta; per l’eternità delle pene che aspetta.


Morte moriatur. San Matteo cap. 15

Preparatevi pure, o peccatori, a provare i giusti sdegni dell’ira divina. Si protesta Cristo in San Matteo con quelle parole … morte moriatur, che non solo vi vuole morti, ma morti di morte; che vale a dire di quella morte già preveduta dal Profeta Reale allorché disse: mors peccatorum pessima: sarete dunque percossi da Dio, se non vi emendate, da questo fulmine di pessima morte. Santi, che foste interpreti delle Sacre Carte, diteci in che consisterà questa pessima morte de’ peccatori. Ecco che dall’Eremo di Chiaravalle mi risponde San Bernardo, dicendomi: sarà pessima, in amissione Mundi, in severitate judicii, in horrore inferni, che vale a dire, sarà pessima la morte de’ peccatori per la perdita che sanno del mondo, allorché muoiono; per la severità del Giudizio che incontrano dopo morte; per la sentenza, che li condanna alle pene eterne dell’inferno. Cominciamo dal primo. Come non volete che sia pessima la morte del peccatore, mentre dovendo morire, non solo deve lasciare, ma deve rubarsi tutto dalla morte, che nell’Ecclesiastico vien chiamata: dies finitionis; perché la morte non è altro che un finire del mondo per chi muore. Se la morte, dunque, è un finire del mondo per chi vive, datemi attenzione, e poi rispondetemi mentre io con voi così discorro. Se voi sapeste di certo che tra cinque o sei anni dovessero rovinare tutte queste case, sprofondare tutte queste campagne, il mondo tutto ridursi in cenere, ditemi, che conto dovreste voi fare della vostra roba, de’ vostri passatempi, delle vostre amicizie? credete voi che tanto facilmente offendereste Dio, per condiscendere ad un amico, per soddisfare ad un piacere, ad un capriccio? Certo che no, mentre sapeste che in breve tempo tutto il mondo dovesse ritornare al suo niente. Or io vi dico: e non è forse tuttuno, o che il mondo finisca e voi restiate; o che resti il mondo, e voi finiate di vivere? Non ve ne ha dubbio: morto che sarete voi, il mondo è finito per voi, e pure vi state attaccati come se mai dovesse finire; e pur talora manca nel più bello. – La sanguisuga, allorché dal cerusico vien attaccata ad una vena, vi si attacca con una avidità grandissima. Qui vi succhia, gode, si gonfia, e si satolla di quel sangue che tanto avidamente brama. E si crede d’aver sempre a seguitare in quel contento; ma che? Nel più bello viene il cerusico, la stacca dalla vena, la pone in un tondo, la taglia per il mezzo, e gli fa rendere tutto quel sangue, che ha bevuto, e col sangue gli toglie la vita. Questo stesso interviene a’ peccatori. Si crede colui di aver sempre il sangue de’ poverelli con defatigarli nelle liti, con succhiar loro il sangue: si crede doversi sempre ingrassare con la roba altrui, con portare a’ mercanti la roba cattiva e venderla per buona; gli armenti, i bestiami infetti ed esitarli per sani; con promettere a chi lavora il danaro, e poi volergli dar la roba, di più della peggiore, ed a gran prezzo; ma che ne segue nel più bello de’ suoi acquisti sì ingiusti? Viene la morte, lo taglia per il mezzo  e lo fa vomitare quanto ha radunato in questo mondo, senza lasciargli più che uno straccio da rinvoltare il suo cadavere: Divitias quas devoraverit, evomet. Così pur quel superbo si crede d’aver sempre a sopraffare i minori, a vendicarsi d’ogni piccolo oltraggio, anche con vendette trasversali, ed ecco nel meglio de’ suoi disegni, delle sue vendette, viene la morte; lo taglia per il mezzo; e buttandolo in una sepoltura, lo fa pascolo de’ vermi, e si verifica quello d’Abdia al quarto: Si inter sydera posueris nidum tuum, inde detrabam te. Si credevano di dover sempre tendere insidie, ora all’onestà di quella donzella, ora all’onore di quella maritata, al decoro di quella vedova, senza perdonarla neppure al proprio sangue: ed ecco che nel più bello vien la morte, tagliandoli per il mezzo gli strappa a forza da tutte le più care conversazioni. Non occorre altro: la morte si chiama: dies finitionis, presto ha da finire tutto il mondo per te, e de’ tuoi piaceri non ti ha da rimaner altro che il travaglio di averli goduti. Ed ecco la morte pessima in ammissione mundi. –  Tutto è vero: sento chi mi replica… ho da morire, ha da finir tutto; ma intanto io mi scapriccio, vivo a mio modo, e godo. Oh stolto, che sei! Mentre così discorri, tu godi mentre vivi in peccato? Il tuo godere è come i frutti di Sodoma, belli al di fuori, ma cenere dentro. Tu ridi, tu burli, tu scherzi, l’apparenza è bella, ma se ti miro il cuore, non trovo che il mondo ne’ suoi diletti t’abbia mai dato altro che amarezze. Ecco, che ve lo mostro. Volete sapere come tratta il mondo co’ peccatori? Come il cacciatore con suoi cani. Se ne esce di casa il cacciatore con il suo cane al cusso e, veduta la fiera gli lascia il cane che con ogni sforzo fra balze e fra spine la segue; e finalmente animato dalle voci del padrone, che grida: piglia, piglia … gli riesce tutto ansante e mezzo morto l’afferrarla. Ma che? Ecco che il padrone crudele gli è alla vita e gli dice: lascia, lascia; onde il cane è costretto a lasciare quella preda, che credeva dovesse satollarlo ed altro non resta al meschino che la fame; e per lui è uno stesso il conseguire quel che cerca ed il perderlo. Così appunto ha da intervenire a te, misero peccatore. Ora il mondo, che è il tuo padrone crudele, ti dice: Piglia , piglia, piglia quella roba che non è tua, non pagar mercedi; non soddisfare a’ legati pii; dilata i confini del podere, tieni corte le misure, scarsi i pesi: piglia, piglia; pigliati quel piacere che non è lecito, quella vendetta; e tu insensato, come se avessi da godere di un gran bene, t’affatichi, ti sfianchi, ti sfiati per conseguirlo; ed ecco che nel più bello ti senti intimare dalla morte: lascia, lascia, lascia ricchezze a chi non si ricorderà mai di te; lascia il tuo corpo a chi lo porrà fotto terra dentro il sepolcro; lascia i tuoi amori a chi li andrà raccontando per suo passatempo e per tua grandissima infamia. Lascia, lascia. Son vere sì o no queste cose che ti dico? Certo, che non le puoi negare, ma te le immagini, te le figuri oh quanto lontane, e questa è la maggior pazzia; perché non t’accorgi, che la morte ti viene incontro a gran passi: Memor esto, quoniam Mors non tardat, ti dice lo Spirito Santo, tu la credi lontana molte miglia, e forse ella sta per battere all’uscio della tua camera. Chissà, che forse ora non ti lavori nelle tue vene quel veleno che tra pochi giorni ti metta nel sepolcro? Forse ora si distilla quel catarro che ti ha da soffocare; forse la morte ha teso l’arco e tu vivi del tutto spensierato? – Nella nobilissima città di Siena vi fu un cavaliere di prima nascita, il quale trattenendosi un dì tutto sano in quel luogo che chiamasi Banchi, per certi suoi domestici affari; vide alla lontana venire una compagnia di Confrati col cataletto, e voltatosi a chi seco tratteneva, disse loro: dove va, per chi serve questa bara? Varie furono le risposte, che gli furon date; la verità però è che colto da accidente inaspettato quel cavaliere, se ne morì subito, e quella bara servì per lui. Credete voi che questo cavaliere si aspettasse allora la morte? Memor esto quoniam mors non tardat … intendetela: la morte non tarda, è vicina ed oh quanto vicina se la vide quell’indegno giovane che, stato lontano per qualche tempo dall’amica, volle ripassar per quella strada, e dare il solito cenno; sicché fattasi alla finestra la rea femmina gli disse: so che m’avete abbandonato. Non sarà mai vero, rispose il giovane; appunto, replicò la donna; voi più non mi amate. V’amo tanto, riprese l’uomo, che per voi darei tutta la parte del Paradiso che mi tocca; e di fatto la diede, poiché soffocato da una piena di catarro, appena proferita l’esecranda bestemmia, restò ivi morto, spettacolo infelice della Divina Giustizia. Su, dunque, staccatevi; altrimenti la vostra morte sarà altresì terribile in severitate Judicii. – Tu fai bene, o peccatore, o peccatrice, che appena spirata, appena uscita l’anima dal tuo corpo, subito in quella medesima stanza ove Dio t’ha tante volte tollerato nelle tue disonestà, in quella medesima s’alza il Divino Tribunale; sicché subito morto devi comparire avanti Cristo Giudice per esser giudicato, secondo le tue opere, o buone o ree. Or dimmi: e non è vero, che tu tutto attonito e spaventato dirai col Santo Giob: quid faciam, cum surrexerit ad judicandum Deus? A qual partito ti appiglierai? ad uno di questi due converrà che t’appigli da fuggire dagli occhi del Giudice; o ad ingannarlo… ma che dissi? come potrai fuggire dagli occhi di Dio? questo è impossibile; mentre Egli è quel Dio di grandezza eguale alla sua forza: Deus Judex fortis; basterà solo che tu miserabile lo veda per rimanere in un stesso tempo atterrito ed inorridito. L’allodola, allorché vede lo Sparviero ne concepisce tal timore, che si è veduta volare a piombo dentro le fiamme d’un acceso forno. Sarà tale il tuo terrore alla presenza di Cristo Giudice, che per fuggirne volentieri t’andresti a seppellire nelle fiamme dell’inferno? Quis mihi det, ut in inferno protegas me, et abscondas me, donec pertranseat furor tuus? Fuggire dunque non potrai essendo più facile fuggire dal mondo e da se stesso, che da Cristo Giudice. Quid facies, dunque, che farai? Ricorri alla frode: procura d’ingannarlo. Ingannare il tuo Dio; Cum surrexerit ad
judicandum Deus
. Appunto Egli è quel Dio che tutto vede: intuetur cor, agli
uomini si può dare ad intendere quello che si vuole, ma non a Dio scrutatore de
cuori! – Non so, se camminando di notte tempo, vi siate mai abbattuti in certi legni
putridi; se allora v’avrete fissati gli occhi, vi saran parsi luminosi; ma se poi li avrete rimirati di giorno chiaro, gli avrete scorti per mezzo fracidi, per legni sol buoni ad esser gettati nel fuoco. Che voglio dire? Voglio dire che in questo mondo siamo tra
le tenebre, e ci può riuscire talora il far comparire per luce quel che è tenebre; poco penerà colui che nega quella pace a dire, che lo fa per zelo della giustizia; oh che bella luce a chi non vede il fondo putrido di quel cuore! Ma in faccia a Dio non potrà dir così; si vedrà allora, che non era zelo, ma rabbia. Riuscirà facile a quel marito l’ingannare la sua moglie, con riprenderla di gelosa, con assicurarla che l’amicizia con colei non è mala, che vi tratta innocentemente; ma quando si farà giorno alla venuta del Giudice, chiaramente si vedrà che l’amicizia era un continuo peccare. Ancor tu donna, potrai con i tuoi inganni, con le tue finzioni farti tenere per donna da bene, onorata; che vai alla Chiesa per mera devozione, quando vi vai non con altro fine che per concludere con gli occhi e con i gesti quei trattati d’amore indegno. Ma quando si farà giorno, alla presenza del sommo Giudice, si scopriranno le tue laidezze: Hæccine est urbs perfecti decoris? Questa è quella donna, si dirà, che quando più spacciavasi per onesta, allora più nefande commetteva in segreto le laidezze; e con le laidezze andava mescolando i Sacramenti! Questa è quella Giovane che diceva che i suoi amori erano tanto innocenti, ed erano tanto infami? Questa è quella donna, che protestavasi senza errore; e cambia confessore per non essere ripresa, e talora taceva i peccati, vergognandoli di confessarli chi non ebbe rossore di commetterli: Hæccine est urbs perfecti decoris? Adesso puoi negar quei furti, quelle scritture, quel debito, quelle lettere, quei memoriali, quelle mormorazioni; ma nel tremendo Giudizio tutto scoprirà. Che farai dunque? quid facies cum surrexerit ad judicandum Deus?
non si può far altro, per non aver la morte pessima ancora in severitate Judicii che mutar vita. – Appigliatevi ancor voi a questo partito: lasciate l’amicizia, fate la pace; restituite l’altrui. Non vi sapete risolvere? Perciò la vostra morte sarà pessima in severitate Judicii. Oh Dio! Volete sapere perché i peccatori non si risolvono? perché si figurano Iddio sempre amorevole, e Gesù sempre loro Avvocato; senza riflettere che, quanto è maggiore ora la sua misericordia, tanto poscia sarà più severa la giustizia: tacui, patiens fui sicut parturiens loquar. Avete mai fatto riflessione all’orologio, che se ne va per molto tempo cheto cheto: ma come giunge l’ora si mette tutto sossopra; si sconvolge, si fa sentire per tutto … tacui, patiens fui, dice Dio, pareva che io non vedessi le tue iniquità; e perché? Perché non era giunta l’ora del giudizio; ma giunta quell’ora, mi farò sentire a tutto il Paradiso, come appunto si fa sentire la donna a tutta la casa, allorché è oppressa da’ dolori di parto: sicut parturiens loquar, e così parlando vi farà provare la morte pessima nelle fiamme dell’inferno: in horrore inferni.

LIMOSINA

 Volete esser ricchi? Non vi stancate più ne’ mercati, per le fiere, ne’ traffici. Honora Dominum de tua fubstantia, dice Iddio, et implebuntur horrea tua, saturitate vino torcularia tua redundabunt. Fate limosine. e poi vedrete, che vi si empiranno i magazzini di grano, d’ottimo vino le cantine. Eccovi ricchi: Che dite? Negate che siano parole di Dio? Se sono di Dio, credete non possa adempirle? Questo sarebbe un trattar Dio da fallito? Se credete che Egli non voglia mantenerci la parola: questo è trattarlo da falso. Provatelo; probate me super hoc, e vedrete!

