A. D. SERTILLANGES, O. P.
CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXVII)
[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]
LIBRO QUINTO
I NOVISSIMI
I. — La morte e l’immortalità.
D. La vita soprannaturale che descrivesti è destinata secondo te a proseguire e non finisce con la morte?
R. Niente finisce con la morte. Scavare una fossa e coprirla con la nostra argilla non può essere una fine per l’immenso movimento spirituale in cui il Vangelo ci lancia. La terra non è che una soglia; al di là vi è quello che Carlyle chiama «il più Alto Mondo ».
D. Perché toglierci la vita e restituircela?
R. La vita non ci è « tolta »; è solamente « cambiata »: mutatur, non tollitur, come dice la liturgia, ed è la parte che noi prendiamo, per noi stessi e per altri, alla morte riparatrice di Cristo.
D. Tuttavia siamo distrutti.
R. L’io terreno è di fatto distrutto; perché l’anima non è l’uomo. Ma l’anima è la parte essenziale dell’uomo, e l’uomo completo sarà un giorno ristabilito.
D. Comprendi tu una tale divisione, una tale separazione?
R. Il mistero del nostro essere è quello di trovarsi così per natura in una regione di frontiera, che partecipa di due sfere, e forma un composto instabile la cui dissociazione crea il dramma della morte, ma la cui unione e riunione hanno qualche cosa di sublime. L’unione in noi della materia e dello spirito suggella in un angolo dell’universo, poi altrove, l’unità dell’opera divina.
D. Frammenti dell’universo che si muove e si disgrega incessantemente, non dobbiamo noi subirne la sorte?
R. Frammenti dell’universo Spirituale, scintille di spirito, non dobbiamo noi avere la sorte dello spirito, imitare e raggiungere lo spirito?
D. Perchè lo spirito non finirebbe come il resto?
R. Perché esso comincia sempre. Là dove l’evoluzione della vita ha un termine anticipatamente segnato, definito da una curva di una inflessione continua, il termine raggiunto significa la morte. Ma l’evoluzione dello spirito è illimitata, a guisa di una curva che si apre incessantemente. La ghianda ha compiuto il suo destino quando ha prodotto la quercia, ricca di un’altra ghianda; lo spirito ha davanti a sé l’infinito della indagine e degli acquisti possibili, l’infinito della verità e del bene. Per lui, ogni realizzazione è un abbozzo, o meglio un punto di partenza, finché non è pervenuto a incontrare il suo oggetto supremo. E quest’oggetto è indubbiamente per lui un punto fisso, ma che per la sua infinità inesauribile lo lancia di nuovo, invece di frenare e di arrestare il suo sforzo.
D. Ma l’anima non è tutto spirito.
R. L’anima non è tutto Spirito, perché anima il corpo, e sotto questo rapporto essa è corporea. Tuttavia, siccome il suo compito di animatrice non impiega tutte le sue energie e quindi non è uguale a tutta la sua sostanza, il dire che l’uomo è un composto di corpo e di anima è dire che è un composto di materia e di spirito, e, secondo quello che precede, di morte e di vita.
D. Come spieghi a te stesso la sopravvivenza?
E. Per una parte di sé, quella che vedi, l’uomo è un frammento dell’universo, un convegno delle forze generali. Ma, per rapporto a questo fondo di sostanza e a queste energie della parte bassa, vi è un’eccedenza di essere e di attività che il pensiero svela, e l’amore, la libertà, la sensibilità superiore, la vita morale mettono in opera. È quello che abbiamo rilevato a proposito della creazione dell’uomo, In ragione di questa eccedenza, di questo soprappiù per rapporto all’ambiente fisico, noi non possiamo supporre che l’anima dipenda nel suo sbocciare, nel suo essere attuale, né per conseguenza nella sua durata e nel suo fine, unicamente dalle potenze cosmiche; essa le oltrepassa e deve sopravvivere ad esse. Essa nasce nell’occasione di un’opera di carne; è soggetta all’azione delle forze che si rivelano nella carne, senza tuttavia ridurre la sua attività interiore o le sue manifestazioni a una risultante di queste forze abbandonate al determinismo. Dunque, la sua sorte non dipende, a titolo esclusivo, dal luogo in cui agisce presentemente; essa ha un avvenire proprio; la ruota della fortuna non la trascina se non in parte nella sua rotazione; una scossa, ed eccola prendere la tangente.
D. In due parole…
R. Quello che spiega l’immortalità della vita è l’immortale della vita.
D. Questo spiega, mi dici; ma questo prova?
E. Questo prova sotto certe condizioni, cioè se si ammette che Dio non distrugge Egli stesso quello che non porta in sé un principio di distruzione. D’altronde, se, per l’anima, si tratta di una immortalità cosciente e attiva, bisogna credere possibile un funzionamento spirituale indipendente da ciò che si chiama cervello pensante.
D. Come pensare senza l’organo del pensiero?
E. Appunto, il cervello non è propriamente l’organo del pensiero. Gli è indispensabile quaggiù, ma per l’elaborazione della sua materia, che è l’esperienza fisica. Il pensiero, propriamente parlando, è indipendente dal cervello, non vi è neppure proporzione precisa tra l’attività pensante e l’attività del cervello, come ha dimostrato Bergson.
D. Se il cervello è indispensabile al pensiero quaggiù, come tu ammetti, perché non gli è indispensabile altrove?
R. Uno stesso potere, collocato in diverse condizioni, può avere diverse esigenze.
D. Da che dipenderebbe, secondo te, la differenza?
R. Qui c’è mistero; ma si può credere che si tratti, per l’anima, di una differenza di orientamento e di attenzione profonda. Unita al corpo, essa è assorbita dal corpo e assediata dalle sue oscure chiarezze al punto di non poter aprirsi a un’altra luce. La sua propria luce spirituale le sfugge prima dell’esperienza delle cose; essa non si rende conto che è spirito se non dopo aver fatto atto di spirito riguardo ai corpi.
D. È una condizione sorprendente!
R. Sorprendente di fatto, ma che dipende dalla debolezza di quest’anima, posta nel più basso grado degli spiriti, in vicinanza alla natura corporea. Quando si riflette a questa condizione, si capisce che l’anima, povera di spiritualità per natura, e immersa nel corpo che tenta di accaparrare tutte le sue energie disponibili, possa essere come offuscata da questo corpo, abbagliata di materia, se si può dire così, e resa impotente a
percepire lo spirito, perfino quello che è in lei e che è lei. La pellicola di luce che circola sopra la nostra terra non basta forse a nasconderci tutto il cielo? I nostri deboli occhi, abbagliati, non possono valicare questo sbarramento di luce; bisogna aspettare la notte perché si riaccendano le stelle. La notte rivelatrice, per l’anima, è la morte.
D. Perché la morte sarà una rivelazione?
R. Perché l’anima, sciolta, sarà resa alla sua natura spirituale, e, cosciente di se stessa immediatamente, voglio dire senza il rigiro dei sensi, potrà inoltre sperimentare l’invisibile.
D. Quale invisibile?
R. Gli altri spiriti, diventati ora del suo dominio e, se posso dire così, del suo mondo; ma specialmente Dio, se a questo Dio piace di fare verso l’anima — per una discesa d’intelligibile, invece che per una salita — l’antico ufficio dell’universo.
D. Perché lo vorrebbe Egli?
R. Perché è il fine della sua creazione, e soprannaturalmente, il fine di tutta l’opera redentrice. Quaggiù, noi siamo abbandonati all’universo per l’informazione della nostra mente come per la nutrizione della nostra carne; l’universo, espressione dell’idealità creatrice, vestigio di Dio ossia sua immagine, ce ne comunica quello che può e quello che noi ne sappiamo estrarre; ma il contatto di Dio, che è il termine del grande movimento che opera l’anima attraverso alla vita, ci congiunge alla sorgente stessa di questa idealità: noi attingeremo da essa come un tempo dal tesoro dei fatti circostanti, come la carne beve il succo del mondo.
D. Perché desidereremmo un tale avvenire?
R. Perché tal è la destinazione che Dio ci dà, e del resto questa brama, checché ne pensino alcuni, è insita nel più profondo della nostra natura.
D. Aspiriamo noi a pensare in Dio?
R. Noi aspiriamo a pensare in Dio perché aspiriamo a pienamente vivere, perché la nostra piena vita è in Dio, e il pensiero, per lo spirito, è la stessa essenza della vita, condizione fondamentale di ogni altra attività del nostro essere.
D. Da che cosa riconosci tu un tale istinto?
R. Da quella inquietudine infaticabile e inestinguibile che è in noi, da quel tormento dell’infinito che è lo stimolo del pensiero, la molla dell’azione, e che spiega la loro storia. Noi pensiamo per cercar di captare in effigie quello che non si può raggiungere in sé; parliamo per coprire il grido che è in fondo ai nostri cuori; operiamo per scansare il cammino sovrano, decisivo, che talvolta non osiamo tentare perché le sue esigenze ci fanno paura, e che ad ogni modo non possiamo che iniziare, nelle condizioni di questo mondo. Nell’essere umano vi è una attesa essenziale che tutto può soddisfare, veduto in desiderio, in aspettativa, cioè in quanto al suo fantasma, ma che niente può soddisfare nella sua realtà acquistata, nel suo chiaro possesso. – Ogni uomo può dire come Barrès nelle sue Memorie postume: « Ho camminato verso l’orizzonte per cogliervi qualche cosa che non esiste »,
D. Tu descrivi le nature che si chiamano precisamente inquiete,
R. Io descrivo la natura stessa, che è un’inquietudine sostanziale, se così posso parlare, poiché nessuna soddisfazione, per quanto sostanziale apparisca essa stessa, non l’acquieta mai.
D. Ecco ciò che bisognerebbe far vedere.
R. Non è forse evidente, che la cosa posseduta non ci soddisfi punto, e che tosto si passa ad altro? Quello che noi bramiamo dopo, essendo della stessa forma, non ci può soddisfare maggiormente, e di fatto, sopravvenendo, non ci soddisfa più. Un possesso non è che un desiderio spento; un ricordo non è che « un desiderio che si rimpiange » (FLAUBERT): quello che si possiede o si è posseduto non è dunque ciò che era veramente desiderato. La nostra brama ha sbagliato oggetto, diciamo anzi che ha sbagliato universo, e che avrebbe dovuto risonare, al di là di tutti gli echi di questo mondo, in un altro mondo.
D. Di certi felici successi non diciamo noi che sorpassano la nostra attesa?
R. La nostra attesa è sempre ingannata, anche quando è superata; perché quello che attendevamo da queste fortune misurate in se stesse, l’attendevamo in noi come pienezza, ed è la pienezza che non viene.
D. Non sempre siamo ingannati in tal modo.
R. Siamo sempre ingannati davanti a qualsiasi oggetto, in possesso di qualsiasi beatitudine, appena cade il velo d’una passione allucinata o d’uno sragionamento puerile, appena l’anima profonda si desta. E questo ci dice che il fine di questa vita non è in lei stessa; questo ce lo dice con più evidenza che la sventura, che l’ingiustizia subìta, che le delusioni affatto diverse cagionate dalle nostre impotenze e dai nostri spropositi. – La norma secondo la quale si giudica della nostra miseria e dell’insufficienza di tutte le cose visibili è la felicità.
D. È necessario che noi abbiamo quello che ci manca?
R. È forse naturale che la nostra idea, la nostra aspirazione abbiano più ampiezza del nostro essere e della somma dei nostri poteri? Non vi è qui un segno?
D. Un segno di che?
R. Un segno della nostra vocazione sovrumana e sopraterrena. Perché, infine, non bisogna forse credere nell’anima propria, come dice la Scrittura? L’appello interiore è un fatto proprio come la gravitazione; il suo punto di partenza è assai più profondo e ben altrimenti alta è la sua portata. Qual è il significato di questo fatto, se non vi è niente fuori dell’esperienza? Come mai l’idea della pienezza può anche solamente entrare nei nostri fragili cuori, se non siamo fatti per la pienezza? Se tutto termina in una mediocrità irremissibile, perché, in noi, questa provvista di speranze illimitate? Noi non possiamo raggiungere quello che è evidentemente il nostro fine, quello verso il quale, per l’autentico impulso del desiderio profondo, la natura ci slancia. La traiettoria umana si delinea, lascia vedere le sue coordinate, ed essa non si percorre punto. – Noi siamo un albero la cui specie è nota e che, sul suo terreno di nascita, non presenta il suo getto normale, la sua fioritura, la sua fruttificazione naturali. È «una sconciatura » (PASCAL). Non può finire così ogni cosa.
D. Perchè?
È. Perché la natura naturante, in noi, non s’inganna, e non inganna noi. Essa non si può dirigere verso il vuoto. Uscita dall’ambiente universale, essa lo riflette e ne esprime la legge, Non si cerca naturalmente se non ciò che si può trovare. Se non vi fosse erba vi sarebbe l’erbivoro? Colui che constata il desiderio insaziabile nel quale consiste essenzialmente l’essere umano e nega che sia possibile la sua soddisfazione rassomiglia all’uomo che ha fame e nega il pane.
D. Il sentimento di pienezza non ci è estraneo.
R. Noi lo proviamo quando proiettiamo sopra i nostri oggetti l’immensità del sogno e nascondiamo così a noi stessi la loro esiguità. Questi oggetti ci appariscono allora uccelli dell’infinito presi al laccio; per quanto insignificanti, per quanto caduchi, la nostra illusione li pervade di eternità e ne prende come un possesso infinito per l’ampiezza del gesto. Ma non è questo la smagliante conferma che l’infinito, solo l’infinito ci contenta? Chi ignora quale malinconia segreta vi si trova in tutte queste pienezze fallaci, appena si sposta un poco il velo d’errore! In fondo ai nostri stati felici vi è un sentimento nostalgico, e a che cosa si riferisce esso se non a un misterioso al di là?
D. Credi tu che molti sappiano queste cose?
R. I più non le sanno, ma tutti le provano. Altro è il sentimento e altro l’analisi che se ne fa. Quando, in una chiesa, vediamo dei Cristiani supplicanti, noi non abbiamo alcun dubbio che i più rechino lì, per un sollievo, i loro fardelli di vita terrena, che essi esprimano i loro desideri umani, le loro inquietudini temporali, e che forse sia questo solo che pensano di offrire a Dio; ma scava più a fondo, e troverai altra cosa, che i migliori, e tutti, scorgono ad intervalli: voglio dire, l’appetito dell’indefinibile e del perdurevole faciente corpo con questi oggetti, ma infinitamente distinto dall’ispirazione che essi provocano, l’appetito dell’al di là di tutto, del Tutto, del Tutto misterioso.
D. Che diresti di coloro che cercano al di sotto dell’uomo, invece di cercare al di sopra?
R. Il loro sentimento è lo stesso. Ciò che essi si propongono, nelle oscure regioni che loro aprono i sensi, è ancora l’infinito, riconoscibile dalla sua ombra. Spaventoso capovolgimento, fatale illusione del povero allucinato che piomba in un mare pieno di notte per pescare degli astri.
D. Tutto questo non si riferisce che all’ampiezza degli oggetti della vita, e non alla durata di quest’ultima. Pensi tu che noi vogliamo vivere eternamente?
R. Noi vogliamo vivere senz’altro, e questo esige la vita eterna. Perché, sapendo che dobbiam morire, ripugniamo noi invincibilmente a crederlo, se non perché ciò ci è inconcepibile? Noi non vogliamo perire. Non possiamo rassegnarci a un mondo che crolla, sentendo qualcosa che non crolla. Sotto la chiarezza degli oggetti che occupano e ingannano il nostro appetito di vivere, scorre un fiume di notte che ci trascina giorno per giorno, verso la notte eterna, e il nostro cuore non vi può consentire. «Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa » (PASCAL).
D. Eppure il nostro appetito di vivere, nel fatto, si attacca a questa vita limitata,
R. È impossibile capire che ci si affanni tanto ‘per preservare «un lampo tra due notti» (ENRICO POINCARÉ). Bisogna che si abbia il sentimento profondo di un’altra vita, anche se non lo si confessa.
D. Sopravviviamo a noi stessi per via dei nostri discendenti e delle opere nostre.
R. Almeno lo tentiamo, ed è una testimonianza. Questa vita che si sforza di vincere il tempo, non è forse l’effetto e il segno dell’eternità inclusa nel desiderio? Noi vogliamo, in tutta la misura del possibile, rendere imperiture le opere nostre; nei nostri figli, nelle nostre istituzioni, nelle nostre glorie, noi vediamo delle assicurazioni contro la morte; ameremmo vederci delle speranze d’immortalità. Ma che cosa è ciò, in realtà, se non una povera aggiunta, una dilazione concessa al desiderio, prima dell’inevitabile e prossimo inghiottimento?
D. Questa sopravvivenza in altri soddisfa la generosità, se non il desiderio proprio.
R. È bello essere generosi, e nulla è più commovente che il sentimento d’un padre, d’un amico, d’un patriota, che dice: Che importa la mia vita, purché i miei figli siano felici, il mio amico prosperi, il mio paese abbia il trionfo? Ma che malinconia, nel contemplatore di questa bellezza, e quale segreta delusione al cuore stesso di colui che vi si eleva, se essi vengano a dire a se stessi: Oggi, domani, dopo domani, che importa? io lavoro per la morte!
D. La sapienza è di contentarsi della propria misura, a più forte ragione di potere oltrepassarla un poco.
R. Questa sapienza si può attingere da Dio, ed è la rassegnazione cristiana, sorella della speranza; essa può essere puramente stoica ed è certamente bella, ma non risolve affatto il problema. È urtante, è contradittorio che la natura spinga i suoi esseri a voler durare sempre e imponga loro per sapienza la rinunzia e questo stesso volere. L’anima non vi si risolve punto; ne fanno testimonianza tutte le letterature, del pari che ogni cuore. Del rimanente, come osservò Renan, «è quando l’uomo è buono che egli vuole che la virtù corrisponda a un ordine eterno; è quando egli contempla le cose in modo disinteressato che egli trova la morte ributtante e assurda. Come non supporre che l’uomo veda il meglio appunto in tali momenti? ».
D. Pensi tu che noi possiamo afferrare direttamente, în noi, questo sentimento dell’eternità che dici insito nei nostri pensieri e implicito in tutti i nostri procedimenti?
R. Non sappiamo scandagliare noi stessi. Vi sono tanti momenti che ci sentiamo immortali! Momenti di contemplazione religiosa, filosofica, scientifica, artistica; momenti d’estasi fuori del pensiero, fuori del tempo, perfino fuori del nostro oggetto, nell’amore; momenti di poesia davanti alla natura, in unione con le forze eterne; momenti di eroismo in cui sentiamo che si può aver fiducia nella sorte e che la grande vita non muore…: tutto questo dice la nostra essenza Vera, e, come diceva un eroe della grande guerra, «che cosa è una palla al cuore? essa gli può far del bene ».
D. Riassumendo, tu dici: la vita è eterna o non è niente?
R. «Tutto quello che deve finire non è niente» (S. AGOSTINO). Fuori dell’eternità, noi siamo come colui che si trastulla a costruire castelli di carta sull’orlo del suo sepolcro.
D. La cooperazione con altri non ci rialza?
R. Termino la mia frase: — e che aderisce a una società di mutuo soccorso per costruire meglio i castelli di carta, sostenerli, ripararli, ricostruirli… davanti al comune sepolcro.
D. In tali condizioni, la morte prende un valore che le si concede di rado.
R. Proprio Renan disse che morire è compiere un atto « di una portata incalcolabile ».
D. Non sai quanti, oggi, negano la vita eterna?
R. Il numero dei negatori non cambia nulla alle verità. I negatori, se fossero sinceri con se stessi, direbbero anche: « Io scorgo la vita che guarda attraverso alle orbite vuote della morte » (SHAKESPEARE). Io aggiungo che in simile materia la negazione è condannevole in ogni ipotesi.
D. Perché?
R. Perché nessuno, senza un’estrema temerità, può pretendere di essere sicuro che l’immortalità non ci sia punto, e chi non è convinto della sua realtà dovrebbe almeno rispettare il mistero.
D. La negano generalmente per fini pratici; si ha paura che l’ideale faccia perdere il senso della realtà.
R. Ciò avviene quando non si sa che cosa sia ideale e pratica, che cosa sia eternità di tempo. Si dimentica che «il Vangelo e il calendario agricolo sono opera d’uno stesso autore » (MAURIZIO BARRÈS).
D. Non vi è però una certa opposizione tra l’idea dell’eternità e le cure terrene?
R. Le cure eccessive, sì, le impazienze, le preoccupazioni appassionate, ma non l’attività normale. La vita eterna ispira al vero Cristiano una maniera sublime di ricevere la vita e la morte, i beni e i mali; ma non ammollisce il suo coraggio. Pensa che la civiltà moderna, e si può dire ogni civiltà, fu costruita da gente che credeva all’eternità, e tutte le nostre inquietudini di avvenire, come ti dicevo, vengono dal fatto che vi si crede meno.
D. Da che dipende questo?
R. Dal fatto che la vita eterna è l’autentico sostegno della vita temporale, che, senza questo, poggerebbe sul falso e si protenderebbe sul vuoto; è il suo appoggio dietro, il suo trattore davanti. Io ho bisogno di assicurarmi della vita eterna per credere alla serietà di questa, e al contrario sarebbe sorprendente che ciò che mi difende contro ogni scoraggiamento potesse spezzare il mio coraggio.
D. A chi sono più utili queste riflessioni sopra l’altra vita?
R. Sono indispensabili a tutti; perché « tutte le nostre azioni e tutti i nostri pensieri devono prendere vie così differenti secondo lo stato di questa eternità, che è impossibile fare un passo con senso e con giudizio senza regolarlo con la mira di questo punto, che dev’essere il nostro ultimo oggetto » (Pascal). Ma evidentemente, ci guadagnano a ricordarsene quelli soprattutto che hanno più da soffrire e da combattere. Questi pensieri della morte, del giudizio, della retribuzione eterna sono lo stimolo e il freno, il sostegno e la forza di rinsavimento di molto anime. Essi rendono felici degli individui ai quali questo mondo rifiuta tutto; avverano il paradosso delle Beatitudini evangeliche, e provocano la lunga pazienza delle prove della vita quotidiana, come l’eroica pazienza dei martiri.
D. Donde viene che essi ci sfuggono incessantemente?
R. È la conseguenza del fenomeno che descrivevo a proposito dell’anima pensante. La luce del giorno ci nasconde l’immensità del cielo: così gli oggetti della vita, più evidenti, accaparrano l’anima e solo essi le appariscono reali; così il tempo, presente in noi per il fluire della carne, fa credere illusoria l’eternità, e siccome tuttavia il sentimento dell’eternità rimane, lo si trasferisce al tempo; ci figuriamo vagamente che questo tempo fugace non debba finire.
D. Ciò è incosciente?
R. Per lo più; ma avviene pure che ciò sia volontario, e allora l’insensato o il peccatore si vuole procurare una pace illusoria. « Senza darci pensiero noi corriamo al precipizio, dopo esserci posto qualche cosa davanti per impedirci di vederlo » (PASCAL).
D. Queste parole sono tragiche!
R. «Leggi anche queste: « Tra noi e l’inferno o il cielo, non vi è di mezzo che la vita, che è la cosa più fragile del mondo ».
D. Se si pensasse così costantemente, non si potrebbe più vivere.
R. Forse si vivrebbe meglio a pensarci sovente. In quanto al pensarci costantemente, nessuno lo raccomanda. La buona vita esige la nostra attenzione, anzi il nostro entusiasmo; una volta mirata la meta, e richiamata al pensiero di tempo in tempo, non c’è bisogno d’ipnotizzarsi sulla morte.
D. Che pensi delle trasmigrazioni, di quelle altre vite, anteriori o posteriori, di cui trattano gli spiritisti, i teosofi?…
R. Prima di tutto penso col popolo: « Nessuno mai se ne è accorto »; i teosofi s’immaginano, suppongono; gli spiritisti si fidano di fenomeni mal conosciuti, in cui il ridicolo fa a pugni col sublime: lì non vi è proprio nulla da sapere. Dopo ciò, dico col Vangelo, correggendo la formula popolare con una riserva divinamente giustificata: Nessuno è salito in cielo, salvo colui che è disceso dal cielo, il Figliuolo dell’Uomo che è in cielo.
D. L’idea di trasmigrazione ha un significato morale; si tratta di purificazioni successive, di una prova della libertà.
R. Tutto questo ha soddisfazione nel sistema cattolico, e con garanzie di verità, invece dell’asserzione arbitraria del pensatore. Gesù dice quello che sa; il teosofo dice quello che non sa. In fatto di prova, questa è più che sufficiente, e Dio non ha bisogno di tante esperienze per sapere ciò che valgo; Egli scruta i reni e i cuori e li giudica in conseguenza.
D. Dove va dunque l’anima nostra dopo la morte?
R. Questa domanda, presa alla lettera, non ha senso. L’anima non va in nessun posto, giacché non è un corpo e perciò non è soggetta alle localizzazioni nello spazio. La morte, per l’anima, non è punto un cambiamento di luogo, ma un cambiamento di stato; l’anima funziona diversamente; percepisce altre cose; è in relazione con altri esseri.
D. E arriva così alla fissità?
R. A una fissità che non è un’immobilità, ma che, rispetto all’indagine attuale, è un termine, e, rispetto alla morte vivente che è la vita del corpo, una immutabile vita. Noi abbandoniamo la regione in cui tutto passa, per entrare in quella in cui tutto è.
D. Tu concepisci questo come un’armonia dell’opera divina?
R. Sarà di fatto l’armonia di tutto, in ragione della quale Leone Bloy parlava del « grande organo della vita eterna ».
D. E il punto di arrivo di tutto?
R. «La terra è come le arie di marcia della Chiesa; essa è per salire al cielo » (C. PÉGUY).
D. È forse quello che tu chiami, credo a modo degli Alessandrini, la rientrata in Dio, ossia il Ritorno a Dio?
R. Tutto il movimento della natura materiale, della vita, del pensiero, dell’attività morale e sociale degli esseri di fatto non è che un vasto riflusso. La creazione è un immenso sollevamento di marea che sfugge dall’oceano divino e che vi ritorna.
D. Ma non ciascuna morte individuale esprime questo ritorno.
R. Nel sollevamento della marea, non tutte le onde arrivano nello stesso tempo, e sono precedute da spruzzaglie. E nel giudizio universale si spiegherà sotto i «nuovi cieli» sulla « nuova terra » la grande massa delle acque.
II. — Il giudizio particolare.
D. Credi tu a un giudizio dell’anima dopo la morte?
R. Noi crediamo che subito dopo la morte, l’anima prende la direzione di vita che conviene ai suoi meriti.
D. Dove pensi che abbia luogo questo giudizio?
R. Là dov’è l’anima, là dov’è Dio, e ho già detto che questo non è un luogo materiale. Noi siamo sempre in Dio; non c’è bisogno di viaggio per raggiungerlo. La vita eterna è essenzialmente uno stato, non un luogo, e se essa è tale nella sua pienezza, tale è pure nel suo cominciamento.
D. È strano!
R. Sì, quale mistero, che uno possa immergere in Dio tutta la sua vita senza accorgersene, e quale risveglio, trovarsi tutt’a un tratto davanti a Lui nella piena luce!