GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (11) – Eredi moderni: 1° – H. de Lubac

GNOSI: TEOLOGIA DI Satana

Gli eredi moderni

Il pensiero gnostico immanentista di H. De Lubac

Smascherato da S. S. Gregorio XVII

[G. Siri “Getsemani”riflessioni sul movimento teologico contemporaneo; Ed. Frat. SS. V. Maria, ROMA, 1980]

[In queste pagine il S. P. Gregorio XVII, già Cardinale Giuseppe Siri, smaschera con semplicità, grande competenza e sagacia, la gnosi propugnata dai tre principali modernisti della “Nouvelle Theologie”, la teologia satanica attualmente professata dalla setta massonico-vaticana del “novus ordo” degli antipapi post-cinquattottini, che ripropone tutti i punti della gnosi antica e degli sviluppi filosofici più moderni, fino ad Hegel ed all’evoluzionismo [v. in: Gnosi: Teologia di satana – n. 7, 8, 9, 10//exsurgatdeus.org]. Nonostante il Santo Padre non potesse scrivere e pubblicare liberamente, perché controllato in ogni movimento e censurato in tutto ciò che destinava a venir fuori dalla sua prigionia “dorata” e feroce, pure è riuscito a dare un quadro molto significativo di questi personaggi, falsi teologi imbonitori, farfugliatori ed affabulatori manifesti, in auge al falso e scomunicato sul nascere – bolla Exsecrabilis di Pio II – conciliabolo, il c.d. Vaticano II, usurpanti pure il cardinalato loro insignito dai pari loro “compari” teosofi ed Illuminati, e a farne cogliere il carattere panteista ed immanentista diversamente camuffato da questi tre “campioni” della gnosi del “novus ordo”. Vedremo più avanti sia la gnosi di K. Rahner che di J. Maritain, mentre iniziamo dal pensiero spudoratamente immanentista del finto cardinale H. de Lubac). – ndr.-]

 Il rapporto tra ordine naturale e ordine soprannaturale: tre casi significativi.

P. HENRI DE LUBAC

Se si torna indietro di una quarantina di anni, si vede negli scritti di alcuni teologi, un rinnovato interesse circa il rapporto tra quello che si chiamava, fino allora, ordine naturale e ordine soprannaturale. È indispensabile capire che questo non è un argomento astratto, una speculazione da «dilettante», da non poter avere conseguenze di lunga portata nel pensiero e nella vita della Chiesa. Sia in teologia che in filosofia e nella scienza sperimentale, pochi argomenti, pochi casi sono assolutamente neutri. – Il P. Henri de Lubac (HENRI DE LUBAC S. I., nato nel 1896, professore nella Facoltà teologica di Lyon-Fourvière e nell’Istituto Cattolico di Parigi, perito al Concilio Vaticano II, membro della Commissione Teologica Internazionale) aveva formulato in quel periodo considerazioni nuove, non assolutamente nuove, ma presentate con un linguaggio nuovo e con applicazioni particolari. Nel 1946 pubblicava il suo libro «Il Soprannaturale », ove è espresso tutto il suo pensiero di allora(H. D E LUBAC, «Surnaturel», Etudes historiques. Ed. du Seuil, Paris 1946). Affermava che l’ordine soprannaturale è necessariamente implicato in quello naturale. Come conseguenza di questo concetto veniva fatalmente che il dono dell’ordine soprannaturale non è gratuito perché è debito alla natura. Allora esclusa la gratuità dell’ordine soprannaturale, la natura per lo stesso fatto che esiste si identifica al soprannaturale [abbiamo già il primo campanello di allarme … la gnosi comincia a far capolino –ndr.]. Qual era la ragione addotta? Il ragionamento fondamentale può essere espresso così: l’atto intellettuale comporta la possibilità di riferirsi alla nozione dell’infinito; e per questo il soprannaturale è implicato nella natura umana di per sé. Questa visione della realtà intima ed essenziale dell’uomo era diffusa negli scritti anteriori del P. de Lubac. Ci sono brani, per esempio nel suo libro «Cattolicesimo» (H. DE LUBAC, Catholicisme, les aspects sociaux du dogme. Ed. du Cerf, Paris 1938; 4a ed. 1947), di cui non si può veramente comprendere il tenore, né l’insistenza con la quale sono messe in rilievo alcune espressioni bibliche, se non nello spirito della dottrina più tardi espressa nel «Soprannaturale». – Si resta colpiti dall’insistenza con la quale l’autore vuole dare un significato particolare all’espressione di San Paolo «rivelare in me il Figlio suo», significato che sembra andare oltre alla spiegazione ammessa da tutti gli esegeti che hanno interpretato la parola «in me» («ἐν ἐμοί»), esattamente come il Padre M. J . Lagrange(MARIE-JOSEPH LAGRANGE O.P. (1855-1938), professore di esegesi nell’Istituto Cattolico di Toulouse e fondatore dell”‘Ecole Biblique de Jérusalem”). – Il Padre de Lubac scrive: «Paolo ha pronunciato una tra le parole più nuove e più ricche di significato che mai siano state pronunciate da uomo, il giorno in cui, costretto a presentare la propria apologia ai suoi cari Galati per ricondurli sulla retta via, dettò queste parole: «Ma quando piacque a colui che sin dal seno di mia madre, mi prescelse e mi chiamò mediante la sua grazia, di rivelare in me il Figlio suo…» (Gal. I,15-16). Non soltanto – qualunque sia il prodigio esteriore di cui gli Atti degli Apostoli ci hanno trasmesso il racconto – rivelarmi suo Figlio, mostrarmelo in una visione qualunque o farmelo comprendere oggettivamente, ma rivelarlo in me. Rivelando il Padre ed essendo rivelato da lui, il Cristo finisce di rivelare l’uomo a se stesso. Prendendo possesso dell’uomo, afferrandolo e penetrando fino in fondo al suo essere, spinge anche lui a discendere in sé per scoprirvi bruscamente regioni fino allora insospettabili. Per il Cristo la persona è adulta, l’Uomo emerge definitivamente dall’universo».(H. DE LUBAC, Catholicisme, ed. cit. pp. 295-296) – Mentre, come il Padre M. J . Lagrange scrive, «in me – «ἐν ἐμοί», significa: «Per mezzo di una comunicazione intima che ha fatto conoscere a Paolo il Figlio di Dio, tesoro della sua intelligenza e del suo cuore (Fil. III, 8). Dando a «ἐν ἐμοί», il suo significato naturale, si prova nel versetto 16, non un terzo beneficio di Dio verso Paolo, ma la realizzazione nella sua anima dell’appello del versetto 15». (M. J. LAGRANGE, l’Epìtre aux Galates, Lecoffre ed., Paris 1918, p. 14)  – Il Padre de Lubac dice che il Cristo rivelando il Padre e rivelato da Lui, finisce di rivelare l’uomo a sé stesso. Quale può essere il significato di questa affermazione? O Cristo è unicamente uomo, o l’uomo è divino [Si tratta infatti, come si può facilmente arguire, del solito inganno gnostico, per cui l’uomo è Dio – come S. S. Gregorio XVII ha lucidamente sottolineato … il serpente inizia a sibilare! … –n.d.r.-]. – Tali conclusioni possono non essere espresse così nettamente, tuttavia determinano sempre questa nozione del soprannaturale in quanto implicato nella natura umana di per sé. E quindi, senza volerlo coscientemente, si apre il cammino dell’antropocentrismo fondamentale [cioè l’immanentismo gnostico, che qui il Santo Padre non poteva nominare perché censurato!- ndr.] – In generale l’argomentazione speculativa è condotta come se si escludessero i principi, le nozioni accettate fino allora come principi fondamentali della fede. Come concludere con semplicità e logica non artificiosa che il riferimento alla nozione d’infinito significa automaticamente che l’infinito sia colto? L’argomento è stato però ripreso venti anni più tardi nel libro «Il Mistero del Soprannaturale», (H. DE LUBAC, Le Mystere du Surnaturel, Aubier, Paris 1965; Ed. italiana, Il Mistero del Soprannaturale, Il Mulino ed., Bologna 1967) con sfumature e più preoccupato delle conseguenze che tali proposizioni possono rappresentare per gli spiriti [… che sentivano già puzza di zolfo –ndr.]. – È molto grave, infatti, emettere come principio che il riferimento all’ordine dell’infinito implichi che l’essenza dell’infinito sia la natura umana [è l’immanentismo antropocentrico –ndr.-]. Nessun sillogismo, sottile e complicato che sia, può colmare la differenza tra la nozione dell’infinito che l’uomo può avere in lui e la realtà infinita di Dio, positiva, presunta, sentita e nello stesso tempo inaccessibile; la differenza tra l’aspirazione verso l’infinito e questo stesso Infinito così come l’uomo lo concepisce. Certamente si può affermare che l’aspirazione dell’uomo verso l’eternità esprime la finalità eterna dell’anima creata, la possibilità per l’uomo di partecipare, nella grazia, a mille illuminazioni della Vita eterna, ma non si può dire che questa nostalgia implichi che l’uomo esista sin dall’eternità e che possa possedere la pienezza eterna di Dio [chiarissimo è il pensiero di Gregorio XVII nello stroncare lo gnosticismo immanentistico del falso teologo cattolico, l’infiltrato modernista che, in forma velata, ripropone le solite manfrine del “cornuto” primordiale – ndr. -]. Allo stesso modo, la nozione dell’infinito, l’aspirazione verso l’infinito esprimono la possibilità per l’uomo di entrare in contatto continuo con l’infinità di Dio [il pleroma gnostico – ndr.]. Non si può dire, però, che questa aspirazione dell’uomo verso l’infinito significhi che l’uomo possa partecipare per identità all’infinità divina. In questa aspirazione dell’uomo verso l’infinito sono sempre presenti la nozione e la certezza dei nostri limiti. Il nostro cammino può essere interminabile, ma la stessa essenza del nostro cammino verso l’infinito manifesta la differenza tra la nostra nozione, la nostra partecipazione e l’Infinito Divino. Nel 1950, quattro anni dopo la pubblicazione del «Soprannaturale», è stata emessa dalla Chiesa l’Enciclica di Pio XII «Humani Generis». Ed a proposito di queste concezioni Pio XII dice espressamente in questa enciclica: «Alcuni deformano la vera nozione della gratuità dell’ordine soprannaturale, quando pretendono che Dio non può creare esseri dotati d’intelligenza senza chiamarli e ordinarli alla visione beatifica». (cf. Denz. 3891). Indipendentemente dal consenso o dalle critiche sollevate da questa enciclica, è incontestabile che Pio XII fu il primo a mettere il dito sul punto estremamente delicato e pericoloso di questa definizione dell’uomo e dei suoi rapporti con Dio [nella enciclica Pio XII cita espressamente il panteismo e l’immanentismo … aveva ancora libertà di espressione e non poteva essere censurato – ndr.-]. Se Dio quando crea imprime nella creatura ciò che abbiamo concepito come soprannaturale, allora cambia la nozione di questo soprannaturale e della gratuità; da cui deriva, malgrado tutti gli sforzi per professare la gratuità dell’atto creatore di Dio, una moltitudine di considerazioni sull’uomo, sulla sua libertà, sulla grazia, sui rapporti dell’uomo con Dio, sulla libertà dell’uomo e sulla libertà di Dio, ecc…. Considerazioni che possono condurre anche – come spesso hanno condotto – al capovolgimento dei principi essenziali della Rivelazione. Facilmente questa non gratuità dell’ordine soprannaturale – per ogni singolo caso – conduce ad una specie di monismo cosmico, ad un “idealismo antropocentrico”. [Il Santo Padre deve inventarsi etichette non censurabili per evitare termini chiaramente gnostici –ndr.-]  Nel suo nuovo libro «Il Mistero del Soprannaturale», il Padre de Lubac spiega alcune insufficienze d’espressione del suo primo libro «Il Soprannaturale», ma sostiene sempre la stessa tesi e vuole soltanto evitare nuovi malintesi [ma gli inganni sono i medesimi –ndr.]. (Il Mistero del Soprannaturale, p. 76.) – Egli produce e intreccia, con una sorprendente sagacità sillogismi e speculazioni, nello sforzo di equilibrare i due concetti: da un lato il soprannaturale implicato nella natura sin dalla creazione [cioè il panteismo! – ndr.-], e dall’altro la gratuità del soprannaturale, della grazia. Si preoccupa di respingere l’accusa dell’«Humani Generis»… Chi ha letto il suo libro si accorge chiaramente di questa preoccupazione del P. de Lubac e sicuramente formulerà la stessa domanda, posta dallo stesso P. di Lubac verso la fine del libro: «Per quale ragione ci dilunghiamo invano su questo argomento con tanti discorsi e moltiplichiamo inutilmente tante frasi e diciamo una tale moltitudine di parole? [l’affabulazione è stata una caratteristica dello gnostico ingannatore al servizio del “cornuto”! –ndr. ] («Ut quid in vanum hanc materiam in tot sermones prorumpimus, et frustra tot eloquia multiplicamus et in tantam verborum multitudinem jacimus?». – Il Mistero del Soprannaturale, p. 308 -). – «Ecco forse, continua de Lubac, quello che più d’un lettore avrà potuto dire, scorrendo questo lavoro! Ecco, ad ogni modo, quello che l’autore non ha potuto mancare di domandarsi assai spesso, al seguito d’un discepolo medievale di Sant’Agostino e di San Tommaso che un giorno s’interrogava in tal modo, precisamente a proposito del nostro argomento».(Il Mistero del Soprannaturale, p. 308, citazione d’Egidio Romano). – Un umile interrogativo; la risposta però che lo stesso P. de Lubac dà più sotto alla sua domanda lascia perplessi: «La risposta è scritta nella natura della nostra intelligenza, che non può ricevere la rivelazione divina senza che subito sorgano in essa mille questioni, che si generano l’una dall’altra. Essa non può fare a meno di rispondervi. Ma nelle sue spiegazioni, sempre barcollanti, per quanto avanti sembri andare, sa di non andar mai incontro a terre sconosciute». (Il Mistero del Soprannaturale, p. 308) Questa risposta del P. de Lubac rivela i suoi criteri riguardo alle vie della conoscenza ed anche il suo atteggiamento intellettuale riguardo al grande problema dei rapporti tra l’uomo e Dio. Questo spiega l’impossibilità di trovare per questa via l’equilibrio di cui abbiamo parlato ed una conoscenza che, in armonia con la Rivelazione, con la miseria e la profonda aspirazione dell’uomo, dia pace. I nostri criteri riguardo alle vie della conoscenza sono veri ed oggettivi quando scaturiscono e sono in armonia stabile, chiara e immediata con i grandi dati eterni della Rivelazione. In ogni caso, il P. de Lubac parla di un «desiderio naturale assoluto» della visione di Dio [… cioè il desiderio dello gnostico del ritorno al “pleroma” –ndr.-]. Questa nozione del desiderio naturale assoluto scarta, malgrado tutti gli sforzi speculativi impiegati, la gratuità del soprannaturale, cioè della visione beatifica. Ed in questo «l’intelligenza» a cui sopra si riferisce il P. de Lubac non può essere da solo di grande aiuto. Infatti resta l’antinomia. Essa resta ed ha avuto conseguenze molto grandi nelle coscienze. – Per rendersi conto dell’orientamento generale del pensiero e del linguaggio del P. de Lubac e del suo ruolo nella nuova teologia contemporanea, ed anche per rendersi conto di come resti l’antinomia, di cui abbiamo parlato [cioè tra panteismo gnostico e la rivelazione nella teologia cattolica – ndr.-], basti riferirsi ad alcune formule e ad alcune affermazioni fondamentali del «Mistero del Soprannaturale»:

– Primo tipo di affermazioni:

«Il “desiderio di vedere Dio” non potrebbe essere eternamente frustrato senza una sofferenza essenziale». (Il Mistero del Soprannaturale, p. 80) – «La vocazione di Dio è costitutiva. La mia finalità di cui questo desiderio è l’espressione, è scritta nel mio essere stesso, tale come è posto da Dio in questo universo. E, per volontà di Dio, io non ho oggi altro fine reale, cioè realmente assegnato alla mia natura e offerto alla mia adesione – sotto qualsiasi forma ciò si verifichi – che quello di ‘vedere Dio’». (II Mistero del Soprannaturale, p. 80) – «In altri termini: il vero problema, se ce n’è uno, si pone per l’essere, la cui finalità è ‘già’, se si può dire tutta soprannaturale, poiché tale è, in effetti, il nostro caso. Si pone per la creatura per la quale la ‘visione di Dio’ imprime non soltanto un fine possibile, o futuribile – persino il fine che conviene di più – ma il fine che, a giudicare umanamente, sembra dover essere, poiché è, per ipotesi, il fine che Dio assegna a questa creatura. Dal momento che io esisto, ogni indeterminazione è tolta. E qualunque cosa sarebbe potuto essere prima, o qualunque cosa esso sarebbe potuto essere in un’esistenza realizzata in modo diverso, nessun’altra finalità sembra ormai per me possibile che quella che si trova ora, di fatto, iscritta nel fondo della mia natura. Esiste un solo fine di cui, per conseguenza, porto in me, consapevole o no, il ‘desiderio naturale’».(Idem, pag. 82). E, a questo proposito il P. de Lubac afferma la corrispondenza del suo pensiero con la dottrina dell’«esistenziale soprannaturale permanente, pre-ordinato alla grazia» del P. Karl Rahner, di cui parleremo più oltre. (p. 82, nota 4) [sarà il prossimo gnostico cattolico-fasullo di cui ci occuperemo a breve –ndr.- ]

– Secondo tipo di affermazioni:

«Il nostro Dio è ‘un Dio che sorpassa ogni capacità di desiderio’ (Ruysbroeck). È un Dio, nei confronti del quale sarebbe blasfemo e folle supporre che alcuna esigenza di qualsiasi ordine possa mai imporglisi, qualunque sia l’ipotesi nella quale uno voglia porsi in spirito, e qualunque sia la situazione concreta nella quale si possa immaginare la creatura» (pag. 306). – «Dio avrebbe potuto rifiutarsi alla sua creatura proprio come Egli ha potuto e voluto donarsi. La gratuità dell’ordine soprannaturale è particolare e totale. Lo è in se stessa. Lo è per ciascuno di noi. Lo è in rapporto a ciò che per noi, temporalmente e logicamente, lo precede. Anzi – ed è questo che alcune teorie, che noi abbiamo discusso, non ci è sembrato lascino vedere abbastanza – questa gratuità è sempre intatta. Lo resta in ogni ipotesi. È sempre nuova. Resta in tutte le tappe della preparazione del Dono, in tutte le tappe del Dono stesso. Nessuna «disposizione», nella creatura potrà mai, in nessuna maniera, legare il Creatore. Constatiamo qui con gioia l’accordo sostanziale non soltanto di sant’Agostino, di san Tommaso e degli altri antichi, ma anche di san Tommaso e dei suoi commentatori, a cominciare dal Gaetano [si vede che il De Lubac leggeva con un vocabolario macchiato o con molte pagine mancanti … -ndr.- ]; come anche di teologi che, nel nostro stesso secolo, divergono più o meno nei loro tentativi di spiegazione. Come il dono soprannaturale mai in noi è naturalizzabile, mai la beatitudine soprannaturale può divenir per noi – qualunque sia la nostra condizione reale o semplicemente pensabile – una meta ‘necessaria ed esigibile’».(pag. 307) – Solo queste affermazioni, citate come esempio, sarebbero sufficienti per mettere in evidenza l’antinomia e il vicolo cieco nel quale il P. de Lubac fa entrare il pensiero ed il cuore, nel tentativo di fondare la sua propria dottrina riguardo al soprannaturale [il Santo Padre sembra che da un momento all’altro sbotti nel denunciare apertamente l’eresia panteista del de- “perito” del concilio … ma gli verrebbe censurata e lancia quindi segnali comprensibili a chi conosce lo gnosticismo …-ndr-] Si sollevano numerose questioni senza possibilità di risposta o di un orientamento del pensiero che dia pace. Come capire per esempio che il mio «fine reale» – cioè «vedere Dio» – è «assegnato alla mia natura »? [tradotto in “gnostichese” vuol dire; il ritorno della scintilla divina al pleroma!] E che allo stesso tempo è offerto alla mia adesione? Quando accade questo? Al momento della mia creazione, o dopo durante il tempo della mia vita terrestre? Se accade al momento della mia creazione, come posso scegliere la mia adesione? Se avviene dopo, durante la mia vita, come posso dire che «la vocazione di Dio è costitutiva» cioè la mia vocazione alla visione di Dio è una parte integrante della creatura che sono? – Se «dal momento che esisto, ogni indeterminazione è tolta», come potrebbe aver luogo allora la mia adesione dopo i primi momenti della mia esistenza? Infatti, se tutto è determinato in modo assoluto, come insiste de Lubac, non c’è la possibilità per me di adesione o di non adesione. [il Santo Padre smonta pezzo su pezzo la fragile costruzione suggerita dal “serpente primordiale” agli gnostici di ogni tempo –ndr. -]. – Se porto in me, anche senza averne coscienza – come dice il P. de Lubac – il «desiderio naturale», com’è offerto questo fine alla mia adesione? Il P. de Lubac ripete che Dio poteva non crearmi. Ha però voluto crearmi. Allora ci si può chiedere: una volta che mi ha creato, come posso dire che non è impegnato, sin dalla mia creazione, a darmi la gioia di vederlo, poiché il desiderio naturale assoluto di vederlo, l’ha messo Egli stesso al centro del mio essere col suo atto creativo?» – Se ammetto che con il suo atto creativo Dio è impegnato e non può rifiutarmi il mio compimento, cioè la gioia di vederlo, come potrei dire che «la gratuità dell’ordine soprannaturale è particolare e totale; lo è in se stessa, lo è per ciascuno di noi»? Si potrebbe anche pretendere che la gratuità dell’ordine soprannaturale è la gratuità della creazione, cioè ammettere l’identità dell’ordine naturale e soprannaturale; questo però il P. de Lubac non vuole ammetterlo. Accetta che ci sia la grazia della creazione e che a parte ci sia la grazia della chiamata soprannaturale. – Come possiamo dire che «nessuna disposizione nella creatura potrà mai in nessuna maniera legare il Creatore»! e nello stesso tempo dire che «la vocazione di Dio è costitutiva»? Tale «disposizione», infatti, il Creatore l’ha imposta alla creatura. Come dunque proporre che «la propria disposizione di Dio non lo lega in nessuna maniera»?! – Quale idea potremmo avere allora del Creatore e della sua suprema libertà? – Non è né logicamente né spiritualmente conveniente presentare in tutti i modi – com’è nel caso della citazione del P. de Lubac sopra riportata – che Dio non è stato obbligato a crearci così come ci ha creati, per affermare la gratuità dell’ordine soprannaturale; non è conveniente, perché è confondere i problemi e le realtà. Dire infatti, che avrebbe potuto rifiutare di donarsi alla sua creatura, come ha potuto e ha voluto farlo, è come parlare dell’inizio della creazione dell’uomo, perché la frase significa che Dio ha già scelto di donarsi. E quando parliamo della gratuità dell’ordine soprannaturale, parliamo di tutte le grazie e di tutti gli interventi di Dio nella nostra vita terrestre, ciò senza nessun merito e nessuna possibile esigenza da parte nostra. Se «dal momento che esisto, ogni indeterminazione è tolta», cioè se tutto è iscritto nell’uomo sin dal momento della sua creazione e in modo assoluto, come dice il P. de Lubac, come la creatura non avrebbe un’esigenza per gli appetiti in essa iscritti, e come concepire che il Creatore di questi appetiti e di questi desideri «non sia legato in nessun modo»? – Ci si può porre un’infinità di tali domande che si estendono a tutti i domini e sotto parecchie angolature, dalla definizione del soprannaturale fino alle più evidenti e pratiche conseguenze nella vita della Chiesa. Più tardi, però, ed in una prospettiva più globale, si potrà meditare più profondamente sull’insieme di questo grave problema. Per il momento, è sufficiente non dimenticare questo: se si può dire che l’uomo sin dalla sua creazione porta la possibilità di ascoltare la chiamata di Dio per il fine soprannaturale al quale è destinato, non significa che questa possibilità di ascoltare sia già la chiamata, e che il soprannaturale al quale l’uomo è chiamato sia già presente in lui. [Con questo è totalmente smascherato il “perito”, anzi  il “deperito” del Vaticano II, finto-teologo di punta della Nouvelle Théologie”, e  “modello” eretico del modernismo-“Novus ordo” figlio naturale della gnosi “evoluta” da Platone, a Pitagora, ai neoplatonici alessandrini, Marcione e coeretici, ai filosofi del “rinascimento del paganesimo”, a Cartesio, fino ad Hegel, Marx, ai teosofi e ai teologi modernisti, ai De Lubac & C., a J. Ratzinger ed agli “illuminati” delle conventicole del Vaticano. – ndr. -]

CULTO DEI DEFUNTI

La devozione verso le Anime del Purgatorio, col raccomandarle a Dio affinché le sollevi nelle grandi pene che patiscono e presto le chiami alla sua gloria, è molto vantaggiosa per noi e ad esse. Infatti quando saranno liberate dai loro tormenti a causa delle nostre preghiere non si scorderanno certamente di noi in Cielo. Si crede poi che Dio manifesti loro le nostre orazioni, affinché stando in purgatorio preghino per noi: esse non possono pregare se stesse perché devono espiare, tuttavia, essendo molto care a Dio, possono pregare per noi ed ottenerci delle grazie. S. Caterina da Bologna ogni volta che ricorreva alle anime del Purgatorio, si vedeva subito esaudita.  – È un dovere pregare per le anime del Purgatorio perché la carità cristiana richiede che noi aiutiamo il nostro prossimo che è in stato di necessità: e chi ha maggior necessità di esse che sono tormentate nel fuoco? Inoltre sono prive della visione di Dio, pena che le affligge più di titte le altre. Pensiamo poi che facilmente si trovano in Purgatorio le anime dei nostri genitori, fratelli, parenti ed amici, e che aspettano il nostro soccorso, – Pregando per loro acquisteremo molti meriti e soprattutto le grazie per la salvezza eterna. Scriveva S. Alfonso:  « Io giudico per certo che un’anima, la quale è liberata dal Purgatorio per i suffragi avuti da qualche devoto, giunta in Paradiso, non smetterà di dire a Dio: “Signore non permettere che si perda quegli che mi ha liberata dal Purgatorio, » e mi ha fatto venire più presto a godervi” ». I mezzi per aiutarli sono: la preghiera, la Via Crucis, l’elemosina, la mortificazione e soprattutto la Santa Messa, la “vera” Messa Cattolica di sempre, officiata da un “vero”sacerdote con Missione canonica e Giurisdizione in unione con Papa Gregorio XVIII – le messe sacrileghe dei non-preti delle fraternità para-massoniche e dei non-preti delle sette sedevacantiste e sedeprivazioniste, oppure i riti rosa+croce della setta modernista-vaticana del “novus ordo” [che si spaccia attualmente per cattolica senza esserlo nemmeno lontanamente ed usurpando uffici ed ambienti Cattolici], non hanno alcuna efficacia per le anime dei defunti, e costituiscono puro sacrilegio: a) per chi le officia invalidamente ed illecitamente, e b) per chi vi partecipa o le ordina. – Pio è il pensiero di deporre corone di fiori e ceri sulle tombe dei defunti; ma è ben più efficace assistere alla S. Messa Cattolica di sempre e farne celebrare in loro suffragio da preti cattolici in unione con il Santo Padre “canonico”. Suffragate i vostri cari ed assicuratevi dei suffragi prima di morire. Le Messe gregoriane (celebrazione di 30 Messe consecutive per un solo defunto) prendono il loro nome da S. Gregorio Magno, non perché egli le abbia istituite, ma perché racconta di averne costatata l’efficacia; non si deve credere che liberino infallibilmente l’anima, però la Santa Sede (1884) dichiarò pia e ragionevole la fiducia nella speciale efficacia di esse per la liberazione di un’anima purgante.

Devozione dei cento Requiem

Per questo pio esercizio, ognuno può servirsi di una comune corona di cinque decine, percorrendola tutta due volte, onde formare dieci decine, ossia cento Requiem. Si inizia recitando un Pater Noster e poi una decina di Requiem sui grani piccoli della corona, alla fine della quale si dirà sul grano grosso la seguente giaculatoria:

Anime sante del Purgatorio, pregate Iddio per me, che io pregherò per voi, affinché Egli vi doni la gloria del Paradiso.

Indi si recitano le altre decine con la giaculatoria sul grano grosso. Terminate le dieci decine, si recita il De Profundis [Salmo 129].

 

Atto eroico di carità in suffragio delle Anime del Purgatorio

Il padre teatino Gaspare Oliden d’Alcalà, infiammato di zelo straordinario per il suffragio dele anime del Purgatorio, insinuò con la voce e con la stampa una pratica vecchia nella sostanza ma nuova nella forma, cioè di offrire con una specie di voto tutte quante le buone opere e presenti e future in espiazione dei debiti delle anime purganti , per cooperare nel miglior modo alla loro più sollecita liberazione da quelle pene. Benedetto XIII, Papa Orsini, con il suo Breve 13 agosto 1728, approvò solennemente tale pratica e la arricchì di tre privilegi riportati qui di seguito, confermati poi da Pio VI. Pio IX, con decreto Urbis et Orbis del 30 settembre 1852, dichiarò solennemente l’utilità e l’eccellenza di questa devozione confermando tutti i privilegi concessi dai suoi predecessori. – Questo atto di carità, già predicato ne passato da due celebri gesuiti, p. Moncado e p. Ribadeneira, nonché da S. Liduina, S. Caterina da Siena, S. Teresa, dal ven. Ximenes, e particolarmente da S. Brigida, la quale in punto di morte fu dal celeste suo Sposo assicurata che per la carità da lei usata alle anime del Purgatorio, le erano perdonate tutte le pene che avrebbe dovuto soffrire in Purgatorio e le sarebbe di molto aumentata la corona di gloria in Paradiso.

I tre privilegi concessi sono:

.1° I Sacerdoti che fanno questo atto di carità, godono l’indulto dell’Altare Privilegiato personale (de anima) per tutti i giorni dell’anno.

.Tutti i fedeli che avranno fatto questo atto di carità. Potranno lucrare indulgenza plenaria, applicabile però solamente ai defunti, liberando un’anima del Purgatorio in qualunque di quei giorni in cui si accosteranno alla SS. Comunione, e in tutti i lunedì dell’anno in cui ascolteranno la Santa Messa in suffragio dei medesimi defunti.

.3° Gli stessi possono applicare a pro dei defunti tutte le indulgenze che acquisteranno in qualunque modo fossero concesse, o da concedersi in avvenire.

Formula del Pio e Caritatevole Atto

“Mio Dio, in unione ai meriti di Gesù e di Maria, Vi offro per le anime del Purgatorio tutte le mie opere satisfattorie, e quelle da altri a me applicate in vita, in morte e dopo la mia morte.”

Osservazioni sul detto Atto Eroico

.1° Per fare questo non è necessario pronunziare le parole, basta volerlo ed emetterlo con il cuore. Neppure è prescritto di ripeterle più volte, benché ciò sia utile assai per fomentare il fervore della carità, che ci renderà industriosi ad accumulare beni spirituali in aiuto delle anime benedette del Purgatorio.

2° Siccome questo atto è semplice donazione universale, non impedisce ai Sacerdoti di applicarla Santa Messa per chi essi vogliono e secondo l’intenzione degli offerenti, essendo ciò dichiarato nella concessione del Sommo Pontefice Benedetto XIII.

3° Questo atto non si oppone punto all’ordine della carità che ci obbliga prima a pregare per i nostri defunti, poiché altro è il pregare , cui risponde il frutto impetratorio, del quale in questo voto non si tratta, ed altro è il suffragare, cui risponde il frutto soddisfatorio. Sebbene anche in questo uffizio di offrire suffragi, la carità ci obblighi prima di tutto verso i nostri congiunti, pure Iddio conosce meglio di noi quali siano i nostri doveri, e però farà sì che le nostre buone opere siano utili dapprima ai nostri parenti ed confratelli, e poi agli altri, secondo che davanti a Dio lo meriteranno. Così possiamo, anzi dobbiamo , praticare tutte le altre nostre devozioni dirette ad ottenere da Dio, dalla SS. Vergine qualche grazia per noi e per il prossimo, poiché ciò non si oppone all’atto per il quale si applica alle anime sante il solo frutto soddisfatorio delle nostre opere, restando sempre a noi il meritorio, il propiziatorio e l’impetratorio.

 

GIORNO DEI MORTI

GIORNO DEI MORTI

[J. J. Gaume: “Il Catechismo di perseveranza”, VI ed., Vol. 4; Torino 1881]

Giorno dei morti, – Sue armonie, sua origine, suoi fondamenti nella tradizione. — Sua istituzione. — Tenerezza della Chiesa. — Lamenti de’ defunti. — Esequie cristiane.

I. Festa dei morti. — Nel giorno degli Ognissanti la Chiesa è tutta intenta a scuotere le fibre del nostro cuore; e ben si scorge che mira a compiere un importante disegno e ad ottenere un grande effetto, vale a dire il disgusto della terra, la brama del cielo, la compassione reciproca, la carità universale fra i suoi figli. Se nel mattino di quella giornata memorabile la magnificenza delle sue cerimonie, l’allegrezza dei suoi inni presentano l’espressione di una gioia senza amarezza, la sera, ai suoi cantici si mescolano lunghi sospiri ed un palese colore di mestizia. Ed infatti ecco la scena, già in parte cambiata, prendere tutt’altro aspetto. Ai canti della gioia, ai sospiri dell’esilio succedono lugubri suoni; neri ornamenti, simboli di duolo surrogano i piviali arabescati d’oro; ecco che noi più non vediamo nel santo tempio fuorché un monumento funebre dipinto con immagini di scheletri, di teschi, di ossa. Che cosa significa tal mutazione? È una nuova festa, la Festa dei morti. Madre affettuosa, la Chiesa vuole che oggi sia una festa di famiglia; ella si presenta ai nostri occhi nelle sue tre differenti situazioni: trionfante nel cielo; esiliata sopra la terra; gemente in mezzo alle fiamme espiatrici. E i cantici del cielo, e i sospiri della terra, e i gemiti del purgatorio, in questo giorno si alternano, si mischiano, si rispondono a coro, ci fanno sovvenire che misteriosi vincoli legano in un sol corpo i figli di Cristo: che le tre Chiese come tre sorelle, si danno la destra, s’incoraggiano, si consolano, si confortano fino al giorno in cui, abbracciate fra loro nel cielo, formeranno una sol Chiesa eternamente trionfante. – Quale splendida armonia! Ma eccone un’altra che è impossibile di non osservare. Oh! quanto è bene scelto quel giorno per celebrare la Festa dei morti! Quegli uccelli che emigrano, quei giorni che si raccorciano, quelle foglie che cadono ai nostri piedi per lieve trastullo dei venti, quel cielo oramai cupo, quelle nuvole grigiastre foriere delle brezze, tutto questo spettacolo di decadenza e di morte non è egli straordinariamente acconcio a riempiere l’anima nostra dei gravi pensieri cui la Chiesa vuole inspirarci? Né ciò è tutto. Al paro di tutte le altre, e fors’anche più di tutte le altre, la Festa dei morti ristringe i vincoli di famiglia. Si vedeva in passato e si vedono tuttora per le campagne, fratelli, sorelle, parenti, vicini radunarsi nel cimitero, pregare, piangere sulle sepolture degli avi, e far elemosine per implorare riposo ai loro cari defunti. [Nel giorno d’Ognissanti si leggerà con infinito diletto il cap. XLVIII del lib. III dell’imitazione di Cristo; ovvero il cap. XXXV de’ Soliloqui di sant’Agostino, De desiderio et siti animas ad Deum.]E se nel corso dell’anno è sorta fra taluno qualche ombra di discordia, in questo giorno ella si dilegua più agevolmente, poiché davvero siamo inclinati ad amarci quando preghiamo e piangiamo insieme. Anche testé in alcuni paesi un uomo, detto della veglia, percorreva nella notte le strade della città, e fermandosi ogni venti passi, e facendo suonare la sua squilla, gridava: Svegliatevi, voi che dormite, pregate per i defunti. Perché sono state dismesse queste commoventi usanze? Dacché noi abbiamo obliato i nostri morti, siamo divenuti indifferenti verso i vivi; l’egoismo ha inaridito il cuor nostro, quell’egoismo che avvilisce l’uomo, annienta la famiglia e sconvolge la società.

Origine di questa festa. — Ma è tempo di parlare dell’istituzione della Festa de’ morti. Fino dalia sua origine la Chiesa ha pregato per tutti i suoi figli quando morivano. Le sue preghiere erano supplicazioni per quelli che ne avevano bisogno e rendimento di grazie per i martiri. Si rinnovava il sacrificio e le supplicazioni nel giorno della loro morte. Tertulliano lo accenna chiaramente : « Noi celebriamo , ei dice, l’anniversario della natività de’martiri ». E più innanzi: « Secondo la tradizione degli antichi, noi offriamo il sacrificio per i defunti nell’anniversario della loro morte ». Gli altri Padri ci offrono le medesime testimonianze La Chiesa inoltre, sempre buona e sempre affettuosa per i suoi figli, aveva fin dal principio due maniere di pregare e di offrire il sacrifizio per i morti. L’una per ciascuno di essi e per qualcuno in particolare, l’altra per tutti i morti in generale, affinché la sua carità abbracciasse quelli che non avevano né congiunti né amici che potessero adempiere a quel dovere di pietà a loro riguardo ». [Tertull., Exhort. ad Cast. — Aug., Conf., lib, IX, c. ultim.] Essa praticava così anche prima di sant’Agostino. « È antichissimo, dice questo Padre, e universalmente praticato in tutta la Chiesa l’uso di pregare per tutti quelli che sono morti nella comunione del corpo e del sangue di Gesù Cristo » [De cura prò mort., cap. 4]. – Non vediamo per altro che vi sia stata una festa particolare per raccomandare a Dio tutti i defunti; vediamo bensì i fondamenti sui quali può essere stata instituita; perché se fino dalla sua origine la Chiesa, secondo la testimonianza dei Padri, ha pregato e sacrificato per i morti in particolare e per tutti in generale, se in tutte le liturgie e in tutte le Messe dell’anno è stato pregato per tutti i morti in comune, non è forse evidente che su questi fondamenti si poté instituire una festa speciale, per adempiere con maggior cura ed applicazione questo dovere verso i defunti? – Così avvenne infatti, e sarà vanto esimio e gloria eterna della Franca-Contea, conosciuta allora col nome di Borgogna, l’aver dato nascimento a questa pia istituzione. – Uscito da una delle famiglie più nobili della Borgogna , il beato Bernone, abate di Beaume-les-Messieurs, vicino a Lons-le-Saulnier, aveva fondato la Badia di Cluni. Questa illustre Congregazione, che aveva ereditato la pietà del fondatore verso i defunti, fu sollecita di adottare la commemorazione generale dei trapassati, che rese stabile e perpetua con decreto dell’anno 998. Ecco le parole del Capitolo generale di Cluni: « E stato ordinato dal nostro beato padre, Oddone, di consenso e ad istanza di tutti i monaci di Cluni, che siccome in tutte le chiese si celebra la festa degli Ognissanti nel primo giorno di novembre, così presso noi sarà celebrata solennemente in questa maniera la commemorazione di tutti i fedeli defunti. Il giorno della festa di tutti i santi, dopo il capitolo, il decano e i cellerari faranno una elemosina di pane e di vino a tutti quelli che si presenteranno: dopo il vespro saranno suonate tutte le campane, e sarà cantato il Notturno dei morti. La Messa sarà solenne, e saranno cibati dodici poveri. Noi vogliamo che questo decreto sia osservato a perpetuità, tanto in questo luogo come in tutti quelli che ne dipendono; e chiunque osserverà come noi questa istituzione parteciperà alle nostre buone intenzioni ». [“Venerabilis pater Odilo per omnia monasteria sua constituit generale decretum, ut sicut primo die mensis novembris, iuxta universalis Ecclesiæ regulam, omnium Sanctorum solemnitas agitur; ita sequenti die in psalmis et eleemosynis et præcipue Missarum solemniis, omnium in Christo quiescentium memoria celebretur.” S. Petr. Dam, in Vita B. Odil. — Baron., an. 1048, n. 6; et in Not. ad Martyrol., 2 novemb. — Helyot, etc.]. Tale è il decreto di Cluni. La devota pratica s’introdusse ben presto in altre chiese, e quella di Besanzone fu la prima ad adottarla. Era, possiamo dire in certa maniera, una sua sostanza, un suo patrimonio, che le tornava, consacrato dal suffragio dei santi amici di Dio. Indi a non molto la commemorazione generale de’ morti, fatta nel giorno successivo agli Ognissanti, era comune a tutta la Chiesa cattolica.Terminiamo quello che ci rimane a dire intorno all’origine di questa festa con un’osservazione capacissima a far risplendere l’immensa carità della Chiesa nostra madre. La Commemorazione generale dei defunti non è che un supplemento a tutte le altre feste, uffizi e sacrifici dell’anno; ed essa ha questo di comune non solo con la festa di tutti i Santi, ma anche con quella della Trinità e del santo Sacramento. Infatti in tutte le feste, in tutti gli uffizi o sacrifizi dell’anno si presta un culto supremo alla Trinità per mezzo dell’adorabile sacrificio dell’Eucaristia, in cui Gesù Cristo è immolante ed immolato con tutti i suoi santi che vi sono nominati, almeno in generale. Quindi anche le feste particolari della Trinità, del santo Sacramento e degli Ognissanti non sono state instituite che come supplemento della festa generale per risvegliare l’attenzione e il fervore con cui dobbiamo celebrarla in tutto l’anno. Ciò pure avviene rispetto alla Commemorazione generale dei morti. La Chiesa l’ha instituita per supplire alle preghiere e ai sacrifici che si fanno per essi ogni giorno, e per avvertirci che dobbiamo adempiere ai nostri doveri verso di loro con singolare pietà ed attenzione.Non ripeteremo qui la spiegazione di tutti i motivi che abbiamo di pregare per i morti; ma ci contenteremo di sottoporre alla meditazione de’ cristiani i seguenti.

III. Pianto dei defunti. — La gloria di Dio, la carità, la giustizia, il nostro interesse medesimo, ecco i potenti motivi che abbiamo di pregare per i defunti. Oh potessimo noi soddisfare all’obbligo che la natura e la Religione c’impongono d’accordo, in modo da impor silenzio a quella voce lamentevole, a quella voce accusatrice che sorge dal purgatorio e ferisce costantemente l’orecchio del cristiano che vi presta attenzione: Hominem non habeo! hominem non habeo! « Non ho un uomo; non ho un uomo ! » [Ioan., V 7] Il primo che fece udire queste parole dolenti fu il paralitico di cui si parla nel Vangelo. Rattratto in tutte le membra, quell’infelice era da trent’anni inchiodato sulle sponde della probatica piscina. Sempre esposto alla vista della folla immensa che la curiosità o il desiderio della guarigione conduceva in quel luogo celebre, il suo male era conosciuto da tutta la Giudea. E in quella moltitudine vi erano senza dubbio dei congiunti, dei conoscenti, degli amici di quel disgraziato, se i disgraziati aver potessero amici. Che chiedeva egli per esser guarito? Il semplice impulso d’una mano caritatevole che lo gettasse entro la piscina nel momento in cui l’Angelo del Signore veniva ad agitare l’onda salubre. E tuttavia egli aspettava invano quel meschino servigio, invano lo implorava da trentotto anni. Non è forse questa per fede vostra la viva immagine delle anime del purgatorio? – Ritenute dalla divina giustizia in orribili patimenti, esse aspettano con impazienza, esse implorano con alte grida l’aiuto della mano caritatevole, che spezzerà le loro catene e le introdurrà in quella città eterna, ove non si conosce il dolore. Quei giusti che soffrono sono nostri fratelli: tutto ci richiama la loro memoria: e i luoghi che percorriamo, e le case che abitiamo, e i beni di cui godiamo, e il nome stesso che portiamo, e quelle lugubri cerimonie alle quali assistiamo, e quelle tombe che possiamo vedere ogni giorno! E nondimeno quei cari defunti non sono sovvenuti. Chiedete loro perché soffrano gli uni da vent’anni, gli altri forse da trenta o quaranta. La loro risposta sarà quella del paralitico: Ohimè, non ho alcuno per me: hominem non habeo! Ho ben lasciato sulla terra dei parenti, ma mi accorgo di non avervi lasciato un amico; ho ben lasciato sopra la terra una moglie, ma conosco ch’ella ha presto asciugato le lacrime, che il mio nome non è più sulle sue labbra, che la mia memoria non vive più nel suo cuore: hominem non habeo. Ho ben lasciato sulla terra dei figli che ho colmati delle più affettuose premure, che ho nutriti, che ho educati a costo dei miei sudori, ma vedo che il loro padre più nulla è per essi: hominem non habeo; non ho alcuno per me! E pure è ben poco quello ch’io chiedo: qualche preghiera, qualche elemosina, elemosina, null’altro; e le chiedo invano Non ho alcuno per me; schiavi dei piaceri e degli interessi, tutti hanno obliato i loro morti, i loro morti più cari! Nomine non habeo; non ho alcuno per me! Deh! questa voce accusatrice, questo lamento straziante, giunga a commuovere il nostro cuore e a procurare gloria a Dio. riposo ai morti, e a noi la ricompensa della misericordia! Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia.

IV. Cerimonie del dì dei defunti. — Egli è questo il luogo opportuno d’intrattenerci alquanto circa le esequie cristiane. La Chiesa che consacra la nostra culla e che circonda di una protezione sì augusta e sì rispettabile il bambino che entra nella valle delle sventure, è egualmente sollecita di render l’uomo rispettabile, allorché, giunto al termine del suo viaggio, egli scende nel sepolcro per subirvi la sentenza che lo condanna a ridivenir polvere. E primieramente v’ha una cosa che mi colpisce nelle nostre cerimonie. Vedo da un lato dei parenti, degli amici, dei fanciulli piangenti, odo il funebre suono della campana, non vedo nel tempio fuorché immagini lugubri, e da un altro lato odo la Chiesa che canta, e canta senza riposo. Quale contraddizione! Come mai può una madre cantare sulla morte del proprio figlio? E non è la Chiesa la più affettuosa delle madri? Ah! si, la Chiesa ci ama di un amore tanto più vivo quanto è più nobile! Proviamoci a comprenderne il cuore. Depositaria delle promesse d’immortalità, essa le proclama altamente in presenza della morte: se vi è lamento nella sua voce, vi scorgi eziandio della gioia. Essa piange, ma più fortunata dell’affettuosa Rachele essa consola sé stessa, e consola noi pure, perché sa che i suoi figli le saranno restituiti. Perciò nelle lacrime dei parenti io ravviso le lacrime della natura; nei canti della Chiesa io ravviso la fede. L’una si rattrista dicendo: Io devo morire; l’altra la conforta rispondendo: tu resusciterai! – Quando dunque l’anima del cristiano si è separata dal corpo, la campana invita i cristiani a pregare per il loro fratello; e al fine di eccitare il loro fervore, il suono lugubre vien rinnovato ad intervalli fino al punto in cui è consegnato alla terra ciò che appartiene alla terra. Prima di trasportare il corpo, il sacerdote, nel gettare acqua benedetta sopra la bara, dice: Requiem æternam. « Signore, concedetegli un eterno riposo; e la luce che giammai si estingue splenda sempre a’suoi occhi». Poi si recita il De profundis a voci alterne. Infatti vi ha due voci in quei lugubri cantici: voce dell’anima inquieta e turbata che teme i giudizi di Dio, e voce dell’anima che sente rinascere la sua speranza alla vista della Redenzione del Signore, che scancella tutte le iniquità d’Israele. Il trasporto del cadavere si fa processionalmente; la croce, arca di speranza e pegno di risurrezione, precede il convoglio, e il defunto è tradotto alla Chiesa ove comincia e finisce la sua carriera cristiana. Quale ravvicinamento tra la cuna e la tomba, tra il battesimo e la sepoltura! – In mezzo all’apparato funebre che circonda il cadavere si vedono splendere delle faci; sono esse il simbolo della fede e della carità del defunto, son esse il confortevole emblema del suo ritorno futuro ad una vita migliore, il pegno che la tristezza cristiana sarà cangiata in giubilo. Cosi la vita presente e la vita avvenire, il tempo e l’eternità si riuniscono intorno alla bara, l’uno con le sue lacrime e con le sue speranze deluse, l’altra con le sue contentezze e con le sue promesse immortali. Incomincia la Messa, e ben presto la voce grave dei cantori fa rimbombare le sacre volte dell’inno Dies iræ. Nulla più imponente e più idoneo a ghiacciare di spavento, come quel cantico della morte e dell’ultimo giudizio; la Chiesa lo fa cantare tanto per istruzione dei vivi, quanto per sollievo de’morti. La morte con i suoi sepolcri e la fredda sua polvere, il giudizio con i suoi segni formidabili e con i suoi rigori ci si presentano a vicenda all’immaginazione. Quindi per sollevare alquanto l’anima costernata, un’ultima parola, una parola di speranza, viene a colpire l’orecchio, e vi discende nel cuore svegliando il sentimento che deve dominarla. Eccola: « Per redimermi voi avete sofferto la croce. Ah! non resti senza frutto uno spasimo sì grande. Giusto giudice, terribile vindice del peccato, perdonatemi prima di citarmi al vostro tribunale. Io gemo come un colpevole, io arrossisco alla memoria dei miei delitti. Mio Dio, pietà di un colpevole che vi supplica! Misericordioso Gesù, date il riposo ai defunti». – L’autore di questo splendido inno si crede comunemente il cardinale Malabranca, della famiglia Orsini, che viveva nel secolo XIII. – Dopo la Messa il coro va a situarsi per l’Assoluzione intorno alla bara, e si canta il responsorio Libera me, etc. Liberatemi, o Signore, ecc. In questa lugubre e affettuosa preghiera è il morto che parla, e pare di udir Giona che esclama verso Dio dal fondo dell’abisso e dalle viscere del mostro nel quale era sepolto vivo: «Liberatemi, o Signore, liberatemi, e la profonda voragine non si rinchiuda sopra di me». Poi ad un tratto il grido della speranza si fa udire: Io so, prosegue il morto per l’organo dell’immortale sua madre, io so che il mio Redentore è vivente, e ch’io uscirò nel giorno finale da questa terra. Il celebrante dice: «Signore abbiate pietà di noi ». Il coro: «Cristo, abbiate pietà di noi». Il sacerdote: « Signore, abbiate pietà di noi». Poi intona il Pater che recita a voce bassa. In questo tempo ei fa il giro della bara e l’asperge d’acqua benedetta, che è un’ultima purificazione pel morto; poscia lo incensa, e quell’incenso rammenta sì la preghiera della Chiesa pel defunto suo figlio, sì il buon odore di quelle virtù che quel cristiano ha praticate, e che lo fanno salire al cielo, insieme col fumo degli incensi. Sarà egli così di voi, che leggete queste pagine? Che cosa lascia sperare la vostra vita? È giunto il momento d’incamminarsi al cimitero. Addio, Chiesa santa, ove io ricevei il battesimo; addio, sacro pulpito, da cui scesero sopra di me, a guisa di rugiada benefica, le parole di salute: addio, tribunale di misericordia, ove ho ricevuto tante volte, insieme col perdono dei miei falli, eterni consigli e inenarrabili conforti; addio, santa mensa, ove il mio Dio mi nutrì con la sua carne immortale: addio, parenti, amici, figli, addio a tutti fino alla risurrezione generale. Ecco quanto dice questo avviarsi della Chiesa verso il cimitero. Quindi le lacrime, le strida dei congiunti si raddoppiano in quel momento solenne. Che fa allora la Religione? Con voce dolce (per poco non dissi lieta) ella dà il segnale della partenza cantando quelle parole sì consolanti: Deducant te angeli, etc. « Gli angeli ti conducano al paradiso; vengano i martiri ad incontrarti e t’introducano nella immortale Gerusalemme: il coro degli Angeli ti accolga e ti faccia partecipare col povero Lazzaro al riposo e all’eterna felicità. [Rituale Romano] – Così mentre la natura piangente non scorge al termine del cammino che un cimitero con la spaventosa sequela di decomposizione e di putrefazione, la Religione raggiante d’immortalità ci mostra il paradiso, con le sue gioie e la sua felicita; sicché sulla fossa ella pronunzi un’altra parola di conforto. Il sacerdote dice nel gettare un poco di terra sopra la bara: La polvere ritorni alla terra dalla quale è uscita, e l’anima ritorni a Dio, che l’ha creata; riposi ella in pace, cosi sia. – Dopo un’ultima aspersione di acqua benedetta, la sepoltura viene rinchiusa, e la croce, che le sta sopra, indica che ivi è il corpo d’un cristiano che ha vissuto pieno di speranza, e che aspetta con fiducia il giorno della Risurrezione generale. Idea consolante! Sii benedetta, o santa Religione! In questa fossa sormontata da una croce, il cristiano somiglia al viaggiatore, che stanco si riposa dolcemente all’ombra d’un albero, aspettando l’ora di riprendere il suo cammino.

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio della tenerezza, che avete inspirata alla Chiesa per i defunti; concedeteci la grazia che facciamo per loro tutto ciò che vorremmo un giorno che fosse fatto per noi. – Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose ed il prossimo, come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore:

io consacrerò tutti i lunedì a pregare per i morti.

FESTA DI TUTTI I SANTI

FESTA DI TUTTI I SANTI

Santa MESSA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]
Ps XXXII:1.
Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.
[Esultate nel Signore, o giusti: ai retti si addice il lodarLo.]

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui nos ómnium Sanctórum tuórum mérita sub una tribuísti celebritáte venerári: quǽsumus; ut desiderátam nobis tuæ propitiatiónis abundántiam, multiplicátis intercessóribus, largiáris.
 [O Dio onnipotente ed eterno, che ci hai concesso di celebrare con unica solennità i meriti di tutti i tuoi Santi, Ti preghiamo di elargirci la bramata abbondanza della tua propiziazione, in grazia di tanti intercessori.]

Lectio
Léctio libri Apocalýpsis beáti Joánnis Apóstoli.
Apoc VII:2-12
In diébus illis: Ecce, ego Joánnes vidi álterum Angelum ascendéntem ab ortu solis, habéntem signum Dei vivi: et clamávit voce magna quátuor Angelis, quibus datum est nocére terræ et mari, dicens: Nolíte nocére terræ et mari neque arbóribus, quoadúsque signémus servos Dei nostri in fróntibus eórum. Et audívi númerum signatórum, centum quadragínta quátuor mília signáti, ex omni tribu filiórum Israël, Ex tribu Juda duódecim mília signáti. Ex tribu Ruben duódecim mília signáti. Ex tribu Gad duódecim mília signati. Ex tribu Aser duódecim mília signáti. Ex tribu Néphthali duódecim mília signáti. Ex tribu Manásse duódecim mília signáti. Ex tribu Símeon duódecim mília signáti. Ex tribu Levi duódecim mília signáti. Ex tribu Issachar duódecim mília signati. Ex tribu Zábulon duódecim mília signáti. Ex tribu Joseph duódecim mília signati. Ex tribu Bénjamin duódecim mília signáti. Post hæc vidi turbam magnam, quam dinumeráre nemo póterat, ex ómnibus géntibus et tríbubus et pópulis et linguis: stantes ante thronum et in conspéctu Agni, amícti stolis albis, et palmæ in mánibus eórum: et clamábant voce magna, dicéntes: Salus Deo nostro, qui sedet super thronum, et Agno. Et omnes Angeli stabant in circúitu throni et seniórum et quátuor animálium: et cecidérunt in conspéctu throni in fácies suas et adoravérunt Deum, dicéntes: Amen. Benedíctio et cláritas et sapiéntia et gratiárum áctio, honor et virtus et fortitúdo Deo nostro in sǽcula sæculórum. Amen. – 
[In quei giorni: Ecco che io, Giovanni, vidi un altro Angelo salire dall’Oriente, recante il sigillo del Dio vivente: egli gridò ad alta voce ai quattro Angeli, cui era affidato l’incarico di nuocere alla terra e al mare, dicendo: Non nuocete alla terra e al mare, e alle piante, sino a che abbiamo segnato sulla fronte i servi del nostro Dio. Ed intesi che il numero dei segnati era di centoquarantaquattromila, appartenenti a tutte le tribú di Israele: della tribú di Giuda dodicimila segnati, della tribú di Ruben dodicimila segnati, della tribú di Gad dodicimila segnati, della tribú di Aser dodicimila segnati, della tribú di Nèftali dodicimila segnati, della tribú di Manasse dodicimila segnati, della tribú di Simeone dodicimila segnati, della tribú di Levi dodicimila segnati, della tribú di Issacar dodicimila segnati, della tribú di Zàbulon dodicimila segnati, della tribú di Giuseppe dodicimila segnati, della tribú di Beniamino dodicimila segnati. Dopo di questo vidi una grande moltitudine, che nessuno poteva contare, uomini di tutte le genti e tribú e popoli e lingue, che stavano davanti al trono e al cospetto dell’Agnello, vestiti con abiti bianchi e con nelle mani delle palme, che gridavano al alta voce: Salute al nostro Dio, che siede sul trono, e all’Agnello. E tutti gli Angeli che stavano intorno al trono e agli anziani e ai quattro animali, si prostrarono bocconi innanzi al trono ed adorarono Dio, dicendo: Amen. Benedizione e gloria e sapienza e rendimento di grazie, e onore e potenza e fortezza al nostro Dio per tutti i secoli dei secoli.]

Omelia I

(Omelia di S. S. Gregorio XVII – S. Messa 1973)

Cari fedeli, oggi, festa di tutti i Santi, abbiamo ascoltato dal Vangelo (Mt V, l-12a) il codice della santità, perché il codice della santità è questo. Mi sia concesso di invitarvi a considerare che molte altre cose che si dicono non sono il codice della santità [soprattutto quel che si dice dal Vaticano II in poi! – ndr.-]; il codice sta qui nelle otto beatitudini, non altrove. Ma non è sul Vangelo che oggi voglio attirare la vostra attenzione, bensì sulla prima lettura. La prima lettura è tolta dal capitolo VII (vv. 2-4.9-14) del libro dell’Apocalisse di Giovanni l’Apostolo. È una visione che lo stesso Giovanni ha avuto nell’isola di Patmos; fa parte di un gruppo di cinque visioni. – Questa visione è reale nel senso che il veggente vide realmente queste cose che avete sentito, ma è simbolica perché le cose che Giovanni ha visto e riferisce sono semplicemente il simbolo di altre e più alte. Ho detto: sono simboliche; che cosa è il simbolo? Il simbolo è una cosa che si vede, ma richiama in mente un’altra che è invisibile, e nel caso nostro è invisibile perché è troppo grande, non perché è nascosta, ma perché sta ad un livello diverso da quello nel quale stiamo noi e le nostre potenze conoscitive. Pertanto, quello che vorrei farvi notare, data la definizione del simbolo, è che quello che è indicato dalla visione concessa all’Apostolo è immensamente più alto, più grande. Quando siamo dinnanzi a questi simboli, siamo lanciati verso l’infinito e l’eterno, e questo fa capire perché nell’orazione mentale, alla quale tutti i fedeli sono chiamati, non c ‘ è una sponda sulla quale ci si debba arrestare, perché possiamo camminare nell’orazione mentale meditativa tutta la vita senza toccare le sponde, tanto è grande quello che è messo in nostra cognizione da Dio. – Ma messo chiaro questo, dico: questa visione dell’Evangelista che cosa presenta a noi? Mi riferisco alla seconda parte. Nella seconda parte l’Evangelista riferisce la liturgia eterna, cioè porta l’anima nostra – non dico lo sguardo – a ripensare alla vita eterna, al Paradiso, nel quale stanno i Santi. La vita eterna non è essenzialmente un luogo; lo potrà essere in tanto in quanto ci sono delle cose estense, quantitative – come è il corpo umano di Gesù Cristo e della Vergine Santissima assunta in Cielo -, ma il Paradiso, la vita eterna, non è tanto un luogo, quanto uno stato, un modo di essere. E noi qui abbiamo assistito a questa liturgia eterna. Noi potremmo pensare indefinitamente a quello che abbiamo sentito nel libro dell’Apocalisse, ma attenti: la sponda non la tocchiamo! Oggi, il giorno dei Santi – e sotto questo punto di vista la festa dei Santi ha una ragione di principato su tutta la liturgia dell’anno – invita a pensare al Paradiso. – Vedete, cari, le cose che ci aspettano, se meriteremo di salvarci l’anima, sono talmente grandi che le cose più stupende, che possono essere chieste dalla nostra immaginazione e della nostra fantasia, sono soltanto dei simboli. Diceva bene S Francesco d’Assisi: “Tanto è il bene ch’io mi aspetto che ogni pena mi è diletto”. Aveva ragione! E la vita eterna dove sono i Santi – anche i nostri parenti che sono santi sono tra i Santi -, la vita eterna è cosa che trascende ogni simbolo della stessa Sacra Scrittura ed è il vero riferimento della vita umana. Vedete: quando si pensa alla vita eterna – e qui si vede il crimine che compiono coloro che non ne parlano! [cioè i falsi cattolici modernisti –ndr.] -non c’è più nessuna difficoltà ad osservare la legge di Dio; tutto diventa incredibilmente piccolo; le difficoltà vengono perché non si pensa alla liturgia eterna, alla quale un giorno arriveremo anche noi. Non c’è più difficoltà a portare la croce, non c’è più difficoltà ad abbracciarla, abbracciarla come il centro delle nostre delizie: cambia proporzione e volto ogni esperienza di questo mondo. Ma tutto ciò accade nella misura in cui questa liturgia eterna è presente a noi. Quando Giovanni ha visto la visione ed è lì tutto trasecolato, poveretto anche lui – allora, non ora! -, il vegliardo gli chiede: “Hai visto, hai capito?” E dà la risposta: “Costoro con le vesti bianche sono coloro che vengono dalla grande tribolazione”. Evidentemente Giovanni alludeva non solo a tutti i Santi, ma ai molti martiri delle due persecuzioni che già erano passate, quella di Nerone e quella di Diocleziano, della quale fino a un certo punto era stata vittima lui stesso. Traduciamo in forma teorica. Cosa dice il Vecchio? Dice questo: la vita eterna è il riflesso di quello che è stato portato, accettato, sofferto, nella vita presente; dà il concetto della vita. Che vale questa vita destinata a morire, se non perché si riflette tutta nella vita eterna, tutta? I momenti fissati dal merito, gli atti decorati dalla libertà cosciente, il tempo e le circostanze assunte dai medesimi riflessi nell’eternità: questo è il concetto della vita. Al di fuori di questo concetto, o prima o poi, o in superficie o in profondità, non c’è che la disperazione, che è quella che leggiamo negli occhi di troppi nostri fratelli ai quali vogliamo bene. – Cari, il giorno dei Santi ci porta lassù. Con la mente sarà bene restarci e, possibilmente, non discenderne mai!

Graduale
Ps XXXIII:10; 11
Timéte Dóminum, omnes Sancti ejus: quóniam nihil deest timéntibus eum.
V. Inquiréntes autem Dóminum, non defícient omni bono. [Temete il Signore, o voi tutti suoi santi: perché nulla manca a quelli che lo temono.
V. Quelli che cercano il Signore non saranno privi di alcun bene.]

Alleluja

(Matt. XI:28)
Allelúja, allelúja – Veníte ad me, omnes, qui laborátis et oneráti estis: et ego refíciam vos. Allelúja.
[Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi: e io vi ristorerò. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt V:1-12
“In illo témpore: Videns Jesus turbas, ascéndit in montem, et cum sedísset, accessérunt ad eum discípuli ejus, et apériens os suum, docébat eos, dicens: Beáti páuperes spíritu: quóniam ipsórum est regnum cœlórum.
Beáti mites: quóniam ipsi possidébunt terram. Beáti, qui lugent: quóniam ipsi consolabúntur. Beáti, qui esúriunt et sítiunt justítiam: quóniam ipsi saturabúntur. Beáti misericórdes: quóniam ipsi misericórdiam consequéntur. Beáti mundo corde: quóniam ipsi Deum vidébunt. Beáti pacífici: quóniam fílii Dei vocabúntur. Beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam: quóniam ipsórum est regnum cælórum. Beáti estis, cum maledíxerint vobis, et persecúti vos fúerint, et díxerint omne malum advérsum vos, mentiéntes, propter me: gaudéte et exsultáte, quóniam merces vestra copiósa est in cœlis.”

[In quel tempo: Gesú, vedendo le turbe, salí sulla montagna. Sedutosi, ed avvicinatisi a Lui i suoi discepoli, cosí prese ad ammaestrarli: beati i poveri di spirito, perché di questi è il regno dei cieli. Beati i mansueti, perché possederanno la terra. Beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di questi è il regno dei cieli. Beati siete voi, quando vi malediranno, vi perseguiteranno, e, mentendo, diranno di voi ogni male per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.]

Omelia II

Mirabilis Deus in Sanctis suis. (Ps. LXVII, 36)

[A. Carmignola: Stelle Fulgide; SEI. –Torino, 1904]

I.

La Chiesa celebra oggi la solennità di tutti i Santi, solennità, che trae origine dalla Consacrazione, che si fece qui in Roma del Panteon, ad onore di tutti i Santi. Questo stupendo edificio innalzato da Menenio Agrippa, genero dell’imperatore Augusto, era stato dedicato a tutti gli dèi falsi e bugiardi del paganesimo. Ma sul principiare del secolo VII essendo stato ceduto dall’imperatore Foca al sommo pontefice S. Bonifacio IV, questi lo purificò ed aperse al culto cristiano, consacrandolo alla SS. Vergine e a tutti i SS. Martiri, ordinando che se ne facesse la festa al 13 di maggio. Ma Gregorio IV nell’anno 834 estese questa festa a tutti i Santi e Sante del cielo, da celebrarsi non solo in Roma, come erasi fatto sino allora, ma per tutto il mondo cristiano, assegnandole il 1° novembre. E ben a ragione, perciocché essendo il numero dei Santi pressoché infinito, e non potendosi nel corso di un anno celebrare la festa di ciascun santo in particolare, era conveniente con una solennità ad onore di tutti celebrare anche quelli, che nel corso dell’anno sono in certa guisa forzatamente negletti, E tanto più perché una tale solennità servendo efficacemente a fermare il nostro pensiero sulla grande meraviglia divina, che sono i santi, ci avrebbe indotti altresì a lodare e ringraziare il Signore d’aver santificati i suoi servi in terra e d’averli coronati di gloria in cielo, a riconoscere la loro grandezza e la loro potenza e ad onorarli ed invocarli, a ricordare gli splendidi e salutari esempi, che essi ci hanno dato in ogni età, in ogni sesso e in ogni condizione, e ad imitarli colla memoria della grande ricompensa, che ora essi godono in paradiso. – Perciocché se Iddio è veramente ammirabile in tutte le sue opere, lo è senza dubbio in modo particolare nei suoi santi: Mirabilis Deus in sanctis suis. Egli è ammirabile nella loro predestinazione, ammirabile nella loro vocazione, ammirabile in tutta l’economia della loro salute, ammirabile nella loro gloria e nella loro beatitudine, ma ammirabile sopra tutto, come nota S. Leone Magno, per averci dato in essi dei protettori e degli esemplari: Mirabilis Deus in sanctis suis, in quibus et præsidium nobis constituit et exemplum. – Entriamo dunque oggi nelle mire sapienti della Chiesa e, fissando lo sguardo sopra i Santi tutti del cielo, animiamoci a compiere i tre principali doveri che abbiamo verso di essi. – E voi, o Vergine Santissima, amabile S. Giuseppe, Angeli e Santi tutti del Paradiso, con la intercessione vostra presso Dio rendete fruttuose le nostre considerazioni: Omnes sancti et sanctæ Dei, intercedete prò nobis.

II

L’Apostolo S. Giovanni nella sua divina Apocalisse vide una moltitudine di Santi di ogni nazione, di ogni popolo e di ogni lingua, rivestiti di candide stole e recanti nelle loro mani delle palme, simbolo della vittoria da loro riportata sopra il demonio, sul mondo e sulla carne. Questi Santi tutti stavano dinnanzi al trono dell’ Altissimo, e pieni di gioia benedicevano, glorificavano e ringraziavano il Signore e l’Agnello, cioè Gesù Cristo, riconoscendo, come osserva S. Agostino, che nel mondo essi vinsero la prova delle tribolazioni, onde furono assaliti, non già per propria virtù, ma coll’aiuto di Dio, e che nel Cielo essi posseggono quella gloria ineffabile per i meriti dello stesso Signore Gesù Cristo. Epperò lo stesso Apostolo S. Giovanni vide ancora che i Santi deponevano le loro corone a pie’ del trono di Dio e si gettavano colla faccia per terra innanzi all’Agnello, adorando Lui che vive per tutti i secoli. Eziandio gli Angeli come custodi ed amici dei Santi prendevano parte alla loro allegrezza, e intorno al medesimo trono di Dio facevano eco alle loro voci dicendo: « Sempre e per tutti i secoli sia benedizione, gloria, lode, onore e rendimento di grazie a Dio nostro Signore ». – Ecco adunque il primo nostro dovere nella presente solennità, e in tutte le feste dei Santi: unire le nostre voci a quelle degli Angeli e Santi medesimi, e lodare, glorificare e ringraziare Iddio, perché con la sua gratuita misericordia li ha eternamente eletti e predestinati a quella gloria, che ora godono in Cielo; perché nel tempo della loro vita mortale li ha chiamati al suo santo servizio e li ha giustificati in virtù dei meriti di Gesù Cristo, Agnello immacolato, ricolmandoli delle grazie e dei doni dello Spirito Santo, e finalmente li ha coronati di onore e di gloria nel suo celeste regno in Paradiso. Uniamo adunque le nostri voci con quelle degli Angeli e degli Arcangeli, dei Troni e delle Dominazioni e di tutta la corte celeste, e cantiamo anche noi l’inno della gloria di Dio, dicendo: Santo, Santo, Santo è il Dio di Sabaoth. Pieni sono della tua gloria i cieli e la terra: osanna nel più alto dei cieli. Benedetto tu, che sei venuto sulla terra, e vi vieni ancora ogni giorno a renderla feconda di Santi: osanna, osanna nel più alto dei cieli!

III.

Il secondo dovere, che noi dobbiamo compiere verso i Santi, si è quello di onorarli ed invocarli nei nostri bisogni, rendendo in tal guisa ad essi il culto loro dovuto. Vi hanno di coloro, i quali nel culto, che la Chiesa Cattolica ordina peri Santi, vogliono vedere una specie di idolatria. Ma che cosa è l’idolatria? Essa è un rendere a chi non è Dio il culto supremo di adorazione dovuto a Lui solo. Ora è questo forse il culto, che noi rendiamo ai Santi? No certamente. Il culto supremo di onore e di gloria è a Dio solo che lo rendiamo, e i Santi li veneriamo soltanto, non già riconoscendo in essi altrettanti Dei, ma unicamente degli uomini sommamente di noi benemeriti e da Dio stesso grandemente amati e glorificati. E qual cosa più naturale di questa? Forsechè si agisca diversamente nella civile società? Allora che in essa si tratta di uomini, che ben meritarono pei servigi resi alla patria o nel governo dei popoli, o nelle vittorie sui nemici, o nelle benefiche istituzioni, o nell’arte letteraria od in qualsiasi altra, non si sogliono essi onorare del culto civile? Non è la loro fronte, che si cinge di corona ? Non è il loro petto, che si orna di medaglie? Non è per essi, che si fanno splendide sepolture, che si intessono orazioni di lode, che. si adornano i sepolcri? E qual secolo andrà più famoso del nostro per la manìa d’innalzar monumenti, di apporre lapidi e di deporre corone? E quello che si fa e si sente di dover fare nella società civile, sarà idolatria il farlo nella società religiosa della Chiesa Cattolica? Se le fibre del cuor umano mostrano di fremere dinanzi agli eroi, non dico del valore e dell’ingegno, ma dell’audacia e dell’impostura, non dovranno esaltarsi davanti agli eroi della virtù? – Ma vedete strana logica di certa gente. Essa per le onoranze ai suoi grandi toglie persino ad imprestito il linguaggio della Chiesa, e parla ancor essa di martiri, di are sacrosante, di commemorazioni, di pellegrinaggi, di santificazione e simili; e poi grida la croce addosso a noi e ci chiama idolatri o fanatici, perché veneriamo i Santi! quei Santi, che hanno reso a Dio il più umile e rispettoso servigio, che dalla creatura si possa rendere al creatore! quei Santi, che servendo a Dio hanno pur tanto beneficato la società e la beneficano tuttora con gli esempi che ci hanno lasciati! quei Santi, che possedettero la scienza più sublime e dispiegarono il valore più eroico! E oltre ai grandi meriti, che i Santi acquistarono durante la loro vita, non sono ora per eccellenza gli amici di Dio? E chi potrà penetrare le tenerezze, che Dio ha per loro! I giusti sono per Iddio oggetto d’ineffabile predilezione fin da questa vita, nella quale vanno ancor soggetti a tante miserie e colpe veniali, sì che egli posa sopra di loro con compiacenza i suoi occhi: Oculi mei super iustos (Ps. XXXIII, 14); e non li chiama più servi, ma amici: jam non dicam vos servos, sed amicos (Ioann., XV, 15), Or che sarà adesso, che al tempo della prova è succeduto quello della ricompensa? Adesso, che dopo aver richiesto da loro obbedienza, generosità, sacrifici, ed aver tutto ottenuto, è giuntoli tempo di ricambiar tutto ciò? Ah! mirate prove di amore che Iddio dà ora a suoi Santi ! Ei li vuole con sé: Volo ut ubi ego sum, illie sit et minister meus (Ioann. XII, 26); vuole essere egli stesso la loro mercede; ergo ero merces tua (Gen. XV, 1); vuole che siano inebriati della medesima felicità, di cui Egli gode: torrente voluptatix tuæ poiabis eos (Ps. XXXV, 9). E noi potremmo amare ed onorare Iddio senza amare ed onorare codesti suoi figli prediletti? Ma alla fin fine, quando un re ama ed onora egli stesso il suo suddito, vuole forse che dagli altri sia disprezzato o per lo meno tenuto in nessun conto? Allora che Faraone costituiva Giuseppe secondo nel suo regno per avere con la spiegazione dei suoi sogni procacciata la salvezza dell’Egitto, intendeva forse di riconoscerlo per tale egli solo? E quando Assuero volle onorar Mardocheo per avergli salvata la vita, si contentò egli di onorarlo nelle chiuse stanze della sua reggia? E quando Baldassarre ebbe spiegato da Daniele l’enigma di quella scritta tremenda: Mane, Thecel, Fares, fu egli pago di dargli collane ed anelli preziosi? La storia ben diversamente ci attesta che quei sovrani non paghi di onorare essi medesimi questi uomini grandi, vollero eziandio che fossero onorati da tutti i loro sudditi, epperò mandandoli in trionfo per le città dei loro regni, li facevano precedere da un banditore che ad alta voce doveva gridare: « Così si onori colui, che il re vuol onorare!» E noi dunque non dovremo onorare i Santi, che Dio stesso tanto onora e glorifica? – Ma, soggiungono i protestanti, voi altri cattolici non ci potrete negare che nella Bibbia non si trova alcuna traccia di questo culto. E per ciò? Risponderemo noi, dovremo astenerci dall’onorare i santi? Sappiamo bene che voi pretendete che nulla debbasi fare, che non sia prescritto nella Bibbia; ma sappiamo pure che oltre al falsificare la Bibbia stessa, voi non fate poi quanto essa prescrive di fare. La Bibbia ad esempio nel Vangelo di S, Matteo al capo XVIII, versicolo decimosettimo, dice che « se alcuno non ascolta la Chiesa, ha da essere considerato come un gentile ed un pubblicano ». Or bene, quale ascolto date voi alla Chiesa? Se foste docili ai suoi santi insegnamenti, riterreste che non è la Bibbia sola, che deve formare la norma dei nostri insegnamenti, ma che oltre alla parola di Dio scritta, vi ha pure la parola di Dio venutaci per Tradizione, la quale ha la stessa autorità, perché tutta è parola dello stesso Iddio. Ed allora dalla Tradizione imparereste, che il culto dei Santi da noi rimonta sino ai tempi apostolici; che non solo ne hanno articoli espressi il Concilio Tridentino e Niceno II, ma che la pratica di questo culto si trova ancora nei cimiteri, nelle catacombe, negli oratori, nei monumenti, che innalzavansi a celebrare la memoria dei martiri, e presso dei quali recavansi per pregare i fedeli; udreste dirvi da S. Agostino, da S. Giovanni Crisostomo e ripetutamente da S. Cipriano e da Tertulliano che nei giorni anniversari della morte dei martiri offrivasi a Dio il Santo Sacrificio in loro onore; vedreste gli onori speciali tributati dalle loro Chiese a S. Pionio, a S. Policarpo, a S. Ignazio, discepoli questi ultimi degli stessi Apostoli; leggereste nelle Costituzioni Apostoliche i giorni, in cui devesi far festa per onorare gli Apostoli ed i martiri, e finalmente ricavereste l’uso di questo culto dagli stessi eretici Manichei, che nel terzo e quarto secolo ne facevano come voi, rimprovero alla Chiesa Cattolica. – Del resto è vero che nella Bibbia non vi è traccia del culto dei Santi? Io l’apro nel libro del Genesi (XVIII, 2 — XIX, I) e vi leggo che Abramo e Lot s’inchinarono d’innanzi agli angeli loro inviati da Dio: io l’apro nel libro dell’Esodo (XXIII, 20) e vi leggo che così parla Iddio al suo popolo: « Ecco, io manderò il mio Angelo, che ti preceda nel cammino; onoralo, ascolta la sua voce e guardati dal disprezzarlo; imperciocché il mio nome è con lui ». Io l’apro nel libro di Giosuè (V, 15) e vi leggo che egli si incurva dinnanzi all’Angelo, che gli è apparso, e che ei riceve l’ordine dall’angelo stesso di togliersi i calzari, perchè il luogo dove sta è santo; io l’apro nel libro IV dei Re (I, 10-13) e v i leggo il castigo terribile, con cui Iddio punì i due capitani, che mancarono di rispetto al profeta Elia, e l’atto di venerazione usato al medesimo da un terzo capitano. Nello stesso (II, 24) leggo l’aspra vendetta, che Dio fece dei fanciulli schernitori di Eliseo, e (IV, 37) l’onore che allo stesso profeta rese la Sunamitide, dopo ché ebbe da lui il figlio risuscitato. Come dunque si osa dire che nella Bibbia, non vi è traccia del culto dei Santi? Né è una difficoltà il dire che il culto, di cui si parla nella Bibbia, trovasi tributato a santi ancor viventi: perché se Iddio e con la parola e col fatto approvò l’onore, che fu reso agli uomini santi, mentre ancor vivevano quaggiù soggetti alle umane imperfezioni, si potrà forse dubitare ch’Egli non si compiaccia dell’onore, che rendiamo ai Santi, quando già uscirono da questo mondo, e la Chiesa col suo giudizio ci assicura che sono beati in cielo? Non solo adunque non siamo idolatri nell’onorare i santi, ma neppure novatori, come pretenderebbero i protestanti. Onorando i Santi non facciamo né più né meno di quel che si fece per testimonianza della Bibbia nell’antica legge, e né più né meno di quello che per testimonianza della Tradizione sempre si fece nella legge nuova.

IV.

Ma, udite, o fratelli: il protestantesimo non è pago ancora, e dopo d’averci contraddetto l’onore ai Santi vuole contraddirci eziandio l’invocazione del loro aiuto. Udite come esattamente riproduce i suoi sentimenti un illustre scrittore: « Quelli che furono santi in questo mondo, quelli che ebbero il cuore sì ricco d’amore e la mano sì feconda di benefizi, non hanno più per noi che la fredda luce della loro gloria. Non domandiamo loro nulla, perché essi non intendono le nostre domande; non confidiamo nella loro intercessione; essi non possono più nulla per noi. La perfezione consummata, in cui essi si trovano, ha inaridito nel loro seno l’ammirabile potere di far del bene a quelli che essi amavano. Un padre non è più padre, una madre non è più madre, un fratello non è più fratello, un amico non è più amico. Versiamo lacrime senza speranza, e come il re Agag solleviamo questo lamentevole grido: Sicóim separat amara mors? Così ci separa la morte amara? » Ecco la dottrina del protestantesimo, che rompe quella catena preziosa, che lega la Chiesa trionfante del cielo colla Chiesa militante della terra. – E non sentite, o fratelli, rivoltarsi contro di essa i sentimenti più delicati e profondi del vostro cuore? Non udite voi la natura gridare sdegnata al protestantesimo: tu menti? I suoi larghi e generosi istinti non vi dicono forse: la verità non può essere questa? ed è impossibile questo separatismo brutale, che isola la terra dal cielo? Ah! ben diversa è la dottrina della Chiesa cattolica! Ogni giorno essa invita i suoi figli a ripetere colle parole del Simbolo: Credo la Comunione dei Santi, vale a dire: credo che e anime beate del cielo, e anime militanti della terra, ed anime purganti del Purgatorio siamo tutti un solo e medesimo corpo, il cui capo è Gesù Cristo; credo che in questo mistico corpo l’interesse di un membro è l’interesse di un altro, il bene dell’uno è il piacere dell’altro, la pena dell’uno è la compassione dell’altro: credo che la carità più viva è quella, che lega insieme tutte queste membra, che sebbene ancora in luoghi diversi formano tuttavia un solo corpo, la Chiesa di Gesù Cristo. – E stando salda questa unità, del cui dogma sono ripiene le sacre scritture, come si potrà, senza sragionare, negar le comunicazioni tra i santi del cielo e gli nomini della terra? La Chiesa militante, prosegue il grande Monsabré, per rapporto alla Chiesa trionfante è nelle condizioni analoghe a quelle d’un esercito, che combatte in lontano paese, di fronte alla patria, ove tutto è ordine, prosperità e pace. Forseché l’esercito non ha sempre gli occhi rivolti alla patria, d’onde attende i soccorsi ed i rinforzi, dei quali ha bisogno per condurre a buon termine una faticosa campagna? E forseché la patria per godere d’una felicità egoistica non si dà pensiero delle fatiche, dei patimenti di quei valorosi, che tengono alto l’onore della bandiera? Forseché tra l’esercito e la patria non esiste una solidarietà intima, che si manifesta in uno scambio generoso e pieno di fiducia, di preghiere e di sollecitudini, di voti e di benefizi, fino al giorno, nel quale i vincitori attraverseranno in trionfo la folla commossa dei cittadini, che col cuore erano con essi sulla terra straniera? Onta e sventura al paese, che dimentica i suoi soldati! Voi sapete troppo bene, o fratelli, fino a qual punto il patriottismo si sdegni contro simile delitto. – Or bene, esercito di Gesù Cristo sempre in battaglia contro i nemici della salute, noi imploriamo ed attendiamo dai Santi, che abitano la patria celeste, nella quale un giorno dovremo noi pure trionfare, un’assistenza necessaria ed efficace. È questo un diritto che noi abbiamo, appartenendo noi allo stesso corpo, cui appartengono i Santi. E perché non lo eserciteremo? Se la gloria che inonda i Santi avesse, come credevano gli antichi del fiume Lete, la strana proprietà di far loro dimenticare la terra, dove testé combattevano nelle nostre file, allora sì che sarebbe inutile invocare i Santi. Sarebbe pure inutile, se la luce, in cui vivono, loro impedisse di stendere lo sguardo alle nostre miserie; se Iddio dopo d’esser stato con essi sì generoso quando erano in terra, fosse adesso con loro sì scarso; se finalmente il costume dei Santi fosse il medesimo degli uomini volgari ed egoisti del mondo, che saliti dal basso all’alto, dalle miserie alle prosperità, dimenticano sì facilmente i parenti e gli amici rimasti allo stesso posto di prima. Ma tutto è ben diverso, Ah! i Santi saliti al Cielo ricordano l’aspra lotta, che dovettero a tal fine sostener qui in terra; vedendo Dio vedono tutto ciò che egli ama, tutto ciò, di cui egli ha cura, epperò conoscono i nostri bisogni meglio di quanto li conosciamo noi stessi; la loro potenza è cresciuta in cielo in ragione della loro perfezione, e come è cresciuta in essi la potenza di aiutare gli uomini, così è cresciuta la loro volontà di aiutarli, e quanto più sono sicuri della loro felicità, tanto più sono solleciti della, nostra salute: Quantum de sua felicitate securi, tantum de nostra salute solliciti (S. Ciprianus, lib. de Mortal.); epperò meritano di essere da noi con tutta fiducia invocati. – E dica pure il protestantesimo che l’apostolo san Paolo asserisce che un solo è il mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo (1 Timot. II, 5), ma noi riterremo senza dubbio che un solo per natura è il mediatore tra il cielo e la terra, un solo per natura è il Salvatore del genere umano, un solo per natura è il nostro avvocato presso il trono dell’Altissimo; ma che ciò non toglie che altri mediatori ed avvocati vi possano essere per partecipazione e per grazia. Il protestantesimo dica pure che col rivolgerci ai Santi facciamo affronto a Dio, quasi riconoscendo in essi e non in Dio i padroni ed i dispensatori della grazia, ma noi riterremo che ci rivolgiamo ai santi non come ad autori e padroni delle grazie, ma semplicemente come ad intercessori per ottenerle. Tanto è vero che la Chiesa nella S. Messa non mai si dirige con le sue orazioni ai Santi, ma si rivolge direttamente a Dio pregandolo a concederle, le sue grazie, per la intercessione dei Santi, e sempre per i meriti di Gesù Cristo: Per Dominum nostrum Iesum Christum. Il far rimettere nelle mani del re una supplica per mezzo di un suo favorito, sarà questo un affronto al re stesso e un riconoscere per autore della grazia, che si implora, il suo favorito? Il protestantesimo dica pure che Dio, è ottimo padre, pronto sempre ad esaudirci e che Gesù Cristo, per mezzo della sua passione e morte ci ha meritate tutte le grazie, di cui abbisogniamo, e che perciò è inutile il ricorrere ai Santi, e noi riterremo che se Iddio è ottimo Padre, noi siamo pur troppo figliuoli cattivi, ai quali può giustamente negare quello che noi gli chiediamo, per avere noi tante volte negato a Lui quello che da noi richiedeva; ed essere perciò sommamente utile ad ottenere le grazie sue l’interporre l’intercessione dei figliuoli santi, che Iddio per la loro bontà predilige: che se Gesù Cristo basta senza alcun dubbio a meritarci ogni favore, ciò non impedisce che Egli si compiaccia di onorare i Santi, facendoci ottenere le grazie anche per la intercessione degli stessi. Finalmente quando il protestantesimo ci dirà ancora che nella Bibbia non trovasi parola dell’invocazione dei Santi, e noi colla Bibbia alla mano mostreremo loro che nel vecchio testamento gli amici di Giobbe a lui si raccomandano, perché plachi Iddio con essi sdegnato; che Mose ed Aronne s’interpongono più volte in favore degli Israeliti prevaricatori; che il popolo ebreo ricorre alle preghiere di Samuele; che nel libro di Zaccaria si parla d’un Angelo, che prega Dio per i Giudei; che nel libro II dei Maccabei si manifesta la cura che degli stessi presero Onia e Geremia già passati di questa vita; che nel nuovo testamento il Divin Salvatore compie il suo primo miracolo per intercessione di Maria; che S. Paolo si raccomanda alle orazioni dei fedeli; che S. Giacomo li esorta a pregare gli uni per gli altri; che S. Pietro promette loro di ricordarsene dopo morte; e finalmente che S. Giovanni nella sua Apocalisse vede in cielo ventiquattro seniori, che prostrati dinanzi all’Agnello tengono in mano ampolle d’oro piene di soavi fragranze, che sono le orazioni dei Santi (V, 8). – Per noi cattolici poi aggiungeremo che l’invocazione dei Santi è sempre stata nella Chiesa una pratica costante, da noi sino ai primi secoli: le cui chiare testimonianze si ritrovano nelle più antiche liturgie, negli atti dei martiri, negli scritti di Origene, di S. Cipriano, di S. Eusebio, di S. Gregorio Nazianzeno, di S. Cirillo Gerosolimitano, scrittori tutti del III, IV e V secolo, nei concilii ecumenici Costantinopolitano III e Niceno II, e che però ben a ragione il Concilio Tridentino comanda ai sacri Pastori di insegnare ai fedeli che « i Santi, i quali regnano con Cristo, offrono a Dio le loro orazioni per gli uomini; essere quindi cosa buona ed utile l’invocarli supplichevolmente ».

V.

Ma riguardo a questo secondo dovere, che noi dobbiamo compiere coi Santi, il protestantesimo si scandalizza ancora, e l’incredulità ci deride, perché dei Santi veneriamo le reliquie e le immagini. Ora non torna neppur difficile il riconoscere quanto ingiusto sia questo scandalo e questa derisione. Forseché noi adoriamo le immagini e le reliquie dei Santi, come facevano i Pagani coi loro idoli? Forseché riponiamo nelle stesse una qualche fiducia? Se noi baciamo e veneriamo le immagini e le reliquie dei Santi, non intendiamo forse di riferire il culto e la venerazione nostra ai Santi medesimi? Vedete strana incoerenza: si protesta contro il culto delle immagini e reliquie dei Santi; ma si protesta forse contro il culto, che il soldato serba alla sua bandiera? si protesta forse contro il rispetto, che il popolo serba alla casa, che vide nascere un uomo grande e ne raccolse l’estremo sospiro? si protesta forse contro del figlio, che guarda con riverenza uno scritto del padre? si protesta forse contro la sposa, che serba con tenerezza l’anello dello sposo? contro l’amico, che tiene caro un fiore staccato dalla tomba dell’amico? contro la famiglia, che appende con affetto i ritratti dei maggiori? Ma che dico? si protesta forse contro i governi e i municipii che nei loro musei serbano e venerano capelli, calzoni, tabacchiere, bastoni, badili e persino altri più vili istrumenti degli uomini che si dicono grandi? Eh via! l’iniquità mentisce mai sempre a se stessa: mentita est iniquitas sibi (Ps. XXVI, 12). Le immagini dei Santi che noi veneriamo ci parlano al cuore, ci ricordano le loro virtù, l a loro potenza, ci stampano in mente il dovere, che noi abbiamo di imitarli, e ci spronano a seguire i loro esempi, e noi non rigetteremo giammai un culto per noi tanto utile. I corpi e le reliquie dei Santi sono corpi e reliquie di coloro, che sono membra vive di Gesù Cristo e templi dello Spirito Santo per là grazia, onde furono ripieni; ed un giorno saranno con le anime glorificati in cielo, e noi non disprezzeremo giammai la voce della ragione, che ci dice di venerarli. La Chiesa in ogni tempo ebbe in uso il culto delle reliquie; i cristiani serbarono sempre con venerazione l’arena inzuppata dal sangue dei martiri, e si gloriarono sempre d’inginocchiarsi nei santuari dinanzi agli avanzi gloriosi di quei Santi, che essi invocano a difesa e tutela della loro patria; e Dio stesso più volte con grazie e miracoli ha mostrato come questo culto gli torni accettevole.

VI.

Se non che, o fratelli, se è a dolere che i nostri fratelli separati non vogliano saperne di culto e d’invocazione dei Santi, non è a dolere anche più, che praticamente facciano lo stesso certi cristiani? Allorquando nel secolo III i pagani di Roma piangevano nel vedere disprezzati dai Cristiani i loro dei, Tertulliano rispondeva loro: Io non so se gli dei vostri più abbiano a lamentarsi di noi, che di voi: Nescio plusne dii vestri de nóbis quam de vóbis querantur. E giustamente, perché i Cristiani disprezzavano gli dei di Roma per ragione e per principio; laddove i pagani pretendevano d’onorarli con il libertinaggio e con lo sregolamento delle loro passioni. Or bene, se noi badiamo come taluni tra noi cattolici onorino ed invochino i Santi, sapremmo asserire se i Santi più abbiano a lamentarsi di noi, che degli eretici? Ed in vero, vi dirò con un grande oratore: noi sappiamo che i Santi sono gli amici di Dio e i nostri patroni, sappiamo che prostrati dinanzi al trono del Signore del continuo pregano per noi, sappiamo che tanto si occupano della nostra salute, che ci salvano dall’ira di Dio, che ci scampano da mille disgrazie e pericoli, sappiamo che sono i nostri più grandi benefattori, potendosi dir di ciascuno: Me fratrum amator et populi: questi è il vero amante dei suoi fratelli e del popolo (2 Mac. XV). Ma intanto poi li copriamo, non dico solo di oblio e di ingratitudine, ma di oltraggio e di disonore. I Santi implorano sul nostro capo le benedizioni celesti, e noi talora apriamo la bocca a bestemmiare il loro nome. – Per essi la Chiesa innalza dei templi e noi con la nostra irreligione li violiamo; per essi istituisce delle feste e noi con la noncuranza nostra le profaniamo; per essi celebra offici e intesse elogi e noi vi assistiamo, non dico con indifferenza, ma persino con spirito di disprezzo. A renderci profittevoli le loro solennità la Chiesa ci obbliga alla vigilia ed al digiuno e noi calpestiamo questa legge, e quei giorni medesimi, che per essere ai Santi consacrati dovrebbero essere per noi giorni di onesta gioia e di religiosa pietà, sono invece giorni di licenza, di divertimenti, di giuochi, di gozzoviglie e di disordini. Ecco, o fratelli, per nostra onta, qual è il culto, che molti di noi cattolici prestiamo ai Santi! Che dirò poi dell’invocazione che rivolgiamo talora ai medesimi? Io non parlo, no, di quelle preghiere abominevoli, e secondo il termine della Sacra Scrittura, esecrabili, che se fossero dai Santi esaudite, farebbero di loro altrettanti fautori dei nostri vizi, di quelle preghiere cioè con cui s’invocano i Santi per il successo d’una impresa ingiusta, pel mantenimento di una fortuna iniqua, per la prosperità d’un affare malvagio, per la soddisfazione d’una sregolata cupidigia, per la riuscita d’una scellerata vendetta. Questo, come dice Agostino, sarebbe il massimo degli affronti, perché se gl’infedeli domandavano tali cose ai loro falsi dei, egli è perché li ritenevano per più corrotti di loro, e non v’è perciò da stupirne; ma sapere che i Santi sono glorificati in cielo per la virtù e chiedere loro quello, che mira all’annientamento della medesima, sarebbe questa la più orrenda delle indegnità. Non parlo neppure di quelle preghiere affatto mondane, con le quali invochiamo dai Santi beni del tutto profani, agi, ricchezze, onori, e non mai ciò che riguarda il nostro avanzamento nelle cristiane virtù, e la santificazione delle anime nostre. Anche, questa sarebbe una riprovevole usanza, mostrarsi così solleciti d’invocare i Santi quando si tratta di ottenere un bell’impiego, di raggiungere una carica, di aver robustezza di salute, di guarire da una infermità, di scampare da una malattia contagiosa, di abbattere i nemici della patria, di ottenere un tempo favorevole alle campagne, di fare un raccolto abbondante, di riuscir bene in un negozio, e poi trascurare d’invocarli, anzi non invocarli affatto quando si tratta di distruggere un’abitudine viziosa, di vincere una passione che ci domina, di abbattere la carne che si ribella, di superare la tentazione che ci travaglia, di preservarci dalle piaghe del mondo e dalla sua corruzione. Sì, anche questa sarebbe noncuranza e cecità dannosissima. Io voglio parlare soltanto del grande abuso, che della invocazione dei Santi noi facciamo in quelle preghiere medesime in apparenza le più religiose, in quelle preghiere, con le quali protendiamo di ottenere dai Santi quello che non ci studiamo di ottenere noi stessi, in quelle preghiere, con cui abbiamo l’impudenza di chiedere ai Santi l’intercessione per la nostra salvezza, avendo poi la pretesa di vivere noi senza vigilanza e senza attenzione per la stessa. – Noi invochiamo i Santi, e vorremmo che ad ottenere il compimento dei nostri voti bastasse l’invocarli: noi invochiamo i Santi, e domandando loro lo spirito di penitenza, vorremmo continuare a vivere a nostro genio: noi invochiamo i Santi, e domandando loro la grazia di convertirci, vorremmo che la nostra conversione non importasse alcuna violenza, alcun distacco, alcun sacrificio per parte nostra; noi invochiamo i Santi, e domandando loro il possesso della virtù vorremmo non aver da prendere alcuna misura per conseguirlo, e soventi volte, come Agostino prima che rompesse le sue ree catene, non crediamo d’essere esauditi giammai; noi invochiamo i Santi e vorremmo determinare le grazie che ci hanno a fare, e grazie non di rado, che non ci convengono affatto e che più ancora che a nostra salute servirebbero a nostra rovina! Ah cristiani! ricordiamoci che se i Santi sono potenti appresso Dio, non lo sono contro di Dio e contro del suo volere: che se sono potenti, il sono d’una potenza regolata ed ordinata, d’una potenza raffermata ogni giorno secondo l’intendimento della legge eterna: vale a dire essi, sono potenti per consolarci nelle nostre pene e non già per farcene esenti; essi sono potenti per darci mano ad operare e non già per trattenerci in una rilassata indolenza; potenti secondo i disegni di Dio e non secondo le nostre velleità e i nostri capricci. Invochiamoli adunque i Santi, perché Iddio, in essi ammirabile, ce li ha dati per nostri protettori; ma appunto perché sono Santi invochiamoli santamente. Che se per nostra storditezza e malizia li invocheremo alla mondana, anziché farci dei protettori, che ci difendano e ci soccorrano, ricordiamoci che ci faremo dei testimoni e dei giudici per accusarci e condannarci. – S. Giovanni nell’Apocalisse tra le altre cose intese pure i Santi a domandare a Dio non grazie per gli uomini, ma giustizia e vendetta contro gli uomini: Usquequo non vindicas sanguinem nostrum de iis qui habitant in terra? (VI, 10): Signore, giustizia e vendetta non solo contro gli uomini, che nel corso della vita ci hanno disprezzati, perseguitati, accusati, condannati, messi a morte: giustizia e vendetta non solo contro gli uomini libertini ed empii, che hanno profanato le nostre feste, e beffeggiato il nostro culto; ma giustizia e vendetta contro di coloro eziandio, che hanno fatto e vogliono fare della nostra protezione un uso sì contrario ai tuoi divini voleri e sì iudeguo della nostra santità: Usquequo non vindica? sanguinem nostrum de iis qui habitant in terra ?

VII.

Ma passiamo ora a dir brevemente del terzo dovere, che noi dobbiamo compiere verso dei Santi, che è quello d’imitarli. Stava per morire l’illustre Matatia, quel generoso principe de’ Maccabei, e chiamati a sé dappresso i suoi figlinoli così disse loro : « Figli, zelate la legge di Dio e ricordate soprattutto gli esempi, gloriosi dei padri vostri, ed anche voi vi acquisterete una gloria ed un nome immortale. Eicordate la fedeltà di Àbramo, la sofferenza di Giuseppe, l’obbedienza di Giosuè, la moderazione di Davidde, lo zelo di Elia, la integrità di Daniele e ricopiate nell’animo vostro così belle virtù e così operando di generazione in generazione toccherete con mano che non v’ha cosa più onorata e sicura quanto quella di servire a Dio ». Così parlò quel venerando vegliardo, che S. Giovanni chiama uomo evangelico prima ancor dell’evangelio. E così parla a noi il Signore del continuo. «Ricordate le virtù dei Santi, egli dice, considerate i loro esempi e seguiteli: anche per questo fine io li ho suscitati. Ecco gli eroi della vostra fede, ecco gli uomini, di cui il mondo non era degno, e che disprezzati dal mondo si resero degni di me. Contemplateli, paragonateli con voi e scoprendo l’infinita distanza, che vi separa, studiatevi di avvicinarvi. Invece di affettare virtù mondane, che non hanno né verità né sodezza, invece della prudenza della carne, che vi danneggia e vi fa nemici di Dio, invece di quella sconsigliata politica, che vi violenta la coscienza e vi getta in un abisso di colpa, invece di quella scienza mondana, che tanto vi gonfia e niente vi giova, abbracciate quelle virtù che hanno praticato i Santi, e se pur volete uno sfogo alla vostra ambizione, cercatelo nell’emulare i loro esempi : Æmulamini charismata meliora » (1 Cor. 1,12). – Ecco, o fratelli, quel che vi dice Cristo, quel che vi dice sopratuttto in questo giorno sacro a tutti i Santi. – Ma io so bene che a sottrarsi all’adempimento di questo precetto non mancano i pretesti. E primo è quello di figurarci difficile e quasi impossibile la santità. Ma come, esclama S. Bernardo, difficile la santità? Se Dio richiedesse da voi la possanza dei miracoli, la predizione delle cose future, la grazia delle guarigioni, il discernimento degli spiriti, la sublimità delle visioni, la grandézza delle rivelazioni, allora capirei esser difficile il farsi santi: ma è questo forse che richiede da noi? No per certo. Ei si contenta che noi siamo umili, pazienti, caritatevoli, temperanti, casti, misericordiosi; questo gli basta per averci in conto di santi e questo forse sarà difficile? Mirate i Santi, ci dice l’Apostolo, essi provarono gli scherni e le battiture, furono lapidati, furono segati, furono tentati, perirono sotto la spada, andarono raminghi, coperti di pelli di pecora e di capra, mendichi, angustiati, afflitti, errando per le solitudini, e per le montagne, e nelle spelonche e caverne della terra; e se questi e quelli, soggiunge S. Agostino, con l’aiuto di Dio hanno potuto tanto, perché non potrò anch’io assai meno? Si isti et illi cur non ego? Perché non potrò essere casto anch’io? Perché non potrò essere umile anch’io? Perché non potrò perdonare anch’io? Perché non potrò anch’io essere paziente? – Ma i Santi, si dice, ed ecco il secondo pretesto, erano uomini diversi da noi, né soggetti alle stesse miserie. Oh quale inganno! I Santi erano uomini e donne deboli come siamo noi, erano composti della stessa fragile creta; essi ancora, dice S. Bernardo, provarono le molestie di questo esilio, le afflizioni di questo misero pellegrinaggio, essi ancora sentirono il peso di questo corpo mortale e gli stimoli della ribelle concupiscenza. Essi pure furono esposti alle tentazioni, ai tumulti delle passioni, alle contraddizioni ed agli scandali del mondo. Anzi molti furono peccatori come noi, e forse più di noi, e sperimentarono gravissime difficoltà e ripugnanze al bene; pure confidati nella grazia di Dio vinsero e tentazioni e passioni e scandali e riuscirono a santificarsi. Oh! abbandoniamoci anche noi nelle braccia del Signore, ed il Signore ricco nella sua misericordia ci sosterrà nella lotta coi nostri nemici e ce ne darà come ai Santi la vittoria. Finalmente, si dice ancora, come è possibile farci santi nello stato nostro? Com’è? nello stato vostro è impossibile farvi santo? Ma quale stato è il vostro? Siete giovani? ecco dei santi giovani. Siete vecchi? ecco dei santi vecchi. Siete nobili? ecco dei santi nobili. Siete di bassa condizione? ecco dei santi plebei. Siete dotti? ecco dei santi dotti. Siete idioti? ecco dei santi idioti. Siete vergini? ecco dei santi vergini. Siete coniugati? ecco dei santi coniugati. Siete preti? ecco dei santi preti. Siete soldati? Ecco dei santi soldati. Siete sovrani? ecco dei santi sovrani. Siete ricchi? ecco dei santi ricchi. Siete poveri? ecco dei santi poveri. Ah! non vi è stato, no non v’è stato alcuno, che non abbia i suoi santi e non v’è stato alcuno, in cui non sia dato di farsi santo. Anche l’accattone che va elemosinando il pane di porta in porta, o che chiede la carità alla porta delle nostre chiese, anch’esso sempre che il voglia può farsi santo. – Non lo credete? Intorno alla metà del secolo XVIII nasceva in Piccardia, provincia di Francia, un figlioletto. Nel 1770 gli balenava alla mente una divina ispirazione e si trasformava in tale figura da metter compassione negli uomini di buon cuore e da destar il riso negli uomini mondani. – Vestito di logora veste, cinto di una fune, nudo il capo, e con scarpe sdruscite nei piedi pellegrinava nei più celebri santuari della Germania, della Svizzera, della Francia, della Spagna e dell’Italia; e nel 1777 poneva da ultimo sua stanza in Roma. Al bisogno del cibo soddisfaceva con frusti di pane e con erbe gittate per la via, al bisogno della sete con l’acqua, e se riceveva elemosina sollevava gli altri poverelli. Macilento com’era e squallido, se talvolta veniva fastidiosamente rigettato o schernito dalla procace plebaglia, non solo non risentivasi punto, ma lieto anzi e tranquillo riceveva ogni ludibrio ed ingiuria. Passava la massima parte della giornata nelle chiese dinanzi l’immagine di Maria e dinanzi a Gesù in Sacramento. Finalmente una volta dopo passate molte ore in preghiera nella chiesa di S. Maria dei monti cadeva in deliquio, e trasportato nella vicina casa di un uomo benefico, dopo avere inutilmente chiamato di venire disteso sulla nuda terra, spirava l’anima nel bacio del Signore il 16 aprile del 1783. Era l’ora in cui suonavano tutte le campane di Roma per la recita di tre Salve Regina ordinata da Pio VI pei bisogni della Chiesa, e quasi che quel suono fosse voce celeste pareva rivelare la morte di quel povero agli innocenti fanciulli, i quali andavano gridando per le vie della città: È morto il santo: è morto il santo! Ed un santo davvero era morto! S. Giuseppe Benedetto Labre! – Oh come è vero, o fratelli, che Dio è mirabile ne’ suoi santi: mirabilis Deus in sanctis suis! e che tutti, se il vogliono, possono farsi santi! Mettiamoci adunque di buona volontà; affidiamoci alla grazia di Dio; interponiamo la mediazione dei Santi, di quelli particolarmente, di cui portiamo il nome e che abbiamo scelti a protettori, e non dubitiamo che o poco o tanto ci faremo santi anche noi, e non indarno avremo rivolta a Dio questa grande preghiera: Aeterna fac cum Sanctis tuis in Gloria numerari!

Credo … 

Offertorium
Orémus
Sap III:1; 2; 3
Justórum ánimæ in manu Dei sunt, et non tanget illos torméntum malítiæ: visi sunt óculis insipiéntium mori: illi autem sunt in pace, allelúja.
[I giusti sono nelle mani di Dio e nessuna pena li tocca: pàrvero morire agli occhi degli stolti, ma invece essi sono nella pace.]

Secreta
Múnera tibi, Dómine, nostræ devotiónis offérimus: quæ et pro cunctórum tibi grata sint honóre Justórum, et nobis salutária, te miseránte, reddántur. [Ti offriamo, o Signore, i doni della nostra devozione: Ti siano graditi in onore di tutti i Santi e tornino a noi salutari per tua misericordia.]

Communio
Matt 5:8-10
Beáti mundo corde, quóniam ipsi Deum vidébunt; beáti pacífici, quóniam filii Dei vocabúntur: beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam, quóniam ipsórum est regnum cœlórum.
[Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio: beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio: beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.]

Postcommunio
Orémus.
Da, quǽsumus, Dómine, fidélibus pópulis ómnium Sanctórum semper veneratióne lætári: et eórum perpétua supplicatióne muníri.
[Concedi ai tuoi popoli, Te ne preghiamo, o Signore, di allietarsi sempre nel culto di tutti Santi: e di essere muniti della loro incessante intercessione.]

 

Ite, Missa est.
R. Deo gratias.