SECONDA PARTE

Sarà dunque pessima la morte del peccatore per l’orrore dell’inferno. Vedrà il misero spalancato sotto de’ suoi piedi l’inferno, cioè una prigione, le di cui mura siano di fuoco, di fuoco la volta, di fuoco il pavimento, i ferri di fuoco, l’aria di fuoco, Or io ti dico: ti daria l’animo per tutti i beni del mondo d’entrarvi dentro, e trattenerviti per una mezza giornata? Ah stolto! Ed è pur vero che sei sì privo di senno, che per cose molto minori, per un sozzo piacere, per 9un piccolo interesse, per un sfogo d’odio, accetti di buona voglia di stare in una somigliante prigione, non solo col corpo, ma con l’anima per tutti i secoli senza fine. Senti quel che ti dice Isaia al cap. 33. Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante? Aut quis habitabit ex vobis cum ardoribus sempiternis? Rispondi tu a questa interrogazione del Profeta: come potrai stare tra le fiamme per tutta un’eternità? Hai mai provato ciò che sia fuoco? Certo, perché tu sei quello che hai paura infin d’una favilla che ti schizzi in mano e non puoi soffrirla: come dunque ti eleggi di stare in una fornace, che distruggerebbe i monti? Montes a facie ejus diffluerent, a guisa di cera, non per breve tempo, ma finché Dio sarà Dio. Domanda parere se sia bene per lo sfogo delle passioni guadagnarsi un inferno; a quella moglie scellerata di santo marito  come si riferisce nelle Vite de’ Santi Padri: … vivevano insieme marito e moglie; e quanto uguali di nascita, tanto erano diversi di costumi: santo il marito, perversa la consorte. Venne al suo fine il marito; ed alla vita santamente menata corrispose una morte all’apparenza funesta, poiché piena di pene di tormenti e di agonie tremende. Morto il marito restata libera di sé la rea consorte, si diede con maggior libertà allo sfogo delle passioni, conducendo la sua vedovanza tra suoni, canti, balli e bagordi. Finalmente venuta a morte questa rea femmina, passò all’altra vita con una tal quiete che parve piuttosto la sua morte un placido sonno. La figlia, che era stata spettatrice e della vita santamente menata dal padre, ma sempre tra disgusti ed amarezze, e della vita della madre sempre condotta tra piaceri peccaminosi, e della morte dolorosa del padre, e della morte quieta della madre, andava fra se stessa pensando a qual delle due vite dovesse appigliarsi. Allorché dunque più che mai trovavasi perplessa, ecco che si vide comparir davanti un uomo di aspetto venerando, il quale le disse: che pensieri sono i tuoi, o donzella? Io già li so; teme la fanciulla; la rincorò il vecchio venerando e gli soggiunge: io non son qui per nuocerti, non temere; so che tu vivi irresoluta, né sai determinarti se devi prendere la strada penosa di tuo padre o la lieta di tua madre. Vieni e non temere; e la condusse sulla cima d’un monte, ove introdotta in una gran città, la vide tutta lastricata d’oro e ricoperta di gemme: s’inoltrò, e dentro un palazzo alla reale vide suo padre risplendentissimo e lo riconobbe per beato: gli parlò, si rallegrò, si consolò; voleva trattenersi, ma non glielo permise il vecchio venerando, e condottola giù del monte, la guidò dentro un’oscurissima grotta, ove la giovane intimorita sentendo urli, e strida spietate, non aveva cuore da inoltrarsi; pure rincorata dal condottiere s’inoltrò e vide da lungi una ardentissima fornace, ed in mezzo ad essa la misera madre che ardeva, ed arrabbiata altro non faceva che bestemmiare. Quanto fosse il dolore, ed il terror della figlia, immaginatevelo. Fu tale che, partita da quello spettacolo ritirossi dal mondo a vivere vita santa a similitudine del padre. Muta vita peccatore, perché se tu balzi colaggiù in quella fornace, alzerai il capo da quell’incendio doppo mille, e mille anni, e perché …  griderai, mi tengono in questo zolfo ardente? Ecco la risposta, perché non desti quella pace; perché non ti riconciliasti col prossimo tuo; su dunque, replicherai, mi mandino al mondo e mi farò calpestare da’ miei nemici; mi lascerò fare in pezzi e poi bacerò loro i piedi: odi la risposta: non v’è più tempo; Juravit per viventem in sæcula sæculorum. quia tempus non erit amplius, ardi, brucia. Alzerai la testa e dirai: perché mi tengono in questi incendj? Perché non volete restituire il mal tolto: … lasciate, replicherai, che torni a vivere e dispenserò tutto per limosina sino a morir di fame; ma la risposta sarà: non v’è più tempo, Juravit, etc … Alzerai la testa da quelle tenebre e dirai attonito perché tra tanti tormenti che ancora non hanno fine? Perché vivesti tra gli amori, perché non portaste rispetto neppure alle maritate; neppur la perdonaste al proprio sangue; perché vestiste scandalosamente, e tiraste più d’uno alle disonestà. Lasciate, dirai, che io torni in vita e non solo non prenderò diletti illeciti, ma punirò le mie carni con ogni più rigorosa asprezza; vestirò con tutta modestia senza ombra di vanità: … non è più il tempo, Juravit …. Bisognava pensarvi prima, onde allora non potrai far altro che fremere, arrabbiarti e maledir sopra ogni altro te stesso: … peccator videbit et irascetur, dentibus suis fremet et tabescet, e tutto ciò senza rimedio, perché … desiderium peccatorum peribit ….

QUARESIMALE (XX)

QUARESIMALE (XVIII)

QUARESIMALE (XVIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA DECIMAOTTAVA
Nella Feria terza della Domenica terza.


Chi pecca sul fondamento della Divina Misericordia; non sa
ciò che sia la Divina Misericordia; non ne sa il fine; neppure il numero de’ suoi effetti
.

Tunc accedens Petrus ad Jesum dixit, quoties peccabit in me Frater
et dimittam ei? dicit illi Jesus: non dico tibi septies, sed
usque septuagies septies. San Matteo al cap. 28.

