LE VIRTÙ CRISTIANE (6)

LE VIRTÙ CRISTIANE (6)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni

Desclée e Lefebre e. C. Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE Ia

LE VIRTÙ TEOLOGALI E LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE

CAPO V.

LA VIRTÙ DELLA CARITÀ E GLI AMORI PARTICOLARI

Nel Capo II del Genesi, Moisè, dopo di aver descritto il delizioso soggiorno dell’Eden, nel quale il Signore aveva messo l’uomo, dice così: “E da questo luogo di delizie scaturiva un fiume ad innaffiare il paradiso, e questo fiume di là si spartiva in quattro capi o quattro fumi minori. L’uno di essi è detto Phison, e scorre nel paese dove nasce l’oro, l’altro Gehon, il terzo Tigri; il quarto è l’Eufrate.” Ora nel primo gran fiume, che fu uno dei più belli ornamenti dell’Eden, e che si apriva in quattro fiumi minori, vi ha un’immagine parlante del dono d’amore, datoci dal Signore. L’ amore in noi, in sustanza, è uno; ma poi, volgendosi a diversi obbietti, si divide non in quattro amori soltanto, come avveniva del fiume dell’Eden, sì bene in un numero indefinito di amori, i quali anzi possono esser tanti, quanti sono gli obbietti, in cui l’intelletto e il cuore umano trovano un raggio del vero, del bene e del bello divino. Anche in questa molteplicità di amori, noi specchiamo finitamente e imperfettamente il Signore Iddio che, sebbene massimamente uno, quando creò l’universo, “aperse in muovi amor l’eterno Amore.! (Parad. XXIX). Intanto, poiché noi si può, per virtù di grazia, metter le ali al nostro libero amore, e, di naturale che è, elevarlo anche ad amore soprannaturale di carità; ne segue che la carità può ben entrare in tutt’i nostri amori particolari, purché siano buoni. Cotesti amori sono moltissimi; e io accennerò soltanto i principali, perchè nei Cattolici. si accenda il desiderio di nobilitarli, e santificarli tutti nella virtù dolcissima della carità. Dirò dunque della carità soprannaturale nell’amore di sé, nell’amore coniugale, nell’amore domestico, in quello degli amici, e in ultimo volgerò in occhiata anche all’amore di quei beni esteriori, onde è tanto ricco l’universo. L’amore dei beni particolari, come fu detto, può diventare reo, o perché l’obbietto suo è malo, con qualche apparenza di bene, la quale se mancasse, l’amore tornerebbe impossibile, o per troppo o per troppo poco di vigore che l’amore abbia. E allora, per cotali forme d’amore disordinato, avviene che la creatura vada contro il suo Creatore, o per dirlo con Dante avviene che “Contra il Fattore adovra sua fattura”. Allorché poi l’obbietto dell’amore è buono, e non si trasmoda o per troppo o per troppo poco; l’amore naturale è buono, secondo natura. Ancora, si può più concisamente affermare, che, avendo Iddio messo una gradazione ordinatissima nei vari beni creati; l’amore, sempre che obbedisce a questa gradazione, è naturalmente buono, e se la turba e la capovolge risulta naturalmente reo. – Or dunque diamo una rapida occhiata ai vari amori particolari, che si sono qui avanti indicati, e accostiamoli alla carità soprannaturale; la quale fiammeggiante, possente .e feconda com’è, ha due forze, l’una d’impedire gli amori particolari che trasmodino, l’altra di nobilitarli e di incelarli. Tutti questi amori buoni sono tali, perché le creature, in quanto esistono, sono buone; ed essendo altresì effigiate sul tipo delle idee dell’intelletto divino, riescono acconce a svegliare desiderio di sé. Nondimeno, pel peccato d’origine, per i peccati attuali più o meno frequenti e gravi, onde l’uomo si corrompe e si disordina, per le tentatrici vanità del mondo, per la guerra interiore, che ciascuno sente in se stesso; questi amori dico, non prima spuntano nell’animo umano, intoppano in gravi difficoltà, sicché agevolmente diventano amori disordinati. E le principali difficoltà sono due: o che l’animo sia talmente preso da un amore particolare, che trasmodi, ed esca fuori del retto ordine suo: o che, l’amore umano pel suo smodato inchinamento alle cose corporee e basse, anziché elevarsi principalmente (com’è suo debito) a ciò che è spirituale e alto, discenda e si prostituisca in basso. Se, ponghiamo, un’affettuosa madre famiglia ecceda tanto nell’amore particolare del figliuolo, da dimenticare l’amore del consorte, del prossimo, di Dio; costei malamente ama, perché nel suo amore, benché in sustanza buono, c’è il troppo. E se, amando