LA GRAZIA E LA GLORIA (23)
Del R. P. J-B TERRIEN S.J.
I.
Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901
Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.
TOMO PRIMO
LIBRO V
LA FILIAZIONE ADOTTIVA CONSIDERATA NELLA SUA RELAZIONE CON CIASCUNA DELLE PERSONE DIVINE.
LA RELAZIONE CON IL PADRE E IL FIGLIO.
CAPITOLO PRIMO
Sulla relazione dei figli adottivi con Dio Padre; e come l’adozione divina sia adatta solo alle creature intelligenti, ad esclusione del Figlio per natura.
1. Abbiamo cercato di capire, per quanto possibile, come e perché tutta la Trinità abiti nei figli adottivi; con quali legami sia unita ad essi, facendo di ciascuno dei giusti un santuario vivente, un cielo più splendido e santo dei cieli materiali, e come il paradiso della Trinità. Entriamo ancora una volta in queste profondità misteriose per contemplare con più calma le relazioni singolari in cui la grazia ci pone con ciascuna delle Persone divine. – È una verità indiscutibile che l’adozione che fa passare gli uomini dallo stato di servi e schiavi alla dignità di figli di Dio, è beneficio comune di tutta la Trinità. Ed ecco la prova che ne dà il Dottore Angelico (S. Thom., 3 p., q. 23, a. 2.). « C’è questa differenza tra il figlio adottivo di Dio e il Figlio per natura: che quest’ultimo non è fatto ma generato, mentre il figlio adottivo è fatto, secondo le parole di San Giovanni: Ha dato loro il potere di diventare figli di Dio (Gv. I, 12). Se talvolta la Scrittura parla di generazione per il figlio adottivo, si tratta di una generazione puramente spirituale, di grazia, e non di natura, ed è in questo senso che è detto nell’Epistola cattolica di San Giacomo: Egli ci ha generati volontariamente, per mezzo della sua parola di verità (Jac., 1, 18.). Ora, sebbene l’atto di generare sia proprio della Persona del Padre, quello di produrre un effetto nella creatura è opera comune della Trinità tutta: perché dove la natura è una, ci deve essere una sola virtù, una sola anche nell’operazione. Per questo il Signore ha detto in San Giovanni: « Tutto quello che fa il Padre, lo fa anche il Figlio » (Gv. V, 19). Tuttavia, Dio stesso e la sua Chiesa ci insegnano a dare il Nome di Padre soprattutto alla prima Persona. « Andate a dire ai miei fratelli: Ecco, io salgo al Padre mio e Padre vostro » ( Giov., XX: 17,3). Ora, il Padre di Cristo, nostro Padre, è la prima Persona della Santa Trinità, fonte e principio delle altre due. Altrove ci viene detto: « Noi sappiamo che tutte le cose concorrono al bene di coloro che amano Dio; di coloro che, secondo il suo decreto, sono chiamati alla santità (cioè all’adozione). Poiché coloro che ha conosciuto, li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinché Egli sia il primogenito tra molti fratelli » (Rom., VIII, 28-30.). Qui vediamo di nuovo la doppia paternità della natura e della grazia affermata nella stessa Persona. Infine, questo è il significato della formula usata dagli Apostoli di Gesù Cristo all’inizio della maggior parte delle loro lettere: « Grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e da Gesù Cristo nostro Signore. Benedetto sia il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (Ef, I, 2.5; Gal, 1, 3-4, ecc. I Pet, 1, 3; II Joan, 1, 3). Infatti, il Padre di cui ci augurano la grazia e che dobbiamo benedire, il Padre nostro, si distingue dal Figlio Nostro Signore e dal Padre suo. Ed è per questo che la Chiesa, nelle preghiere liturgiche che rivolge direttamente alla prima Persona attraverso suo Figlio, Gesù Cristo Nostro Signore, mette così costantemente il nome di Padre sulle nostre labbra. E non è solo il Figlio che si distingue dal Padre, nostro Padre. Lo Spirito Santo, sebbene abbia, come vedremo, la sua parte necessaria nell’adozione dei figli di Dio, ed è eccellentemente lo Spirito di adozione, il pegno e la garanzia dell’eredità etera, preparata per i figli, tuttavia non riceve da noi il nome di Padre, per quanto sia considerato come una Persona distinta e come lo Spirito Santo. Lui stesso non l’ha mai preso nelle nostre Sacre Scritture, e la Chiesa, nelle sue invocazioni e nei suoi inni, non è solita mescolarlo con i titoli particolari che gli dà (il veni, Pater pauperum non è appena