Una buona nuova vi reco questa mattina o peccatori. Riceve Pietro da Cristo la potestà di prosciogliere da’ peccati: quodcunque solveris super terram, erit solutum, et in cœlis … Né questa la riceve limitata a poche colpe, ma per quante ne commetterete: non dico tibi septies, sed usque septuagies septies. – Voi, o Padre, pretendete di manifestarci una cosa da noi non saputa con palesarci la Divina Misericordia nel perdono de’ nostri peccati. Eh che ben sappiamo, che misericordia Domini plena est terra; e che Dio est Deus misericordiarum. Fra gli Attributi Divini, siccome ci confessiamo ciechi nella cognizione di quella onnipotenza, che può quanto vuole; di quella sapienza, che conosce tutte le virtù possibili; di quella bontà che accoglie nell’immensità del suo seno ogni bene; così ci dichiariamo di perfettamente conoscere la Divina Misericordia. Che dite miseri? Voi siete pur ciechi. Voi altro non avete in bocca che Misericordia Divina; e pure niente la conoscete. Non me lo credete? Uditemi, che vi farò toccare con mano, non sapersi da voi, che cosa sia Divina Misericordia; non sapersi il fine, non sapersi il numero de’ suo effetti. Taci, o peccatore, taci; né più magnificare la Misericordia Divina, giacché non sai, che cosa ella sia. Se tu sapessi ciò che sia Misericordia Divina, non giungeresti a segno di servirtene per oltraggiarla co’ peccati. Per Misericordia Divina, tu non apprendi altro, che una non curanza del peccato, sicché nulla importi a Dio il tuo mal vivere, nulla le tue sozzure, nulla le ingiustizie, nulla le bestemmie; e par che tu dica le parole degli empii di Giob: eh che Dio trattenendosi con i suoi Angeli in Cielo non bada a ciò che facciano gli uomini in terra, non mira alcun vizio per punirlo, né virtù per premiarla, circa cardines cœli ambulat, nostra non considerat. Ma stolto, che tu sei; come può mai essere, che Egli non curi il tuo pessimo vivere, mentre a sopportarti peccatore sopra la terra e non ti profondar subito nell’inferno, Egli fa uno sforzo della Divina sua clemenza? Quæ te vicit clementia, esclama Santa Chiesa, ut nostra serres crimina? La ragione poi di questo sforzo che Iddio fa alla sua Divina Clemenza, sopportandoti peccatore sopra la terra, è doppia; perché una riguarda lo stesso Dio, l’altra riguarda il peccato; la ragione, che riguarda Iddio è, perché avendo Iddio un odio infinito contro l’iniquità, che vale a dire eguale a quell’amore immenso che porta à sé, ed alle sue divine perfezioni, dovrebbe, subito che tu pecchi punire la tua temerità, e non facendolo fa un sforzo si grande alla sua Divina Clemenza, che Egli stesso per Malachia se ne stupisce, dicendo : Ego Deus, et non  mutor vos et vos non estis consumpti. Come è possibile, dice Iddio, che essendo Io un Signore sì grande e sì potente, voi che tanto m’avete offeso siate ancor vivi, e non siate stati annichilati dalla mia suprema Giustizia? … et vos non estis consumpti. Senti, o peccatore: di buona ragione, dovrebbe sempre succedere a te ciò che accadde a quel Re di Scozia, il quale  nel prendere dalla mano d’una statua un pomo d’oro, che teneva nella destra in  atto di porgerlo, nello stesso tempo fu ferito da uno strale che teneva nella sinistra ed ucciso, pagando con la vita il prezzo di quella avidità: tanto, dico dovrebbe accadere a te, ogni qual volta tu stendi la mano al pomo vietato dalla legge divina, levando  o ritenendo la roba altrui, procurando vendette, cercando sozzure; dovrebbe Iddio scagliare un fulmine sì potente, che ti facesse pagare con la morte temporale ed eterna la disubbidienza; e se non l’ha fatto finora, ciò è derivato dallo sforzo grande, che Egli ha fatto alla sua Divina Clemenza – Come è dunque possibile, che Egli non curi il tuo mal vivere mentre Egli fa sforzo a sé stesso per non punirti nel tuo peccato, che tanto odia? – Né solo fa sforzo per quel che riguarda l’odio, che Egli necessariamente porta al peccato; ma altresì sforza la Divina Clemenza a tollerare il peccato per il peso immenso dello stesso peccato. O quanto è mai smisurato il peso del peccato mortale! È tale, che per sua propria natura dovrebbe in un punto piombare negli abissi chi lo commise: in puncto ad Inferna descendunt. Così seguì negli angeli ribelli, appena si posò sopra le loro spalle questo peso, che non potendo sostenerlo piombarono ad un tratto giù nell’inferno: Videbam satanam tanquam fulgur de cælo cadentem. Il fulmine, voi ben sapete, che subito, che si accende cade a precipizio; né basta, che il fuoco, che di natura sua vola alla sua sfera, voglia sollevarlo; perché il peso di quella esalazione terrestre, di quella pietra, lo sforza a precipitarsi al basso, Tanto per appunto avvenne a lucifero, ed a’ suoi compagni, allorché insuperbendosi, peccarono, poiché il peso del loro peccato gli aggravò tanto, che non bastarono le forze della natura angelica per trattenerli dal precipizio. Sentimi però, tu peccatore, tu peccatrice: quando acconsentiste a quell’invito malvagio, prima anche di venire all’opera dovevi come gli angeli ribelli esser precipitato nelle fiamme, e teco pure doveva esser precipitato quella femmina scellerata che ti portava, quel che ti sollecitava al mal fare; anche le ambasciate; che ti prestava la casa; e se ciò non è seguito, è stato per un sforzo immenso, che ha fatto la Divina Clemenza, e poi ardirai di dire che la Misericordia di Dio sia una non curanza, che Iddio non si curi del tuo mal vivere; mentre Egli fa un sforzo sì grande a non castigarti per il peso immenso del peccato, che di sua natura, come a suo centro ti porta all’Inferno? E se meglio vuoi conoscere di qual peso sia il peccato; rifletti, che l’ombra stessa della iniquità posta sulle spalle del Figlio di Dio umanato, lo fece cadere colà nell’orto di Getsemani; allorché vi comparve in mentre in sembianza di peccatore, per pagare, come mallevadore, quei delitti che non aveva contratto: quæ non rapui, tunc exolvebam. Or se l’apparenza, l’ombra sola del peccato posta sulle spalle del Redentore lo fece cadere a terra, procidit in faciem suam, di che peso deve mai essere questo peccato di cui tu, scellerato, non porti l’ombra ma la sostanza? Se le spalle d’un Dio non ressero al solo sembiante del peccato: sicché ebbe a dire laboravi sustinens; non posso più come vuoi dunque che Egli non faccia sforzo a sostenere te pieno di tanti vizi? Sì, sì, grida l’Apostolo: sustinuit in multa patientia vasa iræ, non vi vuol meno della sua infinita pazienza, per trattenersi dal fracassare questi vasi pieni d’iniquità tanto a lui odiosi? – Passo ora avanti e dico che se Iddio fa tanto di sforzo a sopportare il peccato, qual non farà mai a perdonarlo? O che sforzo immenso! Il peccato si commette con somma facilità, mentre basta uno sguardo a compirlo: basta una parola, un pensiero; ma commesso è di sua natura difficilissimo a disfarsi; ed è sì difficile che tra tutte le creature sì passate, come presenti, sì possibili, come future, non vi è forza che basti a tanto. Attenti. Cada sopra di voi (Dio non lo voglia) scossa da fiero terremoto la vostra casa certo da per voi non potreste liberarvi dal peso: non così, se tutti gli uomini si accordassero; e molto, più se un Angelo vi soccorresse: e pure quanti vivono buoni in terra, quanti regnano beati in Cielo, neppure la Madre di Dio sarebbero sufficienti a distruggere un peccato mortale. Chi è caduto nel peccato vi farebbe infallibilmente eternamente sotto, se il Signore non v’impiegasse la sua destra; dicendo Egli per bocca d’Isaia: Ego ego sum, qui deleo iniquitates tuas. O peccato mortale quanto mai sei terribile! mentre per scancellarti vi vuole l’Onnipotenza Divina. Allor che voi UU. miei nell’andarvi a confessare dite: Io mi confesso a Dio Onnipotente: Confiteor Deo omnipotenti … voi intendere di dire, secondo l’intenzione di Santa Chiesa, che vi vuole l’Onnipotenza Divina a perdonarvi i vostri peccati. E che ciò sia vero, sappiate che l’Onnipotenza Divina nel perdonarvi i vostri peccati fa uno sforzo maggiore, che non ha fatto precipitando all’inferno tutti i demonii, e con essi tante, quante sono le anime de’ dannati; in quella guisa appunto che prodigio molto maggiore sarebbe respingere un fiume solo all’indietro verso la sorgente, che lasciarli correre tutti a scaricarsi nel mare. Se così è, pongansi dunque, dirò io, sopra le porte dell’inferno le parole che a suo malgrado confessò Faraone colà percosso nell’Egitto: Digitus Dei est bic, qui Iddio nel castigare i ribelli impiega un dito della sua destra, e sopra i tribunali della sacra Confessione incidasi a caratteri indelebili, questa verità: Dextera Domini fecit virtutem, qui la destra di Dio impiega tutta la sua virtù, per perdonare i peccati; giacché vi vuole lo sforzo della sua Onnipotenza. – Uditemi, e stupite: più fa Iddio di sforzo a perdonare un peccato solo, che non fa a dare il Paradiso a tutti i suoi eletti. Serafini del Paradiso, affacciatevi ad uno di quei balconi celesti, è ordine di Dio, che apriate una di quelle porte eternali, acciò possiamo dare un’occhiata a quei tanti Beati, che colassù regnano. Miei UU. quei che colassù vedete fra quelli splendori, sono quei cento quaranta mila predestinati veduti da San Giovanni, e quelli che con egual pompa vestiti portano in mano l’Aureola di Martiri, sono quei dieci mila Crocifissi già sul Monte Árat. E quel Coro di Vergini immenso, che tanto tira a sé l’ammirazione, sappiate che sono quelle undici mila donzelle, che sotto le bandiere di Sant’Orsola conservarono perpetua la Verginità. Or figuratevi , che questi tre gran Cori di Confessori, Vergini e Martiri tutti insieme, e tutti in un dì avessero fatto il loro ingresso trionfale nella Città de’ Beati: dissi poco, voglio, che a questi stuoli sì numerosi aggiungiate quanti furono Confessori e Vergini, ed a loro uniate quegli undici milioni di Martiri, che vanta Santa Chiesa, e tutti, tutti in un dì facciano il loro ingresso nel Paradiso. O che trionfo, o che pompa sarebbe mai questa. Qui sì, che potrebbe esclamare con San Paolo: nec oculus vidit, nec auris audivit. Io non credo, che possiate immaginarvi liberalità maggiore del nostro Dio: e pure Iddio fa più di sforzo con perdonare un peccato solo a quella donna impudica, a quel giovane svergognato, che non fà con dar la corona a tutti gli Eletti del Paradiso; e la ragione è chiara, perché una tal Corona è loro dovuta per giustizia dopo la promessa fattane alle opere buone; là dove ad un peccatore altro non si deve che fuoco e tenebre, disperazione e morte eterna e però il rimettergli quella pena, il distruggere la loro colpa, il donargli la grazia, è come uno sforzo della Divina Misericordia, corroboravit misericordiam suam. Bisogna dunque confessare a primo ad ultimum, che la Misericordia Divina non è una noncuranza di Dio del vostro mal vivere, mentre Dio fa uno sforzo sì grande a perdonare il peccato. Confessa dunque, o peccatore, che quando tu magnifichi l’attributo sì bello della Divina Misericordia, tu non sai, che cosa dici; mentre per te vivendo in peccato mortale non vuoi dir altro se non che Dio non guarda alle tue laidezze, a’ tuoi furti, alle tue vendette; non è così no! È bensì vero che quanto sei peccatore ignorante in ciò che sia Misericordia Divina, altrettanto sei ignorante in non sapere il fine che ha la misericordia di Dio nel sopportar le tue colpe e nel perdonartele. Perché credi tu che Iddio non ti abbia ancora castigato di quelle insidie che tramasti; di quei voti segreti che consegnaste più alla passione, che al giusto; di quelle irriverenze alle Chiese; di quella disubbidienza a’ tuoi maggiori; di quella negligenza sì mostruosa nell’allevare i figli, lasciando che i maschi girino male accompagnati per ogni strada, e le femmine discorrano con chi che sia dalle finestre e su le porte. Perché, dico, credi tu, che Dio non ti abbia ancora castigato? Credi tu che Iddio abbia avuto per fine per che tu seguiti una tal vita, e v’aggiunga di più l’andare casa per casa seducendo or questa ed or quella; sicché il fine d’una amicizia malvagia sia il principio d’un’altra e non rimanga al fine prato, ove la tua disonestà non lasci stampate le orme de’ tuoi eccessi? O quanto t’inganni! Non è questo il fine, perché la Divina misericordia tarda ed aspetta a castigarti; ma è quello che ti pone avanti gli occhi l’Apostolo, allorché dice: benignitas Dei ad pænitentiam te adducit. Il fine che ha Iddio in non castigarti subito dopo il peccato, è per darti tempo di riconoscersi, e perché tu distrugga per mezzo d’una santa Confessione il peccato che annidi nel cuore, prima che venga l’ora di distruggere te nella tua ostinazione: ad pænitentiam te adducit. Se Egli non ti castiga per le tue scelleraggini, e perciò ti si fa conoscere per buono; è segno che vuole che tu impari a temerlo, giacché non sarebbe buono, se non fosse nemico degli scellerati. Vuoi, che tu intenda, che quanto più Egli è buono, tanto più farà grave la tua colpa; ricompensando tu co’ tuoi tradimenti i Divini suoi benefizi; vuole, perché Egli è buono, che tu ti sforzi d’imitarlo nella bontà e nell’odio che Egli porta al peccato: respicere ad iniquitatem non potest. Intendila, o peccatore, fine perché Iddio ha di te misericordia, e non ti castiga, è perché tu ti emenda; ma tu a guisa di Napello velenoso, quanto sei più bagnato dalle rugiade della Divina pietà, tanto diventi più reo. Perché Dio ti aspetta, perché Dio ti chiama, perché Dio ti colma d’ogni bene; vai dicendo, se non con le parole, certo co’ fatti, dunque si può vivere a capriccio. Taci, taci, e confessa pure, che senza sapere ciò che sia Divina misericordia, né pur capisci, che il fine delle sue Divine operazioni è perché tu ti ravveda: Ignoras quod benignitas Dei ad pænitentiam te adducit. Né pur l’intese a suo gran costo un certo giovane, che vivendo una vita più da bestia, che da uomo, allorché ne era corretto, rispondeva: Iddio è buono: con tre parole mi salvo: Domine, miserere mei. Avvenne però, che un giorno dopo molti stravizi, montato per diporto sopra un cavallo, nel passar che faceva per un ponte, gli si inalberò di tal maniera che gettato di sella il suo cattivo padrone, lo precipitò in un profondo d’acqua. Privo all’ora l’indegno e d’aiuto e di consiglio, invece di ricorrere a Dio con le sue tre premeditate parole, Domine miserere mei: Signore abbiate pietà di me, ne proferì arrabbiato tre altre del tutto opposte, e disse disperato rapiat omnia demon, il diavolo si pigli ogni cosa; e con questa raccomandazione d’anima, si annegò. Or mirate un poco, amatissimi peccatori, quanto siano ben fondate le speranze di quelli che, sulla speranza della Divina Misericordia, offendono Dio più temerariamente. Eh scuotetevi una volta, ed aprite gli occhi per conoscere la vostra ignoranza: intendendo, che se Dio non ci castiga, è perché ci vuole emendati; e se non volete errare appigliatevi al consiglio del Savio, che vi dice: Ne dixeris misericordia Domini magna est, misericordia enim et ira illius cito proximant. Non ti lasciar mai uscir di bocca questa parola con fine di peccare più francamente. Ma, e perché? Non è forse grande, e grandissima? Ma bisogna che tu sappia, che a lato di questa grandissima Misericordia, vi sta la Giustizia: misericordia enim, ira illius cito proximant. Sappi pertanto, che Iddio, se tu non ti risolvi di lasciar quella pratica, di levarti dal cuore quell’odio; di restituire quella roba male acquistata, metterà mano alla spada dell’ira: e con un colpo solo te le farà pagare tutte, troncherà la tua vita in mezzo a’ tuoi giorni: farà che tu non trovi un confessore che ti ammonisca. Darà su l’estremo tuo, licenza più ampia al diavolo di tentarti, ti assisterà con un aiuto meno speciale, e tu perduto ingannatore di te stesso, andrai ad imparare nelle fiamme dell’inferno il fine che aveva la Misericordia Divina nel sopportarti. – Poveri peccatori, che non siete meno ignoranti nel sapere il numero de’ suoi effetti. Aprite gli occhi. Talpe infelici d’inferno, per conoscere che se la misericordia di Dio è infinita, non sono però infinite le sue miserazioni; cioè a dire, non sono infinite le volte che vuole aspettare, che vuole perdonare, anzi sono determinate dal consiglio della sua Providenza. Tutte le opere di Dio non sarebbero di Dio, se non fossero fatte in numero, pondere et mensura. Sappi, dunque, o peccatore, che tutte quelle grazie che ha stabilito Iddio di darti, tutte quelle inspirazioni e lumi con cui vuol sollecitare il tuo cuore a pentirsi, sono tutte parimenti in numero, peso e misura. Or se tu consumi invano questa misura, che sarà di te? Avrai, non lo nego, sempre la grazia sufficiente a resistere alle tentazioni; ma non l’avrai sempre a risorgere, e quando l’avrai, non te ne saprai prevalere. – L’Evangelista San Matteo vi confermi questa verità. Vi fu un certo padrone di vigna, il quale tra le sue viti aveva piantato un albero di fico; ma cresciuto al debito segno, invece di far frutti faceva sol pompa di foglie. Tre anni tollerò il padrone la sterilità di questa pianta, per chiarirsi se il mancamento veniva dalla stagione; ma in capo a questi vedendo sempre più sterile l’albero: olà, disse al lavoratore, taglia questa pianta inutile, e gettala al fuoco, perché non è dovere che occupi sì lungamente il terreno senza dar frutto. Ecce tres anni sunt ex quo venio, quærens fructum et, non invenio; succide ergo illam ut quid terram occupat. A tali risoluzioni del padrone resistette il lavoratore ed intercede tanto di tempo da potere adottare intorno alla pianta infruttuosa qualche coltura più singolare, con protestarsi che se quella diligenza non fosse stata bastevole, si venisse, pure allora, al taglio senza rimedio: sine illam, et hoc anno usque dum sodiam circa illam, mittam stercora, fin autem non fecerit fructum in futurum succides eam. Peccatori miei dilettissimi, intendete voi questo linguaggio di Cristo, per il quale io mi riempio d’orrore da capo a piedi? In questo fico sterile vien figurata l’anima vostra. Quanti anni sono che il Signore aspetta da voi veri frutti di penitenza? Non sono tre, ma forse dieci, venti, trenta, e voi gli porgete foglie. Avete tante volte promesso al confessore l’emendazione, ma non se n’è fatto nulla; vi siete protestati di lasciar quei compagni amici di corpo e nemici crudeli dell’anima, e pur con quelli ancora si continua la pratica ed il peccato. Quante volte avete detto: restituirò, restituirò? E la roba è ancora in casa, e che altro potete aspettarvi che rovine? Eh che Iddio annoiato per tante ricadute, e per vedere che non solo non si danno frutti buoni, ma bensì pessimi d’iniquità e di scandalo; avrà di già spedito l’ordine del taglio irrevocabile per più d’uno di voi. E se così è, che sarà di voi? Io non credo che per anche sia data questa terribile sentenza, perché mi figuro che l’Angelo vostro custode, i vostri Santi Avvocati, la Vergine vostra Madre si saranno portati al Trono di Dio con supplicare che si sospenda il comando; perché sperano che nell’udir voi la Divina Parola. E nel vedere esempi di compunzione vi convertirete, ma se taluno poi dopo aver sentita questa intenzione, rimanendo ostinato con continuare nella sua vita scellerata altro non si aspetti che esser miseramente reciso da colpo di morte spietata per esser gettato in quel fuoco che merita … Sin autem non fecerit fructum in futurum, succides eam. – Peccatore, peccatrice, non vi andate più lusingando con dire dentro di voi: Iddio è buono m’ha aspettato finora m’aspetterà in avvenire: falso, falso. Se quella pianta sterile avesse così discorso, il padrone m’ha tollerato quattro anni senza frutto, dunque mi tollererà in futuro… certo non avrebbe discorso che pazzamente. Tu altresì discorri da pazzo, e tanto più che non solo sei inutile ma ancora nocivo, mentre non solo lasci di fare il bene, ma commetti anche tanto di male. Deh lasciati una volta condurre da questa guida amorevole a penitenza; e non voler più resistere alle divine chiamate; perché, se è infinita la Divina Misericordia, sono però limitate le miserazioni. Da che viene questa grande ignoranza intorno alla Divina Misericordia, ed i suoi effetti? Non da altro per verità, se non perché si considerano solamente i peccati presenti, quelli soli, che per anche non si sono confessati, senza prendersi alcun travaglio di quelli che già furono manifestati al confessore; quasi di partite già saldate abbastanza. È vero miei UU. che se avete fatta una buona confessione con vero dolore e fermo proposito, i vostri peccati son rimessi, ma è altresì vero ciò che il Santo Giob ci significa in quelle parole: signasti quasi in sacculo peccata mea, che vale a dire la Divina Giustizia poste tutte le nostre colpe una sopra l’altra quasi dentro un sacco, perché quando il sacco sia poi pieno, il fulmine dell’Ira Divina piomba sopra degli Empi senza riparo. Voi non sapete, o peccatori, di quanti peccati sia capace il vostro sacco, e però state avvertiti, perché  può essere che il primo che commetterete lo riempia, e se così è, siete perduti. Confesso il vero, che alle proteste dei maggiori Dottori della Chiesa, sì Greca come Latina, San Basilio e Sant’Agostino, io m’inorridisco: ci fanno questi sapere, avere Iddio determinato una certa misura de peccati che vuole sopportare da ciascheduno, la quale se si oltrepassa da chicchessia, o il Signore mette subito mano al castigo, o almeno lascia di assistere con quelli aiuti straordinari, senza de’ quali, sebbene il peccatore potrebbe salvarsi, pure de facto, non si salverà per sua colpa; ma se m’inorridisco a queste proteste de Santi, che farò alla voce di Dio, che nelle Sagre Scritture ci insinua questa stessa misura di colpe, protestandosi, che per aver i peccatori passato quel segno, che Egli aveva stabilito ad usar loro pietà, non l’avrebbero ottenuta, super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam; super tribus sceleribus Gaze, et super quatuor non convertam eum. Ecco le proteste terribili di Dio per bocca d’Amos Profeta: Si dichiara assolutamente che quella misericordia, che averebbe presso di lui trovato il primo, il secondo, il terzo eccesso, non era per ritrovarla il quarto, … super quatuor non convertam eum. E tu, peccatore, discorrendo da quell’ignorante che sei, vai teco stesso divisando di dover trovare la stessa facilità in Dio nel perdonarti due, tre, e quattro peccati, come nelle centinaia, che finora hai commesso? Bene, seguita pure, che presto verrà la morte, e ti accorgerai del tuo errore allorché l’anima tua a viva forza sarà portata dai diavoli nel mezzo delle fiamme per ardervi eternamente. Tanto appunto intervenne ad un uomo che non contento della compagnia datagli da Dio d’una buona donna, si teneva con scandalo una concubina. La moglie, a cui più dispiaceva l’offesa di Dio che il suo torto, di continuo pregava per lui: s’ammalò l’indegno marito, e per scampare da quella pericolosa malattia fece molte promesse di mutar vita; le credette la donna, e però per impetrarli più facilmente la sanità ricorse ad un Servo di Dio, Frate Innocenzo de Cusa, uno de primi Compagni di San Pietro d’Alcanrara, per mezzo di cui l’infermo risanò: ma che? siccome i voti fatti in mare si rompono in terra, così le promesse fatte da costui in letto si ruppero in sanità, gli era stata impetrata con condizione di servirsene in bene; tornato al peccato, tornò altresì la malattia; tornarono ancora le promesse a Dio ed alla moglie di conversione: sicché la buona donna tornò la seconda volta da Fra Innocenzo, e nuovamente impetrò la sanità. Era pur vero, che neppure questo secondo avviso bastò, perché lasciasse il peccato; tornò la terza volta ad abusarsi della sanità ricevuta, ed a ripigliare le sue disonestà, persuadendosi di trovar sempre aperta ad un modo la porta della Divina Misericordia, ma s’ingannò! Imperocché mentre Fra Innocenzo stava in orazione sentì uno strepito di cavalli ed un mormorio di voci nella strada, e fattosi a vedere che cosa era: vide una quantità di diavoli sopra cavalli d’inferno, che conducendo un cavallo vuoto per la briglia, e … chi siete? Disse, ed a chi serve quella bestia scarica? Noi siamo ministri della Divina Giustizia, ed andiamo a prender quel mal uomo, che sì lungamente si è abusato della Divina Misericordia. Si fermò il sant’uomo, ed ecco che indi a poco vide tornar la cavalcata con quel meschino in mezzo tutto piangente e con le mani alzate, chiedendo aiuto, ma troppo tardi ripigliò Fra Innocenzo: Iddio ti maledice ed io con Lui, e ciò detto con un fracasso orribile apertasi la terra, sprofondò il tutto. E perché non ho io una lingua di bronzo, una voce di tuono, per rivoltarmi a’ peccatori e dir loro: … ah ingratissimi più spietati delle fiere, più sordi degli scogli, più barbari delle furie, che a sì benefizi rispondete con offese: interverrà a voi invisibilmente ciò che visibilmente intervenne a costui. Non dite più, Iddio mi ha sopportato, dunque mi sopporterà; mi ha perdonato, dunque mi perdonerà; v’è sempre tempo a convertirsi. L’argomento non cammina, cammina bensì così: Iddio m’ha perdonato per l’addietro, dunque non mi perdonerà per l’avvenire, già che mi sono abusato delle sue grazie finora, dunque non le merito più, non mi avrà più pietà. E se fosse così, che al primo peccato che commetterai Iddio ti voltasse le spalle, che sarebbe mai di te? Lascia dunque di peccare e non ti abusare di vantaggio della Divina Misericordia, se non vuoi esperimentare severamente la Divina Giustizia.

LIMOSINA
L’Inghilterra sollevata depose il re Alfredo dal suo trono, e voleva privarlo anche di vita per dar principio a quella tragedia che fu poi compita in un altro re del nostro secolo. La fuga salvò la regia persona che, scampata in fretta dalle mani nemiche nulla più portò seco di vettovaglia, che un pane, e questo chiestoli da un povero per limosina, tutto il diede. Piacque tanto a Dio questo atto, che per mezzo di San Gutberto, apparsogli di notte gli fece dire che tornasse indietro perché sarebbe da’ vassalli ubbidienti ricevuto nella città, introdotto nella regia, e riposto in trono. O che bel cambio: per un pane un Regno!

SECONDA PARTE

Non tornate a peccare, miei UU. sulla speranza di quella misericordia che non intendete, perché io v’assicuro che resterete delusi, come appunto rimasero gli antichi Israeliti colà nel deserto. Essi così dicevano: Iddio è buono, ci ha perdonato altre volte; ha promesso d’introdurci nella Palestina, adunque ci perdonerà nuovamente, e non lascerà d’esserci sempre propizio, ma non l’indovinarono: tentaverunt me per deces vices, dice Dio, nectamen non videbunt terram pro qua juravi Patribus eorum, m’hanno irritato dieci volte, li ho sopportati, ora la mia pazienza non ne vuol più: rimangano tutti estinti nel deserto, vedano con gli occhi propri la Terra promessa, ma non per possederla. Ditemi quanto sarebbe tornato conto a quei meschini non arrivare a quel decimo peccato, che fu l’ultimo a compire la misura? Se non vi fossero giunti avrebbero trovata propizia la Divina Misericordia, avrebbero goduto il frutto delle Divine promesse; ma perché vi giunsero, restarono privi d’un tanto bene … chissà che non debba intervenire lo stesso a quel giovane, a quella giovane? Chissà   che la prima volta che tornate in quella casa maledetta, che tratterete disonestamente con quell’uomo, che commetterete quel peccato, non sia quello che dia il crollo alla bilancia? Chissà che il primo peccato, che farai non sia quell’ultimo che Dio non vuol sopportare? Forse non sarà così, potrai dirmi, ma se fosse? Sebbene che dico in forse posso con molto fondamento asserire che sarà? Perché tu non contento di dieci peccati, ne hai commessi cento, e più con le opere, più di duecento con le parole ed a migliaia con i pensieri indegni, o di vendette, di lascivie. Non è più dovere che Dio ti tolleri tanto scellerato: è dovere che la sua Giustizia ti piombi nell’inferno. Confida pure, spera pure, ed intanto non ti convertire, ed assicurati che ti troverà ove non credi. – Si era ribellato a Filippo Secondo in Fiandra il Conte d’Egmont, e ne sperava il perdono su la fidanza della clemenza del suo signore, onde diceva ad un suo confidente, salvabit me clementia regis, la clemenza del mio re mi renderà salvo, ma l’altro l’indovinò meglio, ripigliando, perdet te clementia regis, la clemenza che tu ti prometti con sì poco fondamento, ti manderà in rovina, e così avvenne, perché il conte lasciò la testa sopra d’un palco per mano di carnefice. – Io non ho genio di fare a’ miei UU. cattivi pronostici; ma mi dice il cuore che quell’ostinato che qui si trova tra voi, quel temerario che vuol per l’avvenire seguitare ad essere cattivo, perché Dio è stato buono con lui, abbia da piangere il suo errore con lacrime che non si asciugheranno in eterno. Deh apri gli occhi infelice. Ha forse Dio bisogno di te per esser servito? Forse si ha da vestire a bruno il Paradiso se tu non vi entri? Forse si ha da cambiare in deserto se tu vi manchi? Chi non vuol la pace abbia la guerra; chi non vuole la benedizione abbia la maledizione; chi non vuol salvarsi si danni! Ma che dico? Oh mio Dio: neppur uno si ha da perdere di questi che m’ascoltano. È troppo gran perdita la perdita di un’anima sola, che costa il vostro preziosissimo Sangue, e perciò non sia mai vero che perisca. Ah mio caro Signore purtroppo conosco la mia poca abilità per convertire questi cuori, e se io guardassi a questa sola, non mi sarei posto all’impresa che ho per le mani di convertire quei peccatori che ancora sono ostinati. E che posso fare io miserabilissimo? Io posso parlare, posso pregare, posso minacciare; … docebo iniquos vias tuas… posso dire col Profeta, ma non posso egualmente soggiungere … et impios hos ad te convertam, perché il convertire tocca a Voi, et impii ad te convertentur, la vostra grazia è quella che può far tutto, e questa è quella che imploro! M’avete comandato che io venga a questo popolo, son venuto. M’avete comandato che io l’inviti a penitenza; l’ho invitato. M’avete comandato che io l’ammonisca; l’ho ammonito … fecit quod jussisti; ma il muoverlo, il convertirlo, il ridurlo a Voi, non è impresa delle mie forze, ella è tutta riservata all’onnipotenza del vostro aiuto, secondo la promessa fatta, la spero … fecit quod jussisti, imple quod promissisti!

QUARESIMALE XIX

QUARESIMALE (XVII)

QUARESIMALE (XVII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA DECIMASET


Si mostra la sciocchezza di chi importunamente giura, l’enormità di chi spergiura, l’indegnità di chi bestemmia.
In veritate dico vobis. San Luca, cap. 4



Se la medicina delle anime si deve valere a proporzione di quelli stessi aforismi de’ quali si serve la medicina de’ corpi, male per chi importunamente giura, peggio per chi spergiura, pessimamente per chi bestemmia. Guai a voi, che con giuramenti senza proposito vilipendete il nome di Dio, con spergiuri ne strapazzate l’autorità, e con bestemmie ne disprezzate la Maestà; voi che così fate, siete a mio credito, con un piede nell’Inferno. È legge stabilita dai medici, che nei mali singolarmente acuti, i più certi segni si colgano dalla lingua, stimata allora sì fedele nel darli, che vince il polso. Quando vedasi per tanto in bocca d’un febbricitante una lingua che nel medesimo tempo comparisca o nera come uno spento carbone, o ardente come un acceso, sappiate che in tal caso, quantunque il polso, sto per dire, ottimamente regolato, asserisce perfezione di sanità, non gli si deve credere, ma dovendosi prestare tutta la fede alla lingua, può apparecchiarsi il funerale ed aprirsi il sepolcro, perché l’infermo è spedito. Lingua nigra e virulenta calamitosissima, scrisse da suo pari, Ippocrate. Lo stesso dirò io nella cura delle anime vostre. Se io tocco il polso ad alcuni, non lo trovo cattivo; vengono molti alla Chiesa, altri digiunano, dispensano altri larghe limosine, non tralasciano le quotidiane orazioni, assistono ogni dì al Sacrificio della Messa, tutto è vero. Ma a che servirà se la lingua loro è tutta infiammata per i continui giuramenti e spergiuri, e quel che è peggio annerita ed avvelenata per le bestemmie? Avvertite voi che avete lingue sì perfide, e che senza riguardo alle anime vostre, senza rispetto a Dio giurate, spergiurate e bestemmiate, perché avete dentro di voi un’occulta malignità, la quale vi darà morte eterna. Con voi dunque me la prendo, mostrandovi la sciocchezza di chi giura importunamente e l’enormità di chi spergiura, e l’indegnità di chi bestemmia; l’argomento merita attenzione. – Non vi crediate già miei UU., che io intenda vietarvi il giuramento lecito, o questo no! Pertanto, se la necessitá di purgare voi stessi falsamente accusati, o per motivo di liberare il prossimo a torto oppresso, siete costretti a giurare, giurate. Tanto v’approva ancor Socrate, vel ut teipsum turpi suspicione liberes, vel ut amicum ex magnis periculis eripias. Lo stesso Dio per Geremia al Cap. 4. v’assicura di giuramento ben fatto e senza colpa, ogni qual volta vi concorrano tre circostanze: et jurabis vivit Dominus, in Veritate, in Judicio, in Justitia; Io dunque torno a dirvi, non intendo del giuramento ben fatto, ma bensì me la prendo contro l’intollerabile costume di non pochi Cristiani, i quali non fanno aprir bocca senza giurare, ed è sì frequente un tal abito in loro, che Sant’Agostino potrebbe tornare, anche ai dì nostri ed esclamare, non essere ormai tante le parole che si proferiscono, quanti i giuramenti che si fanno. Entrate per le botteghe e sentirete che le bocche di quei lavoranti non sanno parlare senza giurare; portatevi a quei fondachi, a quei banchi, non sentirete altro linguaggio che per Dio, alla fede di Dio. Penetrate le case, non solo della plebe più infima, ma della nobiltà, e quivi pure sentirete lo stesso; così per le strade, così per le piazze, sicché l’aria è ammorbata di giuramenti; anche le Chiese son costrette a sentire questi giuramenti, e talora da Sacerdoti, nelle di cui bocche, se le bagattelle, al dir d’Agostino, sono quasi bestemmie, che sarà sentir continui giuramenti? È vero Padre, si giura; ma non per questo si commette peccato grave. Basta, io non voglio qui decidere se siano peccato mortale! Dico bene che questo è un disprezzare il Nome di Dio, e che Iddio, così maltrattato da voi con tanti giuramenti senza necessità, si dichiara volersi vendicare. Sentite come parla nel Deuteronomio al 5. Non erit impunitus, qui super re vana nomen meum assumpserit: sarà castigato, chi mi maltratta, servendosi invano del mio Nome. Ma se Iddio si dichiara di voler severamente punito chi giura per cose indifferenti, quali castighi non adoprerà per punire quelli indegni che ardiscono chiamare in testimonio Iddio per un’azione proibita dallo stesso Dio? Mi spiego: quali castighi non adoprerà per punire quel giovane che chiama in testimonio Iddio per sedurre quella giovane, con giurarle l’amore che le porta, che la sposerà, e la fedeltà che le userà nel tradimento, che sarà per farle togliendole l’onore. Sarebbe, quasi dissi, poco male, se il giurar senza proposito che vale a dire vilipendere il Nome di Dio, partorisse solo gli accennati mali. Il peggio è, che dal giuro si passa facilmente allo spergiuro, impossibile est jurantem non perjurare; dal giuro allo spergiuro v’è un breve passo, che è quanto dire che dal vilipendere il Nome di Dio con giuramenti, si passa a strapazzare l’autorità con gli spergiuri. Mento forse a dire che gli spergiuri strapazzino l’autorità di Dio? Appunto, ecco che ve’l fo toccar con mano, e vi fo vedere che strapazzate in modo l’autorità di Dio, chiamandola in testimonio delle vostre falsità, che vi vergognereste di strapazzare in tal forma quella d’un uomo vostro pari. Vien qua tu che nelle piazze, nelle botteghe, ne’ tribunali giuri il falso, dimmi: quando tu sei risoluto di fare quel giuramento falso, ardireste di chiamare quell’amico, quel cavaliere, e di dirgli: signore, venite di grazia meco e con me fate falso testimonio che questa roba val tanto; dite che il tale ha rubato, ha ucciso, quantunque non sia vero, oppure venite a dire, che ho pagato, benché non sia vero. Dì su, ardireste di richiedere ad un cavaliere queste cose? No per certo. Come dunque le chiedi a Dio? Esclama Filone: quod ab amico non audes postulare, ad id Deum vocas? O cosa orribile, chiamare in testimonio Iddio per opprimere il prossimo. Ma che meraviglia che costoro spergiurando disprezzino l’Autorità Divina, mentre con i loro spergiuri giungono a far di peggio. Sapete quello che voi fate con giurare il falso? Voi con lo spergiurare in un certo modo rinegate Dio, rinunciate a Cristo, abiurate il Vangelo, negate la Chiesa, i Sacramenti con tutti gli articoli di nostra Fede e divenite ateisti. Ecco le parole di Damiano: Quisquis jusjurandum violat, a Christi se corpore separat, a Redemptionis humanæ misteriis alienat; chi viola il giuramento si separa, quale scomunicato, dal Corpo Mistico di Cristo, che è la Chiesa, ed aliena da sé tutti i Misteri dell’umana Redenzione. Quando ti viene offerto il libro de’ Vangeli, acciò che tu giuri sopra di quelli, tu dici così: è tanto vero ciò che io giuro, quanto è vero questo santo Vangelo; dunque, se è vero ciò, che tu giuri, vieni a dire, che è vero ciò che dice il Vangelo, e se giuri il falso, vieni a dire che è falso il sacrosanto Vangelo, ed è come se tu dicessi: non è vero che Cristo sia Figlio di Dio; non è vero che si sia incarnato per opera dello Spirito Santo; non è vero che sia nato di Maria Vergine; non è vero, che per noi abbia patito, e sia morto; non è vero che sia risorto, né salito al Cielo; nego che sia per venire a giudicare il mondo, nego il suo eternamente regnare in Cielo, nego Purgatorio, nego inferno, nego Paradiso, e dico in somma esser falso quanto contiene questo libro dei Vangeli. O Dio, si può sentir cose più indegne dalla bocca d’un ateo, e pure tutto ciò dice uno che giuri il falso sopra del Vangelo. Che farà dunque di questi spergiuri? Ve lo dicano le sacre carte .. – Venite meco al terzo de’ Re, ove vedrete per un spergiuro, castigata la persona, puniti i figli, sterminata la famiglia, rovinata la casa e perduto quanto mai nel mondo possedeva. Nabuccodonosor tolse la corona di Giudea a Giochimo, che con le sue scelleraggini se ne era reso indegno, e la pose in capo di Sedecia, ed il dichiarò re, constituit Regem Judae, e dichiaratolo suo tributario volle prestasse il giuramento di fedeltà. Giurò, ma spergiurò, perché con pensiero di non osservare il vassallaggio che giurava; onde soggiunge il sacro testo, che partito di li spergiurò, si riempì di scelleraggini … discessit, fecit omne malum in conspectu Domini, apostatò da Dio, si diede all’idolatria. Qui fo io una riflessione, e dico: gran cosa, di tante scelleraggini che colui commise, non parla il sacro testo che per queste fosse castigato, ma lo dichiara bensì castigato per lo spergiuro. Così è, così è, tutta la collera e lo sdegno Divino va a cadere sopra del giuramento falso, perché Dio abborrisce tanto chi spergiura, che quasi si scorda d’ogn’altra scelleraggine per castigar questa, e contro di questa si mostra implacabilmente sdegnato; permise dunque Dio che fosse catturato e condotto in Babilonia, ove processato sotto i comandi di Nabucco, fu condannato a morte; né qui finì lo sdegno, poiché, presi i figli, su gli occhi del padre furono fatti scannare. Di più. Ecco la città tutta a fuoco, a sangue; i Tempii, i Palazzi, le mura s’abbruciano, s’inceneriscono. Che dite UU. miei? Iddio è implacabile contro chi spergiura. Di tanto v’assicura Crisostomo, oracolo della Chiesa, segretario di Paolo Apostolo. Intendetela, Dio è implacabile contro chi spergiura, e se tale si mostrò nel vecchio Testamento, tale ancora si è mostrato nel nuovo. Servavi un caso solo spaventoso per tanti che potrei narrarvi, E voi figli infelici, che nascete da padri spergiuri, preparatevi alle vostre rovine, perché Iddio vuole spiantata da’ fondamenti quella casa ove sono spergiuri. In Corsica presso San Bonifacio rimase vedova una donna dabbene a cui il marito, morendo, lasciò trecento ducati per accasare, a suo tempo, una figlia, unico frutto delle loro onorate nozze. Or la bontà di quella semplice donna che dubitava, temendo il danaro le fosse rubato, consigliatasi, lo consegnò ad un suo vicino, totalmente lontana dal sospettare quella frode in altri, che non ammetteva in sé. Cresciuta la figlia in età da maritarsi, domandò il danaro al conoscente, il quale, accecato dall’interesse, negò sfacciatamente d’aver avuto nulla, e se nulla vuoi, disse, va’, chiamami alla giustizia. Afflitta la meschina portò a piangerci amaramente al giudice, adducendo solamente per testimonio la rea moglie del perfido marito. Chiamato in corte l’uomo malvagio con la consorte, si diede loro il solito giuramento, e l’una e l’altro giurarono sopra la propria vita e de’ poveri figli, che nulla sapevano intorno a’ danari. Ma, o Divina Giustizia quanto siete terribile! Tre figli avevano questi due spergiuri, uno di due mesi, di cinque anni l’altro, di venticinque il terzo. Tornata a casa la madre trovò sotto la culla estinto il suo piccolo figliolino, e conoscendo il divino castigo che già arriva, invece di chieder perdono, disperata, uccide l’altro putto con un coltello, né qui termina la tragedia. Giunge il marito, ed attonito per lo spettacolo de’ due figli uccisi, agitato da fieri rimorsi di coscienza, montato in rabbia, con una spada passò petto alla moglie, ed empiendo di grida il vicinato, come la casa era piena di sangue, scoprì da sé gli eccessi. Ecco la Corte che, preso quell’empio col ferro ancor grondante di vivo sangue, lo condanna a morte. Parerà a voi miei UU., che tanto bastasse per punire un giuramento falso, ma non bastò a Dio. Udite e non inorridite, se potete. Mancava in quel paese il carnefice per eseguire la sentenza di morte, quando ecco che ad effettuarla si offre il di lui figlio stesso primogenito, che si fece avanti per vendicare la morte della madre a lui sì cara, vinse col furore la vergogna, montò le scale ed eseguì la sentenza, strozzando su la forca il proprio padre spergiuro, e di poi fattolo in quarti si palesò ingiusto con un atto di somma giustizia. Né qui si quietò la vendetta divina, poiché, passato il furor della rabbia nel giovane, e riflettendo alla ignominia ritratta per essersi fatto carnefice del proprio padre, uccise con quella mano parricida anche se stesso. Intendete o iniqui la protesta che fece Iddio allorché disse, che la maledizione sarebbe discesa sopra gli spergiuri, né mai si farebbe partita, finché non avesse finito di sterminarli da’ fondamenti: maledictio veniet ad Domum jurantis in nomine meo mendaciter; ma non basta che vi venga, vi abiterà, e commorabitur in medio Domus ejus; e di più la consumerà fino a ridurre in polvere quanto vi è dentro, et consumet eam, ligna, et lapides ejus. Criftiani, il giurare il falso è un mettere in rovina totale le vostre case, in evidente pericolo di dannarsi l’anima. Povere case, che avete i vostri capi che spergiurano. Poveri figli che nascete da padri spergiuri. Povere figlie, che per vostra disgrazia siete figlie di spergiure, vi compatisco, perché temo alle vostre persone, alle vostre case rovine irreparabili, non recedet a domo illius plaga, sempre saranno sotto il flagello di Dio! Quando vedete che una casa comincia a dare indietro, gli mancano l’entrate, non può più vivere col primiero splendore, troverassi d’ordinario che o vi fu, o v’è un spergiuro. Assicuratevi che al Mondo non v’è peccatore più iniquo e perverso dello spergiuro. Ogni peccatore ricusa, dice il Santo David, d’aver Iddio presente alle sue iniquità; dixit insipiens in corde suo non est Deus, solo lo spergiuro lo vuol presente, e lo chiama per testimonio delle sue scelleraggini. Poveri loro, che non avranno chi l’aiuti, essendo in dispetto anche ai Santi. San Gregorio fa questa osservazione, che a suo tempo venivano ai sepolcri de’ Santi Martiri, gl’infermi e guarivano, gl’indemoniati e si liberavano; ma se venivano gli spergiuri, questi più che mai erano travagliati da’ loro mali; ad Martyrum sepulchra veniunt ægri, et sanantur, veniunt dæmoniaci curantur, veniunt perjuri, a demonio vexantur; se la sono presa con Dio, e però par che non trovino, neppur pietà ne’ tempii, e par che loro intervenga, come suole avvenire nelle cause contrarie al Principe, per le quali non si trova né avvocato che scriva, né procuratore che voglia agitare la lite, né giudice che sentenzi; hanno troppo vilipesa l’autorità di Dio con i loro spergiuri. – Ah lingue indegne raffrenatevi, e giacché v’ho mostrato quanto indegna cosa sia, ed a quali castighi vi porti non solo il vilipendio del Nome di Dio negli inutili giuramenti, ma molto più il disprezzo dell’Autorità divina negli spergiuri, sappiate che questi, come gradino alle bestemmie, vi condurranno a disprezzarne la Maestà, e di conseguenza alla, quasi dissi, sicura perdita dell’anima vostra. Intendetela, quanto e difficile non mentire a chi giura, altrettanto è difficile non bestemmiare a chi spergiura, non essendovi dallo spergiuro alla bestemmia, che un breve traghetto. Accade in quest’affare ad un’anima, ciò che avviene ad una piazza assediata, finché si difendono le fortificazioni esteriori non vi è paura; ma come l’inimico arriva a sbucar nel fosso è agevolissimo che dal fosso arrivi a piantare vittoriosa bandiera sopra le muraglie. Appigliatevi dunque, miei UU., al consiglio di Cristo in San Matteo al quinto: nolite jurare omninò; non giurate senza cagione molto grave, altrimenti il giuramento vano, in breve aprirà la strada allo spergiuro, e questo alle bestemmie, come s’avviene per ordinario che pochi soldati lasciati incautamente salire sul muro aprono poi le porte al grosso dell’esercito che è di fuori; temete questo gran pericolo di passare dal giuramento agli spergiuri, e dallo spergiuro alle bestemmie. – Sapete voi quello vuol dire bestemmiare: vuol dire che, siccome con lo spergiuro si strapazza l’autorità divina, così con le bestemmie si strapazza la Maestà. Questo è quello che voi fate con quelle vostre bestemmie, non solo semplici, ma talora ereticali. Sapete a che segno arrivate con le vostre sacrileghe bocche (perdonatemi Angeli Santi del Paradiso, se io mi servo degli scellerati termini di questi indegni, altro fine non ho che emendare il peccatore, e pur temo che non mi si ascriva a colpa) arrivate a dire, lo dirò con parola meno indegna; ma no, perché tuttavia, me l’impedisce il rossore. Cieli, e perché tenete oziosi i fulmini? Mare, e perché non allaghi la terra che contiene questi empi? Terra, e perché non li subissi? Quello però che più aggrava il vostro esecrabile delitto è quel non capirsi a qual fine, per qual pretesto, con che speranza d’utile, voi v’induciate a bestemmiare. Certo che voi non bestemmiate per gusto, perché i bestemmiatori si cibano di veleno amarissimo, né pur di reputazione, perché, se è infame chi bestemmia il suo Principe,
conforme la legge, quanto sarà più infame chi bestemmia il Principe de’ Principi: Rex Regum; né tampoco d’interesse, perché dopo aver bestemmiato non hanno accresciute le loro facoltà, né soddisfatto a’ loro creditori. O che pazzi, o che stolti sono mai i bestemmiatori, perché senza un’ombra d’utile assassinano l’anima loro con colpe gravi. Dio immortale, (perdonate al mio parlare) che i vendicativi vi oltraggino con le vendette hanno pure qualche diletto in quello sfogo di vendetta; che i sensuali v’offendano con le loro sensualità è un gran male, ma pure hanno il piacere nelle loro sfrenatezze; che tanti s’ingrassino con la roba altrui, è deplorabile, ma finalmente ne provano qualche utilità. Ma questi bestemmiatori indegni, che ne ritraggono dal loro sputare in faccia de’ Santi, della Vergine, di Dio, le loro bestemmie? Nulla, nulla, tutta è malizia d’inferno. Il bestemmiatore supera la malizia del diavolo, perché, se il diavolo bestemmia Iddio, lo bestemmia, perché è tormentato con pena di fuoco, e fuoco eterno, ma esso bestemmia quando è favorito con benefizi. Arrossitevi al racconto d’un fatto degno. Quel Santo Vescovo di Smirne, Policarpo, fu in età cadente citato al tribunale del proconsole come adoratore di Cristo. Era però di tal fama presso ognuno, che anche i nemici ne avevano venerazione; onde è, che quello stesso tiranno, che prima lo citò per ucciderlo come reo, dopo bramò salvarlo come innocente; ma non potendo ottener da lui, né con preghi, né con promesse, né con terrori, che ritrattasse la Religione Cristiana, gli fece per ultimo queto partito, che egli, se non col cuore, almeno con la lingua bestemmiasse una sol volta il Nome di Dio, e se ciò faceva gli prometteva di mandarlo subito alla sua Chiesa, non solamente libero d’ogni insulto, ma carico di doni. A questa diabolica proposta si riempì d’un Santo orrore il venerabile vecchio; indi, alzati gli occhi al Cielo: sono, disse, ottantasei anni che io servo questo Signore dal quale, non solo non ho ricevuto disgusti, ma sommi benefici, e come posso indurmi à betemmiare un tanto padrone? Sono venti anni, sono trenta, sono cinquanta, o peccatore, che questo padrone ti benefica con roba, con figliolanza, e tu in ricompensa, altro non fai che bestemmiarlo. Ma non dubitare, che Dio ti castigherà, quando meno te l’aspetti. –  Si racconta come si trovava in un circolo un bestemmiatore, il quale fu sì preso, e gli fu detto, che Dio l’avrebbe castigato, ed egli rispose sfacciatamente: che vuol farmi Iddio? Sì è? Lo vedrai adesso; non ti vuol mandare fulmini dal Cielo che t’inceneriscano, né terremoti che ti subissino. Ecco, come vuole castigarti. Ecco, che per aria si fa vedere un piccolo moscerino, il quale girando e ronzandosi posò sul naso di quel bestemmiatore. Egli lo scaccia, torna il moscerino e lo manda via; ritorna e gli entra nel naso; procura di levarlo, ma non fi può; sale il moscerino alla testa, s’aiuta quel bestemmiatore. (Or vedi cosa può farti Iddio! ). Ed in un tratto alla vista di quelli amici dà il meschino tre girate tondo tondo, e cadde morto. Ecco il fine di questi superbi, così son trattati da Dio. Che farà di te, se non t’emendi? – O Padre, è vero, che bestemmio, ma solo quando sono in collera, ed io vi rispondo è possibile che per le vostre rabbie, e per i dardi della vostra lingua non abbiate bersaglio più vile di quello del Nome della Vergine, di Dio? Mancano forse altre parole per sfogar la vostra collera; e poi per questo siete rei, perché nominate Dio in collera! Giacché nominarlo con riverenza non è male. Padre, io non bestemmio in collera, ma per una mala consuetudine, per una maledetta usanza; neppur questo vi scusa, ma v’aggrava, perché è segno, che avete bestemmiato più lungamente. “UU., se tra voi v’è chi abbia sì brutto vizio, lo lasci presto, perché ogni indugio gli costerà assai, e forse la morte eterna. Non vi è segno peggiore per un infermo, che mandar fuori una respirazione del tutto fredda, frigida respiratio lætalis, dice Ippocrate. È cattivo segno, non v’ha dubbio, aver fredde le mani, freddi i piedi; ma, se sia freddo il fiato, aprite la sepoltura, perché l’infermo già muore. Così dico io de’ mali dell’anima; se sarete freddi nelle mani fino a non fare un’opera buona d’una limosina, se sarete freddi ne’ piedi fino a non aspirare né pur di farla, male; ma pure potrete sperare di salvarvi; ma quando in voi si scorga anche freddo il fiato, l’alito, ch’è quanto dire, quando non solo non onoriate Dio con le opere, ma di più lo strapazziate con spergiuri e bestemmie, questo respiro così freddo e mortale, frigida respiratio lætalis, l’inferno può dirsi aperto per voi. Nelle nostre lettere annue si legge che uno de’ nostri Padri nella Città del Messico, andò a confessare i prigionieri, e fu da essi avvertito che vi era fra di loro un gran bestemmiatore, affinché venendo ai suoi piedi lo correggesse di buona maniera. Ma se lo scellerato lasciò di confessarsi, non lasciò però il Padre di fargli un’amorevole correzione dicendogli, che non strapazzasse Iddio con quelle orride bestemmie, e, se non vi emenderete, dissegli, aspettatevi pure l’inferno. Che inferno? soggiunse quell’iniquo. Io voglio bestemmiare più che mai per farvi dispetto. Vedendosi dal Sacerdote tanta protervia, lo lasciò stare, e solo nel partire soggiunse: presto v’accorgerete a chi avrete fatto dispetto. Venne la sera, e l’indegno bestemmiatore si pose quietamente a dormire nella sua prigione, come se nulla avesse di debito con Dio. Ma nel meglio del sonno comparvero due demoni, uno con lanterna in mano, e l’altro con le mani del tutto libere; lo svegliarono di fretta, e gli dissero: tu sei quell’infame, che vuoi bestemmiare per far dispetto al confessore? Or bene, la pagherai, ed in così dire, quel diavolo che nulla aveva nelle mani, l’afferrò e lo cominciò a gettare in alto come un pallone ed ogni volta che cadeva giù, gli dava un gran colpo nella bocca. Così, doppo averlo ben ben pestato, lo pose in terra, e pigliatagli a forza la lingua, gliela cucì al palato, e si partirono. La mattina seguente, nell’entrar che fece il soprastante delle carceri a rivedere le prigioni, vide questo spettacolo, e vide, che l’indegno non poteva più parlare se non con i cenni. Si chiamò il cerusico, il quale, vedutolo, disse non esser male per la sua cura. Si chiamò il confeffore, ma neppur questo poté far nulla; onde il sacrilego bestemmiatore morì con la lingua attaccata al palato. Voi dite che questo fu un gran castigo; ma io dico: piacesse a Dio, che se molti di quelli che son rei di simile peccato fossero castigati in simil modo, così almeno perderebbero quell’istrumento della loro dannazione, che è quella lingua iniqua, con la quale bestemmiano. Ecco che, per ultimo rimedio voglio usar con voi quell’arte appunto, che si usa con i basilischi per ucciderli; gli si mette avanti gli occhi uno specchio, sicché alla orribilissima vista del loro sembiante muoiono. Così io pure vi pongo avanti gli occhi l’esecrabile malizia delle vostre bestemmie, chiamate da Cristo medesimo peccato irremissibile, perché quantunque assolutamente parlando non vi sia piaga che col balsamo della penitenza non sia sanabile, con tutto ciò, questa è tra tutte si putrida, che rare volte si sana. Voi con questo vostro linguaggio ben mostrate a qual patria apparteniate: la vostra patria, o bestemmiatori, è l’inferno; siete concittadini de’ diavoli, e de’ dannati, tra le vostre bestemmie e quelle de’ diavoli vi passa una straordinaria corrispondenza, e si formano due cori di musica, uno sotto terra, l’altro sopra terra, sicché simili a loro nel bestemmiare di qua, gli farete simili eternamente bestemmiando di là.

LIMOSINA
Il dare a’ poveri, Cristiani miei, non è perdere il suo, ma è cambiarlo in meglio, è un darlo ad usura nelle mani di Dio, dove ogni granellino sparso moltiplica a mille e mille. Da Altissimo, septies tantum reddet tibi. Da’ pure a Dio, a proporzione di quello egli ha dato a te, e vedrai quanto ti frutterà; avrete da fare con un Signore che non si lascia vincere di cortesia, e che senza paragone vi darà più di quello voi deste a lui ne’ suoi poverelli. Così appunto tratta il Cielo con la terra, toglie da lei alcuni vapori inutili, e glieli rimanda poi sopra in rugiada, allattando le Piante.

SECONDA PARTE.

Questa predica par fatta solamente per gl’uomini; molte però di queste donne s’accusano d’aver bestemmiato anche loro, ma per verità le loro bestemmie d’ordinario non sono che imprecazioni e verso de’ loro figliuoli, o del prossimo, o di loro, e talora alle creature irragionevoli, pregandoli qualche male, dicendo: che tu arrabbi, che ti rompi il collo, e simile. Queste non son bestemmie, ma imprecazioni, dalle quali bisogna guardarsi, prima perché son di disgusto a Dio, poi perché fanno male all’anima vostra, poi perché molte volte il Signore permette che accadano, benché voi non le diciate di cuore; sopra tutto avvertite di non mandarle a’ vostri figli. Udite ciò che si racconta nella vita di San Zenone Martire. Una povera madre aveva un figlio solo, e tornata la sera a casa, trova che al ragazzo è venuta una gran febbre, lo pone a letto, ove anche ella voleva riposare, ma non fu possibile, perché il figliuolo bruciando di sete, ad ogni tratto la svegliava con dire: mamma, da bere; e la madre per l’amor che gli portava si levava, e lo consolava; si levò la poverina per tanto da trenta volte senza adirarsi, e l’ultima volta si lasciò vincere talmente dalla passione che, dandoli da bere, gli disse: va’, che possa bere un diavolo, e così avvenne, poiché entrò subito il diavolo addosso al figliuolo. Immaginatevi il dolore della povera madre, pianse amaramente, lo condusse al Sepolcro di San Zenone, e fu liberato. Un’altra madre diceva ben spesso ad una sua figlia … che ti mangino i lupi, ed una mattina, tornando dalla Messa, trovò che il lupo l’aveva portata via, e solamente gli lasciò in testimonio la testa. Un padre sempre diceva al suo figlio: che tu possa abbruciare; volete altro, si dié fuoco alla Chiesa de’ PP. Francescani in una città di Toscana, ed il figlio vi restò arso. Né solamente il Signore permette che vengano addosso quelle imprecazioni che mandiamo ad altri, ma quelle ancora che fulminiamo contro di noi. Sentite, caso spaventoso riferito da Martino del Rio .. In Sassonia, una fanciulla aveva data parola ferma ad un giovane di sposarsi con esso lui, con l’aggiunta di questa imprecazione: se non vi piglio, il demonio mi porti via. Si raffreddò l’amore e la giovane si cambiò talmente, che si accasò con un altro. Seguirono le nozze, e finito il convito, cominciossi un ballo di festa, il quale per l’infelice sposa, fu un ballo di funerale; imperocché comparvero due diavoli in abito di giovani forestieri, ed introdottisi a ballare, presero in mezzo la sposa per più onorarla; ma dopo alcuni giri, levarono seco in alto, a guisa di due sparvieri la preda fatta, e se la portarono via. Immaginatevi pure che i suoni si cambiarono in pianto, e le allegrezze in terrore, tanto più che il di seguente, sulla stessa ora, comparvero gl’istessi giovani con gl’abiti, con gli anelli, col vezzo, con tutti gli ornamenti della sposa da loro rapita, e gettatili avanti la dolente madre, gli dissero: prendi pur queste robe, che a noi basta l’anima della tua figlia. – Inoltre, con queste imprecazioni che dite nelle vostre case, date un pessimo esempio alla famiglia, sicché i vostri figli le imparano e questo poi e il linguaggio col quale parlava. In Liegi si smarrì un piccolo figliolino, e preso con carità da alcuni per ricondurlo alla propria casa, gli dissero: chi è tuo padre? Rispose, il diavolo. Chi tua madre? il diavolo. Qual è la tua casa? La casa del diavolo. Queste erano le riposte, e perché? Perché in casa non si sentiva altro che dire, salvo che il diavolo ti porti; questa è la casa del diavolo; il marito alla moglie, sei un diavolo; così la moglie al marito. Signori confessori, quando le madri, ed i padri si lamentano de’ figli scorretti, invece di compatirli, dite loro: ben vi stà, voi li allevate malamente. Contentatevi, che io per ultimo me la prenda anche con certe donne, e certi uomini, i quali fanno lega col demonio, ricorrendo a lui con indegne superstizioni, perché li aiuti a vincere nel gioco, a sortire uno sposalizio, a sapere un segreto, a liberarsi da’ colpi delle armi nemiche, a torsi qualche male d’occhio, di stomaco, di sciatica, e che so io. O poveri voi, se praticate quest’arte diabolica! Ne mi state a dire: Padre, le pollize che fo, le parole che dico per guarire il male, per sapere il segreto, per far che le palle non feriscano, son buone; Che importa che le parole siano buone, se poi ve ne mescolate delle cattive; per viziare una cosa buona, basta mescolarvene delle cattive. La vipera non è tutta velenosa, e pure quel tossico, che ella ha, è sufficiente a dar la morte. Questi che praticano le superstizioni hanno commercio col diavolo, mentre con patti se non espressi, almeno taciti se l’intendono con esso, e perciò sono nemici giurati di Dio: Inimicus meus, qui versatur cum inimicis meis, così parla la legge. O Padre, queste superstizioni ei giovano per liberarci da vari mali, per liberar le nostre bestie, per farci trovar danari. O pazzi che siete, io vorrei prima morir mille volte che vincere col demonio. Avvertite bene, che se il demonio vi risana, vi risana per darvi la morte; se or vi libera la bestia, di qui a poco ve la farà precipitare; se or vi libera il figlio, di qui a poco ve lo farà cader nelle braci; vi promette molto e poi vi toglie tutto. Così appunto intervenne a quel misero giovane in Roma, il quale, dopo aver dato fondo ad un ottimo patrimonio, ricorse al diavolo per via di superstizioni per cavarne un tesoro; ebbe ad intendere che il demonio da lui chiamato con la superstizione, non conosceva altro tesoro, che quello, che il misero gli voleva dare dell’anima sua. Ecco dunque, che una notte sentì bussare alla sua camera, e chiedendo chi fosse, udì rispondersi: sono il diavolo da te chiamato con le superstizioni: eccomi, aprimi; gli aprì con qualche terrore, e presa una spada in mano, e con l’altra appesasi un’immagine della Madonna al collo (per averla, come vorrebbero la maggior parte degl’uomini: Avvocata non de’ peccatori, ma del peccato) S’incamminò al luogo del tesoro, ove trovò un monte d’oro, d’argento e di gioie; ma credete voi, che gioisse a questa vista? che stendesse le mani? Appunto, fu subito preso da un grande orrore; gli scorse per le vene gelo di morte, e con poco fiato ricondottosi nel suo letto in capo a tre dì, morì. Questo è il fine di chi se la tiene col diavolo con le superstizioni: domandate a Dio, ai Santi, ciò che volete, e non al diavolo vostro nemico: Qui porrigit Pomum, surripit Paradisum; vi mostra un pomo, e vi toglie il Paradiso…

QUARESIMALE (XVIII)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “NON MEDIOCRI”

Sempre straordinario fu l’impegno del Santo Padre Leone XIII, nella formazione teologica, filosofica, ecclesiastica del giovane clero di ogni Nazione cattolica. L’istituzione di numerosi collegi in Roma per la formazione di Sacerdoti cattolici provenienti da ogni parte del mondo rende testimonianza di questo zelo ed impegno massimo dei Pontefici romani e dei Vescovi delle conferenze nazionali. Ecco perché i nemici della Chiesa di Cristo hanno da sempre cercato di infiltrare questi luoghi di sapienza cristiana onde corrompere i giovani nascenti Dacerdoti con filosofie bislacche e teologie di novatori di dubbia retta dottrina o francamente eretiche. Questa lenta infiltrazione ha fatto sì che i giovani Sacerdoti imbevuti di modernismo e pensiero laico-paganizzante, diventassero alti prelati in grado di scardinare i fondamenti più solidi della fede cattolica, fino a generare una falsa chiesa diretta da, e rispondente a logge massoniche ed a personaggi occulti ferocemente anticristiani, che hanno dato vita ad una “sinagoga satanica” che ha ribaltato dottrina, liturgia, modalità di preghiera, devozioni, introducendo novità di matrice pagana ed esoterica nel culto e nella prassi ecclesiastica; esempi lampante ne sono l’invocazione esplicita del “signore dell’universo”, cioè il massonico lucifero baphomet al quale è offerto il rito rosa+croce della cosiddetta messa del novus ordo, la intronizzazione con doppia messa nera di satana in Vaticano del giugno 1963, e la più recente introduzione, sempre ufficiale in Vaticano, della dea pagana Pachamama. Ma noi Cattolici del pusillus grex resistiamo e manteniamo la nostra fede di sempre fondata sulla vera ed unica Chiesa di Cristo, cioè la Chiesa cattolica, una, santa, ed apostolica, sicuri della sua riapparizione più splendente e santificante che mai. Preghiera, pazienza, penitenza, fiducia incrollabile in Gesù Cristo Signor nostro ci porteranno alla vittoria pur se perseguitati, combattuti, martirizzati per Cristo. Eamus et moriamur cum Illo!

NON MEDIOCRI

EPISTOLA ENCICLICA
DI SUA SANTITÀ
LEONE PP. XIII

Ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi di Spagna.
Il Papa Leone XIII. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Come voi sapete, non appena abbiamo assunto il governo della Chiesa Ci siamo dedicati con grande zelo e diligenza a difendere e ad accrescere nella vostra terra il patrimonio della Cattolicità e a confermare, anzitutto, la concordia degli animi e a stimolare la salutare operosità del Clero. – Ora, animati dallo stesso zelo, rivolgiamo la Nostra attenzione ai vostri giovani chierici, per potere, in unità di intenti con voi, contribuire alla loro formazione. Vogliamo che questa sia una nuova dimostrazione della paterna benevolenza con la quale, in un gesto abituale, abbracciamo voi tutti. Ciò è dovuto. Non ci siamo infatti dimenticati della realtà spagnola, né ignoriamo la vostra incrollabile fermezza nella fede ricevuta dai padri e la vostra deferenza verso la Sede Apostolica. È questo il vero motivo, per cui il nome della Spagna è assurto a tanta grandezza di gloria e di potenza, come attestano le memorie storiche. È ben fisso nella Nostra mente, e non intendiamo ora passarlo sotto silenzio, che nei momenti di sventura Ci sono giunti proprio dalla Spagna motivi di profonda consolazione. Ci torna quindi sommamente gradito ricambiare le vostre attestazioni di affetto. Per lungo tempo il Clero spagnolo si distinse per la scienza divina e per la raffinatezza degli studi letterari; per mezzo di queste doti, riuscì a far progredire non poco la verità cristiana e la reputazione del proprio paese. Non mancarono persone munifiche che, fattesi carico del patrocinio delle arti più eccelse, le sostennero in modo adeguato ai tempi; non mancarono pure ingegni ben preparati nello studio delle discipline teologiche e filosofiche, nonché di quelle letterarie. Sappiamo quanto abbiano contribuito ad incrementare questi studi sia la libertà dei Re Cattolici, sia l’impegno e lo zelo dei Vescovi. – A questi stimoli la Sede Apostolica ne aggiunse altri di ogni genere, sempre preoccupata che non venissero a mancare alla santità della tradizione cristiana né la luce della filosofia, né lo splendore di una cultura più raffinata. In questo campo hanno lasciato un insigne patrimonio uomini che non trovano molti alla loro altezza: Francesco SuarezGiovanni Lugo, Francesco da Toledo e, degno di particolare menzione, quel Francesco Ximenes che, sotto la guida e gl’indirizzi dei Romani Pontefici, assurse ad un livello così elevato di dottrina da dare lustro non solo alla Spagna, ma all’intera Europa, specie con l’istituzione dell’Università degli studi di Alcala, dove i giovani, educati “nella Chiesa di Dio con la luce della sapienza, come rilucenti stelle del mattino, potevano illuminare gli altri sulla via della verità[1]. Da questa messe, coltivata con tanta maestria e con tanto impegno, uscì quella mirabile schiera di illustri dottori che, convocati dal Romano Pontefice e dal Re Cattolico al Concilio Tridentino, corrisposero in pieno alle loro attese. – Non desta affatto meraviglia che la Spagna possa aver generato un così alto numero di uomini illustri: occorre certo riconoscere la loro naturale capacità intellettiva, ma avevano anche a disposizione risorse e mezzi sicuramente idonei al conseguimento di una perfetta padronanza della dottrina. È sufficiente fare menzione delle importanti Università di Alcala e di Salamanca, autentiche dimore, sotto la vigilanza della Chiesa, della sapienza cristiana. Il loro ricordo richiama immediatamente anche quello di altri Istituti che offrirono agli ecclesiastici, che si segnalavano per il talento e per l’amore della scienza, l’opportunità di una sede a loro disposizione. Ma è pure davanti ai vostri occhi, Venerabili, Fratelli, la catastrofe dei tempi successivi. In mezzo agli sconvolgimenti sociali che nel secolo scorso e nell’attuale hanno turbato l’intera Europa, sono stati travolti e sradicati, come da un violento uragano, quegli Istituti alla cui fondazione il potere regio ed ecclesiastico avevano profuso attenzioni e sostanze. Essendo state tolte di mezzo le Università cattoliche degli studi e i loro Istituti, anche i Seminari inaridirono, perché si era gradualmente immiserito quel fiume di sapere che scaturiva da quelle grandi scuole. Non era peraltro possibile che mantenessero inalterata l’antica situazione, a causa delle guerre civili e dei moti rivoluzionari che, per molto tempo, assorbirono gl’impegni e le risorse dei cittadini. – La Sede Apostolica, intervenne in tempo utile e le rivolse tutta la sua attenzione a rimettere ordine, con il consenso dell’Autorità civile, negli affari ecclesiastici, che gli eventi passati avevano sconvolto. Rivolse anzitutto la sua attenzione ai Seminari diocesani; il riportarli alla precedente situazione che li rendeva vera dimora della pietà e della erudizione, rientrava nell’interesse dei singoli e della società. Voi, tuttavia, sapete bene che l’impresa non è proprio riuscita come si era ipotizzato. Non vi erano infatti mezzi sufficienti, né il corso degli studi poteva riprendere vigore con prospettive di gloriosi traguardi, perché la scomparsa degli antichi Istituti aveva portato alla penuria di validi insegnanti. Le due più alte autorità convennero sull’opportunità di creare in alcune province dei Seminari generali, con l’intesa che i loro allievi che avessero compiuto tutti gli studi teologici potessero essere ammessi ai gradi accademici secondo le usanze del passato. Ma la piena attuazione di tutto ciò trovò, e trova tuttora, numerosi ostacoli. Essendo scomparsa la risorsa delle antiche Università, si sente viva la mancanza di quei mezzi, l’assenza dei quali rende assai arduo al Clero aspirare all’onore di una cultura compiuta e profonda. Si sono così fatte unanimi la voce e l’opinione dei competenti sulla necessità di mettere mano al programma degli studi nei Seminari, per ampliarlo e perfezionarlo. Tutto questo rientra fra le principali Nostre preoccupazioni, essendo intenzionati a ricalcare le orme dei Nostri Predecessori, che non tralasciarono alcuna occasione per favorire gli studi più qualificati. La provvida azione dei Pontefici si rilevò in modo particolare quando vollero far venire a Roma, capitale del mondo cattolico, i giovani chierici stranieri e li riunirono nei Collegi, con tanta maggior decisione ogni qualvolta vedevano venir meno nel loro paese la possibilità dello studio, o compromessa l’affidabilità delle Istituzioni, sottratte alla vigilanza della Chiesa. – Vennero così fondati in Roma numerosi Collegi, dove confluivano dall’estero molti giovani da erudire nella scienza sacra, con la prospettiva, una volta elevati al Sacerdozio, di mettere a disposizione dei loro connazionali la ricchezza spirituale e culturale conseguita nell’Urbe. Essendone derivati salutari e abbondanti frutti, e tuttora ne derivano, abbiamo ritenuto che valesse la pena di impegnare Noi stessi per aumentare il numero di questi Istituti. Abbiamo pertanto aperto in Roma un Collegio per gli Armeni e uno per i Boemi, e Ci siamo anche adoperati per restituire all’antico prestigio quello dei Maroniti. Eravamo sinceramente contrariati dal fatto che, nel numero dei giovani stranieri, erano pochi quelli che provenivano dalle vostre regioni. Con la speranza quindi di ricavarne dei frutti, abbiamo deciso di operare perché il Collegio romano dei Chierici spagnoli, fondato da tempo per la provvida lungimiranza dei devoti Sacerdoti, mantenga non solo la sua efficienza, ma possa anche raggiungere risultati migliori. – Abbiamo perciò deciso che quanti giungeranno in questo Collegio dalla Penisola Iberica e dalle isole vicine sottoposte al potere del Re Cattolico, siano sotto la Nostra protezione; con la vita in comune e sotto la guida di maestri scelti potranno attendere a quegli studi che affinano veramente la mente e lo spirito. Pensiamo di poter offrire una dimora e una sede adatte a quest’opera nel palazzo urbano che prende il nome dagli antichi proprietari, i duchi Altemps, passato ora in proprietà Nostra e della Sede Apostolica. La Nostra scelta è confortata dal fatto che questa sede è nobilitata dal Santuario di Aniceto, Papa Martire, del quale custodisce le ceneri, e anche dal ricordo del soggiorno di Carlo Borromeo. – Concediamo e affidiamo dunque la disponibilità e il diritto di usare questa sede al Collegio dei Vescovi Spagnoli, con la precisa disposizione di accogliervi e di alloggiarvi i chierici delle loro Diocesi, qualora decidano di inviarne alcuni a Roma, come abbiamo detto, per motivi di studio. Affinché quanto abbiamo progettato possa al più presto realizzarsi, nel lasso di tempo necessario per approntare tutto ciò che occorre all’arredamento della sede, i chierici prendano dimora in un’ala del palazzo dell’illustre famiglia Altieri destinata a questo scopo. – Affidiamo agli Arcivescovi di Toledo e di Siviglia l’incarico di trattare con Noi e con i Nostri Successori i problemi più importanti del Collegio. A tal fine ordiniamo al Rettore del Collegio di riferire, ogni anno, sulla situazione economica, sulla formazione e sul comportamento degli alunni, sia al Nostro sacro Consiglio che presiede agli studi, sia agli Arcivescovi sopra menzionati, i quali si faranno carico di informarne i loro Colleghi Vescovi Spagnoli. Spetta dunque a voi, Venerabili Fratelli, sostenere e realizzare questa Nostra iniziativa con quella solerzia e quella intraprendenza che la situazione richiede e che le vostre virtù episcopali garantiscono. – Frattanto, quale testimonianza di particolare benevolenza, a voi, Venerabili Fratelli, al Clero e ai fedeli affidati alla vostra tutela impartiamo con tanto affetto nel Signore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 ottobre 1893, anno sedicesimo del Nostro Pontificato.

LEONE PP. XIII

DOMENICA III DI QUARESIMA (2023)

DOMENICA III DI QUARESIMA (2023)

 (Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Lorenzo fuori le mura.

Semidoppio, Dom. privil. di I cl. • Paramenti violacei.

L’assemblea liturgica si tiene in questo giorno a S. Lorenzo fuori le mura che è una delle cinque basiliche patriarcali di Roma. In questa chiesa si trovano i corpi di due diaconi Lorenzo e Stefano. L’Orazione del primo (10 agosto) ci fa domandare di estinguere in noi l’ardore dei vizi come questo Santo superò le fiamme dei suoi tormenti; e quella del secondo (26 dicembre) ci esorta ad amare i nostri nemici come questo Santo che pregò per i suoi persecutori. Queste due virtù: la castità e la carità, furono praticate soprattutto dal patriarca Giuseppe, di cui la Chiesa ci fa la narrazione nel Breviario proprio in questa settimana. Giuseppe resistette alle cattive sollecitazioni della moglie di Putifarre e amò i fratelli fino a rendere loro bene per male. (Nel sacramentario Gallicano – Bobbio – , Giuseppe è chiamato il predicatore della misericordia; e la Chiesa, nella solennità di S. Giuseppe, proclama in modo speciale la sua verginità.) Quando Giuseppe raccontò ai fratelli i suoi sogni, presagio della sua futura gloria, essi concepirono contro di lui tanto odio, che presentatasi l’occasione, si sbarazzarono di lui gettandolo in una cisterna senza acqua. Di poi lo vendettero ad alcuni Ismaeliti che lo condussero in Egitto e lo rivendettero ad un nobile egiziano di nome Putifarre. Fu appunto lì che Giuseppe resistette energicamente alle sollecitudini della moglie di Putifarre e divenne per questo il modello della purezza (la Chiesa nel corso di questa settimana, – Epistola e Vangelo di sabato – legge ì brani della donna adultera e di Susanna. I Padri della Chiesa spesso hanno messo in rapporto quest’ultima con Giuseppe). – « Oggi, dice S. Ambrogio, vien offerta alla nostra considerazione la storia del pio Giuseppe. Se egli ebbe numerose virtù, la sua insigne castità risplende in modo del tutto speciale. È giusto quindi che questo santo Patriarca ci venga proposto come lo specchio della castità » (Mattutino). Giuseppe accusato ingiustamente dalla moglie di Putifarre, fu messo in prigione: egli si rivolse a Dio, lo pregò di liberarlo dalle sue catene. L’Introito usa espressioni analoghe a quelle della preghiera di Giuseppe: « 1 miei occhi sono rivolti senza tregua verso il Signore, poiché Egli mi libererà dagli inganni ». « Come gli occhi dei servi sono fissi verso i padroni, continua il Tratto, cosi io volgo il mio sguardo verso il Signore, mio Dio, fino a quando non avrà compassione di me ». Allora « Dio onnipotente riguarda i voti degli umili, e stendi la tua destra per proteggerli » (Orazione). Faraone difatti fece uscire Giuseppe dalla prigione, lo fece sedere alla sua destra e gli affidò il governo di tutto il suo regno. Giuseppe prevenne la carestia che durò sette anni; il Faraone allora lo chiamò « Salvatore del popolo ». (Il Vangelo dà una sola volta questo titolo a Gesù, quando parla alla Samaritana presso il pozzo di Giacobbe, Questo Vangelo è quello del Venerdì della stessa settimana, consacrato alla storia di Giuseppe). – In questa occasione i fratelli di Giuseppe vennero in Egitto ed egli disse loro: « Io sono Giuseppe che voi avete venduto. Non temete. Dio ha tutto disposto perché io vi salvi da morte ». La felicità di Giacobbe fu immensa allorché poté rivedere il figlio; egli abitò con i suoi figli nella terra di Gessen, che Giuseppe aveva loro data. « La gelosia dei fratelli di Giuseppe, dice S. Ambrogio, è il principio di tutta la storia di Giuseppe ed è ricordata nello stesso tempo per farci apprendere che un uomo perfetto non deve lasciarsi andare alla vendetta di un’offesa o a rendere male per male » (Mattutino). È impossibile non riconoscere in tutto questo una figura di Cristo e della sua Chiesa. – Gesù, figlio della Vergine Maria (Vang.), è il modello per eccellenza della purità verginale. Il Vangelo lo mostra in lotta in modo speciale contro lo spirito impuro. Il demonio che egli scaccia col dito di Dio, cioè per virtù dello Spirito Santo, dal muto ossesso, era « un demonio impuro », dicono S. Matteo e San Luca. La Chiesa scaccia dalle anime dei battezzati il medesimo spirito immondo. Si sa che la Quaresima era un tempo di preparazione al Battesimo e in questo Sacramento il Sacerdote soffia per tre volte sul battezzato dicendo: « esci da lui, spirito impuro, e fa luogo allo Spirito Santo ». « Ciò che si fece allora in modo visibile, dice S. Beda nel commento del Vangelo, si compie invisibilmente ogni giorno nella conversione di quelli che divengono credenti, affinché dapprima scacciato il demonio esse scorgano poi il lume della fede, indi la loro bocca, prima muta, si apra per lodare Dio » (Mattutino). « Né gli adulteri, né gli impudichi, dice parimente S. Paolo nell’Epistola di questo giorno, avran parte nel regno di Cristo e di Dio. Non si nomini neppure fra voi la fornicazione ed ogni impurità. Specialmente in questo tempo di lotta contro satana, noi dobbiamo imitare Gesù Cristo di cui Giuseppe era la figura. Questo Patriarca ci dà ancora l’esempio della virtù della carità, come Gesù e la sua Chiesa. Gesù, odiato dai suoi, venduto da uno degli Apostoli, morendo sulla croce, pregò per i suoi nemici. Pregò Dio, ed Egli lo glorificò facendolo sedere alla sua destra nel suo regno. Nella festività di Pasqua, Gesù, per mezzo dei Sacerdoti, distribuirà il frumento eucaristico, come Giuseppe distribuì il frumento. Per ricevere la Santa Comunione, la Chiesa esige questa carità, della quale S. Stefano, le cui reliquie si conservano nella chiesa stazionale, ci diede l’esempio perdonando ai suoi nemici. Gesù esercitò questa carità in grado eroico « allorché offrì se stesso per noi » sulla croce (Ep.), di cui l’Eucaristia è il ricordo. — La figura di Giuseppe e la stazione di questo giorno illustrano in una maniera perfetta, il mistero pasquale al quale la liturgia ci prepara in questo tempo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XXIV: 15-16.

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam unicus et pauper sum ego.

[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

Ps XXIV: 1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam,

[A Te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego.

[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

 Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, vota humílium réspice: atque, ad defensiónem nostram, déxteram tuæ majestátis exténde.

[Guarda, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, ai voti degli úmili, e stendi la potente tua destra in nostra difesa.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.

Ephes. V: 1-9

“Fratres: Estote imitatores Dei, sicut fílii caríssimi: et ambuláte in dilectióne, sicut et Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis oblatiónem, et hostiam Deo in odorem suavitátis. Fornicatio autem et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo aut stultiloquium aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet: sed magis gratiárum actio. Hoc enim scitóte intelligentes, quod omnis fornicator aut immundus aut avarus, quod est idolorum servitus, non habet hereditátem in regno Christi et Dei. Nemo vos sedúcat inanibus verbis: propter hæc enim venit ira Dei in filios diffidéntiæ. Nolíte ergo effici participes eórum. Erátis enim aliquando tenebrae: nunc autem lux in Dómino. Ut fílii lucis ambuláte: fructus enim lucis est in omni bonitate et justítia et veritáte.”

[Fratelli: siate dunque imitatori di Dio come figlioli diletti, e vivete nell’amore, come Cristo che ci ha amati e ha dato per noi se stesso a Dio in olocausto come ostia di soave odore. La fornicazione, la impurità di qualsiasi sorta, l’avarizia non si senta neppur nominare fra voi, come a santi si conviene. Non oscenità, non discorsi sciocchi, non buffonerie, tutte cose indecenti; ma piuttosto il rendimento di grazie. Perché, sappiatelo bene, nessuno che sia fornicatore, o impudico, o avaro (che è un idolatra) ha l’eredità del regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi seduca con vani discorsi, perché a causa di questi vien l’ira di Dio sugli increduli. Dunque non vi associate con loro. Una volta eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Vivete come figli della luce. Or frutto della luce è tutto ciò che è buono, giusto e vero.

PAROLE ALTE E SOAVI.

Se si paragonano queste esortazioni di San Paolo a quelle dei moralisti suoi contemporanei, pagani o giudei, e d’ogni tempo, purché non Cristiani, uno stupore ci invade e ci domina. Quanta altezza fin dalle prime battute dell’odierna epistola: « imitatores Dei estote, » siate imitatori di Dio. Non si può andar più in là, più in su. Specie se si rifletta che il Dio proposto a modello non è la divinità antropomorfica, malamente, fiaccamente antropomorfica del paganesimo, bensì la divinità austeramente, moralmente trascendente del Cristianesimo; non una divinità umanizzata a cui è difficile mostrarsi anche per l’uomo sub-umano, ma la divinità sublime e pura a cui l’uomo non s’accosta se non superando se stesso. Talché la formula pagana « sequere Deum » che altri potrebbe citare come equivalente a questa di San Paolo, per sminuire la nostra meraviglia, sarebbe fuor di proposito. Ma la meraviglia cresce quando noi sentiamo Paolo dir queste cose tanto difficili ed alte in tono d’infinita semplicità e dolcezza. « Imitate Dio, continua l’Apostolo, come figli carissimi voi che siete in Lui ». Vi è già una gran dolcezza nell’idea stessa della Paternità Divina; è, figlioli di Dio; figli, noi piccoli, di Lui che è così grande! Ma San Paolo accentua ancora la dolcezza di quella grande parola e ricorda ai Cristiani per eccitarli ad essere fedeli, eroici emulatori del Padre Celeste, che essi ne sono i figli carissimi, diletti; anzi prediletti. Figli che Dio veramente da Padre ha amati ed ama, ha amati nel giorno della creazione, riamati anche più teneramente e fortemente nel giorno della redenzione. Figli carissimi! Noi rasentiamo il mistero, siamo tuffati nel mistero dell’amore divino. – Che Dio possa avere caro l’uomo! « quid est homo (vien fatto di esclamare) quod memor es eius » che cosa è l’uomo, perché occupi un posticino qualsiasi nei Tuoi pensieri! — e più nel Tuo cuore. Eppure è così. Di Dio noi siamo i figli carissimi. Perciò amorevole deve essere il nostro sforzo per accostarci a Dio, per riprodurlo nella nostra vita. « Ambulate in dilectione », camminate nell’amore, nell’atmosfera dell’amore. L’appello del Monarca è pieno di maestà, l’appello del padrone è pieno di forza, l’appello di Dio è appello di Padre al figlio, appello pieno di dolcezza, pieno d’amore. Ma nell’amore c’è il segreto dell’entusiasmo, e pei sentieri dell’amore, additati da Paolo a noi Cristiani, come i sentieri veramente nostri, le anime volano portate dal vento dell’amore. Nessun segreto migliore di questo per vincere l’altezza che si erge formidabile dinanzi a noi quando guardiamo come a nostra meta niente meno che a Dio.

(G. SEMERIA: Le Epistole delle Domeniche, Milano – 1939, con imprim.)

 Graduale

Ps IX: 20; IX: 4

Exsúrge, Dómine, non præváleat homo: judicéntur gentes in conspéctu tuo.

[Sorgi, o Signore, non trionfi l’uomo: siano giudicate le genti al tuo cospetto.

In converténdo inimícum meum retrórsum, infirmabúntur, et períbunt a facie tua.

[Voltano le spalle i miei nemici: stramazzano e periscono di fronte a Te.]

Tractus

Ps. CXXII:1-3

Ad te levávi óculos meos, qui hábitas in cœlis.

[Sollevai i miei occhi a Te, che hai sede in cielo.]

Ecce, sicut óculi servórum in mánibus dominórum suórum.

[Ecco, come gli occhi dei servi sono rivolti verso le mani dei padroni.]

Et sicut óculi ancíllæ in mánibus dóminæ suæ: ita óculi nostri ad Dóminum, Deum nostrum, donec misereátur nostri,

[E gli occhi dell’ancella verso le mani della padrona: così i nostri occhi sono rivolti a Te, Signore Dio nostro, fino a che Tu abbia pietà di noi].

Miserére nobis, Dómine, miserére nobis.

[Abbi pietà di noi, o Signore, abbi pietà di noi.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam. [Luc XI: 14-28]

“In illo témpore: Erat Jesus ejíciens dæmónium, et illud erat mutum. Et cum ejecísset dæmónium, locútus est mutus, et admirátæ sunt turbæ. Quidam autem ex eis dixérunt: In Beélzebub, príncipe dæmoniórum, éjicit dæmónia. Et alii tentántes, signum de coelo quærébant ab eo. Ipse autem ut vidit cogitatiónes eórum, dixit eis: Omne regnum in seípsum divísum desolábitur, et domus supra domum cadet. Si autem et sátanas in seípsum divísus est, quómodo stabit regnum ejus? quia dícitis, in Beélzebub me ejícere dæmónia. Si autem ego in Beélzebub ejício dæmónia: fílii vestri in quo ejíciunt? Ideo ipsi júdices vestri erunt. Porro si in dígito Dei ejício dæmónia: profécto pervénit in vos regnum Dei. Cum fortis armátus custódit átrium suum, in pace sunt ea, quæ póssidet. Si autem fórtior eo supervéniens vícerit eum, univérsa arma ejus áuferet, in quibus confidébat, et spólia ejus distríbuet. Qui non est mecum, contra me est: et qui non cólligit mecum, dispérgit. Cum immúndus spíritus exíerit de hómine, ámbulat per loca inaquósa, quærens réquiem: et non invéniens, dicit: Revértar in domum meam, unde exivi. Et cum vénerit, invénit eam scopis mundátam, et ornátam. Tunc vadit, et assúmit septem alios spíritus secum nequióres se, et ingréssi hábitant ibi. Et fiunt novíssima hóminis illíus pejóra prióribus. Factum est autem, cum hæc díceret: extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.”

“In quel tempo Gesù stava cacciando un demonio, il quale era mutolo. E cacciato che ebbe il demonio, il mutolo parlò, e le turbe ne restarono meravigliate. Ma certuni di loro dissero: Egli caccia i demoni per virtù di Beelzebub, principe dei demoni. E altri per tentarlo gli chiedevano un segno dal cielo. Ma Egli, avendo scorti i loro pensieri, disse loro: Qualunque regno, in contrari partiti diviso, va in perdizione, e una casa divisa in fazioni va in rovina. Che se anche satana è in discordia seco stesso, come sussisterà il suo regno? Conciossiachè voi dite, che in virtù di Beelzebub Io caccio i demoni. Che se Io caccio i demoni per virtù di Beelzebub, per virtù di chi li cacciano i vostri figliuoli? Per questo saranno essi vostri giudici. Che se io col dito di Dio caccio i demoni, certamente è venuto a voi il regno di Dio. Quando il campione armato custodisce la sua casa, è in sicuro tutto quel che egli possiede. Ma se un altro più forte di lui gli va sopra e lo vince, si porta via tutte le sue armi, nelle quali egli poneva sua fidanza, e ne spartisce le spoglie. Chi non è meco, è contro di me; e chi meco non raccoglie, dissipa. Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, cammina per luoghi deserti cercando requie; e non trovandola, dice: Ritornerò alla casa mia, donde sono uscito. E andatovi, la trova spazzata e adorna. Allora va, e seco prende sette altri spiriti peggiori di lui, ed entrano ad abitarvi. E la fine di un tal uomo è peggiore del principio”

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA GRAZIA DI DIO E LA RETTA INTENZIONE

Vi erano molti di così dura cervice che altro non sapevano fare fuorché essere maligni, e accusavano Gesù di compiere miracoli con l’aiuto del demonio. Il Signore però, che conosceva i loro pensieri, davanti a simile calunnia non volle stare in silenzio e cominciò a ragionare così: « Quando un regno è diviso in se stesso e in preda a due opposti partiti, necessariamente cade in rovina. « Ora se voi dite che io caccio i demoni in nome di beelzebub, allora satana combatte se stesso, allora il suo regno è finito per sempre. Ma perché questo non può capitare, se io caccio i demoni e combatto il regno del diavolo, è segno che è giunto il Regno di Dio. « Tra Dio e il demonio non ci può essere qualche cosa di mezzo; se dunque posseggo la forza di Dio, chi non è con me è contro di me; chi non raccoglie con me, disperde » – « Ma, senza dubbio, il più forte sono Io, perché il demonio non può resistermi quando Io lo scaccio dall’uomo. Guai all’uomo però che gli riapre ancora la porta del cuore, perché la sua condizione nuova diviene assai peggiore dell’antica ». Fin qui il santo Vangelo. Quaggiù sulla terra — lo dice il Signore — ci sono due regni che si combattono senza mai aver pace: il regno di beelzebub che tien schiave le anime e le rende mute; il regno di Dio che porta la libertà. C’è dunque da scegliere se vogliamo seguire Colui che è il nostro Salvatore oppure andar dietro ai vessilli di satana. Gesù è stato mandato dal Padre a ricondurre la umanità dalla schiavitù, in cui la teneva il demonio, alla libertà dei figli di Dio. E questa figliolanza divina, che è tutta un favore di Dio, Gesù ce l’ha procurata per mezzo della grazia. È la grazia che ci rende fratelli di Cristo e per ciò figlioli di Dio. Se dunque ci manca la grazia noi non siamo di Cristo e di Dio, ma siamo contro Cristo, contro Dio. Questa stessa figliolanza divina, che la grazia ci ha saputo portare, deve sempre manifestarsi nei fatti: le azioni che andiamo compiendo devono essere azioni di un figlio di Dio, devono essere azioni di un fratello di Cristo. Se dunque mancasse la retta intenzione che al nostro operare dia questo indirizzo, invece di raccogliere tanti frutti di bene noi disperderemmo le energie. Sono due pensieri che dobbiamo. fissare. – 1. È CONTRO GESÙ CHI HA PERDUTO LA GRAZIA. La storia d’Italia, al sec. VIII, ricorda le vicende dei re Longobardi. Barbari ancora, alternano, con facilità che sorprende, la guerra e la pace, le ostilità e l’alleanza. Astolfo, divenuto re nel 749, ruppe subito col Papa la tregua giurata dai suoi predecessori, e colle truppe focose dei suoi uomini mosse contro la città di Roma prendendola d’assalto. Il Papa Stefano II va ad incontrarlo alle porte dell’urbe, gli si avvicina, lo prega di ritirarsi. Il re, sconfitto da quella maestà, così debole e pur così potente, domanda perdono e giura una tregua che doveva durare tre anni. Il suo proposito, perché non fosse di sole parole, volle scritto con atto solenne. Non era passato un anno ed Astolfo, violando la parola giurata, assale la città, la mette al saccheggio e, quasi fosse l’assoluto padrone, la costringe ad un grave tributo. Fu allora che il Romano Pontefice, per sollevare le calamità del suo popolo, ordinò preghiere e digiuni. Anzi il Papa in persona, nudi i piedi, con una grave croce sopra le spalle, effondendosi in lagrime, percorre in processione le vie di Roma, seguito dal Clero e dal popolo asperso di cenere. Davanti a tutto il corteo di penitenza e di pianto, su una croce, veniva portata la pergamena della tregua infranta dal re. Cristiani, quante tregue infrante, quante volte anche noi abbiamo rotto l’amicizia di Dio. Losca figura quella di Astolfo, ma forse qualche volta gli siamo assomigliati. Nel giorno del nostro Battesimo noi fummo portati alla Chiesa. Di fronte a Dio eravamo… dei barbari, degli stranieri che non vantavano diritto alcuno. Ma il Signore ci ha voluto bene, ci ha accolto nella sua terra ed ha stretto con noi non solo un patto di alleanza, ma un vincolo di vera parentela. In quel giorno gli siamo divenuti figli adottivi. Il patto fu scritto non su un foglio di carta, ma nell’intimo dell’anima nostra, non in inchiostro ma col Sangue del Figlio di Dio, non con una penna qualunque ma col legno della Croce di Cristo. Eppure, noi col peccato mortale abbiamo dimenticato quel giorno così bello. Coll’esercito scomposto e barbaro delle nostre passioni abbiamo dato l’assalto alla città santa di Dio che era il nostro cuore adorno di grazia; in un momento di pazzia abbiamo infranto lo splendore dell’anima nostra, abbiamo distrutto le tracce del Sangue di Cristo, abbiamo resa inutile la morte stessa di Lui. Gesù fu obbligato a porre su la nuda sua croce la nostra amicizia infranta e mostrarla agli Angeli che avranno pianto il nostro spergiuro. Proprio sul legno benedetto della Croce, che ricorda la misericordia di Dio infinita, Gesù ha dovuto appendere, come Papa Stefano II, la prova vergognosa della nostra ingratitudine e della nostra cattiveria. Ma, se noi vogliamo, Gesù è ancora pronto a perdonare e per un atto di sincero dolore, scriverebbe ancora col suo sangue un’amicizia più bella. – 2. NON RACCOGLIE CON GESÙ CHI NON HA RETTA INTENZIONE. S. Agostino, nelle sue Confessioni, racconta questo episodio. Mentre l’imperatore Teodosio era a Treviri a vedere i giochi del Circo, due dei suoi cortigiani vollero rinunciare a quei divertimenti per godersi qualche ora di libertà dei campi. Attraverso un bosco, giunsero ad una rozza capanna solitaria. Entrarono, ma non c’era nessuno. Squallide pareti, poche masserizie, una grande croce. Sopra una tavola tarlata, stava aperto un libro, logoro dall’uso continuo. Uno di loro lo prese in mano e si mise a leggere forte: era la vita di S. Antonio Abate. Intanto la grazia lavorava in quelle anime, e colui che leggeva deponendo il libro, cominciò: « Noi allora siamo su una strada sbagliata! Dove vanno a finire le nostre azioni? Che facciamo al servizio dell’imperatore? Sopportiamo fatiche, accettiamo umiliazioni, affrontiamo contrasti per divenire suoi favoriti: e poi… ci attiriamo invidie, calunnie e nulla più. Teodosio è un uomo mortale… potrà essere immortale la sua mercede? Lasciamo un padrone che dovrà morire, per servire Iddio che non muore mai! ». E tutti e due si fecero eremiti (Confessioni, lib. VIII, c. 6). – Anche noi, o Cristiani, abbiamo spesso bisogno di staccarci dalle cose del mondo per raccoglierci un poco nel fecondo silenzio di una meditazione severa. Se in questa solitudine dell’anima noi leggessimo gli esempi dei Santi e facessimo passare almeno qualche pagina della nostra vita, vedremmo, come quei cortigiani, quanti passi sono davvero perduti, quante azioni rimangono senza frutto, quanto tempo è miseramente sciupato. Manca la retta intenzione, manca l’offerta a Dio delle opere nostre ed allora rimane il vuoto. «Chi non raccoglie con me, disperde », dice Gesù nel Vangelo di oggi. Che direste voi di un contadino che lavora tutto l’anno il suo campicello e poi, quando giunge il tempo della messe, si vede disperso dalla bufera e dal vento tutto quanto il raccolto? È quello che capita all’anima di colui che non ha la retta intenzione. – Quando andiamo alla Chiesa soltanto per farci vedere o per una intenzione tutt’altro che santa, noi disperdiamo ogni cosa: non è con Gesù che facciamo il raccolto. Quando il lavoro di ogni giorno è compiuto unicamente per fare danaro, la nostra mercede l’abbiamo già ricevuta. Il padrone che abbiamo servito non è il Dio che non muore ma è un tesoro che la ruggine può sempre corrompere ed i ladri possono rapirci. – Dovessimo fare le grandi elemosine di S. Carlo Borromeo, se ci manca la intenzione giusta, diventeremmo poveri anche davanti a Dio; facessimo pure le grandi penitenze dei padri del deserto, se non ci muove la gloria di Dio saremmo degli stolti: perdiamo i piaceri della terra e non acquistiamo quelli del cielo. – Supponete che un uomo abbia impiegato parecchi giorni e parecchie notti a comporre una lunga lettera da cui dipende un affare di capitale importanza, ma, dopo averla ben descritta, la consegnasse alla posta con l’indirizzo sbagliato. Poveretto! Ha sciupato tutto il suo tempo e ha concluso nulla! Cristiani, se le nostre azioni, da cui dipende la nostra salvezza eterna, le cominciamo senza la grazia di Dio o con una intenzione che non riguarda il Signore, noi sbagliamo indirizzo. O siamo andati contro Gesù o non abbiamo raccolto con Lui: le nostre mani rimangono vuote. — IL DEMONIO DELL’IMPURITÀ. Mentre Gesù predicava gli condussero davanti un povero indemoniato, perché lo liberasse. Lo spirito immondo che travagliava quell’infelice è il demonio dell’impurità. E lo possiamo dedurre dalle parole del santo Vangelo: a) illudque erat mutum: un demonio muto che non lo lasciava parlare. Se c’è un peccato che ci fa diventar muti nella santa Confessione e che per palesare occorre vincere una grande e diabolica riluttanza è appunto il peccato impuro: b) ambulat per loca inaquosa: quærens requiem et non inveniens. L’impuro può stordirsi nella burrasca delle passioni, può tentare qualsiasi divertimento e saltare qualsiasi barriera, ma nel suo cuore c’è un’arsura che non si placa, è un fuoco e non si spegne. Chi non ricorda la notte dell’Innominato? c) Et fiunt novissima illius, peiora prioribus. Poche parole, ma tremende. Ogni ricaduta in questo peccato, è un nuovo salto nel precipizio, sempre con minor speranza di poter risorgere, perché indebolite le forze nostre spirituali, siamo zimbello di ogni capriccio di satana. Eppure il mondo, e fors’anche non pochi Cristiani. stimano questo peccato una cosa da nulla, un bisogno della natura, una galanteria, Ci apra Iddio gli occhi, ci faccia comprendere la gravità del peccato impuro, ci doni la forza contro ogni suggestione della carne. – 1. DEMONIO DELLA MUTOLEZZA I nemici della religione hanno gridato che il Sacramento della Penitenza è una carneficina d’anime. Noi sappiamo come questo non sia vero: e che una grande serenità e un’intima pace viene in noi dopo aver confessato i nostri difetti con sincerità davanti a Gesù Cristo. Forse la calunnia degli avversari è vera nel senso che per confessare certe miserie è necessario vincere la nostra superbia, è necessario farci grande violenza, è necessario scacciare il demonio che con la sua mano ci tura la bocca. …Et cum eiecisset dæmonium, locutus est mutus… Talvolta oppressi dalla vergogna, piuttosto che confessare la propria colpa e risorgere, si preferisce perdere la fede e negare la verità del sacramento della Confessione. Ecco perché il Santo Curato d’Ars faceva confessar tutti quelli che a lui si presentavano anche se dicevano di non credere più. « Ma signor Curato, io non vengo a confessarmi, vengo per ragionare… ». « Non importa, inginocchiatevi ». « Ma Padre… ». « Scacciate quel demonio che vi chiude la bocca e parlate ». Credetelo, Cristiani, i sacrilegi della Confessione, quelli magari che si trascinano in lunghe catene fino al letto di morte e oltre… cominciano da qui, dal peccato impuro. – Un giorno in mezzo alla Corte, ove eransi radunati molti illustri cittadini, apparve il profeta Geremia attorcigliato da immense catene. Tutti stupirono: ma egli gridò: « Hæc, dicit Dominus, subiicite colla vestra sub iugo regis Babylonis, et servite ei ». Chi è questo re di Babilonia? Il demonio impuro. Quel demonio che prima dipeccare vi dice: godi; poi, se ci sarà bisogno, ti confesserai! Ma poi vi chiude la bocca, e vi lega con infinite catene, così che immobili siete trascinati dal fiume torbido che sfocia all’inferno. Così dopo averci rovinato l’anima, il demonio impuro cerca anche d’impedirci il divino rimedio che solo ci può guarire. – 2. DEMONIO DELL’INQUIETUDINE. Lo sventurato Lamennais, forse senza saperlo, ha scritto una leggenda piena di verità. In un giorno di afosa caldura un uomo assetato vide al basso d’una costa una vite carica di grappoli maturi: ma tra lui e quel frutto dissetante s’adagiava una palude melmosa. Rimase un momento in forse. Ma poi si decise: « Può darsi che il fango non sia alto ». E vi entrò. Mano mano che procedeva, il suo piede affondava; coperto da una fanghiglia nera che gli cola da ogni membro, protende la mano e strappa quel frutto fatale, lo divora avidamente, trovandolo alla seconda boccata assai meno dolce e dissetante di quello che s’era ripromesso. Poi cerca un’acqua che lo lavi. Invano: l’odore della melma resta: ha penetrato la sua carne, le sue vene, le sue ossa ed esala incessantemente, formando intorno a lui un’atmosfera fetida. Egli si esaspera invano. Balza nella notte, riprova a lavarsi: invano. Non ha più pace. Gli uomini civili lo fuggono: s’è fatto un rettile, vive tra i rettili. Così è dell’uomo impuro: quærens requiem et non inveniens. Ricordate il rimorso dell’impuro Erode che ad ogni istante intravvedeva la figura del profeta ucciso, ne udiva come un tuono, la tremenda voce: e muore disperato: quærens requiem et non inveniens. Et non inveniens: da parte di Dio Creatore e Giudice della sua vita e delle sue azioni. Et non inveniens: neppure in mezzo alle impure fiamme che lo incendiano. L’uomo voluttuoso che crede di trovar riposo nell’accontentare i suoi reprobi desideri perde la sua pace e non può ritrovarla. – S. Agostino ne fece l’esperimento per diciassette anni. Ed esclama: « Mio Dio! Quanto ero infelice; un’immensa tristezza riempiva il mio cuore… portavo dentro un demonio… tutto l’inferno nell’anima… Io morivo… ». – 3. DEMONIO DELLE DISASTROSE CADUTE. Dio aveva dato al suo popolo un tempio stupendo. Costruito con pietre perfette, era stato ricoperto di lamine d’oro, ornato con statue e con marmi di terre lontane, abbellito con gemme e rarissime perle: c’era voluta tutta la ricchezza di Salomone e tutta la sua sapienza. Ma un giorno di guerra, passò un nemico spietato ed il tempio degno di Dio fu distrutto e gli Israeliti trasportati a piangere lungo i fiumi di Babilonia. Finito l’esilio, Dio suscitò Zorobabele a riedificare il tempio. Ma nel giorno della dedicazione, mentre i giovani tripudiavano, i vecchi, ricordando la magnificenza del tempio di Salomone, scoppiarono in pianto davanti alla modestia del nuovo. Ma venne un giorno di guerra: passò il nemico e profanò con mano sacrilega e distrusse il secondo tempio: non rimase pietra su pietra. E quando si tentò di riedificarlo dopo la distruzione romana, balzarono dal suolo globi di fuoco a significare che pesava un tremendo anatema sopra quel tempio due volte risorto e due volte caduto. Et fiunt novissima peiora prioribus. Quest’anima umana, questo tempio di Dio, se è calpestato dal nemico impuro una volta, potrà risorgere, ma l’unghia del cavallo del demonio come già quello di Attila vi lascerà sempre un’impronta. Se poi l’uomo ricade più e più volte in questo peccato, fiunt novissima peiora prioribus e non risorgerà più. Fiunt novissima peiora prioribus: ogni volta che cadiamo anche risorgendo, saremo sempre più deboli. Fiunt novissima peiora prioribus: perché Dio non parlerà più: come già Cristo davanti al disonesto tetrarca. Fiunt novissima peiora prioribus: perché il peccato impuro acceca così che si calpestano tutti i doveri più sacrosanti: la famiglia, la moglie, i figli, gli interessi, la pace, la salute, l’onore, l’amore, e perfino il santo Paradiso. –  Una volta, in Grecia, era scoppiata una peste orrenda che mieteva innumerevoli vittime. I capi delle città spaventati domandano consiglio a Ippocrate, e questi rispose: « Si accendano fuochi a monte, fuochi a valle, fuochi nei villaggi, fuochi nelle città. Purifichiamo l’aria! ». La nostra società è contristata dalla peste del demonio impuro. Fuoco! È necessario del fuoco che purifichi, che abbruci in noi le fibre malsane, che consumi ogni affetto non santo. Questo fuoco è la mortificazione: fuoco che deve purificare le cime e i pensieri impuri, le valli degli affetti torbidi, ed ogni parola ed ogni azione.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps XVIII: 9, 10, 11, 12

Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulci ora super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.

[I comandamenti del Signore sono retti, rallegrano i cuori: i suoi giudizii sono più dolci del miele: perciò il tuo servo li adempie.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.

[Ti preghiamo, o Signore, affinché questa offerta ci mondi dai peccati, e santifichi i corpi e le anime dei tuoi servi, onde possano degnamente celebrare il sacrificio.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXXIII: 4-5 – Passer invénit sibi domum, et turtur nidum, ubi repónat pullos suos: altária tua, Dómine virtútum, Rex meus, et Deus meus: beáti, qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te.

[Il passero si è trovata una casa, e la tortora un nido, ove riporre i suoi nati: i tuoi altari, o Signore degli eserciti, o mio Re e mio Dio: beati coloro che abitano nella tua casa, essi Ti loderanno nei secoli dei secoli.]

Postcommunio

Orémus.

A cunctis nos, quaesumus, Dómine, reátibus et perículis propitiátus absólve: quos tanti mystérii tríbuis esse partícipes.

[Líberaci, o Signore, Te ne preghiamo, da tutti i peccati e i perícoli: Tu che ci rendesti partécipi di un così grande mistero.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA