QUARESIMALE (XXXIII)

QUIARESIMALE (XXXIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711).

PREDICA TRENTESIMATERZA
Nella feria sesta della Domenica di Passione.

Il peccatore disonesto è per verità gran peccatore; grande per la qualità del fallo; grande per il numero de’ peccati; grande per la malizia con cui li commette.

Fornicatio autem, et omnis immunditia, nec nominetur in vobis sicut
decet Sanctos.
L’Apostolo San Paolo, Epist. Eph. 5.

Eccomi su questo pulpito stamane, risoluto di prendermela a faccia scoperta col brutto mostro della disonestà, giacché egli è quello che col piede indegno calpesta il più bel fiore della Cristianità, con l’alito pestilente l’avvelena, e col dente maligno la lacera. È vero, che d’un vizio di tal sorta neppure converrebbe parlarne o nelle contrade egiziane o nelle moschee de’ Turchi. È vero che l’Apostolo ci vieta eziandio il nominarlo, ma come può tacersi, mentre l’ammorbato lago delle sue abominazioni si è talmente dilatato che la povera colomba non ha ormai ove posare innocente il piede, e dappertutto s’incontrano sozzi amori. Entrate nelle case, ecco gli amori; andate nelle piazze, ecco gli amori, portatevi alla campagna … ecco gli amori. Che più? Penetrate i Santuari, le Chiese, e quivi pure troverete indegni amori: che occorre di più? Basti dire che talora le lordure si nascondono sotto gli abiti stessi più sacrosanti. Si, dico dunque, ne parlerò di questo brutto mostro. Ma tu, o sole, intanto nascondi per l’orrore i tuoi raggi. Me la prendo dunque con zelo apostolico contro de’ disonesti, i quali, dopo d’essersi satollati de’ frutti pestiferi di questa pianta infernale, si ricoprono poi con le sue fronde; spacciando che il loro fallo alla fine non è altro che una mera fragilità. Orsù, io voglio strapparvi d’intorno queste fronde d’una scusa del tutto bugiarda, la quale raddoppia più tosto la vostra malizia e farvi veramente toccar con mano, che un uomo disonesto è per verità gran peccatore. Qua, qua, alle strette, alle prese. Che cosa si richiede perché uno possa dirsi gran peccatore? Tre cose: la qualità de’ falli, il numero, la malizia. Vediamo se tutte tre concorrono in un disonesto, e poi negate, se potete, che il disonesto non sia un gran peccatore. Se vogliamo ben conoscere questa verità non bisogna che consideriamo il peccato della disonestà con l’occhio de’ disonesti per una debolezza, per una fragilità, per una quasi necessità di natura alla condizione dell’uomo troppo connaturale; ma bensì come ce lo rappresenta la Fede ed i sacri Dottori. – La Fede ce lo rappresenta per una colpa tale, che basta tenere un’anima sommersa nel fuoco per una eternità per colpa tale, che se Dio fosse capace di dolore, più disgusto gli recherebbe un peccato disonesto che non gli recano di consolazione tutti gli ossequi di quanti regnano in Cielo: colpa tale che mai potrebbe pagarsi adeguatamente da tutte le opere buone di mille mondi; ancorché fossero pieni d’anime sante, ed ognuna di loro fosse più Santa che ora non è la Vergine Santissima. Or io dico, una colpa sì pestifera potrà chiamarsi da gente battezzata il minor male che commetta l’uomo? Ah lingua sacrilega, lingua scomunicata! Taci, taci … E di’ piuttosto che questo peccato è una grandissima iniquità: nefas est, et iniquitas maxima. Né solo è grande in sé stesso il peccato della disonestà, ma è grande anche paragonato con gli altri. L’Angelico San Tommaso insegna che tra quei peccati o che offendono la carità del prossimo o di noi stessi, toltone l’omicidio, il più grave è la disonestà: più grave che non è il furto, che tanto s’odia, privandoci de’ nostri averi; più grande della detrazione della fama, della reputazione che dalle persone onorate si stima più della vita. E la ragione si è, perché i peccati de’ disonesti, sebbene non sono contro la vita d’un uomo già nato, come sono gli omicidi, sono però contro la vita di un uomo che può nascere, o privandolo affatto d’essa vita, o dandogliela con modo disordinato e contrario a quello che intende la natura. Oh che peccato è mai questo della disonestà! E se è tanto male in gente libera, che sarà se vi è parentela d’affinità? Peggio di consanguineità? Peggio, spirituale? Che farà se si manchi di fede al marito, alla consorte, se si manchi di fede a Dio oltraggiando il voto di castità? Che sarà se si irriti il Cielo ad incenerirti con i cittadini delle pentapoli nefande? Sebbene, che dico? I disonesti non sono capaci di prove sì chiare; merceché dalla Scrittura sono paragonati agli ubriachi privi di senno: Fornicatio, ebrietas auferunt cor. È necessario che io per convincerlo mi serva d’argomenti più grossi. Diciamo dunque così: quel peccato che la giustizia Divina ha sempre più severamente perseguitato in terra e più acerbamente punito, convien dire che sia quello che ella più abomina; giacché siccome i benefizi sono manifesti segni d’amore, così i castighi lo sono d’odio. Or se così è, o disonesti, bisogna, che voi affermiate queste due proposizioni: la prima, che niuno eccesso ha Iddio vendicato con pena più universale e più tremenda, di quello che abbia vendicato la disonestà; la seconda, che niuno altro eccesso è solito Egli di vendicare con simil pena. Angeli Santi, che foste ministri della Divina Giustizia; allorché rotte le cataratte del cielo, lasciaste cadere a diluvi le acque sopra la terra. Ecco rotto ogni lido a’ mari, ogni argine a’ fiumi; ecco, che il mondo si sommerge, uomini e donne, grandi e piccioli, nobili e plebei, principi e sudditi, monarchi e vassalli; tutti alla rinfusa restano sommersi sotto dell’acque. E perché, Angeli Santi, un mondo intero affogato sotto dell’acque? Eccone la ragione, rispondono quegli Spiriti Angelici. Dovete sapere, che gli uomini a quel tempo, s’erano ingolfati nelle abominazioni del senso, e però erano divenuti sì odiosi agli occhi divini, che Iddio non potendoli più sopportare ebbe a dire: non permanebit spiritus meus in homine in æternum, quia caro est, che vale a dire, come spiega la Glossa, troppo dato a’ vizi della disonestà; idest nimis implicatus peccatis carnalibus. Onde Iddio affogo’ i colpevoli, perché  infetti nelle disonestà affogò gli innocenti perché  non si infettassero: mostrando in tal forma nella morte degli uni e degli altri, l’odio che porta alle disonestà. Disonesti qua: un’occhiata a questo gran monte di cadaveri: specchiatevi, e nel vederlo dite, se vi dà l’animo, che la disonestà è il minor male che commetta l’uomo. Ditemi: se Iddio per eccessi simili mandasse in rovina tutta la vostra città, ardireste di dire che è poco peccato? E se passasse a mandare in rovina tutta l’Italia, direste che è un male di poco rilievo? No per certo. Ah iniqui! Ed ardirete di dire che l’esser disonesto è poco male, mentre ha tirato seco la rovina del mondo tutto? Da qui avanti, o disonesti, o negate fede alle Divine Scritture, o strappatevi di bocca quella lingua malvagia, prima che torniate a dire che la disonestà è il minor male che si commetta. O che gran male è la disonestà! Basta dire, come osserva San Tommaso di Villanuova, che Iddio non manda certe stragi universali per altro delitto che per questo. È comune opinione degli espositori, che la desolazione intimata già a Ninive, adbuc quadraginta dies, et Ninive subvertetur, non per altro seguisse che per la disonestà. Cari miei UU. se sono infettate da pestilenza le città, date la colpa alle lascivie; se sono scosse da terremoti, sicché non rimanga, quasi dissi, pietra sopra pietra: sia la colpa de’ disonesti. La disonestà porta le carestie, la disonestà arma le milizie, e se mi direte: Padre abbiamo riscontri che questi castighi, e particolarmente i terremoti, siano mandati da Dio, non per le disonestà, ma per il poco rispetto alle Chiese? Io vi rispondo che avete ragione. Ma ditemi, perché si rispettano poco le Chiese? Per parlarci disonestamente, per farci all’amore, come se si stesse ne’ postriboli, contrattandosi l’onor della maritata, la castità della donzella. – Il vizio della disonestà tanto abominevole agli occhi di Dio, è abominato anche da’ Santi in Cielo, dalle bestie in terra, da’ demoni dell’inferno. Era già Maria Maddalena de Pazzi ad abitare tra’ Serafini del Cielo, quando nel suo medesimo cadavere mostrò d’aborrir tanto un giovane impuro venuto a vederla … che così morta gli voltò le spalle. San Francesco di Paola abominò tanto una donna intaccata di questa pece che, essendo ella con le altre venuta in Napoli per baciare un dente del Santo racchiuso in un prezioso cristallo, il dente si ruppe per mezzo. Santa Francesca Romana passando d’avanti la porta d’una donna malvagia, ebbe a venir meno; ed a Santa Caterina di Siena si rendeva intollerabile il fetore di alcuni peccatori disonesti. Ma che gran cosa che sia in odio a’ Santi, mentre è abominato anche dalle bestie? Racconta Tommaso Cantipratense, come una certa femmina data in preda agli amori andava di male in peggio: quando Iddio per ravvederla, mentre ella dormiva gli si fece vedere assiso in trono in forma di giudice, assistito da numerose squadre d’Angeli ed Arcangeli, e da schiere beate di Vergini, Martiri e Confessori, e già stava per udire la sentenza di dannazione. Si raccomandò allora la giovane, ed ottenne la grazia di non esser condannata ma di aver tempo di far penitenza, e sentì dirsi: lascia veglie, lascia balli, lascia amori. Giovò questa visione per qualche tempo; ma perché era tanto invischiata in quei maledetti amori, tornò come prima a vagheggiare, ed a farsi vagheggiare barattando colpe, e con gli occhi, e con fatti. Volete altro? non potendo più Iddio tollerare la di lei disonestà, la buttò ammalata in un letto; indi a poco la mandò la morte, e passò all’altra vita senza Sacramenti. Sollevato il cadavere, secondo il costume, fu posto sopra una tavola in una camera: quando ecco si vedono entrare due cani mastini, che ben mostrarono d’essere avidi di saziarsi di quelle laide carni: s’avventarono, ma ne furono respinti la prima volta, non così nel secondo assalto; poi che addentarono fieramente quel cadavere, che tutto ridussero in pezzi, e con il loro urlo chiamarono quanti erano cani nella città a saziarsene. Né solo i disonesti sono in odio alle bestie, ma agli stessi demoni: sì, sì, a’ diavoli stessi. È certo che vari demoni sono occupati a tentarci, chi d’interesse, chi di vendetta, chi di superbia. A tentare di disonestà, credete voi che siano occupati i compagni di lucifero, che vale a dire, i più nobili? Appunto, i più vili, i più sozzi. Ecco le parole di San Tommaso: dicuntur magistri aliquot dæmones, qui memores antiquæ nobilitatis dedignatur de luxuria tentare. Non occorre altro: siete in odio, o lascivi, anche a’ diavoli; ed appunto uno di questi si lasciò vedere ad una rea femmina, allorché lordava col corpo l’anima e dissegli: ohibò, ohibò! Lasciandola ivi tramortita. – Dite ora, se potete, che il peccatore disonesto non sia un gran peccatore, mentre è in odio fino a’ diavoli. Dite, che la disonestà è il peccato più leggero; che io ve ne do la smentita; soggiungendo che in radice è il maggiore, perché e padre di furti, di risse, di omicidi, d’irriverenze alle Chiese, e di quanti prescrive precetti Dio e ne comanda la Chiesa. Datemi mente: confesserete ancor voi la gravezza della disonestà. E se sono detestabili i disonesti per la gravezza del fallo; niente meno lo sono per il numero delle loro lascivie; certo che con ogni ragione quel demonio che teneva gli uomini di disonestà si chiama nella Scrittura Sacra: Asmodeo che, secondo la forza della lingua santa vuol dire: abbondanza di peccati; perché chi si dà in preda a questo vizio ne commette tanti e tanti, che egli stesso non ne sa rinvenire il numero. O quanto mai cresce la gravezza di questo peccato per la moltitudine che se ne commettono! Sacri confessori se a’ vostri piedi si presenta un ladro, un assassino di strada, un bestemmiatore, è pur vero che sanno ridirvi il numero delle loro colpe: ma se vi viene un disonesto, tanti sono i peccati commessi ne’ pensieri, nelle parole, nell’opere, che non ve ne sa dire il numero, e se voi nuovamente l’interrogate: quanti? Egli vi risponde: non lo so, … ma lo sa il diavolo, se non lo sai tu, che li ha registrati tutti a tua dannazione. Quanto tempo è che divenisti infedele a Dio per osservar la fede di una donna infedele al suo consorte. Sono mesi, sento rispondermi, sono anni, ed i peccati commessi chi può saperli? Quanto tempo è, o femmina, che ti adorni disonestamente per piacere a chi non devi? Quanto tempo è che vivi nelle braccia del diavolo? Sono anni, ed i peccati chi li sa? Quanti, o Dio, a tre peccati mortali il giorno in quindici anni, sono più di sedici mila peccati mortali, e pure vi saranno tanti e tanti, e forse anche in questo luogo, che tra compiacenze malvagie, tra desideri iniquità, tra scandalosi tentativi ed opere consumate, arriveranno … Iddio sa a quanti peccati il giorno, e ciò non per lo spazio solo di quindici anni, ma di venti, ma di trenta e più; e però chi può sommare il conto delle loro colpe? E poi ardite di dire, che non sono nulla i peccati di senso; mentre non cedono, ma superano ogn’altro nel numero.  Aggiungete di più, che ogni peccato disonesto, e ben spesso come quel frutto del Malabar, che ognuno ne racchiude più di trecento; sguardi, cenni, parole,
mezzi malvagi, ond’è che giustamente San Pietro chiamò questo vizio: diletto che non ha fine: oculos habentes plenos adulteri, et incessabilis delicti; perché ben spesso si principia dagli anni più teneri, e non si finisce finché la morte non viene col suo freddo fatale a smorzar quelle fiamme di disonestà; trovandosi ben spesso chi a guisa del mongibello di fuori e bianco per la canizie, di dentro avvampa di lascivia. Prima che la Santa Fede dileguasse nella gran Città del Messico le tenebre della idolatria, ogn’anno si sacrificavano al demonio i cuori di ventimila fanciulli raccolti da tutto il Paese, e miseramente scannati. È bontà del nostro Iddio, che a nostri giorni e ne’ nostri Paesi non si pratichino sacrifici tanto inumani; ma è altresì malizia esecranda di satanasso l’aver tra’ Cristiani addomesticata sì fattamente questa furia infernale della disonestà, che per essa si sacrificano al demonio ogni dì un numero senza numero di Cristiani; e se gli sacrifica non solo il cuore materiale, ma l’anima ed il corpo; ed in ogni luogo, ed in ogni momento s’alza altare e si compisce l’orribile sacrificio. Dissi che gli si sacrifica non solo l’anima, ma tutto il corpo ancora, perché  gli altri peccatori offendono la loro anima; ma i disonesti offendono ancora il corpo: qui fornicatur in corpus suum peccat; di più se gli offre in olocausto perché non si riserba parte alcuna: non gli occhi, che come tante spie vanno sempre in cerca di nuovi oggetti; non le orecchie sempre attente ad udire laide canzoni e ragionamenti disonesti, non la lingua sempre occupata a promuoverli; non le mani, non i piedi tutti ministri d’oscenità. Dissi in ogni tempo ed  in ogni luogo; perché non dirò quale strada, qual piazza, ma qual casa, e qual Chiesa dove l’onestà abbia ai dì nostri un sicuro riparo, e qual tempo, ove ella possa quietamente posare? E non è vero che il sonno stesso non è in costoro innocente abbastanza, mentre aggirandosi per la fantasia quei fantasmi d’impurità che hanno un franco commercio tutta la giornata, espongono anche ad occhi chiusi in vista de’ miserabili disonesti, laide rappresentazioni che, quasi mercanzie di gran pregio, sono da loro comprate con un libero consenso, quando gli svegliano; e pagate allegramente con rinunziar per esse al Paradiso. Una vita dunque così pestifera, il di cui ordito sono perpetui desideri, perpetui incitamenti, ed il ripieno sono perpetui eccessi talora sconosciuti fino alle bestie; una vita, dunque, di tal sorta chiamerete fragilità? Il minor male che si commetta? Eh, che bisogna una volta gettar giù dalla faccia questa maschera che vi sta sì male; non bisogna più dire: che peccato è? Che mal è una fragilità? Bisogna bensì dire che mal è un numero senza numero di migliaia de’ più abominevoli peccati che commetta l’uomo, un numero senza numero di peccati, de’ quali si vergogna lo stesso demonio, un numero senza numero di peccati che allontanano l’anima affatto da Dio, più che comunemente non fanno gli altri; giacché al dire di San Tommaso: Homo per luxuriam maximè recedit a Deo, un numero senza numero di peccati per cui l’uomo è divenuto tutto del diavolo; così asserisce San Cipriano demon totum hominem agit in triumphum libidinis; un numero senza numero di quei peccati per i quali si riempie l’inferno; così attesta San Remigio exceptis parvulis per carnis vitium pauci salvantur. E questo è quel peccato che voi chiamate da nulla, e lo ricoprite col nome di fragilità, che la volete far comparire per una febbre necessaria allo sconcerto della vostra natura e per una necessità di condizione umana. Ah stolti indegni! Ben si vede che non solo siete ciechi, per aver gli occhi chiusi, ma siete ciechi perché ve li cavate, per non vedervi. Piacesse al Cielo che questa nostra cecità bastasse per alleggerire le vostre colpe; appunto non può essere, perché le vostre colpe sì gravi per la qualità, e sì intollerabili per il numero, si rendono gravissime, perché le commettete con una strana malizia. Uditemi. Chi pecca per abito, dice San Tommaso, non pecca per infermità, o fragilità, ma pecca per malizia. Ditemi: evvi ́mai niun peccatore, il quale più pecchi per abito del disonesto? No per certo, il peccatore disonesto, con atti tanto intensi e tante volte replicati, produce in sé un abito fortissimo. Un atto solo vizioso basta talora per formare una dura catena del male costume. O giudicate voi, le basteranno poi tanti e tanti, che vi si aggiungono
alla giornata: questi rinforzeranno ogni dì più quei legami infernali e li renderanno più difficili ogni volta che di a sbrigarsene, aggravabit compedes vestros, ut non egrediamini; ed ecco donde nasce principalmente quella adesione al bene creato, per la quale sebbene il peccator disonesto non è sempre il maggior di tutti secondo la sua specie; diventa il maggior di tutti nel suo individuo; tanto segue ad insegnare l’Angelico: si hoc peccatum secundum speciem non fit majus aliis: est majus in individuo quia fit cum adhæsione maxima. Ad Alessandro Magno furono donati alcuni cani sì bravi, i quali afferrata che avevano una volta la preda, non lasciavano mai più: e per farne la prova; ad un di essi, che aveva addentata una fiera, gli fu tagliata prima una zampa, e poi l’altra, indi le cosce, e poiché tuttavia teneva stretti i denti fu tagliato per il mezzo, e non bastando anche questo, gli fu reciso il collo; credereste, anche col collo reciso, e così morto seguiva a tener stretta la preda. Queste bestie così avide ed indivisibili da quelle fiere alle quali s’attaccano, sono il vero ritratto de’ disonesti, i quali quantunque si vedano della età già cadente fare in pezzi; benché provino la mancanza delle forze; pur seguono a tenersi co’ desideri quel diletto infelice che fugge loro dalle mani, finché tagliati per mezzo dalla morte, lasciano talora un buon legato all’amica; non volendo che neppure la sepoltura abbia tante ceneri da sorpassar l’ardor maledetto del loro amore. E questo operare, voi ardirete chiamare peccar per fragilità; ed il vivere in questa foggia farà commettere il minore de’ mali? Mi meraviglio di voi! Questo è un peccar da demonio vestito d’umane membra: questo è un non volere abbandonar il peccato, finché il peccato non abbandona: fornicati sunt et non cessaverunt. Dite pure, e direte con tutta verità, che il peccatore disonesto è per verità un gran peccatore, ed è pur vero che a tutte queste prove, vi son di quelli che tanto ardiscono dire: che cosa è un peccato di disonestà? Se così è, che posso io far di più: so io quello che farò, verrò a praticare stravaganze; e giacché i disonesti sono ottusi per le loro lascivie, né hanno mente per piegarsi alle ragioni, gli farò vedere con i propri occhi, e toccar con le proprie mani; quanto siano gran peccatori, con esser disonesti. Olà peccatori disonesti, fissate gli occhi in questo Cristo ed in vederlo così maltrattato, ravvisate la grandezza del vostro peccato: udite le parole dell’Eterno Padre, il Quale vi rende la ragione, perché Egli abbia posto su questa Croce il suo Figliuolo: propter scelus populi mei percussi eum, per la scelleraggine del mio popolo; qual è la scelleraggine popolare? Gli amori indegni, le sozze disonestà, le sue grandi lascivie. Eccolo, dunque, per questa scelleraggine popolare, lacero da capo a piedi. Eccolo confitto, e pendente in un legno, ricoperto di sangue, e di piaghe, trapassato da tante spine nel capo: eccolo agonizzante, privo d’ogni conforto. Questo è l’operato da te o disonesto, propter scelus populi mei percussi eum. Tu, dunque, con andare in quella casa, con mantenere quella pratica, col durare in quella occulta corrispondenza hai piagato, hai crocifisso il tuo Signore, il tuo Dio? Ed ardirai di chiamare fragilità un tale eccesso? Taci, e se vuoi apri bocca, aprirla solo per detestare le tue colpe, per domandare misericordia. Sebbene a che riscaldarmi? Merceché ai peccatori disonesti nulla premono i patimenti o la morte di Cristo. Non so pertanto chi mi tenga che io non venga qui a stravaganze. Una onorata fanciulla
vedendosi lungamente perseguitata da un giovine disonesto, tentò tutte le arti per rigettarlo: usò preghiere, adoprò ammonizioni; mischiò minacce; ma tutto invano, perché lo sfacciato giovine avendo un dì osservato esser sola rimasta in casa la donzella; ebbe ardire d’aprir la porta, salir le scale, giungere alla sala e finalmente arrivare alla camera della fanciulla, la quale in vedersi comparir davanti improvviso quel giovine indegno, s’impallidì, intimorì come alla vista d’un orribile serpente; e non sapendo in quello sbigottimento d’animo, in quella contusione di pensieri come difendersi, nel cercar che voleva scampo e nell’alzar che fece gli occhi per domandare aiuto dal Cielo, vide un gran Crocifisso, che ella teneva appeso nella sua stanza, e presolo, corse frettolosa alla porta della camera, e quivi attraversato alla soglia, lo collocò: indi con volto acceso, con guardo fosco, con voce più che femminile ripiena di tanto ardire gridò: vieni pure, vieni e sfogati, o scellerato; ma ecco d’onde ti convien passare: su questo Cristo. Se ti dà l’animo di prima conculcare le sue membra, io sto per dire, avrò pazienza, che poi profani le mie. Restò a tal atto quel giovine ed a quelle voci non so se più stupito per la novità, o se più confuso per la vergogna, cambiò il sembiante in mille colori, e prostrato a’ piedi di quel Cristo, parlò assai più con gli occhi che con la lingua; si disfece in pianto, si dolse dell’ardire; ne domandò il castigo; ne propose l’emendazione; ma se quel giovine miei UU. avesse operato tutto l’opposto, ed avesse posto il piede sulla faccia, sulle piaghe di quel Cristo, voi v’inorridireste al racconto; e se l’aveste potuto aver presente con le vostre, meritatamente l’avreste sbranato. Or sappiate che voi non potete entrare in quella casa; né potete penetrare in quella camera; non potete passare per quella strada, voi m’intendete; senza mettere i piedi sulle piaghe adorate di questo Cristo; se non visibile, almeno certo invisibile. Se così è, disonesti, saziatevi, conculcatelo, strapazzatelo: eccovelo sotto de’ piedi. O Dio! In che modo barbaro bisogna mai predicare! Andate pure, o disonesti, a sfogare i vostri capricci, che Gesù intanto si rimarrà a scontar con le sue pene i vostri delitti: voi andrete a posarvi su morbide piume, egli si rimarrà a spasimare sì duro patibolo: voi andrete ad inghirlandarvi di molli fiori; egli rimarrassi a languire fra spine acute: voi andrete a passar le ore in trastulli libidinosi, e Gesù rimarrà ad enumerarle fra mortali agonie. Voi finalmente a godere, e Cristo a patire. Possibile che ad ogn’altro si abbia da dare l’amore fuorché a Gesù? Qui non amat Dominum Jesum anathema sit; chi non ama Gesù gli sia strappato il cuore dal petto, sia scomunicato. Ma voi singolarmente vorrei l’amaste. Donzelle, voi che andate così perdute dietro a quei vostri innamorati: che pensate, che vogliono? Belle parole, belle promesse: ti piglierò; ti sposerò; ti renderò l’onor tuo, fin tanto che siano giunti a contaminare, a togliervi l’onestà; e dopo poi darvi de’ calci, voltarvi le spalle: non voler più saper nulla di voi. Eh via, siate voi le prime a sprezzarli, non li guardate più; mandateli alla malora. Ecco l’Amante vostro, eccolo, eccolo, donatevi a Lui; consacratevi à Lui! O che bell’Amante è Gesù. Questi errori malnati partano da voi, e tornino ad abitare negli abissi, donde sono usciti. Tra di noi chi ha da regnare? L’amor di Gesù, viva, viva Gesù, viva Gesù! Questo ricolmi i nostri cuori, e vi benedica.

LIMOSINA

Gli antichi Cristiani che ben conoscevano, la limosina esser il vero modo d’ottenere il perdono dei peccati, se non avevano con che far limosina, digiunavano e davano parte del loro cibo a’ poveri. Che dirò io di coloro i quali senza togliersi nulla di bocca hanno tanto che dare, son comodi, son ricchi, e pure non danno un soldo? E gli pare d’aver usato gran atto di carità se dicano al povero: Dio ve ne dia, andate in pace, perché molti li scacciano con le brutte.

SECONDA PARTE.

Voi avete inteso, miseri disonesti, siete gran peccatori, e quel che a me dà pena maggiore, è il vedere che quantunque siate in tante miserie, ad ogni modo non cercate rimedio al vostro male. Ditemi: quando mai si trova un disonesto che cerchi rimedio al suo male, che si raccomandi a Dio, che ricerchi l’aiuto di Maria; che a questo effetto digiuni, faccia limosina; in una parola, ponga qualche mezzo per sfangare dalle disonestà. Eripe me de luto. Sebbene, che dissi? Non pigliano rimedio al loro male? Dissi poco; farebbe meno male: il peggio è che non solo non li cercano, ma quando il confessore a guisa di medico dell’anime loro, gli prescrive il modo che devono tenere di loro vita per guarire; né  meno le ne prevalgono. Fate che un confessore imponga ad uno di questi languidi talora di trentotto anni, che per uscire dal letto delle loro invecchiate miserie, si comunichi per un anno, ogni mese ed ogni giorno per un anno ricorra con alcune poche orazioni alla Santissima Vergine, come rifugio de’ Peccatori. Voi vedrete, che in breve tempo, o se ne scorda; o si attedia; o lascia affatto la medicina preferitagli per guarire. E questi direte voi, che non peccano per somma malizia, mentre subito sposta, ed avvedutamente vogliono? Non occorre altro, il peccare disonesto è il peccare più malizioso di tutti; poiché non solo non cerca i rimedi, non li riceve, quando gli sono offerti; ma egli va sempre studiosamente cercando le occasioni, ed immergendosi in quelle nelle quali sono state maggiori le cadute… e poi direte, che peccano per fragilità! Che l’esser disonesto è il minor de mali? Chi così discorre, può dire d’aver totalmente perduto il senno. Se un nocchiero urta una volta in uno scoglio, e rompe la nave che guida, potrà per avventura darsene la colpa o alla fragilità del legno, o alla forza de’ venti o alla furia del mare: ma se ogni giorno rompesse una nuova barca, e se a bello studio andasse ad investire gli scogli, e se a questo fine spiegasse tutte le vele per andarvi con maggior impeto; chi potrebbe mai scusarlo con la debolezza del legno o con l’imperversare de’ venti? Così è de’ disonesti; vanno ad ogni veglia: si trattengono a guardare: stanno le femmine allo specchio, e poi dicono … fragilità ed arrivano a disprezzare questo peccato come peccato da nulla: rimediate al vostro male or che potete, e pius cum in profundum venerit contemnet ed intanto non si accorgono i meschini, che questo medesimo dipingere loro la disonestà per poco male è un’arte finissima del demonio affinché, non vedendo la rete, v’entrino allegramente, e dopo esservi entrati non ne escano mai più. Che si ha dunque da fare per liberarci da quelle disonestà, che ci costituiscono si gran peccatori? Raccomandarci a Dio, alla Vergine Santissima, ed a Lei a tale effetto ricorrere con qualche particolare devozione, portarsi da qualche buon confessore; scoprirgli tutte le nostre piaghe; pregarlo di rimedio sopra tutto fuggir balli, fuggir veglie, ritirarsi dagli amori, svilupparsi con ogni sforzo da tutti gli effetti peccaminosi, giacché si tratta di troppo, si tratta di perdere in eterno, per un diletto bestiale, quanto ci apparecchio’ Dio di bene in Paradiso, e di addossarci in eterno quanto Dio ci preparò di male nell’inferno. L’uomo disonesto non è, torno a dire, un peccatore ordinario, ma un peccatore grande; sì per la qualità de’ falli, sì per la moltitudine, sì per la malizia con cui il commette. Rimediate al vostro male or che potete, e Dio vi benedica.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.