un’eccezione). – Tuttavia, come ha detto sopra San Tommaso, l’opera di adozione non è proprietà di nessuno ad esclusione degli altri. La natura a cui partecipo per diventare figlio adottivo è comune a tutte e tre le Persone; comune è l’azione che infonde la grazia e la conserva in me; comune è l’azione che mi rende figlio adottivo. La natura alla quale partecipo per diventare figlio adottivo è comune alle tre Persone; comune è l’azione che infonde la grazia e la conserva in me; e in questa somiglianza soprannaturale che distingue il figlio dal servo e dallo schiavo, il Figlio e lo Spirito Santo si riconoscono non meno del Padre. Il « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza » è tanto vero nell’ordine della grazia quanto in quello della natura. Come si può risolvere questo enigma? Con la dottrina dell’appropriazione, la teologia risponde! Poiché questa espressione può offrire solo un significato molto vago a coloro che non hanno familiarità con il linguaggio tecnico della scienza sacra, alcune spiegazioni saranno tanto più utili, in quanto dovremo fare appello a questa nozione più di una volta. Appropriarsi è attribuire specialmente ad una delle Persone della Trinità ciò che nella sua natura è comune a tutte e tre. Pertanto, l’appropriazione non riguarda mai caratteri esclusivamente personali. Se dico del Figlio che è generato dalla Sapienza, dello Spirito Santo che è il Dono del Padre e del Figlio, non mi approprio di questi nomi: sono loro propri, così come il titolo di Figlio e Spirito Santo. Né c’è appropriazione quando, parlando di questa o quella Persona divina, si afferma semplicemente di Essa un attributo, una funzione che si trova in altri luoghi della Scrittura affermata anche degli altri; tranne forse in certi casi di cui sarebbe inutile fare qui menzione. E questo è quello che volevo dire quando ho detto « attribuire specialmente ». Se dico della creazione che sia opera della potenza del Padre, della sapienza del Figlio e della bontà dello Spirito Santo, questa è l’appropriazione. Infatti, sebbene queste tre perfezioni siano comuni, non mi sarebbe permesso invertire l’ordine dei termini, attribuendo al Padre la sapienza, al Figlio la bontà, allo Spirito Santo la potenza. – Le appropriazioni, lungi dal nuocere alla vera comprensione della Trinità, la facilitano e la illuminano. Le vestigia o immagini delle Persone divine che le creature ci offrono, ci aiutano a concepire meglio i caratteri ipostatici che le distinguono; e, per non uscire da me, il mio pensiero mi rimanda al Verbo eterno, e il mio amore all’Amore personale, cioè allo Spirito Santo. Così, dalle perfezioni e operazioni comuni che la mia ragione può cogliere, mi innalzo a nozioni meno fluttuanti e più chiare del mistero che la fede mi ha fatto intravedere attraverso i suoi veli. Questo è lo scopo delle appropriazioni; ma è anche quello che deve esserne la Legge. – Affinché l’appropriazione ci sia utile, è necessario che ci sia un particolare rapporto di somiglianza, una speciale analogia tra le Operazioni appropriate all’una o all’altra Persona e la Proprietà distintiva della stessa Persona (S. Thom, 1 p. q. 39, a, 7 e 8; Leone XIII, Encycl., Divinum illud munus (1897). Percorrete tutte le appropriazioni contenute nella Scrittura o nei santi Dottori, e ovunque vedrete che poggiano su questo necessario fondamento: « Da ciò proviene – dice San Bonaventura – che dove nulla ricorda in alcun modo l’ordine e l’origine delle Persone, non è possibile alcuna appropriazione » (San Bonaventura, I, D. 34, q. 3.): perché invece di essere un aiuto per raggiungere il fine perseguito, diventerebbe un ostacolo. – Una volta poste queste premesse, si offre la soluzione che stavamo cercando. E questa soluzione l’ho ricevuta da San Tommaso. « L’atto di adottare – ci dice, – è universalmente appropriato a tutta la Trinità, poiché una è la sua operazione come una è la sua essenza. Tuttavia, può essere appropriato soprattutto al Padre, poiché questo atto è manifestamente in più stretto rapporto di similitudine con il carattere personale del Padre » (S. Thom., III, D. 10, q- 2, a. 1, sol. 2.). Quale analogia si può trovare tra la paternità dell’adozione e i titoli del Verbo di Dio, Figlio unico, dello Spirito Santo, l’Amore personale, che sono proprietà di altre Persone? Certamente nessuno. Questo è sufficiente, dunque, per avere il diritto di riservare, secondo la legge di appropriazione, il Nome di Padre dei figli adottivi a Colui che nell’augusta Trinità porta eternamente il dolce e glorioso nome di Padre. – Secondo la testimonianza dei Padri, una delle ragioni principali per cui piacque a Dio di operare il mistero dell’Incarnazione nella Persona del Figlio piuttosto che in quella del Padre, anche se quest’ultimo poteva ugualmente unirsi ipostaticamente alla nostra natura, risiede nella convenienza dei Nomi. Se il Padre si fosse fatto uomo nel grembo benedetto della Vergine, sarebbe stato padre e figlio; padre come Dio, figlio come uomo. Quindi non so quale confusione sia possibile nei nomi e nei titoli. È per una ragione simile che chiamiamo singolarmente nostro Padre proprio Colui che nella Trinità porta esclusivamente questo Nome divino. Quando mi considero come suo figlio, mi ricordo più facilmente di questa Paternità superiore che lo distingue dalla seconda Persona e, attraverso di Lui, dalla terza; e concepisco anche con meno difficoltà come abbia potuto essere adottato, poiché Colui che mi adotta come suo figlio si presenta a me in tutto lo splendore di una fecondità eterna ed infinita.
2. – Senza voler ritornare su ciò che abbiamo già scritto sulla nostra adozione, dobbiamo però risolvere una doppia questione che è molto strettamente legata ad essa per essere totalmente scartata. Si chiede quindi, in primo luogo, se la relazione di figlio adottivo con Dio Padre sia così propria degli esseri dotati di intelligenza, e che nessun’altra creatura al di sotto di loro possa condividerne la gloria. Per quanto la cosa possa sembrare incredibile, ci sono state alcune menti sottili all’eccesso che un tempo ammettevano la possibilità di una tale comunicazione. Tali opinioni meritano solo il silenzio; e non le avrei richiamato qui da un oblio fin troppo legittimo, se non mi fosse sembrato che fornissero materia per un utile chiarimento. Ecco, in sostanza, la ragione fondamentale su cui hanno costruito la loro strana ipotesi. Il principio interiore dell’adozione, dicevano, non è altro che la grazia, cioè una qualità puramente accidentale, con la sostanza come soggetto e supporto. Chi potrebbe dunque impedire a Dio Onnipotente di infondere una realtà simile in sostanze meno nobili della nostra, e renderle così partecipi della nostra figliolanza? Senza dubbio esse proverrebbero da un livello inferiore; ma non sappiamo che tutto risponde alla chiamata di Dio, la materia come lo spirito, il nulla come ciò che è? Questo può essere un argomento specioso, ma è un argomento che decade di fronte ad una semplice osservazione. Sì, senza dubbio, la grazia è un accidente; ma questa qualità, la cui funzione propria è di assimilarci al Figlio per natura, non può avere altro soggetto che una sostanza ragionevole, e Dio stesso, con la sua onnipotenza, non la produrrà mai in una natura dove non c’è né ragione né intelligenza, perché la sua potenza non arriva fino all’impossibile. Crederei più facilmente che Dio possa formare un essere intelligente e libero da una pietra che rimane una pietra, che ammettere che Dio abbia il potere di elevare una creatura puramente sensibile alla dignità di un figlio adottato. È perché dovrebbe dare all’uno la ragione, e all’altro, con la ragione, la grazia? « Tu dici che la natura umana sia buona e meriti l’aiuto di una tale grazia; e io sarei volentieri d’accordo, se questo volesse semplicemente dire che è una natura ragionevole. Sappilo bene, la grazia di Dio non è data né alle pietre, né al legno, né alle bestie: ciò che rende l’anima capace di riceverla è che essa è l’immagine di Dio. » Così parlava S. Agostino, il grande difensore della grazia, a Giuliano di Eclano, discepolo e continuatore di Pelagio (S. Agostino, L. IV, c. Giuliano, c. 3). Cos’è la grazia? Una partecipazione della natura propria di Dio, e quindi un principio che, depositato da Dio nelle anime dei figli che adotta, li rende idonei a possedere l’eredità celeste. È dunque un principio di conoscenza e di amore, poiché Dio stesso si possiede con la conoscenza e con l’amore. Ma non dobbiamo immaginare questo principio soprannaturale come una facoltà completa. Esso trasforma l’anima ragionevole, eleva i suoi poteri ad altezze sconosciute, ma non sostituisce né l’una né gli altri. I nostri poteri naturali non contano nulla nella produzione di atti soprannaturali. Se la grazia santificante e le virtù, suo corteo regale, richiedono la sostanza e le sue potenze native a supporto, le richiedono anche per l’azione: perché il principio completo dell’operazione non è né la grazia né la natura da sola, ma la natura trasformata, vivificata dalla grazia, in una parola, la natura ragionevole divinizzata. Non ego, sed gratia Dei mecum (I Cor., XV, 10,). – Di conseguenza, la grazia che sarebbe in qualsiasi altra sostanza una sostanza spirituale, così come l’erede di Dio che non fosse un essere ragionevole, sono entrambi un non senso. Non importa che la grazia sia un accidente; perché ogni accidente non è adatto ad ogni sostanza, a ciascuno le forme e le qualità che gli sono proprie. Non si possono dare al puro spirito le qualità dei corpi, come l’estensione o la densità; come potrebbe un essere corporeo ricevere forme appartenenti per la loro essenza all’ordine degli spiriti? Concludiamo, dunque, che se tutte le creature ragionevoli non sono adottate dal Padre, poiché non tutte hanno accettato il beneficio della grazia, Egli non può adottare nessuno che non abbia prima dotato del carattere del suo Verbo, l’intellettualità.
3. – La relazione di figli di adozione, che è impossibile trovare al di sotto della creatura ragionevole, non si troverebbe forse al di sopra di essa, cioè nella Persona di Gesù Cristo Nostro Signore, il Verbo fatto carne? Questa è la seconda domanda che dobbiamo esaminare. Sembrerebbe, a prima vista, che essa debba essere risolta con la conferma. Infatti, questo Cristo, figlio di Maria, esiste, come noi, solo per libera volontà del Padre, e questa è la conseguenza naturale dell’unione ipostatica (S. Thom, 3 p., q. 2, a: 12). Egli ha nella sua anima umana quella grazia che ci rende figli: più perfetta, più abbondante, poiché la possiede in pienezza, allo stato di fonte, ma fondamentalmente creata come la nostra. Se dunque la grazia santificante è la forma della nostra adozione, perché il nostro Signore, considerato come uomo, non dovrebbe essere per questo un figlio adottivo del Padre, il primo nella famiglia dell’adozione, come è il primo nel possesso della grazia? – Io lo so, e ogni Cattolico mi risponderà: Gesù Cristo è un uomo, ma quest’uomo è Dio; di conseguenza, poiché l’uomo e Dio si identificano in Lui nell’unità di una stessa Persona, Dio non può essere figlio secondo natura se l’uomo non è come Lui. Così la beata Vergine, avendo generato l’uomo nel suo casto grembo, è diventata veramente e realmente la Madre di Dio; così il Padre, comunicando da tutta l’eternità la sua natura a Colui che porta nel suo seno, è anche il Padre dell’uomo, quando questi ha assunto la nostra natura. La ragione è sempre la stessa: l’unità della Persona, in virtù della quale Dio è uomo e l’uomo è Dio. Con questi principi i Padri, all’inizio del IX secolo, hanno confuso gli eretici che vedevano in Cristo Gesù solo un figlio adottivo come noi, più grande, è vero, perché è il primogenito, ma nella sua filiazione, della nostra stessa natura. Pur professando questo dogma essenziale della nostra fede, chi può vietarci di dire che il Figlio di Dio fatto uomo è al Padre in un doppio rapporto: Figlio secondo natura, poiché ha ricevuto per generazione la divinità del Padre; Figlio per adozione, poiché ha ricevuto per infusione, nella sua natura creata, la grazia, la forma dell’adottato? Certamente, non oserei dare l’infame marchio di eretico a chi pensasse e insegnasse questo. Oltre al fatto che la Santa Chiesa non ha mai condannato direttamente l’opinione che ho appena riportato, chi può vedere per quale profonda differenza differisce dall’errore così giustamente condannato negli Adozionisti, poiché ammette, accanto alla filiazione adottiva e nell’unità della stessa Persona, la filiazione naturale che essi rifiutarono a Cristo Gesù. – Ma, fatta questa riserva, sostengo, appoggiata sull’affermazione unanime dei più grandi maestri, che il titolo di adottivo è esclusivamente proprio delle creature pure, e che non può, in nessuna misura e per qualsiasi motivo, diventare l’attributo del Verbo considerato nella sua carne. Gesù Cristo è il Figlio per natura e può essere solo quello. I Padri, quindi, nella loro lotta contro gli eretici, hanno ripetutamente protestato contro qualsiasi idea di adozione quando si tratti del Figlio eterno di Dio. Ora, tra le ragioni che hanno dato, ce n’è una in particolare che, ripresa dai teologi della Scuola, è di per sé una dimostrazione irrefutabile. È che l’adozione, per sua natura ed essenza, è incompatibile con la filiazione naturale nell’adottato. Chi, poi, ha mai parlato di adottare, non una persona estranea per nascita, ma il proprio figlio, il figlio del proprio grembo, o di portare nella casa familiare per libera scelta uno che, per natura, è già lì? (c’era, è vero, nella legislazione romana un caso molto eccezionale in cui un uomo, privato del suo potere di padre, poteva adottare il proprio figlio: ma, per quanto riguarda Dio, il caso sarebbe una chimera assurda). Questa prova assolutamente invincibile si è tentato di attenuarla, ed ecco con quali sottigliezze. Perché, si chiede, il titolo di “adottivo” dovrebbe essere inconciliabile in Nostro Signore Gesù Cristo con la filiazione della natura, dato che vediamo tanti altri attributi, non meno incompatibili in apparenza, allearsi in Lui, nonostante l’unità della sua Persona? Impassibile, soffre; immortale, muore; immutabile per essenza, è come noi soggetto al cambiamento. La diversità delle nature è sufficiente a spiegare questi opposti. Così diremmo che è Figlio per natura e Figlio per adozione, ma da punti di vista diversi: Figlio per natura in virtù della sua generazione eterna, Figlio per adozione in virtù della grazia che lo santifica nella sua umanità. – Questo ragionamento non regge all’esame. Sì, Gesù Cristo può essere allo stesso tempo impassibile e passibile, immortale e mortale, immutabile e mutevole, perché queste attribuzioni sono appropriate prima di tutto alle nature e, solo attraverso esse, alla Persona che le contiene nella sua unità indivisibile. Questo non è più il caso della filiazione, perché è immediatamente e direttamente un attributo della sola Persona. Quando mi dite che Gesù Cristo è sia immortale che mortale, posso ascoltarvi senza difficoltà, perché capisco che avendo due nature, una che è la vita stessa, l’altra soggetta alla mortalità, Egli può allo stesso tempo morire nella prima e vivere nella seconda (“Mortificatus quidem carne, vivens autem Spiritu“, i. e. divinitate, – I Petr., III, 18). Ma, ancora una volta, la filiazione si afferma della Persona e non della natura. Si è mai detto di una natura umana o divina che è nata, che è un figlio o una figlia? Perciò, affermare della Persona di Gesù Cristo che Egli è il Figlio naturale di Dio è dire equivalentemente che non è un figlio estraneo per natura, e ricevuto per grazia; e viceversa, dire che è un Figlio adottivo è negare allo stesso tempo che Egli sia il Figlio di Dio per natura, e di conseguenza negare che Egli sia Dio. I pochi teologi che, come Durand o Scoto, non hanno visto questa conseguenza, possono essere scusati nel loro errore; ma dopo i chiarimenti che la questione ha ricevuto, sarebbe per lo meno avventato seguirli. – Inoltre, non dobbiamo credere che la grazia santificante e le virtù che la accompagnano, poiché non sono in Gesù Cristo il principio e il fondamento dell’adozione, siano qualità senza frutto e senza scopo. Dio non voglia! L’unione personale della natura umana con il Verbo ne conferisce la natura di un Dio; ma formalmente da sola non la divinizza nel suo essere naturale; non le dà quell’elevazione delle facoltà che le rende capaci di produrre connaturalmente atti al di sopra della natura, atti, in una parola, che sono il merito nella via, la gloria nella patria. Questa deiformità, l’anima di Gesù Cristo l’ha dalla grazia, e questa perfezione d’azione, dalle virtù infuse, compagne e seguaci inseparabili della stessa grazia (S. Thom., 3 p., q. 7, a. 1, cum parallel., c, g. de Verit., q. 29, a. 1, ad 1).
4. – Volete sapere ora quale incomparabile onore è per voi avere Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, come vostro padre, e con quale rendimento di grazie un tale beneficio debba essere ripagato? Ascoltate San Pietro Crisologo che commenta le prime parole dell’orazione domenicale. « La parola che sto per dire con incredibile timore, che voi stessi non ascolterete e non ripeterete con terrore, fa sì che gli Angeli siano terrorizzati e le Virtù in un santo spavento. Il cielo non può capirlo, né il sole penetrarlo, né la terra può sostenerlo; in una parola, è al di sopra di tutte le creature. Paolo, dopo aver contemplato invisibilmente questo mistero, ce lo rivela senza rivelarcelo, quando esclama: Ciò che occhio non ha visto, ciò che orecchio non ha udito, ciò che non è entrato nel cuore dell’uomo, ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano, Dio ce lo ha rivelato per mezzo dello Spirito Santo… (1 Cor. II, 9-10 ), « Padre nostro che siete nei cieli. » Questo è ciò che avevo paura di dire; questo è ciò che la condizione servile delle nature celesti, come quella delle nature terrene, ci proibirebbe persino di sospettare; che si stabilisca improvvisamente tra il cielo e la terra, tra la carne e Dio, un commercio così stretto che Dio diventi uomo, e l’uomo Dio; il Signore uno schiavo, e lo schiavo un figlio; in una parola, che la natura umana e la divinità siano unite in modo ineffabile dal legame di una parentela eterna. Una relazione così meravigliosa che la creatura non sa cosa dovrebbe ammirare di più: che Dio sia sceso fino alla nostra bassezza o che ci abbia innalzato all’eccellenza della sua divinità. « Padre nostro che siete nei cieli. Non siete stupiti? Dal seno di Dio Padre, Cristo chiama una creatura con il nome di madre; e l’uomo, dal seno della Chiesa sua madre, chiama Dio suo Padre. « Padre nostro che siete nei cieli. Vedi, o uomo, a quali altezze ti ha portato subitamente la grazia, a quali altezze ti ha portato la natura celeste; tu abiti nella carne e sulla terra, e dici, come se non fossi né dell’una né dell’altra: « Padre nostro che siete nei cieli. Spetta dunque a colui che si crede e si confessa figlio di un tale Padre, corrispondere a questa nascita con la sua vita, a questa paternità con i suoi costumi; che attesti con i suoi pensieri e le sue azioni ciò che ha ricevuto dalla natura divina » (S. Petr. Chrysol, serm. 72, in orat. dom. P. L., vol. 52, p. 404. – « Era – dice Bourdaloue a questo proposito – un errore dei pagani, un errore tanto grossolano quanto presuntuoso, immaginare di essere figli degli dei, perché mettevano i loro antenati tra gli dei. Ma questo errore, anche se grossolano, come osserva Agostino, non mancò di ispirar loro sentimenti elevati: perché fu da questo che, confidando nella grandezza e nella presunta divinità della loro origine, intrapresero cose difficili ed eroiche con maggiore audacia, le portarono a termine con maggiore risoluzione, e le portarono a termine con maggiore felicità: Et sic animus, divinæ stirpis fiduciam gerens, res magnas præsumebat audacius, agebat vehementius, el implebat ipsa felicitate securius. Non sembra che tra le tenebre del paganesimo ci fosse già qualche raggio o inizio di Cristianesimo; e non sembra che la Provvidenza, che sa trarre profitto dal male stesso, si stesse servendo degli errori degli uomini per preparare il mondo alla vera religione? » (2° Sermone sull’Annunciazione della Vergine, 3 punto).