il figliuolo, l’amore non lo volge principalmente all’anima di lui, che è la parte più nobile e più degna di amore, ma invece lo volge tutto al corpo, che è cosa bassa e vile in comparazione dell’anima; ed ella ama disordinatamente, e però malamente. Ebbene ci ha forse nel mondo un balsamo, che valga a risanare, a riordinare, a nobilitare e a elevare in alto, fino a Dio, questi varj amori particolari? Vi ha indubbiamente; ed è un altro amore santo, celestiale, nobile, che è l’amore di carità. Quando un’onda vivace di carità scorre tra le onde svariate dei nostri amori umani, le raccoglie tutte in sé, comunicando ad esse la propria virtù. Nondimeno allorché l’amore particolare, qualunque esso sia, è sanato e rinvigorito dall’amore di carità, non ismette punto la sua natura di amore particolare e umano. Oltre a ciò, per il contatto che l’amore particolare e umano ha con l’amore universale e celeste, esso si trasfigura e, senza perdere la sua natura, si eleva all’ordine soprannaturale. Avviene di ciò, quel medesimo che avviene dell’occhio umano. Il quale, se guarda sempre e soltanto in basso, non vede che la terra; e, se per lo contrario guarda in alto, non perde la capacità a guardare la terra: ma le colline, i monti, il cielo, le stelle lucenti lo elevano in una regione immensamente più bella e viemaggiomente lo rallegrano. Per questo sponsalizio dell’amore umano con la carità, ciascun amore buono particolare riesce fontana di meriti per la vita eterna. Laonde gli amori di padre, di figlio, di marito, di moglie di amico nel Cristiano fervente, oltre alle dolcezze proprie di ciascuno di questi affetti, riescono sorgenti delle ineffabile ed eterne dolcezze della vita avvenire. Queste cose i figliuoli della Città del mondo o non le comprendono, o le stimano sogno di fantasie poetiche, e pure sono verissime. Lo potrebbero vedere. essi stessi; perciocché anche nella vita civile dei Cristiani si vedono ad occhio nudo le trasformazioni che l’amore umano ha subìto nel Cristianesimo e in tutta la sua vita. E ora volgendo dapprima uno sguardo all’amore particolare di sé, nel quale l’amante e l’amato sono un medesimo; si potrebbe forse assommare tutta la dottrina del Cattolicismo in questo nobile insegnamento di sant’Agostino: “Tu che ami gli uomini, li hai da amare o perché sono giusti o affinché diventino giusti. E dunque in pari modo tu che ami te stesso, ti devi amare o perché sei giusto o affinché lo diventi.” (De Trinitate 8, cap. 6.) – Nondimeno l’amare in questo modo sé stesso torna quasi impossibile, quando l’amore naturale non sia sanato e nobilitato dall’amore di carità; anzi, anche sanato da esso, non è senza grandi malagevolezze. La persona umana, dirò così, siede regina tra l’anima e il corpo suo, e ama l’una e l’altro non solo con amore necessario ma altresì con amore libero. Disgraziatamente dopo il peccato del primo padre, essa si sente spinta dai proprj inchinamenti a volgere l’amore più in basso, che in alto, più al corpo, che all’anima; onde assai delle volte ama più secondo la carne, che non secondo lo spirito. Or questo amore intemperante e disordinato che ama il corpo e tutte le cupidità sue sopra ogni cosa, è l’egoismo; l’egoismo, dico, che, impedendo all’amore di diffondersi fuori, lo ingrettisce, lo imbestia, lo chiude in uno strettojo di morte, e lo rende tarlo roditore di tutta la vita morale. E questo egoismo, quando invade anche lo spirito, e fa che esso ami sè stesso smodatamente fuori di Dio e del prossimo, diventa orgoglio; il quale è un egoismo un po’ più spirituale dell’altro, ma egoismo anch’esso. – Penetriamo. più addentro in questo argomento dell’amore che ciascuno ha da avere a sé medesimo, prendendo liberamente i pensieri dall’Angelico san Tommaso, e dichiarando alcune particolarità di quell’amore buono di sé, che in gran parte sboccia, come vago fiore, dall’amore di carità. L’uomo, che vive in carità, quando si tratta del proprio bene spirituale, deve amare sé più del prossimo, e di qualsiasi altra creatura; e ciò per questa ragione. L’uomo ha da amare sé e il prossimo, in quanto che l’uno e l’altro partecipano al bene divino. Ma, poiché ove si tratta di una stessa persona, l’unità dell’amante e dell’amato maggiore dell’unione tra due, cioè tra l’amante e il prossimo amato, è giusto che nei beni dello spirito noi amiamo più noi stessi che il prossimo. Da ciò segue, che nessun uomo deve volere il male proprio del peccato (ciò che sarebbe contrario all’ultimo fine della beatitudine) per liberare qualche suo fratello dal peccato. Per lo contrario l’uomo che vive in carità, deve più amare l’anima altrui, che il proprio corpo; e ciò, sia perché nell’ordine dei beni lo spirituale vale molto più del corporeo, sia perché nel soffrire qualche detrimento corporale per la persona amata, ama secondo la perfezione della virtù, e però ama anche se stesso, e il bene proprio spirituale. – Ma il Cristiano nell’anteporre il bene spirituale del prossimo al proprio corpo, deve forse andar tanto avanti dal metter la vita propria per la salute dell’anima del prossimo? Non certo sempre. Invero san Tommaso insegna così: (vedi 2, 2, q. 26, art. 4 in cor.)“La sollecitudine e la cura della vita del proprio corpo appartiene a ciascun individuo intimamente, e come cosa propria: non è lo stesso della salute spirituale del prossimo, da qualche caso particolare infuora. Però non è necessario, per necessità di carità, che l’uomo esponga la vita propria per la salute spirituale del prossimo, se non nel caso in cui ha obbligo stretto di provvedere ad essa. Nonpertanto che taluno offra la propria vita spontaneamente per la salute del prossimo, ciò appartiene non all’obbligo ma alla perfezione della carità” (2, 2, q. 26, art. 5 ad 1). E questa perfezione, elevata a un grado infinito e divino, è la perfezione della morte di Gesù Cristo; il quale, secondo la frase biblica, premuto sotto il torchio di dolori ineffabili, volle soffrire il tormento della Croce, e morì per la salute di tutto il genere umano. Questa medesima perfezione del dar la vita pel prossimo, Gesù la meritò e la ispirò ai molti milioni di martiri; i quali morirono di certo per testimoniare la fede, ma anche per la salute delle anime. Il sangue invero, da ciascun martire sparso sulla terra, riuscì seme di martiri novelli, e il sangue di tutti uniti insieme fu uno dei fonti di salute, dato alla Chiesa per salvare le anime; perciocché il martirio cristiano riesce uno dei validi argomenti della verità del Cristianesimo, e una forma nobilissima e fortissima di apostolato cattolico. – Se non che la fiamma viva e lucente della carità, che sana e nobilita l’amore di sé stesso, sana e nobilita altresì lamore conjugale. L’amore conjugale, anche guardato naturalmente, non è onesto e buono se non nel matrimonio indissolubile; perciocché solo nel matrimonio indissolubile raggiunge tutta la sua finalità. Nonpertanto questo amore conjugale, esso più di tutti gli altri, dopo il peccato di origine, tende a discendere in basso; e però esso più di tutti gli altri ha bisogno della sanatrice virtù della carità cristiana. – Di nessun altro amore la Scrittura divina dichiara la natura e la perfezione sua primitiva così particolarmente, come dell’amor conjugale. Iddio medesimo infonde questo amore in Adamo, creando da lui e come immagine di lui, la consorte Eva, e volendo che egli la tenga come un altro se stesso. Poi comanda ad entrambi che s’amino come fossero una sola persona, ché tanto vale il dire: saranno due in un solo corpo. Or questa nobile e strettissima forma d’amore, di due che sono uno, essa è la legge dell’indissolubile amor conjugale; una legge ammirabile, che il peccato rese difficile, ma che Cristo confermò e rese agevole, mercè la virtù illuminatrice e santificatrice del Sacramento matrimoniale. Ancora, benché questo amore conjugale sia, più che tutti gli altri, turbato dalla tirannia della concupiscenza (che senza esser peccato, viene dal peccato e al peccato c’inclina – Conc. Trid.); pure nel nuovo Testamento questo amore, dico, è levato a una grande altezza dall’Apostolo san Paolo. Il quale di esso e di nessun altro amore dice, che s’abbia da paragonare all’amore di Cristo colla Chiesa: “Mariti, amate le vostre mogli, come Gesù Cristo amò la Chiesa.” (Eph.V, 25). –   Or chi non sente in queste parole il soave profumo di celestialità e di santità, che Gesù Redentore vuol diffondere in questo amor conjugale, che le passioni hanno fatto cadere sì in basso, e che il Cristianesimo vuol levare assai in alto, e santificare, principalmente perché è il primo amore, onde sorge il genere umano, cioè le famiglie che lo formano? Profondo mistero di carità divina è questo, che nello stesso amore, cui il peccato ha più contaminato e gettato nel fango, in questo stesso amore sovrabbondi la divina bontà; sicché esso debba ricopiare, quanto le cose umane e basse possono ricopiare le divine e altissime, il tipo ineffabile di amore divino, onde Gesù Cristo amò e ama la sua immacolata e dolcissima Sposa la Chiesa. Intanto, l’amore di carità, quando abbellisca e vivifichi l’amore conjugale, non solo gl’impedisce di scendere tutto in basso, ma lo ordina, lo nobilita, e fa meritorio dell’eterno premio. Produce poi due etti principalissimi, ai quali è bene di fare un cenno. In questa forma di amore tra uomo e donna: brutali passioni sono riuscite, massimamente nel paganesimo, tanto ardenti e micidiali, da annientare nel  matrimonio l’amore onesto e conjugale; anzi ciò che resta nel matrimonio paganamente inteso non è neanche amore. A noi Cristiani la cosa pare al tutto assurda; ma ciò non impedisce che tra i pagani d’un tempo e i paganizzanti dell’età nostra la cosa sia certa, anche audacemente affermata dagli stessi maritati. Infatti, allorché nel matrimonio la donna è schiava, e tiranno l’uomo; dove è mai più l’amore onesto e conugale, anzi donde esso nascerebbe mai tra i conjugi? Né la tirannide, né la schiavitù furono o saranno mai sorgenti d’un sentimento così nobile, bello e ricco, com’è il sentimento di amore, L’una e l’altra, cioè la schiavitù e la tirannide, di lor natura alimentano capricci brutali e ignominie. Per restaurare dunque nel matrimonio il regno dell’amore, volto al bene e a tutte le finalità conjugali, il Cristianesimo insegna essere eguali nella sustanza l’uomo e la donna, dichiara la donna non serva, ma compagna dell’uomo, e poiché procedettero l’una dall’altro, li costituisce anzi, pel matrimonio una sola persona morale. Ma questo, che il Cristianesimo insegna, non si compie mai, se la carità del Signore, aleggiando intorno al talamo conjugale, non sani e non nobiliti l’amore dei conjugi, così spesso corrotto. Ben è vero che san Paolo vuole che le donne sieno soggette ai loro mariti, come al Signore, ma questo comandamento di soggezione è infinitamente distante dalla schiavitù pagana, e, non che impedisca l’amore, giova anzi a nutrirlo. Perciocché esso corrisponde alla natura stessa dell’uomo e della donna, all’indole di lei, a cui l’obbedire per amore è dolce, e contribuisce all’unità conjugale, la quale ha bisogno, anch’essa, di un certo ordine gerarchico. La soggezione della donna al marito in tutto ciò che non è peccato, costituisce l’obbedienza maritale; e l’obbedienza nel Cristianesimo, non che escludere l’amore, ne è la forma propria, sempre che l’amore sia tra due, l’uno inferiore all’altro. La carità dunque soprannaturale rinnova e alimenta nei matrimonj cristiani l’amore buono conjugale. – Un altro effetto mirabile della carità nell’amore conjugale è questo. La carità dà gran valore alle due finalità spirituali del matrimonio, cioè la piena unione intellettuale e morale dei conjugi, e l’educazione buona della prole. Tutti due questi beni sono impediti dalle cupidità, che tirano gli animi in basso, e l’uno e l’altro bene la carità li fa sentire e amare ai conjugi veramente Cristiani. I quali, anche se l’amore umano, per ragioni umane, con l’andare degli anni, tende a intiepidirsi; per la carità a poco a poco si unificano sempre più nei pensieri, nei desiderj, negli affetti, nelle speranze, nei dolori. E quel che più rileva, essi fermissimamente credono e sperano, che questa spiritualissima loro unione si accrescerà e si perfezionerà nel cielo, dove l’amore di Dio piuttosto che impedire i buoni e santi amori umani, li centuplica e li corona di dolcezze ineffabili. Quanto all’educazione dei figliuoli (poiché educare alcuno non è altro che farlo buono), la carità impedisce che l’educazione sia volta, come accade nei matrimonj pagani o paganeggianti, principalmente al corpo e ai beni terreni; ma eleva i figliuoli in più spirabil aere, mercè gli alti ideali della fede e della morale cristiana. La stessa coltura intellettuale dei figliuoli, la quale, senza Dio e senza il suo santo amore, riesce argomento di orgoglio, e finisce per essere anche essa vanità di vanità; per l’amore di Dio e del prossimo si eleva a una incommensurabile altezza. Gli studj, la letteratura, l’arte, la scienza servono allora non ad alimento di vanagloria e di basse cupidità, ma al perfezionamento proprio, alla glorificazione di Dio e al premio della vita eterna. – Dopo le cose dette, sarebbe quasi inutile il parlare della carità nella famiglia, perciocché l’amore di famiglia, quasi rivo da fonte, deriva dell’amore conjugale. quale amore di famiglia, come una fedele immagine ritrae l’originale, così esso ritrae con piena somiglianza la bontà o la reità dell’amore conjugale. Nondimeno io trascriverò qui alcune parole dell’Apostolo san Paolo, che, nel parlare con ispirata sapienza della famiglia cristiana, non ebbe chi lo agguagliasse mai. Eccole: “Figliuoli, siate obbedienti ai vostri genitori, perciocché ciò è giusto…. E voi, o‘ padri, non provocate ad ira i vostri figliuoli, ma allevateli nella disciplina e nelle istruzioni del Signore. Servi, siate obbedienti ai vostri padroni (terreni), con riverenza e sollecitudine nella semplicità del cuor vostro, come a Cristo…, servendo con amore, come pel Signore, e non come per gli uomini…. E voi, o padroni, fate altrettanto riguardo ad essi, ponendo da parte l’asprezza, e non ignorando che il nostro e il loro Padre è nei cieli, e che Egli non è accettatore di persone.’” (Ephes. I, 1 e seg.). Queste parole veramente d’oro sono sfavillanti di tanta spiritualità e di tanta luce, che basterebbero esse sole a nobilitare e a governare tutti gli amori di famiglia, l’amore cioè dei genitori e quelli dei figliuoli, l’amore dei padroni e quello dei servi; i quali tutti debbono essere quali membri (l’ uno più e l’altro meno nobile) d’un medesimo corpo, e diventare come una sola persona morale. – Principalmente però è da notare che nelle parole di san Paolo è ammirabile e nuovo il connubio nelle relazioni di famiglia tra l’amore e il principio gerarchico. L’amore deve governare tutte le relazioni domestiche: ed esso diventa poi comando in chi è superiore, e diventa obbedienza in chi è inferiore: sempre però nella sustanza deve restare amore, e amore che ci unisce anche a Dio e a Cristo: Obbedite come a Cristo; servite con amore, come al Signore, pensate che il vostro e il loro Padre è nei cieli. Le quali verità, se ci consolano e ci nobilitano grandemente, quando si pensa alle relazioni tra i genitori e i figliuoli, riescono al tutto ammirabili e nuove, allorché si guardi alle attinenze dei servi e dei padroni. La servitù, dico, quella che intende ad alcuni ufficj umili nelle case, il Cristianesimo la trasformò radicalmente, la costituì e la fece vivere non solo nell’amore tra il padrone e il servo, ma in un amore di carità che si eleva sino a Dio. Laonde il servo, secondo l’Apostolo, ami il padrone, ma lo ami in Dio, e così similmente il padrone ami il servo, ma lo ami in Dio, Padre dell’uno e dell’altro. Del rimanente il mutamento, avvenuto per le idee cristiane e pel soffio della carità nella relazione di servitù e di signoria domestica, si manifesta bellamente anche nel linguaggio nostro comune, in gran parte ringiovanito e nobilitato dal Cristianesimo. Il Cristianesimo, col diffondere nuove idee, ha creato molte parole nuove o ha dato significati nuovi alle antiche. Però il servo di casa, lo diciamo cristianamente non servo, ma domestico, che, è come dire persona che appartiene alla casa (domus) e alla famiglia. Che se forse non mai, come ai dì nostri, le relazioni tra padroni e domestici sono diventate spinose e arruffate, ciò dipende da che la coscienza cristiana, cioè il sentimento vivo, forte ed efficace del bene e del male, si è di molto affievolito e offuscato, sì nei padroni, sì nei domestici. Spesso le idee cristiane ci sfiorano la mente quasi come una bella poesia; ma non mettono radici nel cuore e nel sentimento, e allora poco o punto giovano. – Oltre le forme particolari d’amore già toccate, ve ne ha un’altra più spirituale, e forse più bella ancora: intendo l’amore di amicizia. L’amore d’ amicizia per fermo rassomiglia più di tutti gli altri a quello di carità; onde l’Angelico san Tommaso dà il nome di amore d’amicizia all’amore che Iddio ha verso di noi. Ciò non impedisce che anche questo amore d’amicizia, di per sé tanto puro e nobile, possa o corrompersi o, come le piante malaticce, imbozzacchire allorché l’aura celeste di carità non vi spiri dentro. L’ uomo specchia il proprio animo in tutt’i suoi amori; di che, juando l’animo è o disordinato, o uso a inclinarsi al basso, e a troppo ripiegarsi sopra sé stesso per egoi0smo, anche l’amore di amicizia riesce gelido o contaminato dagli stessi vizj. Però l’amore di amicizia esso altresì ha bisogno che la carità lo sani, lo ordini, lo nobiliti, e lo renda meritorio, secondo l’insegnamento della Bibbia nell’Ecclesiastico « Colui, che teme Iddio, ed egli avrà facilmente una buona amicizia.» (Eccl., VI, 14, 15). In quella guisa che san Paolo riesce ammirabile nel descrivere e nobilitare l’amore conjugale e familiare; così i Libri sapienziali dell’antico Testamento ci han lasciato una tale dipintura dell’amicizia, che la più bella e soave non si trova. Parla il Signore, ispiratore dei divini Libri, com’è naturale, dell’amicizia che vive nella carità, e la effigia così: “L’amico fedele è una protezione possente, e chi lo trova, ha trovato un tesoro. Nessuna cosa è da paragonarsi a un amico fedele, e neanche una massa d’oro e d’argento è degna di esser messa in bilancia con la fedeltà di lui. L’amico fedele è balsamo di vita e d’immortalità, e coloro che temono il Signore, lo troveranno. — Come l’unguento e la varietà degli odori rallegrano il cuore; così i buoni consigli dell’amico danno conforto all’animo. Non esca dall’animo tuo il tuo amico, e non ti dimenticare di lui, quando sii venuto in ricchezze.” (Proverb, XXVII; Eccles., XXXVII 6). — Gli stessi Libri sapienziali dipingono al vivo la perfidia dell’amicizia finta; e poi escono in queste parole: “Oh scelleratissima invenzione, donde sei uscita tu a ricoprire la terra di tante malvagità e perfidie!” (Eccles. XXVII, 3.). – E ora consideriamo un po’ addentro questa dolcissima virtù dell’amicizia cristiana, facendo in parte nostri i pensieri di sant’Agostino, dell’Angelico san Tommaso, e anche di Dante, che nella dottrina morale, come nella teologica, fu così fedele discepolo dell’Aquinate. La virtù dell’amicizia consiste nella concordanza e nell’unione degli animi in una medesima volontà. Ma, per costituire amicizia vera e secondo carità, questa unione deve riguardare in prima il fine ultimo della volontà umana, il quale è il bene. Questo fine l’amicizia se lo ha da mettere avanti agli occhi molto di più, che non i desiderj particolari di essa volontà. In quella medesima guisa che si direbbe vero amico di un infermo chi gli procurasse la salute, e non chi aderisse ai desiderj nocivi di lui; così s’ha da pensare d’ogni buona e vera amicizia cristiana. Laonde sant’Agostino in uno stupendo suo sermone distingue tre forme di amicizia possibili, dicendo così: “Vi ha degli amici, uniti di amicizia mala, la quale anzi non s’ ha a dire neanche amicizia; perciocché nasce da coscienza rea. Costoro commettono insieme opere male e pajono amici, perché li anima una stessa coscienza malvagia. Oltre di questa perfida amicizia, ve ne ha un’altra, la quale è materiale o piuttosto profana, ed essa consiste nella consuetudine dell’abitare, del parlare, e dello stare insieme con diletto; sicchè l’amico si rattrista se l’altro lo lascia; e quando vivono unitamente, l’uno non si vorrebbe mai dall’altro disgiungere. Questa amicizia è di per sé onesta; ma è amicizia di consuetudine non di ragione. Anche gli animali, in certo modo, hanno una simile amicizia. Due cavalli mangiano insieme, e desiderano di non separarsi; cammina l’uno, l’altro si affretta di seguirlo, come amico ad amico; se il padrone rattiene uno dei suoi cavalli, quando l’altro si allontana, il primo appena gli esce dalle mani che lo raffrena, va e corre con fuga verso il compagno. Vi ha infine un’altra amicizia assai superiore, e questa amicizia non è di consuetudine, ma di ragione. Essa nella vita presente si fonda tutta nella fedeltà e nella benevolenza, che gli amici hanno tra loro. Ancora, una tale amicizia ha il principale suo fondamento in tutto ciò che è divino, o che proceda da Dio. Laonde quando l’amico vede nell’amico il bene, ed ei lo ama, e così facendo ama in esso il suo Iddio. (August. « In quodam sermone, citato nel Flores Doctorum etc.). Oltre a ciò, l’amicizia buona è pure dolcissima cosa, in quanto che appaga i desiderj onesti e buoni degli amici, con i quali vive in concordia e unità di volere. In vero il Cristiano amico, come nota l’Angelico, si diletta del bene dell’amico suo, e comunica a lui il proprio bene; dona ciò che può all’amico, senza attender di essere richiesto, e così il dono suo riesce più spontaneo, più libero, più gradito. Chi lo riceve, non soffre del pensiero di gravare l’amico, anzi gode ed è grato a lui del libero suo amore. L’uno e l’altro prendono diletto di un modo di dare e di ricevere così nobile e santo. Ancora, l’amico, se, per un verso, si rattrista del male dell’amico suo, per un altro verso, se soffre egli stesso, rivela al suo diletto il male proprio quanto più tardi può, e attenuandolo, quanto può: va prontamente a lui, quando lo sa afflitto, e va non chiamato, perché l’aspettare l’invito gli parrebbe scemamento di amore. Per questa soave comunicazione dell’amicizia, la conversazione con gli amici ci riesce sopramodo dilettevole. Ed è giusto; perciocché la conversazione ci manifesta il bene dell’amico, che a noi è quasi bene proprio. E, poiché per il senso del vedere, meglio che per gli altri sensi, si conoscono le cose, segue che gli amici principalmente desiderano di vedersi. Infine, essendo certo che l’uomo può meglio conoscere e valutare i beni degli altri, che non i propri, ragionevolmente accade che l’uomo si diletti più del conversare con l’amico, che non con se stesso. Tali sono dunque le sante e nobili delicatezze dell’amicizia cristiana. Però Dante a ragione scrisse che non si può avere vita perfetta, senza amici, e che nell’amicizia buona la virtù d’un amico accresce quella dell’altro amico.  (Convit., I, 8; 1, e 3. — Qui cadrebbe opportuno di dire alcun che del dolcissimo e nobile amore di patria; ma ho in animo di parlarne distesamente altrove, Ora basti il considerare che le cose dette dell’amore di famiglia valgono egualmente per l’amore della patria, la quale è in senso largo la nostra seconda famiglia.). – Se non che l’uomo è stato così naturato da Dio, che ha propensione di amore non solo verso le persone, ma anche verso le cose sensibili. E con ragione; perciocché amore è tendenza al bene, e anche le cose senili sono buone, anzi molto buone, secondo che è detto nel Genesi: “ E Iddio vide tutto ciò che aveva fatto ed era molto buono.” (Gen. I, 31). Per quali ragioni tutte le cose create siano in sé buone, fu già accennato avanti; ma non è inutile ricordarlo anche qui. Sono buone, e anzi molto buone le cose create, perché riflettono anch’esse la luce dell’infinito Bene, che è Iddio. Certo, chi voglia paragonare questi riflessi della divina luce, con le nobili e spirituali immagini di Dio, che sono l’Angelo e l’uomo, li dirà riflessi pallidi e opachi, o piuttosto quasi ombre, in cui appena si vede qualche scintilla della divina Bellezza. Ma l’eterna Bellezza, che nelle cose create imperfettamente si specchia, è tanto fuori di ogni misura, che anche una piccola scintilla di luce sua basta per indurci ad amarle, e talvolta disgraziatamente, per la degenerata natura nostra, ad amarle anche troppo. – In vero tutta la natura materiale effigia Iddio in un modo misterioso, e parla a noi di Lui. Così la bellezza dei colli, dei campi, dei fiori, delle stelle effigia a noi la eterna Bellezza di Dio; il mare e l’indefinita e azzurra volta del cielo ci dànno immagine dell’Immenso, dell’Eterno, dell’Incomprensibile; l’ordine e la grande armonia del creato ci parla l’ ordine infinito e l’ eterna armonia, che regna in Dio, e anzi è Dio stesso; il sole infine con la sua luce effigia gli splendori del divino intelletto, e col suo calore ci specchia Iddio medesimo primo eterno e fiammeggiante Amore. Or, poiché anche le cose materiali, perché effigiano Iddio, sono veri beni; l’amore nostro per esse, secondo il divino ordinamento, doveva servirci come di scala al nostro amore a Dio; sicchè l’un amore non si disgiungesse mai dall’altro. Ma disgraziatamente, pel peccato d’origine tutte le gerarchie furono turbate e guaste, e principalmente le gerarchie di amore. Ne seguì che l’uomo quasi sempre ami disordinatamente i beni esteriori, e il disordine riesca tanto micidiale, che la scala di amori, la quale dovrebbe farci ascendere verso il Bene e l’Essere infinito, che è Dio, spesso ci fa discendere verso il male, e il non essere che è il nulla. – Oltre a ciò i beni materiali, da Dio creati, altri servono alla nostra vita, e ci dilettano per questo: altri la migliorano e pur ci dilettano: altri hanno per giunta un loro diletto particolare, che è del corpo, ma che lo sente lo spirito e tutta la persona. Così per esempio l’aria, l’acqua, il cibo ci mantengono la vita, le ricchezze e gli agi ce l’abbelliscono e migliorano; il canto degli uccelli e le melodie delle voci e degli istrumenti rallegrano l’udito; i fiori, la marina, i colli, la luce rallegrano l’occhio; e le frutta gustose, e il frumento, e il succo della vite ci riescono grati al gusto. Tutti questi beni noi li amiamo, e giustamente li amiamo. Ma, poiché il peccato ci trae in basso possentemente, assai delle volte noi li amiamo troppo; li amiamo tanto, sino a dimenticare tutta quella aurea serie di beni spirituali, che valgono tanto di più, e sino lo stesso Bene eterno infinito. – Le cose materiali dunque, che, per le ragioni dette, sono di per sé amabili; l’uomo, dopo il peccato, quasi sempre le ama troppo e disordinatamente e male; s’impiglia in esse, ed esse gl’impediscono il volo dell’anima verso i beni spirituali, e verso Iddio stesso. Ma la dolcissima carità, come sana e ordina e nobilita santifica gli altri amori particolari; così fa egualmente dell”amore alle cose sensibili. Produce tutti questi benefici effetti, sia per lume e per movimento di grazia interiore, sia per effetto suo proprio. L’amore di carità ci adusa a dare a ciascuno dei molti beni, tra i quali viviamo, il suo valore proprio, senza scemare o accrescere d’una sola dramma il pregio reale d’alcuno; onde solo per chi ha vera carità, l’oro è oro, l’argento è argento, il rame è rame; tutti i beni insomma si valutano per quel che sono. L’amore di carità ci dà norme sicure nel conoscerli, sia mercè la fede, sia mercè la comparazione di ciascun bene umano con l’infinito Bene. Dippiù ci abitua a vivere di amori nobili e altamente ideali, i quali naturalmente rimpiccioliscono alla nostra mente tutti gli amori dei beni materiali, e ci procura molti diletti spirituali interiori e nobili, che ci fanno o poco o punto desiderare quei diletti materiali, che ai peccatori pajono soli desiderabili. Soprattutto la dolcissima e benefica carità di Gesù Cristo, facendoci vivere più nella vita avvenire ed eterna, che nella vita presente e temporanea, c’induce a considerare come intoppo o come superfluità ogni amore, che, fuori dell’ordine e con troppa vivacità, ci leghi ai beni terreni. – Le cose, che ho detto sin qui in questo Capo, e nei precedenti intorno alla fede, alla speranza e alla carità, tre note in una sola armonia, sono, come uno sprazzo luminoso, messo in paragone di un oceano di luce. E nondimeno esse hanno prodotto in me che scrivo (perché non dirlo?) e spero producano in qualcuno dei miei lettori, due effetti principalissimi. Il primo è che mi hanno mostrato la bellezza delle tre celesti virtù, fede, speranza e carità, o piuttosto mi ci hanno fatto meglio e più profondamente pensare. L’altro è che, scrivendo mi si è chiarito e rinvigorito il convincimento, che errano grandemente coloro, i quali stimano queste virtù essere quasi fantasmi o sogni di asceti, senza fondamento alcuno nella natura umana, e anzi fatte per contradirla. Mille volte no. Fede, speranza e carità mi rassomigliano alla scala veduta in sogno da Giacobbe; la quale, se con la cima toccava il cielo, con la base era assai ben fondata su la terra. Esse sono indubbiamente virtù celestiali, ma corrispondono in modo ammirabile alle propensioni, ai desideri, ai bisogni della nostra mente, del nostro cuore, di tutta l’anima nostra. E l’anima nostra si sente migliore, più forte, più viva, più capace di moto, quando si eleva a queste nobili altezze, che non quando s’impantana negli amori del senso, delle vanità e delle ricchezze. Ben è vero che queste dottrine, come insegnò Gesù Cristo, le comprendono piuttosto gli umili, che non i sapienti del mondo; ma anche costoro sarebbe bene che almeno ci pensassero un po’ su, e non sarebbe, io credo, senza frutto. Per quanto l’uomo si voglia imbestiare tra le corruttele e le passioni, qualcosa di alto, di grande, di nobile resta sempre nel suo spirito, e almeno in alcune ore della vita, egli non può restar sordo alla voce interiore che gli grida: in alto, in alto il cuore: perché mai tu elevi con tanto compiacimento lo sguardo al cielo, e non vuoi levare la mente e il cuore a chi creò questo cielo, e, a nostro modo d’intendere, misteriosamente vi abita? E se, poniamo, qualche uomo mondano o paganeggiante o tentennante nel bene, oltre al pensare a queste virtù, con uno sforzo della volontà si avvicinasse un po’ ad esse; chi sa che non incomincerebbe, per impulso di grazia, a sentire anch’egli che il Signore è soave, molto soave a coloro i quali lo amano, e che il giogo di Cristo è pieno di dolcezze, e il peso della legge di lui è